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Riassunto completo Elementi

di diritto dell'Unione europea.


Draetta, Bestagno, Santini.
2018
Diritto Dell'unione Europea
Università degli Studi di Milano
95 pag.

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ELEMENTI DI DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
CAPITOLO I: LE ORIGINI E LO SVILUPPO DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA

1. Le spinte europeistiche del secondo dopoguerra e la nascita della CECA.

L’odierna UE e i trattati su cui essa si fonda rappresentano il punto d’arrivo di un graduale processo
di integrazione, che prende le mosse dal secondo dopoguerra. Quel periodo, influenzato dal
pensiero di uomini come Mazzini, Rousseau, Kant... era caratterizzato da fermenti unitari,
alimentati essenzialmente dalla percezione che due bisogni, sarebbero stati meglio soddisfatti da
un’Europa federata piuttosto che da singoli Stati europei.
Tali bisogni erano quelli di: ricostruire le economie prostrate dalla guerra e di proteggersi contro
l’emergente imperialismo sovietico.
Sotto il primo profilo, va ricordato che gli Stati Uniti avevano approvato nel 1947 il Piano
Marshall, e lo avevano condizionato ad una gestione congiunta da parte degli altri Stati Europei.
Tale gestione fu concretizzata attraverso l’istituzione della Organizzazione europea per la
cooperazione economica (OECE), a cui presero parte 16 Stati europei, ed il cui compito
principale era di amministrare gli aiuti del Piano Marshall, favorendone un’efficace distribuzione
anche attraverso la progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali tra gli Stati membri. Tale
organizzazione diventò poi l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
(OCSE).
Sotto il secondo profilo, l’espansionismo sovietico mostrava in quegli anni tutta la sua pericolosità.
La “cortina di ferro” divideva l’Europa orientale (sotto il controllo sovietico) dall’Europa
occidentale (sotto i controllo degli USA). Come risposta all’imperialismo comunista, fu istituita la
NATO (Organizzazione del Patto dell’Atlantico del Nord), mentre dal 1947 un patto comune di
difesa (essenzialmente però in funziona antitedesca) legava Francia e Regno Unito. Tale patto, fu
poi esteso nel 1948 a Belgio, Olanda e Lussemburgo. Esso doveva poi divenire l’Unione
dell’Europa occidentale con l’adesione nel 1954 di Germania e Italia e successivamente altri Stati.
Aldilà del campo economico e militare, nel 1949 veniva istituito il Consiglio d’Europa,
un’organizzazione internazionale aperta a tutti gli Stati europei che si sentivano accumunati dagli
ideali di democrazia e libertà.
In risposta alle iniziative occidentali, il fronte orientale istituì il Consiglio di mutua assistenza
economica ed il Patto di Varsavia (come risposta alla NATO), ma furono entrambe disciolte a
seguito della caduta del muro di Berlino e del crollo dell’impero sovietico.
Il limite di tutte queste forme di organizzazione internazionale era quello di essere improntate al
metodo intergovernativo. Ciò significa che i componenti degli Stati membri decidevano sulla base
dell’unanimità e non potevano emettere atti vincolanti per gli Stati, né tantomeno per gli individui.
Per fortuna, l’Europa poteva contare i quel periodo sui “Padri fondatori”: personalità di spicco e
lungimiranti statisti come Schuman, Adenauer, De Gasperi, Spaak, ai quali apparve ben presto
chiare che occorreva porre mano alla creazione di una federazione europea, come garanzia pe
scongiurare altre guerre fra Stati europei e per assicurare uno sviluppo economico e sociale. A
questo scopo era necessario creare delle strutture in grado di operare con un metodo diverso dalla
cooperazione intergovernativa classica, metodo cui si dette successivamente il nome di metodo
comunitario. Esso si caratterizza per l’adozione di decisioni prevalentemente a maggioranza e per
la possibilità di emettere atti vincolanti non solo per gli Stati ma anche direttamente per gli
individui (a differenza del metodo intergovernativo classico). Il primo passo verso il
raggiungimento di tale obiettivo fu il rimuovere una delle cause del secolare conflitto fra Francia e

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Germania: il controllo delle risorse carbosiderurgiche della Ruhr e dalle Saar. Il Piano Schuman del
1950 , a questo proposito sottopone il controllo della produzione carbosiderurgica ad un’Alta
Autorità. La dichiarazione di Schuman chiariva che le decisioni dell’Alta autorità sarebbero state
vincolanti per tutti gli stati membri (oltre che per Francia e Germania) e inoltre, si precisava che la
proposta era intesa a gettare le basi dell’unificazione economica. La repubblica federale tedesca e
l’Italia aderirono subito all’iniziativa. Il Regno Unito, invece, rifiutò, scegliendo di mantenere il
regime che lo legava ai Paesi della Commonwealth e contro strutture internazionali che potessero
compromettere la sua sovranità. I Sei firmarono quindi a Parigi il Trattato della CECA (Comunità
europea del carbone e dell’acciaio). Il trattato presentava dei caratteri di assoluta novità ed ebbe una
durata di cinquanta anni.

2. Dalla CECA ai Trattati di Roma: la nascita della CEE e della CEEA.

Sull’onda del successo della CECA, venne negoziato e firmato anche il Trattato istitutivo della
Comunità europea di difesa (CED), che si proponeva in sostanza la creazione di un esercito
europeo. Tuttavia, il processo di ratifica del trattato subì un brusco arresto, in quanto l’Assemblea
nazionale francese decise di non prendere parte alla discussione del Trattato.
A seguito del fallimento della CED riprese vigore l’idea del funzionalismo economico, secondo cui
era necessario procedere ad un’integrazione graduale delle economie per poter porre le basi di
un’unione politica. Il rapporto Spaak, elaborava a questo proposito uno studio volto all’introduzione
di un mercato comune generale nel cui ambito dovessero poter circolare liberamente merci,
persone, servizi e capitali. I governi dei Sei approvarono il rapporto Spaak, così Belgio, Francia,
Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda firmarono in forma solenne a Roma sia il Trattato
istitutivo della Comunità economica europea (CEE), che il trattato istitutivo della Comunità
europea dell’energia atomica (CEEA). Si fa comunemente riferimento a questi trattati come
Trattati di Roma. Anche in quest’occasione il Regno Unito rifiutò di partecipare ai negoziati. La
vocazione atlantica del Regno Unito infatti, lo facevano propendere per soluzioni meno
impegnative, inducendolo a preferire una zona di libero scambio ad un’unione doganale. In
coerenza con queste premesse, il Regno Unito pochi anni dopo promuoveva la creazione di una
zona di libero scambio, con la relativa istituzione della European Free Trade Association (EFTA).
L’EFTA prevede la graduale soppressione tra gli stati membri delle barriere doganali, ma non era
espressamente concepita in funzione anti-CEE; ma incarnava tuttavia la diversa concezione
propugnata dal Regno Unito del livello di integrazione economica. Attualmente gli Stati membri
dell’EFTA sono solo Norvegia, Islanda, Lichtenstein e Svizzera.
Quanto ai Trattati di Roma, la prima Comunità ha visto il suo nome modificarsi in Comunità
Europea (CE) e successivamente in Unione Europea (UE). Tali mutamenti del nome sono anche
la conseguenza dell’allargamento delle competenze dell’organizzazione a campi diversi da quello
strettamente economico.

3. Le norme relative alla revisione dei Trattati

I trattati di Roma hanno subito molteplici modifiche. È pertanto opportuno descrivere quali sono
attualmente le norme relative alle procedure di revisione dei Trattati. Al riguardo, l’art.48 TUE
(Trattato sull’Unione Europea) prevede una procedura di revisione ordinaria e due procedure di
revisione semplificate.
La procedura di revisione ordinaria inizia con un progetto di modifica dei Trattati che può essere

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presentato dal governo di qualsiasi Stato membro, il quale lo trasmette al Consiglio europeo e lo
notifica ai Parlamenti nazionali degli Stati membri. Il consiglio europeo, al ricevimento del progetto
di modifica, decide a maggioranza semplice sull’opportunità di procedere all’esame delle modifiche
proposte. Tale decisione deve essere adottata previa consultazione del Parlamento europeo e della
Commissione (nonché della Banca centrale europea in caso di modifiche istituzionali che
riguardino il settore monetario). In caso di decisione favorevole del Consiglio europeo, il Presidente
di quest’ultimo convoca una Convenzione composta da rappresentanti dei capi di Stato o di
governo degli Stati membri. Il coinvolgimento della Convenzione permette che, almeno nella fase
preparatoria, alla modifica dei Trattati contribuiscano forme di rappresentanza democratica dei
cittadini. Va precisato però che il Consiglio europeo non è obbligato a convocare una Convenzione
qualora non fosse necessario. La Convenzione adotta una raccomandazione rivolta ad una
conferenza dei rappresentati dei governi degli Stati membri (CIG, acronimo di conferenza
intergovernativa), incaricata di stabilire “di comune accordo”, e dunque all’unanimità, le
modifiche da apportare eventualmente ai Trattati. Le modifiche ai Trattati entrano in vigore dopo
essere state ratificate da tutti gli Stati membri. La procedura di revisione ordinaria sembra poter
riguardare qualsiasi norma degli stessi, in particolare possono essere tese “ad accrescere o ridurre
le competenze”.
L’art. 48 TUE prevede anche due procedure di revisione semplificate, caratterizzate dal fatto che
non contemplano né la convocazione di una Convenzione, né di una CIG, e che il Consiglio
Europeo (in cui sono presenti i capi di tato degli tati membri) vi svolge un ruolo preminente. La
prima di tali procedure può solo riguardare le norme relative alle politiche e alle azioni interne
dell’UE. Le modifiche che possono essere sottoposte a questa procedura sono adottate (su proposta
di qualsiasi stato membro) dal Consiglio europeo che delibera all’unanimità. La decisione del
Consiglio entra però in vigore “previa approvazione degli Stati membri conformemente alle
rispettive norme costituzionali”. La seconda procedura di revisione semplificata prevede due casi
distinti. Il primo caso riguarda la possibilità di sostituire il requisito dell’unanimità con quello della
maggioranza qualificata per quanto riguarda le decisioni che il Consiglio può prendere solo
relativamente all’azione esterna dell’UE e, in particolare, alla politica estera e di sicurezza comune.
Il secondo caso riguarda la possibilità, laddove il TFUE prevede che il Consiglio adotti atti
legislativi secondo una procedura legislativa speciale, di sostituire tale procedura con la procedura
legislativa ordinaria. In entrambi i casi, la relativa modifica del TFUE può essere adottata dal
Consiglio europeo di sua iniziativa con decisione presa all’unanimità, ma è necessaria la previa
approvazione del Parlamento europeo. Il testo infatti non può essere modificato se anche uno
solo dei Parlamenti nazionali notifichi entro 6 mesi la propria opposizione. Il silenzio dei
Parlamenti entro il termine dei sei mesi consente invece l’adozione della modifica.
In definitiva, le semplificazioni introdotte da entrambe le procedure di semplificazione consiste nel
fatto che la Convenzione non viene convocata e che la decisione del Consiglio europeo sostituisce
la firma del trattato di modifica dei membri del CIG. Sul piano pratica rimane il requisito
dell’unanimità. Oltre alle procedure di revisione menzionate, i Trattati prevedono alcune particolari
procedure di modifica relative a specifiche clausole, ma la dottrina generalmente lo esclude.

4. Le revisioni dei Trattati e il dibattito che le ha accompagnate : l’esigenza della cooperazione


politica e l’Atto unico europeo.

Le revisioni di tipo generale hanno avuto luogo in cinque occasioni. Le prime quattro revisioni
sono quelle intervenute con l’Atto unico europeo: con il Trattato di Maastricht (1993), il Trattato di
Amsterdam (1999), il Trattato di Nizza (2003) e il Trattato che adotta una costituzione per

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l’Europa (2004) che però, non è mai entrato in vigore. Infine, la quinta e ultima revisione è
avvenuta con il Trattato di Lisbona (2007).
Dopo solo pochi anni dalla firma dei Trattati di Roma il funzionalismo economico che si era scelto
come metodo per procedere all’integrazione europea, cominciava a mostrare i propri limiti.
Risultava infatti difficile perseguire efficacemente gli obiettivi di integrazione economica senza
avere il potere di coordinare le politiche economiche degli Stati membri, dovuto alla stretta
interdipendenza dei vari settori dell’economia. Diventava necessario anche un coordinamento nel
campo della politica estera e di difesa. Si fece quindi strada la necessità di una cooperazione a
livello politico tra gli Stati membri. A questa esigenza si contrapponeva la riluttanza degli Stati
membri ad accettare la perdita di sovranità che avrebbe comportato. Subentrava un lungo periodo di
ricerche di formule, al fine di rispettare gli interessi degli Stati membri (al mantenimento del loro
potere sovrano) e al tempo stesso accogliendo quel minimo di istanze che l’opinione pubblica
potesse interpretare come progresso verso l’integrazione politica. Gli sforzi si conclusero con la
proposta di convocare una conferenza intergovernativa (Rapporto Dooge) che aveva l’incarico di
istituire entro il 1992 un mercato interno e la cooperazione in materia di politica estera e difesa tra
gli Stati membri. Tale proposta su presentata al Consiglio europeo che si tenne a Milano. I lavori si
conclusero con la firma del trattato denominato Atto unico europeo (AUE), che va ricordato
soprattutto per aver posto come obiettivo primario l’instaurazione progressiva di un mercato
interno, attribuiva alla CEE nuove competenze e affiancava alle Comunità europee una
cooperazione in materia di politica estera.

5. …Il dibattito sul deficit democratico, sull’unione economica e monetaria e sulle modifiche
istituzionali richieste dall’allargamento.

Il dibattito sui temi fondamentali dell’integrazione europea proseguì mettendo a fuoco


essenzialmente due problemi: a) il difetto di legittimità democratica nel processo decisionale
(deficit o gap democratico) e b) la improrogabilità di una effettiva unione economica e
monetaria, da realizzarsi attraverso la creazione di una moneta europea unica.
Sotto il primo profilo, quello del deficit democratico si allude al fatto che atti di natura
sostanzialmente legislativa e quindi da applicarsi direttamente ai cittadini, erano emanati da un
organo, il Consiglio, da un lato non eletto dai cittadini stessi e dall’altro, sottratto a un effettivo
controllo politico parlamentare.
Quanto al secondo profilo, va ricordato che la costruzione comunitaria si fondava sull’instaurazione
del mercato comune, mentre gli Stati membri restavano liberi di gestire le lore politiche
economiche e monetarie come meglio credevano. Una tale costruzione risultava però squilibrata
anzitutto sul piano economico, in quanto le due dinamiche risultano conciliabili solo in determinati
periodi e gli Stati economicamente più deboli si vedranno costretti ad introdurre misure di tipo
protezionistico, ovviamente incompatibili con l’idea stessa di mercato comune. I due temi
sull’integrazione politica e l’unione economica confluirono nei lavori paralleli che si conclusero
con il Trattato sull’ Unione Europea (TUE) firmato a Maastricht (1992). Esso provvedeva a
istituire l’Unione Europea (UE), strutturata secondo quelli che si chiamarono i tre pilastri: il
termine racchiudeva infatti a) il complesso delle relazioni delle Comunità esistenti, b) della politica
estera e di sicurezza comune e c) della giustizia e affari interni. Il secondo e terzo pilastro erano
ancora espressione del metodo intergovernativo, anziché di quello comunitario del primo pilastro.
La forma a tre pilastri è stata poi abolito dal Trattato di Lisbona. Nell’intento di affrontare il deficit
democratico, il Trattato di Maastricht rafforzava i poteri del Parlamento europeo (prevedendo una
codecisione tra il Parlamento europeo e il Consiglio) ed introduceva la nozione di cittadinanza

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europea. Inoltre, estendeva le competenze della Comunità economica europea (CEE) ad altri
ambiti sanità pubblica, istruzione, cultura..) trasformandola così in Comunità Europea (CE). Il
Trattato di Maastricht va ricordato però per aver introdotto in tre tappe la moneta unica, in seguito
chiamata euro. Accanto al persistente problema del deficit democratico, vi era l’esigenza di rivedere
il processo decisionale, rendendolo più efficace, trasparente e democratico, in previsione
dell’allargamento dell’UE a una serie di nuovi Stati. Il Trattato di Amsterdam del 1997 introduce il
nuovo Titolo sull’occupazione, a controbilanciare l’approccio ritenuto eccessivamente mercantile
dimostrato con l’ introduzione della moneta unica, nonché la “comunitarizzazione” in merito a
visti, asilo immigrazione… Il Trattato di Amsterdam ha anche operato una semplificazione dei
Trattati. I temi irrisolti dal Trattato di Amsterdam si ripresentarono nel Trattato di Nizza, ma
nemmeno quest’ultimo ha risolto il problema del deficit democratico.

6. La Convenzione sul futuro dell’Europa, la “Costituzione europea” e il Trattato di Lisbona.

Il Consiglio europeo, nel dibattito sul futuro dell’Unione, ha provveduto ad istituire una
Convenzione sul futuro dell’Europa, dandole il compito di definire le principali linee per un
progetto di revisione dei Trattati. La successiva CIG ha raggiunto un accordo su un testo di
Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, a cui si fa generalmente riferimento come
“Costituzione europea”. Tale Costituzione fu ratificata da solo 18 Stati membri su 27 e quindi non
è mai entrata in vigore. Decisivi sono stati i risultati negativi del referendum in Francia e di quello
tenutosi in Olanda. La Costituzione europea unificava in una sorta di “testo unico” le norme relative
ai 3 pilastri dell’UE fino ad allora esistenti. Per capire le ragioni di tale fallimento occorre
distinguere tra elementi formali ed elementi sostanziali del nuovo Trattato. Sul piano formale va
innanzitutto segnalato il termine “Costituzione”: il termine non implicava in alcun modo
un’evoluzione dell’UE verso uno Stato federale, in quanto la natura dell’Ue come forma di
collaborazione internazionale tra Stati sarebbe rimasta invariata. Ma la carica emotiva insita nel
riferimento ad una Costituzione ha finito con il generare delle aspettative e timori ingiustificati.
Inoltre l’esito negativo del referendum francese e di quello olandese non va interpretato come
consapevole rifiuto del trattato – la procedura proprio del referendum infatti è idonea ad esprimere
un consenso o dissenso su un quesito semplice; il testo in questione era invece articolato e
complesso-. Insomma, in nodi del deficit democratico sono venuto a galla in occasione del
referendum. Sul piano sostanziale invece il Trattato era di natura del tutto simile ai precedenti
trattati di revisione, senza alcuna modifica rivoluzionaria. Preso atto dei risultati del referendum, il
Consiglio europeo ha decretato l’abbandono del progetto costituzionale. Al suo posto venne
approvato il “Trattato che modifica il Trattato sull’Unione europea che istituisce la comunità
europea”, firmato a Lisbona nel 2007. In questo caso, il principale ostacolo è stato il referendum
negativo ottenuto in Irlanda. Tuttavia il Consiglio ha concordato una serie di misure volte a
rassicurare il popolo irlandese, offrendo le necessarie garanzie giuridiche al popolo. A seguito di
queste misure, si è ottenuto un esito positivo al secondo referendum irlandese. Altre difficoltà si
sono verificate in Germania e Repubblica Ceca. Il trattato è però entrato in vigore nel 2009. Il
Trattato di Lisbona elimina ogni riferimento ad una Costituzione, né riformula in un testo unico i
Trattati precedenti. Per il trattato CE la modifica riguarda anche il nome, che viene cambiato in
TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Scompare il termine “Comunità europea”
e “comunitario”. L’impressione che ne risulta è quella di una diffidenza generalizzata nei confronti
del processo di integrazione europea.

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7. Le norme relative all’ammissione di nuovi Stati e l’evoluzione della membership dell’UE.
(Dai 6 Stati membri originari agli attuali 28)

L’art. 49, co.1, TUE dispone che ogni Stato “europeo” può domandare di diventare membro
dell’Unione a condizione che rispetti i valori di cuiall’art.2 del TUE e si impegni a promuoverli.
Tali valori sono quelli del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia,
dell’uguaglianza, del risetto dei diritti umani…
La domanda di ammissione è trasmessa dallo Stato richiedente al Consiglio, che, al riguardo si
pronuncia all’unanimità. Quindi ciascuno degli stati membri deve essere d’accordo a che un nuovo
Stato venga ammesso. Il TUE specifica che bisogna tener conto dei criteri di ammissibilità, con
riferimento ai criteri politici, economici e giuridici. Il criterio politico riguarda il raggiungimento,
da parte dello Stato candidato di una stabilità istituzionale che garantisca la democrazia, i diritti
umani, il rispetto e la protezione delle minoranze…. Il criterio economico riguarda l’esistenza di
un’economia di mercato funzionante, nonché la capacità di rispondere alle forze di mercato
all’interno dell’UE. Il criterio giuridico riguarda la capacità di assumersi gli obblighi derivanti
dall’appartenenza all’UE. La verifica del rispetto di tali criteri viene effettuata, per prassi, durante la
fase di pre-adesione (fase interna). L’ingresso del nuovo Stato però può aver luogo solo dopo che
sia stato concluso un accordo tra il nuovo Stato e gli Stati già membri (fase esterna).
Il Parlamento europeo prevede che il progetto di accordo debba essere sottoposto alla sua
approvazione prima della firma. La procedura è considerata, dal punto di vista tecnico, una
procedura d’ammissione, in quanto prevede che gli Stati già membri si pronuncino in merito ad una
richiesta da parte di uno Stato terzo.
Fin dall’inizio il successo delle Comunità europee ha attratto nuove candidature. Lo stesso Regno
Unito presentò richiesta di ammissione nel 1961. Tale richiesta incontrò l’opposizione della Francia
di De Gaulle, il quale, da una parte, vedeva nel Regno Unito un potenziale ostacolo alle mire
francesi ad una leadership europea, dall’altra non si fidava dell’europeismo di quello Stato che
vedeva come il cavallo di Troia attraverso il quale gli Stati Uniti avrebbero esteso la loro egemonia
all’Europa. Per dieci anni il veto gollista tenne il Regno Unito fuori dalle Comunità europee. Nel
1067 il Regno Unito ripresentò la propria candidatura, seguita da quella danese, irlandese e
norvegese. Un referendum norvegese bloccò però processo di ratifica, per cui furono ammesse nel
1973 solo Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Il decimo Stato ad entrare a far parte delle
Comunità europee è stata la Grecia. Successivamente, con l’ingresso di Spagna e Portogallo, le
Comunità raggiunsero il numero di dodici membri. Non è stato, invece, necessario procedere
all’ammissione per la Repubblica democratica tedesca, in quanto nel 1990 si è riunificata con la
Repubblica federale tedesca. I capi di Stati e di governo delle comunità hanno infatti riconosciuto
l’ampliamento del territorio comunitario. Nel 1995 entrarono a fare parte dell’UE anche Austria,
Finlandia e Svezia, mentre i cittadini norvegese, ancora una volta si sono pronunciati per il “no”. Il
maggiore allargamento ha riguardato dieci Stati: Cipro, Estonia, Lituania, Lettonia, Malta,
Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria. L’UE è poi passata 27 Stati con
l’ammissione di Bulgaria e Romania e infine a 28 con la Croazia. Nello specifico, si prevede un
periodo transitorio concesso ai nuovi Stati per adattarsi alla normativa preesistente. Attualmente, è
riconosciuto lo status di Paesi candidati ad Albania, ex Repubblica jugoslava di Macedonia,
Montenegro, Serbia e Turchia. In parallelo con le difficoltà sperimentate con il processo di
integrazione, ci si è cominciati a porre il problema della effettiva capacità di assorbimento da parte
dell’UE.

8. La disciplina del recesso dall’UE e la c.d. Brexit.

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All’articolo che disciplina l’ammissione nell’UE di nuovi Stati membri il TUE ne fa seguire subito
un altro che prevede l’ipotesi del recesso dall’UE di uno Stato già membro, e che rappresenta una
delle più importanti novità introdotte dal Trattato di Lisbona. L’art.50 TUE riconosce espressamente
il diritto di recesso di qualsiasi membro dell’UE, in qualsiasi momento, senza necessità di addurre
particolari motivazioni e senza bisogno di assenso degli altri Stati membri. Le uniche formalità
consistono nel requisito di una notifica al Consiglio europeo, cui fa seguito un negoziato tra l’UE e
lo Stato, volto a raggiungere un accordo sulle modalità di recesso. Spetta al Consiglio europeo
formulare gli orientamenti per tale negoziato, ovviamente senza che lo Stato recedente possa
ovviamente partecipare. L’art. 50 TUE considera anche l’ipotesi che l’UE e lo tato recedente non
riescano a concludere l’accordo di recesso. Esso infatti dispone che i Trattati cessino di applicarsi a
tale Stato “due anni dopo la notifica” (termine prorogabile con decisione unanime del Consiglio
europeo). La procedura prevista dall’art. 50 è stata adottata per la prima volta dal Regno Unito, che
a seguito del referendum del 23 Giugno 2016, che ha visto prevalere i sostenitori della c.d. Brexit,
ha notificato la propria intenzione di recedere dall’UE nel 2017. A seguito di tale notifica, il
Consiglio europeo ha adottato gli orientamenti relativi ai negoziati dell’accordo di recesso. È stato
poi il Consiglio a designare la Commissione come negoziatore dell’accordo da parte dell’UE. In
una prima fase, i negoziati si sono concentrati sulle principali questioni da disciplinare, e dunque, in
particolare, sulla necessità di salvaguardare i diritti dei cittadini di ciascuna delle due parti
soggiornanti nel territorio dell’altra al momento del recesso, la liquidazione degli impegni
finanziari, la questione del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord. La seconda fase del negoziato era
volta a stabilire le regole da applicare nel periodo successivo al recesso. Tra le diverse questioni non
chiarite ha suscitato un ampio dibattito quella relativa alla possibilità di uno Stato membro di
revocare la proprio notifica di recesso. Alcuni ritengono che il silenzio della norma al riguardo vada
inteso come esclusione della possibilità di revoca, secondo altri, invece, non sarebbe ragionevole
imporre il completamento della procedura di recesso.

9. Le vicende successive al Trattato di Lisbona e le prospettive future dell’integrazione


europea.

La Brexit rappresenta solo uno dei fronti di crisi che hanno contrassegnato l’ultimo decennio di vita
dell’UE. Gli anni successivi al Trattato di Lisbona sono stati caratterizzati dalla crisi finanziaria ed
economica originatasi negli Stati Uniti già nel 2007-2008, mettendo in luce il carattere incompleto
dell’unione economica e monetaria. Più di recente si è verificata anche a crisi migratoria,
determinata da crescenti di migratori richiedenti asilo e di migranti economici provenienti dal
Medio Oriente e dall’Africa.
Per far fronte alla crisi finanziaria, il Consiglio europeo ha adottato all’unanimità la decisione di
aggiungere all’art.156 TFUE un nuovo paragrafo, che afferma che “gli Stati membri la cui moneta
è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per
salvaguardare la stabilità della zona euro...”. Il meccanismo in questione è stato creato dagli Stati
membri della zona euro mediante il Trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità
(MES). Il MES è un’istituzione finanziaria internazionale con sede a Lussemburgo, il cui obiettivo
p quello di “mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità”. Inoltre, 25 degli
allora 27 Stati membri hanno firmato il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla
governance dell’unione economica e monetaria (noto anche come Fiscal Compact). Questo
trattato obbliga le parti contraenti a introdurre nel proprio ordinamento il principio del pareggio di
bilancio.
Per altro verso, le decisioni di ricollocazione di un certo numero di richiedenti asilo, a beneficio di

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Italia e Grecia, hanno ricevuto limitata applicazione, manifestando così la difficoltà di dare effettiva
attuazione a quel principio di solidarietà tra gli Stati membri in materia di asilo e immigrazione.
A fronte di queste vicende, bisogna ammettere che l’’UE si trova oggi di fronte a un bivio: una
prima opzione è il mantenimento dello status quo, ovvero di una politica perseguita facendo bene
attenzione a che nessuna mossa implichi sostanziali rinunce di sovranità da parte degli Stati
membri. In questo caso, l’UE procederà con fatica e, molto probabilmente, si rafforzerà la
propensione ad agire attraverso il metodo intergovernativo anziché quello comunitario, in sintonia
con la riaffermazione degli interessi nazionali percepiti come prioritari rispetto all’interesse
comune, e l’UE tenderà a riassestarsi come una grande area di libero scambio. Se questa sarà
l’alternativa scelta, l’UE non potrà far fronte efficacemente alle sfide sul versante economico e
migratorio. Il salto qualitativo consisterebbe infatti nel passaggio al metodo federale, da intendersi
come passaggio a un ente centrale di alcune competenze, a seguito di tale processo, rimarrebbero
Stati federati privi di quella soggettività internazionale. Occorre però riconoscere che una
federazione europea può avere qualche speranza di realizzazione solo in un ambito ristretto di Stati,
un “nocciolo duro” che si restringe ai sei Stati che hanno iniziato il processo di integrazione
europea.

CAPITOLO II: CARATTERISTICHE GENERALI DELL’UNIONE EUROPEA E LE SUE


COMPETENZE

10. La natura giuridica dell’UE.

Come abbiamo già accennato, l’UE si fonda oggi sul TUE e sul TFUE, secondo l’espresso disposto
dall’art.1, co.3, TUE. Questa norma sancisce anche che l’ UE “sostituisce e succede alla Comunità
europea”. Il significato della norme è chiaro: si supera la coesistenza tra Unione europea e
Comunità europea, quindi è ormai nell’ambito della sola UE che si racchiude e definisce tutta la
cooperazione tra gli Stati membri nei vari campi prima oggetto dei tre pilastri.
Nella fase attuale dell’integrazione europea la natura giuridica dell’UE è quella di una
organizzazione internazionale, seppure dotata di caratteristiche del tutto peculiari. Ad essa gli
Stati membri hanno attribuito competenze “per conseguire i loro obbiettivi comuni”, cioè per gli
obiettivi degli Stati stessi che questi ultimi hanno ritenuto preferibile perseguire attraverso
un’organizzazione internazionale da essi creata, piuttosto che individualmente e separatamente.
L’UE, quindi, non ha altri obiettivi che non siano quelli comuni agli Stati membri. L’UE è fondata
su atti conclusi in forma di accordi internazionali e ha, pertanto, natura internazionalistica. Al
riguardo, l’art.4 del TUE si preoccupa di ribadire che l’UE rispetta l’ identità nazionale degli Stati
membri insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, escludendo quindi
qualsiasi evoluzione in senso federale. Nonostante questi dati testuali, vi è stato chi è applicato a
ricercare un tertium genus tra ente internazionalistico ed ente costituzionale in cui collocare l’UE.
Per definire tale tertium genus si è fatto a volte riferimento al termine “ente sovranazionale”. Le
incertezze riguardo l’esperienza comunitaria erano dovute alle marcate novità che rappresentavano
le Comunità europee, la quale concezione puramente internazionale appariva troppo riduttiva. Con
la successiva giurisprudenza, la Corte di giustizia ha anche espresso una concezione
“costituzionale” dei Trattati, in particolare qualificando il Trattato CEE come “la carta
costituzionale di una comunità di diritto”.
è certamente vero che l’ambito delle competenze che gli Stati membri hanno delegato all’UE è
quantitativamente molto più esteso e articolato rispetto a qualsiasi altra organizzazione

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internazionale. I due caratteri dell’efficacia diretta e del primato sul diritto interno degli Stati
membri costituiscono inoltre delle innegabili peculiarità dell’ordinamento giuridico dell’UE. Ma è
pur sempre la volontà degli Stati membri che ha consentito tutto ciò. Essi infatti rimangono i
“padroni dei Trattati”, dato confermato dalla procedura ordinaria di revisione dei Trattati, la
quale può applicarsi a qualsiasi norma degli stessi e potrebbe dunque comportare anche una
riduzione delle competenze dell’UE, così come dal diritto di recesso.
Inoltre, l’UE (al pari delle altre organizzazioni internazionali) è retta dal principio di attribuzione,
nel senso che può determinare essa stessa l’ambito delle sue competenze, ma dispone unicamente di
quelle che gli Stati membri le hanno conferito attraverso i Trattati.

11. I valori fondanti dell’UE e le sanzioni per la loro violazione; gli obiettivi dell’UE.

L’ UE è l’organizzazione internazionale che realizza il più elevato livello di integrazione tra i suoi
membri rispetto a qualsiasi altra organizzazione. Tale livello di integrazione è reso possibile dalla
comunanza tra gli Stati membri di alcuni valori fondanti, elencati nell’art.2 TUE. Secondo tale
norma, l’UE “si fonda sui valori del rispetto della dignità mana, della libertà, della democrazia,
dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle
persone appartenenti a minoranze”. Questi divengono valori dell’UE in quanto comuni agli Stati
membri. Questi valori costituiscono il retaggio culturale della civiltà europea e costituiscono per
questo la stessa identità europea. È logico dunque, che per essere ammesso all’UE ogni Stato
richiedente debba rispettare tali valori e impegnarsi a promuoverli, per tutta la durata del vincolo
associativo che lega ciascun membro.
Al riguardo, sono previste (all’art.7 TUE) delle sanzioni per lo Stato membro che si renda
colpevole di una grave e persistente violazione dei valori. Nello specifico, l’art.7 TUE contempla
una procedura d’allarme e una procedura ordinaria. La procedura d’allarme avviene nel caso in
cui il Consiglio, deliberando con la inusuale maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri, “può
constatare che esista un evidente rischio di violazione grave da parte di uno stato membro” dei
valori di cui all’art.2 TUE. La delibera del Consiglio può avere luogo solo su proposta di un terzo
degli Stati membri ( o del Parlamento europeo o della Commissione). Essa deve anche essere
munita della previa approvazione del Parlamento europeo. Prima di procedere a tale
constatazione il Consiglio deve ascoltare lo Stato in questione, ed ha l’obbligo di verificare
regolarmente se i motivi che hanno condotto alla constatazione permangono validi. La procedura
dall’allarme può essere propedeutica a quella ordinaria. In questo caso il Consiglio europeo (a
differenza della procedura d’allarme) può constatare, con delibera da adottarsi all’unanimità,
l’esistenza di una “violazione grave e persistente” da parte di uno Stato membro. Tutta una serie di
cautele procedurali accompagnano tale misura, la quale deve essere preceduta:
a) dalla proposta da parte di un terzo degli Stati membri o dalla Commissione –come per la
procedura d’allarme, ad esclusione del Parlamento- ,
b) dall’invito allo Stato in questione a presentare le sue osservazioni –idem-,
c)dall’ approvazione del Parlamento europeo –ibidem, con la stessa maggioranza prevista dalla
procedura d’allarme-.
In entrambi i casi, ovviamente, lo Stato in questione non partecipa al voto e non può quindi
impedire il raggiungimento dell’unanimità.
Una volta effettata la constatazione, la parola ritorna al Consiglio, il quale può decidere di
sospendere “alcuni dei diritti”, tra cui, in particolare, il diritto di voto del suo rappresentante in
Consiglio. A differenza di altre organizzazioni internazionali, la sospensione dei diritti non è
propedeutica all’espulsione dello Stato membro, in quanto il TUE non prevede l’ipotesi di

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espulsione. La sospensione tuttavia non esonera do Stato dell’osservanza dei propri obblighi.
Considerata l’estrema difficoltà di dare applicazione alle due procedure in esame, negli anni più
recenti sia la Commissione che il Consiglio hanno predisposto hanno predisposto dei nuovi
meccanismi: in particolare, il Consiglio ha previsto che, con cadenza annuale, si tenga un dialogo
tra tutti gli Stati membri sullo Stato di diritto. La Commissione, invece, ha introdotto una nuova
procedura di carattere preventivo, alla quale essa intende ricorrere qualora ravvisi in uno Stato
membro una minaccia sistemica allo stato di diritto. In sostanza, tale procedura prevede che, in
una prima fase, la Commissione trasmetta allo Stato membro in questione “un parere sullo Stato di
diritto” (al fine di instaurare un contraddittorio con tale membro). Se la questione non si risolve in
maniera soddisfacente, nella seconda fase la Commissione trasmette allo stato membro una
raccomandazione, nella quale suggerisce le misura da adottare al fine di rimuovere la minaccia
sistemica. Infine nella fase di follow-up, la Commissione verifica il seguito dato dallo Stato
membro e valuta se attivare una delle due procedure previste dall’art.7 TUE. Questa procedura ha
già trovato applicazione nei riguardi della Polonia (2017).
Sempre in tema di valori fondanti, si ricorda che l’UE si propone di promuoverli non solo nei
confronti degli Stati membri , ma anche al resto del mondo.
All’enunciazione dei valori fondanti, l’UE fa seguire quella degli obiettivi (da intendersi come
obiettivi comuni agli Stati membri). Al primo posto troviamo l’obiettivo di promuovere la pace, i
valori dell’UE e il benessere dei suoi popoli. Segue poi una serie di obiettivi più specifici, che
corrispondono ai principali campi d’azione dell’UE:
a) offrire ai cittadini dell’UE uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne,
b) instaurare un mercato interno e, più in generale, adoperarsi per uno sviluppo sostenibile dell’
Europa,
c) istituire un’unione economica e monetaria la cui moneta è l’euro,
d) intrattenere una rete di relazioni esterne attraverso le quali l’UE possa promuovere i suoi valori
e interessi.
Occorre però specificare che l’azione dell’UE nel perseguire i suoi obiettivi, non si sviluppa
secondo metodi omogenei: per quanto riguarda il campo della politica estera e di sicurezza comune,
vi sono norme e procedure specifiche improntate essenzialmente al metodo intergovernativo, che
presuppone il requisito dell’unanimità per tutte le principali decisioni del consiglio. Nelle altre aree,
invece, è generalmente adottato il c.d. metodo comunitario.

12. La delimitazione delle competenze dell’UE secondo il principio di attribuzione; la clausola


di flessibilità e i poteri impliciti.

L’UE persegue i suoi obbiettivi “ in ragione delle competenze che le sono attribuite nei trattati", in
altri termini, gli Stati membri non hanno attribuito all’UE delle competenze di natura generale, ma
solo quelle specificamente indicate nei Trattati. Per maggiore chiarezza, l’art.4 TUE specifica che
qualsiasi competenza non attribuita all’UE nei Trattati “appartiene agli Stati membri”.
In coerenza con questo approccio, che vede le competenze dell’UE limitate dalle previsioni dei
Trattati, l’art.5 TUE stabilisce nel principio di attribuzione il fondamento di tale delimitazione.
Le competenze dell’UE vengono così classificate dal TFUE in competenze esclusive, concorrenti
e di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri. Infine, lo stesso
articolo individua il fondamento dell’esercizio nei principi di sussidiarietà e proporzionalità.
In base al principio di attribuzione quindi, l’UE agisce nei limiti delle competenze che le spettano
a titolo “derivato”, ovvero per volontà degli Stati membri (a conferma della natura
internazionalistiche dell’UE) e non a titolo “originario”, come avviene per gli Stati sovrani. L’art 13

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applica lo stesso principio alle istituzioni dell’UE, sancendo che “ciascuna istituzione agisce nei
limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai trattati, secondo le procedure, condizioni e finalità
da essi previste”. Questo principio di attribuzione comporta che ogni atto dell’UE debba avere il
proprio fondamento in una disposizione dei Trattati, e che pertanto costituisce la base giuridica
dell’atto in questione. Un atto privo di tale fondamento sarebbe illegittimo.
A garantire una certa flessibilità al sistema delle competenze dell’UE concorrono tuttavia, da un
lato, una specifica norma dei Trattati alla quale si fa comunemente riferimento appunto, come
clausola di flessibilità e, dall’altro, la giurisprudenza della Corte di giustizia relativa ai c.d. poteri
impliciti. La clausola di flessibilità afferma che “se un’azione dell’Unione appare necessaria per
realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di
azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione,
adotta le disposizioni appropriate”. Questa norma però non può essere utilizzata per tutti gli
obiettivi dell’UE. In particolare, il TFUE prevede espressamente che non possa essere impiegata
come base per il conseguimento di obiettivi riguardanti la politica estera e di sicurezza comune.
Questo perché la cooperazione intergovernativa che caratterizza tale ambito non si presta ad
ampliamenti che non risultino espliciti. Gli obiettivi per il cui raggiungimento può essere utilizzata
la clausola di flessibilità sono quelli indicati nell’art.3 TUE, ovvero: spazio di libertà, sicurezza e
giustizia, mercato interno e sviluppo sostenibile, relazioni esterne. La clausola di flessibilità ha
cominciato ad essere invocata in maniera non occasionale, nel contesto dell’allora CEE, nel 1972 e
da quel momento ha avuto un’utilizzazione crescente. Il ricorso alla clausola di flessibilità prevede
sempre, però, la necessità di una decisione unanime in seno al Consiglio e, quindi, del consenso di
tutti gli stati membri. Tuttavia, man mano che l’allargamento delle competenze veniva sanzionato
nelle varie modifiche dei Trattati, non era più necessario ricorrere alla clausola di flessibilità. Per
limitare il ricorso alla clausola di flessibilità, la Corte di giustizia ha delineato una versione
comunitaria della nota teoria dei poteri impliciti, elaborata per la prima volta dalla Corte suprema
degli Stati Uniti. Secondo il principio alla base di questa teoria, quando viene attribuita una
competenza alle istituzioni dell’UE, essa comporta anche l’attribuzione dei poteri indispensabili per
assicurare un esercizio efficace di tale competenza. Tali poteri quindi, rifiutano per loro stessa
natura di farsi esplicitare in una norma.
Il sostanziale ampliamento delle competenze dell’UE introdotto nella varie revisioni dei Trattati
rende oggi meno frequente il ricorso alla clausola di flessibilità.

13. Le competenze dell’UE: esclusive, concorrenti e di sostegno, coordinamento o


completamento dell’azione degli Stati membri.

Le competenze dell’UE possono essere di tre tipi:


a) esclusive rispetto a quelle degli Stati membri,
b) concorrenti con le medesime,
c) di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri.
L’identificazione di queste categorie rappresenta una delle principali innovazioni introdotte dal
Trattato di Lisbona.
Nei settori nei quali l’UE ha competenza esclusiva, solo l’UE può adottare atti giuridicamente
vincolanti. Gli stati membri possono farlo solo se autorizzati dall’UE o per dare attuazione ad atti
dell’UE. Non è possibile per gli Stati membri riappropriarsi delle competenze in questi settori.
I settori nei quali l’UE ha competenza esclusiva sono cinque: a)unione doganale, b)definizione
delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, c)politica monetaria
degli Stati membri, d) conservazione delle risorse biologiche del mare, e)politica commerciale

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comune. A tali competenze esclusive si aggiunge quella di concludere accordi internazionali.
Nei settori nei quali l’UE ha competenza concorrente con quella degli Stati membri, sia l’UE che
gli Stati membri possono adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri, però, non
possono più esercitare le loro competenze a partire dal momento in cui l’UE abbia esercitato le
proprie attraverso la posizione di norme comuni. In dottrina si parla, a questo proposito, di un
effetto di pre-emption. Ai sensi di questo Protocollo, quando l’UE agisce in un settore di
competenza concorrente “il campo di applicazione di questo esercizio di competenza copre
unicamente gli elementi disciplinati dall’atto dell’Unione in questione e non copre pertanto l’intero
settore”. Il TFUE precisa anche che gli Stati membri possono riappropriarsi delle loro competenze
qualora l’UE abbia cessato di esercitare le proprie. Ad ogni modo, quando gli Stati concorrenti
esercitano competenze concorrenti, essi sono sempre tenuti a rispettare l’obbligo di leale
cooperazione loro incombente ai sensi dell’art.4 TUE, il quale implica rispetto e assistenza
reciproca tra gli Stati membri e l’UE nell’adempimento dei rispettivi compiti. Ricadono nelle
competenze concorrenti tutte quelle competenze attribuite all’UE che non sono esclusive o che non
riguardino il completamento dell’azione degli Stati membri. In particolare, l’UE ha competenza
concorrente principalmente nei seguenti settori: a)mercato interno, b)politica sociale, c)coesione
economica, sociale e territoriale, d)agricoltura, e) ambiente, f) protezione dei consumatori, g)
trasporti…..
Nei settori nei quali l’UE esercita solo una competenza di sostegno, coordinamento o
completamento dell’azione degli Stati membri, essa non si sostituisce alla competenza degli Stati
e non può procedere a disposizioni legislative e regolamentare degli Stati membri. Quest’attività
deve riguardare la “finalità europea” dei settori che comprende e non, quindi, la loro dimensione
solo nazionale. I settori individuati per tale azione sono: a)tutela e miglioramento della salute
umana, b) industria, c)cultura, d)turismo, e)istruzione, formazione professionale…
Vi sono, infine, alcune materie che si sottraggono alla suddetta classificazione, come in primo luogo
le politiche economiche e occupazionali che restano di competenza degli Stati membri. In secondo
luogo, presenta caratteristiche peculiari improntate al metodo intergovernativo, la politica estera e
di sicurezza comune.

14. L’esercizio delle competenze dell’UE: i principi di sussidiarietà e di proporzionalità.

Mentre il principio di attribuzione costituisce il fondamento della delimitazione delle competenze


dell’UE, l’esercizio di queste ultime è sottoposto a due altri principi regolatori, il principio di
sussidiarietà e il principio di proporzionalità.
Il principio di sussidiarietà ha radici nella scienza economica, politica e sociale e può avere una
duplice valenza: orizzontale, per quanto riguarda i rapporti tra autorità pubblica e sfera privata, e
verticale, per quanto riguarda i rapporti tra i diversi livelli del potere pubblico. È i quest’ultima
eccezione che tale principio viene in rilievo nell’ambito dell’UE, dove esso serve essenzialmente a
stabilire quando l’azione dell’UE si giustifica in alternativa ad un’azione da parte degli Stati
membri. Il principio di sussidiarietà, pertanto, si applica solo all’azione dell’UE nei settori che non
sono di sua competenza esclusiva. Nei suddetti settori, tale principio opera nel senso che
“l’Unione interviene soltanto se e i quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere
conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri…” Di conseguenza, l’intervento dell’UE può
aver luogo solo se a) vi sia la presunzione dell’insufficienza dell’azione degli Stati membri a
conseguire uno specifico obiettivo e b) l’intervento dell’UE sia necessario per un migliore
conseguimento dello stesso. In altro parole, nel caso di competenze concorrenti, la regola generale
è che l’intervento compete agli Stati membri, mentre quello dell’UE è l’eccezione.

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Secondo il principio di proporzionalità, originariamente ricostruito dalla giurisprudenza della
Corte di giustizia, è oggi formulato come segue: “il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione
si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati”. Più nello
specifico, “il principio di proporzionalità esige che gli atti delle istituzioni dell’Unione siano idonei
a realizzare i legittimi obiettivi e non eccedano i limiti di quanto è necessario”. Tale principio è
quindi volto ad assicurare che via corrispondenza tra i mezzi adoperati e il fine da raggiungere. Una
delle possibili applicazioni del principio comporta che le istituzioni dell’UE, qualora la base
giuridica lasci loro la scelta circa il tipo di atto da utilizzare, dovrebbero preferire gli atti che
comportano minori sacrifici per la sovranità degli Stati membri.
Venendo al Protocollo, esso stabilisce le modalità di applicazione dei principi di sussidiarietà e di
proporzionalità, contemplando soprattutto un articolato intervento dei Parlamenti nazionali ai fini di
controllo preventivo del rispetto del principio di sussidiarietà. Anzitutto, il Protocollo dispone che
ogni progetto di atto legislativo dell’UE debba essere trasmesso ai Parlamenti nazionali. Tale
progetto deve essere dettagliatamente motivato sotto il profilo del rispetto dei principi di
sussidiarietà. Il semplice difetto di motivazione riguardo i principi, può senz’altro condurre
all’impugnazione dell’atto dell’UE dinanzi alla Corte di giustizia per violazione delle forme
sostanziali. La prassi, infatti, mostra che le motivazioni circa il principio di sussidiarietà e di
proporzionalità sono spesso succinte. Entro otto settimane dalla suddetta trasmissione del progetto,
ciascun Parlamento nazionale po’ inviare ai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della
Commissione un “parere motivato” nel quale espone le ragioni per cui ritiene che il progetto in
questione non sia conforme al principio di sussidiarietà. L’impatto di tali pareri motivati è destinato
a crescere a seconda del loro numero.
Nel caso in cui i pareri motivati rappresentino almeno un terzo dell’insieme dei voti attribuiti ai
Parlamenti nazionali, l’autore è tenuto a riesaminarlo, potendo decidere di mantenere, modificare o
ritirare il progetto, ma dovendo comunque motivare la propria decisione (procedura c.d. del
“cartellino giallo”). Se però, i pareri motivati rappresentano almeno la maggioranza semplice dei
voti attribuiti ai Parlamenti nazionali, e l’atto deve essere adottato secondo la procedura legislativa
ordinaria, qualora la Commissione decida di mantenere la proposta deve spiegare le ragioni per le
quali la ritiene conforme al principio di sussidiarietà in un parere motivato, che viene sottoposto al
Parlamento europeo e al Consiglio, affinché tali istituzioni esaminino la compatibilità della
proposta con il principio di sussidiarietà. Questo esame ha per effetto che, se il Consiglio o il
Parlamento, a maggioranza dei voti espressi, ritengono che la proposta non sia compatibile con il
principio di sussidiarietà, questa non forma oggetto di ulteriore esame (procedura c.d. del
“cartellino arancione”). Il raggiungimento delle soglie richieste per tali procedure è tutt’altro che
agevole e solo in tre casi si è arrivati alla proceduta del cartellino giallo (mai per quella del
cartellino arancione).
In secondo luogo, il Protocollo dispone che anche il Comitato delle regioni può fare ricorso alla
Corte di giustizia per violazione del diritto di sussidiarietà, anche se unicamente con riguardo ad atti
legislativi per la cui adozione sia richiesta la sua consultazione. Resta da osservare che, nella
definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni , l’UE deve tenere conto di alcune
esigenze, tra cui l’eliminazione delle ineguaglianze, la promozione di un elevato livello di
occupazione e di istruzione, la lotta alle discriminazioni…

15. Le norme di diritto sostanziale dell’UE che realizzano i suoi obiettivi: spazio di libertà,
sicurezza e giustizia; mercato interno e sviluppo sostenibile dell’Europa; unione economica e
monetari; relazioni esterne (rinvio).

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In relazione a ciascuno di tali obiettivi i Trattati prevedono una serie di norme materiali. Quanto
all’obiettivo relativo allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, materia in cui l’UE e gli Stati
membri esercitano una competenza concorrente, esso trova ora la sua realizzazione esclusivamente
nelle norme di cui al Titolo V della Parte Terza del TFUE. Queste norme hanno ad oggetto a) le
politiche relative i controlli delle frontiere, all’asilo e all’immigrazione, b) la cooperazione
giudiziaria in materia civile, c) la cooperazione giudiziaria in materia penale, d) la cooperazione di
polizia. Inoltre, viene notevolmente ampliato il controllo giurisdizionale che può effettuare in
materia la Corte di giustizia; tuttavia, alcune decisioni importanti in materia richiedono ancora
l’unanimità da parte del Consiglio. La disciplina prevede anche un significativo coinvolgimento dei
Parlamenti nazionali, a livello di semplice informazione, di controllo e, persino, di veto.
Quanto all’obiettivo del mercato interno, esso comporta uno spazio senza frontiere interne, nel
quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Vale
la pena richiamare il processo che ha portato il mercato comune, originariamente previsto dal
Trattato di Roma, ad evolversi nel 1992 in mercato interno, a seguito delle modifiche introdotte
dall’Atto unico europeo. Per comprendere cosa aggiunge il mercato interno al mercato comune,
occorre ricordare che le quattro libertà di circolazione previste dal Trattato di Roma per la
realizzazione dell’allora mercato comune erano state fondamentalmente intese come obbligo per
ciascuno Stato membro di ammettere alla libera circolazione al proprio interno merci, persone,
servizi e capitali provenienti da altri Stati membri alle stesse condizioni valevoli per merci e
persone dello Stato in questione. L’integrazione così realizzata avveniva secondo le regole del
Paese di destinazione, nel senso che a persone, merci che volessero uscire dal proprio Paese di
origine, veniva garantita parità di trattamento con persone, merci del Paese di destinazione, in linea
con il divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità. Questa soluzione apparve presto
inadeguata, in quanto di possono celare delle situazioni profondamente discriminatorie. Per ovviare
a questi inconvenienti la Corte di giustizia ha cominciato a introdurre –sin dalla fine degli anni ’70-
il principio secondo cui i prodotti legalmente fabbricati e venduti in uno Stato membro devono
poter liberamente circolare negli altri stati membri, così come le persone legittimamente abilitate
all’esercizio di una professione in uno Stato membro devono poterla esercitare anche negli altri
Stati membri. Le uniche restrizioni che lo Stato può imporre devono essere giustificate da motivi
attinenti alla salute pubblica, alla correttezza del commercio, alla tutela dei consumatori, e simili. In
altre parole, con queste sentenze la Corte di giustizia a sostituito al principio del Paese dei
destinazione il principio del Paese di origine, secondo cui non è possibile per lo Stato di
destinazione imporre condizioni più onerose di quelle richieste dallo Stato di origine, con la sola
eccezione delle misure che possono essere giustificate da esigenze imperative di interesse
generale. La conseguenza dell’applicazione di tale principio potrebbe, però essere quella del
verificarsi di discriminazioni ala rovescia. Infatti, i cittadini di uno Stato in cui sono in vigore
determinate restrizioni non potrebbero esercitare professioni nel proprio Stato, mentre, in virtù del
principio del mutuo riconoscimento, potrebbero invece farlo i cittadini degli altri Stati membri (che
tali restrizioni eventualmente non prevedano).
La realizzazione del mercato interno è inserita nel quadro del più generale obiettivo dello sviluppo
sostenibile dell’Europa, al quale contribuiscono diverse altre politiche dell’UE, in particolare la
politica sociale e la politica ambientale.
Quanto all’obiettivo dell’ unione economica e monetaria, esso trova la sua realizzazione nelle
norme di cui al Titolo VIII della Parte Terza del TFUE. Ricordiamo che le politiche economiche
restano di competenza degli Stati membri, che assumono semplicemente l’obbligo di coordinarle
nell’ambito del Consiglio. L’UE, invece, ha una competenza esclusiva relativamente alla politica

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monetaria degli Stati membri la cui moneta è l’euro. Questa asimmetria nel trattamento riservato,
nell’ambito dell’UE, alla politica economica e a quella monetaria rappresenta però un elemento di
criticità, che spiega le difficoltà che l’unione economica e monetaria ha incontrato. Come insegna la
scienza economica infatti, la politica monetaria è strettamente collegata alla politica economica,
intesa come politica di bilancio, comprensiva di una politica fiscale (entrate) e di spesa pubblica
(uscite). La stabilità della moneta è influenzata dalla politica economica, dato che quanto più sana
è la politica economica, tanto più forte è la moneta. Nell’ambito dell’UE si è realizzata una moneta
unica, mentre non si è realizzata una politica economica comune, dato che questa realizzazione
avrebbe inciso troppo pesantemente sulla sovranità degli Stati. In assenza di una politica economica
comune, si è semplicemente prevista una procedura per evitare disavanzi eccessivi attraverso le
relative norme del TFUE. Ciò comporta una duplice conseguenza: allorché la politica economica è
gestita allo stesso livello di quella monetaria, la politica economica si adatta di volta in volta alle
situazioni contingenti, nel senso che, ad esempio, agisce sulle imposte, riducendole (favorendo la
spesa pubblica), o agisce in senso contrario per raffreddare l’economia e contrastare spinte
inflazionistiche. Quando invece, i criteri di politica economica sono fissati in un trattato, tale
flessibilità si perde. La seconda conseguenza è che la moneta unica riposa, in definitiva, sulla
volontà degli Stati membri di rispettare i propri impegni internazionalmente assunti in materia di
politica economica. La conclusione è che la moneta unica, senza una politica economica altrettanto
unica, non pare essere una realizzazione con i caratteri dell’irreversibilità.

16. L’UE e gli Stati membri: la leale cooperazione reciproca.

L’azione dell’UE, nell’esercizio delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri, non può
prescindere da una reciproca collaborazione con questi ultimi. Inoltre, essa deve coinvolgere nella
maggior misura possibile i cittadini degli Stati membri, in quanto diretti destinatari di molte norme
dell’ordinamento dell’UE. Il principio di leale cooperazione tra l’UE e gli Stati membri è
formulato come segue: “ In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si
rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati. […]
Gli stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi
misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione”. Dopo aver
ripetuto che le competenze non attribuite all’UE dai Trattati appartengono agli Stati membri, l’art.4
TUE sancisce, a carico dell’UE, l’obbligo di rispettare l’uguaglianza degli Stati membri dinanzi
ai loro Trattati, la loro identità nazionale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle
autonomie locali e regionali, nonché le funzioni essenziali dello Stato.
Quanto agli obblighi degli Stati membri, a prima vista parrebbe che la norma, costituisca una
semplice specificazione, nell’ambito dell’UE, dell’obbligo generale incombente agli Stati di
adempiere secondo buona fede ai trattati internazionali. Tuttavia, nella giurisprudenza della Corte di
giustizia, la norma ha finito con l’assumere la funzione di garantire l’effettività, la coerenza e la
completezza dell’intero ordinamento dell’UE. Essa è divenuta, di fatto, il fondamento di un obbligo
degli Stati membri, definito come obbligo di buona fede comunitaria. In ottemperanza con tale
obbligo, gli Stati membri devono porre tutte le loro strutture e meccanismi a servizio dell’interessa
generale perseguito dall’UE. La applicazioni concrete del principio di leale cooperazione sono state
molteplici e tutte molto significative. La corte di giustizia ha anche dedotto dal principio di leale
cooperazione l’obbligo per gli Stati membri di integrare cin proprio disposizioni sanzionatorie le
eventuali lacune al riguardo delle norme dell’UE. Tali sanzioni possono essere anche natura penale,
quando ciò sia giustificato dai valori e dagli interessi da proteggere. La corte di giustizia ha, inoltre,

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precisato che un obbligo di leale cooperazione esiste anche tra gli Stati membri e, l’art.13 TUE,
prevede ora espressamente un obbligo di leale cooperazione anche tra le istituzioni dell’UE.

17. L’UE e i cittadini: a) la nozione di cittadinanza dell’UE e i diritti che da essa discendono.

Una delle principali novità introdotte dal Trattato di Maastricht è stata la cittadinanza
dell’Unione. Ai sensi dell’art.9 TUE e dell’art. 20 TFUE, è cittadino dell’UE chiunque abbia la
cittadinanza di uno Stato membro. E’ da intendersi quindi che la cittadinanza dell’UE si acquista
o si perde a seguito dell’acquisto o della perdita della cittadinanza nazionale ai sensi di tale
legislazione. Con la sentenza Micheletti (Luglio 1992, la Corte di giustizia) affermava che la
determinazione dei modi di acquisto e di perdita della cittadinanza nazionale “deve essere esercitata
nel rispetto del diritto comunitario”.
L’art.9 TUE e l’art.20 TFUE precisano anche che la cittadinanza dell’UE “si aggiunge alla
cittadinanza nazionale e non la sostituisce”. Si tratta, quindi, di un concetto di cittadinanza sui
generis: esso non va confuso con la cittadinanza nazionale, la quale implica la soggezione ad uno
Stato. L’UE adotta, in verità, una sua nozione convenzionale di cittadinanza, che non mutua alcuna
delle caratteristiche tipiche di tale status quali previste negli ordinamenti interni, ma che trova la
sua definizione solo nei Trattati. Di fatto, le norme si riferiscono solo ai diritti e non contemplano
alcun dovere connesso alla cittadinanza dell’UE, a conferma della natura sui generis dell’istituto. In
buona sostanza, il cittadino dell’UE gode del diritto: a) di circolare e di soggiornare liberamente
nel territorio degli Stati membri, b) elettorato attivo e passivo nello Stato membro di residenza
per le elezioni al Parlamento europeo e per quelle comunali, c) di protezione diplomatica e
consolare da parte di uno qualunque degli Stati membri, nei confronti di un Paese terzo nel quale
egli si trovi, d) di petizione al Parlamento europeo, di ricorso al Mediatore europeo. L’elenco di
tali diritti non è inteso come tassativo e, del resto, nuovi diritti possono essere aggiunti con delibera
unanime del Consiglio.
Per quanto riguarda la libertà di circolazione e di soggiorno, essa è riconosciuta ai cittadini
dell’UE in quanto tali, e dunque anche se non sono lavoratori, i quali ultimi godono di un regime
particolare di libera circolazione sulla base delle norme relative al mercato interno. La libertà di
circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’UE non è senza limiti, in quanto lo stesso art.21 TFUE
fa salve “le limitazioni e le condizioni previste dai trattati”. Al riguardo, va menzionata la direttiva
del Parlamento europeo che disciplina in dettaglio il diritto dei cittadini dell’UE di circolare e
soggiornare nel territorio degli Stati membri. Tale direttiva prevede, tra l’altro, che per un soggiorno
superiore a tre mesi nel territorio di uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, il
cittadino UE che non sia economicamente attivo deve dimostrare di disporre di sufficienti risorse
economiche, così da non rappresentare un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato
ospitante. Inoltre, la direttiva prevede la possibilità per uno Stato membro di adottare provvedimenti
restrittivi della libertà stessa per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanità pubblica, pur
nel rispetto del principio di proporzionalità.
Circa l’elettorato attivo e passivo nello Stato membro di residenza per le elezioni comunali, il suo
effettivo riconoscimento ha in qualche caso richiesto modifiche costituzionali. Il Consiglio ha
emanato la direttiva che prevede la facoltà per i cittadini dell’UE di scegliere se votare nel proprio
Stato nazionale o in quello di residenza, nonché la possibilità per gli Stati membri di negare
l’eleggibilità di non cittadini alla carica di capo di un ente locale di base e di introdurre misure
derogatorie qualora la percentuale di cittadini dell’UE residenti, ma non nazionali, superi il 20
percento. La protezione diplomatica e consolare nei Paesi Terzi corrisponde a una prassi già
radicata nelle relazioni internazionali. Ai fini dell’attuazione di tale protezione, l’art.23 TFUE

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prevede anzitutto l’avvio di negoziati tra gli Stati membri e gli Stati terzi, negoziati che hanno in
effetti condotto alla previsione di disposizioni apposite all’interno di molti accordi consolari. La
protezione in esame comprende, in particolare, i casi di decesso, incidente o malattia grave, arresto,
atti di violenza, rimpatrio in casi di emergenza.

18. … b) i principi democratici: democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa.

Il Trattato di Lisbona ha visto l’introduzione di alcune norme che vanno a costituire il Titolo II del
TUE, significativamente “Disposizioni relative ai principi democratici”. Tali norme si
comprendono alla luce di quel problema del deficit democratico che ha determinato una serie di
interventi volti in particolare a rafforzare i poteri del Parlamento europeo, unica istituzione dell’UE
democraticamente eletta dai cittadini. Le disposizioni del Titolo II articolano le “credenziali
democratiche” attorno a tre profili essenziali: il principio della democrazia rappresentativa, il
principio della democrazia partecipativa e il contributo che anche i Parlamenti nazionali possono
offrire alla legittimità democratica dell’UE. Iniziando dal principio della democrazia
rappresentativa, dobbiamo osservare che esso assume un rilievo preminente, in quanto, è proprio
sulla democrazia rappresentativa che il funzionamento dell’UE “si fonda”. L’articolo prosegue
individuando tre dati che sostanziano questo principio: a) i cittadini europei sono direttamente
rappresentati, a livello dell’UE, nel parlamento europeo, b)i rappresentanti degli Stati membri sono
democraticamente responsabili dianzi ai loro Parlamenti nazionali, c) i partiti politici a livello
europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei
cittadini dell’UE. Secondo un’analisi più approfondita, il riferimento alla rappresentatività in
Parlamento appare quello più importante. In questa prospettiva, va apprezzato il progressivo
rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo nei processi decisionali dell’UE.
In riferimento poi, al fatto che ciascun membro del Consiglio europeo o del Consiglio risponde
politicamente dinanzi al rispettivo Palamento nazionale, è un’ovvia considerazione che non vale,
tuttavia, a conferire una legittimità democratica a tali istituzioni a livello dell’UE. Esse, infatti,
restano espressione degli esecutivi dei rispettivi Stati e i loro membri sono responsabili
politicamente in relazione al perseguimento degli interessi nazionali, non di quelli generali dell’UE.
Infine, quanto al ruolo dei partiti politici a livello europeo, dobbiamo osservare che questo è
ancora per molti versi embrionale. I partiti s aggregano là dove esiste un potere politico da
conquistare o da mantenere. Il ruolo dei partiti politici nel Parlamento europeo, privo di un
esclusivo potere legislativo, non è assimilabile a quello dei partiti politici nazionali. Un’ importante
novità al riguardo è stata però introdotta dal Trattato di Lisbona, laddove questo ha disposto che il
Consiglio europeo, quando propone al Parlamento europeo un candidato per la carica di Presidente
della Commissione, deve tenere conto delle elezioni del Parlamento Europeo. Ciò ha indotto i
principali partiti politici europei a indicare ciascuno un proprio candidato alla presidenza della
Commissione, riuscendo poi a ottenere che il Consilio europeo proponesse al Parlamento europeo
proprio il candidato indicato. Questo c.d. sistema degli Spitzenkandidaten, ossia dei capilista,
aggiunge innegabilmente un elemento di democraticità nell’impianto istituzionale dell’UE,
valorizzando le elezioni del Parlamento europeo. D’altra parte, la dottrina ha evidenziato anche
alcune implicazioni problematiche, poiché un troppo stretto legame della Commissione con una
maggioranza di riferimento sembra contraddire la logica di rappresentanza dell’interessa generale
dell’UE. In definitiva, dunque, permangono dei limiti a una completa affermazione della
democrazia rappresentativa nel quadro dell’UE. Solo una svolta in senso federale potrebbe
determinare il superamento di tali limiti.
Consapevoli di ciò, i redattori del Trattato di Lisbona hanno cercato di valorizzare anche ulteriori

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apporti alla democraticità dell’UE, e in particolare quelli che possono derivare dalla messa in atto di
strumenti di democrazia partecipativa. A questo proposito, l’art.10 TUE sancisce il diritto di ogni
cittadino di partecipare alla vita democratica dell’UE. Secondo l’art.11 TUE invece, e istituzioni
dell’UE si impegnano, da un lato, a dare ai cittadini e alle loro associazioni rappresentative la
possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni, e dall’altro a mantenere
“un dialogo aperto, trasparente e regolare” con tali associazioni e con la società civile in generale.
in secondo luogo, la norma obbliga la Commissione a procedere ad ampie consultazioni delle parti
interessate. Una novità è invece la c.d. iniziativa dei cittadini europei, prevista dall’art.11 TUE.
Quest’ultimo consente ad almeno un milione di cittadini dell’UE, che abbiano la cittadinanza di “un
numero significativo” di Stati membri, di invitare la Commissione a presentare, nell’esercizio del
proprio potere d’iniziativa, una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini
ritengono necessario un atto giuridico dell’UE. Il regolamento che disciplina la procedure
necessarie per la presentazione di un’iniziativa dei cittadini, fissa a un quarto del totale
(attualmente pare i a 7) il numero minimo degli Stati membri da cui devono partire i firmatari di
un’iniziativa dei cittadini; è altresì disposto che i firmatari devono avere l’età minima richiesta nei
rispettivi Stati membri per acquisire il diritto di voto per le elezioni al Parlamento europeo. Prima di
iniziare a raccogliere le firme a favore di un’iniziativa, i promotori ne devono chiedere la
registrazione alla Commissione, che vi procede dopo aver verificato che siano rispettate alcune
condizioni di ammissibilità. Qualora sia raggiunto il numero minimo di firme, la Commissione è
tenuta a esaminare nel merito l’iniziativa e ad esporre le proprie conclusioni giuridiche e
politiche. La Commissione non è dunque obbligata a presentare la proposta oggetto dell’iniziativa
dei cittadini. Fino ad oggi, solo quattro iniziative dei cittadini, su un totale di circa cinquanta, hanno
superato il milione di firmatari (Right2Water, One of Us, Stop Vivisection, Stop Glyphosate), e in
nessuno di questi casi la Commissione ha presentato le proposte sollecitate dai cittadini.

19. …c) l’evoluzione del ruolo dei Parlamenti nazionali.

Le disposizioni relative ai principi democratici si completano con l’art.12 TUEM, che riassume le
prerogative riconosciute ai Parlamenti nazionali da una serie di norme, rinvenibili nello stesso TUE,
nel TFUE e nel Protocollo n.1 (sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell’UE).
Anzitutto l’art.12 TUE prevede in via generale che i Parlamenti nazionali vengano informati dalle
istituzioni dell’UE. Tale obbligo -specificato nel Protocollo n.1- prevede la trasmissione ai
Parlamenti nazionali: a) di tutti i documenti di consultazione che la Commissione produce; b) di
tutti i progetti di atti legislativi inoltrati al Parlamento europeo. La ratio di queste previsioni è,
anzitutto, quella di incoraggiare una partecipazione “indiretta” dei Parlamenti nazionali alle attività
dell’UE attraverso l’esercizio di poteri di indirizzo e di controllo nei confronti dei rispettivi governi.
Tuttavia, il Trattato di Lisbona ha previsto anche delle ipotesi di diretto coinvolgimento dei
Parlamenti nazionali a livello dell’UE, la cui principale manifestazione è rappresentata dal loro
intervento nelle procedure legislative dell’UE, con lo specifico fine di vigilare sul rispetto del
principio di sussidiarietà. Ulteriori prerogative riconosciute ai Parlamenti nazionali dal Trattato di
Lisbona attengono allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Nell’ambito di tali formule sono
comprese varie forma di intervento, ma anche in questo settore, i Parlamenti vigilano
sull’applicazione del diritto di sussidiarietà.
L’art.12 TUE aggiunge alle prerogative dei Parlamenti nazionali la partecipazione alle procedure di
revisione dei Trattati. Si tratta, in particolare, di una delle due procedure di revisione semplificate
previste da tale norma, e in particolare di quella che riguarda la possibilità di sostituir il requisito
dell’unanimità con quello della maggioranza qualificata per alcune decisioni del Consiglio o di

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sostituire una procedura legislativa speciale con la procedura legislativa ordinaria. Infine, l’art.12
TUE dispone che i Parlamenti nazionali partecipino, insieme al Parlamento europeo, a una
cooperazioni interparlamentare. Anche se le norme appena esaminate danno ai Parlamenti
nazionali solo alcuni diritti di informazione e di controllo, presentano aspetti positivi sotto il profilo
della democratizzazione del funzionamento dell’UE. Tuttavia, secondo una lettura meno positiva, è
il potenziamento del Parlamento europeo, non dei Parlamenti nazionali, la modalità di
democratizzazione dell’UE più coerente con le caratteristiche del sistema.

20. L’integrazione differenziata e le cooperazioni rafforzate.

A partire dal Trattato di Amsterdam, si è cominciata a prevedere nei Trattati la possibilità di


cooperazioni rafforzate tra alcuni soltanto degli Stati membri, per consentire a questi ultimi di
realizzare forme di integrazione più avanzata. Prima di esaminare nei dettagli l’attuale disciplina di
questo istituto, occorre però inquadrarlo in una più ampia tendenza a realizzare forme di c.d.
integrazione differenziata tra gli Stati membri dell’UE. Nel diritto positivo, una prima forma di
integrazione differenziata era stata realizzata già con i c.d. Accordi di Schengen, ossia l’Accordo
sulla soppressione graduale dei controlli alla frontiere comuni. Alla relativa Convenzione di
applicazione avevano aderito inizialmente solo Francia, Germania e i tre Paesi del Benelux. Questi
accordi tuttavia, si collocavano al di fuori del quadro giuridico e istituzionale dell’UE. Tale
cooperazione rafforzata coinvolge oggi tutti gli Stati membri, ad esclusione del Regno Unito e
Irlanda, nonché taluni Stati terzi. Anche più di recente si sono formate forme di integrazione
differenziata Attraverso la conclusione di accordi internazionale, vale a dire il c.d. Fiscal Compact
e il Trattato MES.
A partire dal Trattato di Maastricht poi, ha cominciato a manifestarsi una seconda forma di
interazione differenziata, rappresentata dalle c.d. clausole di opting out, le quali esentano taluni
Stati membri dal rispetto di specifiche parti del diritto dell’UE. Citiamo al riguardo, tra i Protocolli
attualmente in vigore, il Protocollo n.21,in virtù del quale la disciplina dello spazio di libertà,
sicurezza e giustizia non si applica , entro certi limiti, al Regno Unito e all’Irlanda, o i Protocollo n.
30, che pone dei limiti all’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE al Regno Unito
e alla Polonia. Questa forma di integrazione differenziata ha quindi una valenza negativa, nel senso
che determina una retroguardia di Stati membri, sottratti all’obbligo di rispettare quelle parti della
disciplina comune che non sono disposti ad accettare per ragioni di carattere politico o giuridico.
L’istituto della cooperazione rafforzata risponde, invece, all’obbiettivo di favorire la formazione di
avanguardie di Stati membri, che approfondiscano la loro integrazione in alcuni specifici ambiti.
Quanto al numero dei partecipanti, l’art. 20 TUE prevede che una cooperazione rafforzata possa
instaurarsi tra almeno nove Stati membri, ma comunque, la Commissione e gli Stati membri si
debbono adoperare perché vi partecipi il maggior numero possibile di Stati. Pertanto, la
cooperazione rafforzata deve essere aperta in qualsiasi momento a tutti gli Stati membri. Quanto
al loro oggetto, le cooperazioni rafforzate possono riguardare solo settori in cui l’UE abbia una
competenza non esclusiva, e devono in ogni caso essere volte a “rafforzare il suo processo di
integrazione”. Inoltre è previsto che le cooperazioni rafforzate debbano rispettare i Trattati e il
diritto dell’UE e , in particolare, non debbano recare pregiudizio al mercato interno, né alla
coesione economica, sociale e territoriale. Esse devono anche rispettare diritti e obblighi degli Stati
membri che non vi partecipano, mentre questi ultimi, in base al principio della leale cooperazione,

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non possono ostacolarne l’attuazione da parte degli Stati partecipanti. Quanto alla procedura, la
richiesta di istituire una cooperazione rafforzata va presentata dagli Stati membri interessati alla
Commissione, la quale può presentare al Consiglio una proposta al riguardo. Nel caso di
presentazione della proposta al Consiglio, questo decide in merito a maggioranza qualificata, previa
approvazione del Parlamento europeo. È importante osservare che, ai sensi dell’art. 20 TUE, la
decisione del Consiglio che autorizza una cooperazione rafforzata può essere adottata solo “in
ultima istanza” (cioè qualora esso stabilisca che gli obiettivi ricercati da detta cooperazione non
possano essere conseguiti dall’Unione nel suo insieme). Gli atti adottati nell’ambito di una
cooperazione rafforzata sono obbligatori solo per gli Stati partecipanti e, se del caso, si applicano
direttamente solo all’interno di questi ultimi. Le varie condizioni sostanziali e procedurali per
l’instaurazione di una cooperazione rafforzata, se da un lato rispondono all’esigenza di garantire la
complessiva coerenza del quadro giuridico dell’UE, dall’altro non favoriscono il ricorso all’istituto
in esame. E solo dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che si sono registrate le prima
applicazioni dell’ istituto. Queste hanno interessato il settore della cooperazione giudiziaria civile
e il settore dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria. Più di recente, altre cooperazioni
rafforzate sono state realizzate in due ambiti di grande rilievo, ossia l’ambito della cooperazione
giudiziaria in materia penale e quello della difesa. Quanto al primo di questi settori, dopo un lungo
e travagliato negoziato, è stata istituita a titolo di cooperazione rafforzata tra venti Stati membri la
Procura europea, che, una volta operativa, sarà competente a individuare, perseguire e rinviare a
giudizio gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE.
Quanto al settore della difesa, l’art.42 TUE prevede una cooperazione strutturata permanente tra
alcuni soltanto degli Stati membri, provvisti di più elevate capacità militari e disposti ad assumersi
maggiori impegni per le missioni militari dell’UE.
Da ultimo, sottolineiamo che non costituisce, in senso stretto, un caso di cooperazione rafforzata,
ma piuttosto di un’ulteriore forma di integrazione differenziata sui generis, l’unione monetaria,
che ha portato all’adozione dell’euro da aprte di alcuni soltanto degli Stati membri. Tra i rimanenti
Stati membri, regno Unito e Danimarca beneficiano di un vero e proprio opting out.

CAPITOLO III: IL QUADRO ISTITUZIONALE DELL’UNIONE EUROPEA

21. Le istituzioni dell’UE e i principi che ne regolano i rapporti.

L’UE dispone di un quadro istituzionale attraverso il quale esercita le proprie competenze. Tale
quadro istituzionale mira a promuovere i valori fondanti dell’UE e a perseguirne gli obiettivi,
servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli Stati membri, nonché garantire la
coerenza, efficacia e continuità delle sue politiche ed azioni.
Gli organi dell’UE sono molteplici, ma l’art.13 TUE eleva al rango di istituzioni il Parlamento
europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione, la Corte di Giustizia dell’Unione
europea, la Banca centrale europea e la Corte dei conti. A tali organi si applicano le norme dei
Trattati che si riferiscono alle istituzioni, ma è detto che non si applichino anche ad altri organi
dell’UE, che non siano qualificato come istituzioni. Non esistono tra l’altro, criteri specifici che
distinguano le istituzioni dagli organi.
Le relazioni tra le istituzioni dell’UE sono improntate al rispetto di due principi che la Corte di
giustizia ha messo a punto: il principio dell’ equilibrio istituzionale e il principio della leale
cooperazione. Il primo comporta che ogni istituzione eserciti le sue competenze nel rispetto di
quelle delle altre istituzioni e implica che, come espressamente previsto dall’art.13 TUE, ciascuna

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istituzione agisca nei limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai Trattati. Il secondo principio,
che la Corte di giustizia ha inizialmente dedotto dall’analogo principio relativo ai rapporti tra gli
Stati membri e l’UE, implica a sua volta il dovere reciproco di agevolare e non ostacolare
l’esercizio delle competenze di ciascuna istituzione. È per facilitare il rispetto di questi principi che
si è sviluppata la prassi degli accordi interistituzionali. L’UE, alla stregua di ogni altra
organizzazione internazionale, non è invece strutturata secondo il principio della separazione dei
poteri. Va ricordato, al riguardo, che il principio di separazione dei poteri si è affermato nel
moderno Stato di diritto in risposta all’esigenza di decentrare poteri prima nelle mani del monarca
assoluto. Nelle organizzazioni internazionali invece, vi è l’opposta esigenza di crear al centro una
struttura sufficientemente forte da poter rappresentare gli interessi degli Stati membri uti universi,
aldilà dei loro interessi uti singuli. Pertanto, le organizzazioni internazionali non si strutturano
secondo il principio della separazione dei poteri, ma in modo da avere organi capaci di
rappresentare il momento unitario degli Stati membri. Come vedremo, gli interessi degli Stati
membri trovano espressione nel Consiglio europeo e nel Consiglio, mentre la Commissione
assicura la rappresentanza degli interessi degli Stati membri uti universi; in aggiunta, vi sono il
Parlamento europeo, rappresentante dei cittadini dell’ UE, e il Comitato delle regioni e il Comitato
economico e sociale, sedi di rappresentanza, rispettivamente, delle collettività regionali e locali
della società civile organizzata. Il risultato è che, più organi –rappresentativi di interessi diversi-,
esercitano congiuntamente i propri poteri nell’ambito della stessa funzione.

22. Composizione e funzionamento delle istituzioni dell’UE: a) il Parlamento europeo.

Il Parlamento europeo è composto, come recita l’art.14 TUE, dai “rappresentanti dei cittadini
dell’Unione”. Tale rappresentanza dei cittadini risponde ai principi democratici cui l’UE ispira il
suo rapporto con i cittadini stessi e comporta, in particolare, che il Parlamento europeo eserciti,
congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio, oltre a svolgere
funzioni di controllo politico. I membri del Parlamento europeo sono eletti a suffragio universale
diretto, per un mandato di cinque anni. Per quanto riguarda le modalità di elezione, l’art.223
TFUE prevede che lo stesso Parlamento europeo elabori un progetto volto a stabilire una
procedura uniforme in tutti gli Stati membri o principi comuni a tutti gli Stati membri, e che
il Consiglio stabilisca le disposizioni necessarie, con delibera da adottarsi all’unanimità e previa
approvazione del Parlamento europeo. Questa delibera del Consiglio è subordinata alla “previa
approvazione degli Stati membri” e costituisce in sostanza accordo internazionale. Nonostante i
molti progetti elaborati dal Parlamento europeo, non è stato finora possibile accordarsi su una
procedura elettorale uniforme. Sono stati stabiliti, invece, dei principi comuni, contenuti nell’ Atto
relativo all’elezione dei membri del Parlamento europeo a suffragio universale diretto,
originariamente adottato in vista delle prime elezioni che ebbero luogo nel 1979, e in seguito
modificato. Tale Atto prevede, tra l’altro, che le elezioni debbano svolgersi con il metodo
proporzionale, e che abbiano luogo in un giorno fissato tra il giovedì e la domenica di una
settimana fissata per tutti gli Stati membri. A parte tali principi comuni, la procedura elettorale resta
disciplinata da ciascuno Stato membro dalle rispettive disposizioni nazionali. In particolare, la
Corte di giustizia ha ritenuto da un lato, che gli Stati membri possano concedere il diritto di voto a
determinato persone che, pur non avendo la cittadinanza dell’UE, possiedono stretti legami con
essi; dall’altro, che gli Stati membri possano anche, per converso, privare taluni loro cittadini del
diritto di voto, purché nel rispetto del principio della parità di trattamento con gli altri cittadini.
Il numero dei componenti del Parlamento europeo è venuto crescendo a seguito dei successivi
allargamenti dell’’UE, passando dai 142 originari ai 751 membri previsti come tetto dall’art.14

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TUE. Tale norma parla in verità di 750 membri “più il presidente”, con una formula bizzarra frutto
di un compromesso raggiunto nelle ultime fasi del negoziato del Trattato di Lisbona per rispondere
alla richiesta avanzata dall’Italia di disporre di 73 seggi, al parti del Regno Unito, invece che di 72
seggi. Circa il numero di parlamentari da eleggersi in ogni Stato membro, l’art.14 TUE stabilisce
che “la rappresentanza dei cittadini è garantita in modo degressivamente proporzionale”, con ciò
intendendo che il criterio demografico non verrà rigorosamente rispettato, ma che i parlamentari
espressi dai Paesi più popolati saranno, in rapporto alla loro popolazione, in numero inferiore
rispetto a quelli dei Paesi meno popolati (anche se questi ultimi non dovranno comunque avere più
seggi di quelli di un Paese più popolato). Nel rispetto di tali criteri, la composizione effettiva del
Parlamento europeo è decisa dal Consiglio europeo all’unanimità, su iniziativa del Parlamento
europeo e previa approvazione dello stesso.
Per quanto riguarda la ripartizione dei seggi per la legislatura 2019-2024, si tiene conto dell’ormai
prossimo recesso del Regno Unito dall’UE, che prevede una riduzione del numero dei membri a
705, con una solo parziale riassegnazione agli altri Stati membri dei 73 seggi spettando al Regno
Unito nella corrente legislatura.
Lo statuto e le condizioni generale per l’esercizio delle funzioni dei parlamentari europei sono
stabiliti di sua iniziativa dal Parlamento europeo, che delibera con regolamento previo parere della
Commissione e previa approvazione del Consiglio. I parlamentari sono liberi e indipendenti; non
possono ricevere istruzioni né mandati imperativi. Il già menzionato Atto relativo all’elezione dei
membri del Parlamento europeo a suffragio universale diretto stabilisce alcune incompatibilità con
la carica di parlamentare europeo. In particolare, non può essere deputato europeo chi è anche
membro di altre istituzioni dell’UE o di un governo nazionale (quest’ultima incompatibilità deriva,
ovviamente, dalla caratteristica tipica del Parlamento europeo, che è quella di rappresentare i
cittadini e non gli Stati). Questa incompatibilità è volta a scongiurare i pericolo di assenteismi
dovuti alla necessità di adempiere alle incombenze derivanti dalla carica di parlamentare nazionale.
Le immunità e i privilegi dei membri del Parlamento europeo prevedono che i parlamentari
europei non possono essere ricercati, detenuti o perseguiti a motivo delle opinioni o dei voti
espressi nell’esercizio delle loro funzioni. Ess, inoltre, per la durata delle sessioni del Parlamento,
godono, sul territorio nazionale, delle immunità riconosciute ai parlamentari del loro Paese e, sul
territorio di ogni altro Stato membro, dell’esenzione di ogni provvedimento di detenzione o
procedimento giudiziario. Quest’immunità, in ogni caso, può essere tolta dal Parlamento europeo
stesso.
L’organizzazione e il funzionamento del Parlamento europeo sono disciplinati dal suo regolamento
interno, che è espressione del potere di auto-regolamentazione di cui gode la maggior parte delle
organizzazioni internazionali. In regolamento interno non potrebbe, in teoria, contenere disposizioni
ultra vires, ovvero eccedenti i poteri attribuiti al Parlamento europeo dai Trattati; tuttavia, attraverso
tale regolamento il Parlamento europeo ha talvolta tentato di dotarsi di poteri non previsti dai
Trattati.
Il Parlamento europeo si organizza al proprio interni non secondo la nazionalità dei propri
componenti, ma secondo gruppi politici che condividono idee politiche affini. L’art. 32 del
regolamento interno stabilisce che, per costituire un gruppo politico, occorre un numero minimo di
25 parlamentari eletti in almeno un quarto degli Stati membri; in applicazione di questa regola,
nella legislatura 2014-2019 sono stati costituiti 8 gruppi politici.
Quanto all’organizzazione dei loro lavori, i parlamentari europei si suddividono in commissioni
permanenti, cui è attribuita una competenza per materia (per lo più corrispondente alla ripartizione
di competenze che esiste tra le varie Direzioni generali della Commissione). Il Parlamento europeo

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elegge al proprio interno un Presidente e alcuni Vicepresidenti, che rimangono in carica due anni e
mezzo e che tutti insieme costituiscono l’Ufficio di presidenza. Quest’ultimo nomina un Segretario
generale, che è a capo del Segretariato generale del Parlamento. Il Presidente del Parlamento ha
visto con il tempo accrescere il suo peso politico, in corrispondenza con l’aumento dei poteri del
Parlamento stesso.
L’art. 229 TFUE prescrive che il Parlamento europeo tenga una sessione annuale, la quale ha
inizio, di diritto, il secondo martedì del mese di marzo. In pratica, nell’ambio di tale sessione
annuale, il Parlamento tiene una tornata plenaria al mese, così che esso può considerarsi
sostanzialmente in sessione per tutto l’anno.
La sede del Parlamento europeo ha costituito terreno di scontro tra gli Stati membri co-interessati
ad ospitarne le sedute. Il protocollo n.6 sulle sedi delle istituzioni, allegato ai Trattati, fissa ora la
sede del Parlamento europeo a Strasburgo, ove si tengono le dodici tornate plenarie mensili. Le
tornate plenaria aggiuntive si tengono a Bruxelles. Le commissioni si riuniscono a Bruxelles. Il
segretariato generale del Parlamento europeo e i suoi servizi sono a Lussemburgo. Questa
dispersione dei luoghi non contribuisce certo a massimizzare l’efficienza dei lavori dell’istituzione
e a ridurne i costi.
Nei casi in cui i Trattati non dispongano diversamente, il Parlamento europeo delibera a
maggioranza dei suffragi espressi. Il numero legale (o quorum) è raggiunto quando sia presente
in aula un terzo dei membri del Parlamento. Per le delibere più importanti invece è richiesta la
maggioranza assoluta dei membri del Parlamento europeo: così, per esempio, per molte delibere
in materia di bilancio, per l’elezione del Presidente della commissione, per l’approvazione del
proprio regolamento interno, in materia di procedura semplificata di revisione dei Trattati, per
l’ammissione di nuovi Stati membri…. Per delibere cruciali, come la constatazione dell’esistenza di
una violazione grave e persistente da parte d una Stato membro dei valori di cui all’art.2 TUE, è
prevista la maggioranza dei membri e dei 2/3 dei voti espressi, mentre la maggioranza dei
membri e dei 3/5 dei voti espressi è prevista perché il Parlamento europeo possa confermare
emendamenti al bilancio respinti dal Consiglio.

25. … b) Il Consiglio europeo.

Il Consiglio europeo ha il compito di dare all’UE “gli impulsi necessari al suo sviluppo” e di
definire “gli orientamenti e le priorità politiche generali”, come stabilisce l’art.15 TUE. Il suo
ruolo è, quindi, essenzialmente di indirizzo politico, tanto che, in coerenza con ciò, la norma
precisa che il Consiglio europeo non esercita funzioni legislative. Tale ruolo trova espressione
nelle conclusioni che lo stesso Consiglio europeo adotta al termine di ciascuna riunione. Il
Consiglio europeo rappresenta la definitiva istituzionalizzazione di una pratica di riunioni
periodiche tra i capi di Stato o di governo, iniziata con i c.d. Vertici, al fine di fornire nuovi
indirizzi politici all’attività dell’UE. Il primo di tali Vertici fu quello di Parigi del 1961. I Vertici
cambiarono la propria denominazione in Consiglio europeo, denominazione poi confermata in
occasione del suo primo riconoscimento formale ad opera dell’AUE. Da quel momento, il
Consiglio europeo ha svolto un ruolo crescente di propulsione per l’attività dell’UE, vedendosi
anche attribuire specifici poteri decisionali accanto alla più generale funzione di indirizzo politico.
Questa evoluzione è culminata con il Trattato di Lisbona, che, gli ha riconosciuto lo status di
istituzione dell’UE.
Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo
Presidente e dal Presidente della Commissione. Il Presidente del Parlamento europeo può essere
eventualmente invitato alle riunioni per essere ascoltato. Il Presidente del Consiglio europeo è

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eletto da quest’ultimo a maggioranza qualificata per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile
una sola volta. Egli non può esercitare un mandato nazionale. Il Consiglio europeo può porre fine
al mandato del suo Presidente per impedimento o colpa grave. Il Parlamento europeo non è il alcun
modo coinvolto nell’elezione del Presidente del Consiglio europeo.
Il Presidente del Consiglio europeo non è gerarchicamente superiore rispetto agli altri membri, ma
è piuttosto chiamato a svolgere delle funzioni, che sono essenzialmente di carattere procedurale
o strumentale. Egli, infatti, a) convoca, presiede ed anima le riunioni del Consiglio, b) assicura la
preparazione e la continuità dei suoi lavori, c) si adopera per facilitare il raggiungimento del
consenso al suo interno, d) presenta al Parlamento europeo una relazione dopo ciascuna delle sue
riunioni. Inoltre, egli assicura la rappresentanza esterna dell’UE nell’ambito della politica estera
e di sicurezza comune. Nel complesso, dunque, il Presidente del Consiglio europeo è concepito
come una figura chiamata ad agevolare i lavori dell’istituzione e a mediare tra i capi di Stato o di
governo. Il Consiglio europeo si riunisce due volte a semestre, su convocazione del Presidente, ma
vi possono essere riunioni straordinarie se la situazione lo richiede. Il regolamento interno del
Consiglio europeo dispone che le riunioni abbiano luogo a Bruxelles, salvo circostanze eccezionali.
Le delibere del Consiglio europeo sono adottate secondo il metodo del consenso, in virtù del quale
una delibera si considera approvata, senza procedere a una formale votazione, se nessuno dei
membri solleva obiezioni. In effetti, i Trattati prevedono molti casi in cui il Consiglio europeo
procede, invece, a votazione è importante sottolineare che, nei casi di votazione, né il Presidente
del Consiglio europeo, né il Presidente della Commissione partecipano al voto. Questa mancata
partecipazione ha una sua logica nel caso di votazioni a maggioranza qualificata, dato che la
relativa procedura si riferisce a percentuali di Stati membri e di popolazione di tali Stati. La ratio
dell’esclusione dal voto di questi ultimi sfugge invece, per i casi di votazioni all’unanimità o a
maggioranza semplice. In ogni modo, è lecito affermare che, quando procede a votazione, il
Consiglio europeo è a pieno titolo un organo collegiale di Stati, nel senso che l’individuo che
esercita il diritto di voto non lo fa a titolo individuale, ma in rappresentanza dello Stato di
appartenenza. Quanto all’unanimità, essa è richiesta per delibere di particolare importanza, come,
per esempio, per la constatazione di una grave e persistente violazione, da parte di uno Stato
membro, dei valori di cui all’art.2 TUE, per la decisione sulla composizione del Parlamento
europeo, nell’ambito dell’azione esterna dell’UE…
Vi sono poi casi in cui è previsto che il Consiglio europeo decida a maggioranza qualificata, ad
esempio, come abbiamo appena visto, per l’elezione del suo Presidente, per le decisioni sulle
formazioni del Consiglio e sulla loro presidenza. Per il Consiglio europeo valgono le stesse regole
per il calcolo della maggioranza qualificata previste per il Consiglio, ma dato lo scarso numero di
decisioni a maggioranza qualificata che il Consiglio europeo può adottare, l’importanza della
procedura di voto a maggioranza qualificata è molto maggiore per il Consiglio.
In altri casi, infine, il Consiglio europeo delibera a maggioranza semplice, come per la decisione
relativa all’esame delle proposte di modifica dei Trattati o le decisioni su questioni procedurali,
inclusa l’adozione del proprio regolamento interno. Quando il Consiglio europeo procede a
votazione, ogni membro può ricevere delega da uno solo degli altri membri. Inoltre, l’astensione di
membri presenti o rappresentati non osta al raggiungimento dell’unanimità, ove richiesta, mentre è
da ritenersi che l’assenza di uno degli stessi sia, invece, di ostacolo a tale raggiungimento. La
natura del Consiglio europeo sfugge a una definizione unitaria, in quanto i suoi compiti non sono
omogenei. Indubbiamente, esso svolge anzitutto la funzione di indirizzo politico –che gli è
assegnata dall’art.15 TUE-. A volte però, il Consiglio europeo è chiamato a integrare o attuare
disposizioni dei Trattati, come quando decide sulle formazioni del Consiglio o sulla composizione

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del Parlamento europeo, o ancora, come quando nomina il proprio Presidente e l’Alto
rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza. Talvolta, poi, esso potrebbe apparire
come una riunione di organi degli Stati membri, al pari di una conferenza intergovernativa. Altre
volte, infine, il Consiglio europeo agisce come un organo di seconda istanza rispetto al Consiglio, o
in qualche modo sovraordinato rispetto allo stesso.

24. … c) Il Consiglio.

Il Consiglio ha il compito primario di esercitare, congiuntamente al Parlamento europeo, la


funzione legislativa e la funzione di bilancio. In via molto generale, il loro esercizio congiunto
implica che occorra l’accordo di due istituzioni, una (il Consiglio) che rappresenta gli Stati membri
nei loro interessi particolare, l’altra (il Parlamento europeo) che rappresenta i cittadini europei,
perché tali funzioni possano essere esplicate nell’ambito dell’UE. La conseguenza è che il mancato
accordo tra le due istituzioni paralizza l’azione dell’UE, in quanto nessuna delle due può indirizzare
tale azione esclusivamente secondo il suo volere. Altro compito attribuito al Consiglio, è quello di
esercitare competenze di esecuzione, ed è inoltre titola re di un potere generale di emanare
raccomandazioni.
Il Consiglio è composto da un rappresentate di ciascuno Stato membro a livello ministeriale,
quindi i suoi membri sono di un livello inferiore rispetto a quelli del Consiglio europeo, ma devono
pur sempre essere in grado di impegnare i rispettivi Stati attraverso l’esercizio del diritto di voto. La
rappresentanza a livello ministeriale implica la partecipazione alle riunioni di Ministri,
Sottosegretari, o di qualsiasi altra persona avente rango ministeriale. In realtà, la norma è stata
interpretata abbastanza elasticamente, così che da alcune riunioni del Consiglio, quando i Ministri
o i Sottosegretari sono impossibilitati, partecipano funzionari governativi di rango inferiore. Il
Consiglio è un organo collegiale di Stati, ne senso che abbiamo indicato per il Consiglio europeo
e, assieme a quest’ultimo, costituisce la massima espressione del momento intergovernativo
nell’equilibrio istituzionale dell’UE. In Consiglio si riunisce in varie formazioni in corrispondenza
dei settori di attività dell’UE. Come già accennato, spetta al Consiglio europeo stabilire l’elenco di
tali formazioni. Tale elenco deve comunque comprendere una formazione “Affari generali”, la
quale elabora l’azione esterna dell’UE secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo
e assicura la coerenza dell’azione dell’UE nel settore. Attualmente, le formazioni del Consiglio
sono quelle definite dal Consiglio “Affari generali”, con la decisione del 1° Dicembre 2009. Esse
includono, oltre alle due appena citate, le formazioni “Affari economici e finanziari”, “Giustizia e
affari interni”, “Agricoltura e pesca” ecc.. per un totale di dieci formazioni che coprono, nel
complesso, tutti i settori di attività dell’UE. La presidenza del Consiglio è esercitata dai suoi
membri secondo un sistema di rotazione paritaria, con la sola eccezione della presidenza della
formazione “Affari esteri”, che spetta di diritto all’Alto rappresentante dell’unione per gli affari
esteri e la politica di sicurezza. Anche in questo caso è demandato al Consiglio europeo il compito
di stabilire il suddetto sistema di rotazione prioritaria. La decisione del 1° Dicembre prevede che la
presidenza del Consiglio e delle sue formazioni venga esercitata da gruppi predeterminati di tre
Stati membri per un periodo di diciotto mesi, nell’arco del quale ciascuno di tali Stati esercita a
turno la presidenza per sei mesi e gli altri due lo assistono in tale compito sulla base di un
programma stabilito in comune dai tre Stati per l’intero periodo. I gruppi di tre Stati membri
vengono determinati sulla base di un sistema di rotazione paritaria degli Stati membri, tenendo
conto della loro diversità e degli equilibri geografici dell’Unione. In sostanza, attraverso queste
regole si mantiene il sistema di rotazione semestrale tradizionalmente adottato per la presidenza del
Consiglio, ma si consente una pianificazione dell’attività della presidenza. Il Consiglio, nelle sue

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varie formazioni, si riunisce su convocazione del suo Presidente. Esso non è quindi un organo
permanente, come lo sono gli altri organi –ad esempio la Commissione-. Per ovviare agli
inconvenienti creati dalla crescente frequenza delle riunioni, si è sviluppata la prassi della
procedura scritta, secondo cui il testo di una determinata risoluzione viene inviato ai vari Stati
membri, che manifestano per iscritto il loro dissenso o assenso. Altro sviluppo introdotto dalla
prassi è quello dei Consigli informali, i quali hanno luogo quando gli Stati membri desiderano
discutere una materia relativamente alla quale non intendono adottare nessuno specifico
provvedimento, ma semplicemente scambiarsi i rispettivi punti di vista. Carattere informale ha
anche l’Eurogruppo, che riunisce i Ministri economico-finanziari degli Stati membri la cui moneta
è l’euro. Il Consiglio è assistito da un Segretario generale, che svolge le stesse funzioni di assistenza
anche nei confronti del Consiglio europeo, e dal Comitati dei rappresentanti permanenti dei governi
degli Stai membri, o COREPER. Il COREPER è composto dai rappresentanti diplomatici che
ciascuno Stato membro accredita presso l’UE. Esso è responsabile della preparazione dei lavori del
Consiglio e dell’esecuzione dei compiti che questo gli assegna. A differenza del Consiglio, il
COREPER è un organo permanente e, quindi, in grado di svolgere senza soluzione di continuità il
suo ruolo. In pratica, il COREPER filtra le proposte della Commissione, con la conseguenza che
tali proposte vengono poi sottoposte al Consiglio per la sola ratifica formale (c.d. “punti A”
dell’ordine del giorno), oppure inoltrando al Consiglio per la discussione quelle più problematiche
(c.d. “punti B”) e, infine, bloccando le proposte che gli Stati membri non sono nemmeno preparati
a discutere. Si aggiunga che i lavori del COREPER sono a loro volta preparati da numerosi gruppi
di lavoro specializzati per materia. L’art. 16 TUE stabilisce che, quando i Trattati non dispongano
diversamente, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata. Il sistema di voto a maggioranza
qualificata comporta la necessità di una doppia maggioranza: il consenso di almeno il 55% dei
membri del Consiglio con un minimo di 15 Stati, i quali rappresentino Stati membri che
totalizzino almeno il 65% della popolazione dell’UE. Si tiene, così, conto sia degli Stati
individualmente considerati, che della importanza relativa degli stessi sulla base della loro
popolazione. Secondo queste regole, la “minoranza di blocco”, cioè il numero di Stati in grado di
bloccare, con il loro dissenso, il raggiungimento della suddetta maggioranza, sarebbe pari a 13
Stati, o, in alternativa, a un numero di Stati che abbiano una popolazione superiore al 35% del
totale. L’art.16 TUE precida però, che la minoranza di blocco relativa alla popolazione deve
comprendere almeno 4 Stati (per evitare che tre Stati di grande popolazione siano in grado da soli
di bloccare una decisione).
Regole lievemente diverse valgono per il caso in cui il Consiglio non deliberi su proposta della
Commissione o dell’Alto rappresentante dell’Unione, ma di sua iniziativa o su proposta proveniente
da altri soggetti. In tali casi, in cui manca la garanzia di una proposta proveniente da un organo
preposto alla tutela dell’interesse dell’UE, la maggioranza richiesta per il numero degli Stati
membri passa dal 55% al 72%, mentre la maggioranza richiesta per la popolazione resta al 65%.
Queste regole sulla maggioranza qualificata, previste dal Trattato di Lisbona, non sono tuttavia
entrate in vigore contestualmente a quest’ultimo, ma solo dal 1° novembre 2014, data la resistenza
di Stati come la Spagna e la Polonia. Fino al 31 ottobre 2014 quindi, ha continuato ad applicarsi,
per il calcolo della maggioranza qualificata, il sistema di ponderazione dei voti stabilito dal Trattato
di Nizza. Questa ponderazione teneva conto grosso modo del criterio demografico, ma con
importanti correttivi dettati da motivi politici, economici e di opportunità. Tale ponderazione dei
voti è ora definitivamente abolita e sostituita dal differente peso attribuito agli Stati. L’introduzione
del nuovo sistema di calcolo della maggioranza qualificata è stata accompagnata da ulteriori
cautele. La relativa decisione prevede norme particolari tutte volte a rendere più difficile l’adozione

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di decisioni a maggioranza qualificata e a favorire gli Stati dissenzienti. La decisione prevede che,
se un numero di membri del Consiglio che rappresenta a) almeno il 55% della popolazione
necessaria per costituire una minoranza di blocco o b) almeno il 55% degli Stati membri necessari
per costituire una minoranza di blocco, manifesta l’intenzione di opporsi all’adozione di un atto a
maggioranza qualificata, il Consiglio prosegue la discussione per un periodo di tempo ragionevole,
con l’obiettivo di pervenire a una situazione soddisfacente per gli Stati dissenzienti, anche se
minoritari. Due osservazioni conclusive si impongono al riguardo: l’importanza vitale che gli Stati
membri attribuiscono alla materia, dimostrato da tuti i loro sforzi per ritardare o rendere più
difficile l’applicazione di nuove regole; e in secondo luogo, pur se la decisione in questione è il
simbolo dell’attaccamento degli Stati membri alla tutela dei loro interessi particolari, nel suo
preambolo essa viene giustificata dall’esigenza di “rafforzare la legittimità democratica delle
deliberazioni prese a maggioranza qualificata”.
Venendo ora ai casi in cui il Consiglio decide all’unanimità, bisogna sottolineare come, con il
progressivo aumento degli Stati membri, questa regola abbia via via reso più difficile il cammino
dell’integrazione europea. Ci si attendeva che il Trattato di Lisbona riducesse drasticamente i casi di
decisioni all’unanimità. Tale riduzione si è in parte verificata, ma non nella maniera auspicata, in
quanto, sono ancora circa 70 le disposizioni che ancora prevedono che il Consiglio deliberi
all’unanimità nelle più svariate materie. Questa situazione conferma l’attaccamento da sempre
dimostrato dagli Stati membri alla regola dell’unanimità. Ricordiamo infatti, che, quasi a
compensare l’ancora diffusa previsione del criterio dell’unanimità, la sua sostituzione con il voto a
maggioranza qualificata nell’ambito del TFUE può avvenire secondo una procedura di revisione
semplificata. Accanto a tale clausola “orizzontale”, inoltre, vi sono casi di “passerelle settoriali”,
intese ad agevolare il passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata in specifiche materie.
Per dare attuazione a tali clausole occorre sempre, però, l’unanimità degli Stati membri. Il
Consiglio può anche, in alcuni casi, deliberare a maggioranza semplice dei membri che lo
compongono. La maggioranza semplice è utilizzata solo per provvedimenti interorganici o
adempimenti procedurali del Consiglio.
Come per il Consiglio europeo, anche il Consiglio, in caso di votazione, ciascun membro può
ricevere delega da uno solo degli altri membri. Inoltre, le astensioni di uno o più dei membri
presenti o rappresentati non ostacolano l’adozione di decisioni unanimi. Una particolare forma di
astensione nel settore della politica estera e di sicurezza comune è l’ “astensione costruttiva”, in
quanto intende rappresentare per gli Stati dissenzienti un’alternativa al voto contrario, la quale
comporta che la decisione del Consiglio non si applichi agli Stati membri che abbiano dichiarato la
propria astensione con un’apposita dichiarazione formale. L’assenza di uno o più Stati membri non
consenti, invece, l’adozione di una delibera all’unanimità. Il Consiglio ha sede a Bruxelles. Il
Consiglio si riunisce in seduta pubblica quando delibera e vota su un progetto di atto legislativo.
Il Consiglio è un’istituzione dell’UE e, come tale, i suoi atti sono imputabili all’UE stessa e non ai
singoli Stati membri. Tuttavia, al pari del Consiglio europeo, anche il Consiglio potrebbe sembrare
una riunione di organi degli Stati membri, al pari di una conferenza intergovernativa. Sono però da
considerare come accordi internazionali in forma semplificata, imputabili agli Stati membri e non
all’UE, quelle delibere che vengono prese “di comune accordo dai governi degli Stati membri”. In
tali casi, anche se si riuniscono in Consiglio, i partecipanti agiscono non più come componenti di
un’istituzione dell’UE, ma come riunione dei rappresentanti degli Stati membri. I casi in cui essi
decidono all’unanimità, testimonia la persistente prevalenza della dimensione intergovernativa
nell’equilibrio istituzionale dell’UE.

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25. … d) la Commissione e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica
di sicurezza.

La Commissione è considerata la “guardiana” dei Trattati. I suoi compiti essenziali sono di


promozione dell’interessa generale dell’UE e di vigilanza sull’applicazione del diritto dell’’UE. In
questo contesto essa esercita i poteri di iniziativa, decisionali e di controllo. Essa, inoltre, è titolare
di un potere generale di emanare raccomandazioni e gode altresì di un potere generale di
“raccogliere tutte le informazioni e procedere a tutte le necessarie verifiche” nei limiti e alle
condizioni fissati dal Consiglio. La Commissione è composta da un cittadino di ciascuno Stato
membro, compresi il suo Presidente e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, che,
come vedremo, è uno dei suoi Vicepresidenti. In verità, dal 1° novembre 2014 la Commissione
avrebbe dovuto avere un numero d membri pari ai 2/3 del numero degli Stati membri, a meno che il
Consiglio europeo non avesse deciso di modificare tale numero: quando di fatto è avvenuto con la
decisione di comprendere un numero di membri pari a quello degli Stati membri. I membri della
Commissione sono scelti “in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo”.
Essendo, quindi, i Commissari nominati a titolo individuale, la Commissione, a differenza del
Consiglio, è un organo collegiale di individui. L’art.17 TUE infatti, specificano i contenuti del
requisito della piena indipendenza dei Commissari e i loro obblighi. Tali norme prevedono che i
membri della Commissione non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione,
organo ed organismo, e che, correlativamente, gli Stati membri si impegnano a rispettare
l’indipendenza dei Commissari e a non cercare di influenzarli nell’esecuzione dei loro compiti. La
sola eccezione è costituita dall’Alto rappresentante (…), il quale agisce, non solo come membro e
Vicepresidente della Commissione, ma anche come “mandatario” del Consiglio, in rappresentanza
degli interessi degli Stati membri. I Commissari a) si astengono da ogni atto incompatibile con il
carattere delle loro funzioni, b) non possono, per la durata delle loro funzioni, esercitare
nessun’altra attività professionale e c) anche dopo la cessazione delle loro funzioni hanno l’obbligo
di rispettare i dovere di onestà e delicatezza nell’accettare determinate funzioni. In caso di
violazione da parte dei Commissari dei suddetti obblighi, la Corte di giustizia, su istanza del
Consiglio o della Commissione, può pronunciare le dimissioni d’ufficio del Commissario in
questione.
La procedura di nomina dei membri della Commissione si svolge in più fasi. In primo luogo, il
Consiglio europeo, a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla
carica di Presidente della Commissione. La proposta va formulata tenendo conto delle elezioni al
Parlamento europeo. E’ infatti il Parlamento europeo che deve eleggere, a maggioranza dei
membri che lo compongono, il Presidente della Commissione proposto dal Consiglio europeo. una
volta eletto il Presidente, è il Consiglio che, d’accordo con quest’ultimo, adotta l’elenco degli altri
candidati che propone di nominare come Commissari. Infine, il presidente, l’Alto rappresentante e
gli altri Commissari così designati sono soggetti, collettivamente e non individualmente, a un voto
di approvazione da parte del Parlamento europeo. Dopo tale approvazione, l’intera
Commissione è nominata dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata. Inoltre,
il Parlamento europeo ha instaurato la prassi di procedere, prima del voto di approvazione, ad
audizioni pubbliche dei candidati Commissari.
Il Presidente della Commissione gode di una vasta gamma di poteri, che si sono accresciuti nel
tempo attraverso la prassi e le varie revisioni dei Trattati., tra cui : a) definire gli orientamenti
generali della Commissione e dei suoi compiti, b) decidere sull’organizzazione interna della
Commissione, c) nominare i Vicepresidenti. Il potere più importante del Presidente della
Commissione è, però, quello di obbligare un Commissario a rassegnare le dimissioni, anche in

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questo caso ci la sola eccezione dell’Alto rappresentante, al cui mandato, solo il Consiglio europeo
può porre fine. I Commissari durano in carica 5 anni. Oltre che per decorrenza del termine, essi
vengono a scadere anche per decesso, dimissioni d’ufficio o dimissioni volontarie, nei quali è il
Consiglio a sostituirli con un membro della stessa nazionalità per la restante parte del loro mandato.
Il Consiglio può anche decidere di non coprire il posto vacante.
La Commissione al proprio interno è assistita da un Segretario generale ed è organizzata in
Direzioni generali competenti per materia, a capo di ciascuna delle quali è preposto un
Commissario. Nonostante tale ripartizione di competenze tra i Commissari, vige il principio della
responsabilità collegiale degli stessi. La sede della Commissione è a Bruxelles, con alcuni servizi
distaccati a Lussemburgo. Uffici di rappresentanza esistono in molte città, comprese Roma e
Milano. Le decisioni della Commissione sono prese a maggioranza dei suoi membri.
L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza è nominato dal
Consiglio europeo a maggioranza qualificata con l’accordo del Presidente della Commissione. Il
Consiglio europeo ha anche il potere di porre fine al suo mandato. Il Parlamento europeo non è
coinvolto nella nomina dell’Alto rappresentante, ma i suoi potere riguardano anche questa figura.
Le funzioni conferite all’Alto rappresentante dal Trattato di Lisbona ne delineano una posizione a
cavallo tra Consiglio e Commissione, figurativamente riassunta nel c.d. “double hat” di cui egli
sarebbe munito. Infatti, l’Alto rappresentante guida la politica estera e di sicurezza comune
dell’UE; presiede il Consiglio “Affari esteri”; ma è anche membro della Commissione, della
quel è di diritto uno dei Vicepresidenti. Nell’esercizio di queste funzioni, l’Alto rappresentante si
avvale del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE). L’attribuzione all’Alto rappresentante
delle diverse funzioni, si giustifica con l’obiettivo di garantire la coerenza dell’azione esterna
dell’UE. Questo cumulo di funzioni, tuttavia, espone nello stesso tempo l’Alto rappresentante a una
duplice lealtà nei confronti del Consiglio e della Commissione, ovvero di interessi non sempre
conciliabili. Ne discende il rischio di attriti tra l’Alto rappresentante e gli altri membri della
Commissione, in particolare il suo Presidente. Un altro possibile attrito è quello con il Presidente
del Consiglio europeo, dato che sia a quest’ultimo che all’Alto rappresentante sono affidati compiti
di rappresentanza esterna dell’UE. Tuttavia le disposizioni lasciano intendere che il Presidente
del Consiglio europeo dovrebbe, in lineai di principi, rappresentare l’UE i n occasione di vertici tra
capi di Stato o di governo, mentre l’Alto rappresentante dovrebbe avere come propri interlocutori i
Ministri degli affari esteri.

26. … e) la Corte di giustizia dell’Unione europea.

La Corte di Giustizia dell’Unione europea è concepita come istituzione unitaria, ma suddivisa in


una pluralità di organi giurisdizionali: Corte di giustizia, Tribunale e tribunali specializzati. Gli
originali Trattati istitutivi delle Comunità europee prevedevano la sola Corte di giustizia. Il
Tribunale fu invece previsto dall’Atto unico europeo. Infine, è stato il Trattato di Nizza a
contemplare la possibilità di istituire tribunali specializzati, anche se, non esistono attualmente
tribunali di questo tipo. Compito della Corte di giustizia dell’UE nel suo complesso è quello di
assicurare “il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati”, nell’ambito
delle competenze rispettivamente attribuite a ciascuno degli organi giurisdizionali. Tali competenze
sono in sostanza esplicate attraverso due tipi di pronunce, ossia quelle in via contenziosa (su ricorsi
presentati da Stati membri), oppure quelle in via pregiudiziale (su richiesta dei giudici nazionali,
relativamente all’interpretazione del diritto dell’UE). L’organizzazione e il funzionamento della
Corte di giustizia dell’UE sono disciplinati, oltre che dai Trattati, dallo Statuto della stessa. Questo
ha il rango di fonte primaria dell’ordinamento dell’UE, anche se l’art. 281 TFUE ne agevola la

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modifica, prevedendo che questa possa avvenire, di regola, secondo la procedura legislativa
ordinaria, su richiesta della Corte di giustizia e previa consultazione della Commissione, o
viceversa. Il quadro nominativo è poi interato dai regolamenti di procedura della Corte di
giustizia e del Tribunale, che vengono stabiliti da ciascuno dei due organi.
La Corte di giustizia è composta da “un giudice per Stato membro” ed è assistita da avvocati
generali, il cui numero, che era pari ad 8 al momento dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona,
è stato aumentato a 11. La Corte si riunisce in seduta plenaria solo in casi di eccezionale
importanza, mentre, normalmente, le varie cause vengono affidate a sezioni composte da 3 o 5
giudici, o alla grande sezione, composta da 15 giudici.
La figura dell’avvocato generale merita qualche precisazione, in quanto è estranea alla nostre
esperienza giuridica ed è mutuata, invece, da quella francese. L’avvocato generale non è un
pubblico ministero, egli è membro della Corte, il cui ufficio è quello di presentare pubblicamente,
con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che richiedono
il suo intervento. Il suo non è quindi un intervento obbligatorio, e la Corte non è vincolata
all’accoglimento delle conclusioni dell’avvocato generale.
Il Tribunale, ai sensi dell’art.19 TUE, deve essere composto da “almeno un giudice per Stato
membro”, ma il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2015 ha
disposto un graduale aumento del numero dei giudici, che lo porterà ad essere composto, a
decorrere dal 1° settembre 2019, da due giudici per Stato membro. Il Tribunale non comprende,
invece, avvocati generali. Il Tribunali si riunisce normalmente in sezioni da 3 o 5 giudici, anche se,
in determinati casi disciplinati dal regolamento di procedura, è disposto che esso si riunisca in
grande sezione, composta da 15 giudici, o in seduta plenaria, o statuisca nella persona di un
giudice unico.
Il Tribunale funge in alcuni casi da organo giurisdizionale di primo grado rispetto alla Corte di
giustizia, in quanto, esso è competente a conoscere in prima istanza dei ricorsi per annullamento di
atti delle istituzioni, dei ricorsi in materia di responsabilità extracontrattuale dell’UE, ecc… Restano
esclusi dalla competenza del Tribunale, in particolare, i ricorsi relativi agli adempimenti degli Stati
membri e le controversi etra gli Stati membri. Le sentenze del tribunale possono essere impugnate
dinanzi alla Corte di giustizia solo per motivi di diritto, e più precisamente per motivi relativi
all’incompetenza del Tribunale, mentre non può essere chiesto alla Corte di riesaminare la
valutazione dei fatti operata dal Tribunale.
Il Tribunale è invece concepito come organo giurisdizionale di secondo grado relativamente ai
ricorsi presentati contro le decisioni dei tribunali specializzati. Tuttavia, come già accennato,
attualmente non esistono tribunali specializzati. Nell’eventualità che tali Tribunali specializzati
vengano istituiti, le decisioni di questi ultimi potranno essere oggetto di impugnazione davanti al
tribunale per i soli motivi di diritto o, qualora il regolamento istitutivo lo preveda, anche per motivi
di fatto. Infine, l’art.256 TFUE prevede anche che il Tribunale eserciti la competenza
pregiudiziale, sia pure solamente in determinate materie da specificarsi nello Statuto. I giudici e gli
avvocati generali della Corte di giustizia e i giudici del Tribunale sono “nominati di comune
accordo dai governi degli Stati membri”. A differenza della Commissione, essi non devono
necessariamente essere cittadini degli Stati membri. Per gli avvocati generali dello Corte di
giustizia, invece, è prevista un’alternanza di individui designati dai vari Stati membri, restando
fermo, però, che, per prassi, i cinque Stati maggiori (Germania, Francia, Italia, Regno Unito e
Spagna) dispongono in permanenza di un avvocato generale –così che il sistema di rotazione
riguarda attualmente gli 11 Stati previsti-. I giudici e gli avvocati generali della Corte di giustizia
vanno scelti tra “personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza e che riuniscano le

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condizioni richieste per l’esercizio delle più alte funzioni giurisdizionali”. Vi è inoltre un comitato
che ha il compito di fornire un parere agli Stati membri, circa l’adeguatezza dei candidati come
giudici della Corte di giustizia e del tribunale. Questo comitato è composto da 7 personalità scelte
tra ex membri della Corte di giustizi e del tribunale. I giudici e gli avvocati della Corte di giustizia
e del Tribunale durano in carica 6 anni, ma non decadono tutti nello stesso momento; ogni 3 anni,
infatti, si procede a un loro rinnovo parziale. I loro mandati sono rinnovabili. Sia i giudici della
Corte di giustizia che quelli del Tribunale eleggono al loro interno un Presidente e un
Vicepresidente. Ciascuno dei due organi nomina inoltre il proprio cancelliere. Il Titolo I dello
Statuto specifica che i giudici e gli avvocati generali devono giurare di esercitare le loro funzioni
“In piena imparzialità e secondo coscienza”, godono dell’ immunità dalla giurisdizione, non
possono esercitare alcuna funzione politica e possono essere rimossi dalle loro funzioni solo
qualora -a giudizio unanime- non siano più in possesso dei requisiti richiesti.
I ricorsi alla Corte di giustizia dell’UE non hanno in genere effetti sospensivi. Le sue sentenze,
costituiscono, nei vari Stati membri, titolo esecutivo, al pari delle decisioni del Consiglio, della
Commissione e della Banca Centrale europea. La formula esecutiva è apposta nei singoli Stati
dall’autorità competente.

27. … f) la Banca centrale europea e la Corte dei conti.

Le ultime due istituzioni menzionate nell’art.13 TUE sono la Banca centrale europea e la Corte dei
conti. La BCE e le banche centrali nazionali di tutti gli Stati membri costituiscono il Sistema
europeo delle banche centrali (SEBC). La disciplina della BCE e del SEBC si rinviene, oltre che
nei Trattati, anche nello Statuto del SEBC e della BCE. Nonostante ciò, alcune sue norme possono
essere modificate, anziché secondo la procedura ordinaria di revisione dei Trattati, su
raccomandazione della BCE e previa consultazione della Commissione oppure su proposta della
Commissione e previa consultazione della BCE.
Al SEBC o, più precisamente, all’Eurosistema, è affidata la gestione della politica monetaria.
L’obiettivo principale di tale politica è la stabilità dei prezzi, che la stessa BCE ha quantificato in
un livello di inflazione inferiore, ma prossimo, al 2% nel medio termine. Fatto salvo tale obiettivo,
la SEBC sostiene le politiche economiche generali dell’UE al fine di contribuire alla realizzazione
degli obiettivi dell’UE definiti all’art. 3 TUE.
L’art.282 TFUE attribuisce alla BCE una personalità giuridica distinta rispetto a quella dell’UE e
dispone che la BCE è indipendente, nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze,
da istituzioni, organi e organismi dell’UE, nonché dai governi degli Stati membri. L’art. 340 TFUE
in tema di responsabilità extracontrattuale dell’UE, dispone una responsabilità della BCE separata
da quella dell’UE, per i danno cagionati da “essa stessa”. Sul punto, merita di essere ricordato che
di fronte alla pretesa della BCE di sottrarsi ai poteri di indagine conferiti all’organismo antifrode
comunitario, pretesa motivata dal particolare status di cui gode la BCE, la Corte di giustizia ha
sancito che tale status non vale a distaccare la BCE dall’UE, sottraendola a qualsiasi norma di
diritto dell’UE.
Per quanto attiene al suo funzionamento interno, la BCE si compone di tre organi. Il comitato
esecutivo comprende il Presidente, il Vicepresidente e altri quattro membri. Tutti questi membri
sono nominati dal Consiglio europeo, tra persone di riconosciuta esperienza nel settore monetario e
che abbiano la cittadinanza di uno Stato membro. Il loro mandato ha una durata di 8 anni e non è
rinnovabile, il comitato esecutivo è responsabile della gestione degli affari correnti della BCE. Il
consiglio direttivo comprende i membri del comitato esecutivo nonché i governatori delle banche
centrali nazionali degli Stati membri la cui moneta è l’euro. Esso formula la politica monetaria

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dell’UE. Il consiglio generale comprende invece il Presidente e il Vicepresidente della BCE e i
governatori delle banche centrali nazionali di tutti gli Stati membri, inclusi quelli che non hanno
ancora adottato la moneta unica. Tra i suoi compiti rientrano quello di favorire il coordinamento tra
l’Eurosistema e le banche centrali degli Stati che non hanno adottato l’euro, nonché la raccolta di
informazioni statistiche. L’art 130 TFUE afferma solennemente il principio dell’indipendenza della
BCE e delle banche centrali nazionali. Tale principio si esplicita sotto diversi profili: indipendenza
istituzionale (nel senso che la BCE e le banche centrali nazionali non possono ricevere ordini né
istruzioni dalle altre istituzioni dell’UE); indipendenza personale (perché gli individui che
compongono i loro organi non possono subire influenze); indipendenza funzionale (in quanto la
BCE dispone di tutti i poteri necessari per l’esercizio delle sue funzioni); indipendenza finanziaria
(perché la BCE dispone di proprie risorse finanziarie e ha un proprio bilancio, separato da quello
dell’UE). La forte indipendenza di cui gode la BCE ha lo scopo di mettere al riparo la politica
monetaria da indebite pressioni dei governi, potenzialmente desiderosi di misure efficaci sulla
crescita a breve termine. Tale indipendenza comporta però che la BCE sia anche sottratta a un
effettivo controllo politico da parte del Parlamento europeo. a ciò si cerca di ovviare con un
rafforzamento dei meccanismi volti a garantire la trasparenza della sua azione. A tale riguardo, la
BCE pubblica tutte le informazioni rilevanti sulla politica monetaria. Sul piano giuridico, invece,
rimane ferma la giurisdizione della Corte di giustizia sugli atti della BCE. La sede della BCE è a
Francoforte.
La Corte dei conti assicura il controllo dei conti dell’UE. In particolare, essa controlla la legittimità
e la regolarità delle entrate e delle spese dell’UE e ne accerta la sana gestione finanziaria. Il suo
controllo è, quindi, esterno, in quanto effettuato sulle entrate e sulle uscita di altri organi, organismi
e istituzioni dell’UE. La Corte dei conti esercita anche in alcuni casi una funzione consultiva, e può
essa stessa ricorrere alla Corte di giustizia per salvaguardare le proprie prerogative. La Corte dei
conti è composta da un cittadino di ciascuno Stato membro ed è esercita le sue funzioni in piena
indipendenza, nell’interesse generale dell’UE. Ad essi, sono sostanzialmente richieste le stesse
garanzie di indipendenza, incompatibilità ed immunità dei giudici della Corte di giustizia. La Corte
dei Conti è quindi un organo collegiale di individui. L’elenco dei membro è adottato dal Consiglio
a maggioranza qualificata e previa consultazione del Parlamento europeo. La sede della Corte dei
conti è a Lussemburgo.

28. Gli altri organi e organismi: Comitato economico e sociale, Comitato delle regioni, altri
comitati e agenzie europee.

A parte le istituzioni sopra menzionate, esiste nell’UE una grande varietà di altri organi e organismi,
alcuni già previsti nei Trattati originari, altri aggiunti successivamente. Vengono innanzitutto in
rilievo due organi i quali, attraverso le loro funzioni consultive, assistono il Parlamento europeo, il
Consiglio e la Commissione. Si tratta del Comitato economico e sociale e del Comitato delle
regioni.
Il Comitato economico e sociale è composto da rappresentanti delle organizzazioni di datori di
lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile. Il Comitato
economico e sociale è, quindi, la sede di rappresentanza della società civile ed organizzata, a
ulteriore conferma del fatto che l’UE non si limita a realizzare una cooperazione tra Stati, ma
coinvolge in maniera immediata i loro cottadini.
Il Comitato delle regioni è composto da rappresentanti delle collettività regionali e locali, i quali
devono essere titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una di tali collettività o comunque
responsabili politicamente verso un’assemblea eletta. L’introduzione di questo comitato testimonia

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l’accresciuta presa di coscienza della realtà regionale da parte dell’UE. Tuttavia, non vi è alcun
rapporto tra il numero dei membri attribuiti ai vari Stati e le ripartizioni interne di questi ultimi.
Sono molti però i tratti comuni tra Comitato economico e sociale e Comitato delle regioni.
Anzitutto, entrambi sono organi collegiali di individui, in quanto i loro membri non sono vincolati
da alcun mandato imperativo ed esercitano le loro funzioni consultive in piena indipendenza. Il
numero dei loro componenti, che non può essere superiore a 350, e la sua ripartizione tra gli Stati
membri sono fissati con decisione che il Consiglio deve adottare all’unanimità su proposta della
Commissione. In entrambi i casi, all’Italia sono attribuiti 24 membri. L’elenco dei componenti dei
due comitati è adottato dal Consiglio, previa consultazione della Commissione. Per il solo comitato
delle regioni viene anche nominato un numero di supplenti uguale a quello dei suoi componenti. I
pareri emessi dai due Comitati nell’ambito della loro funzione consultiva, e indirizzati al
Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione, possono essere, come tutti i pareri,
obbligatori (quando i Trattati prevedono che un determinato atto non possa essere adottato senza
averli preventivamente ottenuti), facoltativi (hanno la facoltà, ma non l’obbligo di richiederli) e
infine, possono essere formulati di propria iniziativa da entrambi i Comitati.
Inoltre, il Comitato delle regioni può proporre ricorso alla Corte di giustizia per violazione del
principio di sussidiarietà relativamente ad atti legislativi per la cui adozione sia richiesta la sua
consultazione.
Infine, va ricordata la tendenza, sviluppatasi soprattutto a partire dagli anni novanta, a creare
agenzie europee, ossia organismi dotati di personalità giuridica e di una certa autonomia
organizzativa e finanziaria, anche se non di indipendenza. Tali organismi sono presenti pressoché in
tutti gli ambiti d’azione dell’UE (Autorità europea per la sicurezza alimentare, Ufficio dell’Unione
europea per la proprietà intellettuale, Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati…).

29. La Banca europea per gli investimenti.

La Banca europea per gli investimenti è disciplinata dagli artt. 308 e 309 TFUE, nonché dal suo
Statuto. Lo statuto della BEI può, però, essere modificato dal Consiglio, su richiesta della stesa
BEI o su proposta della Commissione. La BEI è dotata di autonoma personalità giuridica, distinta
rispetto a quella dell’UE. Inoltre, la BEI possiede una propria struttura abbastanza articolata,
essendo, infatti, amministrata e gestita da un consiglio di governatori, un consiglio di
amministrazione e un comitato direttivo. Queste caratteristiche, che la BEI ha in comune con la
BCE, ripropongono l’interrogativo che ci siamo posti per la BCE, ovvero se BEI faccia parte a
pieno titolo della struttura dell’UE o se costituisca, invece, un’organizzazione separata rispetto ad
essa. Tuttavia, la Corte ha deciso in maniera analoga a quanto stabilito per la BCE, ovvero di non
sottrarla completamente a qualsiasi norma del diritto dell’UE. A sottolineare l’autonomia della BEI
contribuiscono altri fattori: essa ha i suoi “membri” (che sono gli stessi Stati membri dell’UE), un
propri sistema di finanziamento e un proprio bilancio. Essa ha, infatti, un proprio capitale, il cui
importo è stato progressivamente aumentato con i progressivi allargamenti dell’UE. Va però detto
che, sul piano giuridico, l’attività della BEI è inserita nel sistema dei controllo giurisdizionali
dell’UE.
Guardando, invece all’attività della BEI, essa si inserisce completamente nell’ambito delle finalità
perseguite dall’UE ed è svolta nell’esclusivo interesse di quest’ultima. La funzione della BEI è,
infatti, quella di “contribuire, facendo appello al mercato dei capitali ad alle proprie risorse, allo
sviluppo equilibrato del mercato interno nell’interesse dell’Unione”. A tal fine essa concede
prestiti per finanziare progetti tesi a valorizzare le regioni dell’UE meno sviluppate, nonché
progetti contemplanti l’ammodernamento di imprese o progetti di interesse comune agli Stati. I

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beneficiari dei prestiti possono essere sia gli stessi Stati membri, che imprese private. Oltre che
concedere direttamente dei prestiti, la BEI può limitarsi a garantire dei prestiti concessi da altri
enti finanziatori. È importante, comunque, ricordare che , nell’esplicare la sua attività, la BEI non
persegue fini di lucro. Ciò significa che il tasso di interesse praticato dalla BEI verrà calcolato, in
modo che la BEI possa far fronte alle proprie obbligazioni, coprire le proprie spese e costituire u
fondo di riserva, ma non realizzare un profitto da distribuire a i suoi membri.

CAPITOLO IV: LE FUNZIONI ATTRIBUITE ALLE ISTITUZIONI POLITICHE

30. La funzione legislativa.

Anche se, come già detto, l’UE non è strutturata secondo il principio della separazione dei poteri ,
sono tuttavia identificabili nelle sue attività le tradizionali funzioni proprie degli ordinamenti statali,
le quali, però, vengono in genere esercitate attraverso procedure che prevedono l’intervento
congiunto di più organi.
Negli ordinamenti statali la funzione legislativa è generalmente concepita come quella che presiede
all’emanazione di norme di portata generale e astratta, che pongono la disciplina di base di una
determinata materia. Il Trattato di Lisbona, introducendo per la prima volta nel diritto dell’UE la
nozione di atto legislativo, non la definisce invece sulla base del contenuto e della portata dell’atto,
ma sulla base della procedura seguita per la sua emanazione. L’art. 289 TFUE dispone, infatti, con
definizione che alcuni hanno chiamato “circolare”, che gli atti adottati mediante proceduta
legislativa sono atti legislativi. È, insomma, la base giuridica dell’atto che ne determina la natura
legislativa o non legislativa. Va, poi, ricordato che il Consiglio europeo non esercita funzioni
legislative, e pertanto i suoi atti, sono qualificati come non legislativi. L’adozione di atti legislativi
è inoltre espressamente esclusa nell’ambito della PESC. Tutto ciò significa che sarebbe vano
applicare alla nozione di atto legislativo nell’UE i criteri generalmente adottati negli ordinamenti
interni, in quanto il diritto dell’UE ha scelto di utilizzare una nozione sui generis di atto legislativo,
facendone discendere delle conseguenze. Tra queste, va ricordato che il Consigli, quando delibera
e vota su un progetto di atto legislativo, deve riunirsi in seduta pubblica.
Ai sensi dell’art.14 e 16 TUE, la funzione legislativa è esercitata congiuntamente dal
Parlamento europeo e dal Consiglio. Tale esercizio può avvenire secondo una procedura
legislativa ordinaria, ne quadro della quale Parlamento europeo e Consiglio sono posti sullo stesso
piano, e operano dunque come autori co-legislatori, o secondo tutta una serie di procedure
legislative speciali. Sia nella procedura legislativa ordinaria che in quelle speciali il potere di
iniziativa spetta di regola alla Commissione; inoltre, è di frequente prevista la consultazione
obbligatoria del Comitato economico e sociale, del Comitato delle regioni o di entrambi questi
organi.
Su un piano generale, va anche osservato che, nonostante siano previste diverse “passerelle” volte
ad agevolare il passaggio dalle procedure legislative speciali a quella ordinaria, le condizioni
stabilite per l’attuazione delle relative clausole rendono comunque difficile il ricorso ad esse.
Ricordiamo che il passaggio da una procedura legislativa speciale alla procedura ordinaria, può
avvenire secondo una proceduta di revisione semplificata. Accanto a tale clausola “orizzontale”,
inoltre, vi sono casi di “passerelle settoriali”, intese ad agevolare il passaggio alla procedura
ordinaria in determinate materie. Per dare attuazione a tali clausole, occorre sempre, però, l’accordo
unanime degli Stati membri; inoltre, nel caso della revisione semplificata e in quello della
“passerella”, è sufficiente l’opposizione di un solo Parlamento nazionale per impedire tali sviluppi.

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Si noti anche che, laddove non sia disposto il ricordo a procedure legislative, le singole basi
giuridiche possono comunque richiedere la proposta della Commissione e la consultazione
obbligatoria o la previa consultazione del Parlamento europeo, ma possono altresì escludere tali
istituzioni. Va inoltre rilevato che, l’art. 296 TFUE dispone che, in presenza di un progetto di atto
legislativo la cui approvazione è pendente, il Parlamento e il Consiglio si devono astenere
dall’emanare atti non previsti dalla procedura legislativa applicabile al settore interessato, in modo
da non pregiudicare il processo di approvazione di tale progetto.

30.1. Le procedure per l’adozione degli atti legislativi: a) il potere di iniziativa.

Come già accennato, nell’ambito delle procedure legislative il potere d’iniziativa spetta alla
Commissione. L’art.17 TUE dispone infatti come segue “Un atto legislativo dell’Unione può essere
adottato solo su proposta della Commissione, salvo che i trattati non dispongano diversamente…”.
La proposta della Commissione costituisce un atto formale, che ha natura interorganica, in quanto
non è rivolto verso l’esterno, ma è diretto ad altre istituzioni dell’’UE.
L’impostazione originaria dei trattati prevedeva che la Commissione godesse del potere di iniziativa
praticamente in via esclusiva e incondizionata. Questo potere, attribuito a un organo ce rappresenta
l’interesse generale dell’UE e non gli Stati uti singuli, costituiva un elemento innovativo e
caratteristico dell’elevato grado di integrazione tra gli Stati membri. L’effettiva portata del potere di
iniziativa delle Commissione si è venuta, però, progressivamente diluendo. Questa costruzione
era stata infatti oggetto di manovre da parte degli Stati membri, volte ad imbrigliare il potere di
iniziativa della Commissione. Questo risultato fu essenzialmente raggiunto con l’istituzione del
COREPER. Il dialogo tra la Commissione e il Consiglio è stato a partire da quel momento
sostituito da un dialogo tra la Commissione e il COREPER, che, in quanto organo permanente,
finisce con il condizionare notevolmente il potere di iniziativa della Commissione. Un altro
condizionamento al potere di iniziativa è stato poi introdotto a seguito del graduale affermarsi del
Consiglio europeo come sede di definizione degli orientamenti e delle priorità politiche dell’UE.
Va inoltre aggiunto che la presentazione di una proposta da parte della Commissione su una
determinata materia può anche essere la conseguenza di una specifica richiesta del Consiglio, del
Parlamento europeo o di almeno un milione di cittadini. A tali richieste, tuttavia, non
corrisponde, sul piano giuridico, un obbligo della Commissione di presentare una proposta. Inoltre,
anche se la necessità di una proposta della Commissione costituisce, ai sensi dell’art. 17 TUE, la
regola nell’ambito delle procedure legislative, l’art. 289 TFUE espressamente prevede che nei casi
specifici previsti dai Trattati, gli atti legislativi possono essere dottati su iniziativa di un gruppo di
Stati membri o dal Parlamento europeo, su raccomandazione della BCE o su richiesta della Corte
di giustizia o della BEI. Tali casi circoscritti, non escludono comunque, l’esercizio di potere di
iniziativa da parte della Commissione.
Tornando all’ipotesi in cui è necessaria la proposta della Commissione, va sottolineato che il
Consiglio può, ovviamente, adottare un meno un atto conforme alla proposta stessa secondo le
procedure previste di volta in volta dai Trattati, ma può emendarla solo deliberando
all’unanimità. È importante precisare che, nel caso dell’emendamento di una proposta della
Commissione, l’unanimità richiesta per la delibera del Consiglio non funziona, come di solito
avviene, quale fattore di protezione degli interessi particolari degli Stati membri, ma tutela, invece,
il perseguimento dell’interesse generale dell’UE.
Inoltre, fintantoché il Consiglio non ha deliberato, la Commissione può in qualsiasi momento
modificare la propria proposta. Di recente, Corte di giustizia ha riconosciuto alla Commissione
anche il potere di ritirare la propria proposta, sebbene tale potere non sia espressamente previsto

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dai Trattati. La Corte ha peraltro circoscritto questo potere, affermando che la Commissione deve
adeguatamente motivare il ritiro e che questo deve essere suffragato da “elementi convincenti”.
Prima di effettuare il ritiro, essa deve però prendere in considerazione, nello spirito di leale
cooperazione che deve contrassegnare le relazioni tra le istituzioni, le preoccupazioni del
Parlamento e del Consiglio all’origine della loro volontà di emendare la proposta. Va inoltre
ricordato che ogni proposta di atto legislativo dell’UE, da chiunque provenga , deve essere
trasmessa ai Parlamenti nazionali e deve essere adeguatamente motivata sotto il profilo dei principi
di sussidiarietà e di proporzionalità, ivi compreso il suo impatto finanziario.

30.2. … b) la procedura legislativa ordinaria.

La procedura legislativa ordinaria consiste “nell’adozione congiunta di un regolamento, di una


direttiva o di una decisione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della
Commissione”. Essa corrisponde in larga misura a quella che, prima del Trattato di Lisbona, era
chiamata procedura di codecisione. La procedura legislativa ordinaria costituisce la modalità più
diffusa di adozione degli atti legislativi, essendo prevista da più di 80 basi giuridiche. Il suo campo
di applicazione si estende, per effetto del Trattato di Lisbona, a settori come lo spazio di libertà,
sicurezza e giustizia, le politiche agricole e della pesca….
L’art. 294 TFUE stabilisce i dettagli di questa procedura, che si caratterizza per i seguenti elementi
fondamentali: a) i provvedimenti sottoposti a tale procedura possono essere adottati solo con il
consenso di entrambe le istituzioni, Consiglio e Parlamento europeo, a ciascuna delle quali
compete, quindi, un diritto di veto, mentre nessuna delle due è in grado da sola di determinare
l’adozione di un atto secondo il suo volere; b) in caso di dissenso tra Parlamento europeo e
Consiglio, si convoca un comitato di conciliazione paritetico, con il compito di raggiungere un
accordo; c) se vi è l’accordo del Parlamento europeo, nelle ultime fasi della procedura il Consiglio
può adottare anche a maggioranza qualificata un atto che contenga emendamenti alla proposta
della Commissione; d) la Commissione svolge il ruolo di mediatore tra Consiglio e Parlamento
europeo, nel quadro di una cooperazione tra le tre istituzioni che è l’indispensabile presupposto di
questa procedura (“Legiferare meglio”: accordo interistituzionale sulle procedure di codecisione).
Venendo ai dettagli, la procedura legislativa ordinaria inizia con la presentazione di una proposta,
da parte della Commissione, congiuntamente al Consiglio e al parlamento europeo. Su tale proposta
il Parlamento europeo inoltra al Consiglio la sua posizione. Se il Consiglio approva tale posizione,
l’atto è adottato e la procedura si conclude. Se, invece, il Consiglio non è d’accordo sulla posizione
del Parlamento, esso formalizza la propria posizione e la trasmette al Parlamento europeo. Questa
fase è chiamata “prima lettura”.
Se il Parlamento europeo, entro tre mesi dalla trasmissione di tale posizione del Consiglio, la
approva o non si pronuncia, l’atto si considera adottata e la procedura si conclude. Se, invece,
respinge, a maggioranza dei membri che lo compongono, la posizione del Consiglio, l’atto si
considera non adottato e la procedura ugualmente si conclude, anche se con un insuccesso.
Il Parlamento europeo può, infine, proporre emendamenti alla posizione del Consiglio, sui quali la
Commissione deve formulare un parere. A sua volta il Consiglio, entro ulteriori 3 mesi dalla
comunicazione di tale emendamenti, può: a) approvare tutti gli emendamenti, così che l’atto è
adottato e la procedura si conclude; b) non approvare tuti gli emendamenti, con la conseguente
convocazione di un comitato di conciliazione. Per la delibera del Consiglio è richiesta di regola l
maggioranza qualificata, ma è necessaria l’unanimità per l’approvazione di emendamenti sui quali
la Commissione ha dato parere negativo. Questa fase è chiamata “seconda lettura”.
Alla seconda lettura segue, la fase della “conciliazione”. Il comitato di conciliazione, composto dai

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membri del Consiglio e da un numero uguale di membri del Parlamento europeo, ha il compito di
raggiungere un accordo su un progetto comune, che deve essere approvato, rispettivamente, a
maggioranza qualificata dei membri del Consiglio e a maggioranza dei rappresentanti del
Parlamento europeo. la Commissione partecipa ai lavori del comitato, prendendo ogni iniziativa
necessaria per favorire un riavvicinamento tra le posizioni del Parlamento europeo e del Consiglio.
Se entro 6 settimane dalla convocazione il comitato di conciliazione non raggiunge un accordo,
l’atto si considera non adottato e la procedura si conclude con un insuccesso.
Se, invece, il comitato di conciliazione raggiunge un accordo su un progetto comune, si apre la fase
della “terza lettura”. Parlamento europeo e Consiglio hanno entrambi un termine di 6 settimane
per adottare l’atto, deliberando, rispettivamente, a maggioranza dei voti espressi e a maggioranza
qualificata. Se lo fanno, l’atto è adottato e la procedura si conclude con successo; in caso contrario,
l’atto si considera non adottato e la procedura si conclude con un insuccesso.
Nonostante i miglioramenti apportati con le varie revisioni dei Trattati, la procedura legislativa
ordinaria resta articolata e laboriosa. Nella prassi, si cerca di ovviare a queste difficoltà attraverso i
c.s. “triloghi”, ovvero contatti informali tra rappresentanti del Consiglio, del Parlamento europeo e
della Commissione, mediante i quali si mira in particolare a trovare un accordo prima ancora che il
Parlamento e il Consiglio procedano alla prima lettura, così che l’atto possa poi essere adottato già
in questa prima fase. Tale prassi, se da un lato agevola un esito positivo della procedura legislativa,
dall’altro ha però l’effetto di ridurre la trasparenza del processo legislativo. È dunque importante, in
questa prospettiva, la recente sentenza in cui il Tribunale dell’UE ha affermato il diritto di accesso
del pubblico ai documenti dei triloghi.

30.3. …c) le procedure legislative speciali.

La procedura legislativa speciale non è una specifica procedura definita dai Trattati (dato che, tutte
le volte che i Trattati prevedono procedure legislative diverse da quella ordinaria, sono da
considerarsi speciali). Il loro tratto comune è quello di consistere nella “adozione di un
regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del Parlamento europeo con la
partecipazione del consiglio…” o viceversa.
L’apparente simmetria della disposizione non deve trarre in inganno. In effetti, sono solo tre i casi
in cui è il Parlamento a decidere, con la partecipazione del Consiglio. Tutti e tre questi casi sono
marginali e, in ogni modo, il Consiglio deve approvare preventivamente l‘atto del Parlamento
europeo. Si tratta dell’ adozione dello statuto dei membri del Parlamento europeo, della definizione
delle modalità per l’esercizio del diritto di inchiesta del Parlamento europeo e dell’ adozione dello
statuto del Mediatore europeo. Per converso, l’adozione di un atto legislativo da parte del Consiglio
con la partecipazione del Parlamento europeo ricorre molto più di frequente. Nella maggior parte di
questi casi, il Consiglio decide all’unanimità; solo in quattro casi, piuttosto marginali, decide invece
a maggioranza qualificata.
Quanto al coinvolgimento del Parlamento europeo in queste decisioni del Consiglio, esso può
consistere nella semplice consultazione dello stesso o nella necessità della sua approvazione
dell’atto. Va ricordato, in via generale, che la partecipazione del Parlamento europeo al processo
decisionale dell’UE attraverso la sua consultazione da parte del Consiglio costituiva la regola nei
Trattati originari. I poteri del Parlamento europeo relativamente a tale processo si son venuti, poi,
man mano accrescendo, ma il suo ruolo è rimasto semplicemente consultivo ancora in diversi casi.

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La consultazione del Palamento europeo, quando richiesta dai Trattati nell’ambito delle procedure
legislative speciali o in altri casi, dà luogo all’emissione da parte di questa istituzione di un atto
formale, il parere, che è obbligatorio, nel senso che la sua mancanza renderebbe l’atto del
Consiglio illegittimo per violazione delle forme sostanziali. La conseguenza è che, se pure il parere
del Parlamento europeo non è vincolante per il Consiglio, sul piano pratico il Parlamento, in
presenza di una situazione politica che renda improbabile l’accoglimento da parte del Consiglio del
suo parere, potrebbe, semplicemente non formulandolo, essere tentato di almeno ritardare la
decisione del Consiglio. Il limite a tale eventuale tattica del Parlamento europeo è duplice: da una
parte, esso si deve conformare al dovere di tale cooperazione; dall’altra parte, vi è la possibilità per
il Consiglio di adire la Corte d giustizia con un ricorso in carenza contro il Parlamento.
Qualora, invece, la proposta della Commissione su cui il Parlamento ha già fornito il suo parere
venisse sostanzialmente modificata, dalla stessa Commissione o dal Consiglio, il Parlamento dovrà
essere nuovamente consultato sulla proposta così modificata.
Molto più incisivo è l’intervento del Parlamento europeo quando, per l’adozione di un atto
legislativo da parte del Consiglio, è prevista la sua previa approvazione, la quale, quindi, gli dà in
sostanza un diritto di veto. La differenza rispetto alla procedura legislativa ordinaria è che, nel caso
dell’approvazione, il Parlamento europeo si pronuncia su un testo alla determinazione del cui
contenuto esso non ha contribuito. La necessità della previa approvazione del Parlamento europeo
nel quadro di una procedura legislativa speciale è prevista, per esempio, in tema di misure per
combattere le discriminazioni, di estensione dei diritti legati alla cittadinanza dell’UE, di procedura
elettorale uniforma per le elezioni del Parlamento, di utilizzo della clausola di flessibilità. Al di
fuori delle procedure legislative, la previa approvazione del Parlamento è altresì richiesta, per la
conclusione di diversi accordi internazionali tra l’UE e Stati terzi. Il significativo rafforzamento dei
poteri del Parlamento europeo rispetto al ruolo meramente consultivo che a tale istituzione era
riconosciuto negli originari Trattati, è frutto di una grande evoluzione, culminata poi con il Trattato
di Lisbona. Si osservi, che tale procedura prevede sempre il necessario accordo tra il Parlamento
europeo e il Consiglio, e dunque non consente all’istituzione che rappresenta i cittadini dell’UE di
indirizzare l’azione di questa unicamente secondo il proprio volere. D’altronde, nell’attuale fase
dell’integrazione europea, caratterizzata dalla persistente sovranità degli Stati membri, occorre
riconoscere che il potere decisionale non può prescindere dalla volontà dell’istituzione che
rappresenta di Stati membri. Un diverso equilibrio dei poteri, caratterizzato da un peso decisivo del
Parlamento europeo, aa scapito del Consiglio, sarebbe incompatibile con la natura dell’UE.
Se a ciò si aggiunge quanto diremo sui limiti del controllo politico che può essere esercitato dal
Parlamento europeo, si comprende perché il problema del deficit democratico non si possa ancora
considerare risolto.

31. La funzione normativa delegata.

Oltre all’emanazione di atti legislativi, nell’UE è prevista anche quella di atti normativi delegati e di
atti di esecuzione, che comporta in entrambi i casi l’attribuzione di poteri decisionali alla
Commissione. La distinzione tra atti delegati e atti di esecuzione è stata introdotta solo dal Trattato
di Lisbona, mentre in precedenza entrambe le tipologie di atti erano sostanzialmente riconducibili
all’esercizio delle competenza di esecuzione.
La ratio sottostante alla previsione di atti delegati è quella di evitare un eccesso di dettagli nella
produzione normativa soggetta alle complesse procedure legislative, limitando agli elementi
essenziali il contenuto degli atti adottati secondo tali procedure. L’art. 290 TFUE prevede pertanto
che un atto legislativo può delegare alla Commissione il potere di emanare atti, definiti non

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legislativi di portata generale, che integrano o modificano elementi non essenziali dello stesso
atto legislativo. Tali atti così delegati alla Commissione sono quindi dei veri e propri atti normativi
di competenza della Commissione, pur se definiti “non legislativi”. Essi hanno, però, un rango
inferiore rispetto agli atti legislativi. Infatti, l’atto legislativo che contiene la delega alla
Commissione deve esplicitamente delimitare “gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della
delega di potere”. Inoltre, tale atto legislativo di delega deve fissare le condizioni cui è soggetta la
delega stessa. Tali condizioni possono essere di due tipi. In primo luogo, l’atto legislativo può
attribuire al Parlamento europeo e al Consiglio il potere di revocare (anche disgiuntamente) la
delega. In secondo luogo, l’atto legislativo può disporre che l’atto delegato possa entrare in vigore
solo se, entro un termine fissato, né il Parlamento europeo né il Consiglio hanno sollevato
obiezioni. È, quindi, dato al Parlamento europeo e al Consiglio un potere di controllo sugli atti
delegati. Gli atti così emanati dalla Commissione devono contenere la denominazione “delegato”
o “delegata”. Si tratterà, quindi, di regolamenti delegato, direttive delegate o decisioni delegate.
Non vi possono però essere decisioni delegate a portata individuale. Qualche difficoltà può sorgere
nel definire quali sono gli elementi essenziali di un atto legislativo, su cui non può vertere un atto
delegato della Commissione, e quali non lo sono.

Sul punto, la Corte di giustizia ha recentemente affermato che “un elemento ha carattere essenziale,
in particolare, se la sua adozione richiede scelte politiche rientranti nelle responsabilità proprie del
legislatore dell’Unione, … o se permette ingerenze talmente incisive nei diritti fondamentali delle
persone coinvolte da rendere necessario l’intervento del legislatore dell’Unione.” Per agevolare
l’esercizio della funzione normativa delegata, Parlamento europeo, Consiglio e Commissione hanno
concluso una “convenzione d’intesa sugli atti delegati”, che comprende, inter alia, una serie di
formule standard utilizzabili negli atti legislativi di base.

32. La funzione esecutiva.

Gli atti delegati alla Commissione si distinguono concettualmente dagli atti di esecuzione, cioè
dagli atti meramente esecutivi degli atti giuridicamente vincolanti dell’UE. Essendo questi ultimi
atti destinati a operare all’interno di ciascuno Stato membro, sono le autorità nazionali ad essere
preposte all’esecuzione degli stessi. Il modello seguito fin dall’inizio nell’ambito dell’UE è stato,
infatti, un modello decentralizzato di esercizio del potere esecutivo in capo agli Stati membri. In
coerenza con ciò, l’art. 291 TFUE stabilisce che gli Stati membri adottano tutte le misure di diritto
interno necessarie per l’attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’UE.
Peraltro, qualora siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione, gli atti giuridicamente
vincolanti dell’UE possono attribuire la relativa competenza di esecuzione alla Commissione. A tali
atti della Commissione deve essere aggiunta la denominazione “di esecuzione”: vi sono, pertanto,
regolamenti di esecuzione, direttive di esecuzione, decisioni di esecuzione. La competenza di
esecuzione può essere attribuita anche al Consiglio, ma solo “in casi specifici debitamente
motivati”.
Mentre l’esercizio da parte della Commissione della funzione normativa delegata è soggetto, come
detto, al controllo da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, l’esercizio delle sue competenze
di esecuzione è sottoposto a un controllo da parte degli Stati membri, secondo modalità stabilite
dal Consiglio e dal Parlamento europeo. Fin dai primi decenni dei vita delle Comunità europee si è
affermato, al riguardo, il sistema della c.d. comitologia, consistente nell’affiancare alla
Commissione dei comitati composti da rappresentati degli Stati membri, ai quali la Commissione è
tenuta a chiedere un parere sui progetti degli atti di esecuzione che essa intende emanare. A seguito

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dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il sistema della comitologia è stato profondamento
riformato, attraverso il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011.
Ai sensi di questo regolamento, l’atto di base può prevedere l’applicazione di una procedura
consultiva o di una procedura d’esame. Nella prima ipotesi, la Commissione deve sottoporre il
progetto di atto di esecuzione al comitato, ma non è obbligata a seguirne il parere. Nella seconda
ipotesi, la Commissione può invece adottare l’atto di esecuzione solo se il parere del comitato è
positivo; non può farlo se il parere del comitato è negativo, mentre se il comitato non raggiunge la
maggioranza qualificata necessaria per deliberare in un senso o nell’altro, la Commissione può
adottare l’atto di esecuzione solo se questo non riguarda alcune materie particolarmente sensibili.
Nei casi in cui non può adottare l’atto di esecuzione, la Commissione può sottoporre una versione
modificata del proprio progetto al comitato, oppure presentare il progetto originario a un comitato
di appello.
A fronte delle diverse procedure previste per l’adozione, rispettivamente, degli atti delegati e degli
atti di esecuzione, non sono mancati i contrasti circa la scelta dell’una o dell’altra procedura ai fini
della successiva adozione di atti di portata generale da parte della Commissione.

33. La funzione di controllo politico.

La funzione di controllo nell’ambito dell’UE si esplica con riferimento alle istituzioni che
partecipano all’esercizio del potere legislativo e di quello esecutivo, nonché nei confronti degli Stati
membri. Tale controllo è di duplice tipo. Da una parte vi è un controllo di natura politica
relativamente all’operato di tali istituzioni. Dall’altra vi è un controllo di natura giuridica, che
riguarda sia gli Stati membri, che le istituzioni dell’UE. Nei confronti dei primi, tale controllo è
relativo all’adempimento degli obblighi ad essi incombenti in virtù dei Trattati. Nei confronti delle
seconde, tale controllo si traduce in un giudizio di legittimità sui loro atti, nonché sull’eventuale
inadempimento del loro obbligo. Tratteremo ora del controllo di natura politica.
E’ il Parlamento europeo a detenere i poteri di controllo di natura politica, a somiglianza degli
analoghi poteri di cui godono i Parlamenti nazionali negli Stati. La somiglianza, però, si ferma ad
aspetti per lo più formali, in quanto il Parlamento europeo dispone di significativi poteri di
controllo nei confronti della sola Commissione e non, invece, nei confronti delle istituzioni
responsabili dell’azione dell’UE, cioè il Consiglio europeo e il Consiglio (occorre realisticamente
ammettere che un controllo politico da parte del Parlamento europeo sul Consiglio europeo o sul
Consiglio sarebbe incompatibile con la natura dell’UE).
Il controllo politico del Parlamento europeo si estrinseca essenzialmente nei confronti della
Commissione, e ha la sua più importante manifestazione nel potere di approvare una mozione di
censura sull’operato di quest’ultima. In qualsiasi momento almeno un decimo dei parlamentari
europei può presentare al Presidente del Parlamento una mozione di censura sull’operato della
Commissione, perché questa venga messa ai voti ed eventualmente approvata. A seguito
dell’approvazione di una mozione di censura i membri della Commissione sono costretti
collettivamente a dare le dimissioni, incluso l’Alto rappresentante che, però, cessa solo dalle
funzioni che esercita in seno alla Commissione, non anche da quelle che svolge nell’ambito del
Consiglio. Ne risulta che, anche nell’ipotesi in cui la sfiducia del Parlamento si riferisca all’operato
di un singolo Commissario, in virtù della responsabilità collegiale della Commissione tutti i suoi
membri devono abbandonare le loro funzioni.
Date le gravi conseguenze che vi sono ricollegate, la procedura per l’approvazione di tale mozione
è circondata da particolari garanzie: anzitutto, essa non può essere votata prima di tre giorni dalla
sua presentazione; in secondo luogo, la votazione deve avvenire a scrutinio pubblico; infine, è

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richiesta la maggioranza dei due terzi dei voti espressi, che costituiscano in ogni caso la
maggioranza dei membri che compongono il Parlamento europeo. Non sorprende quindi, he
nessuna mozione di censura è mai stata approvata dal Parlamento europeo.
Merita di essere sottolineato, peraltro, che almeno in una occasione l’impiego di questo strumento
ha, di fatto, condotto alle dimissioni collettive della Commissione. Ci si riferisce, nello specifico
alla mozione di censura presentata nel gennaio 1999 nei confronti della Commissione presieduta da
Jacques Santer, motivata da episodi d nepotismo e carenza di controlli amministrativi da parte dei
singoli Commissari. Anche se la mozione di censura non è stata approvata, il rapporto
successivamente presentato ha provocato le dimissioni spontanee di tutta la Commissione. Il
Parlamento sembra avere così dato una nuova direzione ai suoi poteri di controllo sulla
Commissione, interpretandoli non più come controllo sull’opportunità politica dell’operato della
stessa, ma come controllo circa la correttezza del comportamento dei Commissari. Il Parlamento
gode anche di altri poteri che possono qualificarsi come di controllo. Anzitutto, la Commissione
deve sottoporre all’esame del Parlamento europeo la relazione generale annuale, documento che
descrive l’attività dell’UE nell’anno precedente. In virtù dell’accordo quadro sulle relazioni tra il
Parlamento europeo e la Commissione, e dell’accordo interistituzionale “Legiferare meglio”, la
Commissione avvia un dialogo con lo stesso Parlamento europeo anche relativamente al
programma per l’anno successivo, così che il Parlamento è posto in condizione di far conoscere la
propria opinione non soltanto riguardo ad eventi già verificatisi. Quanto al Consiglio europeo, il suo
Presidente ha l’obbligo di presentare al Parlamento europeo una relazione dopo ciascuna delle sue
riunioni, mentre il Presidente del Parlamento europeo può (ma non deve) essere invitato per essere
ascoltato dal Consiglio europeo stesso.
Di rilievo nella pratica sono anche le interrogazioni, che il Parlamento europeo, o i suoi membri,
possono rivolgere alla Commissione, al Consiglio europeo o al Consiglio. L’art. 129 TFU del
regolamento interno del Parlamento europeo disciplina anche la prassi, mutuata dall’esperienza
britannica, del question time, che è, appunto, un periodo di tempo appositamente dedicato alle
interrogazioni durante ciascuna tornata plenaria.
Si inseriscono, infine, in questo contesto i poteri del Parlamento europeo di: a)accogliere petizioni
da parte di ogni cittadino dell’UE, nonché di ogni persona fisica che risieda o abbia la sede sociale
in uno Stato membro, su questioni che rientrano nel campo di attività dell’UE; b) nominare un
Mediatore, figura di difensore civico, abilitato a ricevere denunce di cittadini dell’UE, riguardanti
casi di cattiva amministrazione da parte delle istituzioni o organi dell’UE.; c) costituire, su richiesta
di un quarto dei membri del Parlamento, commissioni temporanee di inchiesta per esaminare
denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto dell’UE.
Con riferimento al Mediatore, il Parlamento europeo ne ha stabilito lo statuto e le condizioni
generali per l’esercizio delle funzioni. Il Mediatore è eletto dal Parlamento europeo tra i cittadini
dell’UE che offrano garanzie di indipendenza o siano in possesso di esperienza e competenza
notorie. E’ interessante rilevare che il Mediatore può effettuare accertamenti di eventuali casi di
cattiva amministrazione anche di propria iniziativa e che gli organi sia dell’UE che degli Stati
membri sono tenuti a fornirgli le informazioni necessarie.

34. La funzione di bilancio.

Come ogni bilancio contabile, anche il bilancio dell’UE è costituito da entrate e da uscite. Le
entrate derivano dal sistema di finanziamento dell’UE; le uscite sono costituite dalle spese per il
funzionamento dell’UE e per l’esplicazione delle sue attività. Per esplicita previsione dell’art. 310

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TFUE, entrate e spese devono risultare in pareggio. Esamineremo di seguito le principali
“disposizioni finanziarie” contenuto nel Titolo II della Parte Sesta del TFUE.

34.1 Il sistema di finanziamento dell’UE.

Cominciando dal versante delle entrate, occorre premettere qualche considerazione generale sul
finanziamento delle organizzazioni internazionali. È, infatti, di tutta evidenza, che il grado di
indipendenza delle organizzazioni internazionali dai singoli Stati membri deriva in misura
significativa dalla loro capacità di autofinanziarsi. In verità, quanto più un’organizzazione
internazionale dipende da contributi diretti degli Stati membri per il proprio funzionamento, tanto
più essa sarà esposta a rischi di condizionamento da parte di quegli Stati membri che possano essere
tentati di sospendere o ridurre unilateralmente i propri contributi. La storia, anche recente, dell’NU
e di alcuni dei suoi istituti specializzati conferma quanto sopra.
È per questo motivo che era stata salutata come estremamente innovativa la soluzione introdotta
dall’art. 49 del Trattato istitutivo della CECA, la quale si finanziava attraverso vere e proprie
imposte a carico delle imprese carbosiderurgiche. Il grado di indipendenza dagli Stati membri,
raggiunto in questo modo dalla CECA, è rimasto ineguagliato. Gli Stati membri, dal loro canto,
abdicavano per la prima volta all’esclusività del potere impositivo sul proprio territorio.
Nel sistema dell’UE, non poteva certo ripetersi l‘esperienza della CECA. La redazione originaria
del Trattato CEE prevedeva, pertanto, contributo finanziari a carico degli Stati membri. Fin dagli
anni settanta, tuttavia, i contributi diretti da parte degli Stati membri sono stati sostituiti da c.d.
“risorse proprie”. Attualmente , l’art. 311 TFUE recita come segue : “Il bilancio, fatte salve le
altre entrate, è finanziato integralmente tramite risorse proprie”.
Il Trattato non specifica quali siano le risorse proprie, ma detta la procedura per l’adozione di una
decisone al riguardo. Ai sensi dell’art. 311 TFUE, questa procedura si articola in due fasi: nella
prima, la decisione è adottata dal Consiglio secondo una procedura legislativa speciale, con voto
unanime e previa consultazione del Parlamento europeo; nella seconda, tale decisione deve essere
approvata da tutti gli Stati membri. Si tratta, pertanto, di una decisione che ha sostanzialmente la
natura di un accordo internazionale tra gli Stati membri, ed è in questo senso assimilabile ai Trattati
sui quali l’UE si fonda. Tale decisione individua tre categorie di risorse proprie: le risorse proprie
tradizionali, la risorsa IVA e la risorsa calcolata sulla base del reddito nazionale lordo (RNL) degli
Stati membri.
La categorie delle risorse proprie tradizionali riunisce quelle che originariamente erano due
distinte categorie, ossia i c.d. prelievi agricoli (insieme eterogeneo di entrate, derivanti dagli
scambi con Paesi terzi nella politica comune) e i dazi doganali derivanti dall’applicazione della
tariffa doganale comune. Queste risorse sono riscosse dagli Stati membri secondo modalità definite
nei rispettivi ordinamenti. Gli stati membri trattengono, a copertura delle spese di esazione, una
percentuale degli importi riscossi, attualmente fissa al 2%.
La risorsa IVA deriva dall’applicazione di un’aliquota uniforme, attualmente pari allo 0,30%, agli
imponibili IVA armonizzati degli Stati membri. Per ciascuno Stato membro, l’imponibile da
prendere in considerazione non può però superare il 50% dell’RNL, al fine di evitare che gli Stati
membri meno prosperi, debbano versare un importo sproporzionato rispetto alla loro effettiva
capacità contributiva.
Mentre le risorse proprie fin qui menzionate erano previste già nella prima decisione in materia, la

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risorsa RNL è stata introdotta nel 1988. Essa deriva dall’applicazione di un’aliquota uniforme
all’RNL di ciascuno Stato membro; questa aliquota viene fissata ogni anno nel corso della
procedura di adozione del bilancio, tenendo conto del totale di tutte le altre entrate, in maniera tale
che il bilancio risulti in pareggio. Questa risorsa è di fatto divenuta la più importante,
rappresentando ormai circa i tre quarti del totale delle entrate dell’UE.
La decisione disciplina altri due aspetti fondamentali del sistema. In primo luogo, essa stabilisce il
tetto massimo annuale delle risorse proprie, che viene fissato all’1,23% della somma degli RNL
degli Stati membri. In secondo luogo, la decisione prevede una serie di correzioni a favore,
anzitutto, del Regno Unito, il cui “sconto” risale già alla metà degli anni ottanta, ma anche di altri
Stati membri che, in epoca più recente, hanno a loro volta fatto valere la loro posizione di
“contribuenti netti”, al fine di ottenere una riduzione dell’aliquota di prelievo della risorsa IVA o
riduzioni lorde del proprio contributo annuo basato sull’RNL.
Le diverse categorie di risorse proprie sono accomunate dal vincolo di destinazione, in virtù del
quale esse spettano di diritto all’UE. Tuttavia, solo le risorse proprie tradizionali possono essere
considerate espressione di un’autonoma capacità impositiva dell’UE; sia la risorsa IVA che la
risorsa RNL, invece, sono in sostanza dei contributi obbligatori degli Stati membri, rispetto ai
quali l’imponibile armonizzato all’IVA e l’RNL fungono da parametri di riferimento per il calcolo
dell’ammontare dovuto da ciascuno Stato membro. Quanto alle “altre entrate” menzionate, esse
hanno un peso assolutamente marginale e si concretano, essenzialmente, nelle trattenute sugli
stipendi dei funzionari dell’UE e nelle ammende e somme forfettarie.
In definitiva, dunque, possiamo affermare che il descritto sistema di finanziamento, se da un lato ha
garantito all’UE la regolare disponibilità di risorse finanziarie, dall’altro non le ha assicurato una
reale autonoma finanziaria degli Stati membri.

34.2 Il quadro finanziario pluriennale e le procedure di approvazione, esecuzione e controllo


del bilancio dell’UE.

A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, le decisioni sulle risorse proprie sono state adottate
nel quadro di più ampi negoziati aventi ad oggetto anche le c.d. prospettive finanziarie. Il Trattato di
Lisbona ha infine preso atto di questa prassi, dedicando l’art. 312 TFUE al quadro finanziario
pluriennale.
Ai sensi di questa disposizione, il quadro finanziario pluriennale persegue l’obiettivo di assicurare
l’ordinato andamento delle spese dell’UE entro i limiti delle sue risorse proprie. A questo fine, esso
fissa il tetto degli stanziamenti annuali per grandi categorie di spesa, corrispondenti ai grandi settori
di attività dell’UE. La norma prevede, inoltre, che il quadro finanziario pluriennale abbia una
durata almeno quinquennale e ne impone il rispetto da parte dei vai bilanci annuali.
Sotto il profilo procedurale, l’art. 312 TFUE dispone che il quadro finanziario pluriennale sia
stabilito mediante un regolamento adottato secondo una procedura legislativa speciale, nel cui
ambito il Consiglio delibera all’unanimità previa approvazione del Parlamento europeo (la
norma contempla peraltro anche che una “passerella”, ai sensi della quali il Consiglio europeo è
abilitato a prendere, all’unanimità, una decisione che consenta al Consiglio di deliberare a
maggioranza qualificata quando adotta il suddetto regolamento).
La prima applicazione dell’art.312 TFUE si è avuta con il regolamento del Consiglio del 2
dicembre 2013, che ha stabilito il quadro finanziario pluriennale per il periodo 2014-20120. I c.d.
stanziamenti di impegno previsti da tale quadro ammontano complessivamente a quasi 960 miliardi
di euro, pari all’1% della somma degli RNL degli Stati membri. La maggior parte di questi
stanziamenti è destinata alle due politiche tradizionalmente di maggior peso nel bilancio dell’ UE,

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cioè la politica di coesione economica, sociale e territoriale e la politica agricola comune.
Stanziamenti di minore entità sono destinati a finanziare le attività dell’UE sui temi della sicurezza
interna e della cittadinanza, le politiche nelle quali si articola l’azione esterna dell’UE e,
ovviamente, il funzionamento amministrativo della stessa UE. Contestualmente all’adozione del
citato regolamento, Parlamento europeo, Consiglio e Commissione hanno anche concluso un
accordo interistituzionale sulla disciplina di bilancio e sulla sana gestione finanziaria.
Passiamo ora a esaminare la procedura di approvazione del bilancio annuale dell’UE, che viene
stabilito congiuntamente dal Parlamento europeo e da Consiglio secondo una particolare procedura
legislativa descritta nell’art. 314 TFUE. Tale procedura comporta, innanzitutto, che entro il 1°
luglio di ciascun anno ogni istituzione dell’UE prepari una previsione delle proprie spese per
l’esercizio finanziario successivo, che corrisponde all’anno solare e, pertanto, ha inizio il 1°
gennaio e si chiude il 31 dicembre. La Commissione, quindi, prepara e sottopone al Parlamento
europeo e al Consiglio, entro il 1° settembre, un progetto preliminare di bilancio comprendente una
previsione delle entrate e una previsione delle spese. Se non è d’accordo su tali previsioni, la
Commissione non può modificarle, ma può formulare previsioni divergenti. Il Consiglio adotta la
sua posizione sul progetto di bilancio a maggioranza qualificata e la comunica al Parlamento
europeo entro il 1° ottobre. Se, entro un termine di 42 giorni da tale comunicazione, il Parlamento
approva la posizione del Consiglio o non delibera al riguardo (silenzio-assenso), il bilancio si
considera definitivamente adottato. Se, invece, entro il termine suddetto, il Parlamento adotta, a
maggioranza dei membri che lo compongono, degli emendamenti, il progetto di bilancio così
emendato è trasmesso al Consiglio e alla Commissione (fase di “prima lettura”). A questo punto si
apre tra Parlamento europeo e Consiglio la fase della “conciliazione”, con modalità simili a quelle
previste per la procedura legislativa ordinaria. Se il comitato paritetico di conciliazione non
raggiunge, entro 21 giorni dalla convocazione, un accordo su un progetto comune di bilancio, la
Commissione dovrà sottoporre un nuovo progetto di bilancio. Se, invece, il comitato di
conciliazione raggiunge un accordo su tale progetto comune, si apre la fase di “seconda lettura”,
nel corso della quale Parlamento europeo e Consiglio hanno ulteriori 14 giorni per approvare il
progetto comune, rispettivamente a maggioranza dei voti espressi e a maggioranza qualificata. In
quest’ultima fase, il bilancio si considera effettivamente adottato se entrambe le istituzioni
approvano il progetto comune o non riescono a deliberare, oppure se una delle due approva mentre
l’altra non riesce a deliberare. Se, invece, il Parlamento europeo o entrambe le istituzioni
respingono il progetto comune, la Commissione dovrà presentare un nuovo progetto di bilancio.
Quindi, in materia di approvazione del bilancio annuale, Consiglio e Parlamento europeo sono su
un piede di assoluta parità. Anzi, in una specifica situazione il Parlamento viene a trovarsi
addirittura in una situazione di preminenza, in quanto può decidere, deliberando a maggioranza dei
suoi membri e dei 3/5 dei voti espressi, di confermare tutti gli emendamenti da esso adottati in
prima lettura o parte di questi, e il bilancio si considera definitivamente adottato su questa base. La
procedura, qualora abbia avuto esito positivo, si chiude con la formale constatazione, da parte del
Presidente del Parlamento europeo, che il bilancio è definitivamente adottato. Come precisato
dalla Corte di giustizia, questo atto conferisce forza obbligatoria al bilancio.
Ricapitolando sulla reale portata dei poteri del Parlamento europeo in materia di bilancio, occorre
ricordare che, in uno Stato democratico, compete al Parlamento, in rappresentanza del popolo,
legiferare in materie di entrate e approvare il bilancio dello Stato, in base al principio “no taxation
without representation.”
La soluzione di compromesso adottata prevede: a)un ruolo semplicemente consultivo del
Parlamento europeo in materia di determinazione delle entrate dell’UE, il cui ammontare

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condiziona necessariamente l’intero bilancio e che vengono stabilite, in sostanza, tramite accordi
intergovernativi; b) la necessità della previa approvazione da parte del Parlamento europeo del
quadro finanziario pluriennale, rispetto alla quale va, però, osservato che la possibilità per il
Parlamento europeo di influire in modo significativo sui contenuti di tale quadro è fortemente
limitata; c) la necessità di un accordo tra Parlamento europeo e Consiglio perché il bilancio annuale
venga adottato. Nel complesso, dunque, neanche in questa materia si può dire che il problema del
deficit democratico si stato completamente risolto.
Ricordiamo, infine, che, senza un bilancio approvato, si applica il regime c.d. “dei dodicesimi”,
previsto dall’art. 315 TFUE, in base al quale l’UE in ciascun mese non può spendere, per ciascun
capitolo di spesa, più di un dodicesimo di quanto era disponibile nel bilancio dell’esercizio
precedente.
Venendo all’esecuzione del bilancio e al relativo sistema di controlli, va anzitutto detto che il
compito di dare esecuzione al bilancio spetta alla Commissione, in cooperazione con gli Stati
membri e in conformità al principio della buona gestione finanziaria. Le modalità attraverso le quali
ciò avviene sono specificate nel c.d. regolamento finanziario. Questo, in particolare, prevede che
la Commissione possa eseguire il bilancio non solo mediante i suoi servizi, ma anche delegando i
compiti di esecuzione agli Stati membri o ad altri soggetti. Tra queste possibili modalità di
esecuzione del bilancio, la c.d. gestione concorrente con gli Stati membri è quella di gran lunga
prevalente nella prassi.
L’esecuzione del bilancio si svolge sotto il controllo della Corte dei conti, del Parlamento europeo
e del Consiglio. La Commissione sottopone ogni anno al Parlamento europeo e al Consiglio i conti
dell’esercizio trascorso. È il Parlamento europeo che, su raccomandazione del Consiglio, dà atto
alla Commissione dell’esecuzione del bilancio. Prima di compiere quest’atto, che è chiamato
“decisione di scarico” e che, in pratica, equivale al riconoscimento che la Commissione si è
attenuta al principio della buona gestione finanziaria, il Parlamento europeo esamina, tra l’altro, la
relazione annua della Corte dei conti. La decisione di scarico è atto di indubbia valenza politica.
La Corte dei conti “assicura il controllo dei conti”. A tal fine, essa controlla la legittimità e la
regolarità delle entrate e delle spese e presenta al Consiglio e al Parlamento europeo una
dichiarazione in cui attesta l’affidabilità dei conti. Si tratta di un controllo essenzialmente di
legittimità, in cui la Corte deve anche accettare la sana gestione finanziaria. Il controllo è, in
genere, successivo agli avvenuti versamenti delle entrate e pagamenti delle spese, ma può essere
effettuato anche “prima della chiusura dei conti…”.
La Corte dei conti non si limita a controllare i documenti contabili che le vengono sottoposti, ma
può effettuare controlli direttamente presso le altre istituzioni dell’UE, nonché all’interno degli Stati
membri. La Corte, infine, presente alle altre istituzioni una relazione annuale sui conti dopo la
chiusura di ciascun esercizio. Va infine richiamato l’art. 325 TFUE, introdotto per combattere le
frodi e le altre attività illegali, quali la corruzione, che ledono gli interessi finanziari dell’UE. Tale
norma impegna l’UE e gli Stati membri a combattere tali attività illegali mediante misure tali da
permettere una protezione efficace degli interessi finanziari dell’UE. Gli Stati membri, in
particolare, sono tenuti ad adottare le stesse misure che adottano per le frodi che ledono i loro
interessi finanziari. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura
legislativa ordinaria e previa consultazione della Corte dei conti, possono adottare tutte le misure
necessarie in materia: a tal fine è stata recentemente adottata la direttiva relativa alla lotta contro la
frode. Per meglio combattere le frodi è stato inoltre istituito presso la Commissione l’OLAF. In
futuro, un importante contributo alla lotta contro i reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE

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potrà derivare anche dalla Procura europea, alla cui istituzione si è da poco provveduto mediante
cooperazione rafforzata.

CAPITOLO V : L’ORDINAMENTO GIURIDICO DELL’UNIONE EUROPEA E LE SUE FONTI

35. L’ordinamento giuridico dell’UE: introduzione.

L’ordinamento giuridico dell’UE ha natura autonoma sia rispetto al diritto internazionale che al
diritto interno degli Stati membri, ed è dotato in fonti, norme, istituzioni, procedure, soggetti,
sanzioni e meccanismi suoi propri. Tale ordinamento difetta del carattere dell’originarietà e ha
invece carattere derivato, in quanto l’esistenza dell’UE e l’estensione dei suoi poteri derivano
dalla volontà che gli Stati membri hanno espresso in una serie di Trattati internazionali stipulati tra
di loro. Stante il suo carattere derivato, il diritto dell’UE per essere applicato all’interno del
territorio degli Stati membri necessita della cooperazione delle autorità statali, non disponendo l’UE
di una propria sfera di sovranità, ma solo delle competenze attribuite dagli Stati membri.
L’ordinamento dell’UE si affianca quindi agli ordinamenti interni, e gli eventuali conflitti sono
risolti sulla base del primato del primo sui secondi. La diretta applicabilità ai singoli e l’efficacia
diretta per gli stessi di alcune norme dell’ordinamento dell’UE sono, in particolar, assicurate dagli
Stati membri nel quadro del loro obbligo di leale cooperazione di cui all’art. 4 TUE.
Per quanto riguardo invece i rapporti dell’ordinamento dell’UE con l’ordinamento
internazionale, vedremo che l’UE è dotata di soggettività in quest’ultimo ordinamento, ed è quindi
tenuta al rispetto delle norme di diritto internazionale generale al pari degli altri soggetti
internazionali. Ciò significa che le istituzioni dell’UE devono conformarsi a tali norme
nell’emanazione dei loro atti.
Se l’eventuale violazione di una norma di diritto internazionale avesse luogo nelle relazioni esterne
dell’UE, tale violazione costituirebbe un illecito internazionale attribuibile all’UE, con la
conseguenza che soggetti terzi eventualmente lesi potrebbero, eventualmente, adottare nei
confronti dell’UE contromisure alle condizioni previste dal diritto internazionale stesso. Inoltre, se
la violazione di norme di diritto internazionale avesse luogo attraverso l’emanazione di atti dell’UE
contrari a tali norma, essa comporterebbe l’illegittimità di tali atti nello stesso ordinamento
dell’UE.
Gli Stati membri, invece, nelle materie oggetto dei Trattati incontrano limiti alla possibilità di
ricorrere a contromisure di diritto internazionale generale, quali quelle sopra menzionate, nei
reciproci rapporti. Essi non possono “farsi giustizia da sé”, ma sono obbligati a sottoporre le loro
controversi relative all’interpretazione all’ interpretazione e applicazione dei Trattati esclusivamente
ai mezzi di composizione previsti dai Trattati stessi. Gli stati membri, quindi, nei loro rapporti,
devono ricorrere alle garanzia proprie dell’ordinamento dell’UE. Tra tali garanzie viene
soprattutto in rilievo, ovviamente, il controllo che la Corte di giustizia esercita in merito
all’inadempimento degli Stati membri. In tema di garanzie dell’ordinamento dell’UE vengono in
considerazione le garanzie previste negli ordinamenti degli Stati membri. Infatti, non avendo
l’UE poteri coercitivi, il diritto dell’UE ha bisogno delle garanzie che solo gli Stati membri stessi
possiedono e che devono offrire all’’UE, per l’efficace attuazione delle norme dell’UE al loro
interno, sulla base dell’obbligo di leale cooperazione.
Le funzioni di governo del territorio spettano tuttora agli Stati membri e, quando questi danno
attuazione a norme dell’UE in adempimento ad obblighi derivanti dai Trattati, pongono in essere
comportamenti esclusivamente imputabili agli Stati stessi, sia sul piano interno, che su quello

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del diritto dell’UE, che, infine, su quello del diritto internazionale. L’eventuale inottemperanza o
l’inesatta esecuzione da parte degli organi di uno Stato membro di prescrizioni del diritto dell’UE
potrà esporre lo Stato nel suo complesso ad azioni in varie sedi: ad un ricorso per infrazione innanzi
alla Corte di giustizia, o ad azioni innanzi ai giudici nazionali.

36. Le fonti dell’ordinamento dell’UE e i rapporti tra di loro.

Come ogni ordinamento giuridico, anche quello dell’UE è provvisto di un suo sistema di fonti. I
Trattati non tracciano un chiaro ordine gerarchico tra di esse. Si possono individuare diversi
elementi per distinguere un diverso rango tra le fonti di diritto dell’UE. Innanzitutto, occorre tenere
conto del fatto che esse sono essenzialmente di due tipi. Da un lato, tra le fonti primarie rientrano
principalmente i Trattati e la Carta dei diritti fondamentali. Le fonti secondarie sono invece
costituite dagli atti emanati dalle istituzioni dell’UE in conformità alle norme dei Trattati. Tra
queste fonti si pongono in una posizione intermedia gli accordi internazionali concludi dall’UE.
Per quanto riguarda innanzitutto i due Trattati (TUE e TFUE) ad essi è attribuito “lo stesso valore
giuridico” e quindi non è stabilita una prevalenza delle norme di un Trattato rispetto all’altro. Il
criterio di fondo pare avesse dovuto includere nel TUE le norme relative ai principi e alla struttura
dell’UE, nonché ai suoi rapporti con gli Stati membri, mentre nel TFUE solo le norme che
riguardano il funzionamento e l’operatività dell’UE stessa. La mancanza di un preciso disegno circa
la ripartizione delle norme da inserire rispettivamente nei due testi si accompagna anche al
fenomeno della ripetizione di alcune norme in entrambi i Trattati.
Una certa gerarchia tra le fonti dell’ordinamento dell’UE esiste, invece, sulla base di considerazioni
d’ordine logico. Ad esempio, nei rapporti tra norme contenute nei Trattati, una norma contenente
l’enunciazione di un principio generale, di diritto dovrebbe avere un rango superiore rispetto alle
altre norme specifiche. Inoltre, l’atto di un’istituzione dell’UE, in quanto diritto derivato, non può
essere contrario alle fonti primarie del diritto dell’UE, e quindi né ai Trattati, né alla Carta dei
diritti fondamentali. Le norme del diritto primario dell’UE fungono quindi, in questa prospettiva, da
parametro di legittimità delle norme di diritto derivato.
Nei rapporti tra le fonti di diritto derivato, gli atti delegati alla Commissione sono subordinati
rispetto agli atti legislativi di base, che dispongono la delega, dovendosi mantenere nei limiti degli
obiettivi, del contenuto, della portata e della durata della delega stessa. Del resto, l’atto delegato per
sua natura è destinato ad integrare o modificare gli elementi non essenziali di un atto legislativo, e
quindi non può porsi in contrasto con quest’ultimo. Analogamente, anche gli atti di esecuzione
hanno come presupposto un atto di base, cui appunto danno esecuzione e al quale devono essere
considerati subordinati. Infine, gli accordi internazionali conclusi dall’UE hanno rango inferiore
rispetto ai Trattati, ma superiore rispetto agli atti di diritto derivato.
Nonostante queste precisazioni, non è stata mai definita una vera e propria gerarchia tra le fonti di
diritto derivato, e in particolare tra regolamenti, direttive e decisioni, oppure tra atti emanati
secondo la procedura legislativa ordinaria rispetto a quelli emanati secondo le procedure legislative
speciali.

37. Le fonti primarie.

Fonti di diritto primario dell’ordinamento dell’UE:

37.1. I Trattati e i principi generali di diritto in essi contenuti.

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I Trattati costituiscono una fonte primaria dell’ordinamento dell’ UE, in quanto si rifanno
direttamente alla volontà degli Stati che hanno dato vita all’UE stessa, volontà che costituisce il
fondamento del potere dell’UE di emanare atti di diritto derivato. Le norme dei Trattati, quindi, non
possono essere modificate da nessuna delle altre fonti del diritto dell’UE. Ovviamente, tra i Trattati
vanno inclusi anche tutti quelli modificativi del TUE e del TFUE.
Nel termine “Trattati” sono ricompresi anche i Protocolli e gli Allegati ai Trattati stessi, che “ne
costituiscono parte integrante”. Invece, le Dichiarazioni allegate ai Trattati, che non sono sottoposte
a ratifica da parte degli Stati membri, hanno valore soltanto interpretativo delle disposizioni del
Trattato cui si riferiscono.
Assimilate ai Trattati sono quelle modifiche o integrazioni apportate ad essi con provvedimenti che,
sul piano sostanziale, costituiscono veri e propri accordi internazionali tra gli Stati membri
integrativi dei Trattati: a) gli atti adottati in sede di Consiglio europeo o Consiglio la cui entrata in
vigore richiede la ratifica o l’approvazione da ciascuno degli Stati membri; b) le delibere adottate
“di comune accordo dai Governi degli Stati membri”, le quali spesso sono prese nel corso di
riunioni del Consiglio.
I Trattati contengono, oltre a norme specifiche, l’enunciazione di alcuni principi generali di diritto
dell’UE che devono informare tutte le singole disposizioni dei Trattati o singoli gruppi delle stesse.
Questi principi vengono, quindi, ad assumere in un certo qual modo un rango superiore rispetto
alle altre disposizioni dei Trattati. Ai principi generali si devono ovviamente conformare sia l’UE
nella produzione di norme di diritto derivato, che gli Stati membri nel dare attuazione al diritto
dell’UE. Tra questi principi, occorre menzionare, in primo luogo, quelli di cui all’art.6 TUE, che
stabilisce che i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo
costituiscono principi generali facenti parte del diritto dell’UE. È opportuno precisare, che
attualmente è la Carta dei diritti fondamentali dell’UE il principale testo di riferimento per
l’individuazione dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’UE, mentre i principi generali hanno
assunto un’importanza secondaria. Tra gli altri principi generali enunciati dai Trattati ricordiamo il
principio di uguaglianza dei cittadini dell’Unione e il principio di non discriminazione.
Il principio di uguaglianza, secondo cui “ i cittadini beneficiano di uguale attenzione da parte delle
istituzioni, organi e organismi” dell’UE, è strettamente collegato alle norme sulla cittadinanza
dell’UE e impone, eventualmente, anche di tenere conto, con un trattamento differenziato, di
situazioni diverse.
Il principio di non discriminazione vieta, in primo luogo, ogni discriminazione basata sulla
nazionalità, secondo un concetto che fin dalla nascita della CEE ha ispirato la creazione del mercato
comune e la realizzazione delle connesse libertà di circolazione (con riferimento alla libera
circolazione dei lavoratori e al diritto di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi). Sono
altresì vietate le discriminazioni fondate sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica e
sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua…
L’art. 19 TFUE abilita il Consiglio ad adottare all’unanimità, secondo una procedura legislativa
speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, tutti i provvedimenti opportuni a
combattere le suddette discriminazioni, in assenza dei quali, però, non sembra che la norma non sia
suscettibile di avere efficacia diretta per i singoli. Anche gli Stati membri devono contribuire a
combattere tali discriminazioni e, al riguardo, il Parlamento europeo e il Consiglio deliberando
questa volta secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare i principi di base delle
misure di incentivazione da parte dell’UE volte ad appoggiare l’azione degli Stati membri in questo
senso. Il principio di non discriminazione di cui all’art. 19 TFUE ha portata generale e, quindi, di
applica anche in assenza di specifiche norme dei Trattati. Tuttavia, altre norme dei Trattati

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specificano il divieto di discriminazione con riferimento alla parità tra i sessi, sia in generale, sia in
particolare nel campo del lavoro subordinato. Al riguardo, l’art. 157 TFUE obbliga innanzitutto gli
Stati membri ad assicurare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra i lavoratori
dei due sessi e, in secondo luogo, abilita il Parlamento europeo e il Consiglio ad adottare le misure
che assicurino l’applicazione del “principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra
uomini e donne in materia di occupazione e impiego…”. In deroga al principio della parità di
trattamento, l’art. 157 TFUE legittima le c.d. affirmative actions da parte degli Stati membri, volte
all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici tesi a facilitare l’accesso ad un’attività
professionale da parte del sesso sottorappresentato.
Ad altri principi generali enunciati dai Trattai sono ricollegate specifiche conseguenze. Ci riferiamo
ai principi di attribuzione, di sussidiarietà, prossimità e proporzionalità, di leale cooperazione, ai
principi democratici, di buona gestione finanziaria, di un’economia di mercati aperta e in libera
concorrenza. Quest’ultimo principio implica il rispetto di alcuni “principi direttivi”, quali prezzi
stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane.

37.2. La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’UE.

Il rango di fonti primarie dell’ordinamento dell’UE spetta a pieno titolo alle norme volte alla tutela
dei diritti umani fondamentali. I progressi realizzati a questo riguardo si possono apprezzare
tenendo conto innanzitutto del fatto che all’inizio dell’esperienza comunitaria i Trattai istitutivi
delle Comunità europee non menzionavano i diritti dell’uomo. Ciò si spiega da un lato
considerando la scarsità sino a quel momento di atti internazionali vincolanti dedicati a tali diritti.
D’altro lato, la CEE nasceva essenzialmente come un accordo di integrazione commerciale.
Il progredire del processo di integrazione ha però negli anni reso sempre più impellente la necessità
di dare rilevanza ai diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario. L’ambito di attività della
CEE si era progressivamente ampliato al di là della sfera commerciale, con un impatto sempre
maggiore in materie inerenti alla vita delle persone. Si concretizzava l’attitudine delle norme
comunitarie ad incidere nella sfera giuridica degli individui. In risposta a queste esigenze,
l’importanza dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’UE ha trovato riscontri sempre maggiori
sia nella giurisprudenza della Corte di giustizia, sia infine in modifiche dei Trattai che hanno
sancito l’introduzione di diversi previsioni relativi ai diritti fondamentali. Ricordiamo che oggi i
diritti dell’uomo sono ricompresi tra i valori fondanti dell’UE, la cui violazione è prevista come
possibile oggetto di specifiche sanzioni, e il cui rispetto è necessario per poter essere ammessi come
nuovi membri nell’UE. Si può ben dire, in questa prospettiva, che la protezione dei diritti
fondamentali è oggi uno dei più importanti elementi identitari dell’UE.

37.2.1. L’affermazione giurisprudenziale dei principi generali di diritto dell’UE relativi alla
protezione dei diritti umani.

Si deve alla Corte di giustizia l’avvio dell’evoluzione sopra ricordata, con una serie di pronunce in
cui essa ha affermato che i diritti fondamentali costituiscono principi generali facenti parte
dell’ordinamento comunitario. La ricostruzione dei diritti da proteggere è stata operata dalla Corte,
a partire dagli anni ‘70, richiamando le convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo, e
in particolare la CEDU, oltre alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. Riferimenti ai
diritti fondamentali erano stati poi inseriti anche in dichiarazioni e risoluzioni delle altre istituzioni
dell’UE.
Alle affermazioni della Corte di giustizia ha fatto poi seguito il riconoscimento dei diritti
fondamentali come principi generali con il TUE nel 1992, con una formula di chiara derivazione

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giurisprudenziale: “i diritti fondamentali… fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi
generali”. La qualifica dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU come principi generali
dell’ordinamento dell’UE implica l’obbligo di conformarsi ai principi suddetti nell’emanazione,
attuazione, esecuzione e interpretazione delle norme di diritto dell’UE. In caso di violazione di tale
obbligo, i singoli, hanno pertanto a loro disposizione i rimedi offerti dall’ordinamento dell’UE, e
segnatamente il ricorso di legittimità alla Corte di giustizia.
Prima di passare ad esaminare la Carta dei diritti fondamentali, è opportuno ricordare altre forme
con cui l’UE tende ad evitare casi di contrasto tra disposizione di diritto dell’UE e i diritti
fondamentali. Da un lato entra in considerazione lo sforzo della Commissione europea di garantire
il rispetto dei diritti fondamentali nelle varie politiche e negli atti dell’UE. D’altro lato va
menzionata l’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea; ad essa sono attribuiti
principalmente due compiti: anzitutto quello di raccogliere informazioni e dati in ordine alle
conseguenze pratiche dei provvedimenti dell’UE; in secondo luogo, di offrire una funzione
consultiva, da esplicarsi attraverso la formulazione di conclusioni e pareri su specifici aspetti.

37.2.2. La Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

L’UE, oltre a riconoscere le norme della CEDU quali principi generali del proprio ordinamento, ha
deciso di dotarsi di un proprio catalogo di diritti fondamentali. Tale catalogo è contenuto nella
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea “proclamata” a Nizza il 7 dicembre 2000 da
Parlamento europeo, Consiglio e Commissione. Il testo della Carta attualmente in vigore è quello
che è stato ri-proclamato a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Tale Carta era stata elaborata da
un’apposita commissione mista, denominata “convenzione” e formata non solo da rappresentanti di
Consiglio, Commissione e Parlamento europeo, ma anche da membri dei Parlamenti nazionali degli
Stati membri.
Una delle novità più rilevanti del Trattati di Lisbona ha riguardato proprio la Carta: l’art.6 TUE
sancisce infatti che la Carta “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Questa previsione ha una
portata che si può definire “doppia”. In primo luogo essa accorda efficacia giuridicamente
vincolante alla Carta. In secondo luogo la norma attribuisce alla Carta un rango parificato a quello
del TUE e del TFUE, quindi il rango di fonte primaria, superiore a quello delle altre fonti dell’UE
di diritto secondario.
La Carta contempla un catalogo molto ampio di diritti fondamentali, enunciati in norme che in
alcuni casi corrispondono a disposizione della CEDU, o enunciano diritti economici, sociali e
culturali, o riproducono disposizioni del TUE. La collocazione sistematica dei diritti in vari gruppi
è effettuata in modo originale rispetto agli strumenti internazionali in materia di diritti umani: le
varie disposizioni sono raggruppate in sei capi: dignità; libertà; uguaglianza; solidarietà;
cittadinanza; giustizia. Nel caso di disposizioni della Carta sostanzialmente riproduttive di
disposizioni della CEDU, la loro interpretazione deve conformarsi a quella elaborata in ordine a
queste ultime disposizioni. Ciò significa in concreto che la giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo, viene presa in considerazione da parte della Corte di giustizia quando essa si
pronuncia sulle norme della Carta “corrispondenti” a norme della CEDU. I limiti entro i quali opera
la Carta vanno tenuti ben presente. La disposizione più importante con riguardo all’ambito di
applicazione è indubbiamente l’art. 51, che precisa da un lato che le norme della Carta si applicano
direttamente alle istituzioni, organi e organismi dell’UE, e quindi sottintende che l’UE è tenuta a
rispettare la Carta, tramite i suoi organi, in ogni sua attività. La norma specifica invece che la Carta
si applica agli Stati membri “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Le norme
dell’UE sui diritti fondamentali quindi pongono dei vincoli in capo all’UE in generale, e in capo

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agli Stati membri solo nell’ambito suddetto. In altri termini, la Carta non può essere invocata con
riferimento a qualunque atto o provvedimento di diritto interno dei singoli Stati membri.
La Corte di giustizia ha interpretato in modo estensivo questa disposizione, chiarendo che l’obbligo
di rispettare i diritti garantiti dalla Carta sussiste ogniqualvolta gli Stati membri agiscano
“nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione”. Ciò dà margini di operatività piuttosto ampi
alla Carta. Ovviamente in tali situazioni interne potranno entrare in gioco le norme della CEDU e
coloro che si ritengano vittime di una sua violazione da parte dello Stato potranno rivolgersi alla
Corte europea dei diritti dell’uomo, ma in modo autonomo e del tutto svincolato dal diritto dell’UE.
Sempre sul piano dei limiti di applicazione della Carta, non mancano diversi indici di alcune
preoccupazioni degli Stati membri quanto alla sua portata e al suo impatto. Dallo stesso articolo
TUE traspare l’intento di delimitare la portata della Carta, nella parte in cui sancisce che le sue
disposizioni non estendono in alcun modo le competenze dell’UE come definite nei Trattati.
Sul piano sostanziale, in relazione alla rilevanza dei singoli diritti fondamentali, la disposizione più
importante è la c.d. “clausola generale di limitazione”, ai sensi della quale l’UE e gli Stati membri
possono porre della restrizioni ai diritti e alle libertà riconosciuti dalla Carta, purché le restrizioni
siano previste dalla legge, non comportino una limitazione tale da violare il contenuto essenziale .
dei diritti e delle libertà in questione, e rispettino il principio di proporzionalità. La norma stessa
specifica che in concreto ai diritti e alle libertà previsti dalla Carta “possono essere apportate
limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse
generale...”. Alla base di questo articolo sta l’idea che i diritti riconosciuti dalla Carta “non
appaiono come prerogative assolute, ma devono essere presi in considerazione in rapporto alla
loro funzione nella società”.
Sul giudizio di proporzionalità sono imperniate diverse sentenza in cui la Corte di giustizia si è
pronunciata. In concreto, quest’ultimo giudizio si risolve nella ponderazione tra i vari diritti e
interessi in gioco nelle fattispecie concrete. In altri casi il giudizio della Corte ha portato a verificare
che la compressione dei diritti fondamentali determinata da una normativa dell’UE non fosse
proporzionata rispetto all’interesse perseguito, e ha tratto quindi un giudizio di invalidità dell’atto
normativo in questione. Un esempio molto chiaro è offerto dalla nota sentenza Digital Rights
Ireland: i giudici appuravano in primo luogo che l’obbligo di conservare i dati relativi alle
comunicazioni elettroniche dell’UE corrispondeva all’interesse generale dell’UE corrispondeva
all’interesse generale dell’UE alla lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata; verificavano
quindi, come secondo passaggio, l’idoneità della misura in questione a contribuire alla lotta alla
criminalità e al terrorismo; consideravano, invece, che la misura controversa non fosse necessaria
e indispensabili al perseguimento di tale obiettivo. Su questa base la Corte dichiarava l’invalidità
totale della Direttiva stessa.

37.2.3. La rilevanza della Carta nella giurisprudenza della Corte di giustizia.

La Corte ha impiegato ampiamente belle sue decisioni lo strumento della Carta, in ragione dei
caratteri di vincolatività e superiorità gerarchica sanciti dall’art. 6 TUE. Alla luce dell’assetto delle
fonti delineato in base a tale articolo, infatti, quando sono entrate in gioco questioni inerenti ai
diritti fondamentali nella giurisprudenza dell’UE, la Carta ha svolto la funzione di parametro di
validità e di parametro di interpretazione degli atti dell’UE.
Merita di essere sottolineato a questo riguardo che, i giudici dell’UE impiegano la Carta come
principale parametro di riferimento per valutare la validità e stabilire la corretta interpretazione
egli atti dell’UE. Si tratta di un mutamento giurisprudenziale evidente rispetto al periodo in cui la
Carta non aveva valore formalmente vincolante: prima del Trattato di Lisbona, infatti, la Corte

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impiegava la Carta non come parte del diritto primario dell’UE, ma come strumenti che concorreva
alla ricostruzione e all’interpretazione di principi generali di diritto dell’UE. Nell’attuale
giurisprudenza della Corte in materia di diritti fondamentali, viceversa, giudizi della Corte
tendono ad essere incentrati sulla Carta. Non mancano comunque talora riferimenti ai principi
generali, nonché alla CEDU come fonte di ricognizione dei medesimi principi generali, o come
ausilio per l’interpretazione delle norme ella Carta. La posizione centrale accordata dalla Corte di
giustizia alla Carta più che ai principi generali può essere considerata il frutto di un’evoluzione
prevedibile o addirittura ovvia, che consegue al valore giuridico attribuito a tale testo dalla
formulazione attuale dell’art.6 TUE. Il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TUFUE è stato il
principale strumento tramite il quale la Carta ha assunto rilevanza nella giurisprudenza dell’UE.
In ragione dell’attribuzione alla Carta del carattere di diritto primario all’interno dell’ordinamento
dell’UE, la Carta può fungere da parametro diretto di legittimità rispetto alle fonti secondarie.
Chiaramente, il rispetto della Carta non riguarda solo gli atti normativi dell’UE, ma va assicurato da
tutte le istituzioni dell’UE. Dato che, come si è visto, l’obbligo di assicurare adeguate tutele ai
diritti contemplati nella Carta vale anche per gli Stati membri quando diano attuazione a norme di
diritto dell’UE, anche i giudici nazionali hanno l’obbligo di disapplicare, all’occorrenza, eventuali
normative degli Stati membri che si pongano in contrasto con singole disposizioni della Carta.
La valutazione della compatibilità di atti nazionali con la Carta può essere operata dalla Corte sulla
base di quesiti pregiudiziali di interpretazione.
Come parametro interpretativo, la Carta è comunemente utilizzata dalla Corte per determinare il
significato delle disposizioni contenute in atti delle istituzioni che formano oggetto di questioni
pregiudiziali. In concreto, orientare nettamente l’interpretazione degli atti nel senso della tutela dei
diritti enunciati dalla Carta ha portato a soluzioni anche di grande impatto. Ci si limita qui a
menzionare a titolo di esempio le decisioni con cui la Corte: ha escluso che uno Stato membro,
nell’allontanare una persona verso un altro Stato membro, possa presumere senza accertamenti che
in quest’ultimo Stato la persona non rischia di incorrere in trattamenti inumani; ha specificato la
portata del c.d. “diritto all’oblio” nei confronti dei gestori dei motori di ricerca su internet,
interpretando in modo evolutivo la direttiva sulla privacy…
La Corte ha spesso sottolineato l’obbligo di adottare l’interpretazione più conforme alla Carta
degli atti emanati dall’UE, in ragione del suo valore prevalente rispetto alle fonti secondarie.
Nel caso in cui il tenore letterale delle norme di un atto di diritto derivato non consentisse di
adottare un’interpretazione compatibile con la Carta, ci si troverà, probabilmente, in presenza di un
vizio di legittimità, a meno che le restrizioni in esso contenute non siano conformi al principio di
proporzionalità. Il sindacato della Corte sugli atti dell’UE, alla luce della Carta, avrà quindi spesso
ad oggetto la determinazione di quale sia (e se vi sia) l’interpretazione che ne garantisce la
compatibilità con la Carta medesima. È invece dubbio se si possa parlare di un analogo obbligo di
interpretazione conforme alla Carta con riguardo alle norme di diritto primario e segnatamente
alle norme dei Trattati.

37.2.4. L’ipotesi dell’adesione dell’UE alla CEDU.

Una questione che attualmente pare di minore attualità rispetto al recente passato è la possibilità che
l’UE aderisca formalmente alla CEDU, come parte contraente. L’art. 6 TUE abilita l’UE stessa a
entrare a far parte di tale Convenzione, con una formulazione invero non chiarissima: nella versione
italiana, l’UE “aderisce” alla CEDU. In realtà questa disposizione, non po’ unilateralmente
disporre che l’UE diventi parte di un trattato (la CEDU) stipulato tra un gruppo diverso di Paesi
(ossia i 47 Stati europei che sono ad oggi contraenti della CEDU, tra i quali vi sono i 28 Stati

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membri dell’UE). L’adesione dell’UE richiede la stipulazione di un apposito trattato internazionale
tra l’UE e tutte le parti della CEDU, che per parte dell’UE dovrebbe essere concluso dal Consiglio
all’unanimità e poi ratificato dagli Stati membri. Negli anni, sono state presentate ben due richieste
di parere alla Corte di giustizia in merito all’adesione dell’UE alla CEDU. In entrambi i casi la
Corte ha considerato l’adesione incompatibile con l’ordinamento dell’UE, nel 1996 e nel 2014. Per
questo, dopo l’ultima “bocciatura” , la prospettiva dell’adesione non sembra essere oggi al centro
dell’agenda europea. L’eventuale e futura partecipazione dell’UE alla CEDU, si aggiungerebbe al
riconoscimento delle norme della CEDI come principi generali. L’adesione avrebbe da un lato un
valore simbolico, rafforzando l’immagine dell’UE come soggetto impegnato nel rispetto dei diritti
mani tanto da assoggettarsi ad un sindacato “esterno” all’ordinamento dell’UE. D’altro lato, proprio
il concreto operare di meccanismi di controllo della CEDU accrescerebbe il novero dei rimedi a
disposizione dei singoli nei confronti dell’UE. In concreto, i singoli che ritenessero di essere vittime
di una violazione di un diritto sancito dalla CEDU, derivante da un atto dell’UE, potrebbero
presentare un ricorso direttamente contro l’UE dinanzi alla Corte di Strasburgo. Nel caso di
accoglimento del ricorso, la Corte EDU non potrebbe dichiarare l’invalidità dell’atto dell’UE, ma
potrebbe accodare al ricorrente il diritto a ricevere un’ “equa soddisfazione” da parte dell’UE; la
sentenza potrebbe anche indicare all’UE altre misure individuali per rimediare all’infrazione e
misure generali per prevenire il verificarsi in futuro di violazioni analoghe. Va precisato che il
ricorso alla Corte EDU potrebbe essere presentato solo dopo una sentenza definitiva della Corte di
giustizia: il meccanismo di controllo previsto dalla CEDU ha infatti carattere sussidiario, e può
essere attivato solo dopo il c.d. “esaurimento dei ricorsi interni”. L’adesione comporterebbe
anche la possibilità per l’UE di nominare uno dei giudici della Corte di Strasburgo, il quale
parteciperebbe al collegio giudicante nei casi in cui l’UE fosse convenuta in giudizio.
Con riguardo alle prese di posizione della Corte di giustizia, con il parere 2/94 del 28marzo 1996 la
Corte aveva ritenuto incompatibile con l’allora trattato CE l’adesione della CE alla CEDU,
fondamentalmente sulla base di considerazioni relative alla mancanza di competenza della CE a
stipulare un accordo in materia di diritti dell’uomo. Con il parere 2/2013 del 2014, la Corte ha
considerato che il progetto di accordo che le era stato sottoposto fosse incompatibile con i Trattati,
per una serie di argomenti inerenti all’autonomia dell’ordinamento dell’UE.
Nella situazione attuale, non essendo l’UE una parte contraente della CEDU, l’individuo che si
ritenga vittima di una violazione della CEDU ha la possibilità di ricorrere alla Corte EDU contro
uno Stato membro, o contro tutti gli Stati membri per lamentare una violazione direttamente
discendente da un atto dell’UE.
Certo, un eventuale contrasto tra il diritto dell’UE e norme della CEDU non dovrebbe, almeno in
via di principio, nemmeno ipotizzarsi, data l’inclusione delle norme della CEDU tra i principi
generali dell’ordinamento dell’UE (tale contrasto è stato comunque rilevato in un caso inerente al
diritto dei cittadini di Gibilterra a partecipare all’elezione del Parlamento europeo). La Corte di
Strasburgo ha rimarcato che gli Stati membri dell’UE, pur essendo tenuti in generale al rispetto
degli obblighi derivanti dalla partecipazione all’UE, restano comunque responsabili per la
violazione degli obblighi derivanti dalla CEDU e che quindi possano ricorrere alla Corte EDU. In
particolare, questa possibilità sussiste, quando gli Stati membri abbiano margini di
discrezionalità per cui essi sono pienamente responsabili delle misure di attuazione adottate
nell’esercizio di tale potere.

37.3. Altri principi generali di diritto riconosciuti dalla Corte di giustizia.

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I principi generali di cui abbiamo finora parlato costituiscono parte integrante dei Trattati e hanno la
loro stessa efficacia giuridica. La Corte di giustizia, ha poi elaborato tutta una serie di altri principi
generali dell’ordinamento dell’UE, ricavandoli attraverso una comparazione deli ordinamenti
giuridici degli Stati membri, così che essi includono quei “principi generali comuni ai diritti degli
Stati membri” cui fa espresso riferimento, in tema di responsabilità extracontrattuale dell’UE, l’art.
340 TFUE, anche se è andata ben oltre a questi ultimi. Talora la Corte, per individuare principi
generali di diritto, ha applicato criteri deduttivi, analogici o di pura logica giuridica, senza
preoccuparsi eccessivamente di valutare quanto effettivamente “comuni” fossero i principi di volta
in volta individuati. Nella misura in cui, così facendo, la Corte ha colmato delle lacune dei Trattati,
spesso dovute all’originaria impostazione esclusivamente economica dei Trattati stessi, si è parlato
in proposito di diritto non scritto dell’UE. Si badi, però, che la Corte di giustizia, attraverso
l’individuazione di questi principi, non ha allargato l’ambiente precettivo dei Trattati. I principi
suddetti hanno solo un carattere strumentale, nel senso che la Corte si è valsa di essi, cui ha
riconosciuto un rango preminente rispetto alle fonti derivate, solo come parametri di legittimità
degli atti dell’UE, nonché come criteri interpretativi per tutte le altre fonti del diritto dell’UE. Vale
la pena ricordare: a) il principio della certezza del diritto, in base al quale ogni situazione di fatto
va valutata alla luce delle norme vigenti al momento del verificarsi del fatto stesso, norme che
devono essere chiare, precise e prevedibili; b) il principio della tutela del legittimo affidamento;
c) il principio del rispetto dei diritti quesiti; d) il principio dell’ effetto utile, per ci ogni norma
deve essere interpretata in modo da raggiungere il suo scopo;…

38. Il rango di fondi intermedie degli accordi internazionali dell’UE.

Fanno parte del diritto dell’UE anche gli accordi internazionali stipulati dall’UE. Tali accordi, ai
sensi dell’art. 216 TFUE, “vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri”, e alle norme in
essi contenute la Corte di giustizia ha riconosciuto un rango intermedio tra diritto primario e diritto
derivato dell’UE. La vincolatività di questi accordi per l’UE dipende non solo dall’art. 216 TFUE,
ma anche dalle norme di diritto internazionale generale cui l’UE è sottoposta e in particolare della
consuetudine internazionale “pacta sunt servanda” –in base alla quale i trattati internazionali sono
una fonte di vincoli giuridici per le parti contraenti-. Nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento
dell’UE, essi si pongono in una situazione di preminenza rispetto al diritto derivato dell’UE, cioè
agli atti emanati dalle sue istituzioni. Di conseguenza, un atto dell’UE contrario ad un accordo
internazionale dell’UE può essere annullato dalla Corte di giustizia, nonché generare una
responsabilità dell’UE per risarcimento del danno provocato ai singoli, oltre, ovviamente, ad una
responsabilità dell’UE stessa sul piano internazionale nei confronti delle altre parti contraenti
dell’accordo violato. Gli atti di diritto derivato dell’UE devono quindi, per quanto possibile, essere
interpretati alla luce degli accordi internazionali dell’UE, proprio per cercare di evitare che la loro
applicazione generi contrasti di questo tipo.
Gli accordi stipulato dall’UE si collocano, invece in posizione subordinata rispetto al diritto
primario dell’UE, in particolare alle norme del TUE e del TFUE, le quali prevalgono sugli impegni
internazionali contrastanti. Anche nei confronti dei principi generali di diritto dell’UE gli accordi
internazionali dell’UE sono stati collocati dalla Corte in una posizione subordinata. La Corte di
giustizia esercita quindi il controllo di legittimità sugli accordi stessi, o per essere più precisi sui
relativi atti dell’UE di conclusione o di applicazione.
La violazione di norme di diritto interno di una parte contraente non incide sull’efficacia degli
accordi internazionali, e quindi non fa venire meno gli impegni assunti sul piano internazionale nei
confronti delle altre parti contraenti. Del resto, la sentenza pronunciata dai giudici dell’UE non può

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avere effetto per i soggetti terzi con i quali l’UE abbia concluso un accordo internazionale che sia
giudicato in violazione dei Trattati. Con le altre parti contraenti l’UE dovrebbe ricercare una
soluzione amichevole attraverso una rinegoziazione. La richiesta di parere preventivo alla Corte
di giustizia sui progetti di accordi internazionali è senz’altro un sistema adeguato a prevenire tali
contrasti. Una volta che l’accordo sia stata concluso, la Corte di giustizia è competente a
pronunziarsi in via pregiudiziale in merito all’interpretazione delle norme pattizie. Le norme
contenute in tali accordi possono essere idonee a produrre effetti diretti in capo ai singoli.
Sull’incidenza delle norme di diritto internazionale generale in ordine agli Accordi internazionali
conclusi dall’UE si rimanda a quanto detto in precedenza.
Ricordiamo che, ai sensi dell’art. 275 TFUE la Corte di giustizia non ha competenze per quanto
riguarda le disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune e, quindi, nemmeno
relativamente agli accordi internazionali conclusi nell’ambito della stessa politica. Per quanto
riguarda gli accordi nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, vi sono alcuni limiti
posti alla competenza pregiudiziale della Corte, con riferimento a Regno Unito e Danimarca.

39. Le fonti secondarie.

Come ogni ordinamento giuridico, anche il diritto primario dell’UE contiene delle norme sue
proprie sulla produzione giuridica, che stabiliscono procedure e competenze per l’emanazione di
atti normativi. Le fonti secondarie sono per l’appunto rappresentate da atti emanati dalle sue
istituzioni e costituiscono il c.d. diritto derivato dell’UE, comprensivo sia degli atti tipici che di
vari esempi di atti atipici. L’art. 288 TFUE rappresenta la principale norma a questo riguardo; non
a caso essa si apre con un richiamo implicito al principio di attribuzione. Agli atti indicati in tale
articolo ci si riferisce come “atti tipici”. Le istituzioni dell’UE emanano, inoltre, altri atti, definiti
atipici, che in genere si sono affermati nella prassi dell’UE.
I Trattati indicano quali atti possono essere adottati dalle istituzioni dell’UE in diversi casi, a volte
lasciando discrezionalità nella scelta tra atti diversi. L’art. 296 TFUE specifica che, quando i
Trattati non prevedono il tipo di atto da adottare, le istituzioni dell’UE lo decidono di volta in volta.
In base al principio di attribuzione, le istituzioni dell’UE possono emanare un atto avente valore
normativo “minore” di quello previsto dai Trattati, ma non uno avente valore normativo
“maggiore”.

39.1. I regolamenti.

L’art. 288 TFE individue tre caratteristiche generali dei regolamenti: essi hanno portata generale,
sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati
membri.
Il requisito della portata generale implica che i destinatari dei regolamenti debbano essere una o
più categorie di soggetti. La qualifica di destinatari del regolamento deve dipendere da circostanze
obiettive e la norma regolamentare deve avere il carattere dell’astrattezza, e quindi deve
prescindere da singoli casi concreti. Per fare un esempio, è stato affermato che un provvedimento
dell’UE che fissi il prezzo dello zucchero in un determinato periodo, o che sottoponga a
determinate condizioni la concessione di aiuti ai produttori di pere, rimane un regolamento anche se
in quel determinati periodo i produttori di zucchero o di pere siano singolarmente individuabili. Se,
invece, i destinatari di un atto dell’UE, oltre che individuabili, sono tali in virtù di una loro specifica
situazione soggettiva e, quindi, il provvedimento li concerne direttamente e individualmente, il
procedimento stesso è in effetti una decisione aventi una molteplicità di destinatari individuali.
Questo “smascheramento” è rilevante in concreto, in quanto può consentire ad una persona fisica

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o giuridica di dimostrare di essere dotata di legittimazione attiva ad impugnare il regolamento
stesso con un ricorso di legittimità.
La seconda caratteristica dei regolamenti è che essi sono obbligatori in tutti i loro elementi. Gli
Stati membri non possono quindi applicare un regolamento in modo incompleto o selettivo, o porre
condizioni alla sua applicazione o introdurre limitazioni alla portata delle sue norme. Con questa
precisazione nell’art. 288 TFUE si distingue il regolamento della direttiva, che invece, obbliga gli
Stati membri solo quanto ai fini da raggiungere, lasciandoli liberi di scegliere i mezzi di esecuzione
che ritengono più adeguati. Sotto questo profilo si coglie l’importanza della terza caratteristica dei
regolamenti, quella della diretta applicabilità in ciascuno degli Stati membri la quale consente ad
atti proprio dell’ordinamento dell’UE di esplicare i loro effetti nell’ambito di ordinamenti diversi,
quali sono quelli degli Stati membri. Questi ultimi hanno consentito ad attribuire ai regolamenti
forza obbligatoria e diretta applicabilità in ordine ai soggetti di diritto interno, attraverso la
previsione dell’art. 288 TFUE, cui hanno dato esecuzione nel proprio ordinamento attraverso le
rispettive procedure interne.
Gli Stati membri hanno cioè introdotto al loro interno un meccanismo di adattamento automatico
del loro ordinamento a quello dell’UE , senza la possibilità di modificarne in alcun modo o precetti,
ma anche senza bisogno di un atto di esecuzione ad hoc per ogni singolo regolamento. È questa la
caratteristica in fondo più importante dei regolamenti, che ha rappresentato un’innovazione di
grande rilevanza nella storia delle forme di cooperazione istituzionali tra Stati. Dal momento della
loro entrata in vigore, che avviene con identici effetti e in modo simultaneo per tutti gli Stati
membri, i regolamenti vincolano tutti i soggetti che si trovano o che si possono trovare nelle
situazioni astrattamente descritte. Il che è ben diverso da qual che accade con le direttive, rispetto
alle quali i soggetti di diritto interno sono tenuti a rispettare i provvedimenti nazionali di
recepimento e attuazione, e quindi ad applicare le norme dettate dall’autorità nazionale.
L’emanazione di un atto interno riproduttivo di un regolamento, anche se fosse una trascrizione
fedele delle norme dell’UE in una legge nazionale, rappresenterebbe una violazione dell’art. 288
TFUE: da un lato determinerebbe in sostanza una sostituzione della legge al regolamento; d’altro
lato, si sottrarrebbero tali norme alla possibilità di un rinvio di interpretazione o di validità alla
Corte di giustizia.
Un altro aspetto dell’applicabilità diretta dei regolamenti concerne la loro attitudine a produrre
effetti diretti i capo ai singoli. Essi infatti possono incidere direttamente, dalla loro entrata in vigore,
nel patrimonio giuridico degli individui, ponendo diritti ed obblighi direttamente in capo a loro. Può
ben darsi, tuttavia, che i precetti sanciti da un regolamento in qualche misura richiedano
l’emanazione di provvedimenti integrativi, che ne specifichino alcuni aspetti, sia da parte degli
Stati membri che delle istituzioni dell’UE. All’emanazione di tali provvedimenti, ove necessari, gli
Stati membri sono tenuti in base al loro obbligo di leale cooperazione. Per quanto riguarda i
provvedimenti integrativi da parte delle istituzioni, l’esempio più chiaro è offerto dagli atti delegati
o di esecuzione della Commissione. La necessità di misure di attuazione o integrative non
impedisce, in genere, l’immediata vincolatività del regolamento.
L’applicabilità diretta, inoltre, non esclude la possibilità che un regolamento si applichi soltanto nel
territorio di alcuni Stati membri e, perfino, in determinate zone di un solo Stato membro. ciò
avviene, per esempio, per regolamenti in materia agricola.
Circa la competenza di emanare regolamenti, richiamiamo quanto detto in merito alla funzione
legislativa ed esecutiva dell’UE. I regolamenti sono atti legislativi se adottati con procedura
legislativa ordinaria o speciale. Se invece sono adottati dalla Commissione nell’ambito della sua

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funzione normativa delegata, essi prendono la denominazione di “regolamenti delegati”, o quella
di “regolamenti di esecuzione”.

39.2. Le direttive.

La direttiva, ai sensi dell’art. 288 TFUE, vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda
il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali per quanto riguarda
la forma e i mezzi necessari a tale scopo. Nell’ordinamento dell’UE la direttiva è un atto meno
invasivo nella sovranità degli Stati membri rispetto al regolamento, ed è maggiormente in linea con
i principi di sussidiarietà e proporzionalità. Essa, infatti, permette l’esplicazione del momento
normativo a livello dell’UE per la parte che più conta, vale a dire l’identificazione del risultato da
raggiungere, con il minor sacrificio possibile della sovranità degli Stati, che restano liberi di
determinare la forma e i mezzi necessari. Vengono così salvaguardate alcune differenze tra i
sistemi giuridici degli Stati membri. Piuttosto, le direttive possono costituire un atto idoneo ad
avvicinare progressivamente le legislazioni degli Stati membri. Non si deve però pensare che la
direttiva sia un atto parzialmente vincolante, non è così, in quando la direttiva è atto, al pari del
regolamento, completamente vincolante per quanto riguarda il suo contenuto, solo che quest’ultimo
ha carattere programmatico perché la direttiva deve formare oggetto di un atto nazionale di
recepimento. La differenza tra i due atti, può tendere a sfumare in concreto qualora ci si trovi di
fronte ad una direttiva particolarmente dettagliata. Si è assistito infatti all’emanazione di un numero
sempre crescente di c.d. “direttive dettagliate”, contenenti una disciplina talmente articolata da
lasciare poco o nessuno spazio all’esercizio del potere discrezionale degli Stati in sede di
determinazione delle forme e dei mezzi per il raggiungimento del risultato voluto.
Le direttive sono indirizzate agli Stati membri, a tutti o solo ad alcuni di essi. Il fatto di porre
obblighi di risultato in capo agli Stati destinatari è una caratteristica che avvicina le direttive ai
tipici atti delle organizzazioni internazionali. Le direttive, in questa prospettiva, necessitano
dell’adozione di misure di attuazione nel diritto nazionale da parte degli Stati. Il termine di
attuazione è un elemento fondamentale della direttiva. Prima della scadenza del termine, gli Stati
membri hanno solo l’obbligo di non porre in essere misure interne tali da pregiudicare gli effetti
della direttiva una volta attuata. Entro la scadenza, gli Stati membri, inoltre, sono obbligati a
comunicare alla Commissione sia le proposte di provvedimenti interni di attuazione, sia i
provvedimenti stessi una volta adottati. Quest’ obbligo di notifica è stato anch’esso desunto
dall’obbligo di leale cooperazione. Dal momento della scadenza del termine per il recepimento, in
caso di mancata o inesatta attuazione si verifica una violazione da parte dello Stato dell’obbligo di
recepimento, che come vedremo può portare ad un ricorso per infrazione contro lo Stato
inadempiente. È solo dalla scadenza di tale termine, inoltre, che può porsi il problema di valutare
l’idoneità di alcune norme della direttiva ed avere effetti diretti. All’obbligo di attuazione gli Stati
membri non possono sottrarsi adducendo l’inadempimento da parte di altri Stati, o l’assenza di
effetti negativi sul funzionamento del mercato comune, ovvero richiamandosi al proprio diritto
interno. L’omissione delle misure di attuazione delle direttive espone gli Stati inadempienti al
ricorso alla Corte di giustizia da parte della Commissione o da parte di un altro Stato membro.
L’art. 260 TFUE prevede, specificamente e solo per l’ipotesi in cui uno Stato membro non
comunichi le misure di attuazione di una direttiva legislativa, la possibilità che la Corte di giustizia
gli infligga una sanzione pecuniaria sin dalla prima sentenza che accerti l’infrazione.
Inoltre, proprio a partire da un caso di mancata attuazione di una direttiva la Corte ha elaborato il
diritto dei singoli a richiedere il risarcimento dei danni agli Stati membri inadempienti. La Corte
di giustizia ha insistito sulla necessità che l’attuazione delle direttive avvenga nel rispetto delle

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esigenze della chiarezza e della certezza giuridica.
Nel caso in cui tutti gli Stati membri abbiano compiutamente adempiuto all’obbligo di attuazione di
una direttiva, trovano applicazione nei rispettivi ordinamenti interni le 28 leggi nazionali di
recepimento. La direttiva attuata però non si estingue al raggiungimento di questo risultato; essa
resta in vigore e può essere utilizzata a fini interpretativi dall’operatore giuridico chiamato ad
applicare la normativa nazionale di attuazione.
Le direttive, come i regolamenti, sono atti “legislativi” se adottate con procedura legislativa
ordinaria o speciale. Esse prendono la denominazione di “direttive delegate” se adottate dalla
Commissione nell’ambito della sua funzione normativa delegata, o di “direttive di esecuzione” se
adottate dalla Commissione stessa nell’ambito della sua competenza esecutiva. La direttiva è atto
largamente utilizzato, specie in materia di ravvicinamento delle legislazioni; a questo riguardo il
Consiglio gode di una competenza generale di emanare direttive, purché le legislazioni da
ravvicinare abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato
interno. Essa è anche l’atto tipico attraverso cui sono state realizzate le libertà di circolazione nel
mercato interno. Nel periodo tra l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, e di quello di
Lisbona, l’UE ha adottato delle decisioni quadro in materia di cooperazione di polizia e di
cooperazione giudiziaria in materia penale, ossia degli atti con caratteristiche fortemente simili alle
direttive. Le decisioni quadro non possono avere effetti diretti, specificazione prevista dagli Stati
membri preoccupati di salvaguardare la propria tradizionale sfera di sovranità in campo penale.
Sebbene si tratti di atti di cui non è più prevista l’emanazione da parte dell’UE, tuttavia è
necessario ricordarne l’esistenza: tra di esse, l’esempio più noto è rappresentato dal mandato di
arresto europeo, disciplinato dalla decisione quadro 2002/588/GAI.

39.3. Le decisioni

La decisione, ai sensi dell’art.288 TFUE, è caratterizzata dalla obbligatorietà in tutti i suoi


elementi. Se essa designa i destinatari e ha, quindi, portata individuale, è obbligatoria soltanto nei
confronti di questi ultimi. Tradizionalmente le decisioni comunitarie si caratterizzavano proprio per
essere atti a portata individuale, il che valeva a distinguerle dai regolamenti. Nella prassi, però, si è
affermato l’uso di denominare genericamente come “decisioni” determinate delibere di istituzioni
dell’UE, giuridicamente vincolanti, che non hanno portata individuale e sono prive dell’indicazione
di precisi destinatari. Per esempio, questa denominazione è usata per molte decisioni in materia
istituzionale, come quelle del Consiglio europeo sulle formazioni del Consiglio e sulla loro
presidenza, , nonché per le decisioni nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune. La
dottrina talora indicava questi atti come “decisioni sui generis” per distinguerle dalle decisioni
individuali. Con il Trattato di Lisbona la formulazione dell’art 288 TFUE è stata cambiata in modo
da ricomprendere anche le decisioni a portata generale, indicando che le decisioni possono anche
non designare il loro destinatario.
Per quanto riguarda le decisioni a portata individuale, queste possono essere dirette a uno o più Stati
membri o a uno o più individui, e hanno sostanzialmente natura di atti amministrativi e non
normativi. Le decisioni individuali rivolte a Stati membri si differenziano dalle direttive in
quanto esprimono un precetto completo, cui lo Stato destinatario si deve semplicemente adeguare.
Tra le decisioni rivolte a Stati membri di maggiore rilevanza ricordiamo quelle che la Commissione
emana nell’esercizio della propria funzione di controllo sugli aiuti che gli Stati membri erogano alle
imprese. Queste decisioni possono acconsentire alla concessione dell’aiuto, o negare tale
possibilità, o ammetterla a condizioni ben determinate, o stabilire che una iuto illegalmente erogato
dallo Stato debba essere restituito dall’impresa che ne abbia indebitamente beneficiato.

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Le decisioni rivolte ad individui determinati sono normalmente emesse dalla Commissione
nell’ambito del suo potere di vigilanza sull’applicazione dei Trattati. Assumono particolare rilievo,
quelle relative all’applicazione delle regole di concorrenza, le quali possono comportare a carico
dei destinatari obblighi pecuniari. In tali ultimi casi, tali decisioni costituiscono titolo esecutivo
negli Stati membri. è appena il caso di ricordare ancora una volta che non è al nomen juris che
bisogna guardare per distinguere una decisione da un altro atto, ma alla sua sostanza. In questa
prospettiva, come già si è detto, la Corte di giustizia ha adottato la tecnica dello “smascheramento”
dell’atto dell’UE, sviluppata specie con riferimento a casi in cui dietro la denominazione di
regolamento si cela in sostanza una decisione avente una molteplicità di destinatari, i quali sono a
tal punto legittimati a impugnare l’atto con un ricorso di legittimità. In altre occasioni, la Corte di
giustizia ha ritenuto che atti emanati dalla Commissione sotto forma di pareri, fossero in effetti
delle decisioni, quindi impugnabili dalle parti dell’intesa stessa.

39.4. Le raccomandazioni e i pareri.

L’arti 288 TFUE menziona anche altri due atti, le raccomandazioni e i pareri, limitandosi a
specificare che essi non sono vincolanti. Le raccomandazioni costituiscono un atto di comune
utilizzo nelle organizzazioni internazionali, in quanto, attraverso di esse, gli organi di
un’organizzazione internazionale cercano di ottenere un determinato comportamento da parte degli
Stati membri con il minimo sacrificio della sovranità di questi ultimi. È un atto, quindi, che incontra
minori resistenze da parte degli Stati ed è perfettamente coerente con il carattere volontario del
vincolo associativo tra i membri di un’organizzazione internazionale e con il principio di
attribuzione. Per converso, è un atto meno utilizzato all’interno degli Stati. Nel diritto dell’UE, il
potere generale di emanare raccomandazioni è attribuito al Consiglio e alla Commissione, mentre la
BCE può adottare raccomandazioni quando i Trattati lo prevedono. Le raccomandazioni sono in
genere volte a ottenere che il destinatario adotti un determinato comportamento,
indirizzandogli indicazioni non vincolanti. Esse possono essere ammesse sia nei confronti di Stati,
che di privati, che, infine, di altre istituzioni dell’UE. Esempi di raccomandazioni interorganiche
sono quelle indirizzate dal Consiglio al Parlamento europeo in materia di esecuzione del bilancio, o
quelle che la Commissione o l’Alto rappresentate dell’Unione per gli affari esteri e la politica di
sicurezza presentano al consiglio per essere autorizzati ad aprire negoziati internazionali. Le
raccomandazioni, pur non essendo vincolanti, non sono prove di conseguenze giuridiche. La
principale conseguenza è stata individuata nel c.d. “effetto di liceità”, vale a dire nella
legittimazione del comportamento dello Stato che si conformi alla raccomandazione. Ciò è vero
anche in relazione alle raccomandazioni del diritto dell’UE. Anzitutto, la Corte di giustizia ha
precisato che i giudici nazionali devono prendere in considerazione le raccomandazioni ai fini dell’
interpretazione di norme interne, per la soluzione delle controversie sottoposte al loro giudizio.
Inoltre, a volte la rilevanza giuridica della raccomandazione è indicata nei Trattati stessi. È il caso
delle raccomandazioni che la Commissione può rivolgere allo Stato che intenda emanare una
disposizione suscettibile di creare una distorsione del mercato interno. La mancata osservanza di
tale raccomandazione ha, come effetto di liceità, che lo Stato inadempiente resterà esposto alle
misure nazionali degli altri Stati membri che eventualmente lo pregiudichino.
Mentre le raccomandazioni tendono, in genere, ad ottenere che il destinatario adotti un determinato
comportamento, i pareri sono atti attraverso i quali l’organo che li emette precisa la sua posizione
su una determinata materia. Essi hanno per lo più natura interorganica, pur con vistose eccezioni.
Come già detto, l’emanazione di un parere è uno dei modi attraverso i quali il Parlamento europeo
e altre istituzioni partecipano al processo decisionale dell’UE nella procedura legislativa speciale. Il

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Parlamento europeo gode di un potere generale di emettere pareri. Anche ad altre istituzioni i
Trattati riconoscono tale potere in determinate circostanze. Come per le raccomandazioni, la non
vincolatività dei pareri, non implica che essi siano sprovvisti di rilevanza giuridica. Basti pensare al
riguardo che, l’atto emanato dal Consiglio senza l’acquisizione dei pareri delle istituzioni dell’UE,
quando tali pareri siano obbligatoriamente richiesti dai Trattati, è illegittimo per violazione delle
forme sostanziali. Inoltre i pareri, nella misura in cui esprimono la posizione dell’istituzione che li
emetti, determinano una situazione di legittimo affidamento dei destinatari circa il comportamento
futuro dell’istituzione stessa.

39.5. Gli atti atipici.

A prescindere dagli atti interni o di autoregolamentazione, emanati da ciascuna delle istituzioni


dell’UE, atti diversi sono previsti da altre norme dei Trattati, come le proposte della Commissione.
Anche al di là delle previsioni dei Trattati, la prassi conosce tutta una serie di altri atti delle
istituzioni dell’UE variamente denominati, quali lettere, comunicazioni, inviti, dichiarazioni,
risoluzioni, conclusioni, codici di condotta, istruzioni pratiche, programmi generali, Libri verdi,
libri bianchi, ed altri ancora, la cui rilevanza giuridica va individuata di volta in volta.
Un particolare rilievo hanno assunto le comunicazioni della Commissione in materia di norme
sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato, con le quali la Commissione rende anticipatamente noto
quale sarà l’orientamento cui intende attenersi. La Corte di giustizia ha affermato che il potere
discrezionale della Commissione è sostanzialmente “autolimitato” da tali comunicazioni, per cui
essa, nell’emettere decisioni in casi concreti, è vincolata ad attenersi agli orientamenti resi pubblici
ex ante con le sue comunicazioni. Del resto, come abbiamo detto per i pareri, le comunicazioni
possono giustificare il legittimo affidamento da parte dei terzi in merito al comportamento futuro
della Commissione.
Vanno anche in questa sede ricordate le dichiarazioni comuni emanate congiuntamente da più
istituzioni. Se tali dichiarazioni hanno di fatto il valore di una presa di posizione congiunta di
carattere sostanzialmente politico, invece i veri e propri accordi interistituzionali possono essere
adottati con lo scopo di assumere degli impegni giuridici reciproci tra le istituzioni coinvolte.
Il criterio guida per individuare la rilevanza giuridica degli atti atipici deve trarsi dalla più volte
menzionata giurisprudenza della Corte di giustizia, che invita a guardare sempre alla sostanza
dell’atto, a prescindere dal suo nomen juris. Un atto che risulti volto a produrre effetti giuridici non
potrà essere sottratto al sindacato di legittimità della Corte di giustizia, qualunque sia il suo nomen
juris.

39.6. Motivazione, base giuridica e altri requisiti formali degli atti dell’UE.

L’emanazione degli atti dell’UE deve sottostare ad alcuni requisiti formali, perlopiù precisati dagli
art.. 296 e 297 TFUE, in mancanza dei quali l’atto risulta viziato sotto il profilo della violazione
delle forme sostanziali ed è quindi passabili di essere dichiarato nullo ai sensi dell’art. 296 TFUE. Il
primo di tali requisiti è la motivazione, necessaria per tutti gli atti giuridici dell’UE. Per atti
giuridici vanno intesi quelli produttivi di conseguenze giuridiche, con esclusione degli atti a mera
rilevanza politica. Essa si esprima normalmente nei c.d. “considerando” costituiti da paragrafi
numerati. L’esposizione delle ragioni alla base delle varie norme, da parte dell’istituzione da cui
l’atto promana, costituisce un valido ausilio interpretativo per i soggetti chiamati ad applicare
l’atto medesimo. Anche se non espressamente richiesto dai Trattati, un elemento fondamentale della
motivazione è costituito dall’indicazione della base giuridica dell’atto, che è costituita da una o più
disposizioni dei Trattati che devono essere specificate nel preambolo di ciascun atto. Questo

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riferimento normativo è necessario perché dimostra che l’emanazione dell’atto rientra tra le
attribuzioni dell’istituzione stessa e che quindi non sussiste vizio di incompetenza in ordine ad esso.
A conferma della delicatezza della scelta della base giuridica vi sono i numerosi casi in cui tale
scelta da parte del Consiglio è stata contestata dal Parlamento europeo o dalla Commissione. La
base giuridica, come la Corte ha precisato, va determinata secondo criteri obiettivi individuati
avendo riguardo allo scopo e al contenuto dell’atto. Non è rara l’indicazione di una base giuridica
plurima, allorché la competenza di un’istituzione riposi su più di una norma dei Trattai o di altri
atti. Nel caso, però, in cui le procedure previste da tali norme siano tra di loro incompatibili, e
quindi, non possano fungere da base giuridica, la scelta tra le norme pertinenti dovrà fondarsi sulla
valutazione delle finalità dell’atto che risultino preponderanti. È anche necessarie che gli atti
facciano espresso riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri
previsti da Trattati. Dalla motivazione, in altri termini, deve risultare tutto l’iter che ha preceduto
l’emanazione dell’atto e i contributi di tutte le istituzioni coinvolte. Limitatamente agli atti
legislativi, ricordiamo che essi devono essere dettagliatamente motivati sotto il profilo del rispetto
dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. In conformità al principio di certezza del diritto,
la possibilità di avere conoscenza delle norme stabilite negli atti di diritto derivato dell’UE è un
requisito fondamentale a garanzia dei destinatari. In questa prospettiva, l’art. 297 TFUE stabilisce
l’obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, per gli atti legislativi e
non legislativi, che assumono a forma di regolamenti o direttive rivolti a tutti gli Stati membri. le
raccomandazioni e i pareri non sono soggetti a tale pubblicazione. Gli atti soggetti a pubblicazione
sulla Gazzetta entrano in vigore, cioè iniziano a produrre i loro effetti giuridici, alla data da essi
stabilita, o, in mancanza, dopo una vacatio legis di venti giorni dalla pubblicazione. Gli atti
dell’UE non sono soggetti a pubblicazione, cioè le direttive volte a specifici Stati membri e le
decisioni di portata individuale, vanno invece notificati ai destinatari. È escluso che un atto
dell’UE possa avere un effetto retroattivo. Le deroghe al principio della irretroattività degli atti
dell’UE sono state ammesse solo in via eccezionale e in situazioni in cui l’atto non avrebbe potuto
altrimenti raggiungere il suo scopo. Quanto alla firma, gli atti adottati secondo la procedura
legislativa ordinaria vanno firmati sia dal Presidente del Parlamento europeo che dal Presidente del
Consiglio; quelli adottati secondo la procedura speciale e quelli non legislativi (adottati sotto forma
di regolamenti, direttive e decisioni) vanno firmati generalmente del Presidente del Consiglio.
Infine, va ricordato che gli atti dell’UE sono redatti nelle 24 lingue ufficiali. Collegato in qualche
modo agli aspetti formali degli atti dell’UE è il principio di trasparenza del processo decisionale.
Per garantire tale trasparenza, l’art. 15 TFUE specifica, anzitutto, che ciascuna istituzione, organo
e organismo dell’UE garantisce la trasparenza dei propri lavori e definisce le condizioni riguardanti
l’accesso del pubblico ai propri documenti. Il Parlamento europeo e il Consiglio si riuniscono in
sedute pubbliche. Inoltre, qualsiasi soggetto, cittadino dell’UE ha il diritto di accesso ai
documenti delle istituzioni, organi e organismi dell’UE entro i termini stabiliti.

CAPITOLO VI: CARATTERI ED EFFETTI DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA.

40. L’efficacia diretta per i singoli del diritto dell’UE.

La grande rilevanza che il diritto dell’UE ha progressivamente assunto è dovuta anche, in buona
misura, a due caratteristiche fondamentali e peculiari: l’efficacia diretta per i singoli di molte sue
norme e il primato sui diritti nazionali degli Stati membri. Si deve alla giurisprudenza della corte
di giustizia l’affermazione di tali caratteri, che si avvicinano molto a caratteristiche proprie dei

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sistemi costituzionali degli Stati federali. Le due sentenze di riferimento sono le notissime pronunce
nei casi Van Gend & Loos. La Corte ha riconosciuto in primo luogo la possibilità di ricollegare a
norme di diritto dell’UE effetti diretti per i singoli. L’affermazione del primato è di poco successiva,
il che si può spiegare anche considerando che la prevalenza dei diritti interni è un’implicazione
necessaria dell’efficacia diretta, in quanto è funzionale a garantire che le norme di diritto dell’UE
possano spiegare i loro effetti nei vari ordinamenti degli Stati membri e i diritti da queste conferiti
possano essere pienamente esercitati.
La produzione di effetti diretti per i singoli si collega strettamente alla qualificazione
dell’ordinamento dell’UE come un ordinamento di nuovo genere, che annovera tra i suoi soggetti
non solo gli Stati membri, ma anche soggetti di diritto interno degli Stati stessi (sentenza Van Gend
& Loos). In particolare, la Corte di giustizia ha affermato che le norme di diritto dell’UE possono
essere idonee a produrre l’effetto di costituire diritti o obblighi, nonché di produrre la modifica o
l’estensione di diritti o di obblighi. Nella prospettazione della Corte, gli organi degli Stati membri, e
in primis i giudici nazionali, devono garantire il rispetto di questi diritti e obblighi posti da norme di
diritto dell’UE di rango primario, secondario, o intermedio. Dalla partecipazione degli Stati membri
dell’UE discende infatti l’obbligo di assicurare l’effettività del diritto dell’UE negli ordinamenti
interni. In concreto, le norme dell’UE possono essere fatte valere nei rapporti tra il titolare di un
diritto e il soggetto obbligato ai sensi delle norme stesse; se non siano rispettate, le norme stesse
possono essere invocate dinanzi ai giudici nazionali. I giudici nazionali devono accordare un
tutela effettiva ai diritti attribuiti dal diritto dell’UE, assicurando una tutela equivalente rispetto
alla tutela offerta ai diritti stabiliti da diritto interno. Accanto ai giudici nazionali, pure le pubbliche
amministrazioni degli Stati membri devono garantire il pieno rispetto delle norme dell’UE nei
confronti dei privati interessati.
La diretta “azionabilità” dei diritti posti da norme del diritto dell’UE vale innanzitutto per quelle
norme che hanno come destinatari i singoli, a beneficio dei quali prevedono determinati diritti.
L’efficacia diretta per i singoli è inoltre stata stabilita dalla Corte di giustizia anche rispetto a norme
dell’ordinamento dell’UE che hanno come destinatari gli Stati. Va comunque tenuto ben presente
che l’idoneità di una norma a produrre effetti diretti non riguarda un atto considerato per intero. La
valutazione che la Corte di giustizia compie, infatti, è svolta norma per norma. Questo esame
consiste in generale nella valutazione da un lato del carattere chiaro e preciso della norma di diritto
dell’UE in questione, dall’altro del suo carattere “incondizionato”. Sotto il primo profilo, la
chiarezza e la precisione del precetto contenuto nella norma devono essere tali da consentire al
giudice nazionale di applicare la norma stessa al caso concreto; in particolare, questi requisiti
possono riguardare la completa indicazione degli elementi necessari per individuare: a) i soggetti in
capo ai quali la norma intende costituire il diritto; b) il contenuto del diritto; c) i soggetti su cui
grava l’obbligo corrispondente. Sotto il secondo profilo, il “carattere non condizionato” consiste
nella circostanza che l’esecuzione della norma non richieda l’adozione di ulteriori atti e di ulteriori
scelte normative, e quindi che la possibilità che la norma sia applicata da parte di un organo
nazionale non sia per l’appunto “condizionata” ad ulteriori adempimenti, dell’UE o degli Stati
membri: solo in questi casi la norma è applicabile direttamente o, per usare un’espressione
equivalente, “self-executing”, in quanto la norma contiene in sé stessa tutti gli elementi necessari a
consentirne l’applicazione nei casi singoli. Nella giurisprudenza dell’UE più risalente, la Corte ha
usato alternativamente l’espressione “efficacia diretta” accanto a quella di “diretta applicabilità”.
Quest’ultima espressione in realtà è utilizzata testualmente nel TFUE solo con riguardo ai
regolamenti. Più in generale, va ricordato che l’efficacia diretta di una norma dell’ordinamento
dell’UE e il suo primato non giustificano che uno Stato lasci in vigore delle norme interne

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contrastanti, limitandosi a disapplicarle. Come sottolineato dalla Corte di giustizia, con riferimento
alle disposizioni italiane che riservavano ai cittadini italiani l’esercizio delle professioni di agente
turistico, giornalista e farmacista: “la Repubblica italiana non può sottrarsi all’obbligo di adattare
la sua legislazione nazionale a quanto prescritto dal Trattato”, invocando la possibilità di far valere
l’effetto diretto delle pertinenti norme del Trattato sulla libertà di circolazione.

40.1. L’efficacia diretta delle norme di diritto primario.

a) Il primo caso in cui la Corte ha affermato che un singolo può avvalersi direttamente di una norma
di diritto dell’UE contro un’amministrazione statale, ha avuto ad oggetto una norma dei Trattati,
che poneva un obbligo in capo agli Stati membri. come i è detto, ciò è avvenuto nella sentenza van
Gend & Loos. L’impresa olandese si era vista applicare, dalle autorità doganali olandesi, un dazio
all’importazione superiore a quello in vigore alla data di entrata del Trattato CEE. Ciò era in
contrasto con l’allora art. 12 CEE, che imponeva agli Stati membri l’obbligo di non aumentare i
dazi doganali in vigore tra di essi. Pertanto, quando la ditta van Gend & Loos si rivolse ad un
tribunale olandese contestando l’incremento del dazio, la posizione del Governo olandese u che
l’art. 12 CEE non conferiva alcun diritto ai singoli, ma appariva rivolto solo agli Stati membri. Il
giudice olandese sospese il procedimento e sottopose alla Corte di giustizia la questione. La Corte
non ebbe dubbi in proposito: essa affermò che l’ordinamento comunitario “riconosce come soggetti
non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini”. Secondo questa ricostruzione, una norma
del Trattato, come può porre degli obblighi a carico dei privati, così può attribuire loro dei
diritti. Successivamente, una serie di sentenze della Corte ha riconosciuto l’attitudine a produrre
effetti diretti per i singoli ad altre norme dei Trattati, che pure apparivano volte solo a porre divieti
in capo agli Stati membri. In tutti i casi, i singoli hanno potuto fare valere dinnanzi alle autorità
nazionali l’inosservanza da parte degli Stati membri delle relative norme dei Trattati rivolte agli
Stati stessi, tra cui il divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità, il divieto di dazi doganali
tra gli Stati membri, l’obbligo degli Stati membri di garantire la libera circolazione delle merci
anche in presenza di monopolo commerciali, la libera circolazione dei lavoratori, la libertà di
stabilimento… Dalla suddetta giurisprudenza si rileva che la Corte ha attribuito diretta efficacia per
i singoli sulla base di un esame volto a rilevale i necessari requisiti di chiarezza e precisione, e il
loro carattere incondizionato. La Corte, per corroborare il giudizio di adeguatezza di norme dei
Trattati a produrre effetti diretti, ha spesso richiamato il principio dell’effetto utile, sostenendo che
senza un’efficacia diretta le norme stesse non sarebbero state in grado di raggiungere il loro scopo.
Quando, invece, le norme dei Trattati lasciano alle istituzioni dell’UE o agli Stati membri un
consistente margine di discrezionalità, oppure sono troppo generiche, tale efficacia diretta è negata
alla Corte.
L’efficacia diretta per i singoli, così riconosciuta dalla Corte a norme dei Trattati rivolte agli Stati
membri, è “ verticale”, nel senso che conferisce al singolo la possibilità di far valere i diritti
nascenti da tali norme nei confronti della pubblica autorità. In alcuni casi, è stata riconosciuta
anche un’ efficacia diretta “orizzontale”, nel senso, cioè, che è stato garantito al singolo il diritto
di far valere la norma dei Trattati dinanzi ad un giudice nazionale anche nei rapporti con altri
privati. Come si è detto, infatti, i Trattati hanno tra i propri destinatari anche i singoli, pertanto, a
norme dei Trattati che pongono divieti di restrizioni sul mercato interno è stata riconosciuta
l’attitudine a spiegare effetti anche nei confronti dei singoli, con la conseguenza che eventuali
pattuizioni private che pongano restrizioni di questo genere non possono avere effetto, e il giudice
non può ordinarne l’osservanza. Ciò è avvenuto, ad esempio, per il contrasto con le regole di
concorrenza che sono rivolte alle imprese private. In senso analogo si possono ricordare altre

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norme, di per sé dirette agli Stati, ma di cui la Corte aveva già in genere riconosciuto l’efficacia
diretta verticale: si pensi al riguardo alle norme sulla libera circolazione delle merci; al divieto di
discriminazioni basate sulla nazionalità o sul sesso.
Un’analoga attitudine a produrre effetti diretti negli ordinamenti interni degli Stati membri è stata
riconosciuta dalla Corte di giustizia anche ai principi generali di diritto dell’UE. Sotto questo
profilo, entrano in considerazione ad esempio due note sentenze nelle quali la Corte ha considerato
che dovesse essere data piena applicazione a principio di non discriminazione , e ne ha desunto
l’applicazione in rapporti di lavoro tra privati.
b) Sempre restando nell’ambito del diritto primario, la questione dell’attitudine delle norme della
Carta ad essere invocate in giudizio ai singoli non ha ancora dato luogo ad una cospicua
giurisprudenza. La Carta stessa, però, introduce una distinzione, di cui non è in verità chiarissima
la portata, tra le disposizioni in essa contenute che enunciano diritti e quelle “che contengono dei
principi”: a titolo di esempio, le “spiegazioni annesse alla Carta” indicano come principi le norme
sull’inserimento delle persone con disabilità, sui diritti degli anziani e il principio di tutela
dell’ambiente. L’art. 52 specifica che le norme che contengono principi “possono essere invocate
dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità”. Sembra quindi che,
solo quando lo Stato o l’UE abbia adottato i pertinenti atti di attuazione il giudice potrà essere
chiamato anche da un singolo a controllare la legittimità di tali atti; in assenza di atti di attuazione,
invece, le norme della Carta che contengono principi non potrebbero utilmente essere invocate in
giudizio. L’invocabilità è stata ammessa dalla Corte nei rapporti verticali, nei confronti degli Stati
membri. p ragionevole pensare che non vi siano ostacoli al riconoscimento alla produzione di effetti
diretti anche sul piano orizzontale.
Anche in ordine alla Carta, tuttavia, la Corte valuta norma per norma se la disposizione invocata
abbia la caratteristiche di chiarezza, precisione e incondizionatezza necessarie per produrre effetti
diretti. In assenza di queste caratteristiche, la Corte ha negato che la norma della Carta invocata
fosse idonea a conferire ai singoli un diritto soggettivo autonomamente tutelabile. Un’altra
importante sentenza, è quella del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale, nella quale la
Corte ha considerato che la norma della Carta rilevante nel caso si specie non potesse produrre
pienamente i suoi effetti finché il diritto contemplato non fosse stato precisato mediante
disposizioni di diritto dell’UE o di diritto nazionale. Il giudizio sull’esclusione dell’efficacia
diretta della norma si è fondato sulla presenza della formula per cui il diritto previsto deve essere
garantito “nei casi e alle condizioni previsti dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi
nazionali”. Il fatto che ci si possa attendere una limitata incidenza della Carta a tale riguardo si può
del resto leggere tenendo presente che si tratta degli articoli dedicati per lo più ai diritti sociali,
ossia a diritti la cui promozione forma tradizionalmente oggetto di scelte di politica sociale che in
buona parte restano riservate agli Stati membri.

40.2. L’efficacia diretta delle norme dei regolamenti.

Un discorso analogo a quello fatto per l’efficacia diretta per i singoli delle norme dei Trattati vale
per l’efficacia diretta dei regolamenti. L’efficacia diretta di questi atti è prevista dai Trattati. Gli
Stati membri, hanno consentito a fare sostituire la disciplina nazionale dalla disciplina dettata
dall’’UE. L’applicabilità diretta dei regolamenti implica anche la loro attitudine a costruire
direttamente situazioni giuridiche soggettive in capo ai soggetti degli ordinamenti interni (cioè la
loro idoneità ad avere efficacia diretta). Ciò si verifica in particolare con riguardo alle norme che
non richiedano misure attuative o integrative da parte delle istituzioni dell’UE o da parte degli Stati
membri. comunque, anche qualora un regolamento nel suo insieme richieda l’adozione di tali

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misure, quelle specifiche norme del regolamento stesso che abbiano i caratteri di chiarezza,
precisione e incondizionatezza saranno idonee ad avere efficacia diretta di per sé, e quindi ad
esempio ad essere invocate e ad essere applicate direttamente dai giudici nazionali. (Vedi sentenza
Leonesio, con la quale veniva riconosciuta ad un singolo la possibilità di far valere, nei confronti
dello Stato italiano, il suo diritto ad un premio disposto da un regolamento). La Corte rimarca che
gli Stati membri non possono condizionare il prodursi degli effetti di un regolamento
all’emanazione di un provvedimento nazionale, o ad una prassi interna. L’attitudine delle norme
opera quindi dal momento della loro entrata in vigore, e determina immediatamente il sorgere dei
diritti in esse previsti, senza che possano essere frapposti ostacoli e condizionamenti di diritto
interno. Le norme dei regolamenti possono essere invocate in un giudizio interno non solo da un
privato nei confronti di uno Stato (rapporti giuridici verticali “ascendenti”), ma anche nelle
relazioni tra privati (rapporti giuridici orizzontali). Dalla loro portata generale deriva infatti che
anche i singoli rientrano tra i destinatari dei regolamenti, e quindi possono essere posti
immediatamente in capo ai privati non solo diritti ma anche obblighi. Dal momento dell’entrata
in vigore di un regolamento, quindi, i singoli possono pretendere il rispetto dei diritti loro attribuiti,
e , qualora si riveli necessario, avvalersi direttamente delle disposizioni dei regolamenti a loro
favore dinanzi alle autorità di ogni Stato membro. la possibilità di invocare una norma di un
regolamento contro un privato, del resto, vale non solo per i privati titolari del diritto
corrispondenti, ma anche per gli Stati (c.d. efficacia verticale “discendente”).

40.3. L’efficacia diretta delle norme delle direttive e i suoi limiti.

Quanto alle direttive, la loro stessa natura di norme che necessitano di disposizioni da attuare da
parte degli Stati membri che ne sono destinatari sembrerebbe, escludere a priori la possibilità che
venga loro riconosciuta efficacia diretta per i singoli. Questa è stata, infatti, l’opinione inizialmente
espressa dalla dottrina e dalle giurisdizioni nazionali. Ben presto, però, la Corte di giustizia ha
ribaltato questo orientamento, con una serie di sentenze che hanno finito con l’affermare
l’attitudine a produrre effetti diretti per i singoli anche di norme contenute in direttive, seppure a
condizioni ben determinate. La premessa generale di cui la Corte è partita è stata, anche in questi
casi, l’applicazione del principio dell’effetto utile, ai sensi del quale un atto deve essere
interpretato in modo da poter raggiungere il suo scopo. Occorre comunque precisare che
l’emanazione delle disposizioni di attuazione resta pur sempre un obbligo per gli Stati stessi, e
proprio per questo sarebbe poco coretto parlare di “diretta applicabilità” per le direttive, posto che
l’accezione riguarda principalmente il fatto che i regolamenti non richiedono atti di esecuzione da
parte degli Stati membri. Per le direttive, invece, il fatto di poter accordare effetti diretti ad alcune
disposizione in esse contenute, è solo un rimedio suppletivo e temporaneo rispetto all’emanazione
di atti di completo ed esatto recepimento. L’efficacia diretta delle norme di una direttiva per i
singoli è sempre stata stabilita, da parte della Corte di giustizia, a seguito di un esame volt ad
individuare quali disposizioni in essa contenute potessero essere fatte valere dai singoli senza la
necessità di attendere l’emanazione di provvedimenti di attuazione. Ai requisiti di chiarezza,
precisione e incondizionatezza, si aggiunge specificamente per le direttive un altro requisito: la
previa scadenza del termine previsto per il loro recepimento, senza che lo Stato abbia adottato i
provvedimenti necessari. In questa prospettiva la Corte ha concretamente riconosciuto ai singoli la
possibilità di far valere i precetti di una direttiva non attuata dagli Stati destinatari. Ciò è
concretamente avvenuto nel caso in cui la direttiva imponga agli Stati membri obblighi stabiliti in
precetti completi, che le autorità statali possono applicare senza la necessità di ulteriori
specificazioni da parte degli Stati. La maggioranza delle sentenze riguardano casi che, in definitiva,

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rientrano in questa situazione di chiarezza, precisione e incondizionatezza.
Un secondo caso è in effetti una specificazione del precedente e riguarda le direttive che
impongono agli Stati membri obblighi di non facere. Ad esempio la Corte, ha ritenuto che una
direttiva, relativa alla libera circolazione delle persone, avesse efficacia diretta per i singoli per la
parte in cui vietava agli Stati di adottare provvedimenti limitativi di tale libertà, eccetto che i casi
determinati. È chiaro infatti che obblighi (negativi) di questo tipo richiedono agli Stati solo di
astenersi da determinati comportamenti (nel caso di specie, l’obbligo di non impedire l’esercizio
delle libertà di circolazione), e quindi che l’esercizio dei corrispondenti diritti soggettivi non
richiede la previa emanazione di atti di esecuzione.
La prima sentenza in cui la Corte ha affermato l’idoneità delle norme di una direttiva non attuata,
ad essere invocate da un privato, ha riguardato una direttiva che si limitava a chiarire la portata di
un obbligo già previsto dai Trattati e dotato di effetti diretti.
L’efficacia diretta riconosciuta alle direttive, nei limiti suddetti, va intesa come una garanzia per i
singoli e, in sostanza, come una sanzione indiretta all’inadempimento dell’obbligo di recepimento
degli Stati membri. Resta ferma, ovviamente, la violazione da parte di questi ultimi dell’obbligo di
recepimento, ma i singoli non possono rivolgersi al riguardo alla Corte di giustizia, in quanto il
ricorso per inadempimento può essere presentato solo alla Commissione o da un altro Stato
membro. Questo sottinteso intento sanzionatorio da parte della Corte risulta chiaro ad esempio nella
sentenza del 5 aprile 1979, Ratti, in cui la Corte ha affermato che uno Stato inadempiente non può
opporre il proprio inadempimento agli individui che invocano l’efficacia di una direttiva. Il Ratti
era imputato in un procedimento penale per aver violato le norme sull’etichettatura di prodotti che
contenevano sostanze pericolo, non avendo indicato la precisa percentuale di tali sostanze. La
difesa del Ratti eccepiva che tale indicazione non era richiesta dalle direttive. La Corte rispose
affermando che uno Stato membro non piò opporre ad un suo cittadino una disposizione interna che
lo Stato avrebbe già dovuto modificare se avesse adempiuto al proprio obbligo di recepimento,
perché ciò equivarrebbe ad avvalersi di un proprio inadempimento (“non è consentito far valere un
diritto quando alla base di questo si pine un’immoralità”).
Il rilevante impatto nei diritti interni di questa giurisprudenza della Corte di giustizia e, più in
generale, di quella relativa a tutte le norme dell’UE dirette agli Stati membri, si può cogliere
collocando tale giurisprudenza nel contesto del rafforzamento del principio del primato del diritto
dell’UE sui diritti interni degli Stati membri. Del resto, la rilevanza delle affermazioni della Corte
non è, come si p detto, limitata all’operato dei giudici nazionali, ma si estende all’attività di ogni
organo nazional, e segnatamente alla pubblica amministrazione, anche locale, che è tenuta a
disapplicare le norme del diritto nazionale non conformi a direttive con efficacia diretta per i
singoli. L’efficacia diretta delle direttive è stata ammessa dalla Corte di giustizia in modo più
limitato rispetto ad altre fonti di diritto dell’UE. Poiché le direttive sono norme che hanno come
destinatari solo gli Stati membri la giurisprudenza dell’’UE ha sancito che la loro efficacia diretta
può operare solo in senso verticale. In altri termini, ai singoli è accordata, la possibilità di fare
valere solo nei confronti delle autorità statali una pretesa fondata su di una norma posta da una
direttiva non attuata. Si tratta anzi più precisamente di un’efficacia verticale in senso ascendente,
nel senso che il privato può invocare la direttiva ne confronti della (superiore) autorità statale,
perché e solo nei confronti degli Stati destinatari che la direttiva ha natura cogente. La Corte di
giustizia nega, invece, la possibilità che una pretesa fondata su una direttiva non recepita possa
essere volta nei confronti di un privato da parte di un altro privato. Parallelamente, si nega pure
che una direttiva non attuata possa essere invocata contro un provato da parte di un’autorità statale
(c.d. “efficacia verticale discendente”). Il fondamento della posizione adottata dalla Corte risiede

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nella circostanza, come si è detto, che una direttiva non è un atto destinato a porre obblighi in
capo ai privati. La possibilità di porre obblighi in capo ai privati spetta alle istituzioni dell’UE solo
nei casi in cui i Trattati prevedono l’emanazione di regolamenti e decisioni, mentre tale potere non
spetta nei casi in cui è prevista l’emanazione di direttive. In definitiva, si può rilevare che anche
sotto questo profilo entra in gioco il principio di attribuzione.
L’atteggiamento di chiusura nei confronti nei confronti del riconoscimento di efficacia diretta
orizzontale alle direttive, seppure giustificabile, non è però privo di inconvenienti. Da un lato per
quanto riguarda la mancanza di uniformità nell’esercizio dei diritti dei singoli che si crea tra i
vari Stati membri. si può pensare al riguardo alla famosa sentenza Faccini Dori, con cui è stato
negato ad un consumatore il diritto di recesso stabilito da una direttiva a tutela dei consumatori, per
il grave ritardo nel recepimento della direttiva stessa in Italia. Il diniego della Corte è stato motivato
appunto dal fatto che il venditore fosse un soggetto privato, contro il quale il diritto previsto dalla
direttiva non è stato considerato opponibile. Le prescrizioni di una direttiva finiscono per avere un
ambito soggettivo di applicazione difforme nel territorio dell’UE a seconda della tempestività con
cui i singoli Stati vi diano attuazione. Soprattutto, però, il diniego di effetti diretti orizzontali
introduce un elemento che porta a una distinzione tra i soggetti tenuti o meno al rispetto delle
norme della direttiva; si pensi ad esempio alle direttive in materia di rapporti di lavoro: l’efficacia
solo verticale consente ai soli dipendenti pubblici di farle valere contro i propri datori di lavoro (in
quanto in questo caso è uno Stato membro ad agire come datore di lavoro); viceversa, un’analoga
possibilità non è data ai dipendenti privati, rispetto ai quali il rapporto è di tipo orizzontale, proprio
perché sia il lavoratore che il datore di lavoro sono soggetti privati. E questo aspetto negativo è
acuito dalla difficoltà che spesso si presenta di distinguere in concreto la natura pubblica o
privata del soggetto nei cui confronti la direttiva è invocata. Le conseguenze del rifiuto da parte
della Corte di giustizia di riconoscere efficacia diretta orizzontale alle direttive sono state mitigate,
parzialmente, dalla giurisprudenza della Corte stessa da un lato attraverso il principio
dell’interpretazione conforme da parte dei giudici nazionali, e dall’altro con la previsione di una
tutela risarcitoria da parte dello Stato il cui inadempimento abbia causato danno al privato. Questa
giurisprudenza, è stata sviluppata proprio a partire da casi di mancata attuazione di direttive.
Non a caso parte della dottrina con riguardo a tali obblighi di interpretazione conforme e di
risarcimento parla di “effetti indiretti” del diritto dell’UE.

40.4. L’efficacia diretta delle decisioni.

Per quanto riguarda l’efficacia diretta per i singoli delle decisioni , occorre distinguere a seconda
che i destinatari siano degli individui o degli Stati. Le decisioni rivolte a singoli soggetti sono
idonee a produrre effetti diretti, in relazione alle disposizioni che abbiano gli uguali caratteri della
chiarezza, precisione e incondizionatezza. In ordine alle decisioni rivolte agli Stati, la Corte ha
riconosciuto da tempo che esse possono essere fatte valere direttamente dai singoli di fronte ai
giudici nazionali, quando l’obbligo imposto dalla decisione allo Stato è dotato dei requisiti
dell’efficacia diretta, come lo è, ad esempio, l’obbligo di non facere. La Corte di giustizia ha di
recente precisato che anche le decisioni rivolte agli Stati possono essere invocate dai privati solo nei
confronti degli Stati (sul piano verticale), e non nei rapporti (orizzontali) tra privati, poiché solo
gli Stati membri ne sono i destinatari.
Tra le decisioni rivolte agli Stati che sono gravide di conseguenze negative per gli individui, un
rilievo particolare hanno le “decisioni di recupero” con cui la Commissione ordina ad un Stato
membro di recuperare determinati aiuti erogati in violazione delle norme dell’UE sugli aiuti di
Stato. Lo Stato destinatario della decisione è tenuto a farsi restituire l’aiuto dalle imprese

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beneficiarie. Si noti al riguardo che lo Stato non gode di discrezionalità nel dare esecuzione alla
decisione nei confronti del privato. In altri termini, ci si trova di fronte ad un caso concreto in cui lo
Stato sostanzialmente fa valere nei confronti di un privato una decisione formalmente a lui
destinata, con una sorta di diretto verticale “discendente”.

40.5. L’efficacia diretta delle disposizioni degli accordi internazionali dell’UE.

Efficacia diretta per i singoli, invece, è stata riconosciuta dalla Corte a norme contenute in accordi
internazionali conclusi dall’UE con Paesi terzi, sempre a condizione che tali norme fossero
sufficientemente precise e incondizionate. Come si è detto, tali accordi fanno parte a pieno titolo
dell’ordinamento dell’UE e quindi può porsi il caso in cui soggetti privati intendano avvalersi in
giudizio di alcune clausole in essi contenute. Ciò è avvenuto, per esempio, in relazione alle norme
che vietano l’applicazione di imposte differenti sui prodotti dei Paesi contraenti, contenute negli
accordi conclusi tra UE e, rispettivamente, Grecia e Portogallo, prima della loro ammissione
all’UE. Tra le altre norme di Trattati internazionali dell’UE che sono state considerate dotate di
effetti diretti, si possono ricordare le disposizioni dell’Accordo CEE-Marocco sulla non
discriminazione tra cittadini dei Paesi contraenti nell’accesso all’assistenza sociale.
Vero è, comunque, che la Corte ha manifestato una certa selettività nell’ammettere l’idoneità di
norme di accordi internazionali dell’UE ad essere invocate in giudizio dai privati per contestare la
legittimità di norme nazionali. In alcuni casi, il diniego di effetti diretti si è basato su considerazioni
relative non solo ai caratteri di chiarezza, precisione e incondizionatezza delle norme invocate, la
Corte impiega come parametri ulteriori la natura, la struttura e lo spirito dell’accordo.
Queste valutazioni della Corte hanno avuto l’effetto di rendere meno rigidi i vincoli nascenti per
l’UE da alcuni degli accordi in questione. L’approccio della Corte sembra riservare alle autorità
dell’UE e degli Stati membri un margine di discrezionalità nelle scelte relative all’esecuzione
degli impegni internazionali, che viene invece limitato nei diversi casi in cui la Corte riconosce
l’attitudine ad avere diretta efficacia. L’efficacia diretta, se riconosciuta nell’UE, può pero creare
uno squilibrio rispetto agli Stati terzi contraenti, nei casi in cui essi non ammettano un analogo
controllo giudiziale interno sul rispetto degli impegni pattizi. Quest’ultima logica di reciprocità
pervade la giurisprudenza dell’UE in merito specificamente agli Accordi internazionali che
regolano il commercio su scala globale, di cui l’UE è parte in ragione della sua competenza
esclusiva in materia commerciale, ossia in primo luogo in merito all’Accordo GATT 1947. Altri
Paesi tra i partners commerciali più rilevanti dell’Unione (in primis USA e Giappone) non
riconoscono la diretta efficacia del diritto del GATT-OMC negli ordinamenti interni, il che preclude
in linea di massima la possibilità di invocarne il rispetto innanzi ai giudici interni di tali Stati anche
da parte di imprese dell’UE che operano in questi mercati. Il diniego di effetti diretti da parte della
Corte di giustizia rispetto a questo complesso di Accordi evita quindi che la concessione unilaterale
di effetti diretti nell’UE avvantaggi le imprese straniere nel mercato europeo, in assenza di
un’analoga concessione da parte di altri membri importanti dell’OMC (Organizzazione mondiale
del Commercio). L’efficacia diretta per i singoli è stata, pertanto, negata dalla Corte di giustizia,
anche con riguardo a norme che pure avrebbero avuto caratteri di chiarezza, precisione e
incondizionatezza. Questa giurisprudenza è stata estesa dalla Corte anche alla fattispecie
dell’inottemperanza, da parte dell’UE, ad una decisione “di condanna” adottata dall’organo di
soluzione delle controversie dell’OMC nei confronti dell’UE medesima: malgrado l’incompatibilità
di un atto dell’UE con gli Accordi OMC, l’accertamento della violazione degli Accordi non è stato
considerato di per sé causa di annullamento di atti dell’’UE in cui tale violazione si concretizzava.
A motivazione di questa decisione la Corte ha sottolineato che è opportuno che alle istituzioni

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dell’UE sia lasciato un margine di scelta, affinché esse possano negoziare in condizioni di parità
con i Paesi terzi le forme di esecuzione delle decisioni di tale organo. Nel margine di scelta rientra
anche la possibilità di decidere di non cessare l’illecito internazionale, e di accettare di essere
esposti alle contromisure adottate dal soggetto leso. Il che si è puntualmente verificato, con la
conseguenza che le contromisure degli USA si sono concretizzate in rappresaglie
commerciali(aumenti dei dazi all’importazione negli USA), in danno delle imprese private europee
operanti verso gli USA, le quali nell’UE sono rimaste senza tutela giudiziaria effettiva.

41. Il primato del diritto dell’UE sui diritti interni degli Stati membri.

Il diritto dell’UE è destinato a spiegare la sua efficacia nell’ambito degli Stati membri accanto ai
diritti interni di questi ultimi. Le norme dell’ordinamento dell’UE, pertanto, sono suscettibili di
entrare in conflitto on i diritti interni, nelle situazioni in cui si riscontri l’incompatibilità tra le
rispettive discipline normative. Questi potenziali conflitti sono stati risolti sulla base
dell’affermazione del primato del diritto dell’UE, primato stabilito sia nei confronti delle norme
interne anteriori che di quelle posteriori alle norme dell’UE. Il riconoscimento ormai consolidato
del primato è opera della giurisprudenza della Corte di giustizia, posto che questo principio non è
presente nei Trattati.
Il primato del diritto dell’UE sui diritti interni è stato per la prima volta affermato nella Corte di
giustizia nella fondamentale sentenza Costa c. ENEL. Un avvocato italiano, Flaminio Costa,
ritenendo che la legge italiana con cui veniva nazionalizzata l’energia elettrica e l’istituto ENEL
fosse contraria ad alcune nome dell’allora Trattato CEE sui monopoli nazionali a carattere
commerciale, si rifiutò di pagare una fattura dell’ENEL, con la conseguente instaurazione di un
contenzioso davanti al giudice conciliatore di Milano. Dinanzi a tale Corte il Governo italiano, oltre
a difendere la conformità al Trattato CEE dalla legge istitutiva dell’ENEL, fece valere il fatto che
quest’ultima, in ogni caso, era posteriore alla legge di ratifica ed esecuzione del Trattato CEE e
quindi doveva prevalere sul testo di tale Trattato in base al principio della successione delle leggi
nel tempo. La Corte di giustizia, che aveva da poco enunciato il principio dell’efficacia diretta per i
singoli di alcune norme dell’ordinamento dell’UE, colse l’occasione per affiancarvi un altro
principio cardine, cioè quello del primato della norma dell’ordinamento dell’UE su quella
interna, anche posteriore. La sentenza Costa c. ENEL della Corte di giustizia sancisce che nelle
materie oggetto dei Trattati, gli Stati membri “hanno limitato i loro poteri sovrani e creato, quindi,
un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi”. Gli Stati membri non
possono quindi sottrarsi agli obblighi in vigore in un ordinamento giuridico, qual è quello dell’UE,
da essi stessi accettato su base di reciprocità. In quest’ottica, un provvedimento incompatibile con i
Trattati non potrebbe prevalere sulle disposizioni dell’ordinamento comunitario. La sentenza
chiarisce anche come il primato sia indispensabile per garantire l’efficacia diretta del diritto
dell’UE: se il diritto di uno Stato membro rappresentasse un ostacolo all’efficacia di norme dell’UE
che dispongono diversamente, questa situazione rappresenterebbe un grave impedimento non solo
alla tutela dei privati, ma anche in generale all’applicazione uniforme de diritto dell’UE
nell’Unione europea. (Vedi caso Simmental)Dall’affermazione del primato del diritto dell’UE sui
diritti interni degli Stati membri, poi, la Corte fece discendere l’inapplicabilità ipso jure, a partire
dall’entrata in vigore dei Trattati, di ogni norma interna esistente a tale data incompatibile con
norme dell’ordinamento dell’UE direttamente applicabili, nonché, l’impossibilità di “valida
formazione” di norme interne successive incompatibili con le norme dell’UE. Ne discendeva,
secondo la Corte, l’obbligo per i giudici competenti di applicare integralmente il diritto dell’UE e
di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, “disapplicando all’occorrenza qualsiasi

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disposizione contrastante senza doverne chiedere o attenderne la previa rimozione in via
legislativa”. Più in generale, il primato è configurato a partire da quest’ultima sentenza come un
carattere intrinseco al diritto dell’UE che non può essere condizionato da alcun provvedimento
legislativo o giudiziario dei vari Stati membri.
Il primato del diritto dell’UE determina quindi l’immediata inapplicabilità delle norme interne
contrastanti con una norma di diritto dell’UE. Questa prevalenza incondizionata si realizza però
solo nel caso delle norme dell’UE dotate di efficacia diretta, le quale, come precisa la Corte di
giustizia “hanno l’effetto di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in
vigore qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale”.
Come ipotesi di disapplicazione della norma nazionale si piò pensare, ad esempio, in materia
penale che essa riguardi una norma nazionale incriminatrice, incompatibile con una disposizione di
diritto dell’UE dotata di diretta efficacia: in tal caso la norma penale nazionale dev’essere, per così
dire, “neutralizzata”, per la sua contrarietà al diritto dell’UE, con la conseguente assoluzione
dell’imputato sotto tale profilo. In ordine al diritto processuale interno, la Corte ha sottolineato il
dovere di disapplicare norme nazionali che impediscano una piena efficacia del diritto dell’UE,
quindi anche senza che vi sia una contrarietà quanto ai contenuti, ma solo in considerazione dei loro
effetti ostativi: si veda la pronuncia nota come “Factortame I”, in cui la Corte di giustizia ha sancito
che se per l’attuazione del diritto dell’UE sia necessaria l’emissione di un provvedimento
provvisorio da pare del giudice nazionale, e una norma interna glielo impedisca, il giudici deve
disapplicare quest’ultima norma ed emanare il provvedimento provvisorio. Un certo scalpore aveva
destato la pronuncia con cui la Corte di giustizia aveva affermato che il giudice nazionale deve
giungere anche a disapplicare le norme nazionali che sanciscono l’autorità di cosa giudicata, e
quindi in sostanza a contraddire una sentenza interna definitiva in contrasto con il diritto dell’UE.
Un ulteriore effetto concreto della disapplicazione può essere la sostituzione della disciplina
nazionale con la disciplina dettata dalla norma dell’UE, qualora quest’ultima abbia le caratteristiche
necessarie per potersi applicare. Questo risultato si verifica in primis per i regolamenti, che per loro
natura sono concepiti come strumenti volti a dettare una disciplina negli ordinamenti degli Stati
membri in sostituzione delle diverse discipline nazionali.
Qualora, invece, la norma dell’UE difforme dal diritto interno non sia idonea a spigare effetti
diretti, e non si possa quindi dare corso alla diretta disapplicazione della norma interna, il conflitto
tra norme richiede comunque di essere risolto nell’ordinamento nazionale. La prima via che è
offerta all’operatore giuridico interno è quella di ricercare se alla norme statale possa essere dato un
significato compatibile con la norma dell’UE. Se ciò non sia possibile, perché la norma interna è
formulata in modo take da non presentare alcuna possibilità di interpretazione conforme,
nell’ordinamento italiano la rilevazione del contrasto dovrà essere sottoposta alla Corte
costituzionale, che potrà accertare l’illegittimità costituzionale delle nome interne contrastanti con
le norme dell’UE. Infine, il singolo potrà far valere la responsabilità civile dello Stato davanti a un
giudice nazionale, qualora il mancato rispetto delle prescrizioni del diritto dell’UE per l’esistenza di
norme interne incompatibili gli abbia cagionato direttamente dei danni risarcibili.
In generale, indipendentemente dall’attitudine o meno a produrre effetti diretti delle norme dell’UE,
e a prescindere dalla concreta disapplicazione delle norme nazionali, gli Stati membri sono
comunque tenuti a rendere conforme il proprio ordinamento al diritto dell’UE, modificando o
abrogando le norme interne contrastanti col diritto dell’UE.
La permanenza in vigore di norma statali contrarie al diritto dell’UE determina di per sé una
situazione di incertezza giuridica che va eliminata da parte del legislatore. Lo Stato membro che
non provveda ad eliminare le norme interne incompatibili con il diritto dell’UE si espone pertanto

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al rischio che contro di lui sia presentato un ricorso per inadempimento innanzi alla Corte di
giustizia. Ricordiamo anche che nella prospettiva della Corte di giustizia il principio del primato
comporta la prevalenza del diritto dell’UE sulla norme interne indipendentemente dal rango di
queste ultime, e quindi implica anche il primato sulle norme costituzionali degli Stati membri. nel
concludere, si può osservare che il principio del primato ha indubbiamente una portata centrale nel
regolare i rapporti tra gli ordinamenti degli Stati membri e dell’UE. Dalle motivazioni delle
sentenza menzionate emerge comunque con chiarezza una sottostante concezione della Corte di
giustizia nell’ambito della quale diritto dell’UE e diritto interno vengono concepiti come una sorta
di unicum, con automatica e assoluta prevalenza del primo sul secondo. Nella sentenza
Simmenthal, la Corte si era spinta sino a considerare che il rango superiore del diritto comunitario
fosse addirittura atto ad impedire la valida formazione di norme interne incompatibili; oggi la Corte
adotta una posizione meno estrema e parla solo più di inapplicabilità di queste ultime.
Occorre però segnalare che appare diversa la prospettiva adottata nella giurisprudenza
costituzionale degli Stati membri. La giustificazione di tale obbligo in questa giurisprudenza è da
ravvisare in una logica di tipo “dualista”, o internazionalistica, per cui gli effetti del diritto dell’UE
nel diritto nazionale derivano dalla volontà da parte degli Stati membri di partecipare all’UE e di
accettare i vincoli che tale partecipazione comporta. In questa prospettiva, la cessione volontaria di
quote di sovranità nazionale degli Stati membri all’UE implica anche che sia data applicazione
alle norme dell’UE in luogo delle norme interne incompatibili. Tuttavia, le Corti costituzionali di
alcuni Stati membri, tra cui quella italiana, ribadiscono la possibilità di sindacare in casi eccezionali
l livello di protezione offerto dal diritto dell’UE ai diritti fondamentali previsti. La riserva a proprio
favore della possibilità di controllo dimostra che per queste Corti il diritto dell’UE non è dotato di
un primato assoluto sui diritti interni, e che tale primato può invece incontrare dei limiti. Tali
limitazioni sono definite nella giurisprudenza costituzionale italiana “controlimiti”, perché
circoscrivono la portata delle limitazioni di sovranità derivanti dall’appartenenza all’UE.

42. I c.d. “effetti indiretti” del diritto dell’UE.

Come si è visto, l’efficacia diretta delle norme di diritto dell’UE incontra delle limitazioni: da un
lato in quanto deve essere accordata dai giudici e dalle amministrazioni nazionali solo nel caso in
cui il precetto contenuto nelle norme stesse sia sufficientemente preciso e abbia carattere
incondizionato; d’altro lato perché per quanto riguarda specificamente le norme poste dalle direttive
non attuate la loro efficacia è circoscritta sul piano soggettivo, potendo essere invocate solo nei
confronti delle autorità degli Stati membri e non nei rapporti tra i privati.
La Corte di giustizia nel corso degli anni ha dimostrato una notevole attenzione all’esigenza di dare
piena effettività a quanto stabilito dal diritto dell’UE. In questa prospettiva, i giudici dell’UE hanno
elaborato delle soluzioni volte a favorire la possibilità che negli ordinamenti degli Stati membri sia
assicurata una “tutela giurisdizionale effettiva”, e nello stesso tempo per promuovere il rispetto del
diritto dell’UE da parte degli Stati membri. Va letta in tal senso l’affermazione da un lato
dell’obbligo di interpretare il diritto interno in conformità al diritto dell’UE, dall’altro dell’obbligo
di tutela risarcitoria del singolo per le violazioni di diritto dell’UE.
Si tratta di sviluppi giurisprudenziali per indicare i quali si è diffusa la definizione di “effetti
indiretti”, chiaramente per accostarli agli effetti diretti delle norme di diritto dell’UE e distinguerli
da questi ultimi.

42.1. L’obbligo di interpretazione conforme del diritto interno al diritto dell’UE.

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La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di interpretazione conforme ha ricostruito
l’esistenza di un obbligo, in capo principalmente ai giudici degli Stati membri, di interpretare le
norme nazionali secondo il significato il più possibile coerente con il diritto dell’ UE. Si tratta di
una giurisprudenza che si colloca appieno nella prospettiva della Corte di impegnare i giudici
nazionali a dare prevalenza al diritto dell’UE. Il ricorso a questa tecnica interpretativa è stato
indicato come la prima delle operazioni che il giudice nazionale è tenuto a svolgere. Secondo
quanto prospettato dalla Corte, la prima questione che può porre in un giudizio interno è quella
della possibilità di attribuire ad una norma interna un significato coerente con il diritto dell’UE.
Nella scelta tra più interpretazioni possibili, il giudice nazionale deve dare applicazione alla norma
interna secondo il significato che corrisponde a quanto prescritto dal diritto dell’UE.
Solo se nessun’interpretazione compatibile sia concretamente possibile, il giudice si troverà di
fronte a un caso di contrasto tra norme dell’UE e norme nazionali nel quale si aprirà lo scenario
della disapplicazione del diritto interno: il giudice nazionale è tenuto a non dare applicazione alle
norme interne contrastanti col diritto dell’UE, qualora queste ultime norme siano dotate di efficacia
diretta. In caso contrario, cioè di norme dell’UE che non abbiano efficacia diretta in contrasto con
norme nazionali, la via che si prospetta per il giudice è la proposizione della questione di legittimità
costituzionale in merito alle norme alle norme nazionali stesse.
In ogni caso, il soggetto eventualmente danneggiato dall’applicazione di una norma interna
contrastante con il diritto dell’UE potrà rivolgersi al giudice interno competente, per chiedere un
risarcimento del danno.
Il fondamento normativo di quest’obbligo interpretativo è stato ravvisato dalla Corte di giustizia nel
generale obbligo di leale cooperazione che grava su ciascuno Stato membro. si deve quindi
precisare he all’interpretazione conforme sono tenuti in linea di principio tutti gli organi dello
Stato. In una sua prima manifestazione (sentenza Von Colson), la formulazione dell’obbligo di
interpretazione conforme non presentava carattere particolarmente innovativo. L’obbligo era infatti
concepito come inerente all’interpretazione di norme nazionali emanate in presenza di norme
dell’UE preesistenti. Ciò corrisponde in definitiva alla “presunzione di conformità”, cioè ad una
tecnica interpretativa ben conosciuta negli ordinamenti interni per conciliare potenziali contrasti tra
diritto interno e norme di trattati internazionali. Pertanto, nell’interpretazione delle leggi interne
successive alla stipulazione di un trattato reso esecutivo nell’ordinamento interno si deve far
prevalere il significato compatibile con le norme del trattato stesso. L’obbligo di interpretazione
conforme ha ad oggetto il diritto nazionale “a prescindere dal fatto che si tratti di norme
precedenti o successive” alle norme dell’UE il cui obiettivo si deve conseguire. Per le norme
nazionali emanate precedentemente a norme dell’UE, è evidente che non si piò presumere in capo
al legislatore alcun intenti di conformarsi a norme dell’UE che non erano ancora in vigore (vedi
caso Marleasing). In ogni caso, la Corte si premura costantemente di precisare, nelle sentenze in cui
entra in considerazione quest’obbligo, che la norma interna va interpretata applicando i metodi di
interpretazione ammessi nell’ordinamento interno.
L’obbligo di interpretazione conforme è stato oggetto dell’elaborazione giurisprudenziale
essenzialmente con riguardo alle direttive. Con specifico riguardo a queste ultime, tra l’altro, tale
obbligo non sorge per il giudice nazionale prima della scadenza del termine accordato dalla
direttiva agli Stati membri per la sua trasposizione nel diritto interno. Più in generale, però,
l’obbligo in esame si riferisce a tutte le norme dell’UE. Ad esempio, tale obbligo è stato
considerato rilevante anche in ordine alle decisioni quadro. Inoltre, questo canone interpretativo è
stato esteso anche agli accordi internazionali conclusi dall’UE e perfino alle raccomandazioni
dell’UE, sebbene non siano vincolanti. La portata dell’obbligo in esame è stata però circoscritta con

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la specificazione di due limiti fondamentali al di là dei quali l’interprete non può spingersi. Un
primo limite è rappresentato, come già si è accennato, dalle situazioni in cui i contrasti tra norma
interna e norma dell’UE siano impossibili da conciliare. Questo si verifica quanto la norme interna
non consenta margini nella sua interpretazione e sia inequivocabilmente contraria ad una norma di
diritto dell’UE: in questo caso l’attribuzione di un significato conforme al diritto dell’UE
richiederebbe un’interpretazione contra legem. Nel caso Kucukdeveci, in particolare, la Corte si è
trovata di fronte a tale limite in ordine a norme di diritto tedesco, incompatibili con le norme di una
direttiva in materia di lavoro invocata da una lavoratrice subordinata nei confronti di un datore di
lavoro privato; non potendo dar luogo all’interpretazione conforme, né considerare direttamente
applicabile al rapporto di lavoro tra privati la direttiva in questione, la Corte considerò però che la
direttiva desse “espressione concreta” al principio di non discriminazione in base all’età, che è
qualificato come un principio generale del diritto dell’UE; su tale base giunse a considerare che le
norme di diritto tedesco dovessero essere disapplicate dalla controversia in questione. In secondo
luogo, la Corte ha considerato che l’attività di interpretazione del diritto interno deve comunque
svolgersi nel rispetto dei principi generali dell’UE, e in particolare di quelli riguardanti i diritti
fondamentali. Ciò si è manifestato chiaramente con riguardo alla materia penale: la Corte ha
precisato che l’esigenza di interpretare una norma nazionale in conformità con il disposto di una
direttiva non può avere luogo se abbia l’effetto di determinare o aggravare la responsabilità
penale di un individuo.

42.2. Il diritto al risarcimento dei singoli per le violazioni del diritto dell’UE da parte degli
Stati membri.

Il principio generale dell’obbligo del risarcimento per le infrazioni al diritto dell’UE non trova
un’esplicita base normativa nei Trattati, e discende dall’opera “creativa” della Corte di giustizia, a
partire dall’affermazione per cui questo principio è “inerente al sistema del Trattato”. Si tratta di
un principio considerato a pieno titolo tra i più rilevanti nell’ordinamento giuridico dell’Unione
europea. In generale, la possibilità di agire per ottenere un risarcimento del danno si collega al ruolo
chiave che i giudici nazionali svolgono sia nella protezione delle posizioni dei singoli, sia,
nell’assicurare il rispetto degli obblighi che il diritto dell’UE pone in capo agli Stati membri. Sotto
il primo profilo, il rimedi dell’azione che il danneggiato può proporre contro uno Stato costituisce
uno dei principali strumenti a disposizione del giudice nazionale per garantire la tutela dei diritti
nascenti dal diritto dell’UE in capo ai singoli. Sotto il secondo profilo, ovviamente strettamente
interconnesso, la tutela risarcitoria costituisce, insieme all’efficacia diretta e all’obbligo di
interpretazione conforme, uno tra gli strumenti potenzialmente più efficaci con cui i privati possono
concorrere a spingere gli Stati a garantire l’effettività del diritto dell’UE.
La pronuncia di riferimento – la famosa sentenza Francovich- riguardava la mancata trasposizione
nell’ordinamento italiano della direttiva che –a tutela dei lavoratori subordinati- prevedeva che ogni
Stato membro istituisse un fondo di solidarietà per il caso di insolvenza del datore di lavoro nel
pagamento delle retribuzioni. Oggi tale fondo in Italia è istituito presso l’INPS, ma per anni il
nostro Paese è rimasto inadempiente rispetto a questa disposizione di diritto dell’UE. Una serie di
lavoratori dipendenti aveva chiesto l’applicazione diretta delle previsioni della direttiva, e quindi la
condanna dello Stato italiano a pagare le somme in essa previste, anche in assenza della creazione
del fondo suddetto. La Corte considerava che le disposizioni delle direttiva non avessero la
sufficiente chiarezza e precisione per essere dotata di efficacia diretta, in quanto non precisavano
quale fosse il soggetto obbligato a garantire il pagamento. A questa prima parte della sentenza, però,
la Corte faceva seguire una seconda parte che ha avuto una portata dirompente, ossia quella in cui

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ha affermati l’esistenza della responsabilità civile degli Stati membri nel caso in cui commettano
una violazione del diritto dell’UE che cagiona un danno a degli individui privati. In tale pronuncia,
quindi, il risarcimento si prestava ad essere letto come una sorta di compensazione proprio per i
casi in cui fosse inaccessibile il rimedio degli effetti diretti. Tuttavia, successivamente, nella prima
occasione utile, la Corte ha tenuto a precisare che la domanda di risarcimento può utilmente essere
proposta pure per la violazione di norme delle quali si può far valere la diretta efficacia. Particolare
interesse presenta la configurazione della tutela risarcitoria come un rimedio che non ha natura
alternativa rispetto all’efficacia diretta, bensì che si può cumulare ad essa. La tutela
risarcitoria concerne infatti il contenuto patrimoniale della pretesa del privato, e si può aggiungere
alla tutela che l’efficacia diretta offre in ordine alla pretesa sostanziale, nel caso Francovich la
differenza tra le due pretese non era evidente. Ma si possono verificare casi in cui la differenza è
rilevante, come ad esempio è risultato chiaro nella cause Brasserie du pecheur. In quest’ultima, la
società attrice chiedeva di poter riprendere le esportazioni verso la Germania della birra di sua
produzione, che erano state sospese per la non conformità della birra stessa ad una normativa
tedesca, di cui era già stata accertata dalla Corte di giustizia l’incompatibilità con il divieto di
misure restrittive alle importazioni sancito dall’art. 34 TFUE. Quel che qui interessa è che accanto
a questa pretesa basata sulla disapplicazione della normativa nazionale incompatibile con tale
norme del TFUE dotata di efficacia diretta, l’impresa chiedeva che la Corte riconoscesse il suo
diritto ad essere risarcita per i mancati guadagni negli anni in cui le esportazioni della birra le
erano state impedite. Le azioni per ottenere la condanna dello Stato membro autore della violazione
devono essere proposte innanzi al giudice nazionale competente, che può ovviamente accordare
direttamente il risarcimento, salvo che sia necessario chiedere alla Corte di giustizia la soluzione in
via pregiudiziale di dubbi di interpretazione o di validità inerenti al diritto dell’UE.
Nell’ordinamento italiano si riscontrano numerose sentenza emanate da vari Tribunali italiani, che
hanno accolto le pretese risarcitorie presentate contro lo Stato italiano per violazioni di diritto
dell’UE. L’ordinamento statale regola la maggior parte dei profili procedurali e sostanziali della
tutela risarcitoria. Alla giurisprudenza dell’UE si deve invece fare riferimento per l’individuazione
delle condizioni in presenza delle quali piò sussistere la responsabilità civile dello Stato membro.
nella giurisprudenza dell’UE si rinvengono infatti non solo l’origine e la ratio del principio della
responsabilità dello Stato, ma anche l’indicazione delle tre considerazioni necessarie per il
sorgere della responsabilità nei singoli casi. Queste condizioni sono state affinate dalla Corte di
giustizia in due passaggi, fino a giungere a definire in modo stabile i tre criteri ancora oggi
applicati. Nella sentenza Francovich, la Corte aveva considerato sufficienti le seguenti circostanze
“che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione dei diritti a favore dei singoli”. La
seconda di tali condizioni, è stata sostanzialmente superata nel 1996 con la sentenza Brasserie du
pecheur. La Corte ha in seguito corretto le condizioni indicate nella sentenza Francovich, ma tale
sentenza resta comunque un caposaldo della giurisprudenza dell’UE, con riguardo al quale sono
state fissate delle condizioni comuni. La Corte espresse in modo più accurato la propria posizione
decidendo il caso Brasserie du pecheur, nel quale era chiamata a pronunciarsi su una violazione
imputabile al legislatore. Sulla base di tale pronuncia, è oggi consolidata l’individuazione di tre
condizioni necessarie per il sorgere del diritto del singolo al risarcimento: “che la norme giuridica
violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di violazione sufficientemente
caratterizzata e, infine, che esita un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente
allo Stato e il danno subito ai soggetti lesi”. Tra le condizioni individuate in quest’ultima sentenza
appare precisato in modo nettamente diverso il secondo requisito, relativo alla natura
“sufficientemente caratterizzata” della violazione del diritto dell’UE. La precisazione appare

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ispirata all’esigenza di tenere adeguatamente conto della complessità delle situazioni affrontate
dall’autorità statale, delle difficoltà interpretative o applicative delle norme di diritto dell’UE nei
singoli casi, e del margine di discrezionalità che aveva concretamente a disposizione l’organo cui
è imputato l’atto di violazione del diritto dell’UE. È quindi possibile che lo Stato membro,
convenuto in un’azione di risarcimento per la violazione delle norme dell’UE innanzi al giudice
nazionale, avanzi delle eccezioni rispetto alla pretesa del singolo. Al riguardo dovrebbero entrare in
considerazione i fattori che la Corte di giustizia considera rilevanti per valutare la gravità della
violazione del diritto dell’UE, quali la complessità delle situazioni che l’autorità statale ha
affrontato e le difficoltà interpretative o applicative nel caso concreto, e quindi la scusabilità o
l’inescusabilità di un eventuale errore di diritto. Nella sentenza Brasserie du pecheur, la Corte
considerò che la violazione attribuibile alla Germania non fosse scusabile. In latri casi, invece, la
Corte ha considerato scusabile l’errore a causa del carattere “impreciso” e non univoco di una
norme di diritto dell’UE. Venendo brevemente alle altre due condizioni poste al sorgere della
responsabilità statale, in primo luogo la Corte considera che un’azione risarcitoria contro uno Stato
membro possa essere fondata se chi agisce vanta la lesione di un diritto che la norma dell’UE
violata era preordinata a conferire ai singoli. Mentre le prime due condizioni della
responsabilità degli Stati membri pongono questioni di natura prettamente giuridica, la terza
condizione, ossia il requisito del nesso di causalità diretto tra violazione del diritto dell’UE e
danno lamentato, attiene in misura molto maggiore a questioni di fatto, con possibili difficoltà di
provare che il danno allegato deriva in modo diretto dalla violazione de diritto dell’UE. Richiedere
che il nesso causale sia “sufficientemente diretto” restringe il novero delle persone che possono
vantare un danno risarcibile. Nella determinazione del danno da risarcire il giudice interno deve
basarsi sulle norme nazionali relative alla responsabilità. Infine, occorre precisare che qualunque
organo statale può determinare, con la sua condotta, il sorgere della responsabilità dello Stato
membro, inteso nel suo complesso. Come ha chiarito in varie occasioni la Corte di giustizia, la
violazione del diritto dell’UE rilevante per far sorgere un obbligo di risarcimento può discendere
dalla condotta di un organo che eserciti poteri di natura legislativa, o di natura esecutiva, o di
natura giudiziaria. L’obbligo di risarcimento per violazione del diritto UE è stato configurato dalla
Corte con lo specifico obiettivo di consentire al singolo di ottenere tutela non nei confronti
dell’organo statale, bensì nei confronti dello Stato autore di una violazione del diritto dell’UE.

CAPITOLO VII: LE COMPETENZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE


EUROPEA

43. La funzione giurisdizionale nell’ordinamento dell’UE.

L’ordinamento dell’ UE contiene un sistema di rimedi giurisdizionali volti a garantire la legittimità


delle condotte delle istituzioni e la tutela effettiva di diritti, prerogative e interessi che il diritto
dell’UE riconosce gli Stati membri, ai privati e alle stesse istituzioni dell’UE. A questo proposito,
accanto alle varie competenze attribuite alla Corte di giustizia dell’UE, un ruolo di fondamentale
importanza è svolto dai giudici nazionali. Infatti, i giudici nazionali sono chiamati a garantire
l’effettiva applicazione del diritto dell’UE e ad assicurare ai singoli la tutela giudiziaria. Questo è
stato più volte ribadito dalla Stessa Corte di giustizia, la quale, ha affermato che spetta agli Stati
membri, attraverso i giudici nazionali, prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali teso a
garantire ai singoli il rispetto del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, nel quadro del loro
obbligo di leale cooperazione. L’art. 274 TFUE sottolinea tale carattere speciale delle competenze

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della Corte, chiarendo che, fatte salve queste ultime, l’UE resta sottoposta alla giurisdizione dei
giudici nazionali, che possono giudicare anche di controversie in cui l’UE stessa è parte. Per
converso, i Trattati attribuiscono alla Corte competenze rispetto alle quali è esclusa la comoetenza
dei giudici nazionali. A questo riguardo gli Stati membri si impegnano a rispettare questa
esclusività. Le competenze di tipo contenzioso attribuite dai Trattati alla Corte di giustizia sono
quelle relative ai ricorsi per infrazione (relativi agli inadempimenti degli Stati), ai ricorsi di
annullamento degli atti delle istituzioni dell’UE per vizi di legittimità e ai ricorsi in carenza.
Altre competenze di tipo contenzioso della Corte riguardano le controversie in materia di
responsabilità contrattuale ed extracontrattuale dell’UE e altre competenze in ipotesi di minore
rilevanza. Esistono, nell’ambito dell’UE, due livelli di funzione giurisdizionale: quella esercitata in
via generale dai giudici nazionali e quella esercitata in specifiche materie della Corte di giustizia.
Tali livelli, però, non sono del tutto distinti e separati. Infatti, mentre ai giudici nazionali compete in
via generale l’applicazione del diritto dell’UE, tuttavia tali giudici possono necessitare per
l’interpretazione di quest’ultimo della collaborazione della Corte di giustizia. La collaborazione coi
giudici nazionali da parte della Corte di giustizia è fornita attraverso la sua competenza
pregiudiziale, esercitata dinanzi ai giudici nazionali. Si tratta di un’importantissima competenza
della Corte, che è di tipo non contenzioso e che spesso verte sulla valutazione della compatibilità
di determinate normative degli Stati membri con il diritto dell’UE. Attraverso il rinvio pregiudiziale
i giudici nazionali possono concorrere anche all’accertamento del rispetto del diritto dell’UE da
parte delle istituzioni dell’UE.
Inoltre, al di fuori della funzione giurisdizionale, la Corte svolge una funzione consultiva.
Ricordiamo, che la Corte non ha competenze in materia di politica estera e di sicurezza comune,
salvo che per le questioni relative alle istituzioni nello specifico quadro della PESC on quello delle
disposizioni generali dei Trattati. Nell’esercizio di funzioni così varie la Corte ha avuto modo di
pronunciarsi con sentenza che hanno fortemente plasmato i caratteri dell’ordinamento giuridico
dell’Unione europea, specie sancendo i caratteri dell’efficacia diretta e del primato, la rilevanza dei
diritti fondamentali, la tutela risarcitoria. In concreto, il numero più elevato di sentenze è stato ed è
tuttora emanato dalla Corte in via pregiudiziale, dato l’elevato numero di quesiti che pervengono
continuativamente ai giudici dell’UE da parte dei giudici interni degli Stati membri.

44. Il controllo sugli inadempimenti degli Stati membri attraverso il ricorso per infrazione.

La Corte di giustizia esercita innanzitutto un controllo sul rispetto da parte degli Stati membri degli
obblighi derivanti dai Trattati o dagli atti dell’UE, con una competenza esclusiva. L’inadempimento
rispetto a tali obblighi può dare luogo ad una procedura d’infrazione contro lo Stato membro
inadempiente, su ricorso della Commissione o di un altro Stato membro. Questa forma di sindacato
giurisdizionale è un altro elemento che sottolinea quanto avanzata sia l’integrazione realizzata
nell’UE rispetto ad altre forme di organizzazione internazionale.
Nell’ambito dell’UE, la condizione di Stato membro comporta obbligatoriamente la sottoposizione
alla giurisdizione della Corte di giustizia. In questa prospettiva, in particolare, gli Stati membri sono
tenuti a sottoporre alla Corte le loro controversie sull’interpretazione ed applicazione dei Trattati.
Quindi non è ammessa per gli Stati membri la possibilità “di farsi giustizia da sé” attraverso l’uso di
contromisure previste dal diritto internazionale. Gli arti. 258, 259, 260 TFUE contemplano la
procedura generale di controllo sugli inadempimenti degli Stati attraverso il giudizio sui ricorsi per
infrazione. Lo Stato è da considerarsi inadempiente qualora abbia violato qualsiasi norma del diritto
primario o secondario dell’UE. È attribuibile ad uno Stato membro la violazione commessa da parte
di uno qualsiasi dei suoi organi, nonché di enti locali o enti territoriali autonomi. Motivazioni di

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carattere interno non possono essere adottate dagli Stati come scusanti dei loro inadempimenti e
nemmeno la circostanza che la violazione non abbia prodotto alcun danno o sia stata in colpevole e
non intenzionale.
Il controllo sugli Stati membri è affidato in prima battuta alla Commissione, la quale lo esercita nel
quadro del potere di vigilare sull’applicazione del diritto dell’UE sotto il controllo della Corte di
giustizia. Si ricordi, anche, che la Commissione gode, per l’esecuzione dei suoi compiti, di un
potere generale di “raccogliere tutte le informazioni e procedere a tutte le necessarie verifiche” e
che destinatari di tali richieste sono dal canto loro tenuti ad offrire alla Commissione piena
collaborazione al riguardo, nel quadro del loro obbligo di leale cooperazione. L’art. 258 TFUE
prevede che qualora la Commissione, nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza, “reputi che uno
Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti” in forza dei Trattati, essa,
anzitutto, deve porre lo Stato stesso “in condizioni di presentare le sue osservazioni” attraverso una
lettera di messa in mora o intimazione. Nella prassi questa fase è preceduta da contatti con
rappresentanti del Governo interessato. Con la lettera di messa in mora, invece, si apre una fase
precontenziosa, che persegue una finalità di conciliazione tra la Commissione e lo Stato in
questione: la Commissione accerta e valuta le ragioni addotte eventualmente dallo Stato a sostegno
del proprio comportamento. In caso di insuccesso di questa prima fase della procedura, la
Commissione può indirizzare allo Stato un parere motivato, nel quale essa fa formalmente
presente di considerarlo come inadempiente e gli espone i motivi di tale suo giudizio. Il parere
motivato indica anche il termine entro il quale lo Stato in questione è invitato a conformarsi al
parere stesso, eliminando, così la situazione di contrasto con il diritto dell’UE. La lunghezza di tale
termine è a discrezione della Commissione; in genere è fissato a due mesi. Solo se lo Stato persiste
nella sua infrazione oltre la decorrenza del termine suddetto, la Commissione può adire la Corte di
giustizia, perché questa accerti l’esistenza dell’infrazione; qualora la Commissione decidesse di non
adire la Corte, non sarebbe proponibile contro di essa un ricorso in carenza.
In ogni caso, grava sulla Commissione l’onere di dimostrare adeguatamente l’inadempimento dello
Stato.
Alla Corte di giustizia, in base all’art. 259 TFUE, si può anche rivolgere ciascuno degli Stati
membri, qualora reputi che un altro Stato membro abbia mancato ad uno degli obblighi a lui
incombenti in forza dei Trattati. L’iter del ricorso degli Stati membri passa, però, anch’esso
attraverso la Commissione, nel senso che lo Stato si deve rivolgere a quest’ultima prima di adire
la Corte di Giustizia. L’opera che la Commissione svolge in questo caso è un’opera di mediazione
tra lo Stato che intende presentare il ricorso e quello del cui inadempimento si tratta. La
Commissione ha un termine di 3 mesi per emettere, in caso di insuccesso della procedura di
mediazione, un parere motivato dello stesso tipo di quello previsto dall’art. 258 TFUE.
La Core, adita dalla Commissione o da uno Stato membro può innanzitutto, sulla base dell’art. 279
TFUE, emettere dei provvedimenti provvisori, ad esempio, ordinando allo Stato del cui
inadempimento si tratta di sospendere in via cautelare l’applicazione di una legge o di un
provvedimento amministrativo nazionale. Qualora, al termine del procedimento, la Corte consideri
fondato il ricorso, emette una sentenza con la quale riconosce l’esistenza dell’infrazione. È
importante notare che si tratta di una sentenza dichiarativa e non di condanna, in quanto la Corte
si limita ad accertare l’inadempimento. Lo Stato inadempiente è tenuto, sulla base dell’art. 260
TFUE, a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta.
L’accertamento dell’infrazione ha rilevanti effetti pure per i giudici interni, che sono tenuti a
disapplicare eventuali norme interne giudicate in contrasto col diritto dell’UE.
In concreto, le misure nazionali da adottare per ottemperare alla sentenza della Corte consistono per

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lo più nella modifica o nella revoca di disposizioni legislative o di provvedimenti amministrativi, o
nell’adozione di appositi atti normativi o amministrativi. In difetto, si concretizzerebbe una seconda
infrazione, autonoma rispetto alla prima, costituita dal mancato rispetto della sentenza della
Corte. In tal caso, sia la Commissione che ciascuno Stato membro possono nuovamente adire la
Corte. Quando tale secondo ricorso è proposto dalla Commissione, questa, non deve emettere
preventivamente il parere motivato. Caratteristica di questi secondo ricorso, inoltre, è che la
Commissione può precisare l’importo di uno somma forfettaria o di una penalità al cui
pagamento può essere condannato lo Stato che non si è conformato alla precedente sentenza che
aveva accertato l’infrazione. La Corte, quando riconosca tale inadempimento, con una sentenza
cosiddetta di “doppia condanna”, può comminare allo Stato inadempiente la sanzione pecuniaria
in questione. La Corte ha talora condannato lo Stato inadempiente al pagamento di una somma
forfettaria sia, cumulativamente, di una penalità di mora, ossia di una somma destinata ad
incrementarsi finché l’adempimento si protrae.
La Commissione ha messo a punto i criteri ai quali intende attenersi in merito alla determinazione
delle sanzioni pecuniarie da proporre alla Corte, che sono relativi in definitiva alla durata e gravità
dell’infrazione, tenendo conto delle capacità finanziaria dello Stato in questione.
La forma di inadempimento più comune da parte degli Stati membri, consiste, come si è già
osservato, nella mancata attuazione di direttive dell’UE entro il termine del recepimento. Ai sensi
dell’art. 260 TFUE, qualora la Corte accerti che uno Stato membro non ha adempiuto all’ obbligo
di comunicare le misure di recepimento di una direttiva, la Corte può stabilire già a fronte del
primo ricorso la somma forfettaria o la penalità commisurata all’entità del ritardo
nell’adempimento. La premessa per tale sanzione è, però, che la Commissione stessa abbia indicato
nel suo ricorso alla Corte, la somma e la penalità. Si badi che non vi è alcun obbligo per la
Commissione di prevedere una sanzione pecuniaria né per la Corte di irrogarla.
I singoli non hanno, nell’ordinamento dell’UE, la possibilità di ricorrere direttamente alla Corte di
giustizia contro le infrazioni statali. In concreto, sono frequentemente proprio i privati a denunciare
alla Commissione l’inadempimento di uno Stato; sarebbe anzi molto difficile per la Commissione
venire a conoscenza solo con le proprie risorse delle violazioni che si possono verificare in tutte le
materie e in tutto il territorio. In via indiretta. Un qualche rimedio è offerto anche ai singoli
attraverso la cooperazione tra giudici nazionali e corte di giustizia.
Nel tracciare un consuntivo dell’attività di controllo svolta dalla Corte di giustizia in merito alle
infrazioni degli Stati membri, occorre innanzitutto rilevare che gli Stati sono spesso intervenuti nei
procedimenti promossi dalla Commissione, mentre sono stati poco numerosi i ricorsi degli Stati
membri nei confronti di altri Stati membri. In genere, gli Stati preferiscono risolvere i propri
contrasti in via diplomatica o sollecitare la Commissione ad agire. Molti sono stati, invece, i ricorsi
della Commissione, ma ancora più numerosi sono stati i casi in cui la Commissione ha ottenuto
spontaneamente l’adempimento dello Stato in questione senza dover ricorrere alla Corte. Quando la
Commissione ha adito la Corte, si è trattato spesso di situazioni in cui vi era una oggettiva
divergenza di interpretazione della norma dell’UE, piuttosto che una deliberata volontà di non
adempiere. L’Italia è stata, in passato, frequentemente oggetto di sentenze di accertamento di
infrazioni, ma, ciò è avvenuto sostanzialmente per una certa vischiosità dei procedimenti nazionali
di attuazione delle norme dell’UE. Tali procedimenti sono stati messi a punto con maggiore
precisione, così che la situazione relativa al grado di adempimento da parte dell’Italia può dirsi
migliorata. Volendo infine menzionare brevemente i limiti di applicazione della procedura generale
per inadempimento sopra esaminata, occorre innanzitutto ricordare che anche nel settore della
cooperazione di polizia e della cooperazione giudiziaria in materia penale è prevista la possibilità di

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un ricorso per infrazione, tuttavia, l’applicazione del ricorso per infrazione in tali settori risulta
limitata dall’art. 276 TFUE, che esclude specificamente il sindacati della Corte sulla validità di
operazioni condotte dalla polizia degli Stati membri e, in generale, sull’esercizio delle
responsabilità relative al mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza interna. L’esecuzione
degli obblighi degli Stati membri derivanti dallo statuto della BEI e quelli derivanti per le banche
centrali nazionali dalle norme dei Trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE è, poi, soggetta al
controllo della Corte di giustizia, su iniziativa degli organi, rispettivamente, della BEI e della BCE,
invece che dalla Commissione. Da ultimo, in ordine all’ipotesi in cui le infrazioni di uno Stato
membro riguardino i valori fondanti dell’UE previsti dall’art. 2 TUE, è prevista la possibilità di
forme di sanzione politica, che possono essere adottate sul piano istituzionale da parte delle
istituzioni politiche dell’UE.

45. Il controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni dell’UE e il ricorso in carenza.

La funzione di controllo giudiziario nell’ambito dell’UE si esercita anche nei confronti degli atti
delle sue istituzioni, i quali possono essere sottoposti ad un giudizio di legittimità da parte della
Corte di giustizia dell’Union europea, alle condizioni previste dagli art. 263 e 264 TFUE. Questa
funzione della Corte è una manifestazione concreta ed evidente del rispetto della rule of law
nell’ordinamento dell’UE, ossia del fatto che le attività degli organi dotati dei poteri normativi ed
esecutivi devono svolgersi nel pieno rispetto del diritto dell’UE. Inoltre, questo potere di controllo
in capo all’apparato giudiziario è un’altra particolarità dell’ordinamento dell’UE sulla scena
internazionale (nell’ONU, per esempio, non è previsto un meccanismo per il controllo di legittimità
degli atti dell’organizzazione).
La competenza ad annullare gli atti dell’UE è riservata alla Corte ed è preclusa ai giudici nazionali,
i quali non hanno potere di accertare la legittimità di un atto dell’UE che sono chiamati ad
applicare, poiché eventuali divergenze nelle decisioni dei vari giudici comprometterebbero l’unità
dell’ordinamento giuridico dell’UE e la certezza del diritto. Nel caso di un dubbio sulla legittimità
di un atto dell’UE, il giudice nazionale è tenuto a sottoporre alla Corte di giustizia un quesito
pregiudiziale di validità. Esamineremo, nell’ordine:
a) l’oggetto del ricorso alla Corte,
b) i motivi per cui può essere sottoposto,
c)i soggetti legittimati a proporlo,
d) i termini per la sua proposizione
e)le sue conseguenze, prima di passare
f) all’esame del ricorso in carenza e
g) gli effetti delle sentenze che fanno seguito ai due ricorsi.

a) Quanto all’oggetto del controllo di legittimità della Corte, ai sensi dell’art. 263 TFUE esso si
esercita “sugli atti legislativi, sugli atti del Consiglio, della Commissione e della Banca centrale
europea che non siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del Parlamento europeo e del
Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi”. La norma specifica
che sono soggetti al controllo di legittimità anche tutti gli atti degli altri organi o organismi dell’UE.
Circa la nozione di atto impugnabile, la Corte ha chiarito che la definizione non deve portare a
comprendere solo i regolamenti, le direttive e le decisioni, ma va intesa nel senso più ampio, in
modo da includere “tutte le disposizioni adottate dalle istituzioni (…) miranti a produrre effetti
giuridici”. Quindi, in casi specifici in cui ricorreva la suddetta condizione, sono stati considerati
impugnabili ad esempio: una comunicazione della Commissione in materia di aiuti degli Stati alle

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imprese; una dichiarazione del portavoce della Commissione; una semplice lettera contenente un
provvedimento dell’Alto autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Di recente, il
Tribunale dell’UE ha dichiarato l’ammissibilità dell’impugnazione di una comunicazione con cui la
Commissione ha reso noto che non avrebbe dato seguito ad una iniziativa dei cittadini europei
(sentenza del 23 aprile 2018). Impugnabile è stato ritenuto anche il quadro di riferimento della BCE
per le politiche di sorveglianza dell’Eurosistema. Sono, inoltre, impugnabili gli atti di conclusione
o di applicazione di accordi internazionali stipulati dall’UE. Ovviamente la sentenza della Corte
non potrà essere opponibile allo Stato terzo parte dell’accordo internazionale, con il quale l’UE
dovrà cercare una soluzione amichevole attraverso l’apertura di un apposito negoziato. Gli atti
diversi da quelli legislativi e di quelli adottati da Consiglio, Commissione e BCE, ed in particolare
del Parlamento europeo e Consiglio europeo sono soggetti al ricorso della Corte solo se siano
produttivi di effetti giuridici nei confronti di terzi. Prima ancora chetale possibilità fosse
specificamente prevista dai Trattati a partire dal Trattato di Maastricht può risultare utili fare
riferimento a due sentenze. Nella prima, la Corte ammise il ricorso contro una decisione
dell’Ufficio di Presidenza del Parlamento europeo che il partito ecologista dei Verdi considerava
dannosa nei suoi confronti, la quale fissava i criteri di rimborso delle spese per la campagna
elettorale. Con la seconda sentenza la Corte, su richiesta del Consiglio, annullò l’atto del Presidente
del Parlamento che dichiarava definitivamente adottato il bilancio 1985, sul quale, invece, il
Consiglio non era d’accordo. In entrambi i casi, la Corte ritenne che l’atto del Parlamento fosse
idonea a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi e quindi impugnabile. Il ricorso alla Corte ex
art. 263 TFUE è anche proponibile sulla base dell’art. 8 Protocollo 2 sull’applicazione dei principi
si sussidiarietà e di proporzionalità, allegato ai Trattati. Restano, invece, esclusi dalla possibilità di
impugnazione, raccomandazioni e pareri, che sono esenti dal controllo giurisdizionale di
legittimità in quanto non producono effetti giuridici vincolanti. Per le stesse ragioni non sono
impugnabili gli atti che, come le proposte della Commissione, hanno natura essenzialmente
preparatoria, né lo sono gli atti produttivi di effetti solo internamente all’istituzione (ad esempio i
regolamenti interni). Non è comunque escluso che un atto, pur rientrando formalmente tra quelli
che hanno effetti vincolanti, in realtà sia volto nella sostanza a produrre effetti giuridici in
considerazione del suo contenuto o del contesto. Sono parimenti escluse dalla possibilità di
impugnativa, gli atti emessi nel quadro della politica estera e di sicurezza comune. Il Trattato di
Lisbona ha però introdotto in quest’ultimo articolo la previsione espressa dalla legittimazione dei
privati ad impugnare le decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche o
giuridiche, in quanto si tratta di provvedimenti che possono limitare diritti e libertà individuali.
Circa il controllo della Corte sugli atti della BEI, l’art.271 TFUE prevede norme specifiche. Le
deliberazioni del consiglio dei governatori e del consiglio di amministrazione della BEI sono
sottoposti a tale controllo, ma con alcuni limiti riguardi ai ricorrenti.
b) I motivi per cui gli atti suddetti possono essere impugnati dinanzi alla corte sono innanzitutto i
tre classici vizi di legittimità caratteristici dei ricorsi amministrativi di diritto interno:
a)l’incompetenza, che si ha quando un atto è emanato da un organo che non è competente a farlo,
sia dal punto di vista delle sue competenze territoriali, che di quelle per materia, che, infine, sotto il
profilo temporale o funzionale; b) la violazione delle forma sostanziali, che si ha quanto un atto è
emanato senza il rispetto di quelle garanzie procedurali o forme previste come indispensabili per la
validità dell’atto stesso, ad esempio: motivazione dell’atto, firma, pubblicazione, notifica.. c) lo
sviamento di potere, il quale si ha quando un organo esercita i propri poteri per fini diversi da
quelli per i quali tali poteri gli sono stati conferiti.
A questi tre vizi di legittimità l’art. 263 ne aggiunge un quarto di carattere generale e sussidiario,

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ossia la violazione dei Trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione.
Sono stati considerati dalla Corte come illegittimi atti contrari non solo ai Trattati o ad atti delle
istituzioni, ma anche ai principi generali e alle norme relativi alla protezione dei diritti fondamentali
dell’uomo. È, parimenti, illegittimo un atto dell’UE che sia contrario agli accordi internazionali
stipulati dall’UE o alle norme di diritto internazionale generale. il controllo della Corte è, quindi, un
controllo di legittimità e non di merito, nel senso che esso non riguarda l’opportunità dell’atto
alla luce delle situazioni di fatto sottostanti, ma solo l’assenza dei vizi descritti. Tuttavia, in alcuni
casi, la Corte dispone di una competenza giurisdizionale anche di merito, quando questa le viene
conferita da un regolamento. Ciò è avvenuto, ad esempio, in materia di soppressione delle
discriminazioni in tema di prezzi e di condizioni di trasporto, di regole di concorrenza. Nel caso in
cui l’atto impugnato comporti valutazioni tecnico-economiche di particolare complessità, la
Corte tende a limitare il proprio sindacato solo alla verifica che l’atto non sia viziato da inesattezza
nella ricostruzione dei fatti, da errore manifesto o da sviamenti di potere, o da errori procedurali.
c) I soggetti legittimati a proporre il ricorso di cui all’art. 263 TFUE sono, anzitutto, gli Stati
membri, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione, i quali sono detti ricorrenti
privilegiati, in quanto il loro ricorso non è soggetto ad alcun limite. L’unico limite è, ovviamente,
quello della inammissibilità di ricorso contro atti propri. Anche la Corte dei conti, la BCE e il
Comitato delle regioni (cosiddetti ricorrenti semi-privilegiati) possono proporre i ricorsi in
questione, ma solo per “salvaguardare le proprie prerogative”, cioè, ad esempio, nei casi in cui uno
di tali organi non sia stato consultato su un atto, quando tale consultazione è obbligatoria ai sensi
dei Trattati. Il ricorso di legittimità è anche accordati a qualsiasi persona fisica o giuridica. In
questa categoria rientrano, in qualità di persone giuridiche, anche gli enti di diritto pubblico interno
deli Stati membri. la possibilità conferita ai singoli di ricorrere alla Corte è stato uno dei primi casi
sulla scena internazionale, di forma di democraticità “ascendente” attraverso la quale i singoli
hanno potuto sin dalla nascita dell’orientamento comunitario far valere in sede giudiziaria la
subordinazione delle istituzioni al diritto proprio di tale ordinamento. La legittimazione a ricorrere
dei privati incontra però dei limiti, e difatti essi sono definiti “ricorrenti non privilegiati”, in
quanto l’impugnazione può essere proposta da una persona rientrante in questa categoria solo
“contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente ed individualmente…”.
L’atto è quindi impugnabile da un ricorrente individuale da un lato se ha prodotto “direttamente”
effetti nella sua sfera giuridica; d’altro lato, la condizione che l’atto impugnato riguardi il ricorrente
“individualmente” si verifica invece quando “il provvedimento lo tocchi a causa di determinate
qualità personali, ovvero di particolari circostanze atte a distinguerlo dalla generalità…”. Si
tratterà, in genere, di decisioni con portata individuale. Si potrà anche trattare, però, di atti
qualificati diversamente, purché ricorrano i suddetti requisiti. Con questo approccio la Corte può
giungere allo “smascheramento” di un atto dell’UE, anche apparentemente di portata generale o
rivolto ad uno o più Stati membri. Ad esempio, la Corte ha riconosciuto che avessero in sostanza
dei destinatari individuali delle decisioni della Commissione dirette ad uno Stato membro per
autorizzarlo a rifiutare certe licenza di importazione. In questi casi la Corte ha individuato i singoli
importatori come i soggetti riguardati direttamente e individualmente dagli atti aventi formalmente
gli Stati come destinatari, e li ha, quindi, legittimati a impugnare tali atti. In materia di regole di
concorrenza, è stato ammesso il ricorso di un terzo concorrente contro una decisione della
Commissione diretta a un diverso operatore dello stesso settore e volta ad autorizzare un’operazione
di concentrazione. In questi casi la Corte ha ritenuto che il terzo, seppure non destinatario delle
decisioni della Commissione, ne fosse riguardato direttamente ed individualmente. Anche
regolamenti della Commissione, rivolti, però, a un numero definito di soggetti, sono stati

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interpretati dalla Corte alla stessa maniera. Infine, è stato persino ammesso il ricorso di privati
contro direttive, nella misura in cui esse contenevano provvedimenti che riguardavano direttamente
e individualmente i ricorrenti. L’art. 263 TFUE, dopo le modifiche del Trattato di Lisbona, ora
prevede la possibilità per la persona fisica o giuridica di ricorrere anche “contro gli atti
regolamentari che la riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura d’esecuzione”.
Per questi atti, quindi, la legittimazione a ricorrere dei privati risulta agevolata, essendo subordinata
solo al requisito che l’atto riguardi “direttamente” e non anche “individualmente” il ricorrente. La
nozione di “atti regolamentari” è tutt’altro che scontata. I giudici hanno evidenziato che la nozione
di “atto regolamentare” ai sensi dell’art. 263 TFUE deve essere interpretata nel senso che include
qualsiasi atto di portata generale ad eccezione degli atti legislativi. La nozione di “atto
regolamentare” è estesa anche alle decisioni, purché di portata generale e non adottate secondo
una procedura legislativa ordinaria o speciale.
d) Tutti i ricordi di cui all’art. 263 TFUE vanno proposti entro il termine dei due mesi dalla
pubblicazione dell’atto, dalla sua notifica al ricorrente, ovvero, in mancanza, dal giorno in cui il
ricorrente ne ha avuto conoscenza. Nei casi, però, di atti a portata generale adottati da
un’istituzione, organo o organismo dell’UE, i ricorrenti, sono rimessi in termini per eccepire il vizio
di legittimità, qualora vi sia, successivamente alla scadenza dei due mesi, una controversia che
metta in causa l’atto stesso (c.d. eccezione di validità). Questa norma ha una particolare
importanza per i singoli, perché dà loro la possibilità di eccepire la illegittimità di un atto dell’UE,
nel corso di un qualsiasi procedimento dinanzi alla Corte.
e) Quanto alle conseguenze del ricorso alla Corte, esso non ha effetto sospensivo dell’atto di
impugnato; è facoltà della Corte, tuttavia ordinare la sospensione dell’esecuzione di tale atto,
nonché disporre provvedimenti provvisori. Se la Corte ritiene fondati i motivi del ricorso, essa
dichiara l’atto nullo e non avvenuto fin dall’emanazione. La sua decisione, quindi, ha effetti erga
omnes per gli atti a portata generale e non soltanto inter partes. Va ricordato, peraltro, che la
sentenza di annullamento della Corte non sempre comporta la caducazione dell’atto impugnato
nella sua interezza, ma può avere anche ad oggetto alcune specifiche disposizioni giudicate
illegittime e quindi comportarne l’annullamento parziale. Ciò si può verificare nel caso in cui i
vizi riscontrati riguardino parti dell’atto che siano “separabili” dal resto dell’atto medesimo.
f) Collegato con il ricorso di legittimità è il ricorso in carenza previsto dall’art. 263 TFUE. Esso è
espressione del potere della Corte di controllare il comportamento delle istituzioni, organi ed
organismi dell’UE, sanzionandone la inattività, quando i Trattati prevedono un obbligo a loro
carico di emanare determinati provvedimenti. Tale ricorso può essere presentato contro il
Parlamento, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione, la BCE e gli altri organi o
organismi dell’UE qualora essi, in violazione dei Trattati, “si astengano dal pronunciarsi”. Può
trattarsi anche di una raccomandazione o di un parere, se la loro emanazione è prevista
obbligatoriamente dai Trattati. La legittimazione attiva per la presentazione del ricorso alla Corte
spetta gli Stati membri, alle altre istituzioni dell’UE ed ai singoli. I ricorsi delle persone fisiche o
giuridiche, però, sono ammessi soltanto per la mancata emanazione nei loro confronti di un atto che
non sia una raccomandazione o un parere. In definitiva, i singoli potranno ricorrere per la mancata
emanazione di qualsiasi atto vincolanti destinato a produrre effetti giuridici nei loro confronti.
È chiaro che il ricorso è ammesso solo per la mancata emanazione di un atto dovuto.
Il ricorso deve essere preceduto da una messa in mora, cioè da una formale richiesta di agire,
rivolta all’istituzione, organo o organismo la cui inattività viene lamentata. Il ricorso in carenza piò
essere presentato alla Corte solo trascorsi due mesi da tale richiesta senza che l’istituzione,
organo o organismo interpellato abbia adottato l’atto di cui si lamenta la mancata emanazione,

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purché il ricorso sia presentato entro il termine di decadenza di ulteriori due mesi da tale
precedente scadenza. Se invece l’istituzione interpellata provvede ad adottare l’atto di cui si parla,
non è più aperta ovviamente la via del ricorso in carenza. Il ricorso in carenza ha avuto minore
rilevanza nella pratica rispetto al ricorso di legittimità. Ricordiamo l’impossibilità in linea di
principio di presentare ricorsi in carenza alla Corte nell’ambito della politica estera e di sicurezza
comune.
g) Occorre infine precisare gli effetti delle sentenze che accolgano un ricorso di legittimità o un
ricorso in carenza. Sia nel caso di annullamento di un atto, che nel caso di constatazione del
verificarsi di un caso in carenza in violazione dei Trattati, la Corte non può sostituirsi all’istituzione
interessata emanando essa stessa un atto diverso da quello nullo o avete il contenuto di quello la cui
omissione era stata invocata. È, invece, l’istituzione o organo o organismo interessato che, ai
sensi dell’art. 266 TFUE , è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza
comporta, cioè, eventualmente, ad emettere un nuovo atto o a rimediare alla propria inattività. Va
infine evidenziato che la proponibilità del ricorso d’annullamento o in carenza dipende
esclusivamente dal comportamento adottato dall’istituzione.

46. La competenza in via pregiudiziale.

Una delle competenze più importanti della Corte di giustizia, e anzi quella che dà costantemente
luogo al maggior numero di pronunce della Corte stesa, è costituita da una forma estremamente
importante di cooperazione con i giudici degli Stati membri. Questi ultimi possono infatti, e talora
devono, rivolgersi alla corte dell’UE perché risponda a questioni di interpretazioni di diritto
dell’UE. Ai sensi dell’ art. 267 TFUE, i Trattati affidano alla Corte di giustizia innanzitutto la
competenza esclusiva per risolvere le questioni di interpretazione del diritto dell’UE. In tal modo
si è evitato che tale diritto, calandosi nei vai ordinamenti interni, venisse interpretato in maniera
difforme da giudici nazionali provenienti da tradizioni giuridiche diverse. La Corte, attraverso
l’esercizio di tale competenza interpretativa, ha finito con lo svolgere un ruolo di “supplenza
normativa nei casi di inattività o lentezza delle istituzioni dell’UE, influendo in maniera decisiva sul
processo di integrazione europea. Al contempo, essa ha spesso colto l’occasione dell’esercizio di
tale su competenza per affermare alcuni principi cardine dell’ordinamento dell’UE, quali l’efficacia
diretta per i singoli e il loro primato sui diritti interni.
La competenza pregiudiziale spetta esclusivamente alla Corte di giustizia come unico giudice.
Tuttavia come ricordato, anche il Tribunale potrebbe avere in futuro la competenza pregiudiziale di
cui all’ art. 267 TFUE, pur se solo in determinate materie da specificarsi nello statuto della Corte.
Nelle ipotesi in cui sia eventualmente introdotta la competenza del Tribunale, quest’ultimo potrà
reputare che la soluzione di una questione ad esso sottoposta vada invece più opportunamente
rinviata alla Corte. Occorre esaminare separatamente:
a) l’oggetto del rinvio pregiudiziale,
b) la nozione di organo giurisdizionale legittimato ad effettuarlo
c) il procedimento dinanzi alla Corte di giustizia
d) gli effetti della sentenza di quest’ultima.

a) L’oggetto del rinvio può essere, anzitutto, una questione relativa all’ interpretazione dei Trattati,
o all’interpretazione di un atto compiuto dalle istituzioni, organi ed organismi dell’UE. Per “atto”
deve intendersi qualsiasi atto emanato dalle istituzioni, organi ed organismi suddetti,
indipendentemente dalla sua denominazione, dal suo carattere vincolante o meno e anche a
prescindere dall’eventuale efficacia diretta delle norme della cui interpretazione si tratta.

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L’interpretazione da parte della Corte non può essere, però, richiesta in via astratta, ma solo con
riferimento ad un giudizio pendente davanti ad una giurisdizione nazionale. In altri termini, il
presupposto è che vi sia un procedimento giudiziario in corso davanti ad un giudice nazionale e che
tale giudice ritenga utile o necessaria per la sua decisione l’interpretazione da parte della Corte di
giustizia della norma dell’UE.
Due sono, quindi, le valutazioni di competenza del giudice a quo prima di effettuare il rinvio
pregiudiziale alla Corte, che riguardano l’esistenza di dubbi interpretativi e la rilevanza o meno
dell’interpretazione della norma dell’UE per la decisione della causa pendente. Quanto alla prima
valutazione, essa può indurre il giudice nazionale a non sollevare la questione pregiudiziale,
allorché la norma dell’UE sia talmente chiara da non lasciare adito ad alcun dubbio interpretativo.
È questa la teoria dell’ acte clair. Quanto alla seconda valutazione, la Corte ha precisato di non
poter statuire su una questione pregiudiziale qualora appaia in modo manifesto l’assenza di
un’adeguata rilevanza della questione stessa nella causa pendente dinanzi al giudice nazionale.
Benché il rinvio di interpretazione debba avere ad oggetto questioni relative a norme di diritto
dell’UE, in concreto i giudici nazionali lo impiegano molto di frequente per sottoporre alla Corte
quesiti relativi alla conformità o meno al diritto dell’UE di una norma statale. La Corte si
astiene formalmente dal fornire un’interpretazione relativa a norma di diritto interni, operazione che
non rientra tra le sue attribuzioni; essa supera questo limite, in sostanza, chiarendo al giudice
nazionale se determinate norme interne debbano essere considerate incompatibili con le norme di
diritto dell’UE di cui fornisce l’interpretazione. Tale evoluzione è conseguenza dell’uso che dell’art.
267 TFUE hanno fatto specialmente i singoli, i quali, nel corso di procedimenti interni, hanno
cominciato a porre dubbi ai giudici interni in ordine al contrasto tra le norme nazionali rilevanti nei
casi di specie e norme dell’UE. Ciò è avvenuto già nel notissimo caso van Gend & Loos.
A volte i privati hanno montato opportunisticamente un giudizio interno, per poter ottenere che il
giudice sollevasse la questione pregiudiziale relativa all’interpretazione di una norma dell’UE e
farne così emergere il conflitto con la norma interna. Il caso Costa Enel è un tipico esempio di
questa evoluzione.
Il caso di un giudizio montato appositamente da privati per far risultare la contrarietà al diritto
dell’UE di norme interne non era destinato a rimanere isolato. Di conseguenza, il rinvio
pregiudiziale per l’interpretazione della norme dell’UE ha finito con il divenire anche uno
strumento di controllo su infrazioni al diritto dell’UE imputabili ai legislatori degli Stati membri.
inoltre, il rinvio pregiudiziale è divenuto un efficace mezzo per riaffermare il primato del diritto
dell’UE sul diritto interno. Qualora infatti sulla scorta della sentenza della Corte la norme interna
fosse considerata non conforma alla norma dell’UE, il giudice interno non avrebbe altra scelta che
disapplicare la prima ed applicare la seconda, sulla base, appunto, di tale primato, nel caso in cui la
norma dell’UE, sia self-executing, cioè sia provvista di tutti gli elementi per potersi applicare al
posto d quella interna contrastante. Qualora, invece, la norma dell’UE non sia provvista di efficacia
diretta, il giudice interno potrebbe porre alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità
sulla norma, con la conseguente necessità per il legislatore di riempire il vuoto legislativo. D’altro
lato, dalla mancata o inesatta attuazione da parte dello Stato di una norma de diritto dell’UE,
accertata dalla Corte di giustizia, potrebbe derivare per lo Stato stesso un obbligo di risarcimento
dei danni ai singoli che agiscano in giudizio. L’oggetto del rinvio può anche essere una questione
relativa alla validità di un atto dell’UE. Per “atto”, sul quale può verter la questione di validità, si
intende un atto adottato da un’istituzione, organo o organismo, anche se sprovvisto di efficacia
diretta. Mentre le questioni pregiudiziali di interpretazione sopra esaminate possono avere ad
oggetto norme contenute sia in atti dell’UE di diritto derivato sia nel diritto primario, viceversa le

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questioni pregiudiziali di validità non possono riguardare i Trattati. Il rinvio pregiudiziale di
validità opera nel caso in cui il giudice interno si ponga il problema dell’eventuale presenza di vizi
di legittimità nell’atto dell’UE che è chiamato ad applicare. Sotto tale profilo, il rinvio pregiudiziale
di validità costituisce un rimedio aggiuntivo a disposizione dei singoli. Tale rinvio, inoltre, può
risultare utili una volta che sia scaduto il termine di due mesi per effettuare un ricorso di legittimità
e in tal senso si può considerare che l’art. 267 TFUE possa offrire ai singoli una forma aggiuntiva si
protezione. La Corte ha tuttavia circoscritto questa possibilità, rifiutando di esaminare in via
pregiudiziale questioni di validità di atti dell’UE che i singoli interessati avrebbero potuto
concretamente impugnare nel termine stabilito. L’importanza del rinvio pregiudiziale di validità
si coglie considerando ad esempio che l’affermazione dell’importanza dei diritti fondamentali della
persona nell’ordinamento dell’UE si è avuto proprio con le soluzioni date dalla Corte a questioni di
validità. È infatti su quesiti relativi al contrasto di atti di diritto secondario dell’UE con principi
gerarchicamente superiori che si è pronunciata la Corte nelle prime sentenze che hanno collocato i
diritti fondamentali tra i principi generali dell’ordinamento comunitario.
b) Legittimate a rivolgersi alla Corte di giustizia sono le giurisdizioni nazionali, intese nel senso
più ampio, comprendente, quindi, qualsiasi grado e tipo di giurisdizione, sia civile che penale,
amministrativa o costituzionale, ordinaria o speciale. La Corte richiede che il procedimento abbia
natura contraddittoria e che in esso l’organo si pronunci applicando norme giuridiche. Caratteristica
fondamentale per la Corte è comunque che il procedimento nazionale pendente sia destinato a
risolversi con una pronuncia a carattere giurisdizionale; questo requisito difetta secondo la Corte
in capo agli organi incaricati di svolgere attività di giurisdizione o di controllo di tipo
amministrativo, quale l’omologazione di un atto costitutivo di società. La Corte costituzionale
italiana ha esitato a lungo prima di rivolgersi alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE, e infine ha
intrapreso questa via sia nell’ambito di giudizi di legittimità costituzionale in via principale, sia nel
quadro di giudizi di costituzionalità in via incidentale. In generale, i giudici nazionali possono
rivolgersi alla Corte di giustizia sia di propria iniziativa, che su richiesta do una delle parti del
procedimento pendente dinanzi ad essi; in quest’ultimo caso spetta comunque al giudice il compito
di valutare l’esistenza del dubbio interpretativo o di validità, e la rilevanza o meno, per la decisione
della causa, della soluzione in questione.
È di fondamentale importanza la distinzione tra giurisdizioni nazionali di ultima istanza, cioè
quelle attraverso le cui decisioni non è ammesso ulteriore ricorso interno, e le altre. Solo le prime,
infatti, sono obbligate a sottoporre alla Corte di giustizia le questioni relative all’interpretazione del
diritto dell’UE. Nel quadro dell’ordinamento italiano, sono giudici di ultima istanza la Corte di
cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale. Quanto alle altre istanze
giurisdizionali, esse hanno la facoltà di effettuare il rinvio per interpretazione, ma non vi sono
obbligate. Alquanto diverso è il discorso per le questioni sulla validità di un atto dell’UE. Ogni
giudice nazionale può respingere gli argomenti dedotti dalle parti della controversia in ordine
all’invalidità di atti dell’UE e, quindi, considerare valido l’atto. Se, però, il giudice nazionale dubita
della validità dell’atto dell’UE, esso non può dichiararlo invalido ma deve effettuare un rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia. Inoltre, il giudice nazionale, ove nutra gravi perplessità, può in
via eccezionale sospendere temporaneamente l’applicazione di tale atto interno. All’atto del rinvio
pregiudiziale il giudice nazionale deve formulare il quesito su cui desidera che la Corte si pronunci.
Altre volte la Corte si è accontentata dal fatto che il giudice nazionale avesse almeno esposto i
motivi per cui la pronuncia pregiudiziale era ritenuta necessaria.
c) Quanto al procedimento dinanzi alla Corte di giustizia, va detto che il provvedimento con cui il
giudice nazionale sospende la procedura interna e si rivolge alla Corte è notificato al cancelliere

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della Corte stessa alle parti in causa, agli Stati membri. alla Commissione, nonché all’istituzione,
all’organo o all’ organismo dell’UE che ha adottato l’atto che forma oggetto della questione. La
notifica agli Stati membri e alle istituzioni dell’UE è disposta per dar loro la possibilità di
depositare, entro il termine di due mesi, memorie o osservazioni scritte. La sottoposizione del
quesito alla Corte non determina l’estinzione, ma solo la sospensione del procedimento davanti
al giudice nazionale. In altre parole, il rinvio pregiudiziale non comporta la devoluzione della
controversia alla Corte, alla quale è richiesto di fornire una soluzione vincolante solo in ordine alla
specifica questione ad essa sottoposta. La sentenza della Corte è preceduta da un procedimento nel
quale, come si è detto, i vari interventi possono presentare memorie e osservazioni e partecipare
all’udienza. Tuttavia, un’espressa previsione è stata inserita con il Trattato di Lisbona nell’art. 267
TFUE, con particolare riguardo al caso in cui la Corte debba decidere su questioni che riguardano
una persona in stato di detenzione. Si tratta di un’ipotesi che può ricorrere oggi più
frequentemente che in passato. In questo specifico caso, la Corte è tenuta a decidere “il più
rapidamente possibile”: si apprezza in particolare in questo contesto lo speciale procedimento
pregiudiziale d’urgenza.
d) Gli effetti delle sentenze della Corte di giustizia, non sono erga omnes, ma operano solo con
riferimento al procedimento pendente dinanzi al giudice a quo, vincolandolo ad attenersi
all’interpretazione, o al giudizio sulla validità dell’atto dell’UE. Ciò significa che la medesima
questione può essere in teoria rappresentata dallo stesso giudice, o da altri giudici, in relazione ad
ulteriori procedimenti. Il tema degli effetti delle sentenze pronunciate in via pregiudiziale richiede
però alcune precisazioni in relazione alle pronunce relative a quesiti di interpretazione. Per quanto
riguarda le sentenze con cui viene accertata la invalidità di un atto dell’UE, anche se sul piano
teorico l’atto resta valido, si determinano sul piano pratico due conseguenze. Anzitutto, altri giudici
di fronte ai quali si riproponga la questione della validità non potranno non tenere conto della
pronuncia della Corte di giustizia: la stessa Corte ha affermato che tutti i giudici nazionali sono
tenuti a disapplicare l’atto dell’UE; la Corte, però, in tale occasione, si è preoccupata di
salvaguardare il diritto di ogni giudice a sollevare nuovamente la questione. In secondo luogo,
l’istituzione da cui promana l’atto è tenuta a prendere i provvedimenti necessari, ovvero a
modificare l’atto stesso, eliminando le cause di illegittimità. Va, infine, ricordato che la sentenza
che accerta l’invalidità di un atto ha effetti ex tunc, salvo alcuni casi in cui gli effetti sono stati
riconosciuti solo ex nunc; in altri termini, la Corte può stabilire che determinati effetti che l’atto ha
prodotto prima della dichiarazione di invalidità debbono considerarsi definitivi, per non rimettere in
discussione situazioni ormai consolidate.
Per quanto riguarda le sentenze interpretative del diritto dell’UE, l’efficacia solo inter partes è
formalmente la regola. Tuttavia, la Corte di giustizia ha affermato che il giudice nazionale dinanzi
al quale venga sollevata una questione interpretativa materialmente identica ad una sulla quale
la Corte abbia fornito un’interpretazione in via pregiudiziale, può non sollevare le questione
pregiudiziale e attenersi a quest’ultimo interpretazione. Sul piano teorico, si potrebbe ritenere che
nessun caso è uguale ad un altro, tuttavia sul piano pratico è innegabile che il giudice nazionale non
possa non tenere conto di una precedente interpretazione di una norma da parte della Corte. In
generale, infattim le sentenze pregiudiziali interpretative chiariscono significato e portata di una
norma di diritto dell’UE sin dal momento della sua entrata in vigore (efficacia ex tunc), vincolando
i giudici nazionali all’applicazione della norma dell’UE, così come interpretata dalla Corte.
In definitiva, dicendo che le sentenze della Corte hanno solo efficacia inter partes, si fa
un’affermazione teoricamente esatta, ma che, in pratica, risulta riduttiva rispetto all’effetto che tali
sentenze in concreto dispiegano e che le ha fatte avvicinare a degli arrets régulateurs, aventi, cioè,

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un valore generale. Per concludere, meritano di essere ricordati i limiti materiali entro i quali può
operare l’istituto del rinvio pregiudiziale. Al riguardo, in via di principio, la competenza
pregiudiziale della Corte non può esercitarsi per quanto riguarda le disposizioni relative alla politica
estera e di sicurezza comune; la Corte di giustizia ha tuttavia sottolineato, da un lato, la propria
riserva di sindacato pregiudiziale sulla validità di decisioni PESC; dall’altro lato, ha riconosciuto il
rinvio pregiudiziale di validità all’interno della competenza gia prevista dall’art. 275 TFUE e
relativa al controllo della legittimità delle misure restrittive assunte nei confronti delle persone
fisiche e giuridiche. Per quanto riguarda lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, gli unici limiti
riguardano il Regno Unito e la Danimarca.

47. Le controversie in materia di responsabilità dell’UE.

La responsabilità extracontrattuale e contrattuale dell’UE è regolata dall’art. 340 TFUE.


Ricordiamo che, ai sensi dell’art. 256 TFUE, è il Tribunale ad essere competente a conoscere in
prima istanza delle controversie relative a tale responsabilità e che le sue decisioni sono
impugnabili dinanzi alla Corte di giustizia. La Corte è competente a giudicare delle controversie
relative alla responsabilità extracontrattuale dell’UE ai sensi dell’art. 268 TFUE. Ai sensi di
quest’ultima norma “in materia di responsabilità extracontrattuale, l’Unione deve risarcire … i
danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni”. Analogo
obbligo è posto a carico della BCE dall’art. 340 TFUE. Si tratta, al riguardo, di competenza non
solo esclusiva, ma anche di piena giurisdizione, nel senso, cioè, che la Corte ha ampia
discrezionalità quanto alla determinazione della responsabilità delle istituzioni dell’UE o dei suoi
agenti, nonché dell’ammontare del danno risarcibile. Nulla dice, invece, circa i criteri per la
imputabilità del danno all’UE. Soccorrono, al riguardo, come fonte di diritto per la Corte, i
“principi generali comuni ai diritti degli Stati membri”, dai quali essa dovrà trarre di volta in
volta la norma applicabile. Essa è chiamata a ricostruire la norma applicabile al caso specifico,
cercando un comune denominatore tra le esperienze giuridiche dei vari Stati membri in materia di
responsabilità extracontrattuale e forse anche al di là di tale campo specifico. Per quanto riguarda
gli atti delle istituzioni da cui può discendere la responsabilità dell’UE, va subito detto che il
termine “istituzioni” è restrittivo, i quanto non solo tale responsabilità sussiste, alle stesse
condizioni, per i danni cagionati dalla BEI e dal Mediatore europeo, ma anche da qualsiasi organo
o organismo la cui attività sia imputabile all’UE. Nell’ambito della politica estera e di sicurezza
comune, invece, come già detto, è esclusa la competenza della Corte anche in relazione alla
responsabilità dell’Unione. L’azione può essere promossa da qualsiasi Stato membro, nonché da
qualsiasi persona fisica o giuridica. La responsabilità dell’UE sorge, in genere, come conseguenza
dell’emanazione di atti dichiarati illegittimi sulla base di un ricorso o dell’accoglimento di un
ricorso in carenza. Dalla dichiarazione di nullità dell’atto o della colpevole omissione della sua
emanazione non discende automaticamente l’obbligo risarcitorio a carico dell’UE. Anzitutto,
l’illegittimità dell’atto o dell’omissione non è requisito indispensabile perché sorga la responsabilità
extracontrattuale dell’UE. In secondo luogo, l’art. 268 TFUE dispone solo del risarcimento dei
danni nei confronti di chi chiede il risarcimento stesso e non dell’annullamento di un determinato
atto con efficacia erga omnes. La Corte ha peraltro respinto la tesi della c.d. responsabilità da
attività lecita con riguardo all’UE, considerando che la responsabilità in capo all’UE sussiste solo in
presenza dell’illegittimità della condotto che ha causato il danno.
Per quanto riguarda la responsabilità dell’UE per gli atti dei suoi agenti, ricordiamo, anzitutto, che
solo gli atto compiuti nell’esercizio delle loro funzioni possono venire in considerazione per
attribuire la responsabilità dell’UE. La Corte ha, inoltre, precisato che l’UE è responsabile per il

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comportamento dei suoi agenti, anche se questi agiscono oltre i limiti del mandato loro affidato. La
Corte, in materia di responsabilità extracontrattuale dell’UE, si è attenuta, tra l’altro, ai seguenti
principi:
a)Anzitutto, la Corte ha adottato il principio secondo cui la responsabilità dei pubblici poteri per i
danni arrecati ai privati da atti normativi “sussiste solo eccezionalmente ed in casi particolari”.
Pertanto, anche se un regolamento dell’UE viene dichiarato nullo, per la Corte è accettabile che il
singolo, entro i limiti ragionevoli, ne sopporti le conseguenze, mentre la responsabilità dell’UE
sussiste “unicamente in caso di violazione grave e manifesta di una norma superiore intesa a
tutelare i singoli”. La Corte ha adottato dei criteri restrittivi, richiedendo, perché si generi la
responsabilità per danni dell’UE, comportamenti particolarmente gravi.
b)Quanto al danno risarcibile, la Corte ha considerato che questo comprende danno emergente,
lucro cessante, danno morale e interessi. Per essere considerato risarcibile il danno deve essere
certo e attuale e può essere ridotto se il danneggiato ha contribuito con il suo comportamento a
determinarlo. Tra il comportamento illegittimo dell’istituzione e il danno subito del singolo deve
inoltre ricorrere un nesso causale.
In ogni caso, la responsabilità dell’UE sussiste solo in relazione al comportamento delle sue
istituzioni o dei suoi agenti e non quando il danno derivi da atti emanati da organi degli Stati
membri, sia pure in adempimento di un atto UE rivelatosi illegittimo. Ciò è stato ribadito dalla
corte non solo con riferimento a situazioni in cui all’emanazione dell’atto interno le autorità
nazionali godevano di un certo margine di discrezionalità, ma anche allorché l’atto interno era stato
emanato in applicazione di un regolamento dell’UE, successivamente dichiarato illegittimo, che
non lasciava alcuna discrezionalità alle autorità nazionali. Possono, beninteso, verificarsi casi in cui
l’obbligo risarcitorio compete sia agli Stati nazionali che all’UE; in tali casi la Corte ha chiarito che
la responsabilità dell’UE ha carattere parziale e sussidiario rispetto a quella degli Stati membri. In
conclusione, va rilevato in via generale che la Corte è stata, specie agli inizi, molto cauta
nell’individuare una responsabilità extracontrattuale dell’UE e ha applicato al riguardo criteri
estremamente rigorosi. Circa la responsabilità contrattuale dell’UE, la Corte non ha alcuna
competenza esclusiva. Anzi, sono i giudici nazionali ad essere competenti in via generale a
giudicare delle controversie relative a contratti di cui l’UE è parte. Pur tuttavia, in determinati casi,
i Trattati attribuiscono competenza alla Corte relativamente alla responsabilità dell’UE. Ciò avviene
quanto il contratto di cui è parte l’UE contenga una clausola compromissoria che sottoponga alla
Corte stessa la risoluzione delle controversie nascenti da tale contratto (specie con riferimento ai
contratti di prestito o di finanziamento dell’UE, o ad esempio la BEI o i vari fondi strutturali,
stipulano con enti pubblici o privati). L’art. 340 TFUE dispone, al riguardo, che la responsabilità
contrattuale dell’UE è regolata dalla legge applicabile al contratto in causa. Non è escluso, però,
che entrino in considerazione per la decisione nel merito anche i principi generali del diritto UE.

48. Cenni sulle altre competenze della Corte di giustizia.

Tra le altre competenze della Corte di giustizia dell’UE, si può innanzitutto ricordare la competenza
di tipo contenzioso in ordine alle controversie tra l’UE e i suoi agenti e alle controversie tra gli
Stati membri. Sulla base dell’art. 270 TFUE, la Corte è competente in via esclusiva a conoscere
delle controversie tra l’UE e i suoi agenti, cioè di tutte le questioni concernenti la disciplina delle
carriere, le condizioni di lavoro, il trattamento economico e di tutte le persone che sono alle
dipendenze dell’UE. Il ricorrente deve avere un interesse personale, certo e attuale, ad agire. Ciò
risponde all’esigenza di sottrarre i funzionari internazionali ai possibili condizionamenti derivanti
dalla sottomissione alla giurisdizione di un giudice nazionale del loro Stato di appartenenza. Sotto

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un profilo completamente diverso, in base all’art. 273 TFUE la Corte di giustizia può fungere da
giudice internazionale e conoscere di controversie tra gli Stati membri, purché connesse con
l’oggetto dei Trattati.
Resta da dire della funzione consultiva della Corte di giustizia, che si esplica essenzialmente con
riferimento alla stipulazione di accordi internazionali da parte dell’UE. Dispone l’art. 218 TFUE
che uno Stato membro, il Parlamento europeo. il Consiglio o la Commissione possono domandare il
parere della Corte di giustizia circa la compatibilità con i Trattati di un accordo internazionale che
l’UE intende stipulare. Qualora, nel suo parere, la Corte esprima parere negativo, l’accordo può
entrare in vigore solo dopo la modifica dello stesso. Di conseguenza, il parere della Corte ha
un’efficacia più che “consultiva”, dato che esso non può essere ignorato dagli Stati membri e dalle
istituzioni dell’UE ed è produttivo di specifici effetti giuridici.
Un’altra questione di grande rilevanza ha riguardato la compatibilità con i Trattati delle proposte
per l’adesione dell’UE alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali del 4 novembre 1950 (CEDU). La questione è stata oggetto di un primo parere della
Corte che si è pronunciata nel senso dell’incompatibilità. Nonostante le modifiche introdotte dal
Trattato di Lisbona in merito alla base giuridica dell’adesione dell’UE, la Corte si è infatti
nuovamente espressa in senso negativo, ritenendo che il progetto sottoposto al suo esame
comportasse condizioni di adesione idonee ad incidere sulle caratteristiche specifiche
dell’ordinamento dell’Unione europea.

CAPITOLO VIII: I RAPPORTI TRA L’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA E


L’ORDINAMENTO ITALIANO

49. L’adattamento dell’ordinamento italiano al diritto dell’UE.

La questione dei rapporti tra l’ordinamento italiano e quello dell’Unione europea è stata affrontata
dalla nostra Corte costituzionale con un approccio diverso da quello della corte di giustizia. Al pari
di altri omologhi organi nazionali, la Corte costituzionale italiana in quadra la questione dei rapporti
tra due ordinamenti secondo una logica di tipo “dualista”, o internazionalista: in questa prospettiva,
l’efficacia del diritto dell’Unione europea nell’ordinamento interno dello Stato italiano si fonda
sull’accettazione volontaria da parte di quest’ultimo. La Corte di giustizia, invece, si è mossa nel
quadro di una concezione unitaria circa i rapporti tra diritto dell’UE e diritto interno, in una logica
che si può definire di stampo “ monista” e in una prospettiva sostanzialmente “pre-federalista”.
L’iter seguito dalla nostra giurisprudenza costituzionale, ha comunque portato ad una sistemazione
soddisfacente della questione. La questione merita di essere ripercorsa, perché consente di
comprendere e inquadrare anche i rapporti attuali tra i due ordinamenti e i rischi di contrasti che
pure possono ancora porsi, come ha dimostrato la recentissima vicenda nel “caso Taricco”. I
problemi che si sono posti per lungo tempo sono discesi in definitiva dalla circostanza che
l’adeguamento dell’ordinamento italiano ai Trattati è avvenuto con leggi ordinarie. Seguendo
la prassi corrente, il nostro legislatore ha infatti provveduto a tale adattamento con l’emanazione di
un ordine di esecuzione per ciascuno dei Trattati. Questa soluzione ha avuto ricadute problematiche,
anche se corrispondeva alla prassi comunemente usata nell’ordinamento italiano per procedere
all’adattamento ai trattati nazionali. Come chiariva la dottrina nazionale, infatti, una volta che un
trattato fosse stato immesso nel nostro ordinamento, il rango delle sue norme su di un piano formale
sarebbe stato coincidente con quello del provvedimento che vi aveva dato esecuzione, ossia in
genere con quello di legge ordinaria. Su questa base sarebbero stati regolati i rapporti tra le norme,

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quindi secondo i principi di gerarchia tra le norme, di prevalenza della norma posteriore su quella
anteriore e di prevalenza della norma speciale su quella generale. infatti, se il trattato fosse stato
immesso nel nostro ordinamento con ordine di esecuzione contenuto in una legge ordinaria, esso
avrebbe potuto prevalere solo su norme si rango inferiore o su leggi ordinarie anteriori; avrebbe
dovuto cedere il passo, invece, di fronte a norme costituzionali contrastanti o a leggi ordinarie
successive. La giurisprudenza italiana negli anni aveva usato diverse tecniche interpretative per
attenuare queste conseguenze. La situazione ora è mutata a seguito della modifica dell’art. 117 della
Costituzione, che vincola l’attività del legislatore al rispetto degli obblighi internazionali dello Stato
italiano. L’avere seguito. Anche in ordine ai Trattati istitutivi delle Comunità europee, la prassi
dell’esecuzione mediante legge ordinaria ha comportato due conseguenze negli anni
immediatamente successivi. Da una parte, le norme dei Trattati comunitari non avrebbero potuto
aver efficacia se contrastanti con la Costituzione. Dall’altra, una legge ordinaria, successiva ai
Trattati e in contrasto con essi, sarebbe stata pienamente efficace, sulla base del principio lex
posterior derogat prori. Entrambe queste conseguenze si ponevano in diretta antitesi con
l’orientamento che la Corte di giustizia veniva assumendo in tema di primato del diritto
comunitario sul diritto interno. La composizione definitiva di tale divergenza poteva essere trovata
adeguatamente con un intervento legislativo a livello costituzionale; in mancanza di esso, la
dottrina suggerì una serie di soluzioni, tutte di ripiego, volte ad evitare le conseguenze di cui sopra.
Tra tali soluzioni prospettate dalla dottrina fu accolta da parte della Corte costituzionale quella che
faceva leva sull’art. 11 Cost., in particolare nella parte in cui recita: “L’Italia consente, in
condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento
che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo”. Questa norma era Stata concepita per preparare l’entrata
dell’Italia nell’ONU, la cui Carta contiene un gruppo di norme, le quali prevedono la messa a
disposizione, da parte degli Stati membri, di contingenti militari da porre sotto il comando
dell’ONU. Le limitazioni di sovranità, cui all’art. 11 Cost. si riferisce, erano, quindi, da intendersi
come essenzialmente relative ad operazioni a carattere militare, in un contesto in cui l’Italia
rinunciava formalmente all’uso della forza bellica. Nonostante questa fosse la ratio legis dell’art. 11
Cost., si ritenne che il suo ambito di applicazione potesse essere esteso a un diverso tipo di
sovranità, la quale si manifesta, ad esempio, nell’esercizio della funzione legislativa. Secondo tale
interpretazione, l’art. 11 Cost. avrebbe potuto consentire delle limitazioni anche di questo tipo di
sovranità. Si trattava, ovviamente, di un uso estensivo del termine “limitazioni di sovranità”, la cui
interpretazione veniva, quindi, forzata al di là di quanto non fosse nelle intenzioni dell’Assemblea
costituente. L’art. 11 Cost. è divenuto nel corso degli anni, nella giurisprudenza costituzionale
italiana, la norma di riferimento per la definizione dei rapporti tra l’ordinamento interno e
l’ordinamento dell’UE.

50. Il difficoltoso percorso della giurisprudenza costituzionale; l’art. 11 e l’art. 117, comma 1,
della Costituzione.

Venendo alla giurisprudenza, il percorso dei nostri giudici costituzionali nell’affrontare il problema
è stato quantomeno travagliato. La Corte costituzionale ebbe ad occuparsi per la prima volta della
questione con la sentenza del 1964, Costa c. ENEL, sulla questione di legittimità costituzionale cui
si riferiva anche il rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia. Con questa sentenza la Corte
costituzionale affermò che, essendo stata data al Trattato CEE esecuzione con legge ordinaria, una
legge ordinaria successiva, quale era appunto quella sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica,
poteva derogare al Trattato stesso in ossequio al principio della successione nel tempo delle leggi.

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Tale sentenza, sebbene in quel momento apparisse formalmente ineccepibile, era però inaccettabile
per la Corte di giustizia e per i nostri partners comunitari, poiché erano leggi in contrasto con i
Trattati.
Un’altra tappa di questo travaglio fu costituita dalla sentenza emanata dalla Corte costituzionale,
nel caso Frontini. In questi casi, la Corte costituzionale adottò la soluzione basata
sull’interpretazione estensiva del termine “limitazioni di sovranità” contenuto nell’ art. 11 Cost. La
Corte sostenne, infatti, che il Trattato CEE fa parte di quelle forme di collaborazione internazionale
cui si riferisce l’art. 11 Cost. Tuttavia, la Corte costituzionale aggiungeva che la rilevazione di tale
conflitto era riservata ad essa; di conseguenza, la norma interna avrebbe continuato a spiegare tutta
la sua efficacia fin tanto che qualcuno avesse eccepito la sua incostituzionalità ed essa si fosse
pronunciata in merito. La corte di giustizia non poteva certo accettare che l’applicabilità del diritto
comunitario in Italia retasse condizionata ad un atto interno, quale era appunto la pronuncia della
Corte costituzionale. La sentenza Frontini ebbe comunque il pregio di ravvisare nell’art. 11 Cost. la
disposizione centrale per inquadrare le questioni del rango e dell’efficacia del diritto comunitario
nell’ordinamento interno. Dopo diversi anni dalla sentenza Frontini, con la sentenza del 1984
Granital, fece un deciso passo avanti, riconoscendo la possibilità per il giudice nazionale, in base
all’art. 11 Cost., di non applicare la norme interna contraria a quella comunitaria, senza dover
attendere una dichiarazione di incostituzionalità. La Corte costituzionale, infatti, mantenendo il suo
approccio basato sulla separazione tra l’ordinamento statale e l’ordinamento comunitario,
giustificava il potere del giudice di non applicare la norma italiana contrastante con il diritto
comunitario facendo leva sulla ripartizione di competenze cui il nostro Stato ha volontariamente
consentito. Successive sentenze della Corte costituzionale parlano espressamente di “ritrazione”
dell’ordinamento interno nei confronti dell’ordinamento dell’UE. La complessità delle questioni
che si sono descritte si sarebbe potuta evitare se il legislatore italiano avesse compreso a pieno la
dimensione del fenomeno dell’integrazione comunitaria e avesse provveduto a modificare la
Costituzione, introducendovi, come del resto si veniva facendo in altri Stati membri, una c.d.
“clausola europea”, consistente in un esplicito riconoscimento a livello costituzionale
dell’adesione dell’Italia all’UE. Ciò è quanto, ad esempio, hanno fatto Francia, Germania e
Spagna. Il diritto dell’UE si sarebbe visto riconosciuto automaticamente rango costituzionale e
sarebbe stato al riparo da rischio di conflitto con norme interne contrastanti. All’esigenza di tale
clausola, ha in buona parte sopperito l’interpretazione accolta dall’art. 11 Cost., che rimane tuttora
centrale nella giurisprudenza costituzionale. Una conferma (parziale) di quanto già assodato in via
giurisprudenziale è oggi presente nella norma dell’ art. 117 comma 1, Cost., il quale dispone che
“la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione,
nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. La
portata si quest’ultimo articolo , con specifico riguardo alle norme contenute in trattati
internazionali diversi dai Trattati UE, è stata chiarita con le due sentenze “gemelle” della Corte
costituzionale, relative alla CEDU, quindi in ordine a norme pattizie non facenti parte
dell’ordinamento dell’UE: come afferma la Corte, il rispetto delle norme contenute nella CEDU
costituisce un vincolo per il legislatore italiano, sicché eventuali leggi ordinarie contrastanti con le
norme poste da trattati possono essere dichiarate incostituzionali. Le norme contenute nei trattati
internazionali non acquisiscono però rango costituzionale; si tratta invece di “norme interposte”:
esse hanno “rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria”.
Inoltre, a differenza di quanto accade per il diritto dell’UE, la contrarietà ad una norma interna non
determina la possibilità per gli operatori interni di non applicare la norma interna contrastante.
Nelle due sentenze da ultimo menzionate, la Corte costituzionale ha colto l’occasione per

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distinguere la posizione delle norme dell’UE nell’ordinamento italiano rispetto a quella delle
norme poste dai trattati internazionali diversi dai trattati dell’UE. Solo per il diritto dell’UE si
configurano le limitazioni di sovranità previste dall’art. 11 Cost., che hanno una portata più
ampia rispetto a quella dell’art 117 Cost. In altri termini, il riferimento nell’art. 117 Cost. ai “vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario” si limita a confermare che il legislatore nazionale e
regionale non può legiferare liberamente (anche) in materie regolate dal diritto dell’UE.
Si noti che mentre l’art 117 Cost. si rivolge solo al legislatore nazionale, l’art 11 Cost. è una norma
generale, che si riflette su tutte le norme dell’ordinamento e deve guidare non solo l’autorità
legislativa ma anche gli altri organi nazionali.
Le limitazioni di sovranità legittimate a livello costituzionale dall’art. 11 si concretizzano da un lato
nella possibilità di attribuire all’UE competenze anche esclusive in determinate materie; d’altro
lato nel “potere-dovere” in capo agli organi dello Stato italiano di “dare immediata applicazione
alle norme comunitarie provviste di effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse
in contrasto insanabile; ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale… quando il
contrasto fosse con norme comunitarie prive di effetto diretto”. Infine, è proprio in forza di tali
limitazioni di sovranità, che la Corte costituzionale “ha riconosciuto la portata e le diverse
implicazioni della prevalenza del diritto comunitario anche rispetto a norme costituzionali
individuandone solo il limite nel contrasto con i principi fondamentali dell’assetto costituzionale
dello tato ovvero dei diritti inalienabili della persona”.

51. I c.d. “controlimiti; il caso “Taricco”.

La Corte costituzionale italiana ha precisato in una giurisprudenza costante che la prevalenza del
diritto dell’UE sul diritto interno incontra alcuni limiti, in quanto non opera per quelle norme di
diritto dell’UE che si rivelino contrarie ai principi fondamentali del nostro ordinamento
costituzionale o ai diritti inalienabili della persona umana. Ricordiamo a questo riguardo che
l’art. 11 non è neutro, sul piano valoriale: le cessioni di sovranità che la norma consente sono
ammesse solo a favore di organizzazioni che tendano alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. La
Corte costituzionale si è quindi sempre espressamente riservata un controllo di costituzionalità
con riferimento all’eventuale contrasto di nome dell’UE con principi fondamentali o diritti
inalienabili. Già la sentenza Frontini, nel sancire l’ingresso del diritto dell’UE nel nostro
ordinamento a livello costituzionale, faceva salve quelle norme della Costituzione che riguardano i
principi fondamentali o i diritti inalienabili della persona umana. I giudici costituzionali, però,
precisavano subito che il problema, a loro avviso, era comunque solo teorico, in quanto “appare
difficile configurare anche in astratto l’ipotesi che un regolamento comunitario possa incidere in
materia di rapporti civili, etico-sociali, politici..”.
Ricordiamo che la giurisprudenza costituzionale italiana non è l’unica nella quale rinvengono
queste riserve, che sono condivise nella giurisprudenza di altri Stati membri. il riferimento
principale va alle analoghe posizioni espresse dalla Corte costituzionale tedesca, la quale ha
ribadito in più occasioni l’esistenza di controlimiti rispetto alle cessioni di sovranità dell’UE. Questi
sono stati legati inizialmente al livello di protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento
comunitario, e in seguito sono stati declinati con più ampio riferimento al rispetto dell’ identità
costituzionale tedesca, comprensiva sia della protezione dei diritti fondamentali che dei principi
della democrazia e dello stato di diritto. Su posizioni analoghe si può citare la decisione della Corte
costituzionale della Repubblica ceca.
Un rischio imminente di una dichiarazione di incostituzionalità inerente al diritto dell’UE si è
verificato in una vicenda recente, nota come “caso Taricco”, che avrebbe potuto riprodurre

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ripercussioni di notevole portata, anche nei rapporti tra Corte costituzionale e Corte di giustizia.
Come vedremo, il possibile contrasto è stato “disinnescato” grazie all’approccio adottato dalle due
Corti. La sentenza Taricco della corte di giustizia sanciva l’obbligo di disapplicare la legge italiana
che prevedeva per determinati reati una riduzione dei termini di prescrizione tale da rischiare di
impedire di unire le frodi contro gli interessi finanziari dell’’UE (si trattava del diffuso reato noto
come “frode carosello”, che realizza evasioni dell’IVA e conseguenti danni per le entrate dell’UE).
La Corte di giustizia considerava che, se il giudice italiano avesse ravvisato una situazione di
“impunità di fatto”, le norme nazionali in questione sarebbero state in contrasto con l’art. 325
TFUE, articolo che la Corte considerava dotato dei requisiti per produrre effetti diretti e quindi per
determinare l’immediata inapplicabilità delle disposizioni della legge italiana. Si trattava di un caso
di applicazione retroattiva di regole che incidevano sulla punibilità delle persone, in contrasto con
il principio di legalità (art. 25 Cost.). La Corte costituzionale fu quindi investita di due rinvii di
costituzionalità in via incidentale, volti a fare accertare la contrarietà a principi fondamentali della
Costituzione, in sostanza, dell’interpretazione della Corte di giustizia. La nostra Corte a quel punto
adottò una decisione di grande rilievo: scelse di non emanare immediatamente una sentenza nella
quale avrebbe potuto accertare l’esistenza di un contrasto con un principio fondamentale della
Costituzione; decise invece di rimettere la questione alla stessa Corte di giustizia, perché
quest’ultima chiarisse la portata della propria interpretazione dell’art. 325 TFUE contenuta nella
sentenza Taricco. Pur con quest’apertura di fondo, nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale la Corte
costituzionale rimarcò in modo molto netto la possibilità di ricorrere ai controlimiti, sottolineando il
carattere supremo e irrinunciabile nel nostro ordinamento del principio di legalità in materia
penale. Inoltre, essa affermò pure che tale principio rappresenta un aspetto dell’identità nazionale
dello Stato italiano che l’UE è tenuta a rispettare ai sensi dell’art. 4 TUE. Nella sentenza resa in via
pregiudiziale in risposta a tale ordinamento (noto anche come “Taricco bis”), la Corte di giustizia
ha evitato di affrontare il problema sotto l’angolazione della clausola sul rispetto dell’identità
nazionale. La risposta è stata invece imperniata sul riparto di competenze, considerando che la
materia in questione rientra nelle competenze concorrenti, e che all’epoca dei fatti non erano stata
ancora realizzate forme di armonizzazione nella materia stessa; pertanto, ha concluso la Corte,
l’Italia era libera a quell’epoca di prevedere che nel suo sistema giuridico le norme sulla
prescrizione formassero parte del diritto penale sostanziale e fossero quindi soggette al principio di
legalità. In altri termini si accetta in questo modo la qualificazione data nel sistema italiano alle
norme sulla prescrizione e conseguentemente la possibilità che i giudici italiani considerino la
disapplicazione in contrasto con il principio di legalità. La Corte ha anche aggiunto che gli Stati
membri sono liberi di determinare i livelli di protezione dei diritti fondamentali. La sentenza è
chiaramente mossa dall’intento di scongiurare una dichiarazione di incostituzionalità da parte
della Corte costituzionali italiana.
La Corte costituzionale ha posto fine alla vicenda con una sentenza di rigetto. In questa sentenza
essa ha considerato infondate le questioni di costituzionalità, in ragione del fatto che a suo
giudizio la “regola Taricco” si rivela inapplicabile senza eccezioni nel nostro ordinamento. Con
questa pronuncia la Corte costituzionale ha colto anche l’occasione per ribadire il proprio ruolo
esclusivo nella scelta di opporre i controlimiti rispetto al diritto dell’UE.

52. L’attuazione del diritto dell’UE nell’ordinamento italiano; il ruolo delle Regioni.

a) Il diritto derivato dell’UE, quando abbia i requisiti per poter essere applicato direttamente dagli
organi degli Stati membri, non necessita di appositi atti interni di esecuzione. Le norme degli atti
dell’UE che abbiano invece un contenuto con carattere programmatico o generico necessitano,

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invece, di misure interne di attuazione. Ciò si può verificare non solo per le direttive, ma anche
per alcuni regolamenti o decisioni, a seconda appunto del loro contenuto. Al riguardo, il nostro
legislatore ha più volte manifestato un’eccessiva lentezza, che ha esposto spesso l’Italia a
procedimenti per infrazione ai sensi degli artt. 258 TFUE. Inoltre, il legislatore nazionale è
chiamato ad intervenire anche per rimuovere norma interne che la Corte di giustizia abbia
eventualmente dichiarato contrarie ad obblighi assunti dall’Italia nell’ambito dell’UE.
Per porre rimedio a questa situazione si è giunti alla legge del 1989 c.d. “legge La Pergola”), poi
sostituita nel 2005 dalla c.d. “legge Buttiglione”, e oggi dalla legge 24 dicembre 2012, n.234 aventi
lo scopo di disciplinare la partecipazione dell’Italia al processo di formazione delle norme dell’UE
e di garantire l’adempimento degli obblighi derivanti in capo all’Italia dall’appartenenza all’UE. Il
sistema di attuazione introdotto nell’ordinamento italiano con la legge La Pergola, corrispondente a
quello tuttora in vigore, era rappresentato da un meccanismo annuale per l’attuazione del diritto
dell’UE, con l’emanazione ogni anno di un’apposita legge contenente tutte le disposizioni
necessarie per dare attuazione agli obblighi nascenti dalla partecipazione dell’Italia all’UE.
Questa legge mantiene il meccanismo incentrato sull’emanazione della legge annuale e lo disciplina
più a fondo, ma colloca accanto a tale legge un’altra categoria di leggi con finalità analoga ( la
“legge europea”).
La legge di delegazione europea, corrisponde sotto molti profili alla vecchia legge comunitaria;
principalmente contiene disposizioni per conferire deleghe al Governo perché provveda
all’emanazione di decreti legislativi, volti al recepimento di direttive dell’UE, o anche volti a
dare attuazione a regolamenti dell’UE.
Le deleghe al Governo, possono riguardare anche l’emanazione di decreti legislativi diretti a
modificare o abrogare disposizioni legislative in vigore.
La legge europea contiene invece disposizioni attraverso le quali il Parlamento italiano provvede
direttamente all’attuazione di obblighi nascenti dal diritto dell’UE. Ad esempio, ciò che si può
realizzare con la modifica o l’abrogazione di norme interne in vigore- anche nel caso della legge
europea l’iniziativa spetta al Governo.
La legge 234/2012 è volta anche a garantire un maggiore coinvolgimento del Parlamento italiano
nella “fase ascendente del diritto dell’UE”. Ciascuna Camera, a questo fine, è chiamata ad
esprimere un parere motivato sulle proposte di atti legislativi che la Commissione invia ai
Parlamenti nazionali. Inoltre, la legge 234/2012 definisce in modo dettagliato la disciplina degli
obblighi di informazione e consultazione delle Camere da parte del Governo, con la possibilità
che il Parlamento esprima degli atti di indirizzo, di cui l’atto esecutivo è obbligato a tenere conto
nel definire la propria posizione in seno alle istituzioni dell’UE.
b) A seguito del decentramento regionale è sorto il problema di quale ruolo dovessero svolgere le
Regioni stesse nell’elaborazione e nell’attuazione del diritto derivato dell’UE. La soluzione del
problema non appariva semplice, in quanto dovevano contemperarsi due opposte esigenze. Da una
parte, infatti, nonostante il decentramento regionale, lo Stato rimane unitario e, come tale,
esclusivamente responsabile sul piano internazionale. D’altra parte, nelle materie di loro
competenza, le Regioni hanno sempre rivendicato un ruolo attivo per quanto riguarda la
partecipazione all’elaborazione e all’attuazione del diritto dell’UE.
La legge 234/2012 prevede quindi un meccanismo, la cui attivazione compete al governo, perché i
progetti di atti dell’UE siano fatti pervenire alle giunte e ai consigli delle Regioni e delle Province
autonome. Quando i progetti riguardino materie di competenza delle Regioni e delle Province
autonome, queste ultime possono comunicare le loro osservazioni sul progetto stesso. Inoltre, su
richiesta di almeno una Regione o Provincia autonoma, il Governo è tenuto a convocare la

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Conferenza Stato-Regioni con il fino di raggiungere un’intesa su tale progetto. Le competenze di
tale Conferenza sono di natura essenzialmente consultiva e, pertanto, non offrono in realtà alle
Regioni la possibilità di influire in misura determinante sul processo di elaborazione degli atti
dell’UE. Quanto all’attuazione degli atti dell’UE da parte delle Regioni nelle materie di loro
competenza. L’art. 40 della l. 234/2012 prevede che le Regioni provvedono al recepimento delle
direttive dell’UE nelle materie di loro competenza. Per il caso di inadempimento da parte di tali
enti territoriali, l’art. 120 della Costituzione prevede che lo Stato sia dotato di poteri sostitutivi, “al
fine di porre rimedio all’eventuale inerzia dei suddetti enti”. Si tratta di atti, emanati in vi
sostitutiva, che sono destinati a trovare applicazione solo per le regioni che non abbiano provveduto
tempestivamente ad emanare la normativa di loro competenza. La finalità dei provvedimenti
sostitutivi, come si è detto, è infatti solo di impedire che lo Stato italiano sia chiamato a rispondere
per il mancato adempimento ad obblighi che derivano per lo Stato stesso dalla sua partecipazione
all’Unione europea.

CAPITOLO IX: L’AZIONE ESTERNA DELL’UNIONE EUROPEA.

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