Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
L’odierna UE e i trattati su cui essa si fonda rappresentano il punto d’arrivo di un graduale processo
di integrazione, che prende le mosse dal secondo dopoguerra. Quel periodo, influenzato dal
pensiero di uomini come Mazzini, Rousseau, Kant... era caratterizzato da fermenti unitari,
alimentati essenzialmente dalla percezione che due bisogni, sarebbero stati meglio soddisfatti da
un’Europa federata piuttosto che da singoli Stati europei.
Tali bisogni erano quelli di: ricostruire le economie prostrate dalla guerra e di proteggersi contro
l’emergente imperialismo sovietico.
Sotto il primo profilo, va ricordato che gli Stati Uniti avevano approvato nel 1947 il Piano
Marshall, e lo avevano condizionato ad una gestione congiunta da parte degli altri Stati Europei.
Tale gestione fu concretizzata attraverso l’istituzione della Organizzazione europea per la
cooperazione economica (OECE), a cui presero parte 16 Stati europei, ed il cui compito
principale era di amministrare gli aiuti del Piano Marshall, favorendone un’efficace distribuzione
anche attraverso la progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali tra gli Stati membri. Tale
organizzazione diventò poi l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
(OCSE).
Sotto il secondo profilo, l’espansionismo sovietico mostrava in quegli anni tutta la sua pericolosità.
La “cortina di ferro” divideva l’Europa orientale (sotto il controllo sovietico) dall’Europa
occidentale (sotto i controllo degli USA). Come risposta all’imperialismo comunista, fu istituita la
NATO (Organizzazione del Patto dell’Atlantico del Nord), mentre dal 1947 un patto comune di
difesa (essenzialmente però in funziona antitedesca) legava Francia e Regno Unito. Tale patto, fu
poi esteso nel 1948 a Belgio, Olanda e Lussemburgo. Esso doveva poi divenire l’Unione
dell’Europa occidentale con l’adesione nel 1954 di Germania e Italia e successivamente altri Stati.
Aldilà del campo economico e militare, nel 1949 veniva istituito il Consiglio d’Europa,
un’organizzazione internazionale aperta a tutti gli Stati europei che si sentivano accumunati dagli
ideali di democrazia e libertà.
In risposta alle iniziative occidentali, il fronte orientale istituì il Consiglio di mutua assistenza
economica ed il Patto di Varsavia (come risposta alla NATO), ma furono entrambe disciolte a
seguito della caduta del muro di Berlino e del crollo dell’impero sovietico.
Il limite di tutte queste forme di organizzazione internazionale era quello di essere improntate al
metodo intergovernativo. Ciò significa che i componenti degli Stati membri decidevano sulla base
dell’unanimità e non potevano emettere atti vincolanti per gli Stati, né tantomeno per gli individui.
Per fortuna, l’Europa poteva contare i quel periodo sui “Padri fondatori”: personalità di spicco e
lungimiranti statisti come Schuman, Adenauer, De Gasperi, Spaak, ai quali apparve ben presto
chiare che occorreva porre mano alla creazione di una federazione europea, come garanzia pe
scongiurare altre guerre fra Stati europei e per assicurare uno sviluppo economico e sociale. A
questo scopo era necessario creare delle strutture in grado di operare con un metodo diverso dalla
cooperazione intergovernativa classica, metodo cui si dette successivamente il nome di metodo
comunitario. Esso si caratterizza per l’adozione di decisioni prevalentemente a maggioranza e per
la possibilità di emettere atti vincolanti non solo per gli Stati ma anche direttamente per gli
individui (a differenza del metodo intergovernativo classico). Il primo passo verso il
raggiungimento di tale obiettivo fu il rimuovere una delle cause del secolare conflitto fra Francia e
Sull’onda del successo della CECA, venne negoziato e firmato anche il Trattato istitutivo della
Comunità europea di difesa (CED), che si proponeva in sostanza la creazione di un esercito
europeo. Tuttavia, il processo di ratifica del trattato subì un brusco arresto, in quanto l’Assemblea
nazionale francese decise di non prendere parte alla discussione del Trattato.
A seguito del fallimento della CED riprese vigore l’idea del funzionalismo economico, secondo cui
era necessario procedere ad un’integrazione graduale delle economie per poter porre le basi di
un’unione politica. Il rapporto Spaak, elaborava a questo proposito uno studio volto all’introduzione
di un mercato comune generale nel cui ambito dovessero poter circolare liberamente merci,
persone, servizi e capitali. I governi dei Sei approvarono il rapporto Spaak, così Belgio, Francia,
Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda firmarono in forma solenne a Roma sia il Trattato
istitutivo della Comunità economica europea (CEE), che il trattato istitutivo della Comunità
europea dell’energia atomica (CEEA). Si fa comunemente riferimento a questi trattati come
Trattati di Roma. Anche in quest’occasione il Regno Unito rifiutò di partecipare ai negoziati. La
vocazione atlantica del Regno Unito infatti, lo facevano propendere per soluzioni meno
impegnative, inducendolo a preferire una zona di libero scambio ad un’unione doganale. In
coerenza con queste premesse, il Regno Unito pochi anni dopo promuoveva la creazione di una
zona di libero scambio, con la relativa istituzione della European Free Trade Association (EFTA).
L’EFTA prevede la graduale soppressione tra gli stati membri delle barriere doganali, ma non era
espressamente concepita in funzione anti-CEE; ma incarnava tuttavia la diversa concezione
propugnata dal Regno Unito del livello di integrazione economica. Attualmente gli Stati membri
dell’EFTA sono solo Norvegia, Islanda, Lichtenstein e Svizzera.
Quanto ai Trattati di Roma, la prima Comunità ha visto il suo nome modificarsi in Comunità
Europea (CE) e successivamente in Unione Europea (UE). Tali mutamenti del nome sono anche
la conseguenza dell’allargamento delle competenze dell’organizzazione a campi diversi da quello
strettamente economico.
I trattati di Roma hanno subito molteplici modifiche. È pertanto opportuno descrivere quali sono
attualmente le norme relative alle procedure di revisione dei Trattati. Al riguardo, l’art.48 TUE
(Trattato sull’Unione Europea) prevede una procedura di revisione ordinaria e due procedure di
revisione semplificate.
La procedura di revisione ordinaria inizia con un progetto di modifica dei Trattati che può essere
Le revisioni di tipo generale hanno avuto luogo in cinque occasioni. Le prime quattro revisioni
sono quelle intervenute con l’Atto unico europeo: con il Trattato di Maastricht (1993), il Trattato di
Amsterdam (1999), il Trattato di Nizza (2003) e il Trattato che adotta una costituzione per
5. …Il dibattito sul deficit democratico, sull’unione economica e monetaria e sulle modifiche
istituzionali richieste dall’allargamento.
Il Consiglio europeo, nel dibattito sul futuro dell’Unione, ha provveduto ad istituire una
Convenzione sul futuro dell’Europa, dandole il compito di definire le principali linee per un
progetto di revisione dei Trattati. La successiva CIG ha raggiunto un accordo su un testo di
Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, a cui si fa generalmente riferimento come
“Costituzione europea”. Tale Costituzione fu ratificata da solo 18 Stati membri su 27 e quindi non
è mai entrata in vigore. Decisivi sono stati i risultati negativi del referendum in Francia e di quello
tenutosi in Olanda. La Costituzione europea unificava in una sorta di “testo unico” le norme relative
ai 3 pilastri dell’UE fino ad allora esistenti. Per capire le ragioni di tale fallimento occorre
distinguere tra elementi formali ed elementi sostanziali del nuovo Trattato. Sul piano formale va
innanzitutto segnalato il termine “Costituzione”: il termine non implicava in alcun modo
un’evoluzione dell’UE verso uno Stato federale, in quanto la natura dell’Ue come forma di
collaborazione internazionale tra Stati sarebbe rimasta invariata. Ma la carica emotiva insita nel
riferimento ad una Costituzione ha finito con il generare delle aspettative e timori ingiustificati.
Inoltre l’esito negativo del referendum francese e di quello olandese non va interpretato come
consapevole rifiuto del trattato – la procedura proprio del referendum infatti è idonea ad esprimere
un consenso o dissenso su un quesito semplice; il testo in questione era invece articolato e
complesso-. Insomma, in nodi del deficit democratico sono venuto a galla in occasione del
referendum. Sul piano sostanziale invece il Trattato era di natura del tutto simile ai precedenti
trattati di revisione, senza alcuna modifica rivoluzionaria. Preso atto dei risultati del referendum, il
Consiglio europeo ha decretato l’abbandono del progetto costituzionale. Al suo posto venne
approvato il “Trattato che modifica il Trattato sull’Unione europea che istituisce la comunità
europea”, firmato a Lisbona nel 2007. In questo caso, il principale ostacolo è stato il referendum
negativo ottenuto in Irlanda. Tuttavia il Consiglio ha concordato una serie di misure volte a
rassicurare il popolo irlandese, offrendo le necessarie garanzie giuridiche al popolo. A seguito di
queste misure, si è ottenuto un esito positivo al secondo referendum irlandese. Altre difficoltà si
sono verificate in Germania e Repubblica Ceca. Il trattato è però entrato in vigore nel 2009. Il
Trattato di Lisbona elimina ogni riferimento ad una Costituzione, né riformula in un testo unico i
Trattati precedenti. Per il trattato CE la modifica riguarda anche il nome, che viene cambiato in
TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Scompare il termine “Comunità europea”
e “comunitario”. L’impressione che ne risulta è quella di una diffidenza generalizzata nei confronti
del processo di integrazione europea.
L’art. 49, co.1, TUE dispone che ogni Stato “europeo” può domandare di diventare membro
dell’Unione a condizione che rispetti i valori di cuiall’art.2 del TUE e si impegni a promuoverli.
Tali valori sono quelli del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia,
dell’uguaglianza, del risetto dei diritti umani…
La domanda di ammissione è trasmessa dallo Stato richiedente al Consiglio, che, al riguardo si
pronuncia all’unanimità. Quindi ciascuno degli stati membri deve essere d’accordo a che un nuovo
Stato venga ammesso. Il TUE specifica che bisogna tener conto dei criteri di ammissibilità, con
riferimento ai criteri politici, economici e giuridici. Il criterio politico riguarda il raggiungimento,
da parte dello Stato candidato di una stabilità istituzionale che garantisca la democrazia, i diritti
umani, il rispetto e la protezione delle minoranze…. Il criterio economico riguarda l’esistenza di
un’economia di mercato funzionante, nonché la capacità di rispondere alle forze di mercato
all’interno dell’UE. Il criterio giuridico riguarda la capacità di assumersi gli obblighi derivanti
dall’appartenenza all’UE. La verifica del rispetto di tali criteri viene effettuata, per prassi, durante la
fase di pre-adesione (fase interna). L’ingresso del nuovo Stato però può aver luogo solo dopo che
sia stato concluso un accordo tra il nuovo Stato e gli Stati già membri (fase esterna).
Il Parlamento europeo prevede che il progetto di accordo debba essere sottoposto alla sua
approvazione prima della firma. La procedura è considerata, dal punto di vista tecnico, una
procedura d’ammissione, in quanto prevede che gli Stati già membri si pronuncino in merito ad una
richiesta da parte di uno Stato terzo.
Fin dall’inizio il successo delle Comunità europee ha attratto nuove candidature. Lo stesso Regno
Unito presentò richiesta di ammissione nel 1961. Tale richiesta incontrò l’opposizione della Francia
di De Gaulle, il quale, da una parte, vedeva nel Regno Unito un potenziale ostacolo alle mire
francesi ad una leadership europea, dall’altra non si fidava dell’europeismo di quello Stato che
vedeva come il cavallo di Troia attraverso il quale gli Stati Uniti avrebbero esteso la loro egemonia
all’Europa. Per dieci anni il veto gollista tenne il Regno Unito fuori dalle Comunità europee. Nel
1067 il Regno Unito ripresentò la propria candidatura, seguita da quella danese, irlandese e
norvegese. Un referendum norvegese bloccò però processo di ratifica, per cui furono ammesse nel
1973 solo Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Il decimo Stato ad entrare a far parte delle
Comunità europee è stata la Grecia. Successivamente, con l’ingresso di Spagna e Portogallo, le
Comunità raggiunsero il numero di dodici membri. Non è stato, invece, necessario procedere
all’ammissione per la Repubblica democratica tedesca, in quanto nel 1990 si è riunificata con la
Repubblica federale tedesca. I capi di Stati e di governo delle comunità hanno infatti riconosciuto
l’ampliamento del territorio comunitario. Nel 1995 entrarono a fare parte dell’UE anche Austria,
Finlandia e Svezia, mentre i cittadini norvegese, ancora una volta si sono pronunciati per il “no”. Il
maggiore allargamento ha riguardato dieci Stati: Cipro, Estonia, Lituania, Lettonia, Malta,
Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria. L’UE è poi passata 27 Stati con
l’ammissione di Bulgaria e Romania e infine a 28 con la Croazia. Nello specifico, si prevede un
periodo transitorio concesso ai nuovi Stati per adattarsi alla normativa preesistente. Attualmente, è
riconosciuto lo status di Paesi candidati ad Albania, ex Repubblica jugoslava di Macedonia,
Montenegro, Serbia e Turchia. In parallelo con le difficoltà sperimentate con il processo di
integrazione, ci si è cominciati a porre il problema della effettiva capacità di assorbimento da parte
dell’UE.
La Brexit rappresenta solo uno dei fronti di crisi che hanno contrassegnato l’ultimo decennio di vita
dell’UE. Gli anni successivi al Trattato di Lisbona sono stati caratterizzati dalla crisi finanziaria ed
economica originatasi negli Stati Uniti già nel 2007-2008, mettendo in luce il carattere incompleto
dell’unione economica e monetaria. Più di recente si è verificata anche a crisi migratoria,
determinata da crescenti di migratori richiedenti asilo e di migranti economici provenienti dal
Medio Oriente e dall’Africa.
Per far fronte alla crisi finanziaria, il Consiglio europeo ha adottato all’unanimità la decisione di
aggiungere all’art.156 TFUE un nuovo paragrafo, che afferma che “gli Stati membri la cui moneta
è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per
salvaguardare la stabilità della zona euro...”. Il meccanismo in questione è stato creato dagli Stati
membri della zona euro mediante il Trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità
(MES). Il MES è un’istituzione finanziaria internazionale con sede a Lussemburgo, il cui obiettivo
p quello di “mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità”. Inoltre, 25 degli
allora 27 Stati membri hanno firmato il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla
governance dell’unione economica e monetaria (noto anche come Fiscal Compact). Questo
trattato obbliga le parti contraenti a introdurre nel proprio ordinamento il principio del pareggio di
bilancio.
Per altro verso, le decisioni di ricollocazione di un certo numero di richiedenti asilo, a beneficio di
Come abbiamo già accennato, l’UE si fonda oggi sul TUE e sul TFUE, secondo l’espresso disposto
dall’art.1, co.3, TUE. Questa norma sancisce anche che l’ UE “sostituisce e succede alla Comunità
europea”. Il significato della norme è chiaro: si supera la coesistenza tra Unione europea e
Comunità europea, quindi è ormai nell’ambito della sola UE che si racchiude e definisce tutta la
cooperazione tra gli Stati membri nei vari campi prima oggetto dei tre pilastri.
Nella fase attuale dell’integrazione europea la natura giuridica dell’UE è quella di una
organizzazione internazionale, seppure dotata di caratteristiche del tutto peculiari. Ad essa gli
Stati membri hanno attribuito competenze “per conseguire i loro obbiettivi comuni”, cioè per gli
obiettivi degli Stati stessi che questi ultimi hanno ritenuto preferibile perseguire attraverso
un’organizzazione internazionale da essi creata, piuttosto che individualmente e separatamente.
L’UE, quindi, non ha altri obiettivi che non siano quelli comuni agli Stati membri. L’UE è fondata
su atti conclusi in forma di accordi internazionali e ha, pertanto, natura internazionalistica. Al
riguardo, l’art.4 del TUE si preoccupa di ribadire che l’UE rispetta l’ identità nazionale degli Stati
membri insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, escludendo quindi
qualsiasi evoluzione in senso federale. Nonostante questi dati testuali, vi è stato chi è applicato a
ricercare un tertium genus tra ente internazionalistico ed ente costituzionale in cui collocare l’UE.
Per definire tale tertium genus si è fatto a volte riferimento al termine “ente sovranazionale”. Le
incertezze riguardo l’esperienza comunitaria erano dovute alle marcate novità che rappresentavano
le Comunità europee, la quale concezione puramente internazionale appariva troppo riduttiva. Con
la successiva giurisprudenza, la Corte di giustizia ha anche espresso una concezione
“costituzionale” dei Trattati, in particolare qualificando il Trattato CEE come “la carta
costituzionale di una comunità di diritto”.
è certamente vero che l’ambito delle competenze che gli Stati membri hanno delegato all’UE è
quantitativamente molto più esteso e articolato rispetto a qualsiasi altra organizzazione
11. I valori fondanti dell’UE e le sanzioni per la loro violazione; gli obiettivi dell’UE.
L’ UE è l’organizzazione internazionale che realizza il più elevato livello di integrazione tra i suoi
membri rispetto a qualsiasi altra organizzazione. Tale livello di integrazione è reso possibile dalla
comunanza tra gli Stati membri di alcuni valori fondanti, elencati nell’art.2 TUE. Secondo tale
norma, l’UE “si fonda sui valori del rispetto della dignità mana, della libertà, della democrazia,
dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle
persone appartenenti a minoranze”. Questi divengono valori dell’UE in quanto comuni agli Stati
membri. Questi valori costituiscono il retaggio culturale della civiltà europea e costituiscono per
questo la stessa identità europea. È logico dunque, che per essere ammesso all’UE ogni Stato
richiedente debba rispettare tali valori e impegnarsi a promuoverli, per tutta la durata del vincolo
associativo che lega ciascun membro.
Al riguardo, sono previste (all’art.7 TUE) delle sanzioni per lo Stato membro che si renda
colpevole di una grave e persistente violazione dei valori. Nello specifico, l’art.7 TUE contempla
una procedura d’allarme e una procedura ordinaria. La procedura d’allarme avviene nel caso in
cui il Consiglio, deliberando con la inusuale maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri, “può
constatare che esista un evidente rischio di violazione grave da parte di uno stato membro” dei
valori di cui all’art.2 TUE. La delibera del Consiglio può avere luogo solo su proposta di un terzo
degli Stati membri ( o del Parlamento europeo o della Commissione). Essa deve anche essere
munita della previa approvazione del Parlamento europeo. Prima di procedere a tale
constatazione il Consiglio deve ascoltare lo Stato in questione, ed ha l’obbligo di verificare
regolarmente se i motivi che hanno condotto alla constatazione permangono validi. La procedura
dall’allarme può essere propedeutica a quella ordinaria. In questo caso il Consiglio europeo (a
differenza della procedura d’allarme) può constatare, con delibera da adottarsi all’unanimità,
l’esistenza di una “violazione grave e persistente” da parte di uno Stato membro. Tutta una serie di
cautele procedurali accompagnano tale misura, la quale deve essere preceduta:
a) dalla proposta da parte di un terzo degli Stati membri o dalla Commissione –come per la
procedura d’allarme, ad esclusione del Parlamento- ,
b) dall’invito allo Stato in questione a presentare le sue osservazioni –idem-,
c)dall’ approvazione del Parlamento europeo –ibidem, con la stessa maggioranza prevista dalla
procedura d’allarme-.
In entrambi i casi, ovviamente, lo Stato in questione non partecipa al voto e non può quindi
impedire il raggiungimento dell’unanimità.
Una volta effettata la constatazione, la parola ritorna al Consiglio, il quale può decidere di
sospendere “alcuni dei diritti”, tra cui, in particolare, il diritto di voto del suo rappresentante in
Consiglio. A differenza di altre organizzazioni internazionali, la sospensione dei diritti non è
propedeutica all’espulsione dello Stato membro, in quanto il TUE non prevede l’ipotesi di
L’UE persegue i suoi obbiettivi “ in ragione delle competenze che le sono attribuite nei trattati", in
altri termini, gli Stati membri non hanno attribuito all’UE delle competenze di natura generale, ma
solo quelle specificamente indicate nei Trattati. Per maggiore chiarezza, l’art.4 TUE specifica che
qualsiasi competenza non attribuita all’UE nei Trattati “appartiene agli Stati membri”.
In coerenza con questo approccio, che vede le competenze dell’UE limitate dalle previsioni dei
Trattati, l’art.5 TUE stabilisce nel principio di attribuzione il fondamento di tale delimitazione.
Le competenze dell’UE vengono così classificate dal TFUE in competenze esclusive, concorrenti
e di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri. Infine, lo stesso
articolo individua il fondamento dell’esercizio nei principi di sussidiarietà e proporzionalità.
In base al principio di attribuzione quindi, l’UE agisce nei limiti delle competenze che le spettano
a titolo “derivato”, ovvero per volontà degli Stati membri (a conferma della natura
internazionalistiche dell’UE) e non a titolo “originario”, come avviene per gli Stati sovrani. L’art 13
15. Le norme di diritto sostanziale dell’UE che realizzano i suoi obiettivi: spazio di libertà,
sicurezza e giustizia; mercato interno e sviluppo sostenibile dell’Europa; unione economica e
monetari; relazioni esterne (rinvio).
L’azione dell’UE, nell’esercizio delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri, non può
prescindere da una reciproca collaborazione con questi ultimi. Inoltre, essa deve coinvolgere nella
maggior misura possibile i cittadini degli Stati membri, in quanto diretti destinatari di molte norme
dell’ordinamento dell’UE. Il principio di leale cooperazione tra l’UE e gli Stati membri è
formulato come segue: “ In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si
rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati. […]
Gli stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi
misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione”. Dopo aver
ripetuto che le competenze non attribuite all’UE dai Trattati appartengono agli Stati membri, l’art.4
TUE sancisce, a carico dell’UE, l’obbligo di rispettare l’uguaglianza degli Stati membri dinanzi
ai loro Trattati, la loro identità nazionale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle
autonomie locali e regionali, nonché le funzioni essenziali dello Stato.
Quanto agli obblighi degli Stati membri, a prima vista parrebbe che la norma, costituisca una
semplice specificazione, nell’ambito dell’UE, dell’obbligo generale incombente agli Stati di
adempiere secondo buona fede ai trattati internazionali. Tuttavia, nella giurisprudenza della Corte di
giustizia, la norma ha finito con l’assumere la funzione di garantire l’effettività, la coerenza e la
completezza dell’intero ordinamento dell’UE. Essa è divenuta, di fatto, il fondamento di un obbligo
degli Stati membri, definito come obbligo di buona fede comunitaria. In ottemperanza con tale
obbligo, gli Stati membri devono porre tutte le loro strutture e meccanismi a servizio dell’interessa
generale perseguito dall’UE. La applicazioni concrete del principio di leale cooperazione sono state
molteplici e tutte molto significative. La corte di giustizia ha anche dedotto dal principio di leale
cooperazione l’obbligo per gli Stati membri di integrare cin proprio disposizioni sanzionatorie le
eventuali lacune al riguardo delle norme dell’UE. Tali sanzioni possono essere anche natura penale,
quando ciò sia giustificato dai valori e dagli interessi da proteggere. La corte di giustizia ha, inoltre,
17. L’UE e i cittadini: a) la nozione di cittadinanza dell’UE e i diritti che da essa discendono.
Una delle principali novità introdotte dal Trattato di Maastricht è stata la cittadinanza
dell’Unione. Ai sensi dell’art.9 TUE e dell’art. 20 TFUE, è cittadino dell’UE chiunque abbia la
cittadinanza di uno Stato membro. E’ da intendersi quindi che la cittadinanza dell’UE si acquista
o si perde a seguito dell’acquisto o della perdita della cittadinanza nazionale ai sensi di tale
legislazione. Con la sentenza Micheletti (Luglio 1992, la Corte di giustizia) affermava che la
determinazione dei modi di acquisto e di perdita della cittadinanza nazionale “deve essere esercitata
nel rispetto del diritto comunitario”.
L’art.9 TUE e l’art.20 TFUE precisano anche che la cittadinanza dell’UE “si aggiunge alla
cittadinanza nazionale e non la sostituisce”. Si tratta, quindi, di un concetto di cittadinanza sui
generis: esso non va confuso con la cittadinanza nazionale, la quale implica la soggezione ad uno
Stato. L’UE adotta, in verità, una sua nozione convenzionale di cittadinanza, che non mutua alcuna
delle caratteristiche tipiche di tale status quali previste negli ordinamenti interni, ma che trova la
sua definizione solo nei Trattati. Di fatto, le norme si riferiscono solo ai diritti e non contemplano
alcun dovere connesso alla cittadinanza dell’UE, a conferma della natura sui generis dell’istituto. In
buona sostanza, il cittadino dell’UE gode del diritto: a) di circolare e di soggiornare liberamente
nel territorio degli Stati membri, b) elettorato attivo e passivo nello Stato membro di residenza
per le elezioni al Parlamento europeo e per quelle comunali, c) di protezione diplomatica e
consolare da parte di uno qualunque degli Stati membri, nei confronti di un Paese terzo nel quale
egli si trovi, d) di petizione al Parlamento europeo, di ricorso al Mediatore europeo. L’elenco di
tali diritti non è inteso come tassativo e, del resto, nuovi diritti possono essere aggiunti con delibera
unanime del Consiglio.
Per quanto riguarda la libertà di circolazione e di soggiorno, essa è riconosciuta ai cittadini
dell’UE in quanto tali, e dunque anche se non sono lavoratori, i quali ultimi godono di un regime
particolare di libera circolazione sulla base delle norme relative al mercato interno. La libertà di
circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’UE non è senza limiti, in quanto lo stesso art.21 TFUE
fa salve “le limitazioni e le condizioni previste dai trattati”. Al riguardo, va menzionata la direttiva
del Parlamento europeo che disciplina in dettaglio il diritto dei cittadini dell’UE di circolare e
soggiornare nel territorio degli Stati membri. Tale direttiva prevede, tra l’altro, che per un soggiorno
superiore a tre mesi nel territorio di uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, il
cittadino UE che non sia economicamente attivo deve dimostrare di disporre di sufficienti risorse
economiche, così da non rappresentare un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato
ospitante. Inoltre, la direttiva prevede la possibilità per uno Stato membro di adottare provvedimenti
restrittivi della libertà stessa per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanità pubblica, pur
nel rispetto del principio di proporzionalità.
Circa l’elettorato attivo e passivo nello Stato membro di residenza per le elezioni comunali, il suo
effettivo riconoscimento ha in qualche caso richiesto modifiche costituzionali. Il Consiglio ha
emanato la direttiva che prevede la facoltà per i cittadini dell’UE di scegliere se votare nel proprio
Stato nazionale o in quello di residenza, nonché la possibilità per gli Stati membri di negare
l’eleggibilità di non cittadini alla carica di capo di un ente locale di base e di introdurre misure
derogatorie qualora la percentuale di cittadini dell’UE residenti, ma non nazionali, superi il 20
percento. La protezione diplomatica e consolare nei Paesi Terzi corrisponde a una prassi già
radicata nelle relazioni internazionali. Ai fini dell’attuazione di tale protezione, l’art.23 TFUE
Il Trattato di Lisbona ha visto l’introduzione di alcune norme che vanno a costituire il Titolo II del
TUE, significativamente “Disposizioni relative ai principi democratici”. Tali norme si
comprendono alla luce di quel problema del deficit democratico che ha determinato una serie di
interventi volti in particolare a rafforzare i poteri del Parlamento europeo, unica istituzione dell’UE
democraticamente eletta dai cittadini. Le disposizioni del Titolo II articolano le “credenziali
democratiche” attorno a tre profili essenziali: il principio della democrazia rappresentativa, il
principio della democrazia partecipativa e il contributo che anche i Parlamenti nazionali possono
offrire alla legittimità democratica dell’UE. Iniziando dal principio della democrazia
rappresentativa, dobbiamo osservare che esso assume un rilievo preminente, in quanto, è proprio
sulla democrazia rappresentativa che il funzionamento dell’UE “si fonda”. L’articolo prosegue
individuando tre dati che sostanziano questo principio: a) i cittadini europei sono direttamente
rappresentati, a livello dell’UE, nel parlamento europeo, b)i rappresentanti degli Stati membri sono
democraticamente responsabili dianzi ai loro Parlamenti nazionali, c) i partiti politici a livello
europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei
cittadini dell’UE. Secondo un’analisi più approfondita, il riferimento alla rappresentatività in
Parlamento appare quello più importante. In questa prospettiva, va apprezzato il progressivo
rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo nei processi decisionali dell’UE.
In riferimento poi, al fatto che ciascun membro del Consiglio europeo o del Consiglio risponde
politicamente dinanzi al rispettivo Palamento nazionale, è un’ovvia considerazione che non vale,
tuttavia, a conferire una legittimità democratica a tali istituzioni a livello dell’UE. Esse, infatti,
restano espressione degli esecutivi dei rispettivi Stati e i loro membri sono responsabili
politicamente in relazione al perseguimento degli interessi nazionali, non di quelli generali dell’UE.
Infine, quanto al ruolo dei partiti politici a livello europeo, dobbiamo osservare che questo è
ancora per molti versi embrionale. I partiti s aggregano là dove esiste un potere politico da
conquistare o da mantenere. Il ruolo dei partiti politici nel Parlamento europeo, privo di un
esclusivo potere legislativo, non è assimilabile a quello dei partiti politici nazionali. Un’ importante
novità al riguardo è stata però introdotta dal Trattato di Lisbona, laddove questo ha disposto che il
Consiglio europeo, quando propone al Parlamento europeo un candidato per la carica di Presidente
della Commissione, deve tenere conto delle elezioni del Parlamento Europeo. Ciò ha indotto i
principali partiti politici europei a indicare ciascuno un proprio candidato alla presidenza della
Commissione, riuscendo poi a ottenere che il Consilio europeo proponesse al Parlamento europeo
proprio il candidato indicato. Questo c.d. sistema degli Spitzenkandidaten, ossia dei capilista,
aggiunge innegabilmente un elemento di democraticità nell’impianto istituzionale dell’UE,
valorizzando le elezioni del Parlamento europeo. D’altra parte, la dottrina ha evidenziato anche
alcune implicazioni problematiche, poiché un troppo stretto legame della Commissione con una
maggioranza di riferimento sembra contraddire la logica di rappresentanza dell’interessa generale
dell’UE. In definitiva, dunque, permangono dei limiti a una completa affermazione della
democrazia rappresentativa nel quadro dell’UE. Solo una svolta in senso federale potrebbe
determinare il superamento di tali limiti.
Consapevoli di ciò, i redattori del Trattato di Lisbona hanno cercato di valorizzare anche ulteriori
Le disposizioni relative ai principi democratici si completano con l’art.12 TUEM, che riassume le
prerogative riconosciute ai Parlamenti nazionali da una serie di norme, rinvenibili nello stesso TUE,
nel TFUE e nel Protocollo n.1 (sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell’UE).
Anzitutto l’art.12 TUE prevede in via generale che i Parlamenti nazionali vengano informati dalle
istituzioni dell’UE. Tale obbligo -specificato nel Protocollo n.1- prevede la trasmissione ai
Parlamenti nazionali: a) di tutti i documenti di consultazione che la Commissione produce; b) di
tutti i progetti di atti legislativi inoltrati al Parlamento europeo. La ratio di queste previsioni è,
anzitutto, quella di incoraggiare una partecipazione “indiretta” dei Parlamenti nazionali alle attività
dell’UE attraverso l’esercizio di poteri di indirizzo e di controllo nei confronti dei rispettivi governi.
Tuttavia, il Trattato di Lisbona ha previsto anche delle ipotesi di diretto coinvolgimento dei
Parlamenti nazionali a livello dell’UE, la cui principale manifestazione è rappresentata dal loro
intervento nelle procedure legislative dell’UE, con lo specifico fine di vigilare sul rispetto del
principio di sussidiarietà. Ulteriori prerogative riconosciute ai Parlamenti nazionali dal Trattato di
Lisbona attengono allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Nell’ambito di tali formule sono
comprese varie forma di intervento, ma anche in questo settore, i Parlamenti vigilano
sull’applicazione del diritto di sussidiarietà.
L’art.12 TUE aggiunge alle prerogative dei Parlamenti nazionali la partecipazione alle procedure di
revisione dei Trattati. Si tratta, in particolare, di una delle due procedure di revisione semplificate
previste da tale norma, e in particolare di quella che riguarda la possibilità di sostituir il requisito
dell’unanimità con quello della maggioranza qualificata per alcune decisioni del Consiglio o di
L’UE dispone di un quadro istituzionale attraverso il quale esercita le proprie competenze. Tale
quadro istituzionale mira a promuovere i valori fondanti dell’UE e a perseguirne gli obiettivi,
servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli Stati membri, nonché garantire la
coerenza, efficacia e continuità delle sue politiche ed azioni.
Gli organi dell’UE sono molteplici, ma l’art.13 TUE eleva al rango di istituzioni il Parlamento
europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione, la Corte di Giustizia dell’Unione
europea, la Banca centrale europea e la Corte dei conti. A tali organi si applicano le norme dei
Trattati che si riferiscono alle istituzioni, ma è detto che non si applichino anche ad altri organi
dell’UE, che non siano qualificato come istituzioni. Non esistono tra l’altro, criteri specifici che
distinguano le istituzioni dagli organi.
Le relazioni tra le istituzioni dell’UE sono improntate al rispetto di due principi che la Corte di
giustizia ha messo a punto: il principio dell’ equilibrio istituzionale e il principio della leale
cooperazione. Il primo comporta che ogni istituzione eserciti le sue competenze nel rispetto di
quelle delle altre istituzioni e implica che, come espressamente previsto dall’art.13 TUE, ciascuna
Il Parlamento europeo è composto, come recita l’art.14 TUE, dai “rappresentanti dei cittadini
dell’Unione”. Tale rappresentanza dei cittadini risponde ai principi democratici cui l’UE ispira il
suo rapporto con i cittadini stessi e comporta, in particolare, che il Parlamento europeo eserciti,
congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio, oltre a svolgere
funzioni di controllo politico. I membri del Parlamento europeo sono eletti a suffragio universale
diretto, per un mandato di cinque anni. Per quanto riguarda le modalità di elezione, l’art.223
TFUE prevede che lo stesso Parlamento europeo elabori un progetto volto a stabilire una
procedura uniforme in tutti gli Stati membri o principi comuni a tutti gli Stati membri, e che
il Consiglio stabilisca le disposizioni necessarie, con delibera da adottarsi all’unanimità e previa
approvazione del Parlamento europeo. Questa delibera del Consiglio è subordinata alla “previa
approvazione degli Stati membri” e costituisce in sostanza accordo internazionale. Nonostante i
molti progetti elaborati dal Parlamento europeo, non è stato finora possibile accordarsi su una
procedura elettorale uniforme. Sono stati stabiliti, invece, dei principi comuni, contenuti nell’ Atto
relativo all’elezione dei membri del Parlamento europeo a suffragio universale diretto,
originariamente adottato in vista delle prime elezioni che ebbero luogo nel 1979, e in seguito
modificato. Tale Atto prevede, tra l’altro, che le elezioni debbano svolgersi con il metodo
proporzionale, e che abbiano luogo in un giorno fissato tra il giovedì e la domenica di una
settimana fissata per tutti gli Stati membri. A parte tali principi comuni, la procedura elettorale resta
disciplinata da ciascuno Stato membro dalle rispettive disposizioni nazionali. In particolare, la
Corte di giustizia ha ritenuto da un lato, che gli Stati membri possano concedere il diritto di voto a
determinato persone che, pur non avendo la cittadinanza dell’UE, possiedono stretti legami con
essi; dall’altro, che gli Stati membri possano anche, per converso, privare taluni loro cittadini del
diritto di voto, purché nel rispetto del principio della parità di trattamento con gli altri cittadini.
Il numero dei componenti del Parlamento europeo è venuto crescendo a seguito dei successivi
allargamenti dell’’UE, passando dai 142 originari ai 751 membri previsti come tetto dall’art.14
Il Consiglio europeo ha il compito di dare all’UE “gli impulsi necessari al suo sviluppo” e di
definire “gli orientamenti e le priorità politiche generali”, come stabilisce l’art.15 TUE. Il suo
ruolo è, quindi, essenzialmente di indirizzo politico, tanto che, in coerenza con ciò, la norma
precisa che il Consiglio europeo non esercita funzioni legislative. Tale ruolo trova espressione
nelle conclusioni che lo stesso Consiglio europeo adotta al termine di ciascuna riunione. Il
Consiglio europeo rappresenta la definitiva istituzionalizzazione di una pratica di riunioni
periodiche tra i capi di Stato o di governo, iniziata con i c.d. Vertici, al fine di fornire nuovi
indirizzi politici all’attività dell’UE. Il primo di tali Vertici fu quello di Parigi del 1961. I Vertici
cambiarono la propria denominazione in Consiglio europeo, denominazione poi confermata in
occasione del suo primo riconoscimento formale ad opera dell’AUE. Da quel momento, il
Consiglio europeo ha svolto un ruolo crescente di propulsione per l’attività dell’UE, vedendosi
anche attribuire specifici poteri decisionali accanto alla più generale funzione di indirizzo politico.
Questa evoluzione è culminata con il Trattato di Lisbona, che, gli ha riconosciuto lo status di
istituzione dell’UE.
Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo
Presidente e dal Presidente della Commissione. Il Presidente del Parlamento europeo può essere
eventualmente invitato alle riunioni per essere ascoltato. Il Presidente del Consiglio europeo è
24. … c) Il Consiglio.
Le ultime due istituzioni menzionate nell’art.13 TUE sono la Banca centrale europea e la Corte dei
conti. La BCE e le banche centrali nazionali di tutti gli Stati membri costituiscono il Sistema
europeo delle banche centrali (SEBC). La disciplina della BCE e del SEBC si rinviene, oltre che
nei Trattati, anche nello Statuto del SEBC e della BCE. Nonostante ciò, alcune sue norme possono
essere modificate, anziché secondo la procedura ordinaria di revisione dei Trattati, su
raccomandazione della BCE e previa consultazione della Commissione oppure su proposta della
Commissione e previa consultazione della BCE.
Al SEBC o, più precisamente, all’Eurosistema, è affidata la gestione della politica monetaria.
L’obiettivo principale di tale politica è la stabilità dei prezzi, che la stessa BCE ha quantificato in
un livello di inflazione inferiore, ma prossimo, al 2% nel medio termine. Fatto salvo tale obiettivo,
la SEBC sostiene le politiche economiche generali dell’UE al fine di contribuire alla realizzazione
degli obiettivi dell’UE definiti all’art. 3 TUE.
L’art.282 TFUE attribuisce alla BCE una personalità giuridica distinta rispetto a quella dell’UE e
dispone che la BCE è indipendente, nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze,
da istituzioni, organi e organismi dell’UE, nonché dai governi degli Stati membri. L’art. 340 TFUE
in tema di responsabilità extracontrattuale dell’UE, dispone una responsabilità della BCE separata
da quella dell’UE, per i danno cagionati da “essa stessa”. Sul punto, merita di essere ricordato che
di fronte alla pretesa della BCE di sottrarsi ai poteri di indagine conferiti all’organismo antifrode
comunitario, pretesa motivata dal particolare status di cui gode la BCE, la Corte di giustizia ha
sancito che tale status non vale a distaccare la BCE dall’UE, sottraendola a qualsiasi norma di
diritto dell’UE.
Per quanto attiene al suo funzionamento interno, la BCE si compone di tre organi. Il comitato
esecutivo comprende il Presidente, il Vicepresidente e altri quattro membri. Tutti questi membri
sono nominati dal Consiglio europeo, tra persone di riconosciuta esperienza nel settore monetario e
che abbiano la cittadinanza di uno Stato membro. Il loro mandato ha una durata di 8 anni e non è
rinnovabile, il comitato esecutivo è responsabile della gestione degli affari correnti della BCE. Il
consiglio direttivo comprende i membri del comitato esecutivo nonché i governatori delle banche
centrali nazionali degli Stati membri la cui moneta è l’euro. Esso formula la politica monetaria
28. Gli altri organi e organismi: Comitato economico e sociale, Comitato delle regioni, altri
comitati e agenzie europee.
A parte le istituzioni sopra menzionate, esiste nell’UE una grande varietà di altri organi e organismi,
alcuni già previsti nei Trattati originari, altri aggiunti successivamente. Vengono innanzitutto in
rilievo due organi i quali, attraverso le loro funzioni consultive, assistono il Parlamento europeo, il
Consiglio e la Commissione. Si tratta del Comitato economico e sociale e del Comitato delle
regioni.
Il Comitato economico e sociale è composto da rappresentanti delle organizzazioni di datori di
lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile. Il Comitato
economico e sociale è, quindi, la sede di rappresentanza della società civile ed organizzata, a
ulteriore conferma del fatto che l’UE non si limita a realizzare una cooperazione tra Stati, ma
coinvolge in maniera immediata i loro cottadini.
Il Comitato delle regioni è composto da rappresentanti delle collettività regionali e locali, i quali
devono essere titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una di tali collettività o comunque
responsabili politicamente verso un’assemblea eletta. L’introduzione di questo comitato testimonia
La Banca europea per gli investimenti è disciplinata dagli artt. 308 e 309 TFUE, nonché dal suo
Statuto. Lo statuto della BEI può, però, essere modificato dal Consiglio, su richiesta della stesa
BEI o su proposta della Commissione. La BEI è dotata di autonoma personalità giuridica, distinta
rispetto a quella dell’UE. Inoltre, la BEI possiede una propria struttura abbastanza articolata,
essendo, infatti, amministrata e gestita da un consiglio di governatori, un consiglio di
amministrazione e un comitato direttivo. Queste caratteristiche, che la BEI ha in comune con la
BCE, ripropongono l’interrogativo che ci siamo posti per la BCE, ovvero se BEI faccia parte a
pieno titolo della struttura dell’UE o se costituisca, invece, un’organizzazione separata rispetto ad
essa. Tuttavia, la Corte ha deciso in maniera analoga a quanto stabilito per la BCE, ovvero di non
sottrarla completamente a qualsiasi norma del diritto dell’UE. A sottolineare l’autonomia della BEI
contribuiscono altri fattori: essa ha i suoi “membri” (che sono gli stessi Stati membri dell’UE), un
propri sistema di finanziamento e un proprio bilancio. Essa ha, infatti, un proprio capitale, il cui
importo è stato progressivamente aumentato con i progressivi allargamenti dell’UE. Va però detto
che, sul piano giuridico, l’attività della BEI è inserita nel sistema dei controllo giurisdizionali
dell’UE.
Guardando, invece all’attività della BEI, essa si inserisce completamente nell’ambito delle finalità
perseguite dall’UE ed è svolta nell’esclusivo interesse di quest’ultima. La funzione della BEI è,
infatti, quella di “contribuire, facendo appello al mercato dei capitali ad alle proprie risorse, allo
sviluppo equilibrato del mercato interno nell’interesse dell’Unione”. A tal fine essa concede
prestiti per finanziare progetti tesi a valorizzare le regioni dell’UE meno sviluppate, nonché
progetti contemplanti l’ammodernamento di imprese o progetti di interesse comune agli Stati. I
Anche se, come già detto, l’UE non è strutturata secondo il principio della separazione dei poteri ,
sono tuttavia identificabili nelle sue attività le tradizionali funzioni proprie degli ordinamenti statali,
le quali, però, vengono in genere esercitate attraverso procedure che prevedono l’intervento
congiunto di più organi.
Negli ordinamenti statali la funzione legislativa è generalmente concepita come quella che presiede
all’emanazione di norme di portata generale e astratta, che pongono la disciplina di base di una
determinata materia. Il Trattato di Lisbona, introducendo per la prima volta nel diritto dell’UE la
nozione di atto legislativo, non la definisce invece sulla base del contenuto e della portata dell’atto,
ma sulla base della procedura seguita per la sua emanazione. L’art. 289 TFUE dispone, infatti, con
definizione che alcuni hanno chiamato “circolare”, che gli atti adottati mediante proceduta
legislativa sono atti legislativi. È, insomma, la base giuridica dell’atto che ne determina la natura
legislativa o non legislativa. Va, poi, ricordato che il Consiglio europeo non esercita funzioni
legislative, e pertanto i suoi atti, sono qualificati come non legislativi. L’adozione di atti legislativi
è inoltre espressamente esclusa nell’ambito della PESC. Tutto ciò significa che sarebbe vano
applicare alla nozione di atto legislativo nell’UE i criteri generalmente adottati negli ordinamenti
interni, in quanto il diritto dell’UE ha scelto di utilizzare una nozione sui generis di atto legislativo,
facendone discendere delle conseguenze. Tra queste, va ricordato che il Consigli, quando delibera
e vota su un progetto di atto legislativo, deve riunirsi in seduta pubblica.
Ai sensi dell’art.14 e 16 TUE, la funzione legislativa è esercitata congiuntamente dal
Parlamento europeo e dal Consiglio. Tale esercizio può avvenire secondo una procedura
legislativa ordinaria, ne quadro della quale Parlamento europeo e Consiglio sono posti sullo stesso
piano, e operano dunque come autori co-legislatori, o secondo tutta una serie di procedure
legislative speciali. Sia nella procedura legislativa ordinaria che in quelle speciali il potere di
iniziativa spetta di regola alla Commissione; inoltre, è di frequente prevista la consultazione
obbligatoria del Comitato economico e sociale, del Comitato delle regioni o di entrambi questi
organi.
Su un piano generale, va anche osservato che, nonostante siano previste diverse “passerelle” volte
ad agevolare il passaggio dalle procedure legislative speciali a quella ordinaria, le condizioni
stabilite per l’attuazione delle relative clausole rendono comunque difficile il ricorso ad esse.
Ricordiamo che il passaggio da una procedura legislativa speciale alla procedura ordinaria, può
avvenire secondo una proceduta di revisione semplificata. Accanto a tale clausola “orizzontale”,
inoltre, vi sono casi di “passerelle settoriali”, intese ad agevolare il passaggio alla procedura
ordinaria in determinate materie. Per dare attuazione a tali clausole, occorre sempre, però, l’accordo
unanime degli Stati membri; inoltre, nel caso della revisione semplificata e in quello della
“passerella”, è sufficiente l’opposizione di un solo Parlamento nazionale per impedire tali sviluppi.
Come già accennato, nell’ambito delle procedure legislative il potere d’iniziativa spetta alla
Commissione. L’art.17 TUE dispone infatti come segue “Un atto legislativo dell’Unione può essere
adottato solo su proposta della Commissione, salvo che i trattati non dispongano diversamente…”.
La proposta della Commissione costituisce un atto formale, che ha natura interorganica, in quanto
non è rivolto verso l’esterno, ma è diretto ad altre istituzioni dell’’UE.
L’impostazione originaria dei trattati prevedeva che la Commissione godesse del potere di iniziativa
praticamente in via esclusiva e incondizionata. Questo potere, attribuito a un organo ce rappresenta
l’interesse generale dell’UE e non gli Stati uti singuli, costituiva un elemento innovativo e
caratteristico dell’elevato grado di integrazione tra gli Stati membri. L’effettiva portata del potere di
iniziativa delle Commissione si è venuta, però, progressivamente diluendo. Questa costruzione
era stata infatti oggetto di manovre da parte degli Stati membri, volte ad imbrigliare il potere di
iniziativa della Commissione. Questo risultato fu essenzialmente raggiunto con l’istituzione del
COREPER. Il dialogo tra la Commissione e il Consiglio è stato a partire da quel momento
sostituito da un dialogo tra la Commissione e il COREPER, che, in quanto organo permanente,
finisce con il condizionare notevolmente il potere di iniziativa della Commissione. Un altro
condizionamento al potere di iniziativa è stato poi introdotto a seguito del graduale affermarsi del
Consiglio europeo come sede di definizione degli orientamenti e delle priorità politiche dell’UE.
Va inoltre aggiunto che la presentazione di una proposta da parte della Commissione su una
determinata materia può anche essere la conseguenza di una specifica richiesta del Consiglio, del
Parlamento europeo o di almeno un milione di cittadini. A tali richieste, tuttavia, non
corrisponde, sul piano giuridico, un obbligo della Commissione di presentare una proposta. Inoltre,
anche se la necessità di una proposta della Commissione costituisce, ai sensi dell’art. 17 TUE, la
regola nell’ambito delle procedure legislative, l’art. 289 TFUE espressamente prevede che nei casi
specifici previsti dai Trattati, gli atti legislativi possono essere dottati su iniziativa di un gruppo di
Stati membri o dal Parlamento europeo, su raccomandazione della BCE o su richiesta della Corte
di giustizia o della BEI. Tali casi circoscritti, non escludono comunque, l’esercizio di potere di
iniziativa da parte della Commissione.
Tornando all’ipotesi in cui è necessaria la proposta della Commissione, va sottolineato che il
Consiglio può, ovviamente, adottare un meno un atto conforme alla proposta stessa secondo le
procedure previste di volta in volta dai Trattati, ma può emendarla solo deliberando
all’unanimità. È importante precisare che, nel caso dell’emendamento di una proposta della
Commissione, l’unanimità richiesta per la delibera del Consiglio non funziona, come di solito
avviene, quale fattore di protezione degli interessi particolari degli Stati membri, ma tutela, invece,
il perseguimento dell’interesse generale dell’UE.
Inoltre, fintantoché il Consiglio non ha deliberato, la Commissione può in qualsiasi momento
modificare la propria proposta. Di recente, Corte di giustizia ha riconosciuto alla Commissione
anche il potere di ritirare la propria proposta, sebbene tale potere non sia espressamente previsto
La procedura legislativa speciale non è una specifica procedura definita dai Trattati (dato che, tutte
le volte che i Trattati prevedono procedure legislative diverse da quella ordinaria, sono da
considerarsi speciali). Il loro tratto comune è quello di consistere nella “adozione di un
regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del Parlamento europeo con la
partecipazione del consiglio…” o viceversa.
L’apparente simmetria della disposizione non deve trarre in inganno. In effetti, sono solo tre i casi
in cui è il Parlamento a decidere, con la partecipazione del Consiglio. Tutti e tre questi casi sono
marginali e, in ogni modo, il Consiglio deve approvare preventivamente l‘atto del Parlamento
europeo. Si tratta dell’ adozione dello statuto dei membri del Parlamento europeo, della definizione
delle modalità per l’esercizio del diritto di inchiesta del Parlamento europeo e dell’ adozione dello
statuto del Mediatore europeo. Per converso, l’adozione di un atto legislativo da parte del Consiglio
con la partecipazione del Parlamento europeo ricorre molto più di frequente. Nella maggior parte di
questi casi, il Consiglio decide all’unanimità; solo in quattro casi, piuttosto marginali, decide invece
a maggioranza qualificata.
Quanto al coinvolgimento del Parlamento europeo in queste decisioni del Consiglio, esso può
consistere nella semplice consultazione dello stesso o nella necessità della sua approvazione
dell’atto. Va ricordato, in via generale, che la partecipazione del Parlamento europeo al processo
decisionale dell’UE attraverso la sua consultazione da parte del Consiglio costituiva la regola nei
Trattati originari. I poteri del Parlamento europeo relativamente a tale processo si son venuti, poi,
man mano accrescendo, ma il suo ruolo è rimasto semplicemente consultivo ancora in diversi casi.
Oltre all’emanazione di atti legislativi, nell’UE è prevista anche quella di atti normativi delegati e di
atti di esecuzione, che comporta in entrambi i casi l’attribuzione di poteri decisionali alla
Commissione. La distinzione tra atti delegati e atti di esecuzione è stata introdotta solo dal Trattato
di Lisbona, mentre in precedenza entrambe le tipologie di atti erano sostanzialmente riconducibili
all’esercizio delle competenza di esecuzione.
La ratio sottostante alla previsione di atti delegati è quella di evitare un eccesso di dettagli nella
produzione normativa soggetta alle complesse procedure legislative, limitando agli elementi
essenziali il contenuto degli atti adottati secondo tali procedure. L’art. 290 TFUE prevede pertanto
che un atto legislativo può delegare alla Commissione il potere di emanare atti, definiti non
Sul punto, la Corte di giustizia ha recentemente affermato che “un elemento ha carattere essenziale,
in particolare, se la sua adozione richiede scelte politiche rientranti nelle responsabilità proprie del
legislatore dell’Unione, … o se permette ingerenze talmente incisive nei diritti fondamentali delle
persone coinvolte da rendere necessario l’intervento del legislatore dell’Unione.” Per agevolare
l’esercizio della funzione normativa delegata, Parlamento europeo, Consiglio e Commissione hanno
concluso una “convenzione d’intesa sugli atti delegati”, che comprende, inter alia, una serie di
formule standard utilizzabili negli atti legislativi di base.
Gli atti delegati alla Commissione si distinguono concettualmente dagli atti di esecuzione, cioè
dagli atti meramente esecutivi degli atti giuridicamente vincolanti dell’UE. Essendo questi ultimi
atti destinati a operare all’interno di ciascuno Stato membro, sono le autorità nazionali ad essere
preposte all’esecuzione degli stessi. Il modello seguito fin dall’inizio nell’ambito dell’UE è stato,
infatti, un modello decentralizzato di esercizio del potere esecutivo in capo agli Stati membri. In
coerenza con ciò, l’art. 291 TFUE stabilisce che gli Stati membri adottano tutte le misure di diritto
interno necessarie per l’attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’UE.
Peraltro, qualora siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione, gli atti giuridicamente
vincolanti dell’UE possono attribuire la relativa competenza di esecuzione alla Commissione. A tali
atti della Commissione deve essere aggiunta la denominazione “di esecuzione”: vi sono, pertanto,
regolamenti di esecuzione, direttive di esecuzione, decisioni di esecuzione. La competenza di
esecuzione può essere attribuita anche al Consiglio, ma solo “in casi specifici debitamente
motivati”.
Mentre l’esercizio da parte della Commissione della funzione normativa delegata è soggetto, come
detto, al controllo da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, l’esercizio delle sue competenze
di esecuzione è sottoposto a un controllo da parte degli Stati membri, secondo modalità stabilite
dal Consiglio e dal Parlamento europeo. Fin dai primi decenni dei vita delle Comunità europee si è
affermato, al riguardo, il sistema della c.d. comitologia, consistente nell’affiancare alla
Commissione dei comitati composti da rappresentati degli Stati membri, ai quali la Commissione è
tenuta a chiedere un parere sui progetti degli atti di esecuzione che essa intende emanare. A seguito
La funzione di controllo nell’ambito dell’UE si esplica con riferimento alle istituzioni che
partecipano all’esercizio del potere legislativo e di quello esecutivo, nonché nei confronti degli Stati
membri. Tale controllo è di duplice tipo. Da una parte vi è un controllo di natura politica
relativamente all’operato di tali istituzioni. Dall’altra vi è un controllo di natura giuridica, che
riguarda sia gli Stati membri, che le istituzioni dell’UE. Nei confronti dei primi, tale controllo è
relativo all’adempimento degli obblighi ad essi incombenti in virtù dei Trattati. Nei confronti delle
seconde, tale controllo si traduce in un giudizio di legittimità sui loro atti, nonché sull’eventuale
inadempimento del loro obbligo. Tratteremo ora del controllo di natura politica.
E’ il Parlamento europeo a detenere i poteri di controllo di natura politica, a somiglianza degli
analoghi poteri di cui godono i Parlamenti nazionali negli Stati. La somiglianza, però, si ferma ad
aspetti per lo più formali, in quanto il Parlamento europeo dispone di significativi poteri di
controllo nei confronti della sola Commissione e non, invece, nei confronti delle istituzioni
responsabili dell’azione dell’UE, cioè il Consiglio europeo e il Consiglio (occorre realisticamente
ammettere che un controllo politico da parte del Parlamento europeo sul Consiglio europeo o sul
Consiglio sarebbe incompatibile con la natura dell’UE).
Il controllo politico del Parlamento europeo si estrinseca essenzialmente nei confronti della
Commissione, e ha la sua più importante manifestazione nel potere di approvare una mozione di
censura sull’operato di quest’ultima. In qualsiasi momento almeno un decimo dei parlamentari
europei può presentare al Presidente del Parlamento una mozione di censura sull’operato della
Commissione, perché questa venga messa ai voti ed eventualmente approvata. A seguito
dell’approvazione di una mozione di censura i membri della Commissione sono costretti
collettivamente a dare le dimissioni, incluso l’Alto rappresentante che, però, cessa solo dalle
funzioni che esercita in seno alla Commissione, non anche da quelle che svolge nell’ambito del
Consiglio. Ne risulta che, anche nell’ipotesi in cui la sfiducia del Parlamento si riferisca all’operato
di un singolo Commissario, in virtù della responsabilità collegiale della Commissione tutti i suoi
membri devono abbandonare le loro funzioni.
Date le gravi conseguenze che vi sono ricollegate, la procedura per l’approvazione di tale mozione
è circondata da particolari garanzie: anzitutto, essa non può essere votata prima di tre giorni dalla
sua presentazione; in secondo luogo, la votazione deve avvenire a scrutinio pubblico; infine, è
Come ogni bilancio contabile, anche il bilancio dell’UE è costituito da entrate e da uscite. Le
entrate derivano dal sistema di finanziamento dell’UE; le uscite sono costituite dalle spese per il
funzionamento dell’UE e per l’esplicazione delle sue attività. Per esplicita previsione dell’art. 310
Cominciando dal versante delle entrate, occorre premettere qualche considerazione generale sul
finanziamento delle organizzazioni internazionali. È, infatti, di tutta evidenza, che il grado di
indipendenza delle organizzazioni internazionali dai singoli Stati membri deriva in misura
significativa dalla loro capacità di autofinanziarsi. In verità, quanto più un’organizzazione
internazionale dipende da contributi diretti degli Stati membri per il proprio funzionamento, tanto
più essa sarà esposta a rischi di condizionamento da parte di quegli Stati membri che possano essere
tentati di sospendere o ridurre unilateralmente i propri contributi. La storia, anche recente, dell’NU
e di alcuni dei suoi istituti specializzati conferma quanto sopra.
È per questo motivo che era stata salutata come estremamente innovativa la soluzione introdotta
dall’art. 49 del Trattato istitutivo della CECA, la quale si finanziava attraverso vere e proprie
imposte a carico delle imprese carbosiderurgiche. Il grado di indipendenza dagli Stati membri,
raggiunto in questo modo dalla CECA, è rimasto ineguagliato. Gli Stati membri, dal loro canto,
abdicavano per la prima volta all’esclusività del potere impositivo sul proprio territorio.
Nel sistema dell’UE, non poteva certo ripetersi l‘esperienza della CECA. La redazione originaria
del Trattato CEE prevedeva, pertanto, contributo finanziari a carico degli Stati membri. Fin dagli
anni settanta, tuttavia, i contributi diretti da parte degli Stati membri sono stati sostituiti da c.d.
“risorse proprie”. Attualmente , l’art. 311 TFUE recita come segue : “Il bilancio, fatte salve le
altre entrate, è finanziato integralmente tramite risorse proprie”.
Il Trattato non specifica quali siano le risorse proprie, ma detta la procedura per l’adozione di una
decisone al riguardo. Ai sensi dell’art. 311 TFUE, questa procedura si articola in due fasi: nella
prima, la decisione è adottata dal Consiglio secondo una procedura legislativa speciale, con voto
unanime e previa consultazione del Parlamento europeo; nella seconda, tale decisione deve essere
approvata da tutti gli Stati membri. Si tratta, pertanto, di una decisione che ha sostanzialmente la
natura di un accordo internazionale tra gli Stati membri, ed è in questo senso assimilabile ai Trattati
sui quali l’UE si fonda. Tale decisione individua tre categorie di risorse proprie: le risorse proprie
tradizionali, la risorsa IVA e la risorsa calcolata sulla base del reddito nazionale lordo (RNL) degli
Stati membri.
La categorie delle risorse proprie tradizionali riunisce quelle che originariamente erano due
distinte categorie, ossia i c.d. prelievi agricoli (insieme eterogeneo di entrate, derivanti dagli
scambi con Paesi terzi nella politica comune) e i dazi doganali derivanti dall’applicazione della
tariffa doganale comune. Queste risorse sono riscosse dagli Stati membri secondo modalità definite
nei rispettivi ordinamenti. Gli stati membri trattengono, a copertura delle spese di esazione, una
percentuale degli importi riscossi, attualmente fissa al 2%.
La risorsa IVA deriva dall’applicazione di un’aliquota uniforme, attualmente pari allo 0,30%, agli
imponibili IVA armonizzati degli Stati membri. Per ciascuno Stato membro, l’imponibile da
prendere in considerazione non può però superare il 50% dell’RNL, al fine di evitare che gli Stati
membri meno prosperi, debbano versare un importo sproporzionato rispetto alla loro effettiva
capacità contributiva.
Mentre le risorse proprie fin qui menzionate erano previste già nella prima decisione in materia, la
A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, le decisioni sulle risorse proprie sono state adottate
nel quadro di più ampi negoziati aventi ad oggetto anche le c.d. prospettive finanziarie. Il Trattato di
Lisbona ha infine preso atto di questa prassi, dedicando l’art. 312 TFUE al quadro finanziario
pluriennale.
Ai sensi di questa disposizione, il quadro finanziario pluriennale persegue l’obiettivo di assicurare
l’ordinato andamento delle spese dell’UE entro i limiti delle sue risorse proprie. A questo fine, esso
fissa il tetto degli stanziamenti annuali per grandi categorie di spesa, corrispondenti ai grandi settori
di attività dell’UE. La norma prevede, inoltre, che il quadro finanziario pluriennale abbia una
durata almeno quinquennale e ne impone il rispetto da parte dei vai bilanci annuali.
Sotto il profilo procedurale, l’art. 312 TFUE dispone che il quadro finanziario pluriennale sia
stabilito mediante un regolamento adottato secondo una procedura legislativa speciale, nel cui
ambito il Consiglio delibera all’unanimità previa approvazione del Parlamento europeo (la
norma contempla peraltro anche che una “passerella”, ai sensi della quali il Consiglio europeo è
abilitato a prendere, all’unanimità, una decisione che consenta al Consiglio di deliberare a
maggioranza qualificata quando adotta il suddetto regolamento).
La prima applicazione dell’art.312 TFUE si è avuta con il regolamento del Consiglio del 2
dicembre 2013, che ha stabilito il quadro finanziario pluriennale per il periodo 2014-20120. I c.d.
stanziamenti di impegno previsti da tale quadro ammontano complessivamente a quasi 960 miliardi
di euro, pari all’1% della somma degli RNL degli Stati membri. La maggior parte di questi
stanziamenti è destinata alle due politiche tradizionalmente di maggior peso nel bilancio dell’ UE,
L’ordinamento giuridico dell’UE ha natura autonoma sia rispetto al diritto internazionale che al
diritto interno degli Stati membri, ed è dotato in fonti, norme, istituzioni, procedure, soggetti,
sanzioni e meccanismi suoi propri. Tale ordinamento difetta del carattere dell’originarietà e ha
invece carattere derivato, in quanto l’esistenza dell’UE e l’estensione dei suoi poteri derivano
dalla volontà che gli Stati membri hanno espresso in una serie di Trattati internazionali stipulati tra
di loro. Stante il suo carattere derivato, il diritto dell’UE per essere applicato all’interno del
territorio degli Stati membri necessita della cooperazione delle autorità statali, non disponendo l’UE
di una propria sfera di sovranità, ma solo delle competenze attribuite dagli Stati membri.
L’ordinamento dell’UE si affianca quindi agli ordinamenti interni, e gli eventuali conflitti sono
risolti sulla base del primato del primo sui secondi. La diretta applicabilità ai singoli e l’efficacia
diretta per gli stessi di alcune norme dell’ordinamento dell’UE sono, in particolar, assicurate dagli
Stati membri nel quadro del loro obbligo di leale cooperazione di cui all’art. 4 TUE.
Per quanto riguardo invece i rapporti dell’ordinamento dell’UE con l’ordinamento
internazionale, vedremo che l’UE è dotata di soggettività in quest’ultimo ordinamento, ed è quindi
tenuta al rispetto delle norme di diritto internazionale generale al pari degli altri soggetti
internazionali. Ciò significa che le istituzioni dell’UE devono conformarsi a tali norme
nell’emanazione dei loro atti.
Se l’eventuale violazione di una norma di diritto internazionale avesse luogo nelle relazioni esterne
dell’UE, tale violazione costituirebbe un illecito internazionale attribuibile all’UE, con la
conseguenza che soggetti terzi eventualmente lesi potrebbero, eventualmente, adottare nei
confronti dell’UE contromisure alle condizioni previste dal diritto internazionale stesso. Inoltre, se
la violazione di norme di diritto internazionale avesse luogo attraverso l’emanazione di atti dell’UE
contrari a tali norma, essa comporterebbe l’illegittimità di tali atti nello stesso ordinamento
dell’UE.
Gli Stati membri, invece, nelle materie oggetto dei Trattati incontrano limiti alla possibilità di
ricorrere a contromisure di diritto internazionale generale, quali quelle sopra menzionate, nei
reciproci rapporti. Essi non possono “farsi giustizia da sé”, ma sono obbligati a sottoporre le loro
controversi relative all’interpretazione all’ interpretazione e applicazione dei Trattati esclusivamente
ai mezzi di composizione previsti dai Trattati stessi. Gli stati membri, quindi, nei loro rapporti,
devono ricorrere alle garanzia proprie dell’ordinamento dell’UE. Tra tali garanzie viene
soprattutto in rilievo, ovviamente, il controllo che la Corte di giustizia esercita in merito
all’inadempimento degli Stati membri. In tema di garanzie dell’ordinamento dell’UE vengono in
considerazione le garanzie previste negli ordinamenti degli Stati membri. Infatti, non avendo
l’UE poteri coercitivi, il diritto dell’UE ha bisogno delle garanzie che solo gli Stati membri stessi
possiedono e che devono offrire all’’UE, per l’efficace attuazione delle norme dell’UE al loro
interno, sulla base dell’obbligo di leale cooperazione.
Le funzioni di governo del territorio spettano tuttora agli Stati membri e, quando questi danno
attuazione a norme dell’UE in adempimento ad obblighi derivanti dai Trattati, pongono in essere
comportamenti esclusivamente imputabili agli Stati stessi, sia sul piano interno, che su quello
Come ogni ordinamento giuridico, anche quello dell’UE è provvisto di un suo sistema di fonti. I
Trattati non tracciano un chiaro ordine gerarchico tra di esse. Si possono individuare diversi
elementi per distinguere un diverso rango tra le fonti di diritto dell’UE. Innanzitutto, occorre tenere
conto del fatto che esse sono essenzialmente di due tipi. Da un lato, tra le fonti primarie rientrano
principalmente i Trattati e la Carta dei diritti fondamentali. Le fonti secondarie sono invece
costituite dagli atti emanati dalle istituzioni dell’UE in conformità alle norme dei Trattati. Tra
queste fonti si pongono in una posizione intermedia gli accordi internazionali concludi dall’UE.
Per quanto riguarda innanzitutto i due Trattati (TUE e TFUE) ad essi è attribuito “lo stesso valore
giuridico” e quindi non è stabilita una prevalenza delle norme di un Trattato rispetto all’altro. Il
criterio di fondo pare avesse dovuto includere nel TUE le norme relative ai principi e alla struttura
dell’UE, nonché ai suoi rapporti con gli Stati membri, mentre nel TFUE solo le norme che
riguardano il funzionamento e l’operatività dell’UE stessa. La mancanza di un preciso disegno circa
la ripartizione delle norme da inserire rispettivamente nei due testi si accompagna anche al
fenomeno della ripetizione di alcune norme in entrambi i Trattati.
Una certa gerarchia tra le fonti dell’ordinamento dell’UE esiste, invece, sulla base di considerazioni
d’ordine logico. Ad esempio, nei rapporti tra norme contenute nei Trattati, una norma contenente
l’enunciazione di un principio generale, di diritto dovrebbe avere un rango superiore rispetto alle
altre norme specifiche. Inoltre, l’atto di un’istituzione dell’UE, in quanto diritto derivato, non può
essere contrario alle fonti primarie del diritto dell’UE, e quindi né ai Trattati, né alla Carta dei
diritti fondamentali. Le norme del diritto primario dell’UE fungono quindi, in questa prospettiva, da
parametro di legittimità delle norme di diritto derivato.
Nei rapporti tra le fonti di diritto derivato, gli atti delegati alla Commissione sono subordinati
rispetto agli atti legislativi di base, che dispongono la delega, dovendosi mantenere nei limiti degli
obiettivi, del contenuto, della portata e della durata della delega stessa. Del resto, l’atto delegato per
sua natura è destinato ad integrare o modificare gli elementi non essenziali di un atto legislativo, e
quindi non può porsi in contrasto con quest’ultimo. Analogamente, anche gli atti di esecuzione
hanno come presupposto un atto di base, cui appunto danno esecuzione e al quale devono essere
considerati subordinati. Infine, gli accordi internazionali conclusi dall’UE hanno rango inferiore
rispetto ai Trattati, ma superiore rispetto agli atti di diritto derivato.
Nonostante queste precisazioni, non è stata mai definita una vera e propria gerarchia tra le fonti di
diritto derivato, e in particolare tra regolamenti, direttive e decisioni, oppure tra atti emanati
secondo la procedura legislativa ordinaria rispetto a quelli emanati secondo le procedure legislative
speciali.
Il rango di fonti primarie dell’ordinamento dell’UE spetta a pieno titolo alle norme volte alla tutela
dei diritti umani fondamentali. I progressi realizzati a questo riguardo si possono apprezzare
tenendo conto innanzitutto del fatto che all’inizio dell’esperienza comunitaria i Trattai istitutivi
delle Comunità europee non menzionavano i diritti dell’uomo. Ciò si spiega da un lato
considerando la scarsità sino a quel momento di atti internazionali vincolanti dedicati a tali diritti.
D’altro lato, la CEE nasceva essenzialmente come un accordo di integrazione commerciale.
Il progredire del processo di integrazione ha però negli anni reso sempre più impellente la necessità
di dare rilevanza ai diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario. L’ambito di attività della
CEE si era progressivamente ampliato al di là della sfera commerciale, con un impatto sempre
maggiore in materie inerenti alla vita delle persone. Si concretizzava l’attitudine delle norme
comunitarie ad incidere nella sfera giuridica degli individui. In risposta a queste esigenze,
l’importanza dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’UE ha trovato riscontri sempre maggiori
sia nella giurisprudenza della Corte di giustizia, sia infine in modifiche dei Trattai che hanno
sancito l’introduzione di diversi previsioni relativi ai diritti fondamentali. Ricordiamo che oggi i
diritti dell’uomo sono ricompresi tra i valori fondanti dell’UE, la cui violazione è prevista come
possibile oggetto di specifiche sanzioni, e il cui rispetto è necessario per poter essere ammessi come
nuovi membri nell’UE. Si può ben dire, in questa prospettiva, che la protezione dei diritti
fondamentali è oggi uno dei più importanti elementi identitari dell’UE.
37.2.1. L’affermazione giurisprudenziale dei principi generali di diritto dell’UE relativi alla
protezione dei diritti umani.
Si deve alla Corte di giustizia l’avvio dell’evoluzione sopra ricordata, con una serie di pronunce in
cui essa ha affermato che i diritti fondamentali costituiscono principi generali facenti parte
dell’ordinamento comunitario. La ricostruzione dei diritti da proteggere è stata operata dalla Corte,
a partire dagli anni ‘70, richiamando le convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo, e
in particolare la CEDU, oltre alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. Riferimenti ai
diritti fondamentali erano stati poi inseriti anche in dichiarazioni e risoluzioni delle altre istituzioni
dell’UE.
Alle affermazioni della Corte di giustizia ha fatto poi seguito il riconoscimento dei diritti
fondamentali come principi generali con il TUE nel 1992, con una formula di chiara derivazione
L’UE, oltre a riconoscere le norme della CEDU quali principi generali del proprio ordinamento, ha
deciso di dotarsi di un proprio catalogo di diritti fondamentali. Tale catalogo è contenuto nella
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea “proclamata” a Nizza il 7 dicembre 2000 da
Parlamento europeo, Consiglio e Commissione. Il testo della Carta attualmente in vigore è quello
che è stato ri-proclamato a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Tale Carta era stata elaborata da
un’apposita commissione mista, denominata “convenzione” e formata non solo da rappresentanti di
Consiglio, Commissione e Parlamento europeo, ma anche da membri dei Parlamenti nazionali degli
Stati membri.
Una delle novità più rilevanti del Trattati di Lisbona ha riguardato proprio la Carta: l’art.6 TUE
sancisce infatti che la Carta “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Questa previsione ha una
portata che si può definire “doppia”. In primo luogo essa accorda efficacia giuridicamente
vincolante alla Carta. In secondo luogo la norma attribuisce alla Carta un rango parificato a quello
del TUE e del TFUE, quindi il rango di fonte primaria, superiore a quello delle altre fonti dell’UE
di diritto secondario.
La Carta contempla un catalogo molto ampio di diritti fondamentali, enunciati in norme che in
alcuni casi corrispondono a disposizione della CEDU, o enunciano diritti economici, sociali e
culturali, o riproducono disposizioni del TUE. La collocazione sistematica dei diritti in vari gruppi
è effettuata in modo originale rispetto agli strumenti internazionali in materia di diritti umani: le
varie disposizioni sono raggruppate in sei capi: dignità; libertà; uguaglianza; solidarietà;
cittadinanza; giustizia. Nel caso di disposizioni della Carta sostanzialmente riproduttive di
disposizioni della CEDU, la loro interpretazione deve conformarsi a quella elaborata in ordine a
queste ultime disposizioni. Ciò significa in concreto che la giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo, viene presa in considerazione da parte della Corte di giustizia quando essa si
pronuncia sulle norme della Carta “corrispondenti” a norme della CEDU. I limiti entro i quali opera
la Carta vanno tenuti ben presente. La disposizione più importante con riguardo all’ambito di
applicazione è indubbiamente l’art. 51, che precisa da un lato che le norme della Carta si applicano
direttamente alle istituzioni, organi e organismi dell’UE, e quindi sottintende che l’UE è tenuta a
rispettare la Carta, tramite i suoi organi, in ogni sua attività. La norma specifica invece che la Carta
si applica agli Stati membri “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Le norme
dell’UE sui diritti fondamentali quindi pongono dei vincoli in capo all’UE in generale, e in capo
La Corte ha impiegato ampiamente belle sue decisioni lo strumento della Carta, in ragione dei
caratteri di vincolatività e superiorità gerarchica sanciti dall’art. 6 TUE. Alla luce dell’assetto delle
fonti delineato in base a tale articolo, infatti, quando sono entrate in gioco questioni inerenti ai
diritti fondamentali nella giurisprudenza dell’UE, la Carta ha svolto la funzione di parametro di
validità e di parametro di interpretazione degli atti dell’UE.
Merita di essere sottolineato a questo riguardo che, i giudici dell’UE impiegano la Carta come
principale parametro di riferimento per valutare la validità e stabilire la corretta interpretazione
egli atti dell’UE. Si tratta di un mutamento giurisprudenziale evidente rispetto al periodo in cui la
Carta non aveva valore formalmente vincolante: prima del Trattato di Lisbona, infatti, la Corte
Una questione che attualmente pare di minore attualità rispetto al recente passato è la possibilità che
l’UE aderisca formalmente alla CEDU, come parte contraente. L’art. 6 TUE abilita l’UE stessa a
entrare a far parte di tale Convenzione, con una formulazione invero non chiarissima: nella versione
italiana, l’UE “aderisce” alla CEDU. In realtà questa disposizione, non po’ unilateralmente
disporre che l’UE diventi parte di un trattato (la CEDU) stipulato tra un gruppo diverso di Paesi
(ossia i 47 Stati europei che sono ad oggi contraenti della CEDU, tra i quali vi sono i 28 Stati
Fanno parte del diritto dell’UE anche gli accordi internazionali stipulati dall’UE. Tali accordi, ai
sensi dell’art. 216 TFUE, “vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri”, e alle norme in
essi contenute la Corte di giustizia ha riconosciuto un rango intermedio tra diritto primario e diritto
derivato dell’UE. La vincolatività di questi accordi per l’UE dipende non solo dall’art. 216 TFUE,
ma anche dalle norme di diritto internazionale generale cui l’UE è sottoposta e in particolare della
consuetudine internazionale “pacta sunt servanda” –in base alla quale i trattati internazionali sono
una fonte di vincoli giuridici per le parti contraenti-. Nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento
dell’UE, essi si pongono in una situazione di preminenza rispetto al diritto derivato dell’UE, cioè
agli atti emanati dalle sue istituzioni. Di conseguenza, un atto dell’UE contrario ad un accordo
internazionale dell’UE può essere annullato dalla Corte di giustizia, nonché generare una
responsabilità dell’UE per risarcimento del danno provocato ai singoli, oltre, ovviamente, ad una
responsabilità dell’UE stessa sul piano internazionale nei confronti delle altre parti contraenti
dell’accordo violato. Gli atti di diritto derivato dell’UE devono quindi, per quanto possibile, essere
interpretati alla luce degli accordi internazionali dell’UE, proprio per cercare di evitare che la loro
applicazione generi contrasti di questo tipo.
Gli accordi stipulato dall’UE si collocano, invece in posizione subordinata rispetto al diritto
primario dell’UE, in particolare alle norme del TUE e del TFUE, le quali prevalgono sugli impegni
internazionali contrastanti. Anche nei confronti dei principi generali di diritto dell’UE gli accordi
internazionali dell’UE sono stati collocati dalla Corte in una posizione subordinata. La Corte di
giustizia esercita quindi il controllo di legittimità sugli accordi stessi, o per essere più precisi sui
relativi atti dell’UE di conclusione o di applicazione.
La violazione di norme di diritto interno di una parte contraente non incide sull’efficacia degli
accordi internazionali, e quindi non fa venire meno gli impegni assunti sul piano internazionale nei
confronti delle altre parti contraenti. Del resto, la sentenza pronunciata dai giudici dell’UE non può
Come ogni ordinamento giuridico, anche il diritto primario dell’UE contiene delle norme sue
proprie sulla produzione giuridica, che stabiliscono procedure e competenze per l’emanazione di
atti normativi. Le fonti secondarie sono per l’appunto rappresentate da atti emanati dalle sue
istituzioni e costituiscono il c.d. diritto derivato dell’UE, comprensivo sia degli atti tipici che di
vari esempi di atti atipici. L’art. 288 TFUE rappresenta la principale norma a questo riguardo; non
a caso essa si apre con un richiamo implicito al principio di attribuzione. Agli atti indicati in tale
articolo ci si riferisce come “atti tipici”. Le istituzioni dell’UE emanano, inoltre, altri atti, definiti
atipici, che in genere si sono affermati nella prassi dell’UE.
I Trattati indicano quali atti possono essere adottati dalle istituzioni dell’UE in diversi casi, a volte
lasciando discrezionalità nella scelta tra atti diversi. L’art. 296 TFUE specifica che, quando i
Trattati non prevedono il tipo di atto da adottare, le istituzioni dell’UE lo decidono di volta in volta.
In base al principio di attribuzione, le istituzioni dell’UE possono emanare un atto avente valore
normativo “minore” di quello previsto dai Trattati, ma non uno avente valore normativo
“maggiore”.
39.1. I regolamenti.
L’art. 288 TFE individue tre caratteristiche generali dei regolamenti: essi hanno portata generale,
sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati
membri.
Il requisito della portata generale implica che i destinatari dei regolamenti debbano essere una o
più categorie di soggetti. La qualifica di destinatari del regolamento deve dipendere da circostanze
obiettive e la norma regolamentare deve avere il carattere dell’astrattezza, e quindi deve
prescindere da singoli casi concreti. Per fare un esempio, è stato affermato che un provvedimento
dell’UE che fissi il prezzo dello zucchero in un determinato periodo, o che sottoponga a
determinate condizioni la concessione di aiuti ai produttori di pere, rimane un regolamento anche se
in quel determinati periodo i produttori di zucchero o di pere siano singolarmente individuabili. Se,
invece, i destinatari di un atto dell’UE, oltre che individuabili, sono tali in virtù di una loro specifica
situazione soggettiva e, quindi, il provvedimento li concerne direttamente e individualmente, il
procedimento stesso è in effetti una decisione aventi una molteplicità di destinatari individuali.
Questo “smascheramento” è rilevante in concreto, in quanto può consentire ad una persona fisica
39.2. Le direttive.
La direttiva, ai sensi dell’art. 288 TFUE, vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda
il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali per quanto riguarda
la forma e i mezzi necessari a tale scopo. Nell’ordinamento dell’UE la direttiva è un atto meno
invasivo nella sovranità degli Stati membri rispetto al regolamento, ed è maggiormente in linea con
i principi di sussidiarietà e proporzionalità. Essa, infatti, permette l’esplicazione del momento
normativo a livello dell’UE per la parte che più conta, vale a dire l’identificazione del risultato da
raggiungere, con il minor sacrificio possibile della sovranità degli Stati, che restano liberi di
determinare la forma e i mezzi necessari. Vengono così salvaguardate alcune differenze tra i
sistemi giuridici degli Stati membri. Piuttosto, le direttive possono costituire un atto idoneo ad
avvicinare progressivamente le legislazioni degli Stati membri. Non si deve però pensare che la
direttiva sia un atto parzialmente vincolante, non è così, in quando la direttiva è atto, al pari del
regolamento, completamente vincolante per quanto riguarda il suo contenuto, solo che quest’ultimo
ha carattere programmatico perché la direttiva deve formare oggetto di un atto nazionale di
recepimento. La differenza tra i due atti, può tendere a sfumare in concreto qualora ci si trovi di
fronte ad una direttiva particolarmente dettagliata. Si è assistito infatti all’emanazione di un numero
sempre crescente di c.d. “direttive dettagliate”, contenenti una disciplina talmente articolata da
lasciare poco o nessuno spazio all’esercizio del potere discrezionale degli Stati in sede di
determinazione delle forme e dei mezzi per il raggiungimento del risultato voluto.
Le direttive sono indirizzate agli Stati membri, a tutti o solo ad alcuni di essi. Il fatto di porre
obblighi di risultato in capo agli Stati destinatari è una caratteristica che avvicina le direttive ai
tipici atti delle organizzazioni internazionali. Le direttive, in questa prospettiva, necessitano
dell’adozione di misure di attuazione nel diritto nazionale da parte degli Stati. Il termine di
attuazione è un elemento fondamentale della direttiva. Prima della scadenza del termine, gli Stati
membri hanno solo l’obbligo di non porre in essere misure interne tali da pregiudicare gli effetti
della direttiva una volta attuata. Entro la scadenza, gli Stati membri, inoltre, sono obbligati a
comunicare alla Commissione sia le proposte di provvedimenti interni di attuazione, sia i
provvedimenti stessi una volta adottati. Quest’ obbligo di notifica è stato anch’esso desunto
dall’obbligo di leale cooperazione. Dal momento della scadenza del termine per il recepimento, in
caso di mancata o inesatta attuazione si verifica una violazione da parte dello Stato dell’obbligo di
recepimento, che come vedremo può portare ad un ricorso per infrazione contro lo Stato
inadempiente. È solo dalla scadenza di tale termine, inoltre, che può porsi il problema di valutare
l’idoneità di alcune norme della direttiva ed avere effetti diretti. All’obbligo di attuazione gli Stati
membri non possono sottrarsi adducendo l’inadempimento da parte di altri Stati, o l’assenza di
effetti negativi sul funzionamento del mercato comune, ovvero richiamandosi al proprio diritto
interno. L’omissione delle misure di attuazione delle direttive espone gli Stati inadempienti al
ricorso alla Corte di giustizia da parte della Commissione o da parte di un altro Stato membro.
L’art. 260 TFUE prevede, specificamente e solo per l’ipotesi in cui uno Stato membro non
comunichi le misure di attuazione di una direttiva legislativa, la possibilità che la Corte di giustizia
gli infligga una sanzione pecuniaria sin dalla prima sentenza che accerti l’infrazione.
Inoltre, proprio a partire da un caso di mancata attuazione di una direttiva la Corte ha elaborato il
diritto dei singoli a richiedere il risarcimento dei danni agli Stati membri inadempienti. La Corte
di giustizia ha insistito sulla necessità che l’attuazione delle direttive avvenga nel rispetto delle
39.3. Le decisioni
L’arti 288 TFUE menziona anche altri due atti, le raccomandazioni e i pareri, limitandosi a
specificare che essi non sono vincolanti. Le raccomandazioni costituiscono un atto di comune
utilizzo nelle organizzazioni internazionali, in quanto, attraverso di esse, gli organi di
un’organizzazione internazionale cercano di ottenere un determinato comportamento da parte degli
Stati membri con il minimo sacrificio della sovranità di questi ultimi. È un atto, quindi, che incontra
minori resistenze da parte degli Stati ed è perfettamente coerente con il carattere volontario del
vincolo associativo tra i membri di un’organizzazione internazionale e con il principio di
attribuzione. Per converso, è un atto meno utilizzato all’interno degli Stati. Nel diritto dell’UE, il
potere generale di emanare raccomandazioni è attribuito al Consiglio e alla Commissione, mentre la
BCE può adottare raccomandazioni quando i Trattati lo prevedono. Le raccomandazioni sono in
genere volte a ottenere che il destinatario adotti un determinato comportamento,
indirizzandogli indicazioni non vincolanti. Esse possono essere ammesse sia nei confronti di Stati,
che di privati, che, infine, di altre istituzioni dell’UE. Esempi di raccomandazioni interorganiche
sono quelle indirizzate dal Consiglio al Parlamento europeo in materia di esecuzione del bilancio, o
quelle che la Commissione o l’Alto rappresentate dell’Unione per gli affari esteri e la politica di
sicurezza presentano al consiglio per essere autorizzati ad aprire negoziati internazionali. Le
raccomandazioni, pur non essendo vincolanti, non sono prove di conseguenze giuridiche. La
principale conseguenza è stata individuata nel c.d. “effetto di liceità”, vale a dire nella
legittimazione del comportamento dello Stato che si conformi alla raccomandazione. Ciò è vero
anche in relazione alle raccomandazioni del diritto dell’UE. Anzitutto, la Corte di giustizia ha
precisato che i giudici nazionali devono prendere in considerazione le raccomandazioni ai fini dell’
interpretazione di norme interne, per la soluzione delle controversie sottoposte al loro giudizio.
Inoltre, a volte la rilevanza giuridica della raccomandazione è indicata nei Trattati stessi. È il caso
delle raccomandazioni che la Commissione può rivolgere allo Stato che intenda emanare una
disposizione suscettibile di creare una distorsione del mercato interno. La mancata osservanza di
tale raccomandazione ha, come effetto di liceità, che lo Stato inadempiente resterà esposto alle
misure nazionali degli altri Stati membri che eventualmente lo pregiudichino.
Mentre le raccomandazioni tendono, in genere, ad ottenere che il destinatario adotti un determinato
comportamento, i pareri sono atti attraverso i quali l’organo che li emette precisa la sua posizione
su una determinata materia. Essi hanno per lo più natura interorganica, pur con vistose eccezioni.
Come già detto, l’emanazione di un parere è uno dei modi attraverso i quali il Parlamento europeo
e altre istituzioni partecipano al processo decisionale dell’UE nella procedura legislativa speciale. Il
39.6. Motivazione, base giuridica e altri requisiti formali degli atti dell’UE.
L’emanazione degli atti dell’UE deve sottostare ad alcuni requisiti formali, perlopiù precisati dagli
art.. 296 e 297 TFUE, in mancanza dei quali l’atto risulta viziato sotto il profilo della violazione
delle forme sostanziali ed è quindi passabili di essere dichiarato nullo ai sensi dell’art. 296 TFUE. Il
primo di tali requisiti è la motivazione, necessaria per tutti gli atti giuridici dell’UE. Per atti
giuridici vanno intesi quelli produttivi di conseguenze giuridiche, con esclusione degli atti a mera
rilevanza politica. Essa si esprima normalmente nei c.d. “considerando” costituiti da paragrafi
numerati. L’esposizione delle ragioni alla base delle varie norme, da parte dell’istituzione da cui
l’atto promana, costituisce un valido ausilio interpretativo per i soggetti chiamati ad applicare
l’atto medesimo. Anche se non espressamente richiesto dai Trattati, un elemento fondamentale della
motivazione è costituito dall’indicazione della base giuridica dell’atto, che è costituita da una o più
disposizioni dei Trattati che devono essere specificate nel preambolo di ciascun atto. Questo
La grande rilevanza che il diritto dell’UE ha progressivamente assunto è dovuta anche, in buona
misura, a due caratteristiche fondamentali e peculiari: l’efficacia diretta per i singoli di molte sue
norme e il primato sui diritti nazionali degli Stati membri. Si deve alla giurisprudenza della corte
di giustizia l’affermazione di tali caratteri, che si avvicinano molto a caratteristiche proprie dei
a) Il primo caso in cui la Corte ha affermato che un singolo può avvalersi direttamente di una norma
di diritto dell’UE contro un’amministrazione statale, ha avuto ad oggetto una norma dei Trattati,
che poneva un obbligo in capo agli Stati membri. come i è detto, ciò è avvenuto nella sentenza van
Gend & Loos. L’impresa olandese si era vista applicare, dalle autorità doganali olandesi, un dazio
all’importazione superiore a quello in vigore alla data di entrata del Trattato CEE. Ciò era in
contrasto con l’allora art. 12 CEE, che imponeva agli Stati membri l’obbligo di non aumentare i
dazi doganali in vigore tra di essi. Pertanto, quando la ditta van Gend & Loos si rivolse ad un
tribunale olandese contestando l’incremento del dazio, la posizione del Governo olandese u che
l’art. 12 CEE non conferiva alcun diritto ai singoli, ma appariva rivolto solo agli Stati membri. Il
giudice olandese sospese il procedimento e sottopose alla Corte di giustizia la questione. La Corte
non ebbe dubbi in proposito: essa affermò che l’ordinamento comunitario “riconosce come soggetti
non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini”. Secondo questa ricostruzione, una norma
del Trattato, come può porre degli obblighi a carico dei privati, così può attribuire loro dei
diritti. Successivamente, una serie di sentenze della Corte ha riconosciuto l’attitudine a produrre
effetti diretti per i singoli ad altre norme dei Trattati, che pure apparivano volte solo a porre divieti
in capo agli Stati membri. In tutti i casi, i singoli hanno potuto fare valere dinnanzi alle autorità
nazionali l’inosservanza da parte degli Stati membri delle relative norme dei Trattati rivolte agli
Stati stessi, tra cui il divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità, il divieto di dazi doganali
tra gli Stati membri, l’obbligo degli Stati membri di garantire la libera circolazione delle merci
anche in presenza di monopolo commerciali, la libera circolazione dei lavoratori, la libertà di
stabilimento… Dalla suddetta giurisprudenza si rileva che la Corte ha attribuito diretta efficacia per
i singoli sulla base di un esame volto a rilevale i necessari requisiti di chiarezza e precisione, e il
loro carattere incondizionato. La Corte, per corroborare il giudizio di adeguatezza di norme dei
Trattati a produrre effetti diretti, ha spesso richiamato il principio dell’effetto utile, sostenendo che
senza un’efficacia diretta le norme stesse non sarebbero state in grado di raggiungere il loro scopo.
Quando, invece, le norme dei Trattati lasciano alle istituzioni dell’UE o agli Stati membri un
consistente margine di discrezionalità, oppure sono troppo generiche, tale efficacia diretta è negata
alla Corte.
L’efficacia diretta per i singoli, così riconosciuta dalla Corte a norme dei Trattati rivolte agli Stati
membri, è “ verticale”, nel senso che conferisce al singolo la possibilità di far valere i diritti
nascenti da tali norme nei confronti della pubblica autorità. In alcuni casi, è stata riconosciuta
anche un’ efficacia diretta “orizzontale”, nel senso, cioè, che è stato garantito al singolo il diritto
di far valere la norma dei Trattati dinanzi ad un giudice nazionale anche nei rapporti con altri
privati. Come si è detto, infatti, i Trattati hanno tra i propri destinatari anche i singoli, pertanto, a
norme dei Trattati che pongono divieti di restrizioni sul mercato interno è stata riconosciuta
l’attitudine a spiegare effetti anche nei confronti dei singoli, con la conseguenza che eventuali
pattuizioni private che pongano restrizioni di questo genere non possono avere effetto, e il giudice
non può ordinarne l’osservanza. Ciò è avvenuto, ad esempio, per il contrasto con le regole di
concorrenza che sono rivolte alle imprese private. In senso analogo si possono ricordare altre
Un discorso analogo a quello fatto per l’efficacia diretta per i singoli delle norme dei Trattati vale
per l’efficacia diretta dei regolamenti. L’efficacia diretta di questi atti è prevista dai Trattati. Gli
Stati membri, hanno consentito a fare sostituire la disciplina nazionale dalla disciplina dettata
dall’’UE. L’applicabilità diretta dei regolamenti implica anche la loro attitudine a costruire
direttamente situazioni giuridiche soggettive in capo ai soggetti degli ordinamenti interni (cioè la
loro idoneità ad avere efficacia diretta). Ciò si verifica in particolare con riguardo alle norme che
non richiedano misure attuative o integrative da parte delle istituzioni dell’UE o da parte degli Stati
membri. comunque, anche qualora un regolamento nel suo insieme richieda l’adozione di tali
Quanto alle direttive, la loro stessa natura di norme che necessitano di disposizioni da attuare da
parte degli Stati membri che ne sono destinatari sembrerebbe, escludere a priori la possibilità che
venga loro riconosciuta efficacia diretta per i singoli. Questa è stata, infatti, l’opinione inizialmente
espressa dalla dottrina e dalle giurisdizioni nazionali. Ben presto, però, la Corte di giustizia ha
ribaltato questo orientamento, con una serie di sentenze che hanno finito con l’affermare
l’attitudine a produrre effetti diretti per i singoli anche di norme contenute in direttive, seppure a
condizioni ben determinate. La premessa generale di cui la Corte è partita è stata, anche in questi
casi, l’applicazione del principio dell’effetto utile, ai sensi del quale un atto deve essere
interpretato in modo da poter raggiungere il suo scopo. Occorre comunque precisare che
l’emanazione delle disposizioni di attuazione resta pur sempre un obbligo per gli Stati stessi, e
proprio per questo sarebbe poco coretto parlare di “diretta applicabilità” per le direttive, posto che
l’accezione riguarda principalmente il fatto che i regolamenti non richiedono atti di esecuzione da
parte degli Stati membri. Per le direttive, invece, il fatto di poter accordare effetti diretti ad alcune
disposizione in esse contenute, è solo un rimedio suppletivo e temporaneo rispetto all’emanazione
di atti di completo ed esatto recepimento. L’efficacia diretta delle norme di una direttiva per i
singoli è sempre stata stabilita, da parte della Corte di giustizia, a seguito di un esame volt ad
individuare quali disposizioni in essa contenute potessero essere fatte valere dai singoli senza la
necessità di attendere l’emanazione di provvedimenti di attuazione. Ai requisiti di chiarezza,
precisione e incondizionatezza, si aggiunge specificamente per le direttive un altro requisito: la
previa scadenza del termine previsto per il loro recepimento, senza che lo Stato abbia adottato i
provvedimenti necessari. In questa prospettiva la Corte ha concretamente riconosciuto ai singoli la
possibilità di far valere i precetti di una direttiva non attuata dagli Stati destinatari. Ciò è
concretamente avvenuto nel caso in cui la direttiva imponga agli Stati membri obblighi stabiliti in
precetti completi, che le autorità statali possono applicare senza la necessità di ulteriori
specificazioni da parte degli Stati. La maggioranza delle sentenze riguardano casi che, in definitiva,
Per quanto riguarda l’efficacia diretta per i singoli delle decisioni , occorre distinguere a seconda
che i destinatari siano degli individui o degli Stati. Le decisioni rivolte a singoli soggetti sono
idonee a produrre effetti diretti, in relazione alle disposizioni che abbiano gli uguali caratteri della
chiarezza, precisione e incondizionatezza. In ordine alle decisioni rivolte agli Stati, la Corte ha
riconosciuto da tempo che esse possono essere fatte valere direttamente dai singoli di fronte ai
giudici nazionali, quando l’obbligo imposto dalla decisione allo Stato è dotato dei requisiti
dell’efficacia diretta, come lo è, ad esempio, l’obbligo di non facere. La Corte di giustizia ha di
recente precisato che anche le decisioni rivolte agli Stati possono essere invocate dai privati solo nei
confronti degli Stati (sul piano verticale), e non nei rapporti (orizzontali) tra privati, poiché solo
gli Stati membri ne sono i destinatari.
Tra le decisioni rivolte agli Stati che sono gravide di conseguenze negative per gli individui, un
rilievo particolare hanno le “decisioni di recupero” con cui la Commissione ordina ad un Stato
membro di recuperare determinati aiuti erogati in violazione delle norme dell’UE sugli aiuti di
Stato. Lo Stato destinatario della decisione è tenuto a farsi restituire l’aiuto dalle imprese
Efficacia diretta per i singoli, invece, è stata riconosciuta dalla Corte a norme contenute in accordi
internazionali conclusi dall’UE con Paesi terzi, sempre a condizione che tali norme fossero
sufficientemente precise e incondizionate. Come si è detto, tali accordi fanno parte a pieno titolo
dell’ordinamento dell’UE e quindi può porsi il caso in cui soggetti privati intendano avvalersi in
giudizio di alcune clausole in essi contenute. Ciò è avvenuto, per esempio, in relazione alle norme
che vietano l’applicazione di imposte differenti sui prodotti dei Paesi contraenti, contenute negli
accordi conclusi tra UE e, rispettivamente, Grecia e Portogallo, prima della loro ammissione
all’UE. Tra le altre norme di Trattati internazionali dell’UE che sono state considerate dotate di
effetti diretti, si possono ricordare le disposizioni dell’Accordo CEE-Marocco sulla non
discriminazione tra cittadini dei Paesi contraenti nell’accesso all’assistenza sociale.
Vero è, comunque, che la Corte ha manifestato una certa selettività nell’ammettere l’idoneità di
norme di accordi internazionali dell’UE ad essere invocate in giudizio dai privati per contestare la
legittimità di norme nazionali. In alcuni casi, il diniego di effetti diretti si è basato su considerazioni
relative non solo ai caratteri di chiarezza, precisione e incondizionatezza delle norme invocate, la
Corte impiega come parametri ulteriori la natura, la struttura e lo spirito dell’accordo.
Queste valutazioni della Corte hanno avuto l’effetto di rendere meno rigidi i vincoli nascenti per
l’UE da alcuni degli accordi in questione. L’approccio della Corte sembra riservare alle autorità
dell’UE e degli Stati membri un margine di discrezionalità nelle scelte relative all’esecuzione
degli impegni internazionali, che viene invece limitato nei diversi casi in cui la Corte riconosce
l’attitudine ad avere diretta efficacia. L’efficacia diretta, se riconosciuta nell’UE, può pero creare
uno squilibrio rispetto agli Stati terzi contraenti, nei casi in cui essi non ammettano un analogo
controllo giudiziale interno sul rispetto degli impegni pattizi. Quest’ultima logica di reciprocità
pervade la giurisprudenza dell’UE in merito specificamente agli Accordi internazionali che
regolano il commercio su scala globale, di cui l’UE è parte in ragione della sua competenza
esclusiva in materia commerciale, ossia in primo luogo in merito all’Accordo GATT 1947. Altri
Paesi tra i partners commerciali più rilevanti dell’Unione (in primis USA e Giappone) non
riconoscono la diretta efficacia del diritto del GATT-OMC negli ordinamenti interni, il che preclude
in linea di massima la possibilità di invocarne il rispetto innanzi ai giudici interni di tali Stati anche
da parte di imprese dell’UE che operano in questi mercati. Il diniego di effetti diretti da parte della
Corte di giustizia rispetto a questo complesso di Accordi evita quindi che la concessione unilaterale
di effetti diretti nell’UE avvantaggi le imprese straniere nel mercato europeo, in assenza di
un’analoga concessione da parte di altri membri importanti dell’OMC (Organizzazione mondiale
del Commercio). L’efficacia diretta per i singoli è stata, pertanto, negata dalla Corte di giustizia,
anche con riguardo a norme che pure avrebbero avuto caratteri di chiarezza, precisione e
incondizionatezza. Questa giurisprudenza è stata estesa dalla Corte anche alla fattispecie
dell’inottemperanza, da parte dell’UE, ad una decisione “di condanna” adottata dall’organo di
soluzione delle controversie dell’OMC nei confronti dell’UE medesima: malgrado l’incompatibilità
di un atto dell’UE con gli Accordi OMC, l’accertamento della violazione degli Accordi non è stato
considerato di per sé causa di annullamento di atti dell’’UE in cui tale violazione si concretizzava.
A motivazione di questa decisione la Corte ha sottolineato che è opportuno che alle istituzioni
41. Il primato del diritto dell’UE sui diritti interni degli Stati membri.
Il diritto dell’UE è destinato a spiegare la sua efficacia nell’ambito degli Stati membri accanto ai
diritti interni di questi ultimi. Le norme dell’ordinamento dell’UE, pertanto, sono suscettibili di
entrare in conflitto on i diritti interni, nelle situazioni in cui si riscontri l’incompatibilità tra le
rispettive discipline normative. Questi potenziali conflitti sono stati risolti sulla base
dell’affermazione del primato del diritto dell’UE, primato stabilito sia nei confronti delle norme
interne anteriori che di quelle posteriori alle norme dell’UE. Il riconoscimento ormai consolidato
del primato è opera della giurisprudenza della Corte di giustizia, posto che questo principio non è
presente nei Trattati.
Il primato del diritto dell’UE sui diritti interni è stato per la prima volta affermato nella Corte di
giustizia nella fondamentale sentenza Costa c. ENEL. Un avvocato italiano, Flaminio Costa,
ritenendo che la legge italiana con cui veniva nazionalizzata l’energia elettrica e l’istituto ENEL
fosse contraria ad alcune nome dell’allora Trattato CEE sui monopoli nazionali a carattere
commerciale, si rifiutò di pagare una fattura dell’ENEL, con la conseguente instaurazione di un
contenzioso davanti al giudice conciliatore di Milano. Dinanzi a tale Corte il Governo italiano, oltre
a difendere la conformità al Trattato CEE dalla legge istitutiva dell’ENEL, fece valere il fatto che
quest’ultima, in ogni caso, era posteriore alla legge di ratifica ed esecuzione del Trattato CEE e
quindi doveva prevalere sul testo di tale Trattato in base al principio della successione delle leggi
nel tempo. La Corte di giustizia, che aveva da poco enunciato il principio dell’efficacia diretta per i
singoli di alcune norme dell’ordinamento dell’UE, colse l’occasione per affiancarvi un altro
principio cardine, cioè quello del primato della norma dell’ordinamento dell’UE su quella
interna, anche posteriore. La sentenza Costa c. ENEL della Corte di giustizia sancisce che nelle
materie oggetto dei Trattati, gli Stati membri “hanno limitato i loro poteri sovrani e creato, quindi,
un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi”. Gli Stati membri non
possono quindi sottrarsi agli obblighi in vigore in un ordinamento giuridico, qual è quello dell’UE,
da essi stessi accettato su base di reciprocità. In quest’ottica, un provvedimento incompatibile con i
Trattati non potrebbe prevalere sulle disposizioni dell’ordinamento comunitario. La sentenza
chiarisce anche come il primato sia indispensabile per garantire l’efficacia diretta del diritto
dell’UE: se il diritto di uno Stato membro rappresentasse un ostacolo all’efficacia di norme dell’UE
che dispongono diversamente, questa situazione rappresenterebbe un grave impedimento non solo
alla tutela dei privati, ma anche in generale all’applicazione uniforme de diritto dell’UE
nell’Unione europea. (Vedi caso Simmental)Dall’affermazione del primato del diritto dell’UE sui
diritti interni degli Stati membri, poi, la Corte fece discendere l’inapplicabilità ipso jure, a partire
dall’entrata in vigore dei Trattati, di ogni norma interna esistente a tale data incompatibile con
norme dell’ordinamento dell’UE direttamente applicabili, nonché, l’impossibilità di “valida
formazione” di norme interne successive incompatibili con le norme dell’UE. Ne discendeva,
secondo la Corte, l’obbligo per i giudici competenti di applicare integralmente il diritto dell’UE e
di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, “disapplicando all’occorrenza qualsiasi
Come si è visto, l’efficacia diretta delle norme di diritto dell’UE incontra delle limitazioni: da un
lato in quanto deve essere accordata dai giudici e dalle amministrazioni nazionali solo nel caso in
cui il precetto contenuto nelle norme stesse sia sufficientemente preciso e abbia carattere
incondizionato; d’altro lato perché per quanto riguarda specificamente le norme poste dalle direttive
non attuate la loro efficacia è circoscritta sul piano soggettivo, potendo essere invocate solo nei
confronti delle autorità degli Stati membri e non nei rapporti tra i privati.
La Corte di giustizia nel corso degli anni ha dimostrato una notevole attenzione all’esigenza di dare
piena effettività a quanto stabilito dal diritto dell’UE. In questa prospettiva, i giudici dell’UE hanno
elaborato delle soluzioni volte a favorire la possibilità che negli ordinamenti degli Stati membri sia
assicurata una “tutela giurisdizionale effettiva”, e nello stesso tempo per promuovere il rispetto del
diritto dell’UE da parte degli Stati membri. Va letta in tal senso l’affermazione da un lato
dell’obbligo di interpretare il diritto interno in conformità al diritto dell’UE, dall’altro dell’obbligo
di tutela risarcitoria del singolo per le violazioni di diritto dell’UE.
Si tratta di sviluppi giurisprudenziali per indicare i quali si è diffusa la definizione di “effetti
indiretti”, chiaramente per accostarli agli effetti diretti delle norme di diritto dell’UE e distinguerli
da questi ultimi.
42.2. Il diritto al risarcimento dei singoli per le violazioni del diritto dell’UE da parte degli
Stati membri.
Il principio generale dell’obbligo del risarcimento per le infrazioni al diritto dell’UE non trova
un’esplicita base normativa nei Trattati, e discende dall’opera “creativa” della Corte di giustizia, a
partire dall’affermazione per cui questo principio è “inerente al sistema del Trattato”. Si tratta di
un principio considerato a pieno titolo tra i più rilevanti nell’ordinamento giuridico dell’Unione
europea. In generale, la possibilità di agire per ottenere un risarcimento del danno si collega al ruolo
chiave che i giudici nazionali svolgono sia nella protezione delle posizioni dei singoli, sia,
nell’assicurare il rispetto degli obblighi che il diritto dell’UE pone in capo agli Stati membri. Sotto
il primo profilo, il rimedi dell’azione che il danneggiato può proporre contro uno Stato costituisce
uno dei principali strumenti a disposizione del giudice nazionale per garantire la tutela dei diritti
nascenti dal diritto dell’UE in capo ai singoli. Sotto il secondo profilo, ovviamente strettamente
interconnesso, la tutela risarcitoria costituisce, insieme all’efficacia diretta e all’obbligo di
interpretazione conforme, uno tra gli strumenti potenzialmente più efficaci con cui i privati possono
concorrere a spingere gli Stati a garantire l’effettività del diritto dell’UE.
La pronuncia di riferimento – la famosa sentenza Francovich- riguardava la mancata trasposizione
nell’ordinamento italiano della direttiva che –a tutela dei lavoratori subordinati- prevedeva che ogni
Stato membro istituisse un fondo di solidarietà per il caso di insolvenza del datore di lavoro nel
pagamento delle retribuzioni. Oggi tale fondo in Italia è istituito presso l’INPS, ma per anni il
nostro Paese è rimasto inadempiente rispetto a questa disposizione di diritto dell’UE. Una serie di
lavoratori dipendenti aveva chiesto l’applicazione diretta delle previsioni della direttiva, e quindi la
condanna dello Stato italiano a pagare le somme in essa previste, anche in assenza della creazione
del fondo suddetto. La Corte considerava che le disposizioni delle direttiva non avessero la
sufficiente chiarezza e precisione per essere dotata di efficacia diretta, in quanto non precisavano
quale fosse il soggetto obbligato a garantire il pagamento. A questa prima parte della sentenza, però,
la Corte faceva seguire una seconda parte che ha avuto una portata dirompente, ossia quella in cui
44. Il controllo sugli inadempimenti degli Stati membri attraverso il ricorso per infrazione.
La Corte di giustizia esercita innanzitutto un controllo sul rispetto da parte degli Stati membri degli
obblighi derivanti dai Trattati o dagli atti dell’UE, con una competenza esclusiva. L’inadempimento
rispetto a tali obblighi può dare luogo ad una procedura d’infrazione contro lo Stato membro
inadempiente, su ricorso della Commissione o di un altro Stato membro. Questa forma di sindacato
giurisdizionale è un altro elemento che sottolinea quanto avanzata sia l’integrazione realizzata
nell’UE rispetto ad altre forme di organizzazione internazionale.
Nell’ambito dell’UE, la condizione di Stato membro comporta obbligatoriamente la sottoposizione
alla giurisdizione della Corte di giustizia. In questa prospettiva, in particolare, gli Stati membri sono
tenuti a sottoporre alla Corte le loro controversie sull’interpretazione ed applicazione dei Trattati.
Quindi non è ammessa per gli Stati membri la possibilità “di farsi giustizia da sé” attraverso l’uso di
contromisure previste dal diritto internazionale. Gli arti. 258, 259, 260 TFUE contemplano la
procedura generale di controllo sugli inadempimenti degli Stati attraverso il giudizio sui ricorsi per
infrazione. Lo Stato è da considerarsi inadempiente qualora abbia violato qualsiasi norma del diritto
primario o secondario dell’UE. È attribuibile ad uno Stato membro la violazione commessa da parte
di uno qualsiasi dei suoi organi, nonché di enti locali o enti territoriali autonomi. Motivazioni di
45. Il controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni dell’UE e il ricorso in carenza.
La funzione di controllo giudiziario nell’ambito dell’UE si esercita anche nei confronti degli atti
delle sue istituzioni, i quali possono essere sottoposti ad un giudizio di legittimità da parte della
Corte di giustizia dell’Union europea, alle condizioni previste dagli art. 263 e 264 TFUE. Questa
funzione della Corte è una manifestazione concreta ed evidente del rispetto della rule of law
nell’ordinamento dell’UE, ossia del fatto che le attività degli organi dotati dei poteri normativi ed
esecutivi devono svolgersi nel pieno rispetto del diritto dell’UE. Inoltre, questo potere di controllo
in capo all’apparato giudiziario è un’altra particolarità dell’ordinamento dell’UE sulla scena
internazionale (nell’ONU, per esempio, non è previsto un meccanismo per il controllo di legittimità
degli atti dell’organizzazione).
La competenza ad annullare gli atti dell’UE è riservata alla Corte ed è preclusa ai giudici nazionali,
i quali non hanno potere di accertare la legittimità di un atto dell’UE che sono chiamati ad
applicare, poiché eventuali divergenze nelle decisioni dei vari giudici comprometterebbero l’unità
dell’ordinamento giuridico dell’UE e la certezza del diritto. Nel caso di un dubbio sulla legittimità
di un atto dell’UE, il giudice nazionale è tenuto a sottoporre alla Corte di giustizia un quesito
pregiudiziale di validità. Esamineremo, nell’ordine:
a) l’oggetto del ricorso alla Corte,
b) i motivi per cui può essere sottoposto,
c)i soggetti legittimati a proporlo,
d) i termini per la sua proposizione
e)le sue conseguenze, prima di passare
f) all’esame del ricorso in carenza e
g) gli effetti delle sentenze che fanno seguito ai due ricorsi.
a) Quanto all’oggetto del controllo di legittimità della Corte, ai sensi dell’art. 263 TFUE esso si
esercita “sugli atti legislativi, sugli atti del Consiglio, della Commissione e della Banca centrale
europea che non siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del Parlamento europeo e del
Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi”. La norma specifica
che sono soggetti al controllo di legittimità anche tutti gli atti degli altri organi o organismi dell’UE.
Circa la nozione di atto impugnabile, la Corte ha chiarito che la definizione non deve portare a
comprendere solo i regolamenti, le direttive e le decisioni, ma va intesa nel senso più ampio, in
modo da includere “tutte le disposizioni adottate dalle istituzioni (…) miranti a produrre effetti
giuridici”. Quindi, in casi specifici in cui ricorreva la suddetta condizione, sono stati considerati
impugnabili ad esempio: una comunicazione della Commissione in materia di aiuti degli Stati alle
Una delle competenze più importanti della Corte di giustizia, e anzi quella che dà costantemente
luogo al maggior numero di pronunce della Corte stesa, è costituita da una forma estremamente
importante di cooperazione con i giudici degli Stati membri. Questi ultimi possono infatti, e talora
devono, rivolgersi alla corte dell’UE perché risponda a questioni di interpretazioni di diritto
dell’UE. Ai sensi dell’ art. 267 TFUE, i Trattati affidano alla Corte di giustizia innanzitutto la
competenza esclusiva per risolvere le questioni di interpretazione del diritto dell’UE. In tal modo
si è evitato che tale diritto, calandosi nei vai ordinamenti interni, venisse interpretato in maniera
difforme da giudici nazionali provenienti da tradizioni giuridiche diverse. La Corte, attraverso
l’esercizio di tale competenza interpretativa, ha finito con lo svolgere un ruolo di “supplenza
normativa nei casi di inattività o lentezza delle istituzioni dell’UE, influendo in maniera decisiva sul
processo di integrazione europea. Al contempo, essa ha spesso colto l’occasione dell’esercizio di
tale su competenza per affermare alcuni principi cardine dell’ordinamento dell’UE, quali l’efficacia
diretta per i singoli e il loro primato sui diritti interni.
La competenza pregiudiziale spetta esclusivamente alla Corte di giustizia come unico giudice.
Tuttavia come ricordato, anche il Tribunale potrebbe avere in futuro la competenza pregiudiziale di
cui all’ art. 267 TFUE, pur se solo in determinate materie da specificarsi nello statuto della Corte.
Nelle ipotesi in cui sia eventualmente introdotta la competenza del Tribunale, quest’ultimo potrà
reputare che la soluzione di una questione ad esso sottoposta vada invece più opportunamente
rinviata alla Corte. Occorre esaminare separatamente:
a) l’oggetto del rinvio pregiudiziale,
b) la nozione di organo giurisdizionale legittimato ad effettuarlo
c) il procedimento dinanzi alla Corte di giustizia
d) gli effetti della sentenza di quest’ultima.
a) L’oggetto del rinvio può essere, anzitutto, una questione relativa all’ interpretazione dei Trattati,
o all’interpretazione di un atto compiuto dalle istituzioni, organi ed organismi dell’UE. Per “atto”
deve intendersi qualsiasi atto emanato dalle istituzioni, organi ed organismi suddetti,
indipendentemente dalla sua denominazione, dal suo carattere vincolante o meno e anche a
prescindere dall’eventuale efficacia diretta delle norme della cui interpretazione si tratta.
Tra le altre competenze della Corte di giustizia dell’UE, si può innanzitutto ricordare la competenza
di tipo contenzioso in ordine alle controversie tra l’UE e i suoi agenti e alle controversie tra gli
Stati membri. Sulla base dell’art. 270 TFUE, la Corte è competente in via esclusiva a conoscere
delle controversie tra l’UE e i suoi agenti, cioè di tutte le questioni concernenti la disciplina delle
carriere, le condizioni di lavoro, il trattamento economico e di tutte le persone che sono alle
dipendenze dell’UE. Il ricorrente deve avere un interesse personale, certo e attuale, ad agire. Ciò
risponde all’esigenza di sottrarre i funzionari internazionali ai possibili condizionamenti derivanti
dalla sottomissione alla giurisdizione di un giudice nazionale del loro Stato di appartenenza. Sotto
La questione dei rapporti tra l’ordinamento italiano e quello dell’Unione europea è stata affrontata
dalla nostra Corte costituzionale con un approccio diverso da quello della corte di giustizia. Al pari
di altri omologhi organi nazionali, la Corte costituzionale italiana in quadra la questione dei rapporti
tra due ordinamenti secondo una logica di tipo “dualista”, o internazionalista: in questa prospettiva,
l’efficacia del diritto dell’Unione europea nell’ordinamento interno dello Stato italiano si fonda
sull’accettazione volontaria da parte di quest’ultimo. La Corte di giustizia, invece, si è mossa nel
quadro di una concezione unitaria circa i rapporti tra diritto dell’UE e diritto interno, in una logica
che si può definire di stampo “ monista” e in una prospettiva sostanzialmente “pre-federalista”.
L’iter seguito dalla nostra giurisprudenza costituzionale, ha comunque portato ad una sistemazione
soddisfacente della questione. La questione merita di essere ripercorsa, perché consente di
comprendere e inquadrare anche i rapporti attuali tra i due ordinamenti e i rischi di contrasti che
pure possono ancora porsi, come ha dimostrato la recentissima vicenda nel “caso Taricco”. I
problemi che si sono posti per lungo tempo sono discesi in definitiva dalla circostanza che
l’adeguamento dell’ordinamento italiano ai Trattati è avvenuto con leggi ordinarie. Seguendo
la prassi corrente, il nostro legislatore ha infatti provveduto a tale adattamento con l’emanazione di
un ordine di esecuzione per ciascuno dei Trattati. Questa soluzione ha avuto ricadute problematiche,
anche se corrispondeva alla prassi comunemente usata nell’ordinamento italiano per procedere
all’adattamento ai trattati nazionali. Come chiariva la dottrina nazionale, infatti, una volta che un
trattato fosse stato immesso nel nostro ordinamento, il rango delle sue norme su di un piano formale
sarebbe stato coincidente con quello del provvedimento che vi aveva dato esecuzione, ossia in
genere con quello di legge ordinaria. Su questa base sarebbero stati regolati i rapporti tra le norme,
50. Il difficoltoso percorso della giurisprudenza costituzionale; l’art. 11 e l’art. 117, comma 1,
della Costituzione.
Venendo alla giurisprudenza, il percorso dei nostri giudici costituzionali nell’affrontare il problema
è stato quantomeno travagliato. La Corte costituzionale ebbe ad occuparsi per la prima volta della
questione con la sentenza del 1964, Costa c. ENEL, sulla questione di legittimità costituzionale cui
si riferiva anche il rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia. Con questa sentenza la Corte
costituzionale affermò che, essendo stata data al Trattato CEE esecuzione con legge ordinaria, una
legge ordinaria successiva, quale era appunto quella sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica,
poteva derogare al Trattato stesso in ossequio al principio della successione nel tempo delle leggi.
La Corte costituzionale italiana ha precisato in una giurisprudenza costante che la prevalenza del
diritto dell’UE sul diritto interno incontra alcuni limiti, in quanto non opera per quelle norme di
diritto dell’UE che si rivelino contrarie ai principi fondamentali del nostro ordinamento
costituzionale o ai diritti inalienabili della persona umana. Ricordiamo a questo riguardo che
l’art. 11 non è neutro, sul piano valoriale: le cessioni di sovranità che la norma consente sono
ammesse solo a favore di organizzazioni che tendano alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. La
Corte costituzionale si è quindi sempre espressamente riservata un controllo di costituzionalità
con riferimento all’eventuale contrasto di nome dell’UE con principi fondamentali o diritti
inalienabili. Già la sentenza Frontini, nel sancire l’ingresso del diritto dell’UE nel nostro
ordinamento a livello costituzionale, faceva salve quelle norme della Costituzione che riguardano i
principi fondamentali o i diritti inalienabili della persona umana. I giudici costituzionali, però,
precisavano subito che il problema, a loro avviso, era comunque solo teorico, in quanto “appare
difficile configurare anche in astratto l’ipotesi che un regolamento comunitario possa incidere in
materia di rapporti civili, etico-sociali, politici..”.
Ricordiamo che la giurisprudenza costituzionale italiana non è l’unica nella quale rinvengono
queste riserve, che sono condivise nella giurisprudenza di altri Stati membri. il riferimento
principale va alle analoghe posizioni espresse dalla Corte costituzionale tedesca, la quale ha
ribadito in più occasioni l’esistenza di controlimiti rispetto alle cessioni di sovranità dell’UE. Questi
sono stati legati inizialmente al livello di protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento
comunitario, e in seguito sono stati declinati con più ampio riferimento al rispetto dell’ identità
costituzionale tedesca, comprensiva sia della protezione dei diritti fondamentali che dei principi
della democrazia e dello stato di diritto. Su posizioni analoghe si può citare la decisione della Corte
costituzionale della Repubblica ceca.
Un rischio imminente di una dichiarazione di incostituzionalità inerente al diritto dell’UE si è
verificato in una vicenda recente, nota come “caso Taricco”, che avrebbe potuto riprodurre
52. L’attuazione del diritto dell’UE nell’ordinamento italiano; il ruolo delle Regioni.
a) Il diritto derivato dell’UE, quando abbia i requisiti per poter essere applicato direttamente dagli
organi degli Stati membri, non necessita di appositi atti interni di esecuzione. Le norme degli atti
dell’UE che abbiano invece un contenuto con carattere programmatico o generico necessitano,