Si può immaginare una circolarità delle risorse: l’esistenza di una comunità organizzata
crea le condizione perché i diritti individuali, economici o meno, possano trovare
espressione e tutela. Dalle attività che si svolgono all’interno di una comunità organizzata
si produce ricchezza ed una quota di questa spetta all’ente pubblico, attraverso il prelievo
tributario: le risorse così reperite sono destinate a riflettersi in benefici per la comunità
organizzata:
• Perché l’ente pubblico con la sua esistenza consente la manifestazione dell’autonomia
privata;
• Perché parte delle entrate pubbliche, nella forma di erogazione di servizi o per il solo
fatto che le funzioni pubbliche sono esercitate viene restituita alla comunità che ha
subito il prelievo.
Naturalmente è un problema politico stabilire:
quale entità di prelievo fiscale sia preferibile a carico di una comunità
organizzata;
che rapporto vi debba essere tra prelievi tributari e altre entrate
pubbliche;
in che misura il prelievo debba essere restituito alla comunità.
Già da questo emerge l’intreccio tra profili oggettivi e soggettivi del prelievo, complessi dal
momento che, non potendovi essere coincidenza assoluta, nemmeno nelle visioni più
commutative del tributo, tra soggetti che pagano il tributo e soggetti che ricevono le
prestazioni pubbliche, è immanente nella logica del tributo che questo abbia quasi
inevitabilmente una funzione redistributiva delle risorse, che in misura variabile vengono
prelevati da soggetti diversi rispetto a quelli che risulteranno fruitori della spesa pubblica.
Il tributo quindi non è residuale rispetto ai diritti proprietari: non è solo un elemento
limitativo dei diritti privati, ma ne permette anzi l’esercizio, la tutela e l’espansione,
creando le condizioni perché il diritto proprietario possa espandersi e svilupparsi.
Il tributo è quindi elemento essenziale della convivenza organizzata, indispensabile allo
sviluppo stesso dell’economia e dei diritti, ma nonostante ciò, in paesi fortemente
indebitati come l’Italia è percepito negativamente dall’opinione pubblica, a causa di una
spesa pubblica che oltre a essere spesso percepita come poco efficace, solo
faticosamente riesce a ridurre l’entità del debito pubblico. Il tributo quindi a fronte di una
spesa pubblica che viene percepita come:
a. Eccessiva nell’entità complessiva;
b. Insufficiente a risolvere le questioni che ciascun consociato ritiene prioritarie, viene
percepito come un prelievo che, anziché agire in senso espansivo delle libertà
individuali, è destinato a limitarle e a comprimerle, con benefici di ritorno spesso
deludenti, cosa che spesso porta a dimenticarsi che l’essere soggetti passivi del
tributo è il primo modo per vedere riconosciuta la propria ‘inclusione’ nella
comunità.
Senza il tributo, le entrate pubbliche non sarebbero assolutamente sufficienti ad
assicurare la grande quantità di prestazioni pubbliche di cui la società non può fare a
meno.
In realtà la fiscalità europea ha una sua identità anche se diversa da quella che presenta
negli stati membri e in particolare in Italia: anche attraverso indirizzi, linee guida e
raccomandazioni il ravvicinamento è tutt’altro che assente negli obiettivi europei,
soprattutto per gli stati appartenenti alla moneta unica, sottoposti a stringenti vincoli di
bilancio e a controlli sull’entità delle entrate pubbliche, che devono garantire il
sostenimento delle spese ed evitare indebitamenti e deficit di bilancio superiori alle misure
consentite, che limitano la possibilità di esercitare le politiche redistributive che sono tra gli
obiettivi primari del tributo.
Art. 53 co. 1 Cost.: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della
loro capacità contributiva.” È la disposizione cardine dell’ordinamento tributario italiano; dà
un senso all’obbligo di contribuzione e ne chiarisce ragioni e limiti.
Un’entrata pubblica può essere definita tributo costituzionalmente legittimo solo se
presenta i caratteri distintivi ex art. 53 Cost.
• ‘Tutti’: richiama l’attenzione sul fatto che l’obbligo contributivo non può essere delimitato
a priori (per questo l’art. 53 non si riferisce ai cittadini o ai residenti). A livello generale
nessuno può essere escluso dall’obbligo di contribuzione, nel momento in cui venga in
relazione con la comunità che possiamo definire Repubblica italiana. Sta comunque alla
legge definire con ragionevolezza per ogni tributo quali siano i soggetti passivi, ma in
linea di principio la costituzione non può escludere nessuno dall’obbligo di contribuzione.
Il principio di effettività eviterà che la legge possa ampliare oltre ogni logica l’ambito dei
soggetti colpiti da un tributo, dal momento che se questi fossero individuati anche in
soggetti privi di qualsiasi collegamento con lo stato italiano la legge sarebbe inutile, in
quanto inattuabile.
• I soggetti passivi (individuati con il termine ‘tutti’) ‘sono tenuti’ al pagamento dei tributi: la
prestazione tributaria è doverosa, obbligatoria e forma oggetto di una situazione passiva
normalmente caratterizzata da un profilo autoritativo. Questo aspetto pone le premesse
del problema relativo alla fonte idonea a stabilire autoritativamente la prestazione
coattivamente imposta.
Non si può delimitare a priori il tributo escludendone la compatibilità con moduli
consensuali o paracommutativi: anche in rapporti sinallagmatici la disciplina giuridica
dell’entrata può essere in parte giustificata dalle esigenze di concorso alla spesa
pubblica che caratterizzano il tributo. La coattività deve quindi essere individuata nella
circostanza che, anche nell’ambito di rapporti non autoritativi, possa esserci un prelievo
la cui conformazione è quella di realizzare il concorso alla pubblica spesa: per
concludere che si tratti di un tributo è necessario verificare che quel prelievo trovi
giustificazione in una capacità di contribuzione e abbia finalità di concorso alla spesa
pubblica.
• Il concorso alla pubblica spesa caratterizza l’identificazione dell’entrata tributaria: è
destinata a realizzare il riparto tra consociati del peso delle spese pubbliche e il tributo
(=prelievo giustificato dalla capacità contributiva) è l’unico modo soddisfacente e
possibile per creare un razionale criterio di riparto della spesa pubblica tra tutti i
consociati. Non potendosi utilizzare i criteri in uso nelle comunità rette da regole
privatistiche (es. associazioni) in un ambito pubblicistico l’unico modo razionale per
distribuire l’onere della spesa pubblica su tutti coloro che in qualche modo ne fruiscono,
o la determinano, è quello di individuare forme di contribuzione che facciano leva sulla
capacità di ciascun consociato di concorrere alla spesa.
• ‘Tutti’+‘sono tenuti’+‘concorso alla spesa pubblica’: tutti questi elementi sono legati dalla
capacità contributiva, ossia dal concetto secondo cui è giusto che alla spesa pubblica
partecipino tutti i consociati se (e secondo quanto) è nella loro possibilità contribuire.
Quindi possono essere chiamati al concorso alla spesa pubblica, in quanto titolari di
capacità contributiva:
I possessori di beni, innanzitutto immobili;
Coloro che conseguono ricchezze, quanto meno attraverso attività produttive
(imprenditori, professionisti, lavoratori dipendenti);
Coloro che effettuano scambi e pongono in essere negozi giuridici dai quali si
desume indirettamente la disponibilità di risorse economiche.
Il fatto che l’art. 53 sia inserito nel titolo della Costituzione che regola i rapporti politici
chiarisce in modo perfetto quale sia l’effettivo valore della contribuzione, rispetto al
rapporto Repubblica e consociati:
• Pone un problema giuridico rilevante, attinente alla rilevanza della tassazione rispetto al
conseguimento della cittadinanza: in un’epoca di flussi migratori in cui gli immigrati
conquistano la titolarità di molti indici di capacità contributiva è da chiedersi se la
soggezione alle imposte per un periodo continuativo non diventi sintomo di stabile
appartenenza alla comunità, per lo meno quando si tratta di imposte personali o
espressione di una presenza attiva del soggetto nello stato.
• Esclude che l’obbligo di concorso alla spesa pubblica possa considerarsi limitato solo a
quanto necessario a finanziare l’organizzazione e i servizi resi dagli enti pubblici e che si
possa negare la legittimità della chiamata alla contribuzione giustificata da finalità
redistributive, da manovre di politica economica, da intenti disincentivanti di
comportamenti socialmente negativi (es. fumo o mancato riciclaggio di rifiuti suscettibili
di recupero).
Dal momento che l’art. 53 regola i rapporti politici deve essere inteso come diretta
emanazione dei principi fondanti della Costituzione:
solidarietà ex art. 2;
eguaglianza formale e sostanziale ex art. 3 co. 1 e 2;
la leva fiscale appare la più idonea a rendere concreto l’impegno costituzionale alla
rimozione delle diseguaglianze per realizzare la parità di condizioni alla
espressione della propria personalità (art. 2).
L’ art. 20 Cost., come integrazione dell’art. 53, esclude che possano essere motivo di
speciali gravami fiscali il fine di religione o di culto o il carattere ecclesiastico di
associazioni ed enti.
Questa disposizione concorre a realizzare l’eguaglianza e ribadisce l’esclusiva rilevanza ai
fini del prelievo, della capacità contributiva e non di caratteristiche soggettive che, se
poste a base dell’imposizione assumerebbero carattere discriminatorio, intende
preservare il diritto di esercitare il culto e di dare vita anche ad istituzioni ecclesiastiche,
senza che tali forme di espressione siano oggetto di gravami fiscali aggiuntivi rispetto a
quelli previsti per la generalità delle istituzioni e associazioni.
Questo cenno all’art. 20 consente di superare una contraddizione apparentemente
insuperabile tra generalità dell’obbligo di contribuzione implicita nell’art. 53 e ricorrente
presenza nell’ordinamento tributario di norme agevolative o di favore che prevedono fatti o
situazioni che, sia pure a parità di capacità contributiva, sono sottoposte a tassazioni
minori, o sono esentate interamente dagli obblighi tributari o quanto meno dal pagamento
del tributo.
In astratto l’incompatibilità è insuperabile e non mancano tesi che ritengono sempre e
comunque incostituzionali le agevolazioni fiscali.
La politica economica in realtà richiede spesso adattamenti alle particolarità delle
situazioni economiche e margini di flessibilità che rendono opportuno articolare il prelievo
in modo diverso pur in presenza di un fatto imponibile analogo a quelli oggetto di
tassazione piena. Per questo periodicamente settori produttivi o zone territoriali o
determinati beni meritano una considerazione benevola del legislatore fiscale anche
perché è riconosciuto che la leva fiscale usata in funzione incentivante può costituire un
grande fattore di sviluppo e in via mediata un elemento di benessere anche per i soggetti
non direttamente destinatari dell’agevolazione.
Il conflitto può essere risolto se si inquadra l’art. 53 ed il valore essenziale di cui è
portatore in un più ampio contesto di valori equiordinati che il legislatore deve perseguire;
molti di questi valori hanno rilievo e valore costituzionali (es. lavoro, famiglia, risparmio)
per cui il legislatore deve tenere conto di questi valori articolando la tassazione in modo da
renderla non eguale, anche se a parità di capacità contributiva; ad esempio le misure che
favoriscono il permanere del lavoro agricolo. È troppo rigido negare in assoluto che
agevolazioni fiscali, in condizioni simili, possano essere costituzionalmente legittime:
1. se un soggetto trae la stessa quantità di reddito di altri, ma in condizioni di
maggiore fatica e disagio se ne può ricavare che esprime, anche al di là delle
regole tecniche di determinazione del tributo, una capacità contributiva minore di
quella di altri soggetti in condizioni normali;
2. non si può negare al legislatore, nell’articolare la politica fiscale, di preferire la
strada di una diretta diminuzione della tassazione, piuttosto che quella che
vedrebbe una tassazione non agevolata, abbinata a erogazioni e sussidi.
La Corte costituzionale ovviamente può valutare nei singoli casi se ciascuna
agevolazione:
- sia lesiva del principio di capacità contributiva in quanto irrazionale;
- possa essere giustificata dalla considerazione di valori costituzionali concorrenti con
quello dell’art. 53 Cost.;
- rispetti il principio di eguaglianza (che impone trattamenti uguali solo a condizioni
uguali).
Art. 53 co. 2 Cost.: contiene la precisa indicazione per il legislatore ordinario di dover
informare il sistema tributario, nel suo insieme, a criteri di progressività; la percentuale (il
tasso) di prelievo applicata alla contribuzione infatti non deve restare invariata al crescere
della capacità economica colpita (il che conferisce ad un tributo un carattere
proporzionale), ma deve crescere in modo che, quanto più alta è la capacità economica
colpita, tanto più alta deve essere l’incidenza del tributo.
Nell’ordinamento italiano attuale il tributo più importante, in termini strutturali ma anche di
gettito, è effettivamente progressivo: è applicato per scaglioni di reddito con tassi di
imposta dal 23% al 43%. Nonostante questo il principio ex art. 53 co. 2 è in crisi e quasi
disapplicato nel sistema attuale: la concorrenza fiscale tra stati e la mobilità delle principali
ricchezze rendono non praticabile una progressività adeguata, che potrebbe indurre molti
soggetti passivi a realizzare altrove la loro capacità contributiva.
Ancora oggi l’imposta sul reddito delle persone fisiche, il tributo che ha il compito di
realizzare la progressività nel sistema, non colpisce molte forme di reddito, che godono di
regimi sostitutivi a tasso proporzionale o di forme agevolate di accertamento della
capacità economica collegata a determinati redditi. Si determina quindi un paradosso per
cui la progressività del sistema, ancor prima dell’imposta sul reddito delle persone fisiche,
si concentra sui redditi di lavoro che dal punto di vista qualitativo meriterebbero una
considerazione più mite della loro capacità contributiva, generata da fatica e impegno
personale più che da disponibilità di risorse.
A differenza del co. 1 dell’art. 53 Cost, il principio di progressività non si presta ad un
puntuale controllo della Corte costituzionale dal momento che non determina un obbligo di
conformare in senso progressivo ciascuno dei tributi applicati nell’ordinamento: la
progressività è requisito che la Costituzione impone al sistema nel complesso, senza che
nel giudicare una singola normativa tributaria si possa pretendere progressività.
Anche dal punto di vista tecnico non si può individuare quando una singola norma sia
lesiva dell’art. 53 co. 2 il cui pregiudizio deriva da una inerzia complessiva del legislatore
più che dalla disciplina di un singolo tributo.
• art. 117 e 119: fondano il potere normativo tributario degli altri enti che costituiscono la
Repubblica (vd. art. 114 Cost.).
NB. Distribuzione del potere normativo tributario:
Legislazione esclusiva dello Legislazione concorrente tra stato e regioni:
stato: • Fissazione dei principi di coordinamento della
Disciplina dell’ordinamento contabilità pubblica e del sistema tributario;
tributario nazionale • Autonomia normativa delle autonomie locali che,
secondo la Corte costituzionale può articolarsi:
a. Sia sul doppio livello: stato/regione o stato/ente
locale.
b. Sia sul triplolivello: stato/regione/ente locale.
NB. Il diritto UE assorbe ormai al suo interno anche la Convenzione europea sui diritti
dell’uomo (CEDU), per cui le occasioni di conflitto tra norme interne e norme UE
aumentano sempre di più.
Anche nel diritto tributario emergono sempre più casi in cui l’ordinamento interno non è
linea con:
Convenzione UE;
Giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (@Strasburgo).
In questi casi tuttavia il contrasto non comporta la disapplicazione della norma interna, ma
esaurisce i suoi effetti:
In misure sanzionatorie a carico dello Stato;
Nella possibilità di apertura di procedure di infrazione a carico dello Stato che risulti
troppe volte negligente nell’adeguamento.
Il quadro delle fonti primarie è completato dalle leggi regionali e delle province autonome,
che soddisfano i requisiti ex art. 23 Cost. La legislazione regionale potrebbe avere ampi
margini di autonomia, dovendo ex art. 119 Cost., la finanza regionale basarsi soprattutto
su tributi propri (=istituiti con legge regionale). In realtà la Corte Costituzionale e la
legislazione attuativa del ‘nuovo’ titolo V della Costituzione hanno posto al centro
dell’ordinamento tributario il legislatore statale → creando una prevalenza dei tributi propri
derivati, istituiti con legge statale e per i quali alle regioni è affidato solo un margine ridotto
di autonomia normativa.
Quindi → la riserva di legge relativa permette che ampi spazi della disciplina di un tributo
siano occupati da fonti subordinate alla legge; in particolare sono rilevanti i regolamenti:
a. Regolamenti statali: il regolamento tributario non ha caratteri specifici rispetto agli
altri regolamenti per quanto riguarda la procedura di formazione (→ diversa a
seconda che sia governativo o ministeriale). Per quanto riguarda la determinazione
della base imponibile di molti tributi è frequente che la disciplina legale sia limitata
agli aspetti essenziali e che la disciplina regolamentare vada a stabilire gli aspetti
maggiormente tecnici, o di dettaglio.
Sappiamo che il regolamento non ha una resistenza ‘forte’ come la legge: può essere
abrogato da fonte equiordinata ed è suscettibile di annullamento davanti alla giurisdizione
amministrativa, senza che possa o debba intervenire la Corte Costituzionale; il giudice che
decide le controversie tributarie può disapplicare il regolamento o l’atto generale che
ritenga emanato in violazione di legge, senza che tale disapplicazione abbia efficacia di
giudicato e sia efficace erga omnes.
NB. La resistenza del regolamento e la sua capacità abrogativa sono rafforzate
quando si verifica il fenomeno della delegificazione: fenomeno per cui la legge
ordinaria concede al regolamento di disciplinare in via esclusiva un determinato,
circoscritto ambito normativo, con indicazione delle norme di legge che sono
abrogate dal momento dell’entrata in vigore del regolamento, e con la conseguenza
che leggi successive, se non specificamente indirizzate ad abrogare il regolamento,
non possono ritenersi idonee ad abrogarlo.
In materia tributaria sono molto frequenti gli atti integrativi della normativa primaria,
dei quali è dubbia la valenza regolamentare: sono atti amministrativi generali che
possono talvolta essere considerati innovativi dell’ordinamento e quindi
sostanzialmente normativi e regolamentari. Sono particolarmente frequenti nel
campo dell’accertamento (→ es. redditometro, impiegato quale forma di
accertamento sintetico del reddito complessivo della persona fisica). Tra questi non
vanno comprese le circolari, che non hanno nessuna attitudine ad integrare il
disposto delle norme, primarie o secondarie.
NB. Particolarità: dopo che le agenzie fiscali hanno in parte eroso le
competenze del Ministero, questi atti amministrativi generali sono emanati
dal Direttore dell’Agenzia; in particolare, esistono diverse ipotesi nelle quali
ciascuna agenzia emana atti aventi efficacia esterna verso una generalità di
contribuenti. Questo lascia dubbi sul fondamento di questo potere
organizzativo e sulla sua capacità di operare, quantomeno praeter legem.
La più grave incongruenza che si realizza con riguardo agli atti
amministrativi destinati ad integrare la disciplina legale deriva
dall’insofferenza mostrata dal legislatore verso le procedure di approvazione
del regolamento, che sono lente e coinvolgono il Consiglio di stato. Per
questo si è diffusa la prassi di affidare rilevanti parti della disciplina ad un
atto integrativo della legge → il c.d. ‘decreto di natura non regolamentare’.
Dietro questa prassi vi è anche la necessità di eludere il divieto di norme
regolamentari statali nelle materie sottratte alla legislazione esclusiva dello
Stato (→ art. 117 Cost.), ma si tratta di una preoccupazione spesso
infondata, ad es. in tutti i casi nei quali la legge e il regolamento si riferiscono
a tributi statali: in un sistema in cui le fonti del diritto sono tipiche e il potere
regolamentare è disciplinato dalla Costituzione come l’unico in grado di
completare il ciclo delle norme, la previsione di un atto che dovrebbe essere
normativo, ma che dichiaratamente non ha la forma per essere tale lascia
perplessi, soprattutto quando da quel decreto dipende l’applicazione di
sanzioni.
Infatti se una fonte atipica non può avere legittimazione se ne deve dedurre
che il decreto attuativo non regolamentare non è altro che un atto che non
può essere fonte di diritto: è quindi evidente che la sua disciplina non vincola
nessuno: né cittadini, né giudici, né amministrazioni. La Corte Costituzionale
sul punto è intervenuta solo una volta con un obiter dictum (@sent.
112/2006), che non sembra lasciare spazio all’efficacia di questa fonte
atipica.
Conclusione: il decreto di natura non regolamentare ha potuto operare solo
per acquiescenza dei destinatari, ma se per es. il problema dovesse
emergere non sarebbe per nulla scontata la vincolatività della normativa così
prodotta.
La materia tributaria tuttavia offre momenti di assoluta originalità, che vanno
criticati, ma che devono essere compresi dal punto di vista delle difficoltà di
gestione di un sistema complesso; ci sono infatti momenti in cui si avvicinano
scadenze e gli atti normativi tipici tardano a completare il loro procedimento
formativo: per questo motivo il Governo che voglia assicurare gli effetti del
provvedimento in itinere può anticipare i contenuti dell’atto con un comunicato
stampa, che non ha posto nel sistema delle fonti, ma che vale a rassicurare i
contribuenti, che possono applicare una disciplina non ancora in vigore, con il
consenso delle autorità preposte all’amministrazione dei tributi.
NB. Un potere regolamentare si può riscontrare in tutti gli enti pubblici che
amministrano tributi, che devono esercitarlo nell’ambito di quanto previsto dalla
legge, rispettando le indicazioni contenute nella fonte primaria.
b. Regolamenti degli enti locali: hanno qualcosa in più rispetto ai regolamenti statali → il
regolamento è l’unico modo che l’ente locale ha per esprimere un potere normativo. A
partire da questa considerazione parte della dottrina ha qualificato il rapporto legge-
regolamenti degli enti locali non in termini di mera gerarchia, ma di competenza,
rivendicando all’autonomia normativa tributaria uno spazio di espressione più intenso,
e garantito, rispetto alla disciplina coperta dalle fonti primarie.
Se il rispetto della riserva di legge impone che nella legge (statale o regionale o
entrambe) si trovino gli elementi strutturali di ogni tributo affidato al comune, è
riservato a quest’ultimo uno spazio di definizione ulteriore che non può riguardare
solo aspetti meramente procedurali del tributo, ma può espandersi ad esempio a
meglio definire l’imponibile, a riconoscere agevolazioni, a stabilire una scala di
aliquote, entro i limiti massimi stabiliti dalla legge.
È dubbio se, in presenza di una disciplina di legge che copre anche questi spazi, il
regolamento possa contenere una disciplina diversa, derogatoria rispetto a quella
legale, che rimarrebbe applicabile solo ai comuni che non provvedano
diversamente.
Risposta positiva: deve essere intesa in questo senso la previsione ex art. 52 d.lgs.
446/1997 (@prima vera riforma della fiscalità comunale), che ha riconosciuto
espressamente questo potere alle amministrazioni comunali.
NB. Anche altre norme, sia coeve sia successive, all’art. 52 stabiliscono cosa
possa essere previsto dal regolamento comunale e in che limiti.
Il risultato è insoddisfacente rispetto all’obiettivo di responsabilizzare gli
amministratori comunali, che dovrebbero essere giudicati dagli elettori anche per
come esercitano un potere normativo tributario, che dovrebbe avere ampi margini
di manovra.
Invece l’ordinamento tributario attuale riconosce la disponibilità diretta da parte dei
comuni di un gettito tributario molto significativo, e il modo in cui questo gettito è
garantito somiglia molto alla logica dei trasferimenti → è solo la legge a stabilire
quali tributi si applichino nei comuni e a quantificare il relativo gettito, che solo in
misura ridotta può essere modificato dal comune manovrando aliquote o
modulando le basi imponibili.
Rispetto alle leggi ordinarie il ruolo centrale dell’esecutivo si manifesta in diversi modi;
innanzitutto con una netta prevalenza dell’iniziativa legislativa governativa rispetto a quella
dei gruppi o dei singoli parlamentari: i disegni di legge aventi oggetto prevalentemente
tributario, o che hanno ricadute significative sui tributi, sono principalmente di iniziativa
governativa.
Durante il procedimento di approvazione del disegno di legge il Governo è presente
con i suoi rappresentanti sull’iter parlamentare, soprattutto per verificare gli effetti
che gli emendamenti parlamentari al disegno di legge possono comportare. Il parere
del Governo a volte ha finalità essenzialmente tecniche, ma più spesso è ispirato
dalla necessità di assicurare l’invariabilità dei saldi di bilancio e, nelle leggi di
manovra annuale la conservazione dei risultati complessivi ai quali la manovra si
ispira; questo anche in esecuzione dell’art. 81 Cost., per il quale ogni spesa deve
indicare modalità di copertura.
L’ iter legislativo ordinario però è lungo, complesso e denso di insidie politiche dal
momento che spesso la stessa maggioranza di Governo non è stabile ed è
articolata al suo interno in diversi indirizzi tra loro; a tutto ciò si deve aggiungere il
fatto che la principale legge ordinaria che dispone sui tributi è quella di manovra per
l’anno successivo, ed essa viene approvata dal Parlamento sotto la pressione
dell’approssimarsi della fine dell’anno, che segna il momento in cui la legge deve
essere promulgata. Con l’avvicinarsi della scadenza, il Governo può avere la
tentazione di sottoporre al Parlamento un maxiemendamento, basato di solito su un
unico articolo contenente le diverse disposizioni distribuite nel progetto legislativo
ordinario, che viene votato in blocco, eventualmente insieme ad un voto di fiducia,
che preclude un serio esame dei contenuti del maxiemendamento. Questo accade
dopo che l’istruttoria delle commissioni parlamentari tecniche ha analizzato e
modificato una serie di norme che, nel maxiemendamento, non si ritrovano più. È
evidente che questo aspetto critico della produzione delle norme tributarie deriva
anche da aspetti istituzionali più generali, come la crisi del ruolo del Parlamento; il
Governo diffida dal Parlamento dal momento che in esso prevalgono spesso
tecniche ostruzionistiche piuttosto che un lavoro costruttivo sui contenuti e la riserva
ex art. 23 Cost. si riduce ad un simulacro formale nel momento in cui il
maxiemendamento viene imposto dall’esecutivo, votato in blocco in base a fiducia e
non rispecchia le valutazioni espresse in precedenza del Parlamento.
Il risultato è poi ingestibile in termini di reperimento e leggibilità delle norme: la
prassi dell’accorpamento in un unico articolo comporta che gli utenti dovranno
individuare nei magari 1000 commi dell’articolo, quali disposizioni tributarie entrino
in vigore.
Inoltre, dopo la costituzione delle agenzie fiscali, è emerso un nuovo problema: non
di rado la disposizione di legge, approvata in modi sommari, è solo formalmente
proposta dal Governo (in particolare dal Ministero dell’Economia e delle Finanze),
ma è in realtà pensata e redatta dalle agenzie, e può avere una funzione
essenzialmente dedicata alla risoluzione di problemi di gestione amministrativa del
tributo, che dovrebbero essere preventivamente vagliati da un punto di vista più
generale → in questo modo diventa norma di legge vigente e vincolante per i giudici
un articolato che sarebbe stato meglio collocare in una circolare, o in un atto interno
dell’amministrazione, ad esempio.
Norme tributarie non si trovano solo nelle leggi di manovra, che a ben vedere non
dovrebbero avere contenuto ordinamentale, ma solo misure destinate a incidere
quantitativamente sul gettito; esse sono spesso inserite nelle leggi che regolano i settori
più vari, ma il loro contenuto può andare oltre il contesto in cui sono collocate e, se non
adeguatamente segnalate, sono di difficile reperibilità e conoscibilità, se non dagli
operatori del settore.
Il disordine applicativo e gli alibi per sottrarsi all’obbligo di contribuzione nascono prima di
tutto da un disordine normativo che svaluta il valore della norma e che dipende da molti
elementi:
Fattore quantitativo, che prescinde dal grado gerarchico delle disposizioni : la
quantità delle norme prodotte, che contribuenti e operatori dovrebbero conoscere è
eccessiva e la rapidità della loro successione scoraggia qualsiasi serio tentativo di
approfondimento (vd. 2011/2012). Se non si prende coscienza di questo, anche
riforme positive nei contenuti diventeranno controproducenti, se non è preparata
con sufficiente attenzione la loro caduta sull’ordinamento preesistente.
Eccessiva ampiezza della riserva: si assiste, soprattuto nell’ambito dei tributi di
comune e provincia, ad una persistente ed assoluta prevalenza delle norme di
legge, rispetto alla fonte regolamentare che potrebbe garantire l’espressione di
un’effettiva autonomia dell’ente locale. La preoccupazione di uniformità è talmente
dilagante da rendere pressoché inesistente il potere di disciplina degli aspetti non
strutturali del tributo.
Spesso la legge, prodotta in gran fretta e frutto di un’idea della pubblica
amministrazione, che nessuno è in grado di filtrare, tace su aspetti essenziali,
lasciando uno spazio eccessivo a provvedimenti amministrativi destinati a regolare
aspetti essenziali della disciplina.
Ad esempio: non c’è dubbio che la materia della ripartizione delle competenze tra i
singoli uffici dell'amministrazione finanziaria possa essere disciplinata dalla legge
nelle sole linee essenziali, lasciando ampio spazio a norme
regolamentari, ma un impatto diretto sui contribuenti e sulle forme di tutela non può
essere lasciato a regolamenti o provvedimenti direttoriali, che non siano provvisti di
una certa base normativa. Nonostante ciò si assiste, nell’ambito delle agenzie, alla
modificazione di regole sulla competenza degli uffici giustificate dal regolamento di
amministrazione dell’ente stesso, che magari a sua volta, delega ad intervenire con
un atto monocratico il Direttore dell’agenzia stessa. Le regole modificate spesso
hanno una base di legge e la delegificazione non sembra legittimata dalla sola
normativa interna dell’ente.
A volte la normativa è talmente sbrigativa e sciatta da rendere necessaria la
fissazione di regole applicative da parte dell’Amministrazione, che non sempre
sono coerenti con la disciplina legale e comunque fissano condizioni e
adempimenti tutt’altro che impliciti sulla base del testo di legge. Quel che è peggio
è che la disciplina integrativa a cura dell’amministrazione non è fissata da atti tipici,
come regolamenti o provvedimenti amministrativi, ma discende direttamente da
circolari (→ non sono fonti del diritto!).
Che effetto vincolante sui contribuenti possono avere queste norme di fatto?
Un caso emblematico è dato da quel work in progress che da oltre 10 anni discende
dalle norme sulla rivalutazione dei terreni edificabili: una disciplina legislativa
essenziale è sovrastata da una quantità di regole applicative dalle quali dipende il
riconoscimento o meno del beneficio, dettate esclusivamente con circolari.
Norme sostanzialmente inutili: ad esempio, quelle che hanno l’esclusiva funzione di
rassicurare l’apparato amministrativo, stabilendo una copertura legislativa per
adottare prassi che potrebbero essere tranquillamente disciplinate a livello interno.
NB. Modi e limiti con i quali la legislazione prodotta in occasione delle manovre finanziarie
può incidere sulla disciplina dei tributi e sulle tecniche di accertamento, riscossione e
tutela: riflettendo sulle gravi carenze nei procedimenti di formazione di queste norme, non
è per nulla scontata una risposta positiva:
L’ emergenza finanziaria giustifica aumenti del prelievo (=l’emanazione in forma
urgente di norme che modificano l’entità del tributo), ma non è per nulla scontato
che il recupero del gettito debba avvenire con modifiche sistematiche della
disciplina di un tributo, che andrebbero riservate a provvedimenti emanati con
maggiore ponderazione e adeguata istruttoria parlamentare. Al costo
dell’inasprimento fiscale non dovrebbe infatti andare sommato quello derivante dal
costo amministrativo di gestione della sovrapposizione di modifiche tumultuose,
dalle conseguenti incertezze interpretative, dalla necessità di rivedere la
pianificazione fiscale.
Modifiche ordinamentali sul tema del rapporto tra fisco e contribuente , in particolare
con riferimento a garanzie e tutele: non si può discutere la discrezionalità del
legislatore nel modificare, anche in occasione di manovre, le regole
sull’accertamento e sul processo, ma non è scontato il limite che quest’opera può
incontrare → è concepibile che sia previsto un aumento di gettito, per effetto di una
maggiore efficacia dell’azione di controllo, ma spesso si ha l’impressione che
l’inasprimento miri a rendere più difficile la tutela del contribuente. È una riflessione
che ha un esito non scontato, ma che è necessaria: non si pone in termini di stretta
legalità costituzionale, ma coinvolge un profilo politico, di affidabilità
dell’ordinamento e di correttezza del rapporto cittadino/stato. La materia imponibile
non può provenire dalla difficoltà di difesa del contribuente, dallo squilibrio delle
posizioni e delle garanzie normative, ma dall’efficacia dell’azione accertatrice → un
principio ispiratore delle leggi ‘finanziarie’ è sempre stato quello di non poter
accogliere norme di carattere ordinamentale; si tratta di stabilire se il solo fatto di
poter prevedere un gettito in base ad una modifica ordinamentale renda
compatibile quest’ultima con la legislazione di manovra finanziaria.
Carattere spesso criptico delle norme tributarie : il testo della singola disposizione è
spesso avulso da quello delle norme che la circondano, con l’effetto di un
impossibile coordinamento sistematico; inoltre l’esistenza di messaggio politico
spesso deforma i contenuti della norma. Si potrebbe pensare che si tratti di un
inconveniente marginale, ma ci si deve chiedere quale affidabilità dia un
ordinamento tributario in cui il termine di decadenza è variabile, in funzione di un
apprezzamento delicato come quello della ricorrenza di fatti-reato, in cui
l’accertamento risulti unitario ed integrabile solo in casi particolari, salvo scoprire
poi che questa regola non opera se l’accertamento è parziale e che parziale può
essere definito qualsiasi accertamento, in base alla discrezionale valutazione
dell’autorità emanante.
Abbiamo così in materia tributaria, i fenomeni della norma ipocrita, della norma
ambigua, della norma contraddittoria, della norma propagandistica, ma soprattuto
della norma che, volutamente o meno, sembra ignorare il tessuto normativo e le
prassi operative su cui va ad incidere.
È ovvio che questa grave incongruenza è frutto di un procedimento legislativo
troppo affrettato e carente e vede troppo preminente e non filtrata la posizione delle
agenzie fiscali.
Così, ad esempio, la comunità dei consociati finanzia con le imposte l'esistenza degli
apparati giudiziari, perché è interesse di tutti che una collettività pubblica abbia un sistema
di giustizia efficiente. In tal caso, il riparto avviene in base al principio di capacità
contributiva. Ma pare corretto che questa forma di finanziamento non copra tutte le spese
necessarie, e che una quota della spesa venga invece ripartita tra coloro che accedono
direttamente al servizio, in maniera che chi trae utilità diretta dalle prestazioni sia
chiamato a contribuire per un differenziale, rispetto alle imposte già eventualmente
pagate, proporzionato alla sua utilità.
II. L'altro elemento portante di ogni tributo è l’elemento soggettivo, il quale dal lato passivo
implica la scelta dei soggetti sui quali l’obbligo di contribuzione deve gravare, in
dipendenza del fatto che essi realizzino il presupposto.
La questione della soggettività si pone innanzitutto su un piano generale, comune a tutti i
tributi: qual è l’ambito di autonomia che un soggetto deve avere per poter rivestire la
qualifica di soggetto passivo del tributo?
La scelta di tutti gli ordinamenti è di considerare soggetti passivi idonei alla contribuzione
non solo persone fisiche, ma anche enti di vario tipo, associativi o meno, commerciali o
meno: ci sono forme di ricchezza che possono essere costantemente gestite da enti e
sarebbe assurdo sottrarle a tassazione solo perché non riferibili a persone fisiche.
Si pone invece il problema di imputare la capacità contributiva all’ente o alle persone
fisiche che ne sono gli ispiratori e proprietari, problema che si articola nel dubbio se
risolvere la questione sulla base di criteri di diritto comune, come quelli che detta il c.c
quando disciplina autonomia patrimoniale e responsabilità ad esempio di associazioni
riconosciute e non riconosciute, di società di persone, di capitali, dei patrimoni separati di
persone fisiche o di imprese.
In generale l’ordinamento tributario non ignora e anzi in larga parte recepisce la disciplina
di diritto comune, per cui larga parte dell’assetto dei rapporti patrimoniali regolato dal
codice civile è utilizzabile anche nel diritto tributario; tuttavia la dipendenza del diritto
tributario dal diritto comune non è assoluta, ad esempio, tra le norme fondamentali del
nostro ordinamento, l’art. 73 TUIR (testo unico imposte sui redditi) prevede, a proposito
dell’imposta sulle società, che in realtà colpisce gran parte degli enti, che si considera
comunque soggetto passivo ogni ente, diverso dalle società, che abbia autonomia
decisionale (non appartenga ad altri) e patrimoniale (ossia capacità di ricevere
l'imputazione degli effetti economici che derivano dal fatto presupposto, che rispetto ad
essi si può considerare verificato in modo unitario e autonomo).
L’ ordinamento tributario inoltre è mosso dalla preoccupazione che strutture entificate
abbiano non un’autonoma e genuina ragion d’essere, ma siano semplicemente create per
allontanare dalla tassazione persone fisiche o altri enti, che sono i reali detentori della
ricchezza o del fatto economico che il tributo intende colpire:
nel diritto dei trattati tributari: spesso si va alla ricerca del ‘beneficiario effettivo’ per
superare forme di interposizione ravvisabili quando, ad esempio, l’entificazione è
qualificabile in termini di costruzione di puro artificio.
nel diritto interno: nell’imposta sul valore aggiunto è negata la soggettività passiva
a quegli enti che, pur essendo costituiti in forma di società commerciale, risultino
essere preordinati a permettere il puro godimento, da parte dei soci, di alcuni beni o
servizi.
A parte questo problema generale, ogni tributo deve identificare quali siano i soggetti
passivi che, per la relazione che hanno con il presupposto, sono tenuti alla contribuzione
conseguente.
La soggettività passiva deve essere coerente con l’elemento oggettivo del tributo, il fatto
imponibile: se l’imposta patrimoniale è logicamente addebitata a chi abbia la titolarità di
diritti reali sul cespite patrimoniale colpito dal tributo è altrettanto logico che l’imposta sulla
raccolta dei rifiuti spetti al conduttore dell’immobile, poiché in tale tributo non rileva più la
titolarità giuridica del bene, quanto la fruizione del servizio, che certamente va ravvisata
solo in capi a chi, vivendo nell’immobile, potenzialmente produce rifiuti.
La soggettività passiva, che non può essere attribuita da fonti regolamentari, non sempre
è esplicitata con trasparenza dalla legge, che spesso indica come obbligati alla
contribuzione soggetti passivi che in effetti non sono o non sono soltanto i titolari della
capacità contributiva colpita dal tributo.
➔ IVA: è ormai pacifico, sia in dottrina sia in giurisprudenza, che si tratti di un tributo
sul consumo (o quanto meno, sulla fase di immissione al consumo), ma nelle fonti
sull’IVA del consumatore finale non si parla, o comunque non gli si attribuiscono né
obblighi, né diritti. I soggetti passivi del tributo individuati nei testi di legge sono altri,
spesso del tutto estranei alla capacità contributiva, e solo ad essi fanno capo diritti
ed obblighi, ma il peso economico del tributo è senza dubbio gravante sui
consumatori finali, qualunque sia la loro veste giuridica.
In questi casi infatti abbiamo due gradini di tassazione: la tassazione effettiva
colpisce un soggetto, ma in modo tale che essa spesso non sia palese, perché
assorbita all’interno di un prezzo complessivo del bene o servizio acquistato, che
comprende anche il tributo.
Il meccanismo, con le dovute differenze, si ripete a proposito di diversi tributi,
soprattutto sul consumo, come le accise, le imposte sugli intrattenimenti e sui
giochi.
La ragione per cui il legislatore stabilisce obblighi tributari su soggetti diversi da quelli
effettivamente incisi economicamente dal tributo è basata su diverse considerazioni:
• Funzionalità dell’accertamento e della riscossione: sono più semplici se il fisco ha come
interlocutori pochi soggetti che non hanno interesse ad occultare il tributo, piuttosto che
una molteplicità di soggetti che non solo più facilmente possono sfuggire, ma che hanno
anche una consistenza patrimoniale molto più incerta;
• Aspetto politico di una minore percezione della tassazione, quando è inglobata nel
prezzo: il meccanismo è talmente funzionale che viene adottato anche in molte
fattispecie di imposizione sul reddito quando la legge prevede la sostituzione al vero
soggetto passivo titolare del reddito, di un altro soggetto, obbligato a versare il tributo al
posto del contribuente, avendo l’obbligo di rivalersi su di lui.
Il meccanismo della sostituzione e delle ritenute è molto diffuso e rappresenta, insieme
alle imposte sui consumi e altri casi nei quali si attribuisce l’obbligo principale di
pagamento ad un responsabile del tributo, quella forma di tassazione denominata
mediante rivalsa o mediante traslazione: il soggetto che paga il tributo è diverso da quello
principalmente titolare della capacità contributiva, che subisce la tassazione solo
indirettamente, attraverso il ri-addebito dell’imposta nei suoi confronti, e quindi pagando
un prezzo che comprende anche l’imposta anticipata o comunque dovuta dal soggetto
previsto dalla legge.
La legge tributaria sfrutta quindi rapporti di diritto comune e individua come obbligato chi
non ha interesse a sottrarsi alla tassazione (→ perché non paga con risorse proprie); si
parla di:
a. Rivalsa (che a sua volta può essere obbligatoria per legge o facoltativa), se il
rapporto interno tra i soggetti passivi ha disciplina nella legge tributaria;
b. Traslazione del peso del tributo, se il fenomeno rimane in un ambito puramente
economico.
La riscossione dei tributi, e in generale delle entrate statali, in particolare quella coattiva,
dal 2005 è affidata ad Equitalia, una società pubblica (→non più esattori privati), modellata
sullo schema dell’in house providing (che consente di affidare il servizio alla società che
sia emanazione di enti pubblici, avendo da questi ultimi un'autonomia molto limitata),
partecipata solo dall’Agenzia delle entrate e dall’Istituto nazionale per la previdenza
sociale. Dal 1 luglio 2017 la riscossione sarà curata da un ente pubblico economico,
l’Agenzia delle entrate-riscossione.
➔ Lo schema dell’in house non può trovare applicazione se non in via transitoria
quando i committenti sono enti pubblici estranei alla proprietà di Equitalia, per cui
gli enti locali e gli altri enti pubblici in attesa di una legislazione che riformi in modo
organico questo settore o gestiscono direttamente le proprie procedure di
riscossione o le affidano, previa gara pubblica, a soggetti privati previamente iscritti
ad un albo nazionale che riunisce i concessionari della riscossione dotati di una
serie di garanzie di affidabilità patrimoniale e morale.
La potestà normativa può essere ripartita, nel caso dei tributi della fiscalità regionale e
locale, tra diversi livelli di governo, che difficilmente fanno a meno di una previsione di
base contenuta in una legge statale; si deve sottolineare che diverse leggi speciali
prevedono la partecipazione attiva di diversi soggetti ai moduli applicativi dei singoli tributi:
• SOGEI: società a partecipazione pubblica, che cura la parte anagrafica e informatica
della gestione dei tributi.
• SOSE: cura la predisposizione degli studi di settore con i quali si creano le premesse
per verificare il dato normale di ricavi che una certa entità economica dovrebbe produrre
in base alle sue caratteristiche di esercizio dell’attività.
• Guardia di Finanza: è organo militare fondamentale per coadiuvare le agenzie fiscali
nell’accertamento, nel controllo e nella prevenzione e repressione degli illeciti tributari.
Nell’apparato statale non c’è un ministero che si occupa esclusivamente di tributi,
come accadeva quando le competenze sulla finanza pubblica erano ripartite tra: -
ministero delle finanza → competente sulle entrate; - ministero del tesoro → preposto
alla spesa.
Le funzioni sono svolte da ripartizioni interne del ministero dell’Economia e delle finanze,
cui è preposto un vice ministro o un sottosegretario, anche se in questo contesto il
dipartimento delle finanze attua una politica più di studio e progettazione dell’ordinamento
tributario che non di gestione attiva dei tributi: i suoi unici interventi interpretativi si limitano
alla fiscalità locale, mentre i compiti interpretativi sui tributi statali sono attualmente svolti
esclusivamente dalle agenzie fiscali.
IV.Occorre poi definire gli elementi idonei a determinare il peso del tributo per ogni
contribuente.
Il primo elemento fondamentale è la base imponibile, cioè la misurazione in termini
economici del fatto imponibile, che sarà assunto come base di applicazione del tasso di
imposta, o aliquota, che è la percentuale di prelievo che verrà applicata sulla ricchezza
misurata attraverso la disciplina della base imponibile.
Infatti, una volta identificato il fatto presupposto, diversi possono essere i criteri per
stabilire in che misura quel fatto si debba considerare espressione di ricchezza tassabile;
tali criteri possono essere molto semplici e immediati, o possono giungere ad una
complessità che rende necessari non solo molti articoli di legge e di regolamento, ma
anche l’emanazione di atti generali, magari a contenuto tecnico.
➔ Esempio: in un’imposta sul reddito le regole sulla base imponibile devono chiarire
come si determina il reddito tassabile, cioè da assoggettare a tassazione nella
misura percentuale prevista dalla legge; si tratterà dunque tendenzialmente di
regole complesse, poiché la base imponibile non sarà composta solo da elementi
positivi, ma la risultante di una somma algebrica che darà rilevanza anche a
elementi negativi di spesa.
In una imposta sui consumi, occorrerà stabilire se, oltre al corrispettivo, dovrà essere
assoggettata ad imposta anche qualche altro elemento accessorio.
Un’ulteriore questione che si pone al legislatore tributario è la conversione in un valore
economico espresso in moneta corrente di indici economici aventi differente espressione
originaria; ad esempio in tutti i casi in cui il fatto imponibile riconduce a:
- compensi percepiti in natura → beni o servizi;
- elementi di valore indeterminato;
- compensi espressi in valuta diversa da quella corrente.
La trasformazione di questi valore in base imponibile quantificata in moneta corrente non
può non essere regolata dalla legge, così come ci sono casi in cui la base imponibile non
viene ricondotta all’effettivo valore economico del fatto posto in essere, ma al suo valore di
mercato (valore normale).
A volte prevalgono esigenze di semplificazione, che pongono contribuenti e
amministrazioni in grado di non imbattersi in difficili ricostruzioni del valore economico di
un fatto, ma di avere certezza a priori su quella che sarà la base imponibile del tributo.
Non viene tradita la capacità contributiva perché il criterio deve essere sempre
ragionevole, ma piuttosto che perseguire un’estrema precisione e analiticità si preferisce
fare ricorso a metodologie più rozze, ma meno complesse e in grado di evitare contenziosi
lunghi e di esito non prevedibile; sono ispirate a questa logica diverse disposizioni di
legge, che, nei diversi tributi, stabiliscono la base imponibile su basi forfettarie: il sistema
catastale è ispirato a questi criteri, definendo il reddito ‘medio ordinario ritraibile’ dalla
singola unità immobiliare.
➔ Per la base imponibile: il principio della riserva di legge conferma la sua relatività,
essendo frequente che la legge non copra nel dettaglio tutte le diverse voci da
prevedere in considerazione nella determinazione della base imponibile,
disciplinate poi da regolamenti e anche da atti generali.
V. Aliquota
Sancisce la percentuale di prelievo che viene applicata sulla grandezza economica
identificata come base imponibile.
Un’aliquota stabile, anche al variare della base imponibile, identifica un’imposta
proporzionale, che mantiene cioè costante l’incidenza del prelievo sul fatto imponibile → il
contribuente paga più o meno in funzione della grandezza dell’imponibile, ma tutti si
vedono prelevata dal fisco la stessa proporzione di disponibilità economica.
➔ art. 53 co. 2: il sistema tributario deve essere informato a criteri di progressività,
risultato che può dirsi raggiunto quando una o più delle imposte caratterizzanti
l’ordinamento sono ispirate a tassazione progressiva, che è attuata con la
previsione di aliquote crescenti, al crescere della base imponibile.
Ovviamente non può essere realizzata una progressività costante e continua, che
aumenti l’aliquota per ogni variazione in aumento dell’imponibile, per cui devono
essere stabilite delle fasce di imponibile, al cui interno tutti gli importi avranno la
stessa tassazione; è una scelta discrezionale del legislatore, che solo come
valutazione di ragionevolezza può essere sindacata.
Dal 1973 in Italia, l’IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche) è fortemente
progressiva, ed è basata su una progressività per scaglioni, in cui il passaggio allo
scaglione successivo non determina l’applicazione della maggiore aliquota sull’intero
imponibile, comprensivo dello scaglione precedente, ma solo dell’imponibile incrementale.
Sono meno frequenti, ma si riscontrano spesso in imposte e tasse minori, ipotesi di
tassazione basate su importi fissi, anziché su aliquote percentuali; in questi casi
l’individuazione di una base imponibile può essere molto elementare o anche mancare.
➔ Aliquota: rispetto alla riserva di legge deve trovare una disciplina di legge
sicuramente quanto al limite massimo, e probabilmente anche quanto al limite
minimo, in mancanza del quale la fonte regolamentare potrebbe anche escludere
l’applicazione del tributo, prevedendo un’aliquota pari a zero o comunque
meramente figurativa.
VIII. Anche nell’attuazione di un tributo esiste la necessità di definire chi fa cosa e quando.
La disciplina del tributo deve avere, in parte in atti con forza di legge, in parte di atti
regolamentari e/o amministrativi generali, una serie di norme che stabiliscono come
debbano avvenire l’accertamento e la riscossione del tributo:
a. Accertamento: quelle attività e quegli atti, in parte del contribuente, in parte dell’ente
impositore e in parte affidate a terzi, attraverso i quali si individua se e in che misura gli
elementi costitutivi del tributo si siano verificati a carico di quale soggetto passivo e se
sussistano elementi di attenuazione del prelievo.
b. Liquidazione dell’imposta dovuta: ottenuta una determinazione della base imponibile
riferibile ad un fatto presupposto, a carico di un determinato soggetto passivo, si deve
stabilire quale sia l’effettiva misura del tributo da pagare, attraverso quest’attività, che
non sempre è chiaramente distinta da quella di accertamento.
c. Riscossione del tributo: occorre poi che siano stabiliti modi e tempi del pagamento
del dovuto.
Nello stabilire questi aspetti la normativa tributaria deve tendere conto di vari profili
rilevanti, ad esempio, è fondamentale che vengano fissati dei tempi rigidi per provvedere a
quanto necessario, in modo che i flussi di gettito siano assicurati con continuità e in modo
tendenzialmente stabile. Ci sono poi numerose e confliggenti esigenze di cui il legislatore
deve tenere conto; ad esempio, al contribuente o a terzi possono essere richiesti
adempimenti di complessità proporzionale alla loro capacità organizzativa, che diventano
prestazioni imposte; inoltre si deve valutare se l’amministrazione possa avere un ruolo
attivo in ogni fase o se debba limitarsi prima ad indirizzare, poi a controllare gli
adempimenti del contribuente.
Questo spiega la difficoltà di fissare in una legge generale, o in un codice, un modulo
applicativo unitario, costituito da regole applicabili alla generalità dei tributi.
Le stesse fasi dell’accertamento e della riscossione si combinano e intrecciano in modo
più variabile di quanto si possa pensare: se concettualmente, prima di riscuotere, sembra
necessario determinare il dovuto, l’esigenza di non allontanare troppo il momento
dell’adempimento da quello della verificazione dell’indice di capacità contributiva impone
spesso scelte diverse, ossia il progredire simultaneo dell’accertamento e della riscossione,
attraverso fasi provvisorie, anche di lunga durata, attraverso le quali il dovuto dovrebbe
essere conclusivamente accertato e riscosso.
Può però accadere che tra riscosso e dovuto non vi sia coincidenza e che il riscosso
possa essere inferiore, o superiore, a quanto effettivamente dovuto.
Nelle imposte periodiche la complessità delle fasi attuative è massima; anche perché
comporta un’inevitabile commistione di schemi privatistici e pubblicistici: se il tributo si
traduce sempre in un trasferimento di somme di denaro dal contribuente all’ente
impositore, è naturale che abbia una parte di disciplina modellata, in grandi linee, sul
concetto civilistico di obbligazione; così come è difficile che la legge possa fare a meno di
disciplinare in termini più o meno autoritativi il rapporto tra ente pubblico impositore e
soggetti obbligati al pagamento e ad altri adempimenti. NB. È usuale che a queste fasi
partecipino sia il contribuente o altri soggetti passivi, sia l’ente pubblico titolare del gettito
o altro soggetto investito di responsabilità pubbliche, designato dal primo in base a criteri
di legge.
Le fasi, così come le relazioni tra soggetti, possono essere molto complesse, ma l’avvento
di un sistema di fiscalità di massa ha imposto la prevalenza di uno schema attuativo
modellato sull’adempimento spontaneo del contribuente, che garantisce in genere il gettito
necessario e sul successivo controllo da parte delle amministrazioni preposte → solo dal
2015 l’ordinamento mostra segni di modernizzazione e tende a superare la rigida
separazione tra il momento di spontanea applicazione da parte del contribuente e
momento di controllo.
IX. Identificazione di un sistema di forme di tutela.
Abbiamo definito lo schema del tributo individuando:
- Fatti costitutivi della prestazione;
- Profili soggettivi;
- Ambiti agevolati;
- Sanzioni;
- Modalità attuative.
Manca solo l’identificazione di un sistema di forme di tutela, che possa essere effettuata
anche solo individuando quale sia la giurisdizione competente.
➔ La legge istitutiva di un tributo può limitarsi a chiarire quale sia il giudice competente
per la risoluzione delle controversie, se vi siano forme di tutela precontenziose o
paracontenziose. Se viene scelta la devoluzione al giudice civile o al giudice
amministrativo saranno applicabili le norme previste in generale come regolatrici di
questo tipo di processo, senza necessità di una disciplina ad hoc.
La definizione della giurisdizione competente è risolta a monte dalla normativa
regolatrice del processo tributario, che devolve ad una giurisdizione speciale le
controversie relative a tributi di ogni genere e specie; questo consente di ritenere
devolute alla giurisdizione tributaria le controversie ogni volta sia possibile stabilire
che esse traggono origine dall’attuazione di un tributo.
Vi è poi un complesso normativo che regola il processo tributario in modo unitario:
le regole procedurali sono di generale applicazione, qualunque sia il tributo di cui si
discute, salvo casi specifici in cui alcune esigenze possono condurre a introdurre
singole disposizioni derogatorie delle regole generali.
Da circa un decennio la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è orientata nel
senso di attribuire alla giurisdizione esclusiva delle commissioni tributarie tutte le
controversie relative a tributi, qualunque ne sia la natura: le commissioni decidono
non solo in materia di an e quantum del tributo, ma anche su ogni altro aspetto
dell’attuazione del tributo, a prescindere dall’individuazione di quale sia la
situazione giuridica tutelata.
Quando due tributi interferiscono tra loro o comunque toccano fatti indice comuni si pone il
problema se uno dei due tributi pagati possa essere considerato deducibile dalla base
imponibile dell’altro tributo, cosa che è generalmente esclusa quando i soggetti attivi dei
due tributi sono diversi.
Rispetto alle ipotesi di concorso di più tributi su imponibili omogenei, o di tributi
commisurati ad altre imposte, il caso del tributo sostitutivo ha una logica del tutto diversa:
esso ricorre quando, per finalità agevolative in senso ampio, alcune ipotesi che potrebbero
essere ricomprese nell’applicazione di un tributo vengono assoggettate ad una disciplina
diversa, che ha la funzione di sostituirsi a quella che sarebbe stata applicabile.
La finalità dell’imposta sostitutiva è dunque agevolativa in senso ampio e ciò significa che
in termini di quantità di imposta da pagare non sempre il regime sostitutivo è vantaggioso
(e infatti talora la sua applicazione è rimessa all’opzione del contribuente), anche se in
genere vi è il vantaggio di un meccanismo semplificato.
Il caso descritto, rispetto ad alcuni redditi, rappresenta un’ipotesi in cui il tributo sostitutivo
non è del tutto autonomo rispetto al tributo sostituito, dal momento che assume a fatto
imponibile la percezione di redditi di capitale, cioè fattispecie considerate nell’ambito
dell’imposta sostituita, ma ci sono anche casi in cui una pluralità di imposte è sostituita da
un tributo che assume presupposto e basi imponibili del tutto autonome.
NB. Non possono considerarsi tributi sostitutivi i regimi speciali destinati ad applicarsi ad
alcune ipotesi rientranti nella disciplina di un tributo, senza però realizzare una disciplina
autonomia. Altre volte, parte della disciplina di tributi è mutuata dalla disciplina di altre
imposte con cui normalmente vi è un’applicazione coordinata e contestuale.
Ci sono infine dei casi in cui un tributo è assorbito in un altro, limitatamente ad alcune
fattispecie imponibili, ma con effetto limitato alla disciplina applicativa → i due tributi
coesistono, ma ragioni pratiche e di semplificazione fanno sì che uno dei due venga
applicato secondo le regole previste per l’altro, anche se sono diverse dalle regole
proprie; vd. IVA sulle importazioni è applicata in dogana insieme ai dazi doganali e perde
la sua autonomia procedimentale, anche se resta un prelievo distinto che non si confonde
con quello doganale, ma i soggetti passivi del tributo doganale, quando applicano
quest'ultimo, avranno l'obbligo di considerare anche le modalità di applicazione dell'IVA.
Il limite è difficile da individuare, ed è sempre opinabile, cioè variabile dal punto di vista in
base al quale le combinazioni di atti sono studiate: si va alla ricerca di una tassazione
‘normale’ dati i requisiti soggettivi e oggettivi del contribuente e si valuta se quanto posto
in essere per avere un risparmio di imposta rispetto al livello normale, meriti o meno
riprovazione dall’ordinamento fiscale.
La riprovazione è difficile perché il contribuente in questo contesto non viola nessuna
specifica disposizione e dà vita ad un assetto di rapporti giuridici in genere del tutto valido
ed efficace nel diritto comune, per cui occorre anche stabilire se le contromisure fiscali
debbano limitarsi a tale campo o travolgere tutta l’attività negoziale finalizzata al risparmio
fiscale.
Si deve dunque fissare un limite alla ricerca del risparmio fiscale e stabilire se, quando
esso viene oltrepassato, le conseguenze debbano essere circoscritte al recupero
dell’imposta o se si creino le condizioni per una punibilità in sede amministrativa o penale
dei comportamenti ingiustificati. Fino alla fine degli anni ’80 l’ordinamento italiano,
diversamente da altri, ha evitato di prevedere clausole generali anti-abuso e ha affidato la
prevenzione di tali prassi ad una serie di norme anti elusive specifiche (=volte a prevenire
comportamenti prevedibilmente elusivi): il legislatore individua preventivamente
comportamenti che possono condurre i contribuenti ad evitare alcuni aspetti
dell’applicazione dei tributi, o a inserirsi strumentalmente nell'ambito di applicazione di
norme agevolative pensate per altre situazioni, e detta contromisure normative che
neutralizzano gli aggiramenti individuati e previsti.
Resta il fatto che il legislatore non riesce mai a prevenire l’universo dei comportamenti di
inaccettabile pianificazione fiscale e non ha trovato consenso generale la proposta di
parte della dottrina di considerare idoneo rimedio la normativa civilistica sul negozio in
frode alla legge. Negli anni ’90 per questo sono state introdotte disposizioni anti-elusione
di carattere più ampio, imperniate sull’inopponibilità all’amministrazione finanziaria di
comportamenti finalizzati ad ottenere vantaggi fiscali indebiti, non riconducibili alla
fisiologica applicazione delle norme tributarie, che risultassero privi di valide ragioni
economiche diverse da quelle del risparmio di imposta.
L’ accertamento di questi comportamenti è stato circondato da particolari cautele sotto il
profilo di:
contraddittorio preventivo;
motivazione dell’atto;
attenuazione della normale esecutorietà dell’atto di accertamento;
con la possibilità di interpello preventivo dell’amministrazione, con cui il
contribuente ha la possibilità di conoscere anticipatamente se alcune sue scelte
organizzative, economiche e negoziali saranno considerate elusive
dall’amministrazione finanziaria.
Contestualmente all’introduzione di una disposizione anti-elusione quasi generale è stato
previsto che, quando un contribuente non possa applicare deduzioni, detrazioni o crediti di
imposta per effetto di specifiche norme a finalità anti-elusiva, possa presentare un’istanza
(=interpello disapplicativo) con cui chiede all’amministrazione finanziaria di riconoscere
che gli effetti elusivi previsti dalla norma inibitoria o limitatrice nello specifico caso non
possono verificarsi e per l’effetto consentire, attraverso la disapplicazione di tale norma, di
fruire dell’elemento favorevole (detrazione, deduzione, credito) che la norma a finalità anti-
elusiva nega alla genialità degli altri contribuenti.
La disposizione antielusiva peraltro è stata collocata nel d.p.r. 600/1973 (→ accertamento
delle imposte sui redditi) e ha individuato solo alcune aree della fiscalità, soprattutto
societaria, come ambito di applicazione della clausola antielusione, lasciando aperto il
problema di come pervenire a risultati analoghi, anche al di fuori di questo perimetro
applicativo.
➔ La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è fatta carico di porre rimedio a
queste insufficienze, elaborando diversi criteri di valutazione della tollerabilità dei
risparmi di imposta; alcuni dei quali portano però ad una sovrapposizione con le
norme antievasione.
Nel 2006, in tema di IVA, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha stabilito la generale
inopponibilità all’amministrazione di forme di abuso del diritto, anche nei casi in cui
nessuna specifica disposizione di legge risultasse violata, ma senza effetti sanzionatori sul
contribuente.
A fronte di un fenomeno di evasione/elusione molto ampio, che caratterizza da sempre
l’Italia, la giurisprudenza di cassazione ha esasperato gli spunti provenienti dall’Europa, e
quella che doveva essere una soluzione di carattere residuale è diventata una sorta di
condizione immanente ad ogni comportamento tributario, suscettibile di condurre, con una
valutazione ex post che il giudice ha ritenuto di poter compiere anche laddove la
contestazione dell’abuso del diritto o dell’elusione non fosse stata effettuata
dall’amministrazione nei propri atti impositivi.
➔ 2008: le SU hanno precisato che l’abuso del diritto, affiancandosi alla norma
antielusiva per i casi non coperti da questa, non trova fondamento solo nel diritto
europeo (→altrimenti sarebbe stata applicabile solo alle imposte armonizzate a
livello UE), ma nella stessa Costituzione, nel dovere di contribuzione ex art. 53.
La Cassazione quindi ha voluto stabilire che a fronte di comportamenti indirizzati a
non pagare le imposte dovute, eludendo o sfruttando la normativa vigente,
conseguendo l’effetto di collocarsi impropriamente nella sfera di applicazione di
regimi non naturalmente pertinenti alla situazione effettivamente posta in essere,
pur non essendo violata alcuna disposizione di legge, viene violato l’art. 53 Cost.,
che ha diretta efficacia precettiva nei confronti del contribuente; sono quindi
applicabili le sanzioni, sia penali sia amministrative, al ricorrere delle condizioni.
NB: Quest’affermazione giurisprudenziale ha:
• Pro: il merito di aver stabilito una stretta in base alla quale la solo formale
conformazione del contribuente alle norme positive non può costituire un
lasciapassare di immunità tributaria, laddove sia evidente una strumentalizzazione
del tessuto normativo, per porsi in una situazione innaturale di contribuzione fiscale.
• Contro: ha prodotto una situazione di tensione ordinamentale insostenibile*, con
effetti anche negativi sul versante dell’attrazione degli investimenti esteri in Italia.
* La tensione è stata determinata dal fatto che sia la giurisprudenza, sia l’amministrazione
nei propri atti impositivi hanno allargato enormemente l’area dei possibili abusi,
presupponendo che per ogni contribuente e per ogni fatto imponibile sia individuabile
una sola forma di tassazione, un solo regime applicabile, e che quindi ogni via
alternativa percorsa necessiti, per poter essere considerata legittima, di valide ragioni
economiche extrafiscali a sostegno. Mentre nel momento stesso in cui le norme
impositive delineano una fattispecie, l’autonomia contrattuale e la discrezionalità
imprenditoriale possono effettuare scelte che non comportano la realizzazione di quella
fattispecie, ma di altre con effetti analoghi; spesso anzi sono proprio le norme fiscali a
favorire scelte di questo tipo, incoraggiando il contribuente a percorrere strade
alternative, per poter usufruire di agevolazioni che vengono reputate funzionali in un
determinato ciclo allo sviluppo dell’economia.
Esempio: una norma tributaria consente alle società di estromettere beni dalla
società, garantendo un trattamento agevolativo consistente in un’imposta
sostitutiva dell’IRES ordinaria, di aliquota molto ridotta. La finalità del legislatore è
quella di incentivare la circolazione di quei beni che, per timore della tassazione
ordinaria, la società potrebbe essere indotta a conservare nel proprio patrimonio,
contro ogni logica di dinamismo aziendale. Ci sono state sentenze che hanno
giudicato, in modo inaccettabile, abusiva la fruizione dell’agevolazione laddove
l’estromissione apparisse abusiva perché non giustificata da ragioni economiche
extrafiscali, che dovevano invece considerarsi implicite nella stessa norma, che non
poneva nessuna condizione per poter fruire dell’agevolazione.
Per poter contestare l’elusione/abuso quindi occorre la certezza di un risparmio indebito,
cioè del tutto incompatibile con le strade fisiologiche del risparmio di imposta (→ che la
giurisprudenza della Corte di giustizia lo ritiene in generale, un obiettivo legittimo del
contribuente, salvo i casi in cui sconfini nell’abuso), perseguito senza che i comportamenti
funzionali a produrlo siano spiegabili da valide ragioni economiche extrafiscali.
Inoltre, data la scarsità degli interpelli, la valutazione di abusivi viene a colpire a distanza
di anni dall’effettuazione delle scelte del contribuente (che, nei casi qui considerati, non è
responsabile di alcuna violazione di legge ed ha probabilmente posto in essere atti
giuridici validi ed efficaci anche verso i terzi) e non è limitata alla pretesa delle imposte
giuste, ma si espande alle sanzioni penali e amministrative; per tutti questi motivi il
legislatore, con la l. delega 23/2014 ha previsto:
- una disciplina esaustiva e generale di elusione e abuso;
- applicazione delle sole sanzioni amministrative;
- inibizione del rilievo d’ufficio da parte del giudice;
- conferma e valorizzazione delle garanzie procedimentali ex art. 37 bis.
➔ La disposizione è stata inserita (dal decreto delegato n. 128/2015) all’art. 10 bis nel
corpo dello Statuto dei diritti del contribuente (legge n. 212/2000), precisando:
a. Il riparto dell’onere probatorio:
All’amministrazione spetta provare gli elementi costitutivi dell’abuso, in particolare il
carattere indebito del risparmio e le modalità di aggiramento delle norme tributarie;
al contribuente spettare dimostrare che valide ragioni extrafiscali abbiano ispirato il
comportamento, sicché il risparmio fiscale non è stato l’obiettivo, ma un effetto
collaterale di un’operazione non finalizzata a sterilizzare l’obbligo contributivo.
b. Il risparmio d’imposta derivante da scelte tra ragioni diverse non costituisce
abuso. Resta da vedere se la giurisprudenza rispetterà questo recupero di
centralità da parte del legislatore, o se riterrà comunque necessario, attraverso
schemi giuridici di volta in volta prescelti, continuare a stabilire in modo perentorio
quale sia nei singoli casi la giusta tassazione, enfatizzando la prevalenza delle
esigenze di giustizia sostanziale sulla legalità formale.
L’ altro grande interrogativo storico nei rapporti tra fisco e contribuente riguarda un
eventuale diritto di quest’ultimo ad ottenere in tempi certi risposte a quesiti di varia natura,
ma soprattutto interpretativi, e ad essere garantito in caso di conformazione alla risposta,
senza tuttavia rimanere obbligato a prestarvi adesione.
Si tratta di un interrogativo importante, aggravato anche dalla struttura del processo
tributario, che non ha mai contemplato la possibilità di introdurre davanti al giudice azioni
di accertamento negativo degli obblighi tributari, preventive rispetto all’effettuazione
dell’adempimento.
Prima dello Statuto dei diritti del contribuente, i soggetti passivi ed enti esponenziali
di categorie di contribuenti potevano inoltrare all’amministrazione quesiti di vario
genere, ai quali veniva data risposta tramite le ‘risoluzioni’ → atti simili alle circolari,
quanto a natura, valore e contenuto, ma caratterizzati dal carattere individuale della
risposta, che indicava il corretto modo di interpretare la norma, secondo l’ente
impositore, in relazione ad una casistica specifica.
Nessuna regola disciplinava però questo rapporto di consulenza giuridica dell’ente
impositore a favore del contribuente; il richiedente infatti non aveva alcuna garanzia:
L’ art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente ha introdotto il diritto di interpello.
➔ In particolare ha introdotto nel 2000 il diritto di interpello preventivo, cioè il diritto del
soggetto passivo di formulare istanze relative a dubbi interpretativi inerenti a casi
concreti, specifici e personali, rispetto ad adempimenti fiscali ancora da porre in
essere.
La disposizione ha stabilito:
L’obbligatorietà della risposta da parte dell’ente impositore, entro un termine
prestabilito;
Gli effetti della mancata risposta, che dà luogo ad un silenzio significativo,
equiparato ad un consenso implicito dell’ente impositore, rispetto alla
soluzione interpretativa ipotizzata dal contribuente nell’istanza di interpello;
La non vincolatività della risposta per i destinatari → come per le circolari
l’interpretazione dell’ente impositore, espressa nella risposta ad interpello,
non ha valore normativo e non crea obblighi di adeguamento, per cui:
a. Il richiedente può disattenderla → creando un rischio di conflitto in caso di
successivo controllo (vd. Circolari);
b. Il giudice tributario è perfettamente libero di condividere o meno la risposta ad
interpello.
La vincolatività della risposta per l’ente che la emana: superando la previsione
dell’art. 10 di immunità dalle sole sanzioni ed interessi, l’art. 11 prevede la nullità
degli atti impositivi e sanzionatori emessi in difformità dalla risposta data
all’interpello → dopo l’interpello, e fino a successiva ed eventuale modifica della
risposta, per tutti i comportamenti tenuti dal contribuente confidando nella risposta
ricevuta, l’imposta resterà dovuta nei termini in cui è definita dalla risposta stessa e
non potranno essere recuperate maggiori imposte, interessi o sanzioni. Quindi
l’esigenza di garantire l’affidamento del soggetto passivo nella risposta è talmente
elevata da prevalere sulla stessa indisponibilità dell’obbligazione tributaria, poiché
di fatto, anche se la risposta ad interpello è palesemente errata, essa diventando un
requisito di legittimità dell’atto impositivo o sanzionatorio (→legittimo solo se
conforme alla risposta!) condiziona l’adempimento degli obblighi tributari e
determina un debito d’imposta commisurato alla risposta stessa, anche se difforme
da quanto stabilito nella legge.
Sull’interpello hanno fatto leva tante altre disposizioni speciali che hanno evocato l’istituto
per descrivere forme di dialogo preventivo tra amministrazione e contribuente, anche al di
là dell’aspetto propriamente interpretativo.
Dopo il decreto delegato 156/2015, l’attuale formulazione dell’art. 11 dello statuto dei diritti
del contribuente riordina tutta la materia e contempla:
• Comma 1:
a. L’interpello interpretativo in senso proprio, che presuppone condizioni di obiettiva
incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni tributarie o sulla corretta
qualificazione di fattispecie alla luce delle disposizioni applicabili.
b. L’interpello probatorio, con cui si chiede di valutare la sussistenza delle condizioni e
l’idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge per accedere a determinati
regimi fiscali → ammissibile solo nei casi previsti dalla legge.
c. L’interpello antiabuso, con cui si chiede una valutazione circa la ricorrenza delle
ipotesi di abuso del diritto disciplinate.
➔ Sono tutti interpelli facoltativi, anche se in alcuni casi la legge prevede che in
dichiarazione venga segnalata la presentazione o la mancata presentazione
dell’istanza, in difetto della quale si applicano sanzioni amministrative.
• Comma 2: regola l’interpello disapplicativo, che costituisce l’unico interpello obbligatorio
e che ha come oggetto la disapplicazione di norme tributarie che, per contrastare
comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni
soggettive del soggetto passivo altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario e la
dimostrazione che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non possono verificarsi.
➔ Raccogliendo le indicazioni di dottrina e giurisprudenza la nuova disciplina prevede
che la mancata risposta positiva all’interpello disapplicativo non precluda al
contribuente la possibilità di dimostrare in sede processuale i presupposti per la
disapplicazione, anche se l’omissione è sanzionata in via amministrativa.
• Dottrina e giurisprudenza
Il contributo interpretativo fornito in tutti gli ambiti dell’esperienza giuridica da dottrina e
giurisprudenza, in ambito tributario assume delle caratteristiche peculiari:
a. L’ambito della dottrina è più ampio di quanto accada in altri settori → l’accademia,
deputata allo studio scientifico dei problemi giuridici e dell’esperienza giuridica
concreta, condivide tale responsabilità con altri soggetti in materia tributaria: con le
stesse amministrazioni, ad esempio, perché circolari e risoluzioni sono spesso
definite come la ‘dottrina’ del fisco, e la loro alta funzione di consulenza ha indotto
in passato a richiamare quell’attività paragiurisdizionale compiuta dalle cancellerie
imperiali nell’esperienza giuridica dell’impero romano.
b. Alla dottrina dell’amministrazione rispondono contributi interpretativi di alto profilo
forniti:
da centri di studio riferibili agli ordini professionali (→commercialisti e notai);
- da enti privati che associano categorie particolarmente qualificate di
contribuenti;
- da organismi internazionali facenti capo all’UE o ad organismi come l’OCSE
e il Fondo monetario internazionale.
➔ In questo contesto l’interpretazione dottrinale in senso stretto, quale quella che
dovrebbe provenire o dall’accademia, ovvero dal contributo di professionisti che
traggono riflessioni teoriche dalla loro esperienza pratica, è e dovrebbe essere
fondamentale per assicurare una visione scientifica obiettiva, rispetto a contributi di
studio che, seppur autorevoli, troppo spesso hanno il limite di rappresentare le
aspirazioni interpretative dell’amministrazione o dei contribuenti.
Spesso anche il contributo interpretativo di carattere scientifico si presenta o viene
recepito come un contributo piuttosto orientato dalle vicende applicative, che
spesso gli studiosi della materia vivono, come difensori delle parti in causa nei
processi tributari.
Il diritto tributario si è sviluppato moltissimo dagli anni ’40, ampliando gradualmente
i suoi centri di interesse dalle problematiche più strettamente giuridiche, come
quelle che coinvolgono i temi della parte generale, a quelle sostanziali, a quelle
internazionali, con grande capacità di confronto interdisciplinare.
Tuttavia è indubbio che la complessità attuale del sistema non consente più quella
linearità degli schemi ricostruttivi teorici elaborati dai grandi maestri e dalle grandi
scuole italiane del diritto tributario.
L’ oggetto degli studi è più frammentario e la riflessione condizionata dall’irrompere
di concetti e istituti elaborati in contesti giuridici diversi quali quelli dei paesi
anglosassoni, mentre la stessa crescita del numero degli studiosi operanti
nell’ambito dell’accademia rende ormai molto difficile la costante dialettica tra
maestri di diverse discipline, che certamente ha molto arricchito il diritto tributario,
mentre è quasi inevitabile che lo studioso del diritto tributario consideri e studi le
novità di altri settori, la riflessione teorica dei tributaristi tende ad essere ignorata
negli altri rami del diritto, rispetto ai quali peraltro potrebbe essere molto utile.
La fondazione, nel 2011, di due associazioni rappresentative dei professori della
materia dovrebbe consentire un recupero di visibilità e prestigio a livello sia di
rapporti con le altre discipline, sia di contributi propositivi rispetto alle
amministrazioni finanziarie e alle altre amministrazioni che devono occuparsi dei
tributi e delle forme e dei modi del loro studio giuridico.
c. La giurisprudenza, massima protagonista dell’interpretazione, dà spesso l’impressione
di ignorare l’interpretazione dottrinaria, o di assegnargli un’importanza molto limitata,
forse perché diffida della neutralità della stessa.
➔ Non è infrequente che le massime della Corte di cassazione siano in contrasto con
quanto viene ricostruito dalla dottrina in materia o che appaiano basate su
ricostruzioni del tutto estranee alla ricostruzione teorica. Sarebbe necessario un
recupero di più solidi e fecondi rapporti.
Anche la giurisprudenza peraltro vive una stagione difficile:
le commissioni tributarie: ad un’indubbia crescita della produzione, in termini
di rapidità, quantità e in misura minore di qualità, non si abbina
quell’approfondimento delle questioni che sarebbe necessario, anche per
ridurre ulteriormente la quantità di controversie che pervengono fino al terzo
grado di legittimità.
la corte di cassazione: chiamata a fungere da giudice di terzo grado in base
a presupposti che ignorano la natura originariamente impugnatoria del
processo tributario e la frequente sommarietà dei giudizi emessi dalle
commissioni tributarie è soprattutto travolta da una mole di giudizi che,
nonostante la creazione di una sezione ad hoc (→V sezione civile) e il filtro
operato dalla VI sezione con la decisione semplificata dei ricorsi
manifestamente fondati o manifestatamente inammissibili o infondati,
impedisce la formazione di indirizzi interpretativi stabili, univoci e affidabili.
Si assiste così alla coesistenza di indirizzi paralleli, che incoraggia la proposizione
dei ricorsi per cassazione, che a volte vengono risolti in sede di SU della
cassazione, laddove, pur giovandosi del contributo di magistrati normalmente
operanti in altri settori, che garantiscono una visione meno specialistica dei
problemi, si perde il contributo di esperienza specifica dei magistrati appartenenti
alla sezione tributaria, presenti in sede di SU in numero pari a quello dei magistrati
incardinati in altre sezioni.
Inoltre creare una nomofilachia quando si è chiamati a decidere controversie sorte
8/9 anni prima e relative a fatti imponibili realizzati 13/14 anni prima, è praticamente
impossibile: il contesto sistematico in cui viene presa la decisione della suprema
corte è troppo diverso da quello che il contribuente aveva presente quando poneva
in essere gli adempimenti (o commetteva gli illeciti fiscali) e da quello che l’Ufficio
cercava di tradurre in atti impositivi nel momento in cui valutava quei
comportamenti.
Sono troppo frequenti le decisioni della Cassazione che sopravvengono quando
ormai le norme interpretate sono cambiate, abrogate, modificate o comunque
calate in un contesto completamente diverso; questo ovviamente riduce di molto
l’utilità della pronuncia di legittimità, rispetto all’applicazione quotidiana delle norme
tributarie, perché troppo facilmente si potrà dire che il principio di diritto enunciato
non ha effetti al di là della soluzione della specifica controversia decisa.
La Cassazione inoltre appare sempre più spesso preoccupata di assegnare alla
propria decisione una funzione di ripristino di un’ipotetica giusta tassazione, che
non di svolgere in termini rigidi la valutazione di legittimità della sentenza di merito:
spesso si intravede dietro la sentenza di legittimità, la volontà di conservare in vita
una sentenza di merito che appare giusta, anche se affetta dai vizi denunciati nel
ricorso, e a volte al contrario, l’ansia di cassare una sentenza che appare
sostanzialmente errata, anche se i motivi di ricorso non sono idonei a sorreggere
una pronuncia di accoglimento del ricorso.
È emblematico il caso dell’abuso di diritto, ritenuto applicabile dalla cassazione
attraverso il rilievo d’ufficio, e anche di terzo grado, anche a prescindere
dall’esistenza di un ricorso per cassazione ammissibile.
Se la Cassazione si indirizza in questo modo e spesso preferisce svolgere il ruolo
di terzo giudice di merito, esistono ragioni istituzionali che devono essere
individuate e comprese, per il rispetto che è giusto e doveroso riservare alla corte,
che sono essenzialmente due:
1. la prima data dal critico quadro normativo , assolutamente carente quanto a
principi generali, quantità, chiarezza e intelligibilità delle norme: il legislatore
non aiuta la giurisprudenza, normando troppo e irrazionalmente, sfruttando
ogni legge finanziaria per modificare decine di disposizioni di legge,
disapplicando ogni regola, costituzionale, legale o anche solo di buona
amministrazione e buon senso, per rendere facilmente individuabili le norme
e il loro significato → il solo testo di principio è costituito dalla l. 212/2000,
che tuttavia disciplina solo alcuni aspetti dell’ordinamento tributario e i
rapporti dei procedimenti tributari con la legge generale sul procedimento
amministrativo sono problematici. L'ordinamento tributario italiano è quello
nel quale, a fine anno, una legge di un unico articolo nasconde al suo interno
decine di disposizioni tributarie disseminate tra centinaia di commi, privi di
una rubrica che ne renda individuabile il contenuto.
2. la seconda è individuabile nel complessivo atteggiamento delle
amministrazioni che gestiscono i tributi: in parte per vincoli normativi, in parte
per pregiudizi, in parte per enfatizzazione delle possibili responsabilità,
l’azione delle amministrazioni, pur avendo avuto un incremento e uno
sviluppo significativi nel corso degli anni, resta tale da impedire la definizione
stragiudiziale delle controversie dopo i controlli.
Da sempre lo sbocco naturale e quasi inevitabile di un controllo tributario è il
processo, che raggiunge quindi dimensioni quantitative non sostenibili, e superiori a
quelle di tutti gli altri paesi quanto meno di area europea.
In molti casi, nonostante cautele e controlli, l'accordo fisco-contribuente è visto con
sospetto, e negli atti di fissazione dei programmi di controllo non è ben delineato il
rapporto che deve sussistere tra esigenze di raggiungimento degli obiettivi
quantitativi del recupero dell'evasione e difficoltà di arrivare, attraverso i poteri di
controllo, a risultati certi in termini di maggiore contribuzione.
La giurisprudenza della cassazione pare diffidare sia del legislatore, sia
dell'amministrazione finanziaria e del contribuente, così sentendo sulle proprie
spalle il peso improprio della funzionalità dell'intero sistema, piuttosto che quello,
naturale, di assicurare la inesistenza di profili di illegittimità nella sentenza
impugnata.
NB. Nonostante la struttura del fatto illecito amministrativo e del reato tributario sia
descritta in termini diversi nei due settori sanzionatori, vi è spesso un’interferenza tra i due
interventi repressivi, e quindi spesso si pone il problema di applicare in modo ragionevole
le due sanzioni, senza duplicarle.
2. Gli illeciti amministrativi tributari: le fattispecie
I testi di legge che contengono la descrizione degli illeciti puniti in via amministrativa
sono due:
a. d.lgs. 471/1997 → si riferisce alle imposte sui redditi, all’IRAP, all’IVA e agli illeciti
inerenti alla riscossione;
b. d.lgs. 473/1997 → contiene le sanzioni destinate alle violazioni commesse in altri
ambiti tributari; in realtà introduce o modifica, nelle singole leggi d’imposta, le
norme relative all’aspetto sanzionatorio, che dunque vanno ricercate in quelle leggi.
Ci sono poi ambiti settoriali (vd imposte doganali), dove la disciplina degli illeciti
amministrativi è regolata in via autonoma rispetto ai decreti del 1997.
I soggetti passivi responsabili degli obblighi tributari sono chiamati ad una serie di
adempimenti, per cui le sanzioni amministrative vanno a colpire l’omissione, o la cattiva
esecuzione, di quegli adempimenti:
Una prima distinzione separa le violazioni degli obblighi finalizzati all’accertamento del
tributo da quelle che riguardano gli adempimenti funzionali alla riscossione.
A. Violazioni degli obblighi finalizzati all’ accertamento del tributo:
•Obblighi:
- Presentare le dichiarazioni;
- Tenere i documenti e le scritture contabili previste dalla legge;
- Assumere un’identità fiscale anagrafica;
- Emettere i documenti fiscali previsti dalla legge (=fatture, ricevute, scontrini fiscali);
- Effettuare tutte le formalità informative previste dalla normativa per i singoli tributi e
le singole situazioni.
•Sanzioni:
- Sono più gravi di quelle previste per la riscossione, in quanto gli obblighi informativi
e dichiarativi sono considerati essenziali per il funzionamento del tributo:
consentono al fisco di conoscere l’effettiva capacità contributiva.
- Sono commisurate all’ammontare dell’imposta non documentata dall’adempimento
non eseguito, o male eseguito, se vi è una correlazione precisa con determinate
operazioni; altrimenti sono determinate in una certa misura.
- La sanzione è sempre prevista in un minimo e in un massimo, tra i quali l’ufficio
competente dovrà valutare la sanzione da irrogare concretamente.
- Per le violazioni più gravi, la sanzione amministrativa pecuniaria determina un
obbligo di pagamento che tende a raddoppiare il peso del tributo (ad es., per
l’infedele dichiarazione attualmente la sanzione va dal 90% al 180% dell’imposta
non dichiarata) e con possibile moltiplicazione della sanzione, laddove
comportamenti collegati danno luogo a illeciti puniti ciascuno in misura
proporzionale al tributo (si pensi all’omessa documentazione di operazioni
imponibili, nell'iva, poi seguita dalla infedele dichiarazione, o ancor più alla indebita
detrazione d'imposta, sempre seguita dalla infedele dichiarazione, nonostante i due
momenti siano spesso sovrapponibili).
Si comprende l'importanza di istituti che attenuano il cumulo materiale delle sanzioni, che
darebbe luogo a conseguenze spropositate e irragionevoli .
- La sanzione base è sempre di tipo pecuniario, ma i casi più gravi comportano
anche l’applicazione di misure interdittive, che impediscono al contribuente di porre
in essere alcune attività professionali (ad es., interdizione dalle cariche di
amministratore o sindaco delle società, dalla partecipazione a gare di pubblici
appalti e forniture, dal conseguimento di licenze e autorizzazioni): può essere
anche sospesa la licenza o l’autorizzazione o comunque sospeso l’esercizio di
attività imprenditoriali o professionali, quando risultino commesse plurime violazioni
in un determinato arco temporale. In genere, inoltre, la partecipazione a gare
pubbliche è inibita alle imprese che presentano situazioni di irregolarità fiscale e
contributiva.
- L’ adempimento inesatto degli obblighi informativi può assumere intensità molto
diverse e produrre effetti variabili: ad esempio, alla dichiarazione dei redditi, nella
quale possono essere taciuti redditi conseguiti, possono essere inseriti costi e
spese senza i requisiti previsti dalla legge, possono essere compiuti errori materiali
e di calcolo, possono essere omesse informazioni anche importanti, ma senza
dirette conseguenze sulla determinazione dell’imponibile e dell’imposta.
B. Violazioni degli adempimenti funzionali alla riscossione:
• Obblighi:
- Pagamento del tributo (puniscono le violazioni degli obblighi di pagamento del
tributo).
• Sanzioni:
- Sono rapportate all’imposta (in questo caso, non versata, piuttosto che, e anche se,
dichiarata) ma l’incidenza percentuale è più tenue → 30%.
- La sanzione amministrativa pecuniaria torna a coincidere con l’ammontare
dell’imposta, quando l’omesso versamento è frutto dell’introduzione, nella
liquidazione delle somme da versare, di crediti di imposta non sussistenti.
- Uscendo dal campo delle imposte periodiche e tenendo conto che le sanzioni per i
tributi locali risentono dei meccanismi applicativi previsti per gli stessi, per le altre
imposte si assiste ad una grande varietà di illeciti e sanzioni previste, la cui logica
però è sempre quella di riconoscere la priorità della tutela dell’interesse pubblico ad
acquisire conoscenza dei fatti imponibili e degli altri fatti rilevanti → questo può
portare alla previsione di sanzioni importanti anche laddove siano infedelmente
rappresentati elementi di non diretta incidenza sulla base imponibile del tributo: ad
es., in tema di imposta di registro è punito severamente l’occultamento del
corrispettivo previsto nell’atto da registrare, sebbene la base imponibile sia stabilita
con riferimento al valore dei beni e dei diritti trasferiti, e non al prezzo pattuito o
pagato.
➔ Sanzioni improprie: l’esigenza di contrastare, anche attraverso una preventiva
dissuasione l’opacità dei comportamenti dei contribuenti induce spesso il legislatore
a configurare sanzioni cd ‘improprie’, caratterizzate da effetti negativi per il
contribuente che colpiscono sfere diverse da quelle riservate alla sanzione
amministrativa.
Se ne parla, ad es., quando la legge prevedere, in aggiunta alla sanzione amministrativa,
effetti negativi in termini di determinazione dell’imponibile e dell’imposta, per colpire il
contribuente responsabile di inadempimenti.
Molte sanzioni improprie sono però di dubbia costituzionalità, dal momento che il tributo
dovrebbe sempre restare dovuto in base alla capacità contributiva, mentre i riflessi
sanzionatori non dovrebbero tradursi in maggiori imposte da pagare.
Per questo motivo molte disposizioni ispirate alla logica della sanzione impropria, ovvero
dell’utilizzo punitivo di metodi di accertamento deteriori, sono state interpretate secondo
costituzione, ossia con una lettura adeguatrice, per evitare gli effetti meno accettabili.
NB. Può accadere che gli effetti della sanzione impropria si espandano anche al di
là dell’universo tributario, per colpire la validità o l’efficacia in sede civile di
determinati atti: nonostante lo Statuto dei diritti del contribuente impedisca la
previsione di nullità civilistiche a tutela di norme fiscali (art. 10), nella legislazione
esistono esempi di segno contrario, ad esempio per i contratti di locazione sottratti
alla registrazione, che sono particolarmente avversati per i probabili effetti negativi
sulle possibilità accertative degli uffici; non solo l’omessa registrazione comporta
un’evasione dell’imposta di registro, ma è pure la premessa per evadere le imposte
sul reddito dovute dal locatore, e magari per disporre costi ‘neri’ (occulti) per il
locatario, che ha interesse a non rivelare la reale dimensione dell’attività della sua
impresa.
Il fatto che, a tutela dell’interesse fiscale, possa essere comminata dalla legge una
sanzione civilistica, drastica come la nullità, ci ricorda che l’ordinamento è unico e
che quindi non è possibile alzare delle barriere tra i vari settori dell’ordinamento; se
l’effettività della contribuzione richiede sanzioni che toccano i rapporti di diritto
privato, esse non possono essere considerate incostituzionali a meno che non
siano in contrasto con altri principi generali (ragionevolezza, proporzionalità); anche
se si dovrebbe ricordare la previsione dello Statuto dei diritti del contribuente, che
vieta, senza però poter essere cogente, la comminatoria di sanzioni debordanti
dall’ambito tributario.
➔ Si deve escludere assolutamente che l’interesse fiscale possa prevalere sul diritto di
difesa ex art. 24 Cost., condizionando o limitando la tutela giurisdizionale: gli
obblighi fiscali derivanti dal processo (ad es., contributo unificato) se inadempiuti
non privano il soggetto della possibilità di ricevere tutela giurisdizionale.
Tra i principi di diritto europeo il principio di proporzionalità ha una portata che va oltre
l’ambito sanzionatorio e investe ogni forma di esercizio del potere pubblico:
a. rispetto alle sanzioni amministrative, il principio evoca e impone una
ragionevolezza del risultato punitivo, rispetto all’effettiva lesività degli illeciti
commessi, la cui portata dannosa, rispetto agli interessi erariali, può essere
diversificata sia valutando gli effetti dell’illecito su riscossione e accertamento sia la
concretezza del danno, sia la più o meno lineare percepibilità, da parte del fisco,
dell’illecito commesso.
b. il problema può porsi nella commisurazione della sanzione → non tutte le violazioni
sono adeguatamente punite con violazioni commisurate all’ammontare dell’imposta
evasa, o la cui riscossione è posta in pericolo; anche perché punire con un minimo
edittale alto, avulso dall’imposta, violazioni di scarsa rilevanza sotto il profilo del
gettito sottratto, può essere altrettanto irrazionale. Il risultato sanzionatorio può
essere a volte palesemente sproporzionato quando, nonostante gli istituti della
continuazione e del cumulo giuridico, comportamenti che hanno in realtà una
reciproca consequenzialità sono puniti con sanzioni distinte, come se ciascuno
avesse autonomia assoluta.
In attesa che il sistema normativo trovi un razionalità libera da queste gravi
incongruenze, è compito dell’interprete, soprattutto della giurisprudenza, trovare
soluzioni interpretative conformi a parametri comunitari e costituzionali.
La repressione penale può spingersi alla ricerca del beneficiario effettivo, e con quali
strumenti può eventualmente farlo?
Le forme attraverso cui potrebbe avvenire il coinvolgimento di soggetti non
immediatamente identificabili nella figura dell’intraneus del reato proprio sono quattro:
1. Assunzione di una nozione più ampia di intraneus;
2. Inserimento del tema nel contesto del concorso di persone nel reato;
3. Tipizzazione di una responsabilità penale dell’ente;
4. Confisca per equivalente.
Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale su queste figure e sul loro coinvolgimento in sede
penale svela al tributarista la difficoltà di pervenire a risultati efficaci in termini di maggiore
coinvolgimento nelle sanzioni penali del beneficiario effettivo dell’evasione, attraverso
un’estensione del concetto di intraneus.
Il collegamento del pronome chiunque con puntuali obblighi di dichiarazione e di
versamento rende difficile considerare compreso nell'ambito del soggetto attivo del reato
chi resta comunque estraneo, rispetto a quegli obblighi, pur ricevendo, indirettamente, i
vantaggi e i profitti del reato. Non è tollerabile un’indeterminatezza che lasci incerta
l'ampiezza della responsabilità.
6. Sanatorie e condoni
Soprattutto in passato il rapporto fisco-contribuente è stato caratterizzato dalla periodica
sopravvenienza di provvedimenti talora clemenziali, talora premiali che spesso
consentivano ai contribuenti di effettuare un recupero alla legalità su adempimenti tributari
omessi o irregolarmente eseguiti.
A questi provvedimenti (→ cd ‘condoni’, ‘sanatorie’, ‘definizioni agevolate’) spesso non era
estranea l’intenzione di deflazionare il contenzioso, consentendo di definire le controversie
in corso, tramite un versamento integrativo normalmente vantaggioso rispetto alla pretesa
iniziale dell’ufficio → l’aspetto sanzionatorio sembra prevalente, ma in realtà coesiste con
esigenze di diversa natura.
Negli ultimi anni la tendenza si sta attenuando e sempre più questo si avverrà se resta
fermo il modello di ravvedimento operoso permanente.
In realtà il condono, anche se pone problemi sotto il profilo della parità di trattamento,
essendo uno strumento che agevola chi non ha ottemperato alle norme tributarie, può
essere considerato anche lesivo dell’efficacia deterrente delle sanzioni, è anche vero che
presenta delle ragioni di utilità, nella misura in cui consente un recupero di gettito,
altrimenti non raggiungibile, finendo con l’attenuare la disparità di trattamento tra chi
osserva le regole tributarie e chi le viola.
➔ NB. In tema di imposte armonizzate è stata la Corte di Giustizia, sollecitata dalla
Commissione UE, a dare la spallata decisiva ai condoni, considerati non compatibili
con la corretta gestione dei tributi, nella misura in cui rappresentano la rinuncia
dello stato ad esercitare le proprie funzioni impositive di controllo e accertamento.
Agli indirizzi UE si è immediatamente allineata la Corte di Cassazione,
disapplicando le norme dei condoni più recenti: l’unica ipotesi praticabile senza
rischi dalla legislazione nazionale è quella di introdurre forme forfettarie di chiusura
delle liti fiscali pendenti, nelle quali l’esborso richiesto al contribuente per
estinguere la controversia è proporzionato agli esiti del contenzioso, svolto fino alla
legge deflattiva.
Parte II - I TRIBUTI
Sezione I- LE IMPOSTE SUI REDDITI E LE IMPOSTE PATRIMONIALI
Capitolo 1 - Le imposte sui redditi. Generalità.
1. La struttura del sistema
Le imposte dirette sono quelle che colpiscono manifestazioni immediate di capacità
contributiva, quali il reddito e il patrimonio.
Reddito → è un indice indiscusso di capacità contributiva, che si realizza in un
incremento di patrimonio che denota per definizione una capacità di contribuire alla
spesa pubblica.
Come tutti gli ordinamenti anche quello italiano fa delle imposte sui redditi un pilastro del
proprio sistema fiscale, sia in termini di gettito, sia in termini di ampiezza e rilevanza dei
presupposti imponibili.
L’importanza assegnata alla tassazione dei redditi è rivelata da:
Carattere personale delle imposte che assumono a presupposto il possesso del
reddito;
Funzione di principale strumento di attuazione della progressività assegnata
all’imposta sul reddito delle persone fisiche;
Tendenziale universalità del presupposto, che per i soggetti residenti è costituito
dal reddito ovunque prodotto nel mondo.
➔ Il passaggio a quest’impostazione si è realizzato con la riforma tributaria degli anni
’70, che aveva istituito 3 imposte sul reddito:
1. IRPEF → sulle persone fisiche;
2. IRPEG → sulle persone giuridiche (in realtà colpiva tutti gli enti diversi dalle
persone fisiche);
3. ILOR → imposta reale, avente ad oggetto solo redditi derivanti da una
componente patrimoniale, destinata a realizzare la discriminazione qualitativa
dei redditi (=a colpire in misura ulteriore, su basi diverse dalla progressività,
redditi particolarmente qualificati sotto il profilo dell’idoneità alla contribuzione e
con gettito destinato agli enti locali).
IRPEG e ILOR avevano carattere proporzionale; all’IRPEF invece era assegnato
carattere fortemente progressivo. Vi erano poi meccanismi di raccordo per evitare la
doppia tassazione di redditi prodotti da società e poi distribuiti ai soci.
Il sistema è rimasto invariato anche quando nel 1986 si è provveduto al riordino
della disciplina, concentrando in un testo unico la disciplina sostanziale delle 3
imposte sui redditi: d.p.r. 917/1986, cd TUIR.
NB. Con la legge delega 80/2003 → è stata pensata una riforma strutturale, che:
- avrebbe dovuto sostituire all’IRPEF, l’IRE (=imposta sul reddito), destinata a colpire con
progressività attenuata su due sole aliquote, tutti gli enti diversi dalle società, insieme
alle persone fisiche;
- all’IRPEG è stata sostituita l’IRES, imposta proporzionale sul reddito delle società;
Già nel 1997 era stata soppressa l’ILOR, sostituito dall’IRAP (=imposta regionale sulle
attività produttive).
➔ La riforma del 2003 ha avuto attuazione solo parziale, nella parte relativa alla
fiscalità societaria; il trasferimento degli enti non societari nell’imposta IRE invece
non si è verificato, per cui convivono all’interno del TUIR (testo unico imposte sui
redditi) la vecchia IRPEF, rimasta fortemente progressiva, e un’imposta ibrida quale
l’IRES, che diversamente da quanto voluto dal legislatore, non è destinata alle sole
società, ma continua a colpire con aliquota proporzionale:
Società di capitali;
Enti commerciali;
Enti non commerciali → a prescindere dalla personalità giuridica;
Enti non residenti.
Le società personali residenti hanno, insieme ad altre entità, una disciplina
particolare, che le rende centro di determinazione di redditi che vengono però
automaticamente imputati pro quota ai soci, a prescindere dall’effettiva erogazione
a questi.
La disciplina dell’IRES dunque è poco omogenea.
Da un punto di vista giuridico la parte inattuata della riforma del 2003, ossia
l'accostamento delle persone fisiche e degli enti diversi da quelli commerciali, avrebbe
avuto il pregio di distinguere:
I soggetti in grado di possedere diverse categorie di reddito (persone fisiche ed enti
non commerciali, accomunati nell’IRE);
I soggetti titolari di una sola categoria reddituale, costituita dal reddito d’impresa
(società di capitali ed enti commerciali, soggetti a IRES).
Il passo non è stato realizzato per ragioni di gettito, essendo risultata utopistica, visti i
vincoli di bilancio, la progettata riduzione della progressività, ed essendo apparso
irrazionale assoggettare gli enti non commerciali alla persistente progressività dell’IRPEF.
2. Il presupposto
IRPEF (art. 1) e IRES (art. 72) descrivono il presupposto negli stessi termini, cioè come il
possesso di redditi, in denaro o in natura, rientranti nelle categorie ex art. 6 TUIR:
Possesso: indica la relazione che deve porre in collegamento il reddito con il
soggetto che ne può disporre.
➔ Il termine possesso implica la ricerca del soggetto il cui patrimonio risulti
incrementato, il che può accadere sia per una disponibilità giuridica del provento,
sia per una disponibilità legata a condizioni di fatto. ‘Possesso’ è dunque un
termine che assume significati concreti nelle singole categorie di reddito, laddove è
definita la relazione tra soggetto e fonte produttiva del reddito.
• Reddito tassabile: non è definito in modo generale, ma attraverso un rinvio alle categorie
reddituali, con l’unica precisazione che i redditi (=proventi che costituiscono reddito)
possono essere sia:
- In denaro;
- In natura → beni o servizi economicamente valutabili
➔ Quanto al reddito tassabile, la rinuncia normativa a fornire una nozione generale
palesa le difficoltà di ricondurre ad un concetto univoco, omogeneo, tutte le ipotesi
considerate dalle norme sulle categorie reddituali. In base alle definizioni di reddito
desumibili dalla scienza economica, gran parte delle ipotesi tassabili, contemplate
dalle varie categorie, implicano il concetto di:
a. Reddito prodotto: reddito che si genera per effetto di un’attività, anche
minimale da parte di un soggetto.
b. Reddito entrata: incrementi di patrimonio occasionali, fortuiti, non imputabili ad
alcuna attività propulsiva → reddito che viene acquisito senza alcuna attività da
parte del soggetto.
NB. Sono esclusi da imposizione sul reddito, quanto meno nella sfera dei
soggetti privati, gli incrementi di patrimonio derivanti da fenomeni successori
o da atti di liberalità come le donazioni, per i quali l’ordinamento preferisce
stabilire altri prelievi, collegati al trasferimento totale o parziale del
patrimonio.
In ogni caso il criterio che le norme impongono deve dare prevalenza al diritto positivo,
piuttosto che alla coerenza teorica: è questo il senso della rinuncia ad una definizione di
carattere generale. Le disposizioni del TUIR non prevedono esoneri riconducibili alla
formazione del patrimonio dal quale i redditi derivano → un reddito di lavoro, risparmiato
nel tempo, se reinvestito può produrre redditi di capitale, che rappresentano una ricchezza
nuova e diversa rispetto a quella prodotta dall’attività lavorativa.
Non si può quindi dire che il reddito tassabile sia solo quello consumato o destinato al
consumo; anche se il monitoraggio dei consumi ha rilievo per accertare di quali redditi un
contribuente disponga.
ii. Regole specifiche sono dedicate alla rilevanza come reddito degli interessi, della
rivalutazione monetaria, dei proventi sostitutivi di reddito, del risarcimento del danno
NB. Art. 6 co. 2 TUIR:
Interessi
Nel definire il concetto di ‘reddito’ il legislatore non può ignorare gli interessi, soprattutto
quelli accessori ai proventi che costituiscono redditi e la disciplina non può ignorare che
esistono diverse tipologie di interessi, anche se essa può discostarsi dalle classificazioni
civilistiche.
Gli interessi che maturano come frutto di un impiego di capitale sono essi stessi
reddito tassabile e costituiscono una delle fattispecie espressamente considerate
nell’ambito della categoria dei redditi di capitale, o possono concorrere nella
determinazione del reddito d’impresa.
Gli interessi che hanno natura accessoria di proventi reddituali, l’art. 6 co. 2 TUIR
si riferisce agli interessi moratori (ex art. 1224 c.c.) e agli interessi per dilazione di
pagamento, stabilendo che costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da
cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati.
➔ Gli interessi da dilazione di pagamento (≠interessi moratori) dovrebbero
comprendere anche alcuni casi di interessi corrispettivi ex art. 1282 c.c.
Tendenzialmente sono esclusi da imposizione degli interessi ‘compensativi’,
intendendo come tali quegli interessi unitariamente individuati dalla giurisprudenza
in virtù della loro comune funzione di costituire una forma di ristoro o risarcimento
per la ritardata percezione di somme non originariamente liquide ed esigibili.
Rivalutazione monetaria
Valgono le stesse conclusioni che abbiamo visto per gli interessi per la rivalutazione
monetaria, corrisposta quale accessorio ad un credito, la cui rilevanza è espressamente
prevista solo dalla disposizione del TUIR che regola il reddito da lavoro dipendente,
disponendo (art. 49, co. 2, lett. b) che le somme percepite a titolo di rivalutazione
monetaria siano considerate imponibili come reddito di lavoro dipendente.
➔ Problema diverso è quello della possibilità di considerare reddito quegli incrementi
di patrimonio che sono tali soltanto nominalmente. Sul piano della definizione di
reddito, il legislatore non affronta la questione della svalutazione della moneta,
lasciando intendere che non incide sulla nozione generale di reddito e in genere la
questione non trova rilievo nemmeno nella determinazione della base imponibile,
che di regola è commisurata solo ai valori monetari espressi, e non tiene conto dei
fattori di decurtazione.
NB. Corte costituzionale, anni ’80: ha affermato che non vi è violazione del
principio di capacità contributiva per il solo fatto della mancata considerazione del
deprezzamento della moneta → sta al legislatore la scelta discrezionale e
prettamente politica di decidere i tempi e i modi per assegnare rilevanza alla
svalutazione, scelta che appare sindacabile solo sotto il profilo della
ragionevolezza.
Proventi sostitutivi di reddito
L’art. 6, co. 2, stabilisce un principio di grande importanza: è tassabile come reddito
qualsiasi entrata venga percepita da un soggetto in sostituzione di redditi appartenenti
alle diverse categorie: l’entrata sostitutiva viene qualificata come reddito della stessa
categoria cui sarebbe appartenuto il provento sostituito.
Il concetto di ‘provento sostitutivo’ abbraccia casi importanti e frequenti, quali possono
essere quelli della cessione del credito o dell’indennizzo percepito, anche in forma
assicurativa, per la perdita di un credito.
Risarcimento del danno
Inizialmente le somme erogate a titolo di risarcimento del danno sembrerebbero
incompatibili con la nozione di reddito, ma in realtà non è così: la nozione di risarcimento
del danno è complessa e si articola in una serie di elementi strutturali che hanno diversa
funzione:
• là dove il risarcimento reintegra il danno emergente, esso ha la funzione di ricostituire il
patrimonio nella misura che aveva prima dell’evento dannoso → è irrilevante ai fini del
concorso del reddito;
• la parte di risarcimento che compensa la mancata produzione di proventi ed entrate
(lucro cessante) ha tutte le caratteristiche del provento sostitutivo, per cui la tassazione
è ammissibile, opportuna ed equa; ex art. 6 co. 2 sono escusi solo gli indennizzi da
invalidità permanente o da morte.
È evidente che la scelta del legislatore tra le diverse soluzioni possibili deve tenere conto
di tante variabili e contemperare esigenze diverse; inoltre la previsione dei possibili
comportamenti dei contribuenti, ispirati alla ricerca di una minore tassazione, è
fondamentale in tutte le norme tributarie e il soggetto chiamato ad applicarle non può non
tenerne conto, perché una soluzione interpretativa che ignorasse l’esigenza di prevenire
facili scappatoie potrebbe risultare insostenibile, proprio per la debolezza che rivela.
B. Sotto il profilo IRES: (→ imposta che viene applicata a tutti i soggetti diversi dalle
persone fisiche e dai soggetti tassati per trasparenza) è necessario stabilire quando
l’ente, diverso dalla società (per quest’ultima non vi sono problemi di imputazione),
abbia idoneità ad essere considerato ‘possessore’ del reddito.
➔ Ex art. 73 co. 2: sono soggetti passivi IRES:
a. Enti dotati di personalità giuridica;
b. Associazioni non riconosciute;
c. Consorzi;
d. Ogni altra organizzazione che:
• Non appartenga ad altri soggetti passivi;
• Nei confronti della quale il presupposto dell’imposta si verifichi in modo
unitario e autonomo.
NB. Secondo l’interpretazione prevalente i requisiti richiesti per la soggettività
vanno sintetizzati nella:
i. Capacità di autodeterminazione dell’ente → non deve essere eterodiretto da altro
soggetto esterno all’ente;
ii. Capacità contributiva autonoma → presuppone autonomia patrimoniale e
riferibilità del flusso di reddito ad attività o a cespiti sicuramente relativi
all’organizzazione.
Al riguardo esiste un’ampia casistica, soprattutto nelle risoluzioni dell’Agenzia delle
entrate e, in precedenza, del ministero delle finanze che tocca il tema
dell’autonomia dei patrimoni separati, previsti dalla normativa civile o da leggi
speciali in molte ipotesi:
Autonomia dei patrimoni separati → il patrimonio separato non è soggetto passivo
IRES, dal momento che, anche se ha una propria consistenza, appartiene
comunque al soggetto che lo ha istituito. Sulla base dello stesso criterio quando un
ente pubblico ha delle articolazioni autonome a cui affida compiti particolari, e
magari attività imprenditoriali, è negata la soggettività autonoma dell’entità
separata, se non è in grado di autodeterminarsi nelle risorse e nelle espressioni di
volontà.
L’esistenza di un’organizzazione autonoma e in grado di autodeterminarsi va
accertata solo per gli enti diversi dalle società → laddove l’ente pubblico costituisca
una vera e propria società per la gestione di determinate attività, anche se con i
caratteri propri della società in house, soggetta al controllo analogo dell’ente, si
genera comunque un autonomo soggetto passivo.
Norme specifiche regolano l’imputazione dei redditi conseguiti da patrimoni separati,
collettivi, in relazione ad una società di gestione → è il caso dei fondi comuni di
investimento (mobiliari e immobiliari).
Trust → è caratterizzato dalla separazione tra titolare di un determinato patrimonio
(=settlor) e gestore del patrimonio stesso (=trustee). Imputare il reddito al titolare,
per un patrimonio che è al di fuori delle sue possibilità di amministrazione, ovvero
imputarlo al gestore, che non ha titolarità, ed ha autonomia solo relativa, dal
momento che deve comunque garantire il rispetto della volontà del disponente e
non gode personalmente dei frutti, sono soluzioni che non riescono a cogliere
l'effettiva imputabilità della capacità contributiva, e che quindi non appaiono
perseguibili. Appare ugualmente inaccettabile sospendere la tassazione, in attesa
che amministrazione e titolarità del patrimonio si ricongiungano, ovvero che
emergano terzi soggetti beneficiari dei flussi di reddito.
La soluzione normativa: il trust è stato considerato come soggetto passivo IRES,
anche se costituito da persona fisica, (=sancito il distacco del patrimonio dalla
persona fisica) che di volta in volta viene assimilato agli enti commerciali, non
commerciali, o non residenti; il legislatore quindi lo ha aggiunto agli ‘enti pubblici e
privati diversi dalle società’, così rivelando l’incertezza dello stesso legislatore circa
la possibilità di definire il trust come ente.
≠ Se sono individuati i beneficiari del trust (in modo che i redditi possono
considerarsi nella loro disponibilità) la soggettività passiva viene riferita ai
beneficiari.
4. La territorialità
Il carattere personale delle imposte sui redditi si percepisce dalla scelta legislativa di
ancorare l’individuazione territoriale dei redditi tassabili in funzione della residenza del
soggetto che percepisce i redditi.
➔ Un’ imposta reale dovrebbe colpire tutti e soltanto i redditi prodotti nel territorio dello
stato, mentre l’attuale sistema distingue in funzione della residenza del soggetto
passivo:
• Se quest’ultimo è residente nel territorio dello stato, non ci sono limiti territoriali
alla tassazione, poiché è considerato reddito tassabile quello ovunque prodotto →
principio della tassazione del reddito mondiale.
• Se il soggetto passivo non è residente nel territorio dello stato, sono imponibili in
Italia solo i redditi prodotti nel territorio dello Stato (vd artt. 3, 75, 151, 153).
Ai fini della residenza vi sono regole rigide nella disciplina del TUIR:
• Per le persone fisiche: ex art. 2 sono considerati residenti in Italia i soggetti che
hanno l’iscrizione anagrafica in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta
(=più di metà dell’anno), o che abbiano residenza o domicilio per lo stesso lasso
di tempo → per essere considerati soggetti passivi residenti è sufficiente che
sussista solo uno dei due requisiti.
• Per società ed enti, la residenza dipende dall’avere, per un periodo superiore alla
metà del periodo d’imposta, nel territorio dello stato la sede legale, amministrativa
o l’oggetto principale dell’attività.
Per stabilire l’oggetto esclusivo o principale si fa riferimento alla legge, all’atto costitutivo o
allo statuto, se redatti con atto pubblico, scrittura privata autenticata o registrata e, se
l’oggetto principale è costituito dall’attività essenziale per realizzare i primari scopi indicati
dagli atti costitutivi.
Solo in mancanza di questi si ha riguardo all’attività effettivamente esercitata nel territorio
dello stato (→ criterio applicabile anche agli enti non residenti).
Si può immaginare che soggetti che abbiano i requisiti di residenza nel territorio dello stato
possano tentare di sottrarsi alla nostra tassazione progressiva sul reddito ovunque
prodotto, collocando la propria residenza all’estero; dagli anni ’90 però l’ordinamento
reagisce a questa prassi con una serie di misure che rendono più difficile negare la
propria residenza in Italia:
a. Per le persone fisiche è prevista una presunzione legale (relativa, con onere della
prova contraria a carico del contribuente) di persistente residenza in Italia, per il
soggetto che si sia trasferito nel territorio di un paese a bassa fiscalità e non
trasparente nello scambio di informazioni.
b. Per società ed enti che detengono partecipazioni di controllo in enti commerciali
residenti: è prevista una presunzione (posta a carico del contribuente una difficile
prova contraria) di ubicazione della sede legale in Italia, quando controllate anche
indirettamente da soggetti residenti, o amministrate da un organo collegiale formato
prevalentemente di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
Le norme sulle CFC (=controlled foreign companies): quando un soggetto residente
controlla, anche per interposta persona o a mezzo di fiduciarie, un’impresa, una società o
un ente non residente che abbia sede in un paese a bassa fiscalità (→ con livello di
tassazione inferiore al 50% di quello applicabile in Italia; anche se non si considerano i
territori dell’UE o dello spazio economico europeo), i redditi prodotti dall’entità estera sono
imputati al soggetto residente, in proporzione alla quota di partecipazione detenuta. Sono
ammesse prove contrarie specifiche, finalizzate a dimostrare:
o che i redditi non conseguono un trattamento privilegiato;
o che l’entità estera è effettivamente produttiva di attività commerciale o industriale.
Occorre che una norma regoli i casi nei quali i redditi possono considerarsi prodotti nel
territorio italiano o all’estero:
art. 23 TUIR: regole in base alle quali il reddito di un soggetto non residente si può
considerare prodotto in Italia;
art. 165 co. 2 TUIR: stabilisce la validità degli stessi criteri, ribaltati, per individuare
redditi prodotti all’estero da residenti in Italia.
Sono molto frequenti i casi in cui alcuni soggetti vedono i loro redditi sottoposti a due
pretese impositive:
l’una dello stato di residenza;
l’altra dello stato della fonte (=nel quale si produce il reddito).
Sono altresì frequenti i casi in cui un soggetto risulta fiscalmente residente in due stati.
Le convenzioni internazionali sulla doppia imposizione, e, in misura minore, quella parte
della legislazione europea che si occupa dell'imposizione sui redditi e in particolare dei
redditi transnazionali, stabiliscono regole che consentono ai soggetti passivi di vedere
tassato il loro reddito in uno solo dei due stati, o di subire una tassazione coordinata, il
cui peso complessivo tenga conto del concorso di pretese impositive.
In ogni caso la possibilità che un reddito sia sottoposto a tassazione in due stati non
viene completamente eliminata, e quando questo si verifica, viene concesso, ex art. 165
TUIR, a determinate condizioni, un credito d’imposta sulle imposte pagate all’estero sulla
stessa ricchezza.
Il carattere personale dell’IRPEF spiega l’istituto degli oneri deducibili, cioè spese che il
soggetto passivo sostiene nel periodo d’imposta (→ criterio di cassa: rileva l’effettiva
erogazione) per una serie di finalità valutate meritevoli di considerazione da parte del
legislatore, che possono essere sottratte dal reddito complessivo lordo, pervenendo così
al reddito complessivo netto (=base imponibile vera e propria).
Il ragionamento di fondo è che la spesa sostenuta (documentata e verificabile) ha natura
tale (→in genere non dipende dalla volontà del soggetto che la sostiene) da essere
considerata idonea a diminuire a monte la capacità contributiva (=riduce la quantità di
reddito disponibile).
Non vi è una logica unitaria ad ispirare ciascuna delle previsioni di legge, che hanno
carattere tassativo, come si può desumere dalla lunga elencazione ex art. 10 TUIR, che
fornisce anche importanti indicazioni sulle logiche del sistema attuale.
➔ La condizione per poter dedurre dal reddito complessivo gli oneri è l’impossibilità di
dedurre le stesse spese all’interno delle singole categorie, ad esempio:
Contributi previdenziali e assistenziali obbligatori per legge e i versamenti a
forme complementari di previdenza o di assistenza;
Spese mediche e di assistenza specifica a soggetti affetti da grave e
permanente invalidità o menomazione, che possono essere anche soggetti
nei confronti dei quali il contribuente ha obblighi alimentari ex art. 433 c.c;
Assegni periodici corrisposti al coniuge, risultanti da provvedimenti
dell’autorità giudiziaria e derivanti da separazione, divorzio, annullamento,
purché non destinati ai figli → le somme percepite per il mantenimento dei
figli non sono reddito per chi le riceve (sono tra i redditi esclusi per la
determinazione della base imponibile), ma non sono nemmeno deducibili per
chi le eroga; un principio contrario troviamo per le somme destinate invece al
coniuge, che l’erogante può dedurre, e il percipiente deve considerare come
reddito.
Indennità di avviamento corrisposta al conduttore di un immobile adibito ad
uso diverso da quello abitativo;
Importo della rendita catastale corrispondente all’immobile adibito ad uso
abitativo e alle relative pertinenze → compensa, con lo stesso importo,
l’inclusione nel reddito fondiario della rendita catastale derivante dalla casa
di abitazione.
Lett. d) bis: deducibilità delle somme restituite dal contribuente al soggetto
che, a suo tempo, le aveva corrisposte, se a suo tempo sottoposte a
tassazione → quando un reddito tassato in un periodo d’imposta viene meno
e le somme corrispondenti vengono restituite al soggetto che a suo tempo le
aveva corrisposte al contribuente, questi può dedurre quanto restituito per
effetto del sopravvenuto venir meno del fatto espressione di capacità
contributiva. Se non vi è reddito capiente ad assorbire la deduzione, questa
può essere effettuata nei periodi successivi a quello di restituzione o, in
alternativa, è concesso il diritto al rimborso.
Al contribuente non residente in Italia sono riconosciuti solo alcuni degli oneri deducibili,
visto il legame meno intenso che lo lega al territorio dello stato e alla spesa pubblica
italiana; tuttavia la determinazione del reddito dei soggetti non residenti presenta alcune
novità negli ultimi anni:
a. un soggetto residente in un paese che assicuri uno scambio di informazioni, se
produce reddito per il 75% in Italia → gli si applicano le stesse regole di un
residente in Italia, in particolare gli artt. da 1 a 23 del TUIR;
b. l. 232/2016 (=di bilancio per il 2017): ha inserito l’art. 24 bis nel TUIR: “Le persone
fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia ai sensi dell'articolo 2,
comma 2, possono optare per l'assoggettamento all'imposta sostitutiva, di cui al
comma 2 del presente articolo, dei redditi prodotti all'estero individuati
secondo i criteri di cui all'articolo 165, comma 2, a condizione che non siano state
fiscalmente residenti in Italia, ai sensi dell'articolo 2, comma 2, per un tempo
almeno pari a nove periodi d'imposta nel corso dei dieci precedenti l'inizio del
periodo di validità dell’opzione.” ➔ L’ imposta sostitutiva opzionale è quantificata
in: - 100.000 euro annui onnicomprensivi per il non residente; - 25.000 euro per i
familiari.
2. Le aliquote
L’ IRPEF è un’imposta progressiva per scaglioni: il reddito complessivo netto della singola
persona fisica è suddiviso in tanti scaglioni, ad ognuno dei quali è applicata un’aliquota,
che è sempre più elevata, man mano che il reddito si fa più alto.
Ogni aliquota però si applica solo sullo scaglione di competenza e dunque concorre con le
aliquote applicate sugli altri scaglioni.
➔ Art. 11 TUIR:
a. sullo scaglione di reddito che va fino a 15.000 euro si applica l’aliquota del 23% ,
per cui tutti i contribuenti fino a quel limite di reddito subiranno la stessa aliquota;
chi possiede redditi superiori a quella somma dovrà applicare, ma solo sugli altri
scaglioni, le rispettive aliquote di competenza, fermo restando il 23% applicato al
primo scaglione.
b. Oltre i 15.000 euro e fino a 28.000 euro si applica l’aliquota del 27% , che si
applicherà su un massimo di 13.000 euro (28.000 – 15.000), per cui il contribuente
che abbia redditi fino a 28.000 euro dovrà sommare l’importo risultante dall’aliquota
gravante sul primo scaglione, con quello risultante dall’applicazione del 27%
sull’importo che supera i 15.000 euro.
c. Oltre i 28.000 euro e fino a 55.000 euro si applica l’aliquota del 38% , che si
applicherà su un massimo di 27.000 euro (55.000 – 28.000), per cui il contribuente
che raggiunga questa soglia dovrà sommare i tre importi ottenuti applicando queste
prime tre aliquote ai primi tre scaglioni.
d. Oltre i 55.000 euro, e fino al 75.000 euro, si applica l’aliquota del 41% .
e. Oltre i 75.000 euro si applica l’aliquota del 43% .
NB. Ci sono previsioni specifiche che considerano non dovuta alcuna imposta nel
caso in cui siano posseduti particolari redditi di importo molto basso.
L’ art. 11 TUIR segnala che, dopo l’imposta netta, è possibile ottenere un’ulteriore
diminuzione del carico fiscale, attraverso il credito per imposte pagate all’estero, ex art.
165 TUIR (→ vd sistemi per ridurre la doppia imposizione).
Il credito è concesso per imposte pagate in via definitiva all’estero (il che significa che
spesso si avrà un divario temporale tra pagamento all'estero e spettanza del credito, che
presuppone che quel pagamento si renda definitivo), quando il reddito del contribuente
include redditi prodotti all’estero, ed è rapportato alla quota di imposta netta
corrispondente ai redditi esteri.
Il credito d’imposta non spetta se la dichiarazione dei redditi viene omessa o se i redditi
esteri non vi sono inclusi.
L’ IRPEF dovuta, al netto del credito d’imposta per redditi esteri eventualmente spettante,
è oggetto di pagamenti frazionati, alcuni dei quali avvengono prima che il periodo
d’imposta sia concluso: sono i versamenti in acconto e le ritenute operate dagli erogatori
di proventi reddituali a titolo di acconto.
Sono adempimenti che non incidono sulla determinazione del debito d’imposta, ma che
fanno parte delle modalità di accertamento e riscossione.
4. Le categorie di reddito
Classificazione dei vari proventi e attività che servono a produrli, in base alle sei categorie
reddituali previste ex art. 6 TUIR, che cercano di rappresentare le possibili forme con cui
un soggetto può conseguire redditi o:
a. Utilizzando il proprio patrimonio → redditi da immobili o da investimenti di capitale;
b. Svolgendo attività lavorativa → nelle forme del lavoro dipendente o lavoro
autonomo;
c. Combinando insieme risorse economiche e attività lavorativa nell’attività d’impresa.
In mancanza di una norma che attraverso una definizione generale di reddito cerchi di
rendere imponibili anche situazioni che non rientrano nelle categorie tipiche, l’attuale TUIR
colloca nella categoria dei redditi diversi una serie di fatti imponibili che, per varie ragioni,
non sono collocabili all’interno delle 5 categorie con un’identità ben marcata.
➔ Esempio → lavoro autonomo da arti e professioni: produce reddito della relativa
categoria, ma richiede l’esercizio per professione abituale, anche se non esclusiva,
dell’attività.
Non rientra dunque in questa categoria chi esserci occasionalmente le stesse
attività, ma non c’è dubbio che anche costui debba essere assoggettato ad IRPEF:
la situazione che lo riguarda (=esercizio sporadico di un’attività di lavoro autonomo)
diventa ipotesi di reddito tassabile come reddito diverso.
Dall’elenco dei proventi compresi nella categoria dei redditi diversi, si trae la conclusione
che, pur mancando una disposizione di chiusura a fattispecie indeterminata, dalla tecnica
legislativa del TUIR (=basata su elenchi casistici e tassativi) deriva l’imponibilità come
reddito di una grandissima parte delle fattispecie che possono determinare incrementi di
patrimonio, anche di rilievo minimale. Le ipotesi non tassabili infatti sono talmente
marginali da rispecchiare una consapevole rinuncia del legislatore a considerarle
imponibili; ecco perché in concreto non risulta applicabile l’analogia per individuare
ulteriori ipotesi di redditi tassabili.
Rispetto ad ogni avvenimento che può avere rilievo reddituale occorre compiere diverse
operazioni:
- Qualificazione della fattispecie;
- Valutazione del risultato in termini di reddito;
- Verifica della territorialità;
- Verifica dell’eventuale applicabilità di forme di tassazione sostitutiva o separata.
Solo al termine di queste attività di contenuto giuridico/economico sarà possibile stabilire
se un provento:
a. Costituisce reddito;
b. In che categoria va inserito;
c. Come se ne determina la base imponibile;
d. Se debba considerarsi prodotto in Italia o all’estero;
e. Se effettivamente concorra alla formazione del reddito complessivo o se ne resti
escluso perché rientrante nei casi di tassazione separata (→ in quanto a formazione
pluriennale) o di imposta sostitutiva.
In particolare è molto delicata ed importante l’individuazione della categoria di
appartenenza di ciascun provento, per cui è necessario conoscere bene i confini tra l’una
e l’altra categoria reddituale: è fondamentale ricordare che, rispetto alle altre categorie,
quella del reddito d’impresa gode di una sorta di superiorità gerarchica dal momento che
l’ascrivibilità di un provento alle altre categorie presuppone che esso non sia conseguito
all’interno di un’attività d’impresa, mentre se tale pertinenza all’impresa c’è, il reddito,
qualunque esso sia e qualunque sia la categoria in cui andrebbe collocato, viene attratto
nel reddito d’impresa e perde la sua identità specifica.
Ex art. 6 TUIR:
○ Redditi fondiari
Sono i redditi inerenti a immobili, terreni e fabbricati, siti nel territorio dello stato che sono
iscritti o devono essere iscritti nel catasto dei terreni e nel catasto dei fabbricati.
Generalmente vengono determinati attraverso l’individuazione di un reddito medio
ordinario, ritraibile dall’immobile, che viene attribuito mediante le operazioni catastali, che
ad ogni particella o unità immobiliare attribuiscono, sulla base delle caratteristiche
intrinseche e di norme tecniche di natura regolamentare, una rendita catastale (=reddito
figurativo annuo).
Vi è un incerto processo di coordinamento delle imposte sui redditi fondiari con la sempre
più consistente tassazione del patrimonio immobiliare da parte degli enti locali.
Le rilevazioni catastali non sono immutabili: sono sottoposte a revisione periodica e, in
caso di mutamento delle colture sui terreni, la rendita attribuita può essere modificata.
Il legame necessario tra censimento dei terreni e dei fabbricati, attuato mediante il catasto,
e quantificazione del reddito, spiega alcune particolarità della disciplina:
• In questa categoria non rientrano gli immobili situati all’estero, per i quali la rilevazione
catastale da parte dell’amministrazione italiana non sarebbe possibile;
• La tassatività dei terreni come produttivi di redditi fondiari presuppone l’uso agricolo del
terreno, che è quello considerato dalle procedure catastali di attribuzione della rendita;
infatti non producono reddito fondiario:
- I terreni pertinenza di fabbricati urbani;
- I terreni dati in affitto per usi non agricoli;
- I terreni produttivi di reddito d’impresa.
Il reddito è imputato, salvo un’eccezione, al soggetto che è proprietario o titolare di diritto
reale sull’immobile, per la parte di periodo d’imposta in cui si mantiene tale titolarità.
In caso di contitolarità, o di più diritti reali concorrenti sul bene, il reddito è ripartito in
proporzione tra tutti i soggetti interessati.
NB. Il reddito fondiario si suddivide in:
Reddito dei terreni: Reddito dei fabbricati:
Si divide in: È il reddito medio ordinario ritraibile
a. Reddito dominicale: attribuito al proprietario secondo le regole catastali da ciascuna
o al titolare di altro diritto reale sul terreno, unità immobiliare urbana, cioè da ogni
in virtù del solo fatto di poter esercitare porzione in cui il fabbricato è diviso.
attività agricole e quindi, anche in difetto di Assorbe anche il reddito dell’area su cui
un’attività effettiva di ‘messa a reddito’ del il fabbricato insiste e quello delle
terreno. pertinenze; le parti condominiali invece,
b. Reddito agrario: è la parte di reddito frutto se danno luogo a unità immobiliare
di una combinazione di fattori produttivi autonoma (ad es., alloggio del portiere),
(capitale di esercizio + lavoro di il relativo reddito viene ripartito tra i
organizzazione), nei limiti della potenzialità condomini (oltre una certa soglia, che è
del terreno, finalizzata all’esercizio di attività invece esclusa dal reddito).
agricole. Anche la casa di abitazione dà luogo ad
I due redditi normalmente coesistono: in tutti i un reddito tassabile, che viene però
terreni ad uso agricolo, salve eccezioni dovute compensato da un onere deducibile di
alla mancata coltivazione ‘strutturale’, pari importo.
producono reddito dominicale, mentre solo Il reddito medio ordinario è quello delle
quelli sui quali è esercitata un’effettiva attività tariffe d’estimo catastali o, per immobili a
agricola producono reddito fondiario. destinazione speciale, è determinato
Non sempre però i due redditi coesistono in mediante stima diretta ed è soggetto a
capo allo stesso soggetto: il reddito dominicale revisioni periodiche; il reddito è
presuppone sempre la titolarità di un diritto aumentato di ⅓, quando un immobile ad
reale sul terreno, mentre il reddito agrario può uso abitativo è in stato di non locazione,
essere imputato ad esempio all’affittuario del ed è tenuto a disposizione (→seconde
terreno, cioè al soggetto che organizza i fattori case).
produttivi. Gli aspetti più rilevanti sono relativi alla
La legge cerca faticosamente di definire possibile alternativa costituita dal reddito
l’attività agricola, tenendo conto dell’evoluzione effettivo, che sostituisce quello
delle tecniche agrarie e dell’evoluzione catastalmente determinato quando il suo
normativa. ammontare, diminuito del 5% a titolo di
spese di gestione dell’immobile, supera
il reddito catastale. Affinché avvenga la
sostituzione non è richiesto l’effettivo
pagamento dei canoni; è sufficiente la
previsione contrattuale perché
l’ammontare annuo
Le attività agricole sono indicate come quelle del canone di locazione diventi la base
di: imponibile di quella unità immobiliare
- coltivazione del terreno e di silvicoltura; urbana.
- per l’allevamento di animali → si richiede che Problema: possibile violazione della
i mangimi siano ottenibili per almeno un 1/4 capacità contributiva quando il
dal terreno; conduttore è moroso e l’importo del
- attività di produzione di vegetali → ammette canone concorre comunque alla
l’utilizzo di strutture fisse o mobili, anche formazione del reddito.
provvisorie, ma la superficie di queste ultime Ex art. 26 co. 1 questo problema è
non deve eccedere il doppio di quella del attenuato solo per le locazioni ad uso
terreno. I prodotti ottenuti dal fondo, dal abitativo, prevedendo che l’importo dei
bosco, dall’allevamento degli animali canoni non costituisca reddito, dopo il
possono essere oggetto di attività di provvedimento giudiziale di convalida di
manipolazione, conservazione, sfratto e che per i canoni scaduti e
trasformazione, commercializzazione, accertati come non pagati nell’ambito
valorizzazione, anche se non svolte sul del procedimento spetti al contribuente
terreno. Alcune attività agricole fortemente un credito d’imposta.
organizzate e tendenti ad uno sfruttamento Nell’ambito delle misure di contrasto
commerciale dei beni sono contigue alle all’evasione, ed anche per un’esigenza
attività d’impresa in senso stretto, per cui è perequativa finalizzata a non
necessario tracciare un confine certo e non penalizzare il trattamento fiscale
distorsivo rispetto alla concorrenza: le attività dell'investimento immobiliare, rispetto
che si collocano all’interno di questi limiti all’investimento finanziario è stata
restano produttive di reddito agrario (sono introdotta una misura agevolativa e di
tassate sulla base della rendita catastale, semplificazione,
normalmente molto più ridotta del reddito (ex art. 3 d.lgs. 23/2011) la cedolare
effettivamente conseguito); oltre tali limiti secca: “il canone di locazione relativo ai
sono produttive di reddito d’impresa (= una contratti aventi ad oggetto immobili ad
stessa attività può essere considerata in uso abitativo e le relative pertinenze
parte riconducibile alla categoria reddito locate congiuntamente all’abitazione,
fondiario, mentre per la parte eccedente i può essere assoggettato, in base alla
limiti è considerata reddito d’impresa, con decisione del locatore, ad un’imposta
conseguente determinazione della base operata nella forma della cedolare
imponibile secondo regole proprie del reddito secca, sostitutiva dell’imposta sul
d’impresa → sulla base di scritture contabili reddito delle persone fisiche” →
e del bilancio, se redatto). attualmente è prevista un’aliquota
proporzionale del 21%, salvo riduzioni
per i contratti a canone concordato. È
una deroga esplicita alla progressività,
che si aggiunge ad una determinazione
dell’imponibile che, per i fabbricati e i
terreni, è in genere più vantaggiosa, nel
suo carattere medio-ordinario, rispetto
alla tassazione del reddito effettivo;
sono redditi che entrano nel reddito
complessivo, ma per importi attenuati a
monte.
NB. Ci sono immobili che non producono redditi fondiari:
- per i terreni comunque non adibiti ad uso agricolo.
- per i fabbricati → a parte alcune esclusioni agevolative, ci sono due tipologie che non
producono un autonomo reddito fondiario:
1) Costruzioni rurali: sono le costruzioni adibite ad una funzione servente rispetto
alle necessità dell’impresa agricola e dei soggetti che vi lavorano (art. 42). Vi è una
complessa legislazione speciale che ha cercato di definire i requisiti perché un
immobile rurale possa effettivamente essere considerato tale, e non sia invece una
residenza di campagna, avulsa dal contesto di un’impresa agraria.
2) Immobili (fabbricati, ma anche terreni) relativi all’impresa, o strumentali
all’esercizio di arti e professioni: nell’impresa un bene immobile può concorrere al
reddito in vario modo, a seconda dell’oggetto dell’attività imprenditoriale e della
funzione che l’immobile è chiamato a svolgere. In ogni caso non sarà mai un
immobile che produce reddito fondiario, dal momento che la sua capacità di
produrre reddito perde l’identità della categoria una volta assorbito nel reddito
d’impresa.
Ex art. 43 co. 2 → definizione degli immobili strumentali: può esserci una strumentalità
per destinazione, all’attività d’impresa o a quella professionale o artistica derivante
dall’utilizzo esclusivo del bene immobile in chiave strumentale all’impresa (strumentale in
genere si definisce un bene che apporta un contributo continuativo e duraturo alla
produzione del reddito, in genere pluriennale).
Il bene posseduto dall’impresa può essere strumentale per natura, quando per sue
caratteristiche l’immobile non è suscettibile di diversa utilizzazione senza radicali
trasformazioni; in queste ipotesi il bene immobile rimane strumentale anche quando non
utilizzato o quando concesso in locazione a terzi.
○ Redditi di capitale
La categoria dei redditi di capitale raccoglie fattispecie molto diverse ed è molto
complessa quanto a fattispecie imponibili.
Il tratto comune, che rende abbastanza omogenee queste previsioni, è la derivazione del
reddito da una qualsiasi forma di impiego del capitale: la categoria ricomprende ipotesi
che hanno in comune la messa a disposizione di somme di denaro e la conseguente
produzione di frutti che remunerano quell’impiego.
Rientrano nella categoria dei redditi di capitali diverse fattispecie:
Produttive di interessi, intesi in senso ampio e comunque denominati : è una categoria
molto variegata ed è accompagnata da una serie di presunzioni → gli interessi si
presumono percepiti nel tempo e nella misura stabiliti in forma scritta ed in mancanza si
presumono percepiti in misura pari a quella maturata nel periodo d’imposta e sulla base
del saggio legale di interessi (art. 1284 c.c). Le somme versate a società commerciali,
consorzi e altri enti commerciali dai soci associati o partecipanti, si presumono date a
mutuo (=non produttive di interessi), salvo che dal bilancio dell’ente destinatario non
risulti un titolo giuridico diverso.
Produttive di utili da partecipazione in società di capitali : in genere sono imponibili
solo nella misura del 49,72% per i titolari di partecipazioni qualificate (ossia, superiori ad
una certa soglia che separa convenzionalmente partecipazioni di puro investimento da
partecipazione miranti ad un ruolo gestorio nell'ente); questa parziale detassazione
deriva dall’opportunità di tenere conto che l’utile distribuito ai soci è già stato
assoggettato a tassazione proporzionale sul reddito presso l’ente. L’ art. 47 contiene una
serie di precisazioni complesse, finalizzate ad individuare con certezza, tra le diverse
forme di erogazione di somme dalla società verso i soci, quando ci si trovi di fronte alla
corresponsione di utili, e quando invece si sta procedendo a un rimborso di capitale, che
come tale non è qualificabile come reddito.
Proventi elencati ex art. 44 che, pur non potendo essere definiti come interessi o utili,
derivano da impiego di capitale:
Compensi spettanti a chi presta fideiussioni o garanzie;
Le rendite perpetue;
Utili da associazione in partecipazione o da contratti di cointeressenza o di
partecipazione agli utili;
Redditi imputati al beneficiario di un trust, anche se non residente.
Interessi e altri proventi derivanti da rapporti non esplicitati dalla legge, ma aventi
comunque come oggetto l’impiego di capitale.
➔ Sono escluse le ipotesi nelle quali da quei rapporti si possono conseguire
differenziali positivi o negativi, in dipendenza di un evento futuro o incerto.
Questa esclusione traccia il confine con la categoria dei redditi diversi nella quale
sono contemplate le ipotesi (cd capital gains) che, pur collegandosi ad impieghi di
capitale, danno luogo a redditi o a perdite in dipendenza di eventi futuri e incerti
(quali gli andamenti dei mercati, le oscillazioni dei cambi o delle borse titoli e
merci).
La disciplina del TUIR sui redditi di capitale non è esaustiva, perché hanno grande rilievo
molte leggi speciali che regolano la gestione del risparmio tenendo conto che essa
avviene ormai in larga parte attraverso organismi collettivi di investimento, producendo un
risultato di gestione complessivo che accomuna da un lato interessi ed utili (→redditi di
capitale), dall’altro le plusvalenze (→redditi diversi derivanti dalla alienazione dei titoli:
azioni, obbligazioni, certificati, polizze).
NB. Due regole fondamentali caratterizzano la base imponibile dei redditi di capitale:
1) Imputazione al periodo d’imposta per cassa, cioè in base alla percezione dei proventi.
2) Mancanza di spese deducibili: il provento qualificato come reddito di capitale è
imponibile nel suo ammontare lordo, nessuna spesa di produzione è ammessa.
Gran parte dei redditi di capitale (→ sono tali solo se non percepiti nell’esercizio di
imprese o da società ed enti commerciali soggetti a IRES) è assoggettata a tassazione
proporzionale sulla base di:
- imposte sostitutive → ex art. 18 TUIR sono applicabili anche ai redditi di capitale
corrisposti da soggetti non residenti a soggetti residenti, posto che i primi non
potrebbero effettuare la ritenuta e versarla allo Stato italiano.
- ritenute alla fonte a titolo d’imposta.
➔ Emerge una seconda deroga al principio di progressività: dal reddito complessivo sono
esclusi una larga parte dei redditi di capitale.
Nell’ambito delle gestioni individuali di investimento, il reddito di capitale perde la sua
identità nel caso del risparmio gestito, essendo sottoposto a imposta sostitutiva solo il
risultato netto maturato della gestione, che comprende sia i redditi di capitale, sia i redditi
diversi (→ proventi finanziari da impiego di capitale, ma dipendenti da evento futuro e
incerto).
Se la gestione è attuata da un organismo collettivo di investimento la tassazione avviene
al momento del realizzo.
In alcuni casi è ammessa la compensazione dei proventi con le perdite conseguite, in
deroga alle regole generali della categoria.
L’aliquota di tali prelievi proporzionali di regola è del 26%, ma sugli interessi e sui capital
gains derivanti da titoli di stato o emessi da enti pubblici anche di stati stranieri, purché
classificabili tra gli stati collaborativi, si applica l’aliquota del 12,5%.
NB. Applicazione delle ritenute sui redditi finanziari disciplinata da:
- leggi speciali;
- art. 26 ss d.p.r. 600/1973 → interessi e redditi finanziari;
- art. 27 ss d.p.r. 600/1973 (che contiene le regole sulle ritenute delle imposte sui
redditi) → utili da partecipazione
Sono esclusi dal concorso al reddito complessivo i redditi di capitale compresi tra quelli
soggetti a tassazione separata, in quanto formatisi in un arco di tempo pluriennale.
Il reddito di capitale si considera prodotto nel territorio dello stato in base alla residenza
in Italia del soggetto erogatore: affinché il reddito del percipiente sia considerato
prodotto in Italia, deve essere lo stato italiano, o un soggetto residente in Italia o una
stabile organizzazione di un soggetto non residente.
Gli stessi criteri valgono per stabilire quando un soggetto residente abbia prodotto reddito
di capitale all’estero: deve essere residente all’estero l’erogatore del reddito.
Sul piano della tassazione dei redditi di capitale transnazionali, incidono in misura
determinante convenzioni internazionali e direttive europee: quello dei rapporti finanziari
internazionali infatti è uno degli ambiti in cui la legislazione europea deve intervenire per
assicurare parità di trattamento e libera circolazione dei capitali, che potrebbe essere
condizionata da misure discriminatorie. La mobilità dei capitali e la necessità di creare
condizioni favorevoli agli investimenti finanziari in Italia comportano che per molti redditi
di capitale sia prevista l’esenzione quando i redditi sono percepiti in Italia da soggetti non
residenti; per gli utili è previsto o l’esonero da ritenuta o il rimborso della stessa, previa
dimostrazione dei requisiti previsti dalla legge o dalle convenzioni internazionali.
Determinazione della base imponibile: ci sono delle regole generali applicabili a tutte le
fattispecie di redditi di lavoro dipendente, che essenzialmente sono:
Tassazione secondo il criterio di cassa: contano i compensi percepiti effettivamente
nel periodo d’imposta, e anzi, rispetto ai lavoratori subordinati, per ragioni tecniche
si contano anche i compensi erogati entro i primi giorni dell’anno successivo;
Tassazione al lordo: non viene riconosciuta nessuna spesa per la produzione del
reddito, e anche per questo motivo ai titolari di reddito di lavoro dipendente sono
concesse specifiche detrazioni dall’imposta.
*Lavoratori subordinati: le regole specifiche sulla determinazione dell’imponibile di
categoria sono notevolmente complesse; per il meccanismo delle ritenute, con tali
regole sono tenuti a confrontarsi in sede applicativa non tanto i lavoratori stessi,
quanto i datori di lavoro, che devono effettuare ritenute d’acconto mirate a far
coincidere l’imposta dovuta a fine periodo con quella trattenuta man mano che si
erogavano le retribuzioni.
Il reddito di lavoro dipendente si considera prodotto in Italia quando è prestato nel territorio
dello Stato; viceversa è considerato prodotto all’estero quando è prestato all’estero.
Tuttavia rileva non solo il dato geografico, ma anche quello della sede del rapporto di
lavoro giuridicamente risultante dal contratto: resta prestato in Italia il lavoro del
dipendente pubblico o privato che sia inviato all’estero per un periodo anche lungo (=si
considera come periodo di trasferta).
▶ Ci sono casi in cui il lavoratore dipendente di un’impresa ad es., per realizzare
un’opera pubblica all’estero, finisce con il prestare la propria opera per più anni
all’estero (la vicenda può riguardare anche il dipendente pubblico).
○ Redditi d’impresa
Il reddito d’impresa costituisce la categoria con le regole più complesse di determinazione
del reddito, come risulta evidente dalle disposizioni del TUIR, e dalle leggi speciali, che ne
dettano la disciplina; vediamo i tratti identificativi essenziali della categoria (soprattutto per
distinguerla dalle altre).
Gli elementi essenziali della struttura del reddito d’impresa sono:
- rapporto con la nozione civilistica d’impresa;
- ampiezza dei soggetti coinvolti, che hanno dimensioni e caratteristiche varie.
Questo costringe il legislatore a dettare regole molto diverse da soggetto a soggetto e
rende problematico utilizzare la categoria del reddito d’impresa nella sua unitarietà
quando occorre disciplinare altre forme di imposizione facendo riferimento ad essa (→ in
passato ILOR; oggi IRAP). È proprio l’organizzazione il requisito che, rispetto al diritto
comune, amplia notevolmente le dimensioni della categoria reddituale: diversamente da
quanto avviene nel diritto commerciale in virtù della definizione di impresa contenuta nel
c.c (in realtà fornisce la definizione di imprenditore) nel sistema del TUIR in molte
fattispecie può esserci reddito d’impresa anche se l’attività non ne ha l’organizzazione: ex
art 55 TUIR sono produttive di reddito d’impresa le attività con cui si esercita un’impresa
commerciale, che è considerata sussistente:
• Quando è esercitata quale professione abituale, anche se non in via esclusiva,
un’attività compresa nell’art. 2195 c.c.:
- Produzione industriale di beni e servizi;
- Attività intermediarie nella circolazione dei beni;
- Trasporto via terra, acqua o aria;
- Attività bancario o assicurativa;
- Altre attività ausiliarie delle precedenti.
• Quando è esercitata un’attività agricola ma con caratteristiche eccedenti i limiti che
condizionano l’applicazione delle norme sul reddito agrario.
➔ In questo caso, la sola parte dell’attività che eccede detti limiti è considerata
produttiva di reddito d’impresa e dunque da una sola impresa possono nascere
due tipologie di reddito che vanno a confluire in due categorie diverse.
NB. Tratto comune di queste due ipotesi: si considera prodotto reddito d’impresa anche
se tali attività non siano organizzate in forma di impresa → per questo la definizione
tributaria è più ampia di quella civilistica.
Anche le imprese subiscono ritenute, anche se in casi limitati, ma quasi sempre queste
ritenute non sono a titolo d’imposta, e quindi i redditi che le hanno subite concorrono alla
determinazione di reddito d’impresa.
Il reddito d’impresa ha capacità attrattiva rispetto alle altre categorie: se l’impresa ha beni
immobili o incassa interessi e utili, non dichiara questi redditi come redditi fondiari o di
capitali, ma li assorbe nel reddito d’impresa e li fa concorrere al reddito d’impresa.
Il reddito d’impresa si considera prodotto in Italia quando deriva da attività esercitate nel
territorio dello stato mediante stabile organizzazione.
Il reddito prodotto da impresa residente mediante stabile organizzazione estera è
considerato reddito prodotto all’estero, e può essere escluso dalla determinazione
del reddito d’impresa, su opzione del contribuente.
▶ Tra i redditi assoggettabili a tassazione separata, in quanto di formazione
pluriennale, compaiono redditi classificabili come d'impresa:
- Indennità di avviamento spettante al conduttore di un immobile per la cessazione
della locazione di un immobile commerciale;
- Plusvalenze da cessione di azienda;
- Redditi conseguiti dall’imprenditore nella liquidazione dell’azienda.
Per quanto riguarda il lavoro da arti e professioni, la norma rende palese che i redditi
inclusi in questa categoria si determinano in chiave residuale: esiste reddito di lavoro
autonomo se non vi è organizzazione d’impresa e non può mai esistere reddito di lavoro
autonomo se l’attività svolta è ricompresa tra quelle ex art. 2195 c.c., al cui interno, anche
se non vi organizzazione, si produce sempre e solo reddito d’impresa.
Le attività di lavoro per le quali può essere difficile individuare la collocazione dunque
sono quelle di prestazione di servizi a terzi, estranee all’ambito dell’art. 2195 c.c., per le
quali diventa decisivo stabilire se ci sia o meno organizzazione d’impresa: possono essere
considerate produttive di reddito di lavoro autonomo, se non vi è una combinazione di
fattori produttivi, diversi dal mero lavoro del titolare (→ ad es. studio fotografico o
laboratorio di grafica).
Nell’ambito delle professioni per cui è prevista l’iscrizione in albi, si rientra di regola nei
redditi di lavoro autonomo, ma non è da escludere che attività professionali possano
essere svolte in forma d’impresa; in questi casi la forma giuridica di ente commerciale
conduce a individuare la presenza di reddito d’impresa, con soggettività IRES della
società.
▶Precisazioni:
- L’ esercizio di arte o professione è considerato produttivo di reddito diverso, se
prestato in forma occasionale.
- Forme di attività professionale possono dare luogo a rapporti di parasubordinazione
continuativi, qualificati come redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente.
- La pensione, anche se consegue ad attività professionale pregressa, è sempre
considerata reddito di lavoro dipendente.
NB. Le regole di determinazione dell’imponibile di categoria, pur avendo tratti in comune,
come l’imputazione per cassa dei proventi e delle spese, sono molto differenti nel
passaggio dal lavoro autonomo da arti e professioni, che presuppone la tenuta delle
scritture contabili, la somma algebrica tra compensi e spese, il possibile manifestarsi di un
risultato negativo (=perdita) che indice in diminuzione nella quantificazione del reddito
complessivo, alle diverse fattispecie di cui al comma 2, che possono ammettere deduzioni
forfettarie o colpire i proventi al lordo, senza alcuna deduzione.
Per quanto riguarda il reddito professionale sembra opportuno delineare una serie di
regole che in parte sono mutate rispetto a quelle relative al reddito d'impresa, le
differenze:
L’impresa determina il reddito ai fini fiscali con la mediazione delle risultanze di
bilancio, questo non accade per i professionisti e per gli artisti.
Per professionisti e artisti, che hanno una maggiore contiguità, se non promiscuità,
tra sfera personale e familiare e sfera professionale, sono previste:
- alcune restrizioni, come quella relativa alla deducibilità delle spese di acquisto di
beni immobili;
- una severità maggiore nel verificare il requisito dell’inerenza, come condizione
indispensabile a riconoscere la deducibilità delle spese.
A parte i problemi specifici (es. quelli derivanti dal rimborso delle spese) è importante
ricordare che anche questo reddito:
a. Dà rilevanza ai compensi in natura;
b. Esclude l’imponibilità di somme addebitate al cliente a titolo di contribuzione
previdenziale e assistenziale;
c. Ammette una pluralità di componenti positivi → non sono solo i compensi a influire
in senso positivo sulla somma algebrica dalla quale deriva il reddito di categoria,
ma possono rilevare, ad esempio, anche plusvalenze derivanti da cessioni a titolo
oneroso di beni strumentali o da risarcimenti ottenuti per la perdita e il
danneggiamento di tali beni.
➔ Caso della cessione dello studio professionale o di tutta o parte della clientela: dà
luogo a corrispettivi che concorrono a formare il reddito, ma, essendo di formazione
pluriennale, sono tassati separatamente*.
I redditi da lavoro autonomo sono in generale soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di
acconto, salvo alcune ipotesi in cui la ritenuta è a titolo d’imposta → vd. lavoro autonomo
reso in Italia da soggetto non residente.
NB. Sono soggetti a tassazione separata*:
- compensi per la cessione della clientela;
- indennità per la cessazione del rapporto di agenzia;
- indennità percepite per la cessazione dell’esercizio delle funzioni notarili.
Il reddito di lavoro autonomo si considera prodotto in Italia quando deriva da attività
esercitata nel territorio dello stato; ex art. 165 il lavoro autonomo esercitato all’estero da
un residente non può considerarsi prodotto in Italia.
○ Redditi diversi
È una categoria eterogenea per definizione, nella quale trovano posto:
- sia redditi analoghi a quelli contemplati nelle prime 5 categorie, ma non aventi tutti i
requisiti per esservi inseriti;
- sia redditi derivanti da attività e atti di disposizione del patrimonio non continuativi, ma
tuttavia meritevoli di attenzione da parte del legislatore, che compie scelte ampiamente
discrezionali nello stabilire cosa, quando e come tassare.
Si cerca così di individuare il reddito che si produce a prescindere dalle situazioni e attività
tipizzate nelle prime cinque categorie, considerando che, se è vero che il legislatore
potrebbe in astratto non avere limiti nell’individuare fatti espressivi di capacità contributiva
anche minima, è anche vero che si deve tenere conto delle concrete possibilità di
accertamento di fatti economici marginali, talora paralleli rispetto alla vera e propria
economia ufficialmente censita.
Nel TUIR manca una previsione di tassabilità di ogni fatto sia pur latamente
incrementativo del patrimonio, ma è anche vero che ci sono previsioni larghissime, come
quella che considera reddito diverso ogni provento conseguito a seguito dell’assunzione di
obblighi di fare, non fare o permettere, non meglio identificati.
L’ approccio alla categoria dei redditi diversi deve essere concettuale ed è anche un modo
per riflettere su quanti modi possano esserci per produrre reddito tassabile, sulle ragioni
per cui alcune ipotesi siano rilevanti solo nel concorso di particolari condizioni, sui limiti
intrinseci di ogni categoria reddituale e sull’opportunità di integrare le relative previsioni
con una categoria ‘di completamento’.
Le fattispecie di redditi diversi, contemplate ex art. 67 TUIR, sono accomunate da una
precondizione di fondo, sancita al comma 1: le fattispecie costituiscono redditi diversi se
non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell'esercizio di redditi
di lavoro autonomo, di redditi d’impresa, di società in nome collettivo e in accomandita
semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente.
NB. Da un punto di vista teorico alcune delle ipotesi contemplate, sia per i redditi
finanziari, sia per le vincite, inducono a ravvisare delle ipotesi di tassazione di un
reddito/entrata, a conferma del fatto che l’IRPEF non dà rilievo solo al concetto di reddito
prodotto.
L’eterogeneità della categoria rende non necessaria una descrizione delle diverse forme
di determinazione dell’imponibile di categoria, che sono modellate sulla caratteristica di
ciascuna delle ipotesi tassabili considerate dall’art. 67 TUIR.
Il criterio di imputazione a periodo è quello di cassa: conta la percezione; in genere si
tratta di redditi che ammettono la deduzione di spese sostenute per la produzione, in
alcune ipotesi di redditi finanziari è ammessa la compensazione con le perdite e le
minusvalenze derivanti dalle stesse attività.
Spesso la previsione di tassabilità si rivela soltanto astratta, dal momento che per effetto
di leggi concorrenti o di norme speciali, il reddito diverso previsto ex art. 67 TUIR, non
concorre comunque alla formazione di reddito complessivo.
Quando la norma definisce il provento tassabile come plusvalenza, la base imponibile va
sempre individuata in un differenziale, frutto di contrapposizione tra costo di acquisto e
corrispettivo derivante dalla cessione a titolo oneroso; ex art. 9 TUIR, alla cessione a titolo
oneroso è assimilato per legge il conferimento in società, così come sono assimilati gli atti
di costituzione o trasferimento di diritti reali diversi dalla proprietà.
Molte ipotesi disciplinate come redditi diversi evidenziano redditi a formazione pluriennale,
e infatti molte sono contemplate ex art. 17 TUIR come soggette a tassazione separata
(=sottratte alla formazione del reddito complessivo e all’applicazione della progressività).
Anche per la territorialità, le regole sono eterogenee: per considerare il reddito diverso
prodotto in Italia, rileva il legame con il territorio italiano del bene o dell’attività che
produce il reddito.
Negli ultimi anni diversi interventi normativi hanno previsto aliquote maggiorate per
determinate tipologie di contribuenti: sono stati previsti inasprimenti del prelievo IRES
sugli enti operanti:
- nel mondo del credito e delle assicurazioni,
- nei settori petrolifero ed energetico (cd. Robin Hood tax*).
La giustificazione di questa differenziazione, che nasce dalla necessità di incrementare il
gettito, con una sovraimposizione che colpisce soggetti in grado di fornire il gettito
preventivato, non è sempre enunciata in modo esplicito dalla legge che la istituisce: nel
caso delle imprese petrolifere ed energetiche esse traevano spunto dall’esistenza di
extraprofitti, derivanti dagli andamenti del mercato.
* Corte costituzionale, sent. 10/2015: è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della
‘Robin Hood tax’ per violazione dell’art. 3 da parte dell’art. 53, pur riconoscendo la
possibilità per il legislatore di differenziare le aliquote tra categorie di soggetti passivi,
“per incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in sé e per sé
legittimo, perseguito”.
➔ Resta aperta la questione di quale sia il modo opportuna e legittimo per introdurre
una diversità di prelievo tra soggetti che manifestano, in termini quantitativi, la
stessa capacità contributiva e di quali limiti debbano essere invalicabili per non
incorrere in irragionevolezza e discriminatorietà; in passato i redditi sono stati
diversificati qualitativamente tra loro (ILOR), ma ricorrendo ad imposte diverse.
Base imponibile → ex art. 75 TUIR essa viene determinata secondo regole diverse, a
seconda della tipologia di soggetti passivi:
a. Enti commerciali residenti in Italia: il reddito complessivo da qualsiasi fonte provenga
è comunque considerato reddito d’impresa, e quindi la sua quantificazione coincide
con la determinazione del reddito d’impresa, secondo le numerose e complesse
disposizioni ex artt. 82-116.
b. Enti non commerciali residenti in Italia: il reddito complessivo ex art. 143 TUIR è
determinato da redditi ovunque prodotti, riconducibili alle categorie di redditi fondiari, di
capitale, d’impresa o diversi. Sono esclusi redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte
a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva.
➔ Rinvio all’art. 8 TUIR, e l’art. 144 TUIR ribadisce che per ogni categoria si determina
un risultato distinto, che è comprensivo dei redditi prodotti da tutti i cespiti rientranti
nella categoria (→ come per le persone fisiche).
E’ prevista la possibilità di dedurre oneri deducibili ex art. 146 e sono previste
ulteriori detrazioni per oneri, rispetto a quanto previsto in via generale dall’art. 78
(vd art. 147).
c. Enti commerciali non residenti nel territorio dello stato: il reddito complessivo è dato
dalla somma dei redditi prodotti in Italia, con esclusione di quelli esenti, soggetti a
ritenuta d’imposta o a imposta sostitutiva.
▶ Criterio per considerare un reddito prodotto in Italia: è sempre fornito dall’art. 23
TUIR, con alcune necessarie integrazioni ex art. 151; se però l’ente commerciale non
residente:
• Ha stabile organizzazione in Italia: il reddito complessivo si determina secondo le
regole proprie degli enti commerciali, sulla base di una rilevazione contabile che
interessa la stabile organizzazione e le altre attività produttive di reddito in Italia
(art. 152).
È ancora controverso fino a che punto la presenza di una stabile organizzazione
renda necessario imputare ad essa i proventi prodotti in Italia dalla casa madre,
anche in via diretta o se, a monte, sia ipotizzabile la produzione di reddito
d’impresa parallelo a quello imputabile alla stabile organizzazione (che se non
compreso nell’attrazione sarebbe da considerare non prodotto in italia).
• Non ha stabile organizzazione in Italia: si applicano le regole sull’IRPEF, con
possibile pluralità di categorie reddituali e sono previsti oneri deducibili e detrazioni
per oneri.
d. Enti non commerciali non residenti: ex art. 153 è prevista la sola tassazione dei
redditi prodotti in Italia, individuati con i criteri dell’art. 23 ed escludendo i redditi esenti
o soggetti a ritenuta d’imposta o a imposta sostitutiva. La pluralità di redditi che
fisiologicamente si manifesta nell’ente non commerciale spiega l’applicazione delle
norme sull’IRPEF (l'ampiezza del richiamo sembra rendere possibile per l’ente non
commerciale non residente la titolarità di redditi di lavoro, a differenza di quanto
accade per gli enti non commerciali residenti; ma questa conclusione basata sulla
lettera del rinvio lascia perplessi) e la previsione di oneri deducibili dal reddito
complessivo e di oneri detraibili dall’imposta lorda.
e. Società di capitali residenti (e forse anche per enti commerciali diversi dalle società)
e società non residenti, che esercitano attività di navigazione marittima: è previsto un
regime alternativo di determinazione del reddito d’impresa, nel quale la base
imponibile è determinata non sulla base del bilancio, ma sulla base del tonnellaggio
della flotta (→ cd. tonnage tax).
f. Un altro imponibile forfettario riguarda le società non operative o di comodo: questa
figura di società è stata disegnata dal legislatore nel 1994 per combattere il fenomeno
delle società senza effettiva attività d’impresa, costituite per gestire più
vantaggiosamente il patrimonio personale dei soci. Nel tempo la disciplina è stata
rivista più volte, fino a tradursi in una sorta di imposta commisurata a indici
patrimoniali, sulla base dei quali viene determinato, per soggetti che, pur dotati di
patrimonio non abbiano ricavi e redditi oltre determinate soglie, un imponibile minimo,
a cui si applica un’aliquota maggiorata fino al 38%.
In concreto la disciplina può essere disapplicata in tutta una serie di situazioni di
non normale attività produttiva dell’impresa, a mezzo di interpelli ora qualificati di
carattere probatorio.
Pur muovendo da esigenze apprezzabili, soprattutto nella versione originaria che
mirava a favorire lo scioglimento agevolato di queste società ‘di comodo’, la
disciplina attuale lascia perplessi ed è fonte di notevole contenzioso, soprattutto in
cui si attua mediante un giudizio di meritevolezza del comportamento dei
contribuenti, da cui deriva la mancata produzione di reddito.
2. Gli enti
La somma dei soggetti passivi IRPEF e dei soggetti passivi IRES non copre tutte le ipotesi
di entità giuridicamente autonome, alle quali possano essere imputati redditi; restano
esclusi gli enti (società e associazioni) ai quali si applica il principio di trasparenza, che
implica la diretta imputazione del reddito (che viene pur sempre determinato in capo a tali
soggetti) ai soci associati o partecipanti. Non vi è quindi un'imposta sul reddito che sia
dovuta dall'ente cui si applica il principio di trasparenza.
4. Società e soci
Premesso che una tassazione delle società commerciali è da tempo presente nel nostro
ordinamento tributario, ci si chiede quale sia la capacità contributiva colpita. Si può
ritenere la società come una mera articolazione formale, dietro la quale ci sono interessi
sostanziali riconducibile ai soci ed in particolare alle persone fisiche, che mediante la
partecipazione alla società intendono comunque perseguire l'obiettivo di incrementare il
proprio patrimonio personale, ovvero si può considerare il fenomeno della soggettività
autonoma di un ente finalizzato all'attività commerciale come un sintomo di distinta
capacità contributiva dell'ente.
Nell'ordinamento, nessuna delle due visioni esclude completamente l'altra, anche se,
dopo la riforma del 2003/2004, non vi sono dubbi circa l'autonomia della capacità
contributiva delle società, la prima visione riaffiora periodicamente quando occorre
superare lo schermo societario andando alla ricerca degli interessi economici sottostanti.
Prima dell'ultima riforma dell'imposta sulle società, che ha sostituito all’IRPEG l’IRES, la
tassazione della società era impostata in modo da prelevare un'imposta sul reddito
prodotto dall'ente, in attesa del prelievo definitivo sul socio, da attuare all'atto della
distribuzione dell'utile al socio stesso.
L'IRPEG assumeva la funzione economica di un prelievo a titolo di acconto, rispetto alla
successiva, definitiva tassazione sul socio (che, alla fine, dopo tutti i passaggi di utili
intersocietari, doveva pur sempre essere una persona fisica); lo confermava il fatto che il
socio, mentre era chiamato a pagare l'imposta progressiva sull'intero utile percepito, si
vedeva riconoscere un credito d’imposta, commisurato all’IRPEG pagata dalla società. La
tassazione sul socio assoggettata ad aliquota progressiva il reddito della società
distribuito, ma scomputando come imposta già pagata l'IRPEG corrisposta sul reddito
d'impresa prodotto.
L'utile prodotto dalla società era ed è determinato e qualificato come reddito d'impresa,
perché consegue all'esercizio dell'impresa commerciale; ma i soci di una società di capitali
non sono imprenditori, ma investitori, che impiegano il proprio capitale aspettando un
ritorno (tendenzialmente periodico e continuativo) in termini di utili e, in prospettiva, la
possibilità di conseguire una plusvalenza cedendo la propria partecipazione ad un prezzo
superiore a quello pagato per l'acquisto. Il reddito della società, all’atto della distribuzione,
diventa per i soci reddito di capitale, salvo che non sia percepito nell’ambito di un’impresa,
caso nel quale opera la regola generale dell’attrazione nel reddito d'impresa di ogni
provento percepito.
Nel 2003 si è deciso, anche per la minaccia poi rivelatasi concreta di una declaratoria di
incompatibilità comunitaria del sistema del credito d'imposta, di rovesciare il sistema,
ponendo al centro della stessa la società, e non più il socio. L’IRES, sostitutiva
dell'IRPEG, ha perso la natura di acconto propria di quest'ultima, ed è divenuta un'imposta
che mira a colpire la capacità contributiva autonoma della società o dell'ente commerciale,
relegando ad un ruolo secondario, se non marginale, la tassazione del reddito del socio.
Non potendo più essere conservato il sistema del credito di imposta, il problema di
attenuare la duplice tassazione sull'utile complessivo, colpito sia quale reddito di impresa
sulla società, sia quale reddito di capitale in capo al socio, è stato risolto prevedendo una
tassazione solo parziale dell’utile distribuito, proprio in considerazione del prelievo già
effettuato sulla società.
5. Il principio di trasparenza
Nel testo unico, all’art. 5 si prendono in considerazione una serie di
entità residenti nel territorio dello stato (società personali, associazioni professionali) che
esprimono una forma di conduzione associata di attività produttive di reddito. Si
rinvengono società personali commerciali (come quella in accomandita semplice e in
nome collettivo), società irregolari, atipiche o esistenti in via di mero fatto, le quali saranno
produttive di reddito d’impresa, società semplici, che possono essere titolari solo di redditi
professionali, fondiari o diversi, associazioni professionali, titolari di reddito di lavoro
autonomo.
La caratteristica che consente al legislatore di accomunare questi soggetti, oltre alla
residenza nel territorio dello stato, è la mancanza di personalità giuridica e di una netta
separazione tra patrimonio dell’ente e patrimonio dei soggetti che ne fanno parte.
Concentrando il discorso sulle società di persone commerciali, la responsabilità illimitata
dei soci (esclusi i soci accomandanti nell’accomandita semplice), il
loro naturale coinvolgimento nella gestione dell’impresa (esclusi i soci accomandanti) e la
possibilità di attribuzione degli utili senza formali delibere di distribuzione, oltre alla
necessità di evitare o ridurre la doppia imposizione, inducono il legislatore a fare della
società un mero centro di riferimento, ai fini della quantificazione del reddito prodotto,
mentre l’imposta viene direttamente posta a carico dei soci, prevedendo l'imputazione
automatica del reddito quantificato in capo alla società, in proporzione alla quota di
partecipazione agli utili (che deve essere predeterminata, altrimenti si presume
proporzionale al valore dei conferimenti; se anche questi non sono determinati, le quote si
presumono uguali).
L’imputazione automatica prescinde dalla effettiva percezione; ovviamente, quando
saranno effettivamente distribuiti, gli utili che sono già stati imputati per trasparenza in
precedenti periodi non saranno imponibili.
In misura uguale agli utili rilevano anche le perdite.
Tutti gli altri elementi rilevanti ai fini della quantificazione dell’imponibile e dell’imposta
vengono ripartiti tra i soci: ritenute subite, oneri deducibili e detraibili per le società
semplici, i crediti d’imposta. Le aliquote sono individuate con riferimento al reddito
complessivo del socio, il quale, a sua volta, può essere soggetto a IRPEF o IRES; quando
il socio è titolare di redditi di altra categoria, il reddito “da partecipazione” concorre con tutti
gli altri alla formazione di quello complessivo.
Le ragioni di questa soluzione sono le stesse anche se l’ente non svolge attività d’impresa
(società semplice).
Per l’associazione professionale, considerato che il reddito prodotto è di lavoro autonomo
da arti e professioni, si prevede la possibilità di determinare a consuntivo la quota di
partecipazione all’utile, anche in considerazione del principio di cassa applicabile per
determinare il reddito.
Quest’ultimo non cambia natura nel momento in cui è automaticamente imputato al
singolo socio o associato: anche se definito come “reddito di partecipazione”, resta a
seconda dei casi reddito d’impresa o di lavoro autonomo e, nel caso delle società
semplice, può essere anche reddito fondiario, diverso o reddito di capitale.
La disciplina consente di prevenire a monte la doppia imposizione, eliminando la società
dal novero dei soggetti chiamati a pagare imposte sul reddito.
L’eliminazione totale della doppia imposizione per questi soggetti fa sorgere il dubbio circa
la disparità di trattamento, rispetto ai soci delle società di capitali che in parte la
subiscono: ma il diverso trattamento appare giustificato da una oggettiva diversità.
E’ innegabile che nella comune esperienza emergono molti casi di piccole società di
capitali, a ristretta base proprietaria e spesso “possedute” dai componenti di uno stesso
nucleo che, a parte la limitazione della responsabilità, hanno in realtà caratteri
organizzativi e di azione del tutto simili alle società personali.
Questa consapevolezza ispira due diverse reazioni:
1. Dovuta alla giurisprudenza, che rispetto alle piccole società a responsabilità limitata,
presume l’immediata percezione da parte dei soci dei maggiori utili accertati in capo alla
società. Alla rettifica del reddito della società, l’amministrazione può far seguire, un
immediato accertamento sui soci, un immediato accertamenti sui soci, nel quale viene
presunta la distribuzione immediata e contestuale nello stesso periodo d'imposta oggetto
dell'accertamento.
2. Dovuta alla disciplina normativa e costituita dalla facoltà riconosciuta, a s.r.l. che
abbiano caratteristiche di questo tipo, di optare per l’applicazione del principio di
trasparenza, evitando la doppia imposizione degli utili. Le condizioni sono rappresentate
da un volume d’affari della società non superiore al limite previsto per l’applicazione degli
studi di settore, da una compagine sociale costituita da sole
persone fisiche, in numero non superiore a 10 soci (20 se si tratta di cooperativa).
L’opzione, che deve provenire sia dalla società sia dai soci, ha durata per tre periodi
d’imposta (art. 116).
6. I gruppi
La disciplina attuale non consente l'integrale eliminazione della doppia imposizione, nel
passaggio del reddito dalla società al socio, nemmeno quando il socio è a sua volta
società di capitali.
La riforma delle tassazioni delle società ha previsto tre regimi opzionali che prendono atto
dell’esistenza di gruppi di società, all'interno dei quali i passaggi di utili o perdite sono
costanti.
1. Il primo regime è costituito dal consolidato nazionale (art. 116 ss.), al quale sono
ammessi società di capitali controllanti (residenti e non residenti ma con stabile
organizzazione in Italia) e le società di capitali controllate residenti, che possono
congiuntamente esprimere l’opzione per la tassazione di gruppo, destinata, permanendo il
requisito del controllo, a durare per un triennio.
Il perimetro del consolidato può coinvolgere tutte o meno le società di uno stesso gruppo,
purché sussistano i presupposti del controllo da parte della controllante/ consolidante ex
art. 2359, co. 1, n. 1) c.c., ma sempre per effetto di opzioni espresse da coppie di società
(la controllante e una delle controllate)
Supponiamo l’esistenza di un gruppo costituito da una controllante e da quattro
controllate: le opzioni potranno essere al massimo 4, ogni opzione sarà espressa dalla
controllante e da una delle controllate, e tutte le società aderenti conferiranno, anche se
attraverso opzioni separate, la loro base imponibile alla controllante per una liquidazione
unitaria dell’imposta dovuta dal gruppo.
L’effetto dell’opzione è infatti la confluenza del reddito netto di ciascuna società, per
l’intero suo importo, in un imponibile di gruppo, reddito complessivo globale, all’interno del
quale trovano compensazione i redditi e le perdite di ciascuna
società aderente allo stesso perimetro di consolidamento (facenti capo ad una sola
consolidante): questa, avrà il diritto di riportare l’eventuale perdita derivante dalla
compensazione di tutti i redditi societari, dovrà liquidare l’unica imposta dovuta o il credito
d’imposta da chiedere a rimborso o da trasferire alle annualità successive.
Il regime del consolidato non stabilisce la soggettività del gruppo ma lascia integra la
soggettività delle singole società, che determinano il proprio reddito e presentano anche le
dichiarazioni e sono soggette all’accertamento. A tale soggettività si aggiunge una limitata
rilevanza della soggettività del gruppo: al primo livello di imposizione, che riguarda le
diverse controllate, se ne aggiunge un secondo, che riguarda le società del gruppo che
abbiano aderito al consolidato, riguarda il gruppo. Assume rilievo al fine della liquidazione
delle imposte, un imponibile complesso, derivante dalla somma algebrica degli imponibili
delle società: si evita così che, nello stesso gruppo, società in utile debbano pagare le
imposte possedendo un reddito, mentre altre società sono in perdita.
Il regime dà luogo a conseguenze civilistiche rilevanti: si pensi alla controllata che cede la
sua perdita al gruppo, e alla tutela dei soci di minoranza che possono avere un pregiudizio
dalla adesione al consolidato, la quale è funzionale agli interessi di chi esercita il controllo
sulla società.
Eventuali erogazioni compensative non sono comunque rilevanti ai fini del reddito.
Si potrebbe qualificare il regime come una sorta di trasparenza rovesciata, nella quale su
un unico socio vengono imputati automaticamente i risultati reddituali delle società dal
socio stesso partecipate e controllate, mentre nella trasparenza classica si considerano
un'unica società partecipata e una pluralità di soci.
3. Il terzo regime previsto per i gruppi è quello del consolidato mondiale, che non è
cumulabile con il consolidato nazionale ed è previsto per le società di capitali e gli enti
commerciali, entrambi residenti.
Consente l’inclusione nella base imponibile di tali enti dei redditi conseguiti da tutte le
proprie società controllate (di diritto) non residenti, in proporzione alla quota di
partecipazione. L’opzione, unilateralmente affidata alla controllante, è condizionata dal
fatto che la società abbia i propri titoli negoziabili in mercati regolamentati o che
siano a loro volta controllati dallo stato o da altri enti pubblici, o da persone fisiche
residenti che non siano a loro volta controllati di altre società o ente non commerciale non
residente. L'effetto è quello di poter imputare al reddito della società optante, a
prescindere dalla distribuzione, redditi e perdite delle controllate non residenti, e dunque
abbiano un'altra forma di trasparenza, che opera da una molteplicità di società
partecipate, in favore del socio che ne detiene il controllo di diritto. La durata è triennale,
sia per l’opzione, sia per eventuali rinnovi.
3. Il principio di competenza
Coerente con la parziale derivazione del reddito d'impresa dal risultato del conto
economico è il criterio di imputazione adottato tiene conto della competenza, cioè della
maturazione del costo o del provento, e non della manifestazione finanziaria (cassa). Il
criterio, che deriva dalle regole contabili, è recepito nell'art. 2423 bis c.c., il quale al n. 3
impone di tenere conto dei proventi e oneri di competenza dell’esercizio,
indipendentemente dalla data dell’incasso o del pagamento e al n. 4 impone di
considerare rischi e perdite di competenza, anche se conosciuti dopo la
chiusura dell’esercizio, ma prima della redazione del bilancio.
L’art. 109, co. 1, prescrive che i componenti positivi e negativi concorrono alla formazione
del reddito, fatte salve le eventuali disposizioni in senso diverso, nell’esercizio di
competenza.
Sono previste delle condizioni, in mancanza delle quali l’imputazione al periodo d’imposta
deve slittare al momento in cui esse si verificano: ciascun componente, per potere essere
imputato all’esercizio di competenza, deve essere certo nella sua esistenza e determinato,
ovvero determinabile, nel suo ammontare.
La giurisprudenza è pacifica nell’assegnare al principio di competenza un valore cogente
e inderogabile per evitare che il contribuente possa a sua discrezione scegliere il periodo
di imposta in cui dare rilievo ad un componente positivo o negativo: la legislazione e la
prassi dell’Agenzia delle entrate mostrano negli ultimi anni la consapevolezza che, in molti
casi, la violazione delle regole sulla competenza può non derivare da una premeditazione
funzionale all'abbattimento illegittimo del reddito di un periodo, quanto da errori
nell’applicazione del principio, che può essere arduo nella pratica: di qui, ad es., la
previsione di sanzioni
amministrative ridotte e di assoluta irrilevanza penale delle infedeltà dichiarative dovute a
questo aspetto.
I criteri di competenza sono poi specifici ulteriormente dal co. 2 dell’art. 109, il quale
prevede che:
- quanto alle cessioni di beni mobili; esse si considerano effettuate nel momento di
consegna o spedizione;
- quanto alle cessioni di immobili o di aziende rileva il momento della stipulazione dell’atto;
- in entrambi i casi, se l’effetto traslativo o costitutivo si verifica in data successiva, è
questa che va presa in considerazione;
- per le prestazioni di servizi, l’esercizio di competenza è quello in cui le prestazioni sono
state ultimate, ovvero per i corrispettivi periodi stabiliti come tali in contratto, quello di
ciascun periodo di maturazione.
L’individuazione dell'esercizio di competenza non comporta automaticamente il concorso
al reddito del componente positivo o negativo, poiché regole complementari, che
attengono alla funzione che la singola spesa o il singolo provento assumono nell'attività
dell'impresa, possono comportare una modalità di concorso differita, ovvero ripartita su più
esercizi. Essi non contraddicono le regole generali di cui sopra.
4. I beni dell’impresa
La nozione di reddito implica una variazione positiva del patrimonio; dalla rilevazione
contabile del patrimonio dell'impresa si delineano quelle che possono essere le
manifestazioni avente rilevanza reddituale.
Lo stato patrimoniale, parte costitutiva del bilancio si compone delle seguenti voci:
- all’ATTIVO, esso deve rappresentare:
crediti verso i soci;
immobilizzazioni (immateriali, materiali, immobilizzazioni finanziarie [partecipazioni
e crediti, azioni proprie]);
attivo circolante (rimanenze, crediti, attività finanziarie diverse da quelle sub
precedenti, disponibilità liquide);
ratei e risconti;
- al PASSIVO figurano:
patrimonio netto;
fondi per rischi e oneri;
TFR lavoro subordinato;
debiti;
ratei e risconti.
La parte dinamica del bilancio, cioè il conto economico, rappresenta invece le variazioni
dello stato patrimoniale che si verificano nell’esercizio, ed è quella che persegue
direttamente l'obiettivo di individuare il risultato di esercizio.
Per gli enti commerciali soggetti a IRES, titolari di un patrimonio proprio e dotati di
personalità giuridica, non vi è alcuna difficoltà nell’individuare i beni appartenenti
all’impresa: difficoltà maggiori si incontrano nel caso delle imprese individuali o delle
imprese gestite da società personali (art. 65).
Individuati i beni dell’impresa, altra operazione essenziale è di dare loro una valutazione,
secondo le particolarità di ogni categoria di bene; alla valutazione è dedicato l’art. 110.
BENI IMMOBILI
I beni immobili dell’impresa concorrono alla formazione del reddito d’impresa, non
producendo redditi fondiari.
Per i beni immobili meramente patrimoniali, il concorso alla formazione del reddito
d’impresa avviene in forme simili alla determinazione catastale, e non sono ammessi in
deduzione i costi inerenti a tali immobili.
Nelle disposizioni relative ai redditi fondiari, è contenuta la disciplina dei beni immobili
strumentali all’impresa, che sono di due categorie: strumentali per natura (beni che
restano tali a meno che non vengano fatti oggetto di radicali trasformazioni, e che restano
beni strumentali dell'impresa anche se locati a terzi o comunque concessi in comodato) e
strumentali per destinazione (adibiti ad un uso strumentale all’attività d’impresa).
Vi sono anche delle difficoltà interpretative. Mentre l’agenzia delle entrate semplifica
considerando strumentali per natura tutti gli immobili che non abbiano destinazione
abitativa (e spesso dimenticando la possibile natura di beni merce anche di tali immobili),
la giurisprudenza di legittimità limite la categoria degli strumentali per natura enfatizzando
l'importanza delle radicali trasformazioni, ed esclude dalla strumentalità, ossia dalla
deduzione per quote di ammortamento, gli immobili non irreversibilmente strumentali
(sarebbero tali in sostanza soltanto gli immobili industriali o commerciali, mentre l'Agenzia
delle Entrate ammette anche gli immobili ad uso ufficio, se il provvedimento abilitativo li
qualifica espressamente come tali). Tra gli immobili strumentali, la giurisprudenza non
comprende quelli che, essendo suscettibili di modifiche nell’uso senza radicali
trasformazioni, siano destinati alla locazione: una società che abbia ad oggetto la
locazione di immobili ad esempio abitativi o ad uso ufficio non potrà considerare
strumentali gli immobili dai quali consegue ricavi, pur essendo palesemente strumentale la
loro funzione.
I terreni, non considerati come ammortizzabili, ancorché siano strumentali perché serventi
all'attività dell'impresa, poiché non perdono il loro valore proporzionalmente all'uso. Ciò
comporta che l'impresa che deduce le quote di ammortamento di un fabbricato industriale
deve scorporare, dal costo ammortizzabile, la parte di costo imputabile al terreno.
5. COMPONENTI POSITIVI
Dalle attività svolte e dai beni appartenenti all'impresa derivano in gran parte i componenti
positivi e negativi di reddito: essi non vengono indicati così come sono nella dichiarazione
dei redditi, ma solo attraverso l'indicazione di eventuali variazioni rispetto alle poste
indicate nel bilancio, ed in particolare nel conto economico.
Quanto ai componenti positivi, essi non costituiscono un numero chiuso: sebbene il testo
unico ne regoli una gran parte, non si può escludere che al reddito di impresa possano
concorrere anche proventi diversi da quelli regolati dalle norme (che siano stati rilevati in
conto economico, o avrebbero dovuto esserlo), magari frutto di un’occasionale attività
produttiva di reddito, diversa dalle attività ordinarie dell'impresa.
RICAVI
Li definisce l'art. 85, prendendo in considerazione i principali corrispettivi delle cessioni di
beni e delle prestazioni di servizi, la cui produzione o il cui scambio è oggetto dell'attività
dell'impresa; quanto alle cessioni di beni, esse si riferiscono a tutti i beni merce
suscettibile di essere contabilizzati come rimanenze e dunque anche semilavorati, materie
prime ecc.
Anche la cessione di partecipazioni e titoli assimilabili (azioni o quote, o strumenti
finanziari similari anche se non partecipativi, obbligazioni e altri titoli in serie o di massa)
può dar luogo alla produzione di ricavi, se le partecipazioni sono state iscritte nell'attivo
circolante e non tra le immobilizzazioni, si manifesta un ricavo, anche se l'impresa non ha,
tra le proprie attività, quella della compravendita di partecipazione o di strumenti finanziari.
Se vengono perduti o danneggiati beni idonei a generare ricavi, il risarcimento conseguito
dall'impresa, anche in forma assicurativa, costituisce ricavo (e renderà possibile, così
come sarebbe avvenuto in caso di corrispettivo di una cessione, la deduzione del relativo
costo di acquisto) posto che nessun bene può uscire dal patrimonio dell'impresa senza
aver prodotto effetti sul piano del reddito.
Sono considerati ricavi i contributi spettanti all'impresa in base a contratto, ed i contributi
spettanti in base a legge esclusivamente in conto esercizio (sono in tal caso erogazioni
previste per legge per integrare i ricavi tipici dell'impresa, soprattutto quando questa è
soggetta ad applicare tariffe imposte non remunerative). La loro funzione integrativa
rispetto a minori ricavi conseguiti giustifica la qualificazione come ricavi di questi contributi.
Normalmente, i ricavi derivano da cessione a titolo oneroso, ma, sempre in applicazione
del principio secondo il quale un bene dell'impresa non può essere estromesso dal
patrimonio senza che vi sia una conseguenza sul piano reddituale, viene previsto che
siano assimilate alle cessioni anche le assegnazioni di beni dell'impresa ai soci e la
destinazione (in qualsiasi modo avvenga) di bene dell'impresa a finalità estranee
all'esercizio della stessa (per l'impresa individuale, costituisce ricavo anche la
destinazione del bene merce al consumo familiare o personale dell'imprenditore).
In tal caso il ricavo non può essere automaticamente quantificato in termini monetari:
occorre allora valutare il bene, o il corrispettivo in natura, applicando la regola del valore
normale.
Il ricavo si manifesta nell'esercizio nel quale si verificano le regole di competenza: una
cessione di bene mobile sarà imputata all'esercizio in cui avviene la consegna o la
spedizione; una cessione di fabbricato, da parte di un'impresa immobiliare, sarà imputata
all'esercizio nel quale viene effettuato il rogito; una prestazione di servizi sarà imputata
all'esercizio nel quale essa viene ultimata: e, per tutte le ipotesi, sempre che il provento
sia certo nella sua esistenza e determinato o determinabile in modo oggettivo quanto al
suo ammontare.
In ogni esercizio nel quale si imputa un ricavo viene imputato anche il costo dei beni dai
quali il ricavo si origina, poiché deve essere diminuita la consistenza delle rimanenze: sul
reddito, in definitiva, non ha effetto il ricavo lordo, ma il differenziale tra il ricavo lordo e il
corrispondente componente negativo di reddito.
PLUSVALENZE
Tutti i beni dell’impresa, diversi da quelli produttivi di ricavi di cui al co. 1 dell’art. 85,
concorrono alla formazione del reddito o in caso di realizzo (mediante cessione a titolo
oneroso o per risarcimento della perdita o del danneggiamento del bene), ovvero in caso
di assegnazione dei beni ai soci o di loro destinazione a finalità estranee all’esercizio
dell’impresa (art. 86). Anche le cessioni a titolo oneroso di
aziende realizzano plusvalenze tassabili.
L’attuale disciplina garantisce una tassazione attenuata (PEX) sul socio non solo per gli
utili da partecipazione, ma anche per le plusvalenze da cessione delle partecipazioni che
siano qualificate come immobilizzazioni finanziarie; ex art. 87 la plusvalenza non concorre
alla formazione del reddito, in quanto esente, nella misura del 95%, ossia che essa sia
imponibile solo per il 5% (rispetto al bilancio, che rileverà una plusvalenza intera, andrà
apportata una variazione in diminuzione).
Sono perciò richieste condizioni stringenti (possesso ininterrotto della partecipazione dal
primo giorno del dodicesimo mese anteriore alla cessione, classificazione come
immobilizzazione finanziaria della partecipazione ceduta, residenza fiscale della
partecipata in uno stato che non sia a fiscalità privilegiata, esercizio da parte della
partecipata di un’effettiva attività commerciale).
Questa disciplina non riguarda le imprese individuali e le società di persone, per le quali la
plusvalenza concorre nella misura del 49,72%.
La plusvalenza si determina tramite un differenziale, ponendo a confronto il corrispettivo
della cessione (o il valore normale, se il corrispettivo manca ovvero se esso è stabilito in
natura), al netto degli oneri di diretta imputazione, e il costo non ammortizzato del bene,
ossia il valore che il bene ha in bilancio, dopo che sono state effettuate le diminuzioni
corrispondenti alle quote di ammortamento.
Qui assume rilievo la discrasia tra valore di libro o di bilancio del bene ammortizzabile,
determinato applicando gli ammortamenti decisi dall'imprenditore, e valore fiscalmente
riconosciuto del bene, che è diverso, perché diversi sono stati gli ammortamenti consentiti
dalla legislazione tributaria.
Tornando all'esempio, l'impianto acquisito al costo storico di 200000 aveva assunto, dopo
un esercizio, un valore contabile di 134000 e un valore fiscale di 160.000, è evidente che
la rivendita del bene al prezzo di 180.000 determinerà una plusvalenza contabile, da
rilevare nel bilancio civile, pari a 46000 (180000-134000), mentre la plusvalenza fiscale
sarà pari a soli 20000 (180000-160000).
Ecco allora che il riconoscimento in sede fiscale di quote di ammortamento minori viene
recuperato dal vantaggio, in sede di determinazione della plusvalenza, di poter assumere
a base del calcolo un costo non ammortizzato maggiore. Sul piano della dichiarazione dei
redditi, andrà segnalata una variazione in diminuzione di €26000 rispetto al risultato di
esercizio, poiché mentre quest'ultimo registra la plusvalenza di 46000, la plusvalenza
basata sul valore fiscalmente riconosciuto è di soli 20000.
Su tutti i beni dell’impresa incombe il peso delle plusvalenze latenti: i valori di bilancio e
anche quelli fiscali sono ancorati al dato del costo storico, e, per i beni immobili, è
frequente che il prezzo di mercato del bene sia superiore. La fiscalità latente per possibili
plusvalenze può essere un freno sia alla circolazione di beni, sia a processi di
riorganizzazione delle imprese perché in grado di aumentare il reddito imponibile, per una
vicenda che in definitiva è estranea all'attività propria dell'impresa.
Fino agli anni ’90, il TUIR prevedeva che l’iscrizione in bilancio di un maggior valore di
beni (per rivalutazione) determinasse una plusvalenza, ma poi questa possibilità è stata
eliminata sul presupposto che non si poteva consentire, alla discrezionalità
dell’imprenditore, di decidere quando far emergere la plusvalenza latente: questo, anche
nei casi nei quali la rivalutazione dei beni fosse motivata non solo dall'esigenza di
veridicità dei dati di bilancio, ma anche dall'esigenza di mostrare a possibili acquirenti o
finanziatori dell'impresa l'effettivo valore dei cespiti. All’imprenditore non resta che
attendere, sotto il profilo fiscale, che la plusvalenza si realizzi, senza poterne attenuare il
peso, certamente sarà possibile una rivalutazione civilistica, ma essa non avrà effetti sul
valore fiscalmente riconosciuto del bene.
La legislazione attenua questa rigidità in due modi: prevede periodicamente con leggi
speciali la possibilità di affrancare le plusvalenze latenti, procedendo ad una opzionale
rivalutazione (civile ma anche) fiscale del bene o a una estromissione del bene
dall’impresa, che comportano però non l’applicazione della normale aliquota IRES, ma la
tassazione della plusvalenza con un’imposta sostitutiva di volta in volta stabilite dalla
legge, ma comunque di importo molto minore delle aliquote ordinarie; il legislatore può
valutare che il trasferimento dei beni plusvalenti può essere considerato neutrale, se
l’acquirente dei beni conserva lo stesso valore fiscale che essi avevano presso il cedente.
E’ come se vi fosse una continuità tra il possesso della prima e della seconda impresa;
rinunciando a tassare la plusvalenza in tali occasioni il legislatore fiscale sa che questa
rinuncia è compensata dal fatto che, mantenendosi la continuità dei valori, il soggetto che
assume la titolarità dei beni plusvalenti dovrà ammortizzare gli stessi sulla base del valore
fiscale precedente e non sul più alto prezzo di acquisto e che, quando a sua volta
procederà ad una cessione, il costo da contrapporre al prezzo di vendita sarà quello più
basso che il bene aveva presso il proprio dante causa.
Una logica diversa ispira invece la disposizione che escludeva tassazione della
plusvalenza, per i beni ceduti ai creditori in occasione del concordato preventivo con
cessione dei beni.
Quando la plusvalenza realizzata riguarda un bene posseduto dall’impresa per più di 3
anni, essa può essere rateizzata, ossia a scelta del contribuente può concorrere al reddito
di impresa in quote costanti nell'esercizio in cui si è verificata e nei successivi, ma non
oltre il quarto. In sostanza, una plusvalenza di 100 può essere inserita nel reddito
d'impresa per 5 esercizi, per una quota pari al 20% in ciascun esercizio. Nell'anno in cui si
verifica il realizzo, il conto economico dovrà registrare l'intera plusvalenza (100
nell’esempio di cui sopra). A fini fiscali, se l'impresa opta per la rateizzazione e se ve ne
sono le condizioni, dovrà correggere il risultato di bilancio apportando una variazione in
diminuzione di 80 (in questo caso, la plusvalenza concorre al reddito solo per 20).
Nei quattro esercizi successivi avverrà il contrario, ossia il conto economico non registrerà
più la plusvalenza, ormai è contabilizzata nell'anno di emersione, ma fiscalmente
andranno fatte variazioni in aumento di 20 per ogni anno, al fine di rispettare la tassazione
rateizzata. La plusvalenza è sempre tassata per 100, ma cambiano i ritmi della
tassazione.
SOPRAVVENIENZE ATTIVE
Rappresenta un corollario correttivo del principio di competenza: si prevede (art.88) il
concorso alla formazione del reddito di ricavi o altri proventi, conseguiti a fronte di
passività o di spese iscritte negli esercizi precedenti, o di ricavi conseguiti in misura
superiore a quella che ha concorso a formare il reddito in precedenti esercizi, o della
sopravvenuta insussistenza di spese, perdite e oneri, o di passività iscritte in precedenti
esercizi.
Vi sono poi delle sopravvenienze assimilate.
Le indennità conseguite a titolo di risarcimento anche in forma assicurativa, ma diverse da
quelle considerate come ricavi o plusvalenze.
I proventi conseguiti (in questo caso vale il principe di cassa ed è possibile una diluizione
della sopravvenienza in più esercizi) a titolo di contributo o liberalità, con esclusione dei
contributi considerati ricavi e quelli concessi per l’acquisto di beni ammortizzabili.
Particolari disposizioni regolano il rapporto tra società e soci: non si considerano
sopravvenienze i versamenti a fondo perduto o in conto capitale dei soci, mentre la
rinuncia al credito vantata dal socio verso la società è considerata sopravvenienza solo
per la parte che eccede il valore fiscale del credito per il socio.
La riduzione dei debiti, classica ipotesi di sopravvenienza attiva poiché aumenta il
patrimonio dell'impresa, non è considerata tale se ottenuta in sede di concordato
fallimentare o preventivo di natura liquidatoria.
ALTRI PROVENTI
Nel patrimonio dell'impresa possono essere presenti cespiti diversi, dai quali traggono
origine proventi di rilievo reddituale, che possono essere diversi da quelli relativi all'attività
tipica dell'impresa. La disciplina del reddito d'impresa tiene conto del fatto che tali proventi
sono comunque attratti dal reddito d'impresa e debbono pertanto, almeno per quello che
riguarda i più ricorrenti, essere regolati.
Troviamo alcune regole (art. 89) sui dividendi e sugli interessi, regole che assumono
rilevanza e articolazione diverse, se l’impresa ha come proprio oggetto l’erogazione di
somme da cui conseguano interessi ovvero la gestione di partecipazioni in società.
Gli interessi non quantificati per atto scritto, si presumono al tasso legale, e, applicandosi il
principio di competenza, si considerano maturati anche gli interessi compensati nei
reciproci rapporti in conto corrente.
Per gli utili, per le società soggette a IRES la percentuale di imponibilità è solo del 5%,
essendo escluso dal concorso alla formazione del reddito il restante 95%, mentre quando
l’utile è percepito da imprese individuali e società di persone l’utile è tassato nella misura
del 49,72% (art. 59).
Una disposizione specifica per i proventi immobiliari, derivanti da immobili che non sono
né beni strumentali (i quali sono ammortizzabili e possono produrre plusvalenze o
minusvalenze) né merce (ossia destinati alla cessione a terzi).
Per i redditi prodotti da tale categoria di immobili, che si possono definire meramente
patrimoniali, il concorso al reddito d’impresa tiene conto della estraneità del bene alla
formazione dei ricavi e del reddito ordinari, quindi avviene nell’ammontare determinato su
base catastale (ma non per le attività agricole ancorché rientranti nei limiti previsti dall'art.
32, poiché per le società di capitali tali redditi sono sempre considerati commerciali), salvo
ipotesi di locazione in cui a determinate condizioni può essere considerato il reddito
effettivo. Se l’immobile è situato all’estero, la determinazione avviene con riferimento alla
disciplina IRPEF degli immobili situati all'estero.
E’ comunque esclusa la deducibilità delle spese e degli altri oneri e componenti negativi
relativi a tali immobili.
I titolari di reddito d’impresa possono optare per un regime speciale (c.d. patent box) che
esclude dal concorso alla formazione del reddito il 50% dei redditi derivanti dall’utilizzo
(anche diretto, ossia interno all'impresa) di beni immateriali
(la disposizione trae la sua giustificazione nell'obiettivo di incentivare il ricorso a studi e
ricerche).
6. Componenti negativi
Alcune indicazioni sui componenti negativi di reddito sono emerse, ad esempio sui costi
direttamente collegati ai ricavi, sulla indeducibilità delle spese inerenti agli immobili
patrimoniali, sugli ammortamenti, sulle regole essenziali di valutazione delle singole
categorie di beni.
L’art. 109 co. 5 TUIR stabilisce che “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli
interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e
nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che
concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.
Si tratta del principio di inerenza, per cui viene riconosciuta la possibilità di contrapporsi ai
componenti positivi a quei solo componenti negativi che abbiano una correlazione con le
attività o con i beni dai quali derivano redditi imponibili.
Il principio esprime un’esigenza di cautela, per la quale il riconoscimento fiscale delle
spese aziendali è subordinato ad un giudizio di utilità delle stesse, utilità da intendere in
senso lato, cioè come idoneità a migliorare le condizioni per la
produzione del reddito e in via derivata per la produzione di redditi tassabili.
La correlazione con i redditi non deve essere né immediata né diretta, ma deve esprimere
un collegamento non solo formale con le attività e i beni dai quali derivano i proventi
classificati come componenti positivi.
Negli ultimi anni il giudizio sull'inerenza ha mostrato connotati molto incisivi: si è però
addirittura arrivati a negare la deduzione di spese, per il solo fatto che se non si fossero
rivelate in concreto generatrici di maggiori ricavi, il che è certamente estraneo alla ratio del
comma 5 dell'art. 109, nonostante in questo senso sia anche la prevalente giurisprudenza
della corte di cassazione.
Il giudizio sull’inerenza dovrebbe condurre ad risultato positivo ogni volta che la spesa
sostenuta abbia un collegamento oggettivo con le esigenze dell'impresa, e quindi anche
laddove essa dovesse apparire a consuntivo non foriera dei risultati sperati. La severità
della giurisprudenza deve essere condivisa quando quel collegamento difetti di qualsiasi
oggettività, e traspaia, dalla mancanza di funzionalità dei beni e dei servizi acquistati, che
in realtà i destinatari degli stessi sono piuttosto singoli soggetti riconducibili all'impresa che
non l'impresa stessa, che di quei beni e servizi non ha alcuna necessità.
La cautela che circonda il giudizio di inerenza è diversa da caso a caso perché non si
possono ignorare le diverse caratteristiche che un'impresa può assumere.
Vi deve essere un rapporto di consequenzialità: può essere riconosciuta la deduzione di
spese che abbiano utilità per le imprese e possano costituire la promessa su cui fondare
la potenziale formazione di reddito imponibile. In molti casi, la prevedibile difficoltà di
accertare l'esatta misura dell'inerenza per beni naturalmente passibili di uso promiscuo
induce il legislatore a dettare delle regole forfetarie di deduzione del costo, fondate
sull'individuazione di una inerenza media ragionevolmente ascrivibile ad un determinato
costo.
La disposizione del comma 5 dell’art. 109 risolve la questione della misura di deducibilità
di costi e spese che si riferiscano a proventi esenti o soggetti a imposizione sostitutiva, e
sembra implicitamente escluderla.
Quando coesistono attività esenti e attività imponibili, la deduzione deve essere fatta in
proporzione alla percentuale di proventi imponibili.
Va analizzato il rapporto tra componenti negativi deducibili e fonti di finanziamento
dell'impresa.
Il fatto che le spese debbano essere fattore di produzione del reddito è il fondamento
probabilmente della esclusione delle distribuzioni degli utili ai soci dall’ambito dei
componenti negativi di reddito; concettualmente, l’utile distribuito ai non è altro che il
reddito prodotto e quindi non può essere considerato come fattore di produzione di quel
reddito, anche se non sembra assurdo ipotizzare che anche la distruzione degli utili,
essendo in realtà il fattore da cui dipende la convenienza economica dei soci ad apportare
capitali nella società, possa essere considerato un componente negativo, il che
condurrebbe a considerare imponibile il solo utile non distribuito.
In ogni caso, il sistema attuale, fondato sulla indeducibilità degli utili e sulla tassazione
attenuata degli utili in capo al socio percipiente, deve fare molta attenzione ad evitare che
ai soci vengano distribuiti utili dissimulati in forma di altre erogazioni, deducibili per le
società; così come deve porsi il problema di individuare quali strumenti finanziari, sia pure
non attributivi di una partecipazione alla società, siano suscettibili di produrre proventi
assimilabili agli utili, assoggettabili come tali al trattamento stesso.
Alla indeducibilità degli utili non corrisponde la indeducibilità degli interessi corrispondenti
dall’impresa ai propri finanziatori esterni. Il finanziamento, che determina per l'impresa il
cosiddetto capitale di debito, apporta risorse per le quali l’impresa assume un obbligo di
restituzione in tempi prestabiliti del capitale e degli interessi (il costo del finanziamento).
Vi è quindi una disparità di trattamento, solo in parte giustificata dal fatto che il capitale
proprio (le disponibilità finanziarie acquisite mediante apporti dei soci) comporta per la
società una disponibilità tendenzialmente illimitata e un obbligo di restituzione
indeterminato nei tempi e nell’entità, una distribuzione degli utili solo eventuale e
subordinata ad una formale delibera di distribuzione.
La disparità presenta profili critici soprattutto in un tessuto imprenditoriale frammentato,
come quello italiano, nel quale poche sono le risorse proprie delle imprese, ed alto invece
è il tasso di indebitamento.
Il legislatore allora, tenendo presente le esigenze di gettito e i possibili comportamenti
elusivi, è chiamato a disciplinare in modo severo la deducibilità degli interessi passivi e a
escogitare misure incentivanti di ricorso al capitale proprio.
Attualmente, la deduzione degli interessi passivi per gli enti commerciali soggetti a IRES e
per le società commerciali è riconosciuta fino a concorrenza degli interessi attivi e proventi
assimilati prodotti dell’impresa. Per la parte eccedente gli interessi attivi, gli interessi
passivi sono deducibili nel limite del 30 del ROL, ossia del risultato operativo lordo della
gestione caratteristica, con possibilità di riportare la quota indeducibile ai periodi
successivi, sempre nel limite del 30%. Vi sono poi varie deroghe e regole complementari,
disciplinate dall'art. 96 e da legislazione speciale,
Per gli apporti di capitale, l’istituto applicabile è quello dell’ACE (Allowance for corporate
equity, aiuto per la crescita economica), disciplinato dal d.l. n. 201/2011, che consente alla
società la deduzione dall’imponibile dei nuovi apporti di capitale dei soci, da conteggiare
analiticamente per differenza rispetto al capitale esistente a chiusura dell'esercizio
precedente.
Discipline particolari:
Nel regolare le spese per le prestazioni di lavoro, l'art. 95 si preoccupa non solo delle
erogazioni di carattere stipendiale, ma di tutta quella vasta area di spese riconducibili al
rapporto di lavoro dipendente (nonché ai rapporti assimilati al lavoro dipendente o agli
occasionali) che molti casi, danno luogo a emolumenti in denaro o in natura soggetti a
tassazione: vi sono regole per la deducibilità dei beni e servizi offerti sia a singoli
dipendenti, sia alla generalità degli stessi, sono deducibili i contributi previdenziali a carico
del datore di lavoro connessi ai rapporti di lavoro ed è anche espressamente prevista la
deducibilità per cassa dei compensi erogati agli amministratori e per quelli corrisposti in
forma di partecipazione agli utili, si prescinde dalla previa imputazione a conto economico.
Una disposizione specifica regola la deducibilità degli accantonamenti di quiescenza e di
previdenza.
La deducibilità dei compensi agli amministratori è oggetto di grande attenzione da parte
dell’agenzia, perché spesso i compensi appaiono esorbitanti e sembrano dissimulare, o
sostituire, la distribuzione di utili (che come tali sarebbero indeducibili).
L’art. 99 disciplina gli oneri fiscali e contributivi, prevedendo la indeducibilità delle imposte
sui redditi e di quelle per le quali è prevista la rivalsa anche facoltativa, e la deducibilità
anche per cassa delle altre imposte (in deroga alla competenza). Sono deducibili i
contributi ad associazioni sindacali e di categoria, sempre per cassa e previa
quantificazione da parte dell'associazione con formale delibera.
L’art. 100 disciplina, limitando a percentuali variabili, la deduzione delle erogazioni liberali,
quindi non legate a controprestazioni, sia a favore di categorie di dipendenti (o della
generalità degli stessi) sia a favore dei terzi.
In caso di leasing, l’impresa concedente può ammortizzare il bene concesso in leasing,
ma secondo il relativo piano finanziario, mentre l’impresa utilizzatrice deduce i canoni di
leasing (che saranno invece ricavi per l’impresa concedente).
Inoltre per imprese che gestiscono attività per le quali ottengono in concessione beni che
poi devono essere gratuitamente devoluti al concedente al termine della concessione, è
previsto un ammortamento finanziario per quote costanti.
L’art. 107 contiene una elencazione tassativa di accantonamenti per oneri e rischi futuri
deducibili nelle misure prefissate, stabilendo che nessun’altra deduzione è ammessa
(principio di tassatività degli accantonamenti deducibili). Può essere evitata la tassazione
di quella parte di utili destinati a riserva nella misura in cui l'accantonamento è riconosciuto
dalla legge legale (il fenomeno è descritto come quello dei fondi in sospensione d'imposta,
essi permettono variazioni in diminuzione del risultato di esercizio, comportando vincoli
all'utilizzo dei fondi e in ogni caso la loro non distribuibilità ai soci).
Dedotto l’accantonamento, quando la spesa temuta viene effettivamente a maturazione,
con tutti i requisiti di certezza e determinabilità, essa non
è deducibile fino a concorrenza dell’importo dedotto.
L’accantonamento non deducibile concorre alla formazione del reddito dell’esercizio
mediante variazione in aumento del risultato di esercizio; si parla per esso di fondi tassati,
ai quali va data considerazione in occasione di successive vicende dell'impresa. La spesa
sostenuta, se è alimentata da un fondo accantonato ma non dedotto, dà luogo a
deduzione piena nell'esercizio in cui si verificano le condizioni maturazione e di certezza e
oggettiva determinabilità.
Spese pluriennali:
Già dal punto di vista della rilevazione contabile emergono dubbi in ordine all’imputazione
di costi ad uno o più esercizi. Il testo unico dedica apposite regole, all'art. 108, destinate
alle spese relative a più esercizi, imponendo, o consentendo, varie soluzioni.
Le spese relative a studi e ricerche sono deducibili nell’esercizio in cui sono state
sostenute (la previsione ha finalità incentivanti, essendo tali spese destinate a produrre
utilità non immediate) o possono essere ripartire in quote costanti in 5 esercizi: stesso
regime per le spese di pubblicità e propaganda, mentre le spese di rappresentanza sono
deducibili per intero nel periodo in cui sono sostenute, ma solo se rispondenti a parametri
fissati con decreto ministeriale e in proporzioni commisurate all'ammontare dei ricavi che
l'impresa consegue.
Resta non del tutto chiaro quale trattamento vada riservato alle spese che abbiano i
requisiti di inerenza, ma non rientrino tra quelle di pubblicità o rappresentanza, che
nell'attuale versione contempla la gratuità dell'erogazione.
Le spese relative a più esercizi, non disciplinate espressamente, sono deducibili per la
quota imputabile a ciascun esercizio: le imprese di nuova costituzione possono dedurre le
spese pluriennali a partire dall'esercizio in cui conseguono ricavi.
Perdite e svalutazioni di crediti:
Un elemento importante dell'attivo patrimoniale di un'impresa è costituito dei crediti: il
principio di competenza comporta che siano imponibili i ricavi e le plusvalenze, anche
prima dell'incasso dei relativi corrispettivi, e questo è giustificato dal fatto che, se anche le
disponibilità liquide dell'impresa non si accrescono, il patrimonio vede nascere un credito
corrispondente al corrispettivo e ad eventuali accessori.
Si pone il problema della rilevanza reddituale della perdita di valore dei crediti, e della
individuazione delle condizioni che consentono di ritenere perduto il credito.
Due disposizioni del testo unico sono dedicate a questo problema.
L'art. 101 prevede che la perdita su un credito sia deducibile solo quando risulti da
elementi certi e precisi, che si presumono sussistenti ogni qualvolta il debitore risulti
ammesso ad una procedura concorsuale: dall'esercizio in cui si verifica tale condizione,
l'impresa potrà dedurre fiscalmente la perdita totale o parziale, a seconda del prevedibile
esito del riparto concorsuale, nell'esercizio nel quale la perdita viene rilevata in bilancio,
anche se si tratti di un esercizio successivo a quello nel quale erano già emerse gli
elementi certi e precisi. Occorre però che il periodo di imputazione a bilancio non sia
arbitrariamente posticipato, rispetto alla rilevazione consigliata dalla corretta applicazione
dei principi contabili.
Altri casi nei quali la sussistenza degli elementi certi e precisi è presunta per legge sono
quelli del credito prescritto, del credito cancellato dal bilancio in applicazione corretta dei
principi contabili o dei crediti di modesta entità (che tali sono a seconda dell'ammontare
del credito, in relazione alla dimensione dell'impresa creditrice), i quali si presumono
perduti quando siano decorsi sei mesi dalla scadenza di pagamento.
Oltre ai casi indicati, il contribuente potrà dimostrare, assumendo l’onere della prova, la
perdita del credito.
La svalutazione dei crediti è regolata dall’art. 106, che la consente in ciascun esercizio,
per crediti commerciali (collegati a ricavi), in misura pari allo
0,50% del valore nominale dei crediti o del loro costo di acquisizione. Il limite dello 0.50%
tiene conto anche degli accantonamenti effettuati per rischi su crediti, e la deduzione non
è più ammessa quando svalutazioni e accantonamenti, sommati, raggiungono il 5% del
valore nominale o di acquisizione.
Quando si verifica la perdita, essa è deducibile limitatamente alla parte eccedente
svalutazioni e accantonamenti dedotti in precedenti esercizi.
Regole particolari sono previste per gli enti creditizi, maggiormente esposti a questi rischi,
i quali vedono riconosciuta la deducibilità integrale delle svalutazioni e perdite verso la
clientela e delle perdite realizzate mediante cessione a titolo oneroso, nell’esercizio in cui
la perdita è rilevata in bilancio. L’ultima previsione, della cessione a titolo oneroso, non è
espressamente menzionata per la generalità delle imprese, pur essendo rivelatrice di una
diminuzione di valore dei crediti ceduti dotata di carattere oggettivo. Per tali soggetti
passivi essa può rilevare solo se nell'esercizio delle circostanze della cessione possano
concretizzare gli elementi certi e precisi richiesti dalla norma.
TRASFORMAZIONI:
L'art. 170 regola la trasformazione della società, prevedendo che essa sia neutrale,
ovvero non determini realizzo di plusvalenze, nemmeno per le rimanenze e per
l'avviamento. Si tratta di un'operazione che cambia la natura del soggetto, senza subire
oneri fiscali.
La disposizione deve solo preoccuparsi di disciplinare il caso in cui una società di capitali
si trasforma in società personale, e il caso inverso. I due tipi di società hanno infatti regimi
diversi per quanto riguarda gli utili.
Nel caso di trasformazione di società personale in società di capitali, presso la prima
potrebbero esistere riserve di utili già tassati in capo ai soci per effetto della trasparenza, e
il comma terzo ne prende atto, prevedendo che la distribuzione di quegli utili già tassati
non concorre a formare il reddito dei soci, (si evita una doppia imposizione).
Nel caso opposto, il comma quarto si preoccupa di stabilire quando devono essere
imputati ai soci della società trasformata, divenuta soggetta a principio di trasparenza, gli
utili non ancora distribuiti dalla società quando essa era società di capitali e, per evitare
che, nel passaggio dall’un tipo all'altro, gli utili rimangono intassati (si evita così un salto
d'imposta, ossia che quei redditi dei soci non siano mai tassati).
Più delicati i casi trasformazione eterogenea ex art. 171, perché l'ente cambia il proprio
status di appartenenza, diventando ente non commerciale da società che era, o
divenendo società da ente non commerciale che era. La vicenda non riguarda più solo il
soggetto, perché potrebbe anche cambiare la qualificazione dei beni (nel primo caso
possono essere estromessi dall'impresa beni che perdono la loro relazione
all'organizzazione produttiva, nel secondo caso possono diventare relativi all'impresa beni
che non lo erano).
Nel primo caso si ha realizzo di plusvalenza (in base al valore normale, mancando il
corrispettivo) sui beni solo se l’ente non commerciale, risultante dalla trasformazione, non
accoglie i beni stessi in una propria azienda o complesso aziendale. Viene poi anche qui
disciplinato il momento in cui devono essere imputati ai soci utili esistenti presso la società
trasformata e non ancora distribuiti.
Nel secondo caso, la trasformazione dell'ente non commerciale è equiparata ad un
conferimento (considerato cessione a titolo oneroso per previsione generale dell'art. 9) ma
limitatamente ai beni che non fossero già compresi nell’azienda o nel complesso
aziendale dell’ente non commerciale.
FUSIONI:
Anche in questo caso il principio basilare ex art. 172 è quello della neutralità, ossia la
fusione non costituisce realizzo, nemmeno per rimanenze e avviamento, per le società
fuse o incorporate. L'indirizzo seguito dal testo unico è coerente con l'evoluzione
civilistica, che sempre più vede la fusione come un fenomeno di trasformazione, piuttosto
che come un fenomeno di successione di un soggetto ad altri preesistenti.
Avanzi e disavanzi iscritti in bilancio dalla società risultante dalla fusione o dalla
incorporante per effetto della fusione (per i rapporti di cambio; per annullamento delle
azioni, per il concambio) sono irrilevanti, così come i maggiori valori iscritti: in sostanza, la
fusione non dà luogo all'emersione di plusvalenza, ma è richiesto che vengano conservati
nella nuova entità che risulta dalla fusione i valori fiscali riconosciuti.
I problemi dei quali deve occuparsi l’art. 172 sono molto più numerosi e toccano anche i
profili procedimentali (come e quando gli obblighi fiscali devono essere adempiuti dalle
nuove società) e l'incidenza dell'operazione solo il reddito dei soci.
Vi sono regole rigide per ammettere l'utilizzo da parte della società incorporante o
risultante dalla fusione delle perdite provenienti dalle società fuse o incorporate: dagli anni
80 era emerso che attraverso l’incorporazione di società dedotte, ma titolari di ingenti
perdite fiscali riportabili, società con elevati redditi imponibili potevano abbattere questi
ultimi, ed anzi proprio intorno ad ipotesi di questo tipo si è sviluppato il dibattito
sull'opportunità di clausole antielusive.
SCISSIONI:
La regola di tendenziale neutralità dell'operazione che effettua una modificazione
soggettiva (nella specie, una società si scinde in tutto o in parte in altre preesistenti o di
nuova costituzione) è ribadita a proposito della scissione dall'art.173, dunque non si ha
realizzo di plusvalenze, nemmeno con riguardo alle rimanenze e all'avviamento.
L’irrilevanza delle variazioni patrimoniali è condizionata alla continuità dei valori, ossia alla
conservazione, nell'entità beneficiarie, dei valori già contabilizzati dalla società scissa.
Anche in questo caso vi è una disciplina delle perdite, della fiscalità dei soci, degli
adempimenti procedimentali.
La scissione, nonostante la normativa la disciplini in larga parte richiamando le
disposizioni sulla fusione, è spesso più complessa di quest'ultima, manifestando dei profili
che la spingono piuttosto verso il regime degli atti traslativi, che non per l'assimilazione
alla fusione.
CESSIONI E CONFERIMENTI:
Le cessioni di azienda non hanno una disciplina specifica in questa parte del testo unico,
perché sono trattate nelle disposizioni che riguardano il reddito di impresa ordinario o le
categorie di reddito della persona fisica: esse sono considerate generatrici di plusvalenza,
e tassabili in modo ordinario, salva l'eventuale applicazione della tassazione separata. Al
conseguimento della plusvalenza da parte del cedente corrisponde l'assenza di limiti e
condizioni per l'acquirente nell'assumere i valori fiscali dell'azienda per come emergenti
dal corrispettivo pagato, senza alcun vincolo di continuità dei valori.
I conferimenti di azienda pur essendo assimilabili alle cessioni a titolo oneroso in base alla
regola generale dell'art. 9, hanno una disciplina maggiormente orientata verso la neutralità
fiscale, per varie ragioni che inducono a riflettere sulla relatività di ogni
concettualizzazione. La tendenziale neutralità del conferimento di azienda non può essere
spiegata con la circostanza che il soggetto conferente non intende procedere ad una
estromissione dei beni dal circuito di impresa, ma intende sostituire, al controllo diretto sui
beni aziendali (di primo grado), il possesso delle partecipazioni della società (beni di
secondo grado). La vicenda del conferimento di azienda sembra assimilabile al
trattamento delle fusioni delle scissioni, posto che appare prevalente il momento
riorganizzativo, piuttosto che quello traslativo, e questo giustifica la scelta di non
considerare realizzate le plusvalenze, a condizione che la conferitaria assuma l'azienda
nei valori fiscalmente riconosciuti presso la conferente e che quest'ultimo assuma la
partecipazione ricevuta allo stesso valore dell'azienda conferita. Lo conferma l'analisi degli
artt. 175 e 177, dedicati rispettivamente al conferimento delle partecipazioni di controllo o
di collegamento e agli scambi di partecipazioni, nei quali la potenziale efficacia realizzativa
della fattispecie torna ad assumere un ruolo prevalente.
La disciplina non appare esente da finalità agevolative in senso ampio, o meglio
incentivanti: lo testimonia il fatto che si è prevista per la conferitaria la possibilità di
ottenere la rivalutazione del valore dei beni conferiti, mediante il pagamento di una
imposta sostitutiva ad aliquote progressive ma attenuate.
L'attuale regime del conferimento di azienda ex art. 176 rende molto più conveniente, per
due società che intendono trasferire un complesso aziendale, conferirlo in una società
neocostituita, e cedere poi le partecipazioni, magari sfruttando il regime pax; nonostante il
fatto che i due percorsi non sono giuridicamente equivalenti.
L'art. 176 evita anche il rischio di una contestazione basata sul carattere elusivo di questa
fattispecie complessa, dichiarando non applicabile la norma antielusiva; ma l'intento
incentivante del legislatore è in parte vanificato dalla giurisprudenza che, ai fini
dell'imposta di registro, considera questo sistema alternativo produttivo di effetti giuridici
del tutto equivalenti alla cessione diretta di azienda, e quindi lo sottopone ad una
tassazione proporzionale che non sarebbe applicabile ai due atti (conferimento seguito da
cessione delle partecipazioni) separatamente considerati.
Sulla residenza:
Dato per acquisito che una società residente è soggetta a Ires, sul reddito ovunque
prodotto nel mondo, e che al contrario una società non residente può produrre reddito di
impresa in Italia solo se questo avviene mediante una stabile organizzazione, quest'ultimo
concetto assume grande importanza, accresciuta dalla previsione ex art. 168 ter TUIR che
la società residente possa non tenere conto di utili o perdite prodotti tramite la stabile
organizzazione estera.
Oltre a stabilire clausole di salvaguardia, relative ai trasferimenti di residenza delle
persone fisiche e alla esterovestizione fittizia delle società, l'ordinamento deve:
definire cosa si intende per stabile organizzazione: a tanto provvede attualmente
l'art. 162 che la definisce in generale come una sede fissa di affari per mezzo della
quale l'impresa non residente esercita in tutto o in parte la tua attività nel territorio
dello Stato;
stabilire in quali casi un reddito si possa considerare prodotto mediante la stabile
organizzazione o no, e questo anche per quello che riguarda i rapporti tra la stabile
organizzazione e la casa madre, che non sono due soggetti distinti, ma hanno
ambiti organizzativi e rilevazioni contabili autonome;
valutare gli effetti del trasferimento di una società dall'Italia all'estero, e quelli del
trasferimento in Italia di una società non residente. La prima ipotesi potrebbe
essere assimilata a quella della destinazione dei beni a finalità estranee
all'esercizio dell'impresa, in quanto quest'ultima prosegue, ma su un territorio
diverso, sul quale lo stato italiano non può esercitare la propria potestà impositiva:
di qui l'introduzione di norme finalizzate a colpire le plusvalenze maturate in Italia
nel momento in cui l'impresa si trasferisce all'estero senza conservare un centro di
imputazione dei redditi, quale la stabile organizzazione. La pretesa di ottenere il
pagamento delle imposte latenti al momento del trasferimento è stata poi ritenuta
dalla Corte di Giustizia Europea non compatibile con la libertà di stabilimento per
cui l'attuale art. 166 pur conservando l'assimilazione del trasferimento ad un
realizzo di plusvalenza, consente al contribuente, per i trasferimenti interni
all'Unione Europea ovvero in Stati che abbiano accordi per la cooperazione nella
riscossione dei crediti tributari, di chiedere la sospensione degli effetti
dell’assimilazione.
E’ stata poi prevista ex art. 166 bis la valutazione in valore in base al valore normale per i
beni delle imprese che compiono il percorso inverso, ossia si trasferiscono in Italia
diventando quivi residenti, provenendo da stati esteri.
L'avvento di forme di imprenditoria assai fiorenti, tutte basate sul web, rende evidente
come l'individuazione della residenza di un'impresa o della presenza di una stabile
organizzazione abbia dei risvolti decisivi, con effetti significativi in termini di gettito.
Sui rapporti tra imprese residenti e non residenti tra loro collegate:
Sono numerose ormai le imprese che operano su una pluralità di stati, attraverso società
che costituiscono un gruppo. I naturali rapporti di scambio (prestazioni di servizi o
cessione di beni) possono essere fonte di strategie fiscali, nell'ambito della pianificazione
fiscale, dirette a conseguire costi deducibili, nei paesi dove più elevate sono le aliquote
delle imposte sui redditi, e maggiori componenti positivi di reddito, da parte delle società
residenti nei paesi a bassa fiscalità.
E’ questo il fenomeno esploso nel tempo con la denominazione di transfer pricing, nozione
che evidenzia la necessità di controllare i prezzi di trasferimento infragruppo di beni e
servizi, far sì che essi restino almeno prossimi al valore normale (ossia al prezzo che
quegli scambi avrebbero, se posti in essere tra soggetti indipendenti). L'art. 110, Commi 7
e seguenti, autorizza gli uffici dell'amministrazione finanziaria a rettificare i prezzi di
trasferimento tra imprese collegate o controllate (se ne deriva aumento del reddito, e, a
determinate condizioni, anche se ne può derivare una diminuzione) sulla base del valore
normale.
Si può intuire come un'attività di accertamento di questo tipo sia altamente opinabile, sia
per la pluralità di criteri fruibili per determinare il valore normale, sia per la possibilità che
effettivamente i prezzi tengano conto di regole interne al gruppo precostituire in via
generale. Essa coinvolge i rapporti con l'amministrazione finanziaria dell'altro paese di
residenza, posto che l'effetto di una rettifica del prezzo può essere una doppia
imposizione, laddove l'ammontare del costo disconosciuto in Italia sia ad esempio tassato
nel paese ove si manifesta il ricavo. Si tratta dunque di materia che viene risolta mediante
procedure amichevoli di composizione, previste dai trattati internazionali, alle quali
partecipano sia i contribuenti degli Stati interessati, se le amministrazioni finanziarie degli
Stati stessi.
La giurisprudenza della corte di cassazione, nonostante la norma sia stata sempre
chiarissima nel riferirsi a prezzi nelle operazioni internazionali, aveva esteso il potere di
rettifica, nell'ambito del più generale contrasto ai comportamenti abusivi ancorché non
tipizzati dalla legge, anche ai prezzi di trasferimento tra imprese residenti in italia, ma ora
l'inapplicabilità dell'Istituto in ambito domestico è stata riaffermata dalla legge.
Si deve comunque rilevare che l’istituzione di un’unica imposta sul patrimonio dei soggetti
è un passo molto difficile per un ordinamento tributario sotto diversi profili:
a) Il patrimonio di un soggetto è assai composito; in genere infatti comprende sia beni
di agevole accertamento (si pensi ad immobili, a partecipazioni azionarie o a titoli di
credito, a beni mobili registrati), sia beni la cui rilevazione è estremamente ardua (si
pensi agli oggetti d’arte, alle collezioni, ai beni mobili di lusso); inoltre controlli e
accertamenti sono più facili per i beni situati nel territorio dello Stato.
b) È difficile determinare agevolmente la base imponibile, individuando il valore,
possibilmente costante nel tempo, dei singoli beni che costituiscono il patrimonio e
stabilendo in quale misura debbano incidere le passività che gravano il patrimonio.
c) Non può essere evitato un raccordo con le imposte sul reddito, altrimenti il concorso
delle due imposte avrebbe effetti sostanzialmente espropriativi, che devono essere
evitati; questo obiettivo impone di contenere l’aliquota dell’imposta patrimoniale,
quantificandola in un quoziente millesimale, rispetto alla base imponibile, e di
assicurare un trattamento diverso ai patrimoni privati a quelli delle imprese e degli enti
commerciali.
✦L’ IMU
È un’imposta patrimoniale applicata per anno solare, che colpisce qualunque soggetto sia
titolare di proprietà o altro diritto reale (e gli utilizzatori di beni concessi in leasing) su beni
immobili situati nel territorio dello stato, cioè terreni (→agricoli e fabbricabili) e fabbricati,
con esclusione di:
- case di prima abitazione e relative pertinenze che non abbiano caratteristiche di
particolare pregio (ville, castelli, appartamenti di lusso);
- terreni agricoli detenuti da coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali;
- fabbricati detenuti dalle imprese di costruzione per la vendita e non locati.
La base imponibile si determina prescindendo dal reddito eventualmente prodotto e si
basa sul valore catastale dell’immobile, moltiplicato per una determinata percentuale: le
aliquote sono stabilite dai comuni, entro limiti previsti dalla legge statale, che prevede
un’aliquota base dello 0,76%.
Possono esserci molte agevolazioni, alcune delle quali ricollegate all’uso sociale o di
interesse pubblico dell’immobile.
NB. Rapporti dell’IMU con le imposte sui redditi: la regola generale, che tenderebbe ad
una sostituzione del prelievo patrimoniale rispetto a quello reddituale, è molto attenuata da
una serie di limiti e deroghe che, ad esempio, conducono a conservare l’imposizione sul
reddito sulla seconda casa nel comune di abitazione quando non locata o sugli immobili
posseduti da soggetti IRES.
L’ IMU pagata dall’impresa è deducibile solo in piccola parte nella determinazione del
reddito d’impresa → gli aumenti di aliquota e il conseguente maggior gettito conseguito
dal comune non devono incidere negativamente sul gettito dei tributi erariali, come
accadrebbe se ogni euro di IMU pagata fosse deducibile dal reddito d’impresa.
La disciplina è completata dalla previsione di un’imposta di scopo, destinata a finanziare
opere pubbliche, che si traduce in un’ulteriore aliquota d’imposta gravante sugli immobili
soggetti a IMU; caratteristiche peculiari di quest’imposta di scopo sono:
• Transitorietà, non può superare i 10 anni;
• Obbligo di rimborso gravante sul comune in caso di mancata realizzazione dell’opera in
un determinato tempo.
✦La TASI
È la seconda componente dell’imposta unica comunale (IUC), ossia la tassa sui servizi
indivisibili resi dalle amministrazioni comunali (nettezza urbana, illuminazione), applicabile
ai soli fabbricati e alle aree edificabili.
Nonostante la denominazione, in questo tributo prevale la natura di imposta (→ non vi è
una correlazione precisa tra pagamento del tributo e una certa quantità di servizi, dal
momento che è sufficiente realizzare la situazione di possesso dell’immobile) ed è altresì
prevalente la natura patrimoniale, perlomeno per i soggetti passivi identificati dalla
titolarità di un diritto reale. Tuttavia la possibilità di godere di servizi comunali indivisibili
non è riferibile al solo titolare di diritto reale dell’immobile, per cui si è previsto che il carico
del tributo coinvolga anche l’utilizzatore a diverso titolo (=autonoma obbligazione), anche
se in percentuale ridotta, che è particolarmente bassa se l’utilizzatore destina l’immobile
ad abitazione principale; i soggetti che si trovano in situazione di contitolarità del bene si
trovano in situazione di solidarietà passiva.
Il godimento dei servizi pubblici indivisibili, più che essere il presupposto in senso tipico
del tributo, è la sua giustificazione astratta: non avrebbe senso per un tributo che
intendesse colpire quel godimento in modo stringente, detassare la casa di abitazione,
che lascia presumere la residenza nel comune e quindi il massimo grado di godimento dei
servizi pubblici.
È un’imposta a carattere ibrido, frutto di compromessi e continui ripensamenti; si applica
con un’aliquota dell’1x1000, suscettibile di riduzioni o maggiorazioni, anche in base alle
delibere che può adottare ciascun comune, nel rispetto della riserva di legge.
✦L’ IVIE
La sterzata verso una più completa imposizione patrimoniale capace di colpire i cespiti più
importanti del patrimonio delle persone fisiche è dimostrata dall’istituzione, nel 2011, di
un’imposta sul valore di beni immobili situati all’estero e posseduti da persone fisiche
residenti nel territorio dello stato.
• Soggetto passivo: titolare della proprietà o altro diritto reale, in proporzione alla quota e
al periodo di possesso nell’anno (→ riferimento temporale dell’imposta). Le esclusioni
sono modulate in modo analogo all’IMU:
- abitazione principale,
- immobile assegnato per separazione o divorzio.
• Aliquota: 0,76% si applica ad
• Una base imponibile → è determinata da:
- costo di acquisto;
- valore di mercato;
- per gli immobili siti in paesi UE o dello spazio economico europeo che accedano allo
scambio di informazioni → valore utilizzato fiscalmente in questi stati, per effetto della
normativa in essi vigente.
• Imposta:
non è dovuta se inferiore a 200 euro;
è alternativa all’imposta sul reddito (il reddito degli immobili situati all'estero
concorre alla determinazione del reddito come reddito diverso), che non viene
dunque più applicata quando si è applicabile l’IVIE;
• Tributo → erariale.
3. Imposte sul patrimonio mobiliare
Le imposte patrimoniali colpiscono le attività finanziarie (→produttive di redditi di capitale o
diversi) nonché il possesso di beni mobili di rilevanza più o meno significativa, ma
comunque suscettibili di agevole attività di controllo.
Sono qualificabili come imposte patrimoniali speciali i seguenti prelievi:
• Tasse automobilistiche: imposte che, dal 1983, hanno assunto natura patrimoniale, in
quanto dovute non più per la circolazione del veicolo, ma per effetto della semplice
iscrizione dello stesso in pubblici registri e fino all’avvenuta cancellazione. L’imposta è
dovuta in base alla potenza del veicolo, dal soggetto che ne risulta intestatario nel
pubblico registro e vede come soggetto attivo la regione nella quale il veicolo è
immatricolato (anche se possono applicarsi delle addizionali con gettito devoluto allo
Stato) ed ha un'articolata disciplina che cerca di comprendere tutte le ipotesi di rapporti
giuridici nei quali il veicolo può essere coinvolto. Le regioni curano anche le procedure
applicative di questa imposta;
• Abrogata l’imposta che colpiva lo stazionamento delle imbarcazioni da diporto nelle
strutture appositamente previste (=porti turistici) è applicabile l’imposta erariale sugli
aeromobili privati.
• art. 19, d.l. 201/2011: le disponibilità finanziarie sono state variamente colpite attraverso
un incremento dell’imposta di bollo sui documenti attestanti l’esistenza di rapporti
finanziari. Si applicano:
- Importi fissi sugli estratti conto dei conti correnti e sulle comunicazioni relative a
rapporto finanziari (1 o 1,5x1000);
- Imposta di bollo speciale (con aliquota del 4x1000) alle disponibilità finanziarie
detenute all’estero, che siano state regolarizzate ai sensi delle normative che hanno
disciplinato gli ‘scudi fiscali’ → sanatorie introdotte per sanare irregolarità dichiarative
di soggetti che, avendo disponibilità finanziarie all’estero, non le avevano comunicate,
violando gli obblighi di monitoraggio fiscale. L’ imposta è prelevate e versata dagli
intermediari finanziari.
• art. 19 co. 18 d.l. 201/2011: dal 2012 è istituita un’imposta sul valore dei prodotti
finanziari, dei conti correnti e dei libretti di risparmio detenuti all’estero dalle persone
fisiche residenti nel territorio dello stato (IVAFE). L’ imposta è strutturalmente analoga a
quella istituita contestualmente sugli immobili siti all’estero ed è dovuta in relazione al
periodo e alla quota di possesso, con un’aliquota al 2x1000, applicata ad una base
imponibile commisurata al valore di mercato, risultante dalla documentazione
dell’intermediario, o al valore nominale. Anche in questo caso è concesso un credito
d’imposta pari alle imposte omologhe dovute, sugli stessi beni, nello stato estero.
• Canone RAI: la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ne hanno chiarito dapprima
la natura di prestazione patrimoniale imposta, come tale soggetta al principio della
riserva di legge (e quindi la qualificazione come tributo, ed in particolare come imposta).
Il ‘canone’ è in realtà un’imposta patrimoniale, perché non ha rapporto con la fruizione
del servizio di radioaudizioni, ma assume a proprio presupposto la semplice detenzione
di un apparecchio astrattamente in grado di ricevere le trasmissioni televisive. Il
possesso dell’apparecchio idoneo alla ricezione tuttavia non è considerato nella sua
valenza economica come sintomo di capacità contributiva, infatti l’importo dovuto è
sostanzialmente fisso e resta indifferente al numero di televisori posseduti, alla loro
qualità e al loro valore: è considerato solo come espressione della capacità di accesso al
servizio.
3. Ambito di applicazione
Sebbene l’art. 1 d.p.r. n. 633/1972 definisca le operazioni imponibili ai fini dell’iva, i fatti e
le situazioni descritte definiscono piuttosto l’ambito applicativo del tributo in senso
generale, un'operazione definita come imponibile dall'art. 1 potrebbe poi risultare in
concreto non soggetta all'applicazione di una determinata aliquota perché non imponibile,
ovvero esente.
La disposizione all’art. 1 evita di qualificare le operazioni ivi descritte come presupposto
dell’imposta; è un’omissione non casuale, perché in realtà le operazioni rientranti nel
campo di applicazione dell’iva non comportano, fino al momento dell’immissione al
consumo, l’acquisizione di un gettito definito da parte dell’erario.
La definizione di operazioni imponibili identifica l'area di applicazione del tributo, al cui
interno nascono una serie di obblighi a carico dei soggetti passivi; ma questi obblighi
possono essere anche solo formali (essi possono cioè non implicare il pagamento
dell'imposta), possono essere bilanciati da situazioni attive equivalente riconosciute al
soggetto passivo e soprattutto non esprimono necessariamente il verificarsi del fatto o
della situazione che rende dovuto il tributo a titolo definitivo.
Le operazioni considerate all’art.1 sono:
cessioni di beni;
prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello stato nell’esercizio di imprese, arti
e professioni;
le importazioni, da chiunque effettuate;
una quarta categoria di operazioni è stata descritta nell’art. 38 d.l. n. 331/1993 e
riguarda gli acquisti intracomunitari di beni effettuati nel territorio dello stato
nell’esercizio di imprese arti e professioni o comunque da enti soggetti passivi
d’imposta.
Le prime due riguardano atti di scambio che avvengono nel mercato interno e sono
caratterizzate dalla compresenza di un elemento oggettivo (cessione di un bene o di una
prestazione di servizi) e di un elemento soggettivo (devono essere compiute
nell’esercizio di un’attività di impresa, artistica o professionale).
La presenza del requisito soggettivo permane anche a proposito degli acquisti
intracomunitari, i quali sono soggetti a iva in Italia se effettuati nell’ambito di attività di
impresa, artistiche o professionali. Non è imponibile in Italia l'acquisto di un bene
proveniente da uno Stato Unione Europea da parte di un soggetto privato residente in
Italia.
Per le importazioni, invece, che comprendono le operazioni di acquisto di beni provenienti
da territori extra UE i quali transitano in dogana si ha applicazione dell’IVA in Italia quale
che sia la natura del soggetto acquirente (qualsiasi soggetto e anche le sfere patrimoniali
del tutto private); il che consente alle merci provenienti da paesi non UE di essere
immesse in Italia al consumo, con lo stesso carico fiscale per IVA che hanno i beni
scambiati nel mercato nazionale o UE.
L’attuale sistema applica sotto il profilo della territorialità il principio della tassazione delle
cessioni di beni nel paese di destinazione (l’iva è applicata su importazioni e acquisti intra
UE). Le esportazioni (cessioni destinate al di fuori dell’unione europea) sono comprese nel
campo di applicazione dell’iva, ma sono “non imponibili”, vi è un effettivo onere tributario;
mentre le cessioni intra UE sono non imponibili, se destinate a imprese, arti e professioni
(in perfetta simmetria con la tassazione in Italia degli acquisti intra UE), mentre scontano
l’IVA in italia, se destinate a soggetti privati (consumatori).
L’art. 4 d.p.r. n. 633/1972 regola la nozione di impresa ai fini di iva: il parametro civilistico
al quale si riferisce la disposizione non è solo l’art. 2915 c.c., come nelle imposte sui
redditi, ma anche l’art. 2135 c.c.; quindi anche l’impresa agricola,Che potrebbe essere
considerata nelle imposte sui redditi come produttiva di redditi fondiari, è considerata
impresa nell’IVA. E’ richiesto l’esercizio professionale e abituale e quando l’attività rientra
nei due articoli del c.c., si prescinde dal requisito dell’organizzazione, che torna a essere
decisivo quando si tratta di prestazione di servizi a terzi.
Sono poi sempre considerate imprenditoriali le attività svolte da società commerciali, così
come quelle svolte da enti diversi dalle società o dalle società semplici, che abbiano per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di impresa commerciale o agricola. In particolare,
le attività sono considerate commerciali anche se svolte verso soci o associati.
Le società commerciali hanno rilevanza individualmente; l'appartenenza ad un gruppo è
stata riconosciuta al solo limitato fine di poter liquidare unitariamente l'imposta dovuta dal
gruppo.
La legge di bilancio per il 2016 ha introdotto un distinto soggetto giuridico, denominato
“gruppo iva”, al cui interno le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate tra
soggetti appartenenti al gruppo non sono considerate tali, anche se esse si considerano
comunque operazioni in ambito iva, ai fini dell’alternatività con le imposte di registro e di
bollo.
Per l’ente che non abbia oggetto commerciale o agricolo esclusivo o prevalente, è
considerato esercizio di impresa solo il compimento di cessioni o prestazioni comprese
nell’ambito delle attività commerciali o agricole non prevalenti, e in questo caso rilevano
anche le operazioni verso soci, associati o partecipanti, rese verso pagamento di
corrispettivi specifici o di contributi supplementari determinati in funzione corrispettiva
delle maggiori prestazioni alle quali hanno diritto.
Vi è poi un elenco di attività per le quali, per presunzione assoluta, la commercialità è
insita a prescindere dalla natura del soggetto che le ponga in essere. Segue un elenco
contrario di casi nei quali la commercialità deve essere esclusa.
Per gli enti pubblici, ad esempio, si esclude la soggezione ad iva di quelle attività poste in
essere nell’ambito di attività di pubblica autorità; però se l’attività pubblica è in grado di
arrecare distorsioni alla concorrenza, essa viene attratta nell’ambito iva, nonostante la sua
conformazione pubblicistica.
La disposizione, nell’art. 4, esclude la ricorrenza di un’attività d’impresa, nonostante la
forma giuridica di società commerciale assunta da determinati soggetti, quando l’oggetto
sociale sia costituito dal possesso o dalla gestione di unità
immobiliari abitative, di unità da diporto, di aeromobili da turismo, di complessi sportivi o
ricreativi, quando per i partecipanti è possibile fruire a titolo gratuito, ovvero ad un
corrispettivo inferiore a quello di mercato, del godimento a titolo personale o familiare. E’
contemplato anche il possesso di partecipazioni, quote sociali od obbligazioni, che non sia
strumentale o accessorio ad altre attività esercitate e che sia svolto senza strutture
imprenditoriali o destinate a indirizzo e coordinamento delle società partecipate. In questi
casi, la forma giuridica di società commerciale non vale a vedere riconosciuta la qualità di
soggetto passivo dell'imposta.
L’esercizio di arti o professioni è definito dall’art. 5, occorre che l’attività sia professionale
e abituale anche se non esclusiva; può essere svolta sia in forma individuale che
associata senza acquisizione di personalità giuridica (le società di professionisti devono
considerarsi esercenti attività di impresa). Non sono considerati professionisti i titolari di
rapporti parasubordinati né gli associati in partecipazione, a meno che non esercitino altra
attività di lavoro autonomo quale professione abituale.
Distinguere tra impresa e attività artistica o professionale non è rilevante, così come
accade nelle imposte sui redditi, posto che le regole di applicazione dell'IVA sono
maggiormente omogenee tra le due tipologie di soggetti passivi, anche in relazione al
momento in cui le singole operazioni si considerino avvenute.
Le operazioni sono dunque attratte nel campo di applicazione dell'IVA se effettuate dai
soggetti indicati, i quali assumono la denominazione di cedenti o di prestatori,
rispettivamente in rapporto alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi; i clienti
saranno a loro volta indicati come cessionario o come committenti.
Le prestazioni di servizi sono definite dall’art. 3 come quelle rese dietro corrispettivo in
virtù di contratti espressamente indicati (d'opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione,
agenzia, mediazione, deposito) o derivanti da obbligazioni di fare, non fare, permettere,
quale che ne sia la fonte.
Sono in ogni caso considerate prestazioni di servizi le le concessioni di beni in locazione,
affitto, noleggio, le operazioni relative ad opere dell'ingegno, i prestiti di denaro e le
operazioni finanziarie, le somministrazioni di alimenti e di bevande, le cessioni di contratti
di ogni tipo. A determinate condizioni e se di valore superiore a 50 euro, sono considerate
rilevanti le operazioni indicate anche se rese a titolo gratuito per finalità estranee
all'impresa o per uso personale o familiare dell'imprenditore.
Le esclusioni riguardano le cessioni di contratto relative a taluni dei beni esclusi
nell'ambito delle cessioni rilevanti, le operazioni relative al diritto d'autore se effettuate
dall'autore o dagli eredi e legatari del medesimo, i prestiti obbligazionari.
6. La territorialità
Cessioni di beni e prestazioni di servizi sono soggette a IVA se rese nell’esercizio di
impresa, arte o professione e se poste in essere nel territorio dello stato.
Posto che le aliquote IVA sono diverse da paese a paese dell'Unione europea, il luogo in
cui l'operazione si considera effettuata assume notevole rilevanza.
L'art. 7 fornisce le definizioni e le indicazioni geografiche necessarie a stabilire la
territorialità: tra esse, sono particolarmente importanti le indicazioni sul territorio italiano
(che non comprende, ai fini iva, i comuni di Livigno e di Campione d'Italia, nonché le
acque italiane del comune di Lugano) e sulla nozione di soggetto stabilito nel territorio
dello Stato: si considera tale un soggetto domiciliato o residente nel territorio come sopra
individuato, ovvero una stabile organizzazione in Italia di soggetto domiciliato e residente
all'estero, ma solo per le operazioni dalla stabile organizzazione rese o ricevute.
Per gli enti si considera domicilio il luogo della sede legale e residenza il luogo della sede
effettiva.
L’art. 7 bis d.p.r. n. 633/1972 disciplina la territorialità delle cessioni di beni, considerando
effettuate in Italia quelle aventi ad oggetto beni immobili, ovvero beni mobili nazionali,
comunitari o vincolati al regime della temporanea importazione, esistenti nel territorio dello
stato ovvero beni mobili spediti da altro stato membro e installati, montati o assiemati nel
territorio dello stato a cura del fornitore.
Regole particolari sono stabilite per le cessioni di beni mobili effettuate a bordo di mezzi di
trasporto e nell’ambito di un trasporto di passeggeri interno al territorio europeo, che si
considerano effettuate in Italia quando in Italia sia situato il luogo di partenza, e per le
cessioni di gas naturale.
L’art. 7 ter d.p.r. n. 633/1972 detta le regole generali sulla territorialità delle presentazioni
di servizi: esse si considerano effettuate in Italia, se rese a un soggetto passivo iva
stabilito nel territorio, o quando sono rese a committenti non soggetti passivi iva (non
imprenditori, né artisti, né professionisti) da soggetti passivi stabiliti in Italia. Per le
operazioni B2B (concernenti soggetti passivi iva, business to business), vale il criterio
della sede del committente, mentre la sede del prestatore rileva quando il destinatario
della prestazione di servizi non è soggetto iva (B2C, business to consumer).
L’ente non commerciale che sia soggetto passivo iva si considera tale anche nell’ipotesi in
cui agisca al di fuori delle attività commerciali e agricole; e l’ente privo di soggettività
passiva si considera invece soggetto passivo se identificato ai fini IVA (se abbia assunto
un ruolo formale nei rapporti con l'amministrazione finanziaria ai fini dell’applicazione del
tributo).
L’art. 7 quater detta regole derogatorie per alcune categorie di prestazioni di servizi, quali:
quelle relative a beni immobili per le quali rileva il luogo in cui esso è situato; quelle
relative a trasporti, per le quali rileva la distanza percorsa nel territorio dello stato; quelle
relative a ristorazione e catering, per le quali rileva il luogo di materiale esecuzione delle
stesse; quelle relative a ristorazione e catering su mezzi di trasporto, per le quali rileva se
il luogo di partenza sia in Italia; quelle relative a locazione e noleggio di mezzi di trasporto,
per le quali rileva o la messa a disposizione del mezzo nel territorio dello stato, se l'utilizzo
avviene in europa, ovvero l'utilizzo nel territorio dello stato, se il mezzo sia stato messo a
disposizione al di fuori dell'Europa.
L’art. 7 quinquies detta regole derogatorie per prestazioni di servizi culturali,
artistici, sportivi, scientifici, educativi, ricreativi e simili, per le quali rileva il luogo di
materiale svolgimento delle prestazioni stesse.
L’art. 7 sexies detta regole derogatorie per talune prestazioni di servizi rese a committenti
non soggetti passivi: quelle di intermediazione in nome e per conto del cliente, rileva il
luogo in cui l'operazione alla quale si riferisce l'intermediazione sia considerata effettuata
in Italia; per quelle di trasporto di beni non intracomunitario, rileva la distanza percorsa nel
territorio dello Stato; per quelle di trasporto intracomunitario quando l'esecuzione inizia nel
territorio italiano.
Sempre all'interno di tale disposizione, troviamo le prestazioni di servizi rese tramite mezzi
elettronici, che si considerano rese in italia quando il committente è domiciliato in Italia o è
ivi residente senza essere domiciliato all'estero; e infine le prestazioni di telecomunicazioni
e di teleradiodiffusione, per le quali rileva il domicilio nel territorio dello Stato o la
residenza senza domicilio all'estero, ma occorre che concorra anche l'utilizzo nel territorio
europeo.
L'art. 7 septies esclude, sempre in deroga ai criteri generali, la territorialità di alcune
prestazioni elencate nella disposizione, quando siano rese a committenti non soggetti
passivi IVA che siano domiciliati residenti e fuori dalle comunità.
Tali disposizioni consentono di stabilire quando una determinata cessione di beni o
prestazione di servizi debba considerarsi effettuata in italia, e quindi ricompresa
nell'ambito applicazione dell'IVA italiana.
7. Le operazioni imponibili: base imponibile, aliquote, importi esclusi dalla base imponibile
Il campo di applicazione dell'imposta consente di stabilire quali cessioni di beni e quali
prestazioni di servizi, effettuati da imprese, artisti e professionisti, debbano essere
assoggettate ad iva (invece, le operazioni che mancano o del requisito soggettivo o di
quello oggettivo, sono definite come escluse dal campo di applicazione dell'imposta, infatti
si usa l'espressione fuori campo iva). Il passo successivo è quello di individuare la base
imponibile di ciascuna operazione, regolata dagli articoli da 12 a 15 del d.p.r. n. 633/1972.
La prima regola è quella dell’attrazione nell’operazione principale delle cessioni e delle
prestazioni di natura meramente accessoria (es: imballaggi, trasporto); se il soggetto che
effettua le operazioni è lo stesso cedente o prestatore nell’operazione principale, quella
accessoria non è imponibile in via autonoma, ma viene attratta nell’operazione principale
(concorre all'imponibile di quest'ultima e subisce la stessa aliquota).
L’art. 13 regola la base imponibile, l’art. 15 regola invece le esclusioni dalla base
imponibile: la base imponibile è data dal corrispettivo contrattualmente stabilito,
maggiorato degli onere accollati al cliente e di eventuali integrazioni derivanti da somme
dovute anche da soggetti terzi.
La regola generale deve poi essere adattata ad una serie di situazioni pecuriali, e così per
le operazioni derivanti da atti della pubblica autorità, al corrispettivo si sostituisce
l'indennizzo, per le cessioni e per le prestazioni di servizi nelle quali manca il corrispettivo
si ha riguardo al costo di acquisto o alle spese sostenute per l'esecuzione, per le
operazioni permutative (nelle quali manca il corrispettivo) si ha riguardo al valore normale.
Quest'ultima nozione, mentre non può essere assunta, nemmeno ai fini dell'accertamento,
come parametro di raffronto della congruità del corrispettivo, assume invece rilevanza in
tutta una serie di ipotesi nelle quali le operazioni vengono poste in essere tra società
legate da situazioni di controllo, in un contesto nel quale la società che effettua
l'operazione o quella che la riceve abbiano limitazioni al diritto di detrazione dell'imposta
assolta sugli acquisti.
Se il soggetto che effettua la cessione di beni aveva, all’atto dell’accertamento, subito
limitazioni oggettive della detrazione, potrà considerare imponibile, negli stessi limiti, il
corrispettivo della cessione effettuata.
L'art. 14 disciplina il valore normale, nozione che può essere rilevata nei casi nei quali il
corrispettivo manca ovvero necessita di una verifica di congruità che può comportarne la
sostituzione con il valore normale. Quest'ultimo è definito come il prezzo che un
committente o cessionario dovrebbe pagare in condizioni di libera concorrenza se
dovesse effettuare l'acquisto presso un soggetto indipendente, ossia non legato a lui da
correlazione di interessi o personali.
L'art. 15 indica gli importi che, ancorché connessi all'operazione imponibile, restano
esclusi dalla base imponibile:
somme dovute a titolo di interessi moratori, penalità o per inadempimenti del
cessionario o committente;
il valore normale dei beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono nell’ambito
delle originarie previsioni contrattuali, a meno che non si tratti di beni soggetti ad
un’aliquota maggiore rispetto a quella dell’operazione cui accedono;
somme dovute a titolo di rimborso delle anticipazioni fatti, purché documentate e
sostenute in nome e per conto della controparte contrattuale;
importo degli imballaggi e dei recipienti (solo se è stata pattuita la restituzione
all’atto della resa);
somme dovute a titolo di IVA: quando ad un’operazione soggetta a iva si applicano
altre imposte indirette o sul consumo (ad es. accise), la base imponibile iva viene a
comprendere anche queste altre imposte. Se ad es. sul carburante acquistato
presso un distributore il prezzo di un litro di gasolio è comprensivo anche
dell’accisa, l'IVA dovrà essere applicata sull'intero importo, e dunque parte
dell'imponibile IVA sarà costituito ma da altre imposte gravanti sul prezzo esclusa
l'IVA stessa. Allo stesso modo, quando un professionista rende una prestazione,
deve aggiungere al proprio corrispettivo, di regola, un contributo previdenziale;
ebbene, la base imponibile iva sarà costituita dalla somma del corrispettivo e del
contributo previdenziale.
Determinata la base, si deve stabilire l’aliquota applicabile (art. 16), che può essere
ordinaria (oggi 22%) o per alcuni beni anche ridotta (al 4, al 5, o al 10%).
E’ importante, per salvaguardare l’equilibrio del mercato, che le prestazioni attraverso le
quali si produce un bene (contratti d’opera, d’appalto) o si assicura la sua disponibilità
(noleggio) siano assoggettate alle stessa aliquota prevista per la cessione dello stesso.
8. Le operazioni esenti
Vi sono però delle operazioni che, pur ricomprese nel campo di applicazione dell'imposta,
non sono in effetti soggette ad un effettivo carico fiscale, poiché sono dichiarate esenti; il
soggetto passivo che compie tali operazioni deve, di regola, contabilizzarle e dichiararle al
fisco, ma non assume nessuna posizione debitoria verso lo stato. L'esenzione di talune
operazioni IVA non è destinata ad avvantaggiare il soggetto passivo in senso formale o
contribuente di diritto, ma è proiettata alla detassazione del consumo.
L'elenco delle operazioni esenti contenuto nell'art. 10 d.p.r. n. 633/1972, dal quale risulta
evidente come gran parte delle operazioni esenti abbia una evidente connotazione sociale
(sanità, previdenza, assistenza sociale, istruzione, poste, servizi funerari).
Accanto ad operazioni di questo tipo vi sono poi delle operazioni esenti che hanno
spiegazioni diverse. In primo luogo, cessioni e prestazioni che si svolgono nel campo delle
attività finanziarie e assicurative (si considerano operazioni diverse da quelle
espressamente escluse dal campo di applicazione dell’imposta); sono esenti cessioni e
prestazioni che riguardano il settore immobiliare (le locazioni di immobili, le cessioni di
immobili abitativi e le cessioni di beni strumentali effettuate da soggetti diversi dall’impresa
costruttrice ovvero effettuate dall’impresa costruttrice ma oltre un certo lasso di tempo
dalla ultimazione del fabbricato, salvo che il soggetto cedente opti per l’imponibilità.
Altre esenzioni hanno carattere tecnico e tengono conto della presenza di altri prelievi che
renderebbero difficoltosa la gestione dell'imposta sul valore aggiunto, sono ad esempio
esenti le prestazioni connesse ai giochi, alle scommesse, alle lotterie, le cessioni di oro da
investimento, le cessioni che hanno ad oggetto beni acquistati o importati senza poter
esercitare la detrazione in virtù delle limitazioni previste dalle disposizioni regolatrici e
limitative del diritto alla detrazione.
13. La rivalsa
E’ il primo degli istituti dell'IVA che consentono di comprendere l'effettiva portata
dell'imposta e la sua incidenza solo provvisoria sui soggetti passivi di diritto: soprattutto, di
realizzare la neutralità, principale caratteristica del tributo.
14. La detrazione
La detrazione è istituto essenziale per assicurare all’iva quella neutralità che ne costituisce
l'oggetto e la ragione della sua stessa adozione come imposta generale sui consumi.
Essa rende possibile, soltanto per il soggetto passivo IVA imprenditore, artista o
professionista, e dunque non per il consumatore finale, la detrazione, dell'IVA relativa alle
operazioni effettuate ossia addebitata sulle proprie fatture o comunque contabilizzata a
debito verso l’erario, dell'IVA assolta o addebitata dai propri fornitori nelle fatture di
acquisto, ovvero dell'IVA risultante da bollette doganali di importazione, ovvero dell'IVA
indicata nelle autofatture emesse in relazione ad acquisti di beni intracomunitari.
Tra i due metodi possibili, quello della deduzione, dagli imponibili delle operazioni attive,
degli imponibili delle operazioni passive (metodo base da base), è quello della detrazione
imposta da imposta, le direttive europee hanno scelto e imposto il secondo.
Ciascun soggetto passivo assume un debito verso lo Stato pari all'imposta sul valore
aggiunto per la quale ha esercitato la rivalsa mediante addebito in fattura o registrazione
del corrispettivo di un’operazione non soggetta a fatturazione, ma, nel contempo, subendo
a propria volta la rivalsa dai propri fornitori di beni e servizi, ovvero pagando le imposte in
dogana sulle importazioni effettuate ovvero non contabilizzando a proprio debito l’imposta
relativa agli acquisti di beni intracomunitari, assume la titolarità di una situazione credito
verso lo Stato pari a questa imposta relativa ai propri acquisti.
Su questi ultimi si determina la nascita di una coppia di situazioni giuridiche esattamente
speculare a quella che sorge per effetto delle operazioni attive del soggetto d'imposta: vi è
un debito verso il fornitore, pari all'iva addebitata in rivalsa sulla fattura di acquisto, ma nel
contempo una situazione creditoria verso l’erario, destinata a neutralizzare, almeno in
parte, il debito derivante dall’iva addebitata per rivalsa sulle proprie operazioni attive.
Attraverso queste due coppie di situazioni debitorie e creditorie, si ottiene l'obiettivo della
neutralità: il soggetto passivo dell'IVA risulta non concretamente tale, quanto a onere
economico del tributo, perché l'IVA dovuta sulle operazioni attive deve essergli pagato dal
proprio cliente, mentre l'IVA dovuta ai propri fornitori viene recuperata mediante la
detrazione.
Naturalmente, lo schema teorico non si realizza in maniera perfetta, perché vari fattori
possono comportare un non completo ed esaustivo esercizio del diritto di detrazione: ma è
certo che, nell'insieme, il vero onere dei soggetti passivi di diritto è costituito dal costo
amministrativo di gestione dell'imposta nonché da eventuali anticipazioni finanziarie
derivanti dalla impossibilità di realizzare un immediato recupero di tutta l’imposta pagata,
che non dal peso del tributo in sé.
Solo il soggetto passivo di diritto che agisce nella fase di immissione al consumo e che è
esonerato dall'obbligo di fatturazione può in ipotesi restare inciso dal tributo, quando
decide ad esempio, pur di restare nel mercato, di applicare prezzi competitivi rinunciando
ad una parte di utile e sopportando il peso dell'IVA senza trasferirlo sul prezzo finale del
bene o del servizio. Di questa scelta non si ha cognizione né evidenza contabile, per cui
può dirsi che il tributo colpisce la sola capacità contributiva che emerge nella fase di
immissione al consumo dei beni e dei servizi, ossia quando questi ultimi sono ceduti o resi
a soggetti che non godono della detrazione dell'IVA a loro addebitata.
Se questi ultimi sono in genere i soggetti incisi dal prelievo, non è da escludere, però, che
almeno parte del sacrificio economico conseguente all'applicazione del tributo vada a
cadere anche sull'imprenditore che agisce nell'ultimo stadio della circolazione del bene o
del servizio, nella misura in cui il prezzo finale non garantisca il recupero dell'onere
dell'iva.
Condizione essenziale, per poter esercitare il diritto di detrazione, è quella dell'inerenza
dell'operazione da cui nasce l'IVA detraibile all'attività esercitata dal soggetto passivo di
diritto. Ancorché la direttiva europea, sul punto, proponga una formula rigida, ossia che il
bene o servizio acquistato debba essere impiegato, per giustificare la detrazione, in
operazioni soggette a iva, può ritenersi che l'inerenza ai fini IVA non sia dissimile
dall’inerenza di cui si parla a proposito dei componenti negativi del reddito d'impresa.
Sono certamente inerenti gli acquisti per spese generali del soggetto passivo, sono
inerenti le spese di impianto, sono inerenti anche spese che, pur non essendo
direttamente collegate all'effettuazione di operazioni attive imponibili, sono destinate a
favorirne nel tempo l'effettuazione.
La detrazione è autorizzata sulla base di un giudizio prognostico, ossia in funzione
dell'utilizzo del bene prevedibile al momento dell'acquisto, ma con obbligo di rettificare la
detrazione quando l'utilizzo in concreto e l’afferenza si rivelano diverse da quelle
ipotizzate.
Per esercitare la detrazione, altre condizioni essenziali sono costituite dalla qualità di
soggetto passivo d'imposta del soggetto che emette la fattura con addebito di iva, dalla
effettività dell'operazione e dell’acquisita esigibilità dell'imposta in capo al soggetto
emittente la fattura. Mentre è assai rigorosa sui requisiti sostanziali (come si è già
evidenziato a proposito della rilevanza delle fatture, non è assolutamente sufficiente per la
detrazione che esista un documento con addebito di iva, ma presupposto essenziale a
monte è che la fattura si riferisca ad un'operazione esattamente corrispondente a quanto
documentato dalla fattura), la giurisprudenza più recente ammette la detrazione anche in
presenza di inadempienze formali come nel caso che la fattura non sia stata contabilizzata
tra gli acquisti.
La detrazione può essere esercitata entro la dichiarazione del secondo anno successivo a
quello in cui il diritto alla detrazione è sorto, alle condizioni esistenti al momento della
nascita del diritto alla detrazione.
La perdita del diritto alla detrazione non compromette secondo la giurisprudenza la
posizione creditoria del contribuente, il quale, non potendo più utilizzarla nel contesto del
meccanismo applicativo dell'iva, può farla valere, dopo quel momento, presentando
istanza di rimborso.
Data la correlazione tra detrazione e operazioni imponibili a valle, l'art. 19, comma 2,
stabilisce che non è detraibile l'IVA che deriva da operazioni di acquisto o di importazione
che afferiscono ad operazioni attive esenti o comunque non soggette a imposta. Dal punto
di vista concettuale è importante notare che l'indetraibilità non si manifesta quando le
operazioni a valle, ossia quelle attive del soggetto passivo iva, sono costituite da
esportazioni, operazioni assimilate, servizi internazionali, cessioni intraUE, operazioni
compiute fuori dal territorio dello Stato che tuttavia consentirebbero la detrazione se
effettuate nel territorio stesso.
Quando l'IVA sulle operazioni passive riguarda beni e servizi utilizzati solo in parte per
operazioni non soggette a imposta, l'indetraibilità riguarda solo la quota di acquisti riferibile
a quelle per azioni. E lo stesso criterio si applica per escludere la detrazione in caso di
utilizzo parzialmente privato dei beni e servizi acquistati.
In caso di esercizio sia di attività che legittimano la detrazione, sia di attività destinate a
produrre operazioni esenti, la detrazione va commisurata in proporzione alla prima
tipologia di attività cosiddetta Pro-rata.
In corso d’anno, così come quando un'attività viene avviata, si adotta una percentuale
stimata provvisoria, che viene poi conguagliata a fine anno. La percentuale in base alla
quale si ricava la detrazione spettante al contribuente che effettua operazioni non
imponibili ed esenti, si determina sulla base del rapporto tra operazioni imponibili da un
lato, e somma di tutte le operazioni attive del soggetto passivo dall’altro (se le operazioni
imponibili sono ad esempio il 75% del volume complessivo delle operazioni, l'IVA
detraibile sarà pari al 75% di quella risultante dall'insieme delle operazioni di acquisto
nazionali, intraeuropee, extraeuropee). Alcune operazioni attive sono escluse da tale
compito.
Emerge un altro concetto fondamentale dell'IVA, ossia quello di volume d'affari che è
costituito dall'ammontare derivante dall'insieme di tutte le operazioni anche non imponibili
o esenti effettuati dal soggetto passivo iva, registrate o soggette a registrazione nell'anno
solare, tenendo conto anche delle note di variazione in aumento o in diminuzione. Non si
considera nel volume d'affari l'importo dell'iva, per cui nel caso di operazioni al minuto
rileva ai fini del volume d'affari il solo importo risultante dallo scorporo dell'IVA dal prezzo
applicato alla cessione o alla prestazione. Delle cessioni di beni ammortizzabili e dei
passaggi interni non si tiene conto.
Per alcuni beni e servizi il d.p.r. stabilisce limiti o esclusioni della detrazione, per ragioni
che spesso trovano base in una diffidenza verso l’effettiva inerenza di alcuni acquisti.
Vi sono dei beni il cui acquisto legittima la detrazione soltanto se i beni stessi formano
oggetto dell'attività propria dell'impresa (ossia se quest'ultima ne fa commercio o li
concede in noleggio) con esclusione in caso di acquisto da parte di professionisti: beni di
questo tipo sono gli aeromobili e le imbarcazioni da diporto, loro componenti e ricambi, i
beni voluttuari di lusso, i veicoli stradali a motore per i quali, se destinati ad uso promiscuo
(ossia in parte privato) la detrazione è ridotta al 40% anche per i professionisti. Il limite o
l'esclusione si applica anche ai relativi carburanti e lubrificanti.
Non è ammessa in detrazione l'imposta relativa all'acquisto o importazione di alimenti e
bevande, salvo che non formino oggetto dell'attività propria, così come non è ammessa la
detrazione dell'IVA relativa a spese di rappresentanza, a meno che non riguardino
l'acquisto di beni di costo unitario non superiore a 50 euro.
Non è ammessa in detrazione l'IVA relativa ad acquisto di immobili a destinazione
abitativa, anche se la giurisprudenza fa delle motivate eccezioni, come quella della
destinazione del fabbricato ad attività agrituristica.
La detrazione è accordata in base all'afferenza presumibile ad attività che determinano
operazioni imponibili o non imponibili per ragioni connesse alla destinazione
extraterritoriale del bene e necessita dunque di una verifica, in base ad un parametro
valutabile ex post, quale quello che si ricava dall’effettivo utilizzo del bene.
Quando la misura della detrazione si rileva diversa da quella inizialmente operata, la
percentuale di detrazione deve essere rettificata, in aumento o in diminuzione. Per i beni
ammortizzabili, la rettifica comprende una pluralità di anni, ed investe l’anno di entrata in
funzione, nonché i quattro anni successivi; essa è calcolata con riferimento a tanti quinti
dell'imposta quanti sono gli anni mancanti al compimento del quinquennio.
Qualsiasi altra causa di modifica della detraibilità ha rilievo rispetto ai beni e servizi non
ancora ceduti, ovvero non utilizzati, ovvero, per i beni ammortizzabili, nei 4 anni dalla loro
entrata in funzione.
Quanto al rapporto tra operazioni esenti operazioni imponibili, è soggetta a variazione la
detraibilità in ciascuno dei quattro anni successivi a quello di entrata in funzione, se essa
riguarda acquisti di beni ammortizzabili e se la variazione superiore a 10 punti percentuali
(in tale ipotesi la rettifica è obbligatoria, ma è possibile effettuarla anche facoltativamente).
La rettifica della detrazione va operata in unica soluzione, se il bene ammortizzabile viene
ceduto.
Infine il d.p.r. detta le regole della detrazione per gli enti non commerciali, stabilendo che
essa può riguardare solo acquisti e importazioni nonché acquisti intraUE relativi alle
attività commerciali o agricole esercitate dall'ente. All'uopo è necessaria l'istituzione di una
contabilità separata.
Il regime descritto è desunto dalla legislazione italiana, la quale però tradizionalmente è
più volte entrata in conflitto con i contenuti delle direttive europee.
Capitolo 7 - Le accise
1. Linee generali, ambito applicativo, fonti
Le accise sono imposte indirette aventi ad oggetto la fabbricazione o il consumo di
determinati prodotti, che sono sempre state presenti nell’ordinamento italiano, e sono
rimaste in vigore anche dopo l’introduzione dell’IVA → a differenza di quest’ultima, che è
un’imposta generale sui consumi, le accise si applicano solo a determinati prodotti e
hanno una disciplina del tutto diversa quanto a:
presupposto;
base imponibile;
aliquote.
Come per l’IVA, esse sono destinate a colpire il consumo, per cui la tassazione deve
comprendere anche l’immissione nel mercato interno di prodotti provenienti da territori
extra UE, cosa che avviene tramite l’applicazione di una sovrimposta di confine*.
➔ Anni ’90: abolizione delle barriere doganali all’interno dell’UE → anche la materia
delle accise è stata regolata a livello europeo, diventando materia armonizzata,
regolata principalmente da direttive.
Tuttavia gli spazi residui per il legislatore nazionale sono significativi: le norme
europee lasciano la possibilità agli stati membri di applicare accise non
armonizzate, purché non pregiudizievoli della libera circolazione intra UE, garantita
dall’abolizione delle frontiere. NB. Nell’ambito applicativo delle accise il legislatore
nazionale non può istituire tributi indiretti interferenti, se non per specifiche finalità.
La disciplina applicabile al singolo prodotto può avere non solo specificità e peculiarità
rispetto alle regole generali, ma anche deroghe significative.
Tutta la disciplina del tributo, compresa quella relativa a controlli e agli accertamenti, è
costruita sull’aderenza dell’atto sottoposto a registrazione: si parla di imposta d’atto,
modellata su una capacità contributiva che emerge dall’atto sottoposto a registrazione e
che non a caso viene imputata sui soggetti che pongono in essere l’atto.
➔ Ex art. 20 TU imposta di registro: la tassazione deve avere riguardo agli effetti
giuridici derivanti dall’intrinseca natura dell’atto, al di là di quella che sia la forma
apparente che le parti danno al negozio.
L’ applicazione del tributo presuppone un’opera di ricostruzione degli effetti voluti
dalle parti che in buona misura dovrebbe basarsi sulle regole civilistiche di
interpretazione contrattuale, considerate però in una forma più obiettiva.
NB. Oggi l’art. 20 è considerato come norma di contrasto all’elusione o che, pur
senza finalità antielusiva, autorizza comunque il superamento degli effetti giuridici
formalmente desumibili dall’atto, per cogliere la capacità contributiva
sostanzialmente ricavabile dall’atto tassato (→ substance over form).
A questo si aggiunge il fatto che l’ancoraggio della tassazione all’atto è da intendersi
superata:
- da un lato gli effetti giuridici vengono ricostruiti combinando le disposizioni di atti distinti
che appaiano tra loro collegati;
- dall’altro i poteri istruttori dell’ufficio sono ormai mutuati da quelli previsti per le imposte
sui redditi e l’IVA, autorizzando così la ricerca di una realtà sostanziale al di là di quanto
possa apparire dall’atto sottoposto a registrazione.
Dal punto di vista della territorialità: l’imposta si applica agli atti scritti indicati in
precedenza se formati nel territorio dello Stato. Sono soggetti a registrazione anche atti
formati all’estero, se riguardano beni immobili o aziende → anche i contratti verbali di cui è
obbligatoria la registrazione sono quelli che riguardano locazioni, affitti, trasferimenti di
beni immobili o di aziende, nonché le relative cessioni, risoluzioni e proroghe.
• Soggetti su cui grava l’obbligo di richiede la registrazione:
a. Scritture private non autenticate: soggetti che hanno formato l’atto (=parti
contraenti, rappresentanti di società).
b. Scritture private autenticate e atti pubblici: notai e altri uffici roganti.
c. Caso d’uso: funzionari depositari degli atti.
d. Atti giudiziari: cancellieri e segretari giudiziari.
➔ Ex art. 15 TU: quando viene rinvenuta una scrittura che avrebbe dovuto essere
sottoposta a registrazione, questa viene eseguita d’ufficio, e alle parti vengono
richieste le relative imposte e irrogate le sanzioni per omessa registrazione
dell’atto.
Nella pratica, uno dei casi più frequenti è quello dell’atto scritto rinvenuto in
occasione di una verifica presso contribuenti, effettuata ai fini dell’accertamento
delle imposte sui redditi o dell’IVA.
La capacità contributiva colpita dal tributo è riferibile alle sole parti contraenti, e non ha
ripartizione precostituita nella legge.
Il tributo di registro è sempre stato un ‘laboratorio’ per quanto concerne la soggettività
passiva per il tributo, che coinvolge una pluralità di soggetti (→ notaio e parti contraenti) in
relazione alla dinamica dei rapporti interni che stanno alla base degli atti registrati.
Il legislatore non prevede limiti alla facoltà delle parti di regolare le spese di registrazione,
per cui alla solidarietà verso il fisco corrisponde una ripartizione del tributo stabilire nei
rapporti interni.
• Il soggetto contraente che paga il tributo di registro ha diritto di regresso verso i
coobbligati;
• Il notaio invece, essendo chiamato a rispondere per un fatto che non è legato ad una
propria capacità contributiva, se corrisponde il tributo può surrogarsi all’amministrazione
finanziaria nella tutela del proprio credito di rivalsa, conquistandone le stesse prerogative
e anche il grado di privilegio.
➔ Il ruolo del notaio sta subendo un’evoluzione, non ancora adeguatamente
rappresentata dai testi normativi:
a. Sistema tradizionale di pagamento: l’imposta principale era liquidata dall’ufficio,
prima di procedere alla registrazione, consentendo così al notaio di acquisire dalle parti
del contratto la provvista finanziaria necessaria al pagamento dell’imposta.
b. Sistema dell’adempimento unico (in vigore da diversi anni): il notaio paga l’imposta di
registro dopo un’autoliquidazione che consente la registrazione telematica dell’atto.
Questo pagamento è però seguito da un controllo di regolarità da parte degli uffici, che
possono richiedere al notaio l’integrazione del versamento, per il quale la provvista
consegnata dalle parti potrebbe non essere sufficiente.
▶ Base imponibile: gran parte del contenzioso in materia di imposta di registro riguarda la
valutazione degli immobili, cioè la determinazione del valore venale del bene, per il
quale la legge prevede dei criteri guida, basati soprattutto sulla presenza di atti analoghi,
riguardanti immobili similari. Nel tempo, sono stati introdotti vari metodi per assicurare in
modo meno conflittuale un contemperamento tra esigenze di gettito e di certezza per i
contribuenti. Per gli immobili a destinazione abitativa è consentito optare, in sede di
redazione dell’atto, per il ‘metodo del prezzo-valore’, che consente, dichiarando il prezzo
effettivo della compravendita*, di definire la tassazione dell’atto sulla base dei valori
catastali. Nonostante quindi l’imponibile sia tendenzialmente ancorato al valore del bene
(→ corrispettivo effettivo diventa la base imponibile solo se superiore al valore, mentre
non accade l’inverso), la ricerca del corrispettivo effettivo è perseguita sempre
dall’amministrazione finanziaria. Vari obblighi nel tempo hanno rafforzato i poteri di
accertamento:
- coinvolgendo i mediatori delle transazioni immobiliari,
- rendendo obbligatoria la registrazione del contratto preliminare,
- imponendo l’indicazione nell’atto l’indicazione analitica di modi e tempi di pagamento
del corrispettivo,
- consentendo agli uffici poteri di controllo assai penetranti (→ vd. indagini sulle
movimentazioni finanziarie delle parti contraenti).
* Prezzo che può essere rilevante ai fini della tassazione del reddito dell’alienante,
o per accertare sinteticamente il reddito con cui l’acquirente ha finanziato l’acquisto.
• È molto importante il privilegio speciale, che assiste, per 5 anni, il credito erariale per
imposta di registro e conferisce al creditore il diritto di seguito sull’immobile, anche in
caso di cessione a terzo, con effetto espropriativo per il sub-acquirente. È un elemento
molto insidiosi nelle negoziazioni immobiliari, che ne ostacola lo svolgimento, minando la
certezza sull’assenza di pesi gravanti sull’immobile: quando il sub-acquirente acquista
infatti l’atto dell’amministrazione che accerta il credito potrebbe non essere stato ancora
emanato.
• Aziende → l’atto di trasferimento è escluso dall’applicazione dell’IVA, ed è sempre
soggetto a imposta di registro, su una base imponibile che è costituita dal valore
dell’azienda, comprensivo di una posta rilevante, ma di difficile determinazione, come
l’avviamento. Anche in materia di trasferimenti aziendali il conflitto tra amministrazione
finanziaria e contribuente è frequente e spesso nasce dai tentativi del contribuente di
mimetizzare una cessione d’azienda, o di ramo d’azienda, in una pluralità di cessioni
aventi ad oggetto singoli beni che, come tali, sono soggette ad IVA: la convenienza sta
nel fatto che le cessioni con applicazione dell’IVA consentono all’acquirente di
recuperare il peso dell’imposta attraverso la detrazione (→ istituto estraneo all’imposta di
registro!)
NB. Altra forma di fattispecie alternativa alla cessione aziendale, che viene effettuata
talora per mere ragioni di convenienza fiscale, talora perché le parti hanno di mira il
perseguimento di effetti diversi da quelli derivanti dalla cessione del compendio aziendale,
è quella del conferimento dell’azienda in una società, di solito di nuova costituzione, con
successiva cessione delle partecipazioni che assicurano il controllo di questa società.
Conferimento e cessione delle partecipazioni danno luogo a due tassazioni con imposta
fissa di registro, anche in applicazione delle norme europee sulle operazioni societarie; le
parti quindi ottengono risultati assimilabili al trasferimento d’azienda, ma in questo modo
riescono a sottrarsi alla tassazione proporzionale sul valore dell’azienda.
La diffusione di questa prassi negoziale ha comportato una reazione: sebbene la
fattispecie conferimento-cessione sia sottratta al sindacato antielusivo ai fini delle imposte
sui redditi, per effetto dell’art. 176 TUIR, viene qualificata come cessione d’azienda,
soprattutto facendo leva sulla sostanza degli effetti giuridici in applicazione dell’art. 20 TU
imposta di registro.
La tassazione in questi casi assume ad oggetto non il singolo atto, ma gli effetti giuridici
combinati di due atti che si ritengono collegati, soprattutto se si susseguono a breve
distanza di tempo, e rinnega, nella ricerca di una perequazione sostanziale, l’ontologica
diversità sussistente tra la situazione di chi possiede direttamente un’azienda e quella di
chi detiene le partecipazioni del soggetto giuridico che possiede l’azienda (=beni di
secondo grado).
Capitolo 10 - L’ imposta sulle successione e sulle donazioni
1. Caratteri generali ed evoluzione dell’imposta
La devoluzione di un patrimonio o anche di singoli beni e diritti, per effetto di una
successione è indubbio indice di capacità contributiva, riferibile ai soggetti (→eredi e
legatari) che ricevono l’incremento patrimoniale.
Nell’ordinamento italiano tuttavia l’atteggiamento del legislatore denota incertezze e
contraddizioni nel regolare un’imposta che abbia ad oggetto trasferimenti conseguenti a
successioni o a disposizioni liberali, come le donazioni:
Riforma dei primi anni ’70: imposta molto rigida e progressiva;
Fine anni ’90: imposizione attenuata;
2001: soppressione dell’imposta.
2006: reintroduzione dell’imposta, sostanzialmente nel testo vigente
pre soppressione, con ampie zone di esenzione.
Sono inoltre prevedibili ulteriori evoluzioni, anche perché si tratta di un’imposta che pone
delicati problemi politici e giuridici al legislatore:
a) Problemi di equità dell’imposta, che si ricollegano al coordinamento con le altre
imposte di tipo patrimoniale: colpire pesantemente la successione ereditaria, quando i
beni che ne sono oggetto hanno scontato periodicamente imposte di tipo patrimoniale
sembra penalizzante; d’altra parte però non vi è dubbio che il beneficiario della
successione, soprattutto se si tratta di un soggetto giuridico avulso dal nucleo familiare ha
un notevole arricchimento dalla successione, che sembra difficile da trascurare come
indice di capacità contributiva.
b) Problemi di efficienza, che possono portare a possibili iniquità: non tutto il patrimonio
che va in successione può essere accertato facilmente, e per molti beni può essere
possibile, prima della successione, compiere atti dispositivi che evitino poi la tassazione al
momento del trapasso. Ad evitare questo non è sufficiente che l’imposta si applichi anche
alle donazioni, poiché queste sono colpite sistematicamente solo se attuate mediante atti
formali, mentre resta di difficile tassazione il mondo delle donazioni informali o indirette, e
resta difficile recuperare la tassazione su atti di sistemazione patrimoniale che non
rivelano immediatamente la loro vera natura di liberalità.
L’assetto attuale non è particolarmente soddisfacente:
○ Si applica un’aliquota proporzionale di:
4% → se il successore è coniuge o parente in linea retta, ma solo oltre la
franchigia individuale di 1 milione di euro;
6% → quando il successore è fratello o sorella, oltre il limite di 100.000
euro;
6% → per altri parenti e affini, senza franchigia;
8% → in ogni altro caso.
Nonostante l’Agenzia delle entrate sia orientata nel senso che la franchigia debba tenere
conto anche di quanto ricevuto attraverso donazioni effettuate in vita; la Cassazione
esclude la rilevanza del coacervo delle precedenti donazioni, per cui la franchigia sembra
dover essere valutata solo in relazione all’importo del lascito oggetto di successione.
L’ imposta c’è, ma in molti casi di trasferimenti nell’ambito strettamente familiare non si
applica o si applica in misura mite e non concorre più alla progressività del sistema:
questo sembra iniquo, soprattutto per i patrimoni di maggiore consistenza; tuttavia è
anche vero che, rispetto agli anni ’70, si è molto accentuata la tassazione patrimoniale
periodica, soprattutto sugli immobili.
○ Territorialità:
• Successioni→ il parametro essenziale è dato dalla residenza del de cuius:
se residente in Italia: l’imposta si applica anche sui beni esistenti all’estero;
- se non residente in Italia: si tassano solo i beni eventualmente esistenti in Italia → il
trasferimento per successione degli immobili, dei beni registrati, delle partecipazioni
deve comunque essere denunciato al fisco perché possa essere modificata
l’intestazione dei beni nei pubblici registri.
• Donazioni: i criteri di territorialità inizialmente erano modellati sulla residenza del
donante, ma poi sono stati integrati da un’estensione dell’obbligo di registrazione per
tutte le donazioni di cui sia destinatario un residente in Italia.
➔ In entrambi i casi deve aversi riguardo alle convenzioni contro la doppia
imposizione.
3. La base imponibile
La natura del prelievo, che colpisce l’incremento di patrimonio, comporta una base
imponibile complessa, nella quale il valore dei beni spettanti al singolo beneficiario viene
abbattuta dalle passività relative, purché documentate nei modi di legge.
In questo modo è sottoposto a tassazione il valore netto dei beni ricevuti, per la parte che
supera la franchigia.
• Attivo ereditario → alcune presunzioni prendono il posto di un’attività accertativa che
sarebbe impossibile rendere efficace: si presume l’esistenza di gioielli, denaro e mobili
per un 10% del valore netto dell’asse ereditario, nonché l’esistenza dei titoli risultanti
dall’ultima dichiarazione del defunto.
Anche in questa imposta la maggiore attenzione è dedicata alla valutazione dei beni
immobili, delle aziende , delle partecipazioni e delle obbligazioni.
Molto importante è la detassazione de trasferimenti aziendali o delle relative
partecipazioni, anche mediante patto di famiglia, disposti in favore dei discendenti e del
coniuge → è un regime di favore che tiene conto della delicatezza, nella vita di
un’impresa, del momento di passaggio generazionale; per questo la detassazione spetta
se i discendenti continuano l’impresa e se il lascito consente di governare la società con
una partecipazione di controllo.
Tutti questi tributi possono essere applicati in misura proporzionale o in misura fissa. Il
meccanismo è simile a quello delle imposte cui normalmente le ipocatastali accedono,
con individuazione di soggetti obbligati ad eseguire le formalità che possono essere
diversi da quelli obbligati al pagamento.
L’imposta può essere fissa o proporzionale e talvolta risulta dovuta per la semplice
formazione dell’atto, mentre altre volte risulta dovuta per il suo utilizzo.
È sicuramente dubbia la capacità contributiva rivelata dall’atto, soprattutto se si tiene
conto che gli importi del tributo, pur essendo in assoluto modesti, sono spesso significativi
in relazione alla scarsissima o nulla rilevanza economica dell’atto da sottoporre a imposta.
▶ Soggettività passiva → è funzionale ai controlli, ed è delineata in modo esteso, per
coinvolgere tutti i soggetti che redigono o fanno uso dell’atto da sottoporre a bollo.
➔ Per i pubblici funzionari: è previsto un obbligo di regolarizzazione, che si osserva
inviando l’atto privo di bollo agli uffici dell’amministrazione finanziaria competenti
all’assolvimento del bollo, che applicheranno sanzioni amministrative ai redattori
dell’atto, ma non al soggetto che abbia permesso la regolarizzazione.
2. Le tipologie di tributo
Non c’è concordia su quali tipi di tributi possano essere sicuramente definibili come
ambientali: a volte un’entrata commisurata al pregiudizio dell’ambiente non ha i caratteri
del tributi, ma si caratterizza come un’entrata patrimoniale.
In linea di massima occorre che presupposto e base imponibile del prelievo tributario
abbiano riguardo ad una specifica portata lesiva rispetto all’ambiente di singoli beni o
attività.
Tra i più antichi tributi ambientali:
• Contributi per il rilascio delle concessioni edilizie (→ ora permessi per costruire): hanno
ancora una funzione di fondare il prelievo sull’utilizzo di una risorsa pubblica
fondamentale come il suolo. Nella visione prevalente negli anni ’70 infatti, lo
sfruttamento edificatorio delle aree da parte dei proprietari non è stato considerato
come un potere connaturato al diritto di proprietà e come tale illimitatamente
esercitabile, ma come un’attività con riflessi pubblicistici significativi, impattante su una
risorsa limitata, per cui non deve apparire anomalo e incostituzionale che si chieda al
proprietario una contribuzione per esercitare un diritto connesso intimamente allo
status di proprietario del suolo.
• Tassazione del consumo di sacchetti di plastica impiegati nel commercio per il
trasporto dei prodotti acquistati (1988).
Attualmente possono essere definiti tributi
ambientali:
a) A livello erariale:
• Carbon tax: è l’imposta sulle emissioni di anidride carbonica derivanti dal consumo di
combustibili fossili. È un prelievo proporzionale all’utilizzo, in determinati impianti, di
materie prime considerate maggiormente inquinanti (→ art. 8, l. 448/1998).
• Imposta sulle emissioni di anidride solforosa e di ossidi di azoto → ex art. 17 co. 29 ss.
l. 449/1997.
➔ Si tratta di prelievi a carico dei produttori, ma destinati a ripercuotersi sui
consumatori in virtù di traslazione, con alterne fortune e vicende, spesso
rimaneggiati:
- sia perché destinati ad intrecciarsi con la disciplina delle accise, di cui sono una
tipologia speciale;
- sia perché di forte impatto economico su settori vitali, come il trasporto
commerciale e su fasce di consumatori più deboli.
b) A livello regionale:
• Imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili (→ art. 90, l. 342/2000): è applicata
sugli atterraggi e i decolli di voli civili su ogni singolo aeroporto “il cui gettito è
destinato prioritariamente al completamento dei sistemi di monitoraggio acustico e al
disinquinamento acustico e all’eventuale indennizzo delle popolazioni residenti”.
• Tributo speciale regionale sul conferimento dei rifiuti in discarica (→ art. 3 co. 24 ss.,
l. 549/1995): è istituito “al fine di favorire la minore produzione di rifiuti e il recupero
dagli stessi di materia prima e di energia”.
- Soggetti passivi i gestori degli impianti, con obbligo di rivalsa nei confronti di colui
che effettua il conferimento.
- La base imponibile è costituita dalla quantità (a peso) dei tributi conferiti in
discarica.
- Sono soggetti al tributo, fatte salve le più gravi sanzioni amministrative e penali,
anche i conferimenti in discariche abusive così come lo smaltimento non
autorizzato di rifiuti, gravando in questi casi il prelievo sul soggetto che di fatto ha la
disponibilità della discarica abusiva o comunque sui soggetti che smaltiscono
illegalmente i rifiuti.
c) A livello provinciale e comunale:
• Tributo provinciale per il finanziamento ambientale (art. 19, d.lgs. 504/1992): è una
sorta di addizionale rispetto alla tassa comunale sulla raccolta di rifiuti (=TARI).
• Imposte sul soggiorno in strutture alberghiere, previste dal decreto legislativo sul
federalismo municipale e articolate poi in dettaglio dai singoli comuni, in virtù della
loro autonomia normativa di carattere regolamentare.
Sono tributi ambienti anche le diverse forme di tassa d’ingresso nelle città, istituite dai
comuni di maggiori dimensioni per limitare l’accesso di veicoli nei rispettivi centri urbani
(→ road pricing). In questi casi è certa la finalità ambientale, mentre è meno certa la
natura del prelievo che può essere anche identificata in un’entrata non tributaria, ma di
carattere patrimoniale, simile al canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche.
2.L’IRAP
Il più importante tributo regionale è l’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), che
costituisce un tributo proprio derivato, di fonte statale, introdotto dal 1998 in sostituzione di
molti tributi preesistenti alcuni erariali (come l’ILOR,Imposta sul patrimonio netto delle
imprese, i contributi per il servizio sanitario nazionale, la tassa di concessione governativa
per l'attribuzione del numero di partita IVA) e alcuni locali (come l’ICIAP, imposta
comunale sull’esercizio di arti e professioni).
Sull’IRAP, la singola regione ha poteri abbastanza modesti, quali quello di variare
l’aliquota per categorie di soggetti passivi ma nel limite di un punto percentuale e di
scegliere le modalità applicative del tributo più congeniali all’organizzazione regionale.
Il tributo è reale, non deducibile ai fini delle imposte sui redditi se non in limiti assai stretti
ed è ragguagliato alla attività svolta in ciascuna regione da ciascun soggetto passivo ed è
periodico (assume la stessa nozione di periodo d'imposta prevista per le imposte sui
redditi). Scarse sono le affinità con tributi esistenti in altri stati.
Data l’ampiezza del presupposto, è ampia anche la platea dei soggetti passivi: sia soggetti
esercenti attività commerciale, qualche sia la loro forma giuridica, sia professionisti e
artisti, che svolgano l’attività in forma associativa, individuale o di società semplice, sia enti
non commerciali, sia le p.a., compresi gli organi costituzionali.
Sono esclusi i fondi comuni di investimento, gli organismi di investimento collettivo del
risparmio e i GEIE.
L’idea originaria del legislatore era quella di comprendere nella nozione di attività
organizzata non solo le fattispecie di eteroorganizzazione, ma anche
l’autorganizzazione, ossia il soggetto che non ricorre all’apporto di terzi per svolgere la
propria attività.
Il diritto vivente si è orientato nel senso di escludere che l’imposta potesse
essere applicata a attività autoorganizzate ossia esercitate in modo non organizzato
(senza significativi beni, senza apporto di lavoratori dipendenti o autonomi, senza attingere
a risorse finanziarie di terzi).
Principali beneficiari di questa visione riduttiva dell'attività organizzata sono stati i
professionisti e forse gli artisti, che come per l'ilor hanno ottenuto il riconoscimento della
loro esclusione da imposta ogni qualvolta abbiano dimostrato la mancanza di
eteroorganizzazione.
Limitato è stato l'impatto su imprenditori individuali non organizzati, mentre per gli
imprenditori agricoli, titolari di reddito fondiario, è stata introdotta dal 2016 una modifica
normativa che li esclude dall'ambito dei soggetti passivi (ma l'esclusione non riguarda
l'imprenditore che si collochi tra gli imprenditori commerciali, superando le soglie entro le
quali si applica il reddito fondiario, o che svolga attività di agriturismo) insieme ad alcune
tipologie di consorzi e cooperative che operino nel settore selvicolturale, ivi comprese le
sistemazioni idraulico forestali, o in quello della piccola pesca.
Le obiezioni riguardavano sia la possibilità che, per effetto delle limitazioni alle spese
deducibili, venisse applicata l'imposta anche a soggetti passivi in perdita, sia la titolarità
della capacità contributiva, posto che i fattori produttivi riferibili a terzi venivano ad essere
tassati non presso i titolari dei relativi redditi, ma presso il soggetto che li utilizzava.
In realtà, le obiezioni sono superabili: la seconda, perché, se si accetta che il presupposto
possa essere individuato nella combinazione di fattori produttivi, la tassazione presso
l'erogatore di stipendi e interessi, anziché presso il percipiente degli stessi, appare del
tutto coerente e razionale; la prima, perché essa nasce da un equivoco, quello di utilizzare
il parametro del reddito a proposito di un'imposta che intende colpire una base imponibile
completamente diversa.
L'imposta Irap ha vissuto anche un periodo di tensione sul piano europeo, quando, in una
controversia davanti alla corte di giustizia, l'avvocato generale concluse nel senso della
incompatibilità dell'imposta rispetto al sistema iva, che vieta l'introduzione di altre imposte
che tassino il valore aggiunto alterando o distorcendo quella neutralità che si è visto
essere ragione e finalità dell'iva.
Ma la Corte di Giustizia andò in senso contrario, rilevando come l'irap non possa essere
considerata interferente con l'iva, non essendo come quest'ultima un’importa sul consumo,
destinata a traslarsi mediante rivalsa sui consumatori finali e più in generale sugli
acquirenti di beni e di servizi.
La previsione generale circa l'imponibilità dell'irap si specifica poi in una serie di regole
distinte, riferibili a ciascuna delle categorie di soggetti passivi; abbiamo così regole per le
imprese in contabilità ordinaria (che determinano l'irap direttamente dalle risultanze di
bilancio, senza procedere alle variazioni in aumento o in diminuzione previste per il reddito
di impresa; regole particolari riguardano poi le imprese bancarie e assicurative), regole per
imprese minori e per professionisti/artisti: tutti questi soggetti procedono comunque ad una
rilevazione per differenza algebrica tra elementi positivi (ricavi, plusvalenze, compensi) e
elementi negativi, ossia i costi deducibili, i quali escludono come detto gli interessi passivi
e in parte elementi del costo del lavoro. Queste regole si applicano anche alle attività
commerciali svolte da enti non commerciali.
Per le attività istituzionali degli enti non commerciali, invece e per le amministrazioni
pubbliche, la base imponibile è in definitiva riconducibile al monte salari, ossia all'importo
delle retribuzioni corrisposte ai dipendenti (e questo si spiega con il fatto che l'irap deve
tendere a garantire lo stesso gettito in precedenza assicurato dai soppressi contributi
sanitari, a carico dei lavoratori e datore di lavoro). Tale metodo è definito retributivo.
Questa base imponibile generale deve poi essere adattata al dato territoriale, individuando
la quota di valore aggiunto prodotta dal soggetto passivo in ciascuna regione.
Le aliquote oscillano tra il 3,5% e il 5,3%, per i soggetti con base imponibile algebrica,
mentre per gli enti non commerciali l'aliquota è dell’8,5%. Sull'aliquota, le regioni possono
introdurre variazioni, in limiti inferiori al punto percentuale, per settori di attività e per
categorie di soggetti passivi.
4. Altri tributi
Sono tributi propri derivati ai sensi dell'art. 8 d.lgs. n. 68/2011 la tassa per l'abilitazione
all'esercizio professionale, l’imposta regionale sulle concessioni statali dei beni del
demanio marittimo, l’imposta regionale sulle concessioni statali per l'occupazione e l'uso
dei beni del patrimonio indisponibile, la tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche
regionali, le tasse sulle concessioni regionali, l’imposta sulle emissioni sonore degli
aeromobili.
Tali tributi sono definiti i propri derivati, nel senso che la regione non ha il potere di istituirli
e deve conformarsi ai caratteri strutturali disegnati dalla legge statale; la regione ha però il
potere di sopprimerli, puntando su altre entrate per compensare la perdita di gettito.
Nell’elencazione non compare il tributo speciale per il conferimento dei rifiuti in discarica, il
quale non può essere soppresso e non si può definire come tributo proprio della regione,
quanto piuttosto come tributo con gettito devoluto alla regione, senza che essa abbia
possibilità di manovra come negli altri tributi elencati nell'art. 8.
Capitolo 15 - I tributi di comuni e province
1. Profili generali e di coordinamento
d.lgs. 23/2011 → contiene la disciplina della fiscalità municipale, il cui impianto
complessivo è stato tuttavia oggetto di varie modifiche; il disegno originale del decreto
infatti prevedeva la devoluzione ai comuni anche della fiscalità relativa ai trasferimenti
immobiliari.
➔ L’ assetto attuale prevede un’imposta unica comunale (IUC), con funzione di
contenitore di 3 diverse imposte, tra cui IMU e TASI.
Altre norme fondamentali sono gli artt. 52 e 53 d.lgs. 446/1997, che hanno riconosciuto ai
comuni ampio potere di regolazione dei tributi loro affidati, nel rispetto della riserva di
legge per quanto riguarda i tratti strutturali del tributo; infatti deve essere la legge statale,
in qualche caso quella regionale, a prevedere:
Presupposto;
Soggetti passivi;
Criteri di determinazione dell’imponibile;
Livello massimo dell’aliquota.
Il d.lgs. 23/2011, anche per effetto della giurisprudenza conservativa della Corte
costituzionale sviluppatasi tra l’approvazione della riforma del titolo V della Costituzione e
le norme attuative di carattere fiscale, compie molti passi indietro rispetto al legislatore del
1997: la principale entrata rimane ancora oggi l’addizionale comunale all’IRPEF, istituita
con d.lgs. 360/1998, che si applica anch’essa, come l’addizionale regionale*, sul reddito
complessivo al netto degli oneri deducibili, in favore del comune di residenza della
persona fisica alla data del 1 gennaio dell’anno interessato. Gli spazi di autonomia sono
molto limitati: il decreto prevede imposte di soggiorno e imposta di scopo, da regolare
secondo le esigenze dei singoli comuni, ma la predeterminazione degli elementi del tributo
da parte della legge statale è superiore rispetto a quanto necessario ad assicurare il
rispetto dell’art. 23 Cost.
Deve ritenersi consentito alle regioni, nei limiti individuati dalla giurisprudenza
costituzionale, di istituire tributi comunali che poi i singoli comuni potranno regolare nel
dettaglio, sempre nel rispetto dell’art. 23 Cost.
2. La TARI
È la tassa sui rifiuti, disciplinata dai commi 641 ss. della l. 147/2013, ed è posta a carico di
chi occupa a titolo di possesso o detenzione immobili o aree idonei alla produzione di
rifiuti urbani. In caso di compossesso l’obbligazione tributaria è unica, e avvolge nel
vincolo di solidarietà tutti i soggetti.
L’ imposta si applica su base annuale ed è quindi qualificabile come periodica.
Il gettito del tributo deve coprire il costo del servizio, ma il parametro di determinazione
dell’imposta dovuta è commisurato solo in parte al costo di produzione dei servizi ricevuti
da ciascun utente.
La base imponibile si determina applicando alla superficie calpestabile dei locali e delle
aree una tariffa articolata dal singolo comune, nella quale i possibili usi di cui può essere
oggetto un bene immobile sono distinti secondo un criterio di maggiore o minore capacità
di produzione dei rifiuti.
Possono essere previste riduzioni per locali situati in zone non coperte dal servizio di
raccolta rifiuti e per l’effettuazione di raccolta differenziata: i comuni che adottano sistemi
di rilevazione del singolo conferimento possono sostituire alla TARI un’entrata di carattere
corrispettivo dato che vengono misurate le quantità del rifiuto conferite.
La natura del tributo, dato che il contribuente non può esimersi dal pagare in relazione al
mancato svolgimento del servizio, e dato che il presupposto riguarda l’astratta idoneità al
pagamento del servizio e presuppone solo che lo stesso sia stato istituito, appare piuttosto
quella di un’imposta, che non di una tassa, come pure è denominato.
Nel caso della TARI la finalità ambientale non autorizza a qualificarla come tributo
ambientale in senso stretto.
▶ Un soggetto che produca rifiuti speciali, chiamato a smaltirli a proprie spese, non è
soggetto per questa tipologia di rifiuti al pagamento della TARI, che dovrà pagare
solo con riferimento ai rifiuti ordinari comunque prodotti.
5. I tributi provinciali
La Provincia è ancora titolare di alcuni tributi, tra i quali:
Tosap, per le aree demaniali provinciali;
Tributo per le funzioni ambientali;
Imposte di scopo.
Alla fiscalità delle province è dedicata una sezione del d.lgs. 68/2011, che definisce come
tributi propri derivati quelli affidati ad una regolamentazione residuale da parte delle
province e individua ipotesi di compartecipazione.
La fiscalità delle province dimostra come la tendenza degli ultimi anni sia quella di
individuare le competenze tributarie degli enti territoriali secondo un criterio di continenza:
si collega il prelievo alle funzioni tipicamente assegnate ai singoli enti territoriali.
Per le province il fenomeno è più visibile perché l’ente ha un ridotto numero di funzioni e di
corrispondenti entrate tributarie.
I tributi propri derivati specificatamente assegnati alle province sono:
○ l’imposta sulle assicurazioni, relativa alla responsabilità civile derivante da circolazione
di veicoli a motore;
○ l’imposta di trascrizione, iscrizione e annotazione di veicoli nel Pubblico registro
automobilistico (PRA), imposta che è assimilabile all’imposta ipotecaria in quanto è
dovuta per effetto delle trascrizioni dei passaggi di proprietà dei veicoli nel PRA.
○ Tributo speciale per il conferimento dei rifiuti in discarica → la provincia è titolare di una
piccola parte del gettito che deriva dalla sua applicazione.
Parte III - L’attuazione dei tributi
Capitolo 1 - Gli schemi giuridici
1. Dalla doverosità degli adempimenti all’effettività del concorso
Affinché la norma tributaria si traduca in un effettivo concorso alla spesa pubblica da parte
del contribuente e tale concorso sia commisurato alla effettiva capacità contributiva del
soggetto passivo sono necessarie una serie di regole atte a disciplinare i meccanismi
attraverso cui il prelievo viene attuato.
Lo studio giuridico del diritto tributario si è sviluppato proprio in ordine all’analisi delle
situazioni soggettive che nascono dalle norme sostanziali tributarie; da sempre dottrina e
giurisprudenza hanno colto che l’attuazione concreta del tributo fa nascere delle situazioni
doverose a carico dei soggetti passivi, che li obbligano in tempi e modi diversi ad
effettuare adempimenti di varia natura, sostanzialmente ispirati ad un duplice obiettivo:
a. Informare gli organi dell’amministrazione finanziaria che un presupposto impositivo si
è verificato;
b. Consentire la riscossione da parte dell’ente titolare del gettito.
➔ Quando il tributo era studiato soprattutto sotto quest’ultimo aspetto, cioè come
adempimento di un obbligo di pagamento di determinate somme, la tesi prevalente,
ancora oggi sostanzialmente seguita dalla giurisprudenza individuava:
○ nella legge la fonte genetica dell’obbligazione tributaria (→ obbligazione pubblica ex
lege);
○ nel verificarsi del presupposto il momento di nascita dell’obbligazione tributaria.
È la cosiddetta teoria dichiarativa: i diversi atti posti in essere dai protagonisti della
vicenda tributaria sono considerati ricognitivi di un’obbligazione già sorta al momento del
verificarsi del presupposto.
Alla teoria dichiarativa si è contrapposta la teoria costitutiva, che attribuisce agli atti delle
parti l’effetto di costituire l’obbligazione tributaria: il verificarsi del presupposto farebbe sì
sorgere situazioni doverose in capo al contribuente, ma l’obbligazione in senso proprio
deriverebbe solo dagli atti dell’amministrazione finanziaria, o dalla dichiarazione stessa
del contribuente. Il dibattito si è via via arricchito di diverse considerazioni:
- Non tutti i tributi hanno un vero e proprio iter di accertamento e riscossione;
- A volte, gli atti che dovrebbero costituire l’obbligazione mancano del tutto;
- Ha rilievo giuridico anche un procedimento intellettuale interno al soggetto passivo dal
quale derivi il pagamento del tributo (→ autoaccertamento)?
È quindi emerso che, così come l’attuazione del tributo evoca problematiche
dell’obbligazione essa coinvolge anche la nozione del procedimento, dal momento che, in
molte delle sequenze destinate a realizzarla è ravvisabile quella coesistenza di atti
giuridici posti in essere in funzione di un unico obiettivo. Si è quindi perseguito uno studio
del fenomeno secondo modelli pubblicistici.
A metà degli anni ’80 sia la teoria dichiarativa, sia quella costitutiva, sono state sottoposte
a critica radicale, dando prevalenza nello studio del fenomeno ad una disciplina
processuale modellata secondo le forme di tutela dell’interesse legittimo, che non in
funzione di assicurare al creditore/ amministrazione finanziaria la soddisfazione del
proprio credito.
Nel frattempo gli schemi impositivi si sono arricchiti e sono divenuti sempre più articolati e
complessi in molti dei tributi per cui il dibattito ha perso di attualità e viene poco richiamato
anche dalla giurisprudenza, che si è dotata di formule interpretative proprie, poco inclini a
seguire l’una o l’altra teoria.
Già negli anni immediatamente successivi alla riforma degli anni ’70 è evidente che gran
parte del gettito tributario viene acquisita senza mediazione dell’atto dell’amministrazione,
il cui intervento è prevalentemente indirizzato al controllo e al recupero di quanto non
spontaneamente adempiuto dal contribuente, per cui non ha più senso discutere se
l’obbligazione nasca dall’atto o dalla legge, è invece importante capire:
- Cosa nasce dalla legge;
- Quale natura hanno le situazioni doverose e di potere che derivano dal verificarsi del
presupposto;
- Quali siano gli effetti dell’atto impositivo.
La ragione di ciò sta anche nella difficoltà di spiegare in un unico schema ricostruttivo,
tutte le fasi del prelievo, in ciascuno dei tributi presenti nell’ordinamento.
Il prelievo è articolato nei principali tributi in fasi e momenti separati, che sembra arbitrario
ricondurre ad unità, se non sotto il profilo della finale rispondenza di tutte le varie fasi al
concorso alla spesa pubblica corrispondente alla capacità contributiva:
• Da un lato il riferimento alle problematiche civilistiche dell’obbligazione in genere e
dell’obbligazione di diritto pubblico in particolare è irrinunciabile, dal momento che, nella
sua sostanza il fenomeno tributario si sostanzia in un trasferimento di somme di denaro
dal patrimonio del contribuente a quello dell’ente titolare del gettito.
• Dall’altro si ha la percezione che non è possibile unificare tutte le fasi sotto il manto
unificante dell’unica obbligazione tributaria, sorta per legge per effetto del verificarsi del
presupposto.
Si ritiene che i diversi obblighi che caratterizzano l’applicazione del tributo non possano
essere accomunati, se non in un senso del tutto indeterminato e giuridicamente di scarso
rilievo, all’interno di un unico schema:
a) Le situazioni doverose sono plurime e non riguardano soltanto il pagamento di
somme di denaro, ma realizzano anche molte esigenze di carattere strumentale.
b) L’amministrazione non opera più solo attraverso atti amministrativi tipici e autoritativi,
ma anche attraverso il dialogo con il contribuente, fornendo indirizzi interpretativi
attraverso:
• atti generali (→ circolari) o;
• atti individuali (→ risposte ad interpello), che possono anche modificare l’obbligo
legale previsto dalla legge: il contribuente, dando esecuzione alla risposta ricevuta ad
un interpello, applica nel modo corretto il tributo, e non può essere oggetto di
richieste di imposta o di applicazione di sanzioni, anche se la risposta ricevuta
risultasse errata e difforme dalla corretta applicazione della legge.
I compiti delle Agenzie sono però soprattutto quelli di attuazione dei tributi, dal momento
che con i loro atti concorrono alla riscossione e all’accertamento dei tributi, all’irrogazione
delle sanzioni, alla difesa in giudizio davanti alle commissioni tributarie.
• Nella fase attuativa le agenzie fiscali esercitano poteri amministrativi e i singoli
funzionari preposti ai controlli possono anche rivestire la qualifica di organi di polizia
giudiziaria, nella misura in cui rilevano fatti di reato.
• Nella fase istruttoria l’Agenzia fiscale è coadiuvata dalla Guardia di Finanza, corpo
militare di alta qualificazione che tra le proprie competenze ha quella di concorrere alla
rilevazione degli illeciti tributari.
• L’ attività di riscossione è spesso affidata ad un soggetto diverso dall’ente che cura le
funzioni di accertamento, sia a livello di tributi erariali, sia a livello di enti locali. È un
retaggio del vecchio sistema delle esattorie, trasformatosi nella seconda metà degli anni
’80 in un sistema di concessioni pubbliche affidate a soggetti privati. L’ idea, ormai
superata, è che un ente ad hoc, separato da quello impositore, con personale più
specializzato ed inquadrato secondo un regime privatistico, possa assolvere meglio alla
riscossione coattiva, attività sostanzialmente di recupero crediti, svolta attraverso
prerogative derogatorie dei normali poteri riservati ai creditori privati.
Tutta la fase in cui gli enti pubblici sono investiti di poteri di controllo, accertamento,
riscossione, irrogazione di sanzioni è normalmente caratterizzata dalla presenza di termini
decadenziali per l’azione amministrativa, prorogabili a livello normativo solo in caso di
situazioni particolari di temporanea impossibilità di normale funzionamento da parte degli
uffici.
▶ Giurisprudenza: ritiene che l’atto impositivo emesso in violazione del termine di
decadenza non è inesistente o nullo, ma semplicemente annullabile dal giudice
tributario investito della questione attraverso un ricorso tempestivamente proposto.
La fase di riscossione in senso stretto (=destinata a realizzare in concreto il passaggio
delle somme di denaro dal soggetto passivo a quello attivo, dopo che un provvedimento
impositivo ha stabilito l’ammontare delle somme dovute, è regolata da termini di
prescrizione (→solitamente non presenti nelle norme tributarie= desumibili dal codice
civile).
▶ Giurisprudenza (non condivisibile): quando un atto impositivo è confermato in tutto o in
parte a seguito di un processo tributario, l’eventuale termine di decadenza previsto
dalle norme tributarie deve intendersi sostituito dal termine di prescrizione decennale,
dell’esecuzione del giudicato (→ art. 2953).
➔ Questa conclusione si fonda su un assunto consolidato, ma criticabile, della
giurisprudenza secondo il quale la sentenza del giudice tributario si sostituisce
come fonte degli effetti conseguenti, all’atto impositivo da cui il giudizio è sorto.
L’ atto inoppugnabile invece non comporta l’applicazione del termine prescrizionale
decennale in sostituzione dei termini decadenziali o dei termini prescrizionali più brevi.
4. L’ intervento di terzi
Nell’attuazione dei tributi sono coinvolti soggetti terzi diversi dai soggetti attivo e passivo; i
presupposti per il coinvolgimento di terzi sono molto diversi tra loro e richiedono una
disciplina specifica:
a. Solidarietà paritaria: in alcune ipotesi il verificarsi del presupposto implica una
capacità contributiva imputabile a più soggetti, che sono chiamati in egual misura
ad adempiere gli obblighi tributari → ciascun soggetto può adempiere, liberando in
questo modo tutti gli altri.
b. Solidarietà dipendente: a volte viene coinvolto, in aggiunta al soggetto passivo vero
e proprio, un soggetto terzo in funzione di garanzia dell’obbligo tributario; questo
può verificarsi o:
perché lo prevede una norma specifica di carattere tributario;
in applicazione di regole di diritto comune;
per effetto di un atto negoziale del soggetto passivo, che comporti il
coinvolgimento di un terzo.
➔ In queste ipotesi il terzo è qualificato come responsabile d’imposta, il quale non è
titolare di capacità contributiva (a differenza di quanto accade per i condebitori solidali a
titolo paritario).
▶ Responsabilità del terzo subacquirente: un soggetto del tutto estraneo alla vicenda
tributaria può essere soggetto ad atti di aggressione patrimoniale del fisco, per il semplice
fatto di essere possessore di beni immobili sui quali la legge consente di esercitare il
privilegio speciale previsto da norme speciali (→ fenomeno tipico dell’imposta di registro).
c. Sostituto d’imposta: si tratta di un soggetto chiamato ad assolvere il tributo in luogo di
altri. Il fenomeno della sostituzione è previsto in generale ex art. 64 d.p.r. 600/1973
(ma è regolato in dettaglio da molte altre disposizioni) e si verifica quando un soggetto,
pur non manifestando capacità contributiva colpita dal tributo, viene fatto oggetto di
obblighi strumentali, dichiarativi e di pagamento, al posto del soggetto passivo vero e
proprio. Affinché l’identificazione del sostituto sia costituzionalmente legittima (→ art.
53) occorre che il prelievo sia giustificato da una particolare relazione, in genere di
carattere negoziale, tra sostituto e soggetto passivo sostituto e soprattutto che al primo
sia garantita con concrete possibilità di successo la rivalsa sul sostituto:
Laddove la legge prevede la rivalsa la sostituzione è esplicitata dalla legge;
Quando la rivalsa è affidata alla forza contrattuale del sostituto, tramite una
traslazione priva di rilievo giuridico, si deve intendere che il legislatore consideri
entrambi i soggetti come idonei a sopportare il prelievo.
NB. La sostituzione è ormai quasi sempre identificata con il fenomeno delle ritenute, tipico
delle imposte sul reddito: il sostituto in questi casi è il soggetto che eroga un provento di
natura reddituale per il percipiente. Il soggetto deve effettuare il versamento al fisco di una
quota proporzionale al compenso, stabilita dalla legge, dovendo rivalersi sul percipiente in
via preventiva mediante ritenuta.
In questo modo la legge assicura che il carico tributario gravi effettivamente sul titolare del
reddito ma nel contempo si garantisce un afflusso costante, già durante il periodo
d’imposta, di somme a titolo di tributo.
➔ Il sostituto assolve ad un obbligo proprio, non ad un obbligo altrui.
d. Da circa 20 anni sono comparsi sulla scena dell’attuazione dei tributi di maggiore
complessità (=imposte sui redditi, IVA, IRAP) dei soggetti che possono essere definiti
come intermedi tra soggetto passivo e soggetto attivo:
○ Rispetto al soggetto passivo sono un ausilio, talvolta obbligatorio, nell’effettuazione
degli adempimenti più gravosi;
○ Rispetto al soggetto attivo garantiscono un primo filtro nella verifica del
comportamento dei contribuenti, sia perché canalizzano alcuni adempimenti in forme
più agevolmente suscettibili di controllo e verifica, sia perché effettuano un primo
riscontro circa la rispondenza della dichiarazione ai documenti che ne devono stare
alla base → centri di assistenza contabile e professionisti contabili: per legge, gli
sono attribuiti compiti particolarmente utili quando il soggetto assistito non è dotato di
una propria organizzazione amministrativa (=persone fisiche).
L’ atipicità di queste figure sta nel fatto che esse:
da un lato sono investite di funzioni pubblicistiche, coadiuvando gli uffici, che
in questo modo vengono alleviati in alcuni controlli;
dall’altro sono soggette a sanzioni (tributarie) per omissioni o ritardi negli
adempimenti loro affidati per legge.
NB. Spesso è prevista una copertura assicurativa obbligatoria, in modo che il
contribuente possa essere risarcito in ipotesi di errore del professionista o del
centro di assistenza fiscale.
Di regola l’errore del professionista non giustifica l’inadempimento del contribuente,
ma nei casi più gravi, in cui la provvista di denaro consegnata dal contribuente al
professionista per effettuare versamenti di imposte, viene distratta da quest’ultimo
per altre finalità, il contribuente può andare indenne da sanzioni, se il fatto viene
denunciato all’autorità giudiziaria.
▶ Problema è quello di stabilire in che modo la disciplina specifica delle attività connesse
alla funzione deve o può essere integrata dalle norme pubblicistiche generali, che
regolano l’azione degli enti pubblici (es. l. 241/1990)?
L’integrazione non può essere esclusa, dal momento che la dialettica tra diritti e interessi
del cittadino e poteri dell’amministrazione pubblica si ripropone, nonostante le specificità,
anche nel diritto tributario; a volte però gli spazi che possono essere occupati dalle regole
generali del diritto amministrativo sono ridotti, perché la normativa tributaria tende ad
essere autosufficiente.
Un’altra obiezione che generalmente si oppone ad un’ampia osmosi tra diritto tributario e
diritto amministrativo è la natura vincolata degli atti impositivi tributari, contrapposta alla
natura discrezionale degli atti amministrativi.
Gli atti tributari (soprattutto quelli che hanno ad oggetto l’an e il quantum del tributo) sono
vincolati nel contenuto, tanto da poter essere assimilati a provvedimenti giurisdizionali, nel
senso che assumono a parametro di legittimità soltanto la legge ed è altresì vero che
l’assenza di discrezionalità non è un tratto distintivo assoluto: anche in materia di
provvedimenti amministrativi non sempre la discrezionalità è presente.
In ogni caso, accettando l’opzione di teoria generale per cui anche i provvedimenti
amministrativi vincolati sono pur sempre provvedimenti, espressione di un potere che ne
sta a fondamento, ecco che l’obiezione perde consistenza.
NB. Rapporto tra norme tributarie e legge sul procedimento amministrativo: l’ambito
tributario ha una legge di principio assimilabile per valenza alla legge sul procedimento
amministrativo, ma i contenuti delle due leggi non coincidono:
• Statuto dei diritti del contribuente → prevede garanzie distribuite tra le diverse fasi di
attuazione del tributi, disciplina l’indirizzo interpretativo e l’interpello;
• L. 241/1990 → è dedicata al procedimento in particolare.
In materia tributaria inoltre è dubbio che si possa parlare sempre e comunque di
procedimento, a proposito degli schemi attuativi dei tributi: spesso questi si svolgono in
sequenze variabili, nelle quali manca il nesso di derivazione di ogni atto dai precedenti.
Questo non significa che la nozione di procedimento non possa essere impiegata, ma
questo può accadere solo con riferimento alle fasi in cui i caratteri del nesso
procedimentale siano effettivamente individuabili.
Si può comunque certamente sostenere che non ci può essere assoluta impermeabilità
dell’ordinamento tributario ai principi derivanti dal diritto amministrativo; ad esempio,
nonostante la l. 241/1990 dichiari non applicabili in materia tributaria né le norme sulla
partecipazione al procedimento né quelle sull’accesso agli atti è da ritenere che in realtà
accesso e partecipazione debbano essere riconosciuti anche in materia tributaria, anche
se in forme compatibili con le esigenze dei procedimenti tributari, che sono diverse
rispetto a quelle del diritto amministrativo.
▶ Giurisprudenza: la Cassazione di recente ha sancito che la nullità dei provvedimenti
tributari non può essere fatta valere in modi e termini peculiari, rispetto agli altri vizi che
possono inficiare gli atti impositivi → un provvedimento impositivo nullo non si
distinguerebbe, quanto a modi e forme di tutela del destinatario, dall’atto impositivo
annullabile; per questo rimane applicabile all’atto nullo la disciplina dell’impugnazione dei
provvedimenti meramente illegittimi o infondati.
6. Il potere di autotutela
L’emanazione di provvedimenti autoritativi da parte di un ente pubblico è espressione in
senso ampio di un potere autotutela: l’amministrazione raggiunge, con un atto unilaterale,
una modificazione della situazione giuridica soggettiva del destinatario dell’atto, ottenendo
un risultato equivalente a quello che potrebbe derivare da un provvedimento
giurisdizionale.
Nel rispetto dell’art. 113 Cost. gli atti autoritativi provvedimentali non sono immuni dal
sindacato del giudice, che però interviene successivamente all’emanazione dell’atto ed è
chiamato in causa da un’azione giurisdizionale avente carattere impugnatorio, proprio
perché indirizzata contro il provvedimento.
➔ Il potere di autotutela riconosciuto all’amministrazione implica il potere di
modificare e correggere i propri atti senza intervento del giudice, evitando potenziali
conflitti con i destinatari degli atti.
Nella forma più estrema si esprime attraverso il ritiro di atti valutati come illegittimi o
privi dei necessari presupposti (le norme definiscono infondati, in materia tributaria,
gli atti che non colgono la realtà dei fatti imponibili).
NB. L’autotutela non è esclusa nemmeno dalla presenza di una sentenza passata in
giudicato che abbia rigettato il ricorso del destinatario dell’atto: l’amministrazione
finanziaria può esercitare il potere purché per motivi diversi da quelli esaminati dal giudice.
Quando l’autotutela viene esercitata ritirando un provvedimento favorevole al contribuente
tornano ad essere applicabili le regole del diritto amministrativo, in mancanza di
regolamentazione specifica: art. 21 nonies, l. 241/1990 per l’annullamento d’ufficio; art. 21
quinques, l. 241/1990 per la revoca.
7. Forme consensuali di imposizione
Da circa un ventennio sono stati recuperati meccanismi consensuali di determinazione
dell’imposta dovuta, che sembravano essere stati abbandonati dopo la riforma tributaria
del 1972-1973, che aveva reagito al previgente sistema nel quale era riservato ampio
spazio al concordato tributario, cioè ad una determinazione della ricchezza tassabile frutto
di accordi tra contribuente e fisco, spesso su basi esclusivamente negoziali (cioè senza
che l'amministrazione finanziaria effettuasse controlli).
Dall’entrata in vigore del sistema della dichiarazione dei redditi obbligatoria, comincia ad
essere preferito uno schema che al contribuente riserva adempimenti iniziali sui quali poi
l’amministrazione effettua controlli che sfociano, se del caso, in atti impositivi, di
accertamento, di riscossione, sanzionatori.
➔ Questo sistema scarica tutte le tensioni e i conflitti sul contenzioso processuale,
incoraggiando l’amministrazione a non rivedere mai in modo critico il proprio
operato: più o meno nello stesso momento nel quale viene disciplinato il potere di
autotutela dell’amministrazione finanziaria, vengono istituite forme di composizione
dei conflitti, nelle quali l’atto imperativo provvedimentale è sostituito o seguito da un
accordo, dal quale scaturisce un obbligo di pagamento a carico del contribuente,
che beneficia in genere della riduzione delle sanzioni e della preclusione ad ulteriori
accertamenti, in cambio della rinuncia ad impugnare l’accertamento concordato.
Le forme nelle quali l’accordo si forma sono varie, ma tipiche (=disciplinate dalla legge),
sono disciplinate le modalità e i tempi con cui si accede all’accordo, e sono regolati gli
effetti favorevoli e sfavorevoli a carico e a beneficio di ciascuna delle parti, con una
costante: maggiore è la riduzione delle sanzione, quanto più tempestivo è l’accordo
raggiunto e minore l’impegno dell’amministrazione nella difesa dell’atto in sede
processuale.
Tra le varie forme di accordo abbiamo:
Accertamento con adesione → esperibile sia prima, sia dopo l’emanazione dell’atto
impositivo;
Mediazione → per liti fino a 20.000 euro;
Conciliazione giudiziale;
Transazione fiscale;
Ravvedimento operoso → anche se è frutto dell’iniziativa unilaterale del
contribuente, implica spesso una tacita accettazione di pretese del fisco.
NB. Sul piano del diritto internazionale tributario sono sempre più importanti le forme
stragiudiziali di composizione dei conflitti, che possono coinvolgere anche le
amministrazioni fiscali estere (→ MAP= mutual agreement procedure):
- Ruling → accordi preventivi per le imprese con attività internazionale;
- APA (=advance pricing arrangement) → bilaterali, multilaterali o unilaterali, a
seconda del numero di amministrazioni coinvolte;
- Convenzioni arbitrali.
Ci sono almeno due dati, provenienti dall’ordinamento, non trascurabili che consentono di
superare l’impasse, dimostrando che l’indisponibilità delle prerogative pubbliche di
accertamento e riscossione del tributo non può essere inquadrata nel contesto della
questione dell’indisponibilità di alcune obbligazioni, soprattutto di diritto pubblico:
1) Natura dispositiva del processo tributario (rapporto giudice-prova): i poteri istruttori
ufficiosi possono essere disposti solo nel limite dei fatti dedotti dalle parti, senza
consentire la ricerca inquisitoria della verità e nel contempo la mancata contestazione
specifica dei fatti affermati dal ricorrente può determinare, a carico dell’amministrazione
finanziaria, la preclusione che equipara i fatti non contestati a quelli provati. In appello
le questioni non riproposte si considerano rinunciate e su di esse scatta una
preclusione insuperabile.
➔ In diverse pronunce giurisprudenziali permane la distinzione tra le parti del
processo, in funzione dell’indisponibilità del diritto fatto valere dall’amministrazione
finanziaria, l’affermazione è sempre meno argomentata e basata su argomenti
tralatici, che ignorano, ad esempio, che il diritto indisponibile in senso stretto non è
soggetto a prescrizione, mentre il credito tributario lo è.
All’ordinamento va data una coerenza: se il processo è costruito su un’asse
portante (=carattere dispositivo) non si può contemporaneamente affermare che la
situazione giuridica dell’amministrazione sia indisponibile.
2) Da un ventennio la legge ammette che l’azione amministrativa di attuazione del
tributo sia di accertamento, sia di riscossione, possa essere condizionata da
valutazioni di economicità.
art. 2 quater, d.l. 564/1994 (=norma sull’autotutela): ha implicitamente sancito la
concorrenza dei valori di cui all’art. 97 Cost. con quelli di cui all’art. 53 Cost.
L’amministrazione quindi non può discrezionalmente determinare la base
imponibile in base a criteri di convenienza o di opportunità, ma questo non significa
che l’azione amministrativa debba diventare antieconomica e spingersi fino al
punto di inseguire a tutti i costi un’ipotesi di tassazione che, in fatto o in diritto,
possa risultare poi insostenibile davanti al giudice o inefficace sul piano
dell’effettiva riscossione.
Negli ultimi anni non sono emerse situazioni patologiche, legate agli istituti deflativi in
misura superiore a quanto si verificava in loro assenza: il complesso dei controlli interni ed
esterni delle amministrazioni è dunque in grado di assicurare un sufficiente argine a
eccessi di discrezionalità o a veri e propri abusi.
Se l’atto che sancisce l’accordo è motivato il percorso logico e ricostruttivo compiuto
consensualmente resta tracciabile e soggetto a verifiche di legittimità di ogni tipo.
Se però da un lato va esclusa l’ammissibilità di sconti e considerazioni di mera
opportunità è bene rimarcare che deve essere garantita al singolo funzionario la
tranquillità di operare per la soluzione più giusta, senza timori di successive smentite
fondate solo su atteggiamenti più restrittivi. È un importante punto di partenza su cui
costruire un ripensamento in termini più generali della possibilità di accordi alternativi al
processo (ADR, alternative dispute resolution o meglio EDR → E= equivalent), ampliando
la prospettiva in funzione della ormai notevole gamma di atti impositivi impugnabili, non
tutti con una pretesa tributaria quantificabile.
Questo dovrebbe essere l’obiettivo da perseguire a medio termine, investendo finalmente
su un’amministrazione che sappia adeguare la sua azione quotidiana, negli uffici
periferici, ai buoni propositi e alle dichiarazioni d’intento degli atti di indirizzo emanati a
livello centrale. Strumentale a questo scopo è che i sistemi di controllo interno sappiano
premiare veramente i funzionari per le scelte giuste che sappiano compiere e per i danni
che evitano all’amministrazione quando evitano di perseguire pretese infondate.
Sembrano maturi i tempi per una compliance affidata al dialogo preventivo: la
determinazione concordata dell’imponibile dovrà essere presto affidata, soprattutto nei
frequenti casi di sindacabilità nel merito delle scelte imprenditoriali ad un dialogo
anticipato (→ un mix tra adesione, interpello ordinario e interpello antielusivo).
Capitolo 2 - L’ accertamento
1. Funzione dell’accertamento in generale
Nessun tributo può essere attuato senza un’attività valutativa di:
Sussistenza del presupposto;
Entità della base imponibile;
Eventuali agevolazioni spettanti;
Identificazione dei soggetti passivi.
Dovrebbe essere distinta dalla fase di accertamento la fase di liquidazione dell’imposta,
che consiste, in senso stretto, nella sola applicazione dell’aliquota applicabile alla base
imponibile accertata; in molti dei tributi più importanti però, pur essendo individuabile nella
sua autonomia concettuale, l’attività di liquidazione viene assorbita direttamente o: ○
Negli atti di accertamento; ○ Negli atti di riscossione.
Le regole sull’accertamento nel contesto della disciplina del tributo hanno grande
rilevanza: è necessaria coerenza delle stesse con le norme che disciplinano sul piano
sostanziale gli elementi essenziali del prelievo → sotto questo aspetto la disciplina
dell’accertamento non può sottrarsi all’operatività dei principi costituzionali fondamentali
della materia: riserva di legge e capacità contributiva.
L’attività di accertamento può andare da semplice attività ricognitiva del soggetto passivo,
destinata a rimanere interna e priva di rilievo giuridico, ad attività molto complesse, che si
intrecciano tra loro e possono coinvolgere anche il momento della tutela giurisdizionale.
NB. È una nozione di accertamento diversa:
a) dall’accertamento dell’entrata (→ propria della contabilità pubblica);
b) da quella comunemente riferita agli atti giuridici di accertamento: già da
tempo si esclude che dagli atti tributari di accertamento si produca un effetto
proprio di accertamento e si rinviene la ragione dell’espressione
nell’attitudine della stessa a valorizzare la natura dichiarativa degli atti che la
compongono, essenzialmente ricognitiva e valutativa di fatti storicamente già
verificatisi.
Un’attività di accertamento è dunque indispensabile negli schemi applicativi del tributo, per
verificare la sussistenza di obblighi tributari; tuttavia vista l’evoluzione che ha spinto i
moduli di attuazione dei tributi verso forme di adempimento spontaneo del contribuente, è
necessario stabilire se e in quali casi quell’attività abbia rilevanza giuridica.
Emergono due accezioni dell’accertamento:
i. Riferita al complesso di operazioni di valutazione di sussistenza del presupposto,
entità della base imponibile, di eventuali agevolazioni spettanti e di identificazione dei
soggetti passivi;
ii. Più ristretta:
○ In senso oggettivo: coincide con le attività di controllo dell’adempimento spontaneo
del contribuente;
○ In senso soggettivo: riferibile esclusivamente alle amministrazioni pubbliche titolari
della potestà di imposizione.
Atti e attività di accertamento sono affidati dalle norme sia al contribuente sia alle
amministrazioni finanziarie preposte al controllo: di regola gli atti del soggetto passivo e di
quello attivo coesistono, ma può accadere che:
- Atti dell’amministrazione siano emanati senza preventivi atti del contribuente;
- Atti di accertamento del contribuente non vengano seguiti da atti dell’amministrazione e
restino gli unici atti di accertamento della cui base il tributo si attua.
NB. Schema prevalente prevede:
• Obblighi informativi generali e specifici a carico del contribuente, che di regola è
chiamato ad avviare l’attività di accertamento mediante adempimenti, tra i quali il più
importante è la dichiarazione (→ forme e contenuti ≠ da tributo a tributo).
• L’ intervento dell’amministrazione è successivo agli atti del contribuente, tranne nei
casi di risposte fornite ad istanze di interpello, che possono essere considerate
anticipazioni della fase di accertamento, e in genere esprime i risultati di un’attività di
controllo, talora basata su penetranti poteri di indagine.
➔ Quando il controllo non rileva alcuna necessità di intervento l’amministrazione
non emana un atto formale, per cui l’atto di accertamento del contribuente resta
l’unico attraverso il quale il tributo trova attuazione.
➔ Quando invece l’atto di accertamento dell’amministrazione è necessario, esso ha
di regola carattere correttivo e rettificativo rispetto all’atto del contribuente: non lo
assorbe, e questo spiega perché è preferibile ammettere che un unico tributo
trovi la propria determinazione attraverso il concorso di più atti, ciascuno dei quali
determina una parte del tributo dovuto. Se l’amministrazione riscontra una totale
omissione dell’obbligo del contribuente l’atto impositivo non sarà rettificativo, ma
sostitutivo.
NB. Mentre si sviluppa l’accertamento, inizia anche la riscossione e, anche se la
fisionomia del tributo non è ancora del tutto chiara nei suoi contorni, si procede ad una
provvisoria acquisizione del gettito.
Il modo e i tempi con cui ciascun soggetto obbligato adempie all’obbligo, previsto dalla
legge sono l’oggetto iniziale dell’attività di controllo, che assume:
- sia un aspetto formale;
- sia un profilo di verifica dei contenuti di quegli adempimenti.
Nei tributi più complessi, in particolare periodici e imposte sui redditi, sono previsti obblighi
fondamentali a carico di soggetti terzi → come nel caso del sostituto d’imposta:
nonostante la definizione di sostituto d’imposta alluda più alla riscossione che non
all’accertamento (=lo individua come il soggetto tenuto al pagamento in luogo di altri), la
collocazione delle norme sulle ritenute nel principale testo normativo sull’accertamento, il
d.p.r. 600/1973, dimostra che la funzione essenziale dell’istituto è quella di lasciare una
traccia dell’erogazione di un provento che ha valenza reddituale.
Ponendo a carico dell’erogatore di un provento di natura reddituale l’obbligo di versare
una somma proporzionale al provento corrisposto, il fisco crea il presupposto per
conoscere l’erogazione di quel provento: la scelta legislativa, seguita in tutti gli
ordinamenti tributari, presuppone che il sostituto, erogatore del provento reddituale, non
abbia motivo di rischiare sanzioni, omettendo di effettuare il versamento di una somma
che, normalmente, il sostituto stesso ha potuto trattenere preventivamente dal compenso
erogato.
➔ NB. Il sostituto ha un obbligo proprio, che prescinde dal fatto che abbia o meno
effettuato la ritenuta e può essere soggetto a due autonome sanzioni: una prevista
per il mancato versamento delle somme; l’altra per l’omessa effettuazione della
ritenuta.
Sostituzione propria: Sostituzione impropria:
Riguarda le ritenute a titolo d’imposta, che Prevede versamento e ritenuta, da parte
sono un vero e proprio metodo di del sostituto, solo a titolo di acconto
tassazione sostitutiva, perché con dell’imposta sul reddito dovuta dal
l’effettuazione della ritenuta ogni rilievo percipiente, che dovrà includere i redditi
tributario del provento si esaurisce e il soggetti a ritenuta nel reddito complessivo,
percipiente non ha più alcun obbligo e potrà avere un differenziale positivo o
dichiarativo, né tantomeno di pagamento. negativo di imposta da pagare rispetto a
L’ unico obbligato verso il fisco resta il quella pagata mediante ritenuta. Attraverso
sostituto, che non deve nemmeno certificare la certificazione delle ritenute operate, che i
al percipiente i compensi erogati e le sostituti sono tenuti a rendere in tempi
ritenute d’imposta effettuate: solo nel caso prestabiliti ai sostituiti, questi ultimi possono
in cui il sostituto non abbia né versato né vantare verso il fisco un vero e proprio
effettuato la ritenuta ex art. 35 d.p.r. credito, pari all’ammontare delle ritenute
602/1973 è previsto il coinvolgimento del subite.
sostituito, che sarà chiamato, quale Il sostituto deve anche presentare una
condebitore solidale, non solo per l’imposta, propria dichiarazione dei redditi erogati e
ma anche per sanzioni e interessi. delle ritenute effettuate, che rende possibile
l’incrocio con la dichiarazione del sostituito,
dissuadendolo
dall’omettere la dichiarazione dei redditi
assoggettati a ritenuta.
3. In particolare, la dichiarazione
Tra gli atti di accertamento del contribuente spicca, per importanza, la dichiarazione
(talora la definizione è di denunzia), che in genere è presente nello schema di attuazione
di tutti i tributi: si tratta di un’informazione, più o meno analitica, resa dal contribuente
all’amministrazione circa:
il verificarsi di un presupposto;
le dimensioni della base imponibile;
la sussistenza di condizioni per elementi sottrattivi quali deduzioni e detrazioni;
identità del soggetto passivo.
Quindi dire che si tratta di una dichiarazione di scienza non esaurisce l’analisi della natura
giuridica dell’atto, ma costituisce una premessa di fondo, volta ad evitare equivoci con le
qualificazioni degli atti giuridici proprie del diritto civile o del diritto amministrativo.
La dichiarazione inoltre è condizionata nella sua redazione dalla forma vincolata, che
viene imposta di regola dalla previsione normativa dell’obbligo di utilizzo di modelli
predisposti dall’amministrazione, che spesso recepiscono indirizzi interpretati traducendoli
in un determinato ordine di dati da esporre, a cui il contribuente non si può sottrarre,
anche perché la mancata utilizzazione del modello conforme a quello approvato fa sì che
la dichiarazione si consideri nulla e pertanto omessa.
La materia delle dichiarazioni fiscali nelle imposte sui redditi e nell’IVA è delegificata; la
disciplina più importante è contenuta nel d.p.r. 322/1998*, che coesiste con alcune residue
disposizioni legislative.
➔ Si distinguono:
○ Modello semplificato, 730 → per le persone fisiche non hanno redditi determinati
in base a contabilità;
○ Modello UNICO → per le dichiarazioni più complesse in grado di accorpare
anche la dichiarazione IVA; anche se, dopo un periodo di attrazione dell’IVA nelle
modalità applicative delle imposte sui redditi, si assiste ad un recupero di
autonomia per questa imposta. Attualmente se il periodo d’imposta ai fini delle
imposte sui redditi coincide con quello applicabile ai fini IVA, è possibile
presentare la dichiarazione IVA sia in via autonoma, sia in forma unificata.
○ Negli ultimi anni si va diffondendo l’obiettivo di consentire che le dichiarazioni più
semplici siano precompilate dall’amministrazione, che mette a disposizione del
contribuente un modello precompilato, in cui compaiono tutti i dati rilevanti che
l’amministrazione possieda o abbia potuto acquisire dai terzi (sostituti d’imposta,
fornitori del contribuente per beni e servizi il cui costo sia riconosciuto come onere
deducibile o detraibile): il contribuente verifica che la dichiarazione sia esatta e
completa. In caso negativo la integra o la corregge e la presenta convalidando il
modello precompilato opportunamente adattato. NB.
Modalità di presentazione complessa: l’amministrazione riceve le dichiarazioni
solo in via telematica, o direttamente dal contribuente o dal professionista abilitato
(=intermediario) o, in alcuni casi, tramite il Centro di assistenza fiscale → in
questo caso il contribuente consegna il necessario all’intermediario, che trasmette
la dichiarazione e fornisce la ricevuta di avvenuta presentazione al contribuente. I
termini di presentazione stabiliti dal regolamento* sono perentori, ma si considera
valida, salvo le sanzioni, la dichiarazione presentata entro 90 giorni dalla
scadenza, mentre oltre i 90 giorni la dichiarazione si considera omessa, ma se
presentata funge da titolo per la riscossione. NB. Omissione della dichiarazione:
ha conseguenze gravi ed è quindi oggetto di sanzioni amministrative che, dopo
una certa soglia di imposta non dichiarata, si abbinano a sanzioni penali.
La natura di dichiarazione di scienza riconosciuta a tale atto, da un punto di vista teorico,
ha una conseguenza fondamentale: la modificabilità o integrabilità della dichiarazione ad
opera del contribuente.
Tradizionalmente si distinguevano i casi di:
- Dichiarazione errata a favore del contribuente (=elementi imponibili non dichiarati);
- Dichiarazione errata a danno del contribuente (=dichiarazione di elementi non
imponibili, o omissione di rappresentazione dei costi, il contribuente crea in tal caso le
condizioni per far emergere un proprio debito verso l’erario, che però è dovuto ad un
errore, e non ad una capacità contributiva).
Negli ultimi due anni ci sono state però importanti modifiche a questa disciplina, rilevanti
sotto il profilo teorico e nelle conseguenze pratiche:
• Dichiarazioni infedeli o incomplete, a danno del fisco → è sempre stata prevista la
rettificabilità senza senza limiti di tempo, essendo la presentazione di una dichiarazione
integrativa in aumento una sorta di autodenuncia, una circostanza sempre favorevole al
fisco. Coordinando le norme con la regolamentazione previgente del ravvedimento
operoso però, il contribuente poteva trarre effettivo vantaggio dalla presentazione di
una dichiarazione modificativa solo in termini brevi e a condizione che a suo carico non
fossero iniziate attività di controllo. Il ravvedimento in quest’impostazione doveva
essere non solo operoso, ma anche spontaneo, assumendo valore etico.
Dal 2015 per i principali tributi erariali la presentazione della dichiarazione integrativa è
consentita senza limiti di tempo, anche se il beneficio in termini di riduzione delle
sanzioni, diminuisce man mano che il ravvedimento è meno tempestivo. Soprattutto la
conoscenza dell’esistenza di un controllo a proprio carico non è più preclusiva rispetto
al beneficio del ravvedimento: l’inutilità del ravvedimento deriva solo dalla notificazione
di atti impositivi, prima dei quali il contribuente può ravvedersi beneficiando della
riduzione delle sanzioni a 1/5, anche se consapevole che il fisco può procedere e sta
procedendo nei suoi confronti.
➔ La logica della relazione dichiarazione-controlli successivi è stata profondamente
cambiata: il controllo non è solo più la sede per sanzionare il contribuente
inadempiente in tutto o in parte ai propri doveri, ma costituisce una fase
dell’accertamento che ancora permette al contribuente di dialogare con
l’amministrazione, evitando le conseguenze peggiori o i tempi lunghi del
contenzioso.
È addirittura previsto che, in via informatica, l’amministrazione dia notizia al
contribuente degli elementi di controllo in suo possesso che potrebbero condurre
ad accertamenti, al fine di indurlo a ravvedersi, se la possibilità di difesa appare
difficile.
Il contribuente dunque non assolve più i suoi obblighi dichiarativi solo nel momento
in cui presenta la dichiarazione, ma è ammesso a continue integrazioni, anche in
funzione delle possibilità di subire accertamenti che gli vengono rese note da atti
informativi dell’amministrazione, che quando ha elementi di controllo non ha più
solo la strada obbligata del binomio atto autoritativo-sanzione, ma può indirizzare il
contribuente verso un pragmatico incremento della propria dichiarazione, i cui
benefici possono espandersi anche all’eventuale sfera delle sanzioni penali.
• Dichiarazione integrativa o modificativa a favore del contribuente → è stata
profondamente modificata (d.l. 193/2016); la riforma fa seguito ad un intervento
importante del 2016 delle SU della Cassazione, che aveva:
- Da un lato confermato la rigidità del sistema, ammettendo il contribuente ad
utilizzare subito il credito derivante dall’integrazione a favore solo quando la
dichiarazione integrativa viene presentata entro i termini di scadenza della
presentazione della dichiarazione successiva;
- Dall’altro lato aperto alla possibilità di far valere gli errori dichiarativi in forme
alternative, rappresentate dall’istanza di rimborso da indebito o dall’impugnazione
di atti impositivi, anche se aventi oggetto diverso.
➔ Nella nuova disciplina la dichiarazione è sempre rettificabile a proprio favore dal
contribuente, anche se la possibilità di utilizzo immediato del credito è subordinata
ad alcune condizioni.
Le forme di integrazione della dichiarazione da parte del contribuente sono quindi
parificate (salvi gli effetti specifici): qualunque sia l’errore materiale commesso dal
contribuente, l’integrazione è tendenzialmente sempre possibile, anche se il ritardo
con cui viene effettuata può limitare i benefici.
NB. Contropartita: ogni dichiarazione integrativa posticipa i termini di decadenza
per notificare atti di accertamento, che, limitatamente ai soli elementi oggetto di
integrazione, decorrono non dalla dichiarazione originaria, ma dalla presentazione
della dichiarazione correttiva.
4. I controlli
L’attività di controllo resta l’espressione tipica del ruolo dell’amministrazione finanziaria:
anche se i momenti e le modalità di intervento dell’autorità pubblica sono oggi molto più
articolati, per favorire la compliance del contribuente, il controllo degli adempimenti del
contribuente rimane la principale modalità di partecipazione alla fase di accertamento.
I controlli si articolano in modo diverso a seconda del tributo a cui si riferiscono, anche se
molto spesso ci sono delle interferenze.
In molti tributi minori i controlli hanno risentito dell’evoluzione tecnologica e avvengono
spesso attraverso il mero riscontro di banche dati.
In genere i controlli sono selettivi; la legge infatti esplicita che l’amministrazione finanziaria
non è obbligata a verificare ogni presupposto imponibile realizzato da ogni soggetto
passivo, ma che può programmare il modo di agire più efficiente, in base a criteri di
economicità ed efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa; tracce di questi obiettivi
si desumono:
○ Dalla convenzione periodica che lega le Agenzie fiscali al Ministero dell’Economia e
delle finanze;
○ Da norme di autoorganizzazione interna con cui le Agenzie fissano ogni anno le
principali attività richieste ai singoli uffici, i quali tuttavia non sono mai assolutamente
vincolati, se non in termini di consuntivo dell’efficienza dell’attività svolta → possono
sempre disporre controlli diversi o ulteriori da quelli programmati a livello centrale,
assumendosi sul piano della responsabilità il rischio di dover giustificare il mancato
conseguimento degli obiettivi.
Emerge dunque chiaramente dalla disciplina dei controlli il carattere della discrezionalità
→ il contenuto degli atti impositivi è di regola privo di discrezionalità, che invece
caratterizza la scelta dei contribuenti da sottoporre a controllo e delle forme con cui
eseguire i controlli.
➔ Mentre però le scelte discrezionali operate dagli organi centrali delle Agenzie
fiscali, così come l’individuazione, da parte del singolo ufficio, del contribuente da
sottoporre a controllo, difficilmente possono essere sindacate dal giudice tributario,
non è invece da escludere una verifica di legittimità da parte del giudice tributario in
occasione dell’impugnazione di atti impositivi su:
• Modalità di esercizio dei controlli;
• Scelta tra i diversi poteri concessi dall’ordinamento.
Premesso che nei singoli tributi, le attività di controllo possono essere effettuate anche
dalla Guardia di Finanza, o da altre istituzioni che talvolta sono competenti anche ad
emettere l’atto impositivo, per analizzare in concreto quali siano i poteri di cui
l’Amministrazione finanziaria è dotata per esercitare i controlli, si può prendere a base la
normativa dei poteri istruttori, previste per l’IVA (→ d.p.r. 633/1972) e per le imposte sui
redditi (→ d.p.r. 600/1973):
i. Poteri di richiesta dati, inoltro di questionari, convocazione dei contribuenti negli uffici
per fornire dichiarazioni e/o esibire documenti: le attività devono essere verbalizzate e
deve essere concesso un congruo termine per adempiere. È punito con sanzioni
penali il contribuente che renda dichiarazioni false o produca documenti non veritieri,
se l’accertamento riguarda ipotesi di reati tributari.
ii. Poteri istruttori che permettono l’accesso, l’ispezione e la verifica presso l’impresa, lo
studio professionale, la sede di un ente e, dietro autorizzazione specifica e motivata
del Procuratore della Repubblica, anche nelle abitazioni dei contribuenti, ma solo in
presenza di gravi indizi di evasione → questa modalità di accesso diretto nei luoghi
dove si svolgono le attività rilevanti o dove normalmente si conservano documenti
significativi per la sua invasività e imprevedibilità richiede una minuziosa
regolamentazione che si rinviene in parte nelle norme speciali, in parte nello Statuto
dei diritti del contribuente.
• Qualora durante l’accesso si renda necessario procedere ad aperture di casseforti,
mobili, borse o qualora venga eccepito il segreto professionale, si rende necessaria
l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica.
• La verifica pressa un’azienda determina disfunzioni e intralci nell’attività di
un’azienda o di uno studio professionale, per cui è prevista una durata massima di 30
giorni per le verifiche, soggetta a proroga e si cerca di evitare la permanenza
continuativa nei locali, consentendo ai verificatori di condurre nei propri uffici l’esame
dei documenti rinvenuti.
È frequente che l’attività di controllo, sul piano fiscale, venga generata da una precedente
attività d’indagine in sede penale, avente o meno ad oggetto reati tributari; in questo caso
l’utilizzo in sede tributaria delle indagini penali, ancora coperte da segreto fino alla loro
conclusione, deve essere autorizzato dal Procuratore della Repubblica.
Ci sono però anche attività di controllo che non coinvolgono direttamente il contribuente,
perché vengono esperite presso terzi (→ altri contribuenti o altri soggetti che possono
fornire informazioni su fatti di rilevanza fiscale). Si pensi al caso in cui, nella verifica
presso una società alfa, venga recepita documentazione che riguarda la società gamma.
Ovvero si pensi all'Agenzia delle Entrate o alla Guardia di Finanza che si procurino
informazioni presso amministrazioni pubbliche per verificare, ad esempio, di quali appalti
sia stata aggiudicataria una determinata società, o quali cause abbia patrocinato un
avvocato, o quali progetti edilizi abbia presentato in un determinato comune un ingegnere.
Grazie a direttive europee e a convenzioni internazionali, le informazioni possono
provenire anche dall’estero (→ scambio di informazioni).
In molti casi queste informazioni da terzi non richiedono neanche un’attività di
acquisizione perché sono disponibili all’anagrafe tributaria, grazie agli obblighi informativi
previsti in via generale.
➔ Indagini finanziarie: sono la forma più penetrante e discussa di acquisizione dei dati
presso i terzi, con cui le amministrazioni acquisiscono cognizione dei movimenti
finanziari effettuati da tutti i soggetti avvalendosi di aziende di credito o intermediari
finanziari.
Dal segreto bancario si è quindi passati al sistema attuale in cui, grazie ad una
sezione dell’Anagrafe tributaria (=Archivio dei rapporti finanziari) vengono portati a
conoscenza dell’Agenzia delle entrate:
• Rapporti finanziari di cui sono intestatari i singoli soggetti;
• Movimentazioni relative che vengono trasmesse automaticamente all’Archivio.
È evidente che la conoscenza delle movimentazioni finanziarie sia un supporto molto
incisivo per i controlli e l’accertamento, anche se l’andamento finanziario non sempre è
espressione di fatti imponibili automaticamente presumibili.
Problemi: spesso la legislazione si preoccupa di attenuare l’impegno ricostruttivo richiesto
alle amministrazioni finanziarie, stabilendo delle presunzioni, ad esempio:
a) Si considerano imponibili i movimenti finanziari in entrata su un conto
corrente, se il contribuente non dimostra di averli considerati nelle proprie
dichiarazioni o nella propria contabilità.
b) Si considerano imponibili, solo per gli imprenditori (→ sent. 228/2014), i
prelevamenti che dovrebbero rappresentare spese, e non introiti del
contribuente → la legge prevede come sanzione impropria la presunzione a
carico dell’imprenditore che non indichi il beneficiario del prelevamento o
l’inclusione del medesimo nelle scritture contabili.
NB. Non è prevista una definizione normativa dell’avviso di accertamento valida per tutti i
tributi, ma coesistono tante discipline specifiche nelle singole leggi d’imposta.
Rispetto all’atto di accertamento si possono distinguere:
• Presupposti di legittimità esterni all’atto:
Pendenza del termine decadenziale;
Rispetto del termine dilatorio ex art. 12 co. 7, l. 212/2000;
Conformità a risposta ad interpello;
Previa instaurazione del contraddittorio.
• Requisiti formali:
Competenza dell’ufficio;
Sottoscrizione del direttore dell’ufficio o del funzionario delegato.
• Requisiti di legittimità derivanti dall’assenza di vizi invalidanti nelle attività istruttorie;
• Contenuti di merito dell’atto.
a. Nel periodo di decadenza possono essere emanati più atti di accertamento, aventi ad
oggetto lo stesso periodo d’imposta. In realtà la regola dovrebbe essere opposta, come si
evince dalla norma che prevede che l’atto di accertamento possa essere integrato solo
sulla base della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, dei quali l'avviso deve dare
contezza in motivazione, spiegando anche come tale conoscenza sia sopravvenuta. Nei
fatti e nelle norme però questa rigidità nel prevedere un atto di accertamento
sostanzialmente unico è stata superata, con la previsione che l’ufficio possa emanare atti
di accertamento parziale, per i quali la regola preclusiva non vale. Essi possono essere
seguiti, senza particolari limiti, dall’emanazione di altri atti di accertamento, che non
assorbono né vanificano i precedenti. Se i presupposti per poter definire un atto come
parziale fossero chiari, il confine sarebbe netto, ma la trasformazione che l’accertamento
parziale ha avuto rende molto difficile stabilire quando un atto di accertamento possa
essere considerato effettivamente parziale. La caratteristica del parziale è di poter tradurre
immediatamente in atto impositivo gli elementi istruttori acquisiti nel corso delle attività di
controllo, per il fatto che quegli elementi dovrebbero consentire un’immediata
trasposizione in termini di maggior reddito o maggior IVA dovuta.
➔ Questo discrimine era affidabile quando nella disciplina gli elementi raccolti
erano estremamente circoscritti e puntuali, mentre oggi è molto più arduo
identificarlo dal momento che la disciplina attuale dell’accertamento parziale
considera elementi istruttori suscettibili di immediata trasposizione anche quelli
acquisiti mediante verifiche generali e controlli ad ampio raggio non solo su terzi,
ma anche sul contribuente stesso.
Ciò comporta che di fatto venga considerato parziale ogni accertamento che
l’ufficio emanante decida di considerare tale, esternandone la qualificazione, e che
sia pressoché impossibile il sindacato giurisdizionale sulla correttezza della
qualificazione.
Entro il termine decadenziale (=31 dicembre del quinto anno successivo alla
presentazione della dichiarazione) l’ufficio può emanare almeno 3 distinti atti di
accertamento: un accertamento parziale, un accertamento ordinario o non
qualificato e un accertamento integrativo.
Gli accertamenti parziali, a loro volta, possono essere anche più di uno, ma nella
realtà è difficile che siano notificati più di due accertamenti sullo stesso periodo
d'imposta. Se si considera poi che la stessa dichiarazione può essere soggetta
anche a due tipi di controllo formale, effettuati con atti di riscossione e non di
accertamento, sono ben 5 i tipi di atto con il quale la dichiarazione può essere
controllata e rettificata.
NB. Rapporto con la dichiarazione:
• Accertamenti in rettifica: gli accertamenti che la rettificano, anche in parti
considerevoli, sono definiti accertamenti in rettifica. Non assorbono la
dichiarazione, ma ne integrano gli effetti: l’imposta dovuta per uno stesso
periodo d’imposta risulterà in parte dalla dichiarazione, in parte dall’atto di
accertamento; se gli accertamenti saranno più di uno ci saranno tante maggiori
imposte. Questo è il motivo per cui l’obbligazione tributaria concepita come un
dato giuridico unitario si rivela nel procedimento attuativo come un
un’astrazione, priva di riscontro nella realtà; anche se, ovviamente, nel liquidare
le somme da pagare, e nel calcolare ad esempio l’aliquota progressiva
applicabile, occorre ricostruire tutti gli imponibili accertati.
• Accertamenti d’ufficio (→ art. 41, d.p.r. 600/1973): sono emanati quando la
dichiarazione è omessa o nulla.
• Redditi determinati in base a scrittura contabili: essa può concorrere con la prima, ad
esempio nel caso di una persona fisica che, per il reddito complessivo e per le
categorie di reddito non determinate in base a contabilità, applica la prima alternativa,
e invece è soggetto alla seconda limitatamente a quelle parti della dichiarazione nelle
quali sono dichiarati i redditi d'impresa o di lavoro autonomo. Quanto a soggetti passivi
questa seconda alternativa tra metodi coinvolge sia professionisti e imprenditori
individuali, sia società ed enti commerciali, sia enti commerciali, per la parte in cui
svolgano attività commerciale. I due metodi alternativi sono:
Metodo analitico, art. 39 co. 1 d.p.r. Metodo induttivo, art. 39 co. 2 d.p.r.
600/1973: È riservato a violazioni di 600/1973: È riservato ai contribuenti nei
carattere specifico, che non impediscono di cui confronti siano stati accertati illeciti di
ricostruire reddito e iva dovuta in modo particolare gravità, come l’omissione della
parcellizzato, correggendo le sole parti dichiarazione o la mancata inclusione
della dichiarazione risultate non corrette. della categoria reddito d’impresa o di
In particolare è disegnata una progressione lavoro autonomo nella dichiarazione, o
di violazioni giustificative dell’accertamento quando emerga un insieme di
analitico, che rispecchiano i passaggi della comportamenti illeciti tali nel loro
determinazione del reddito d’impresa; così complesso da rendere inattendibili le
si ipotizza che: scritture contabili e, indirettamente, la
- Non siano stati usati i dati del bilancio e dichiarazione.
del conto economico; Conseguenza dell’utilizzo del metodo
- Non siano state applicate correttamente induttivo è che il reddito d’impresa o di
le norme sul reddito d’impresa; lavoro autonomo da arte o professione
viene determinato nel suo insieme, senza
- Che risultino a mezzo di prove certe e
doverlo ricostruire voce per voce, come col
dirette discrasie tra quanto rilevato dai
metodo analitico, e che l’ufficio può non
documenti e dagli atti a disposizione e la
andare alla ricerca di prove certe e dirette,
dichiarazione.
potendo limitarsi a presunzioni anche prive
A queste ipotesi si aggiungono quelle più
dei requisiti di gravità, precisione e
frequenti in cui la dichiarazione viene
concordanza (meri indizi) e potendo fondare
rettificata previa ispezione della contabilità
l’accertamento su dati comunque acquisiti.
e in questo caso compare anche la
Queste formule devono essere interpretate
rilevanza di presunzioni semplici, che
secondo buon senso: non necessariamente
consentono di rilevare l’esistenza di attività
ipotesi previste sono testimonianza di una
non dichiarate o l’inesistenza di passività
completa dissociazione del contribuente
dichiarate.
dalle regole fiscali.
NB. Anche in questo caso le presunzioni
Senso della norma: non si può pretendere
ammesse sono solo gravi, precise e
dall’ufficio un’attività istruttoria profonda e
concordanti.
accurata, rispetto ad un contribuente che
non pone l’ufficio in condizione di fondare i
suoi controlli su una contabilità
regolarmente tenuta o su una dichiarazione
presentata, ma questo non vuol dire che
reddito e iva possano essere determinati a
discrezione dell’ufficio, usando parametri
generici.
Metodo analitico-induttivo, art. 39, co. 1 lett. d):
Funge da cerniera, dando vita ad un accertamento analitico su base presuntiva, che
viene denominato, quando la presunzione raggiunge una determinata ampiezza,
analitico-induttivo.
Pur ricostruendo analiticamente singoli componenti positivi o negativi di reddito, lo fa
utilizzando delle macrograndezze e degli indici extra-contabili significativi delle effettive
condizioni di esercizio dell’attività. Se l’Agenzia delle entrate vuole stimare l’ammontare
complessivo dei ricavi di un’impresa, magari a contabilità semplificata, ha difficoltà, a
meno che non indaghi sui movimenti finanziari, a quantificarli là dove l’impresa offra
pochi elementi per ricostruire i rapporti con la clientela.
Questa concezione più ampia del metodo analitico si è affermata negli anni ’90, quando
furono elaborati strumenti in grado di censire le imprese in base alle loro caratteristiche
produttive per stimare un ammontare plausibile di ricavi conseguiti nel periodo d’imposta;
tra questi strumenti, gli studi di settore, in particolare, oltre a realizzare una banca dati di
grande valore sul mondo delle imprese italiane medio-piccole (→ fatturato fino a 7,5
milioni) danno luogo a presunzioni semplici che, verificate in contraddittorio obbligatorio
preventivo, possono giustificare la rettifica dell’ammontare dei ricavi o dei compensi,
anche in mancanza di una previa ispezione della contabilità.
L’alternativa è riprodotta in termini sostanzialmente equivalenti nella disciplina IVA.
d. Accertamento con adesione (d.lgs. 218/1997*): l’accertamento delle imposte sui redditi
e dell’IVA, come anche dell’IRAP, può avvenire in forma consensuale, sostituendosi
l’accertamento con adesione, sottoscritto da entrambe le parti, all’accertamento
unilaterale, provvedimentale e autoritativo. L’ Agenzia delle entrate non ha l’obbligo di
invitare il contribuente per l’adesione, ma può farlo a sua discrezione.
Per non discriminare tra soggetti che ricevono l’invito preventivamente e soggetti
che non lo ricevono, l’art. 6* prevede che il contribuente possa presentare istanza
per l’adesione, anche dopo aver ricevuto l’avviso di accertamento, provocando così
una sospensione di 90 giorni della riscossione provvisoria frazionata e del termine
d’impugnazione.
La stessa possibilità è concessa al contribuente, prima dell’emanazione dell’avviso,
ma dopo la conclusione di una verifica fiscale.
La legge non regolamenta:
- i criteri o i limiti entro i quali si può raggiungere l’accordo;
- le cadenze procedurali, che sono affidare a regole di principio di carattere
generale. Per il resto l’accertamento con adesione ha le stesse caratteristiche
degli altri.
c) L’imposta sulle successioni: ha un modulo applicativo più simile a quello delle imposte
sui redditi e dell’IVA:
- Viene puntualmente disciplinato l’obbligo di dichiarazione;
- Vengono definiti i diversi vizi da cui può essere affetta la dichiarazione →
irregolarità, incompletezza, (se mancano alcuni dei beni caduti in successione)
infedeltà (se i valori dei beni trasferiti non sono reali);
- Sono precisati e qualificati gli atti degli uffici, che vanno dalla liquidazione
dell’imposta dovuta (nel termine decadenziale di tre anni), alla notificazione di atti di
accertamento d’ufficio (decadenza in 5 anni) o in rettifica (decadenza in 2 anni),
giustificati dall’omissione o dai vizi della dichiarazione.
L’imposta liquidata è:
• Principale → sulla base della dichiarazione;
• Complementare → dovuta in base ad accertamenti in rettifica o d’ufficio;
• Suppletiva → frutto della correzione di precedenti atti di liquidazione.
La legge statale non condiziona le procedure di adesione, che possono essere regolate
dal regolamento comunale, nell’ambito dell’autonomia normativa spettante in materia di
organizzazione e procedimenti.
È frequente che il modello procedurale sulla cui base il comune prevede le procedure di
accertamento con adesione sia quello desumibile dal testo di legge statale → d.lgs.
218/1997.
9. L’ accertamento catastale
Il catasto è strumento essenzialmente, ma non esclusivamente, fiscale; molte norme
civilistiche richiamano le risultanze catastali, i dati catastali infatti sono richiesti:
- ex art. 2659 c.c → nella nota di trascrizione.
- ex art. 2826 c.c → nell’atto di concessione di ipoteca per la corretta individuazione del
bene.
- ex art. 950 c.c → nell’azione di regolamento di confini, prevede che il giudice, in
mancanza di altri elementi, si attenga ai confini delineati nelle mappe catastali.
- Locazione di immobili urbani → i regimi vincolistici fanno riferimento alle risultanze
catastali per determinare il corrispettivo dovuto dal conduttore.
La gestione dei registri catastali appartiene all’Agenzia delle entrate: dal 1 dicembre 2012
l’Agenzia del territorio è infatti stata incorporata nell’Agenzia delle entrate, alla quale sono
state trasferite le dotazioni e i relativi rapporti giuridici attivi e passivi, inclusi quelli
processuali.
d.lgs. 112/1998 → nell’ambito del decentramento di competenze dallo stato agli enti locali
aveva disposto il trasferimento ai comuni della gestione del catasto, ma è solo con la
legge finanziaria del 2007 che la procedura di decentramento è entrata nel vivo.
Anche se il nuovo intervento normativo si poneva nel solco del d.lgs. 112 il legislatore
aveva diversamente modulato le funzioni da trasferire ai comuni, tra queste era stato
escluso il potere più importante: il classamento → attribuzione della rendita catastale alle
unità immobiliari.
È con il d.l. 78/2010 che la volontà di affidare ai comuni il catasto sembra definitivamente
tramontata: le funzioni sono state rafforzate e sebbene sia prevista una forma partecipata
nella gestione di alcune funzioni catastali con i comuni, in forza del principio di
sussidiarietà le stesse rifluiscono all'agenzia se il comune non la esercita. Residua solo
una funzione consultiva alle commissioni censuarie locali e centrali.
L’ accertamento catastale è l’insieme delle operazioni che consente di individuare la
rendita di ciascun terreno o fabbricato e si sostanzia in una serie di attività che hanno il
carattere dell’officiosità → l’insieme delle operazioni che portano all’accatastamento degli
immobili è attività propria dell’amministrazione catastale, che si articola così:
Individuazione della qualità dei terreni e delle categorie dei fabbricati per ciascuna
zona censuaria;
Suddivisione in classi (che dipende per i terreni dal grado di produttività e per i
fabbricati dall'esistenza o meno di investimenti in attrezzature fisse);
Formazione delle tariffe d’estimo;
Suddivisione degli immobili in particelle;
Determinazione dell’estensione per i terreni e della consistenza per i fabbricati;
Classamento;
Intestazione.
L’innovativa procedura della ‘rendita proposta’ (→ ‘metodo Docfa’, d.m. 701/1994) non
contraddice quanto visto finora: la possibilità data al possessore, in sede di
accantonamento di un nuovo immobile o di variazione dello stato dei beni, di proporre la
categoria, la classe e la rendita va ricostruita come una fase del procedimento di
classamento che vede la partecipazione attiva del privato al procedimento amministrativo,
piuttosto che come un classamento ad opera del privato.
Scopo della stima catastale: determinazione del reddito medio ordinario (=rendita
catastale) ritraibile da ciascuna unità immobiliare.
La rendita catastale viene determinata attraverso l’applicazione delle tariffe d’estimo, salvo
che per gli immobili speciali per cui la rendita viene attribuita per stima diretta.
Nella determinazione delle tariffe d’estimo:
a) per i fabbricati si deve fare riferimento ai valori e ai redditi medi espressi dal mercato
immobiliare, con esclusione dei regimi locativi disciplinati per legge e senza tener
conto dei valori e dei redditi occasionali o straordinari;
b) per i terreni alle quantità medie ordinarie dei prodotti e alla media dei prezzi correnti.
➔ In assenza di un mercato delle locazioni si utilizza un procedimento di stima che
applica i saggi di rendimento ordinariamente rilevabili nel mercato edilizio locale per
unità immobiliari analoghe.
Capitolo 3 - La riscossione
1. La riscossione spontanea
• Si parla di ‘riscossione spontanea’ per definire quella che non è mediata dall’intervento
di atti delle amministrazioni finanziarie (=riscossione d’ufficio).
• La riscossione coattiva è invece quella che consegue alla violazione dell’obbligo di
pagamento da parte del contribuente e che comporta il possibile inizio dell’esecuzione
forzata a carattere espropriativo, ove il pagamento non venga attuato prima.
La riscossione è parte fondamentale e centrale della funzione impositiva perché solo essa
garantisce effettività all’obbligo contributivo, permettendone la realizzazione.
Il tema diventa rilevante anche in termini di convivenza sociale, oltre che in termini politici
generali; non bisogna dimenticare che i sistemi di riscossione succedutisi nel tempo, dagli
anni ’50 del ‘900 fino alla riforma del 2005 non hanno mai garantito una vera efficienza: il
tributo riscosso coattivamente è sempre stato pari a una piccola percentuale rispetto a
quello affidato in carico, sia pure con un miglioramento dell’efficienza e il più recente
servizio nazionale della riscossione affidato alle società del gruppo Equitalia.
È necessaria una grande attenzione da parte del legislatore per garantire il necessario
equilibrio tra:
- Obbligo di contribuzione;
- Necessità che il prelievo non oltrepassi la capacità contributiva di ciascuno;
- Funzione sociale del prelievo;
- Partecipazione del cittadino all’azione pubblica.
➔ Art. 53 co. 1 Cost.: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione
della loro capacità contributiva.”
È la bussola di questo sistema: riscuotere i tributi vuol dire semplicemente rendere
effettivo l’obbligo di contribuzione al finanziamento della spesa pubblica che l’art.
53 pone come regola ispiratrice dei rapporti politici a livello costituzionale.
Se ‘tutti sono tenuti’ occorre che tutti, effettivamente, subiscano il sacrificio
patrimoniale corrispondente al tributo dovuto; questo sacrificio ovviamente non
deve essere superiore alla capacità contributiva, ma quest’ultima non può essere
invocata quale motivo di opposizione alla riscossione coattiva.
Il tributo che risulta dovuto, una volta esaurite le opposizioni concesse dalle legge,
va riscosso e l’eventuale scarsità di mezzi sopravvenuta per far fronte all’obbligo di
pagamento non può essere allegata quale fattore di insussistenza della capacità
contributiva.
▶ Come sancito dalla Corte costituzionale, se riscuotere i tributi significa attuare il
precetto ex art. 53 Cost., si giustificano alcune disposizioni che sembrano
privilegiare, sulle garanzie, celerità e snellezza delle procedure, ma senza che
l’attività di riscossione possa assumere profili sanzionatori.
Abilitato a ricevere la riscossione spontanea, è anche il soggetto che cura, per incarico
ricevuto dall’ente impositore, la riscossione coattiva dei tributi.
2. I versamenti unificati
L’ art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente contempla la possibilità che i tributi
possano essere pagati per compensazione.
La disposizione applicata nel modo più pertinente comporterebbe una sorta di conto
corrente tra fisco e contribuente, nel quale far confluire poste di debito e di credito, dalla
cui differenza enucleare gli importi da versare.
La sua difficile realizzazione concreta ha disincentivato l’amministrazione che, in base
all’ultimo comma dello stesso articolo, avrebbe dovuto regolamentare il progressivo
sviluppo di questo sistema: nessuna norma attuativa è stata emanata e il contribuente non
può rischiare di operare una compensazione di propria iniziativa, rischiando di vedersi
irrogate le sanzioni per omesso versamento.
In attesa che la situazione evolva opera una compensazione più ridotta (ex art. 17 d.lgs.
241/1997), ma ugualmente importante: è il sistema del versamento unificato, che
consente, sulla base di un’omogeneità di scadenze, di effettuare una somma algebrica, il
giorno 16 di ogni mese e alle scadenze annuali tra debiti e crediti tributari e previdenziali
‘liquidi’.
Questo meccanismo, applicabile a imposte sui redditi, ritenute, IVA, IRAP, alcuni dei
principali tributi locali, tributi previdenziali, rende necessaria la redazione di un modello in
cui ciascuna posta viene indicata e contabilizzata e dalla contrapposizione si ricava il
residuo ammontare a debito da versare (che può essere pari a zero).
Anche se nessun versamento viene effettivamente eseguito (→ quando il saldo è 0) tutte
le imposte indicate e pagate mediante compensazione risultano effettivamente versate,
mentre nel contempo i crediti indicati nel modello vengono consumati o spesi portandoli
in pagamento di altri tributi. L’ unica condizione per poter spendere gli importi a credito è
che abbiano una base documentale, ossia che risultino da dichiarazioni presentate. La
ripartizione tra gli enti creditori degli importi pagati, effettivamente o in compensazione, è
effettuata da un apposito ufficio dell’amministrazione.
Questa disciplina è particolarmente importante sia per i contribuenti, che non hanno più i
lunghi tempi di attesa dei rimborsi, sia per l’amministrazione, che risparmia i costi delle
complesse procedure di rimborso.
Si tratta anche di un meccanismo che può incoraggiare le frodi, cioè l’indicazione
di crediti d’imposta non spettanti o inesistenti; si consideri che leggi speciali
agevolative concedono crediti d'imposta che possono essere inseriti nel modello
unificato a compensazione delle imposte dovute. La risposta dell’ordinamento è
duplice: 1) Sanzioni penali che colpiscono l’indebita compensazione, oltre certe
soglie; 2) Il modello F24, che accompagna il versamento unificato, è oggetto di
controlli che vengono esplicitati da un tipo di atto impositivo, l’atto di recupero di
crediti d’imposta, che ha ad oggetto un atto della riscossione come il modello di
versamento unificato, ma in realtà è disciplinato come se si trattasse di un atto di
accertamento (non esecutivo).
3. Gli atti impositivi di riscossione
Ci sono disposizioni di legge che prevedono la riscossione per iniziativa dell’ufficio e non
per inadempimento del contribuente; in questo caso il pagamento può essere effettuato
solo dopo che la somma sia stata iscritta a ruolo e che di tale iscrizione sia stata data
notizia nelle forme di legge (attraverso la notifica della cartella di pagamento, in genere,
ma a volte può comparire prima un avviso di liquidazione). Ex art. 32 d.lgs. 46/1999 è
definita spontanea la riscossione a mezzo ruolo non derivante da inadempimento e quella
che avviene in più rate, su richiesta del debitore.
Nelle imposte con applicazione sulla base di periodi, ove vige la regola
dell’autoliquidazione e del versamento spontaneo del contribuente, la riscossione d’ufficio
viene attivata a seguito di controlli sull’adempimento spontaneo che rivelino un
versamento insufficiente o del tutto carente, che può dipendere da:
a. una patologia riferibile al solo versamento
b. un’erronea complicazione della dichiarazione (nella quale potrebbero ad esempio
essere state operate delle detrazioni o delle deduzioni non spettanti, o essere presenti
delle anomalie di calcolo o anche meri errori materiali) → l’iscrizione a ruolo avvia la
procedura di riscossione d’ufficio, ma presuppone anche un intervento rettificativo della
dichiarazione che originariamente era compreso nelle tipologie più semplici di
accertamento in rettifica.
➔ Oggi il sistema prevede la liquidazione del dichiarato, effettuata sulla
generalità delle dichiarazioni, e il controllo formale, attività di controllo sugli
adempimenti spontanei del contribuente, che possono riguardare o: ○ La
sola riscossione; ○ Le prime forme di controllo del dichiarato, caratterizzare
dall’essere basate su riscontri molto lineari e dalla possibilità di desumere le
irregolarità della dichiarazione da materiale informativo di cui gli uffici già
dispongono.
Nonostante l’assimilabilità di tali verifiche formali all’attività di accertamento in
senso proprio, non c’è nessun dubbio che le norme trattino questi controlli in modo
del tutto diverso da quelli di accertamento in senso stretto, predisponendo una
disciplina basata su caratteri del tutto distinti:
• Le procedure non si concludono con avvisi di accertamento, ma il provvedimento
finale autoritativo è direttamente l’atto tipico della riscossione (→ iscrizione a
ruolo);
• Formula di salvaguardia ex art. 36 ter che fa salva l’azione accertatrice,
chiarendo che i controlli formali si pongono all’esterno di tale azione.
• Le sanzioni che si applicano per i controlli formali sono quelle tipiche della
riscossione, da insufficiente versamento, e non quelle previste dalle norme
sull’accertamento: la dichiarazione controllata, ancorché rettificata, non è
considerata infedele e incompleta nel senso in cui la potrebbero qualificare le
norme sull’accertamento. Chi compila una dichiarazione con le irregolarità
desumibili dai controlli formali non è considerato quindi un evasore.
• L’imposta liquidata ex art. 36 bis si considera dichiarata dallo stesso contribuente
e, se successivamente quella dichiarazione subirà i controlli sostanziali, le
sanzioni applicabili assumeranno come base di commisurazione l’imposta
liquidata ex art. 36 bis o derivante dal controllo formale ex art. 36 ter, e non quella
dichiarata.
• Per la liquidazione dell’imposta è previsto un controllo generalizzato su tutte le
dichiarazioni, che può avere anche effetti favorevoli per il contribuente, con il
riconoscimento di una minore imposta dovuta o di un maggior credito spettante.
• Sono diversi i termini rispetto alla decadenza prevista per gli atti di accertamento:
- vi è un termine non perentorio per rendere noto in forma di comunicazione il
risultato del controllo;
- vi è un termine decadenziale per notificare la cartella di pagamento
conseguente all’avvenuta iscrizione a ruolo;
• La definizione con adesione non si applica in quanto sostituita da un
contraddittorio eventuale conseguente alla comunicazione, per raccomandata o
con avviso telematico destinato al soggetto che ha curato la trasmissione della
dichiarazione, a mezzo di avviso bonario, che consente al destinatario o di
chiarire le irregolarità emerse attraverso la partecipazione al procedimento,
oppure di pagare il dovuto, con ampia rateazione, auto-liquidando le sanzioni in
misura ridotta.
• Solo in caso di inerzia del contribuente si procede all’iscrizione a ruolo, effettuata
per l’intero ammontare del tributo dovuto, maggiorato degli interessi (qui si nota la
differenza con la procedura di accertamento, nella quale la riscossione
provvisoria è, negli stessi tributi, parziale). Questa tipologia di iscrizione a ruolo è
chiamata a titolo definitivo, ma questo appellativo non esprime altro che
un’indicazione tendenziale: l’iscrizione a ruolo dipende dalla dichiarazione ed è
considerata alla stregua di un’iscrizione fondata su accertamento definito, e
questo spiega perché l’ammontare da riscuotere non sia frazionato in parti.
Tuttavia la pretesa dell’ufficio, che va a modificare la dichiarazione, può essere
contestata dal contribuente e pertanto la definitività in questo caso non è
sinonimo di inoppugnabilità.
Gli atti con cui si avvia la riscossione d’ufficio possono essere distinti in base alla loro
provenienza dall’ufficio impositore o da soggetti terzi incaricati, per un rapporto
pubblicistico, di riscuotere i tributi per conto dell’ente pubblico titolare del gettito. Nella
riscossione infatti è tradizionale la separazione tra:
- Titolarità del credito → continua a rimanere in capo al soggetto attivo del tributo,
destinatario del gettito;
- Legittimazione ad esercitare le prerogative creditorie → spettante al soggetto terzo.
Nella maggior parte dei casi l’ente pubblico procede a mezzo dell’iscrizione a ruolo, che è
un atto collettivo con cui vengono elencate una serie di partite creditorie riguardanti una
pluralità di contribuenti riferibili ad un certo ambito territoriale, delle quali l’agente della
riscossione assume la responsabilità, salva la possibilità di ottenere la dispensa da tale
restituzione quando possa provare di aver fatto il possibile per pervenire alla riscossione
stessa.
La formazione del ruolo, la sua esecutività, la consegna dell’ente creditore al soggetto
abilitato a riscuotere sono adempimenti di scarsa rilevanza esterna nei confronti dei
soggetti debitori iscritti a ruolo, ai quali non interessa conoscere nella sua integrità
l’iscrizione a ruolo, ma solo l’entità e le causali delle partite creditorie che li riguardano
direttamente.
Questa conoscenza avviene per attività dell’incaricato della riscossione, che notifica a
ciascun contribuente la cartella di pagamento, che altro non è se non lo stralcio della parte
di ruolo concernente il singolo contribuente.
Quando il contribuente impugna il ruolo lo fa impugnando la cartella di pagamento, che
contiene elementi descrittivi del debito, che variano a seconda della tipologia di iscrizione
a ruolo.
In generale vi è un conflitto tra formazione meccanizzata del ruolo, che viene trasmesso
all’agente della riscossione in forma telematica, tale da favorirne la riproduzione nella
cartella ed esigenze di informazione e presenza dei requisiti formali generali dell’atto
amministrativo, che rendono spesso insufficiente il contenuto della cartella, in genere priva
di una motivazione di carattere discorsivo e di firma autografa.
La notificazione della cartella deve avvenire in generale entro termini decadenziali,
decorrenti: - dalla presentazione della dichiarazione, se non sono previsti atti
impositivi intermedi; - ovvero dalla definitività dell’accertamento; in caso di giudicato
sull’accertamento, il termine decadenziale per notificare la cartella non si
applicherebbe ma sarebbe sostituito dal termine prescrizionale decennale.
Termini particolari sono previsti per la riscossione spontanea a mezzo ruolo nella
disciplina dei singoli tributi, mentre non è previsto un termine decadenziale, né alcun altro
termine, per l’iscrizione a ruolo a titolo provvisorio.
La cartella contiene l’intimazione ad adempiere entro 60 giorni dalla sua notificazione,
termine che è importantissimo in quanto il suo inutile decorso produce l’effetto
dell’inadempienza del debitore iscritto a ruolo, che diventa direttamente passibile delle
misure cautelari e del pignoramento, senza ulteriori preavvisi (oltre ad essere gravato per
intero dell’aggio spettante all'agente quale remunerazione dell'attività di accertamento, e
di ulteriori interessi, qualificati moratori).
L’ art. 50 d.p.r. 602/1973 prevede però che, se la cartella non è seguita dall’inizio
dell’esecuzione, cioè dal pignoramento, entro 1 anno dalla notificazione, l’agente della
riscossione debba notificare un nuovo avviso (→intimazione di pagamento).
➔ Nelle imposte sui redditi, nell’IVA e nell’IRAP, l’atto di accertamento svolge anche la
funzione di atto della riscossione: cumula in sé oltre alle funzioni proprie anche
quella di titolo esecutivo (→ ruolo) e di cartella di pagamento. Con l’avviso di
accertamento esecutivo ex art. 29 d.l. 78/2010 il contribuente:
- è informato della pretesa fiscale;
- riceve l’intimazione al pagamento, con avvertenza che, decorsi inutilmente 30
giorni dopo la scadenza del termine per proporre ricorso (scadenza che
segna l’acquisizione della qualità di titolo esecutivo da parte dell’avviso di
accertamento), l’Agenzia delle entrate provvederà a trasmettere il carico
all’agente della riscossione.
NB. Pur restando fermo che le attività tipiche di riscossione non sono svolte
dallo stesso ente che provvede all’accertamento, è evidente come vi sia una
forte contrazione delle attività, il che rende decisivo verificare se l’avviso di
accertamento venga correttamente notificato → in mancanza di notifica il
contribuente potrebbe trovarsi esposto direttamente all’esecuzione forzata o
a misure cautelari, senza aver ricevuto alcuna informazione in ordine alla
pretesa dell’Agenzia delle entrate. Questa situazione è in parte attenuata dal
fatto che, nelle more di un’eventuale sospensione giudiziale dell’esecuzione
dell’accertamento, l’agente della riscossione non può provvedere
all’esecuzione forzata per 180 giorni a decorrere dall’affidamento (a meno
che non si tratti di eseguire un accertamento definitivo).
L’attenuazione è parziale sia perché:
- La sospensione non impedisce all’agente della riscossione di porre in essere
misure cautelari e conservative;
- La sospensione non opera quando, sussistendo fondato pericolo per la
riscossione a giudizio (sindacabile, dunque da esplicitare in motivazione), il
carico viene affidato per intero, in deroga alla riscossione frazionata (che
prevede la riscossione per un terzo dell’imposta e degli interessi, in pendenza
del giudizio di primo grado). Per il resto ogni disposizione di legge che fa
riferimento al ruolo e alla cartella di pagamento deve intendersi riferita
all’accertamento esecutivo.
Decorso il termine di 60 giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, l’agente della
riscossione può:
a. Sulla base del ruolo, iscrivere ipoteca sugli immobili del debitore e dei coobbligati,
per un importo doppio rispetto a quello del credito per cui procede. L’iscrizione di
ipoteca è obbligatoria, prima del pignoramento immobiliare, quando l’ammontare del
credito da riscuotere non supera il 5% del valore dell’immobile da espropriare e, in
questo caso, l’esecuzione può essere avviata solo se entro 6 mesi il debito non viene
estinto, mentre può essere effettuata anche in difetto delle condizioni per procedere ad
esecuzione forzata, al solo fine di tutela del credito, quando l’importo complessivo da
riscuotere non sia inferiore a 20.000 euro.
b. Nello stesso termine, può disporre il fermo dei beni mobili iscritti in pubblici registri, di
proprietà del debitore o di coobbligati, iscrivendo il provvedimento di fermo sul pubblico
registro, dandone comunicazione alla direzione regionale delle entrate e alla regione di
residenza e, dopo aver dato preventivo avviso al soggetto nei cui confronti si procede.
➔ Il fermo comporta:
- il vincolo sul bene rispetto ad eventuali atti dispositivi
successivi;
- il divieto di circolazione, autonomamente sanzionato.
Si tratta di misure di dubbia natura, finalizzate a realizzare una pressione sul debitore
affinché provveda evitando l’esecuzione forzata.
Prevalente è comunque la qualificazione delle stesse in termini di misure cautelari,
suscettibili di tradursi in pignoramento nel caso in cui perduri l’inadempimento → fase
intermedia, che cerca di evitare l’estrema aggressività e i costi della procedura
espropriativa, garantendo al creditore la permanenza nel patrimonio del debitore di beni
che costituiscono la garanzia.
➔ NB. Art. 49, d.p.r. 602/1973: consente all’agente di promuovere azioni cautelari e
conservative di diritto comune, attuabili previo intervento del giudice civile, nonché
‘ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore’.
Se il fermo e l’ipoteca agiscono su beni mobili registrati e su immobili di proprietà del
debitore iscritto a ruolo, negli ultimi anni, subito dopo la pubblicizzazione del soggetto
incaricato della riscossione, sono stati conferiti a quest’ultimo penetranti poteri di ricerca e
acquisizione di informazioni, finalizzati all’individuazione di beni pignorabili, e di crediti da
sottoporre a pignoramento presso terzi.
È prevista ormai in via generale un’ampia possibilità di accesso dell’agente della
riscossione alla banca dati dell’anagrafe tributaria e all’archivio finanziario, che viene
utilizzata in una prospettiva diversa, ma complementare rispetto all’attività di indagine
delle agenzie fiscali, che cercano materia imponibile e controllano gli adempimenti anche
per esercitare la loro funzione repressiva, mentre dall’anagrafe tributaria l’agente
acquisisce notizie utili all’efficacia dell’azione esecutiva. In questa logica, molti dei poteri
introdotti sono finalizzati alla ricerca di crediti verso terzi del debitore iscritto al ruolo:
a. Compensazione volontaria: crediti tributari del contribuente non inferiori a 1.500 euro
sono portati a conoscenza dell’agente della riscossione attraverso la procedura ex art.
28 ter, d.p.r. 602/1973. La somma da rimborsare viene messa dall’Agenzia delle
entrate a disposizione dell’agente della riscossione che sospende per 60 giorni le
azioni di recupero e informa, con atto notificato, il creditore/debitore iscritto a ruolo
della possibilità di accedere alla volontaria compensazione tra credito e debito; in caso
di silenzio o rifiuto del creditore/debitore iscritto a ruolo, l’agente della riscossione
informa l’agenzia delle entrate.
b. Blocco dei pagamenti: le amministrazioni pubbliche e le società a prevalente
partecipazione pubblica non possono effettuare pagamenti di importo superiore a
10.000 euro, se non dopo aver verificato, mediante interrogazione in via telematica al
sistema informativo dell’agente della riscossione, che il loro creditore non risulti
debitore inadempimenti di somme iscritte a ruolo di pari importo. Nel caso in cui
emerga una situazione di inadempienza (=decorso inutile del termine di 60 giorni dalla
notificazione della cartella di pagamento) nei confronti di pretese iscritte a ruolo, il
pagamento viene bloccato e l’agente della riscossione, che ha così avuto notizia
dell’esistenza del credito, procede a pignorarlo presso l’ente debitore.
c. Dichiarazione stragiudiziale di terzi: la situazione di inadempienza abilita anche
l’agente della riscossione, in contemporanea rispetto all’adozione di tutte le altre
misure cautelari o esecutive, alla richiesta a soggetti terzi di informazioni circa le
somme o i beni dagli stessi dovuti in favore del debitore iscritto al ruolo. La richiesta
crea un vero e proprio obbligo giuridico di risposta in capo al terzo, in un termine non
minore di 30 giorni, e la mancata risposta implica l’irrogazione di sanzioni da parte
dell’ufficio dell’agenzia delle entrate competente, in relazione al domicilio fiscale del
soggetto destinatario della richiesta. Il potere di indagine così disciplinato è
normalmente destinato a soggetti che detengono istituzionalmente strumenti finanziari
nell’interesse del debitore e che sono debitori di quest’ultimo a titolo di restituzione del
capitale o di interessi o utili maturati ed è ovviamente finalizzato a permettere il
pignoramento, subito dopo l’acquisita notizia del credito.
d. Quando il credito iscritto a ruolo supera i 25.000 euro, l’agente della riscossione può
esercitare tutti i poteri di accesso, ispezione e verifica ex art. 33, d.p.r. 600/1973 e art.
52, d.p.r. 633/1972, in materia di imposte sui redditi e IVA, conferiti agli uffici fiscali. In
questo modo potranno essere acquisite notizie circa le posizioni creditorie del debitore
iscritte a ruolo, sulle quali esercitare il pignoramento presso terzi. Ex art. 31, d.l.
78/2010 è stata limitata la possibilità del debitore iscritto a ruolo di procedere alle
compensazioni in sede di versamento unificato, condizionandole al preventivo
pagamento del ruolo, che può essere saldato anche mediante compensazione di
crediti del contribuente, non solo tributari, ma anche derivanti da rapporti con altre
amministrazioni pubbliche in cronico ritardo con i pagamenti.
La politica normativa degli ultimi anni tende a ricorrere all’esecuzione forzata solo come
ultima risorsa a disposizione dell’agente della riscossione; è infatti prevalente l’idea che,
anche per i costi minori, possa essere molto più produttiva una politica di incentivazione
dell’adempimento, attuata in parte attraverso i poteri di ricerca e acquisizione di
informazioni, anziché tramite il ricorso a procedure esecutive spesso produttive di ulteriore
contenzioso.
In questo contesto si inquadra la politica di apertura verso forme accessibili di
rateizzazione del pagamento del credito iscritto a ruolo (ex art. 19 d.p.r. n. 602/1973):
- da un lato rimane fermo che la rateizzazione non è un diritto → viene concessa, su
richiesta, quando il debito è superiore a 60.000,00 euro, solo se ricorre il presupposto di
una temporanea situazione di obiettiva difficoltà del debitore (alla concessione della
dilazione provvede l’agente della riscossione);
- dall’altro il numero massimo di rate mensili in cui il credito può essere ripartito è di 72
(=6 anni: in caso di difficoltà legate alla congiuntura economica si possono ottenere 120
rate).
Recentemente è stata concessa al contribuente la possibilità di ottenere una proroga per
ritardo nel pagamento rispetto al piano di rateizzazione: nelle ipotesi di comprovato
peggioramento della situazione economica, la dilazione può essere prorogata, una sola
volta, per un ulteriore periodo di 72 mesi, purché rispetto all’originaria dilazione il
contribuente non fosse incorso in revoca per intervenuta decadenza.
Vi è inoltre la possibilità di ottenere un piano che preveda rate variabili per un importo
crescente di anno in anno (anziché rate costanti).
Il mancato pagamento di 5 rate, anche se non consecutive, fa decadere dai benefici della
rateazione.
➔ Fondamentale è la preclusione all’agente di iscrivere ipoteca ex art. 77 laddove sia
stata concessa al debitore la dilazione.
L'agente è tenuto ad una difficile attività di valutazione prognostica, per razionalizzare la
quale gli uffici centrali della società Equitalia emanano agli uffici periferici direttive, che
vengono divulgate per rendere conoscibili i parametri impiegati per decidere l'esito delle
richieste.
5. L’esecuzione forzata
Esaurite le fasi precedenti, l’agente della riscossione può procedere ad esecuzione
forzata, avviando una procedura sostanzialmente espropriativa che, sia pure svolta
prevalentemente in via amministrativa per iniziativa unilaterale dell’agente stesso ha uno
sviluppo non dissimile dall’esecuzione forzata di cui al c.p.c → la disciplina applicabile
risulta dalla sovrapposizione di: - norme speciali, essenzialmente contenute nel d.p.r.
602/1973; - norme del c.p.c.
➔ Si avranno quindi:
• Pignoramento;
• Vendita;
• Distribuzione del ricavato o l’assegnazione dei beni ai creditori, potendo
eventualmente verificarsi un concorso di creditori e di azioni esecutive sugli stessi
beni.
6. I privilegi
Nell’ambito delle disposizioni del c.c che disciplinano i privilegi sono previsti anche i crediti
tributari che possono quindi avere posizione poziore nel concorso con crediti di diversa
natura.
• sui beni mobili del debitore → è previsto un privilegio generale a tutela dei crediti per:
Imposte sui redditi;
IVA;
IRAP;
a tutela dei tributi di comuni e province → subordinatamente al privilegio dello
Stato.
- Sanzioni connesse a IVA, IRAP e imposte sui redditi.
• sui beni mobili dell’impresa → è previsto un privilegio speciale*, limitatamente alla quota
di reddito riferibile all’impresa.
• sul trasferimento di immobili → privilegio speciale* a tutela del credito per le imposte
indirette.
• sui beni mobili → è previsto un privilegio generale, sempre a tutela delle imposte
indirette.
• A conferma dell’interesse pubblico all’attuazione della rivalsa come meccanismo
essenziale all’applicazione del tributo, anche il credito di rivalsa gode di privilegio
speciale* sui beni oggetto della cessione o prestazione di servizi.
* privilegio speciale: assicura un diritto di seguito sul bene che rende possibile
sottoporlo ad esecuzione anche nei confronti di terzi subacquirenti.
Problema: con quale equilibrio la riscossione dei crediti tributari deve convivere con le
pretese creditorie di altri soggetti sullo stesso patrimonio?
Il problema è collegato alla disciplina dei privilegi, ma investe anche alla disparità di
trattamento tra mezzi coercitivi concessi al creditore privato e poteri degli agenti della
riscossione (tra questi poi non è assicurata del tutto parità di strumenti a disposizione,
sicché si può porre l’ulteriore problema della ragionevolezza di una disciplina che lasci
prevalere l'interesse pubblico alla riscossione dei tributi erariali, rispetto alla riscossione
dei tributi delle autonomie locali, dotate di pari dignità).
7. I rimborsi
La gradualità della riscossione e il suo procedere in parallelo all’accertamento
comportano la frequente emersione di situazioni creditorie in capo al contribuente che,
normalmente ha l’onere di farle valere mediante la presentazione di istanze. È talvolta
previsto l’obbligo di rimborso d’ufficio:
- nel caso di errori materiali o duplicazioni imputabili all’ufficio;
- o quando l’esito del processo rende indebite le riscossioni provvisorie effettuate sulla
base di atti impositivi in tutto o in parte caducati dalla commissione tributaria.
La qualificazione giuridica dei crediti del contribuente è articolata e controversa, ma
attenendosi essenzialmente alle indicazioni provenienti dal diritto positivo, è possibile
distinguere tre gruppi di ipotesi in cui possono essere accorpate fattispecie di rimborso
che hanno caratteristiche e profili procedurali comuni:
1) Rimborsi da indebito: conseguono a errori commessi in proprio danno dal contribuente
nelle fasi di attuazione spontanea del tributo e che possono derivare da patologie delle
fattispecie di riscossione (si versa più di quanto dovuto) o presupporre errori compiuti
negli atti di accertamento (si pensi al contribuente che emette una fattura per importo
superiore a quello del compenso pattuito, o a quello che erroneamente dichiari come
imponibile un provento che invece non abbia natura reddituale).
Rientrano in questo gruppo i rimborsi derivanti dall’illegittimità costituzionale o
dall’incompatibilità comunitaria di norme impositive a proposito dei quali si deve
tenere presente che l’indebito non è sopravvenuto, ma originario, motivo per cui la
sentenza che accerta l’illegittimità della norma non rappresenta un fatto costitutivo
del diritto al rimborso, che è preesistente e che pertanto deve essere fatto valere in
termini decorrenti dal pagamento.
NB. Se l’indebito non deriva da adempimenti spontanei del contribuente, ma da
patologie di atti impositivi, non può trovare tutela autonoma, ma deve essere fatto
valere con l’impugnazione dell’atto impositivo, in mancanza del quale l’istanza di
rimborso è inammissibile (l’inammissibilità può essere rilevata dal giudice d'ufficio in
ogni stato e grado, trattandosi di presupposto processuale).
L’istanza di rimborso deve essere proposta in un termine decadenziale che può
essere diverso da tributo a tributo e che in genere decorre dalla data del
versamento; in mancanza di previsioni specifiche opera l’art. 21 del d.lgs.
546/1992: l’istanza va presentata nel biennio dal pagamento o dal momento,
successivo, nel quale il pagamento sia divenuto indebito.
Quando l’istanza di rimborso presuppone la semplice riqualificazione giuridica di
elementi della dichiarazione, la presentazione di una dichiarazione rettificativa da
parte del contribuente non sembra necessaria, anche dopo la liberalizzazione delle
dichiarazioni integrative a favore del contribuente: la motivazione giuridica della
richiesta di rimborso è esaustiva anche se collocata all’esterno del modello di
dichiarazione → la preoccupazione che in tal modo la nuova qualificazione
giuridica possa sfuggire al controllo del fisco non ha ragione d’essere perché può
produrre effetti solo se l’istanza viene accolta!
≠ La conclusione opposta è preferibile quando sono propriamente i dati numerici
del dichiarato a dover essere modificati per poter accedere al riconoscimento del
rimborso; diversamente si avrebbe un contenuto diverso della dichiarazione per
effetto di un atto (→ istanza di rimborso) che resta sotto tutti gli altri profili
autonomo dalle procedure di controllo formale e sostanziale sulla dichiarazione.
Non sempre l’indebito viene fatto valere con procedimento autonomo rispetto agli
atti di accertamento; ad esempio, nell’IVA, tutta una serie di ipotesi che comportano
il venir meno dell’operazione imponibile o la correzione di errori materiali e di
calcolo commessi nelle fasi di fatturazione, registrazione e liquidazione del tributo,
possono essere corretti mediante il ricorso alle note di variazione (→ auto-
rimborso), con cui è possibile diminuire direttamente, internamente alla contabilità
IVA, l’imposta considerata a debito, o aumentare l’imposta detraibile. Queste
variazioni incidono sugli importi dichiarati.
2) Restituzioni: sono quelle posizioni creditorie che non presuppongono una patologia
del versamento, ma il sopravvenire di una causa di insussistenza dell’obbligo di
pagamento (si pensi alla sentenza sottoposta a registrazione e tassata sulla base dei
suoi effetti patrimoniali, i quali vengano invece a cadere dopo la riforma della sentenza
stessa in sede di impugnazione).
Le regole procedurali sono anche in questo caso variabili da caso a caso, e
presuppongono:
• l’impugnazione di eventuali atti impositivi che, a qualunque titolo, pretendano il
pagamento derivante dal presupposto venuto meno;
• la presentazione di una previa istanza in via amministrativa, anche se in molti casi
è ipotizzabile un rimborso d’ufficio.
Alle istanze di rimborso, di qualunque tipo, l’Agenzia delle entrate, può opporre:
- Provvedimenti cautelari di fermo;
- Provvedimenti estintivi, cd ‘compensazioni’, giustificati dall’esistenza di crediti verso
il contribuente che propone l’istanza di rimborso.
Ex art. 23, d.lgs. 472/1997 all’amministrazione finanziaria è concessa:
La facoltà di bloccare temporaneamente l’erogazione di rimborsi, a tutela della
realizzazione di propri crediti, vantati nei confronti del creditore del richiedente il
rimborso. Il credito a garanzia del quale la sospensione del rimborso può operare è
indicato in un credito per sanzioni; anche se la giurisprudenza ritiene che
l’operatività possa estendersi anche a crediti dell’amministrazione per tributi e
interessi.
Il potere di sospensione ha una funzione cautelare, risolvendosi in una misura tesa
a garantire il futuro soddisfacimento del credito erariale mediante compensazione.
Non è richiesta una particolare situazione di pericolo circa la riscossione del
credito.
La regola della compensazione: può essere pronunciata assumendo a proprio
presupposto un atto di irrogazione della sanzione che sia divenuto definitivo per
omessa impugnazione o a seguito della formazione di un giudicato di contenuto
negativo per il ricorrente. È quindi necessario che il provvedimento sanzionatorio
sia definitivo, ma che la pretesa creditoria dell’amministrazione finanziaria non sia
stata ancora soddisfatta mediante riscossione.
➔ Ci potranno essere casi in cui, due crediti contrapposti, anche se disomogenei
nell’oggetto (quello vantato dall’amministrazione può riguardare solo sanzioni), si
riferiscano allo stesso tributo, e casi in cui i due crediti riguardino tributi diversi.
Oggetto di entrambi i provvedimenti possono essere crediti del contribuente, non
solo esposti in dichiarazione, ma anche derivanti da pagamenti indebiti o da diritti di
restituzione di somme non da indebito: la generalità della previsione della
disposizione non autorizza limitazioni.
‘Amministrazione finanziaria’= titolare del gettito dei tributi e delle relative sanzioni,
e responsabile delle connesse obbligazioni restitutorie; tutti gli apparati
amministrativi che gestiscono tributi con gettito destinato allo stato, che possono
assumere sia la veste di ente creditore, che quella di ente debitore; l’unitarietà
dell’amministrazione finanziaria statale tuttavia non impedisce di rilevare come a
ciascuno dei due istituti possano concorrere uffici diversi: ○ nell’ambito della
compensazione → è individuato l’ufficio competente, espressamente; ○ a proposito
della sospensione → è indeterminato il soggetto cui si deve la sospensione.
L’indicazione della competenza esplicitata per la compensazione deve valere
anche per la sospensione del pagamento → competenza dell’ufficio competente
per il rimborso (anziché quello titolare del credito per sanzione).
a) Atto di contestazione
Ex art. 16, d.lgs. 472/1997 → conferma l’autonomia della sanzione, contemplando un atto
autonomo di contestazione della sanzione, a cui l’ufficio deve ricorrere quando l’illecito,
emerso nel corso dell’attività di controllo, non ha un immediato riflesso in termini di
accertamento o di riscossione. La disciplina normativa è estremamente garantista; l’atto di
contestazione infatti deve rispondere ad una serie di requisiti formali e avere contenuto
estremamente ampio:
È un atto recettizio dell’ufficio impositore competente all’accertamento, imputabile
al suo legale rappresentante, e non può essere redatto e notificato dai soggetti che
effettuano le attività di controllo e che scoprono gli eventuali illeciti;
non coincide con il processo verbale di constatazione.
Produce 3 tipologie di effetti, alternative tra loro, che dipendono dal comportamento
che il trasgressore e i coobbligati solidali assumono dopo la notifica dell’atto, in un
unico lasso di tempo, cioè quello previsto per la proposizione del ricorso
giurisdizionale; il tempo concesso al trasgressore per compiere le sue scelte è in
genere di 60 giorni, ma può essere più lungo, laddove per qualunque motivo, il
termine per proporre ricorso sia più lungo:
1. Definizione agevolata: il trasgressore, o il coobbligato, può definire in via agevolata
i rilievi contestati, pagando le somme indicate nell’atto, che comportano:
una significativa riduzione rispetto alla sanzione edittalmente prevista
→ a 1/3 dell’irrogato, con il limite minimo di 1/3 dei minimi edittali;
oltre all’inapplicabilità delle sanzioni accessorie.
2. Deduzioni: il trasgressore, o il coobbligato, può presentare deduzioni difensive (=si
realizza una partecipazione attiva del trasgressore al procedimento): entro il termine di
decadenza di 1 anno (riducibile alla metà per le ipotesi ex art. 16 bis, d.lgs. 472/1997)
l’ufficio competente può:
irrogare la sanzione con atto motivato, a pena di nullità, anche
sulle deduzioni;
desistere dall’attività sanzionatoria.
3. Ricorso giurisdizionale: se il trasgressore non definisce e non presenta
deduzioni difensive l’atto di contestazione diventa ex tunc provvedimento
impugnabile, come atto di irrogazione: entro il termine di decadenza di 60 giorni
(salvo cause di sospensione) dalla notificazione, deve essere proposto ricorso
giurisdizionale alla commissione tributaria provinciale.
➔ Ciascuna delle 3 alternative deve essere percorsa nel termine di 60 giorni, decorso il
quale l’atto di contestazione, da atto istruttorio e di possibile avvio del contraddittorio,
diventa inoppugnabile (=definitivo).
NB. Ex art. 16 co. 5 → stabilisce una prevalenza delle deduzioni istruttorie sul ricorso
giurisdizionale, che sarà:
• Inammissibile se preceduto dalle deduzioni e il trasgressore potrà poi impugnare
l’atto di irrogazione;
• Improcedibile, se alla sua proposizione farà seguito la tempestiva presentazione
delle controdeduzioni.
b) Atto di irrogazione
Ex art. 17, d.lgs. 472/1997 (in deroga all’art. 16) → quando le sanzioni sono collegate al
tributo, l’irrogazione deve essere contestuale all’atto di accertamento (=irrogazione
immediata), motivato a pena di nullità, applicandosi in questo caso la normativa
sull’accertamento, con consequenziale omissione dell’atto di contestazione.
Trasgressore e coobbligato perdono la possibilità di accedere ad un contraddittorio
procedimentale specifico sulle sanzioni, ma conservano la possibilità di addivenire alla
definizione agevolata, entro il termine in cui potrebbe essere proposto ricorso.
Definizione e ricorso avverso la sanzione sono incompatibili, mentre la definizione
agevolata delle sanzioni non impedisce di impugnare l'atto impositivo collegato; in caso di
accoglimento del ricorso, le sanzioni, ormai definite e pagate, non vengono rimborsate.
Le sanzioni che si riferiscono ad illeciti commessi nella fase di riscossione (=omesso o
ritardato pagamento) sono suscettibili di irrogazione immediata, tramite iscrizione a ruolo,
anche se conseguente alla liquidazione della dichiarazione e sempre con omissione
dell’atto di contestazione. In questo caso viene negata anche la definizione agevolata →
disparità di trattamento è giustificata dal fatto che, anche se l’inadempimento all’obbligo di
versamento viene rilevato nell’ambito dei controlli, il trasgressore può definire i rilievi in via
breve, con riduzione della sanzione, quando, prima dell’iscrizione a ruolo, riceve l’avviso
bonario.
NB. Principale problema posto dall’irrogazione immediata (sempre contestuale ad atti
funzionali alla riscossione o all’accertamento): la contestualità non crea problemi finché
trasgressore e contribuente coincidono, mentre è difficile da ipotizzare quando i due
soggetti sono diversi (=problema di carattere soggettivo). Se è possibile concepire un
unico atto di accertamento e di irrogazione destinato e notificato a soggetti diversi, la
stessa conclusione non può trarsi per l'iscrizione a ruolo, che distingue per ciascun
soggetto le somme dovute.
Il collegamento tra irrogazione della sanzione e atti impositivi, che si verifica in caso di
irrogazione immediata, consente di ottenere la riduzione delle sanzioni attraverso diversi
istituti, ulteriori rispetto alla definizione agevolata (→ riguarda le sole sanzioni):
Accertamento con adesione= consente la riduzione a 1/3 del minimo edittale;
Acquiescenza= riduzione a 1/3 dell’irrogato;
Mediazione (filtro preliminare al processo)= riduce la sanzione al 35% del minimo;
Conciliazione (istituto che determina l’estinzione del processo)= riduzione al 40%;
Conciliazione in grado di appello= riduzione al 50%.
2. Profili comuni
Ex art. 20, d.lgs. 472/1997 → gli atti di contestazione e irrogazione immediata devono
essere notificati:
nel termine decadenziale del 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in
cui la violazione è avvenuta* → si applica agli atti sanzionatori che puniscono
violazioni distinte dall’accertamento del tributo.
o nel diverso termine previsto per l’accertamento → ipotesi che si riferisce alle
violazioni suscettibili di irrogazione immediata.
* Nello stesso termine deve essere reso esecutivo il ruolo con cui avviene l’irrogazione
immediata: si pone quindi un problema di coordinamento con l’art. 25, d.p.r. 602/1973
(fissa termini di decadenza più brevi e riferiti non più all’esecutività del ruolo, ma alla
notificazione della cartella di pagamento), quando le sanzioni sono comprese tra le
somme dovute in base all’attività di liquidazione della dichiarazione.
➔ Il conflitto potrebbe essere risolto con le prevalenza dell’art. 25, anche perché nella
nozione di “diverso termine per l’accertamento” si può ricomprendere il termine
decadenziale previsto per la conclusione delle procedure di liquidazione e di
controllo formale; la sanzione iscritta a ruolo è comunque riscuotibile in via
esecutiva solo dopo la decisione di I° grado della commissione tributaria.
Le commissioni tributarie di prima istanza sono di regola provinciali, quelle di appello sono
regionali (salvo quelle insediate nelle province di Trento e di Bolzano), ma è prevista ed in
parte attuata una dislocazione territoriale più diffusa, specie con riguardo a sezioni
staccate della commissione tributaria regionale.
Ciascuna commissione è composta da un presidente e da sezioni, cui sono assegnati un
presidente, un vice presidente, e non meno di quattro giudici.
Il collegio giudicante, presieduto dal Presidente o dal vice presidente, si compone di tre
giudici; le competenze processuali sono generalmente riservate al collegio, solo
episodicamente, in casi indicati, sono previsti compiti del singolo giudice o provvedimenti
monocratici.
L’assistenza e la collaborazione nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali sono assicurate
dagli uffici di segreteria delle commissioni tributarie, cui sono preposti, con compiti
individuati in funzione della qualifica rivestita, dipendenti del Ministero dell'Economia e
delle finanze, inclusi in una particolare dotazione.
La caratterizzazione delle commissioni tributarie come organi giurisdizionali composti da
giudici che, ancorché non legati allo stato da un rapporto di pubblico impiego di ruolo,
hanno tuttavia uno status giuridico ben definito, garanzie di inamovibilità e di indipendenza
dal potere esecutivo, cui pure sotto l'aspetto organizzativo sono legati, si deve soprattutto
a quella che viene considerata come la principale innovazione della riforma del 1991/1992,
e cioè l'introduzione di un organo di autogoverno, il consiglio di presidenza della Giustizia
tributaria, dotato di autonomia contabile. Sul piano ordinamentale, una giurisdizione che
pure non trova posto nella disciplina costituzionale della magistratura, acquista così piena
dignità e parità di trattamento con le giurisdizioni ivi considerate, assicurando ai propri
componenti che i provvedimenti concernenti la propria situazione giuridica (dalla nomina ai
provvedimenti disciplinari ai conferimenti di incarichi ai trasferimenti di sede alle
combinatorie di decadenza) siano presi da un organo che non è influenzato dal potere
esecutivo, ed in particolare dal ministero cui compete gran parte del gettito sul quale le
commissioni tributarie sono chiamate a decidere.
Il consiglio dura in carica quattro anni, ed è composto da 11 membri elettivi, scelti dalla
totalità dei giudici tributari, che esprimono un voto personale, diretto e segreto, e da 4
componenti eletti dal Parlamento (due dal senato e due dalla camera, con votazione a
maggioranza assoluta dei componenti); il consiglio elegge al proprio interno presidente (di
provenienza parlamentare) e due vicepresidenti, ed ha compiti di grande rilievo, oltre quelli
ora menzionati, esprimendo anche pareri consultivi sullo stato economico dei giudici
tributari, sugli atti normativi che hanno attinenza con la giurisdizione tributaria, sulla
ripartizione di fondi tra le commissioni tributarie. Di grande importanza sono l’attività di
indirizzo sui criteri di formazione dei collegi giudicanti, di ripartizione dei ricorsi tra le
sezioni, l'attività propositiva finalizzata a migliorare l'efficienza della giustizia tributaria, ed
in particolare l’assidua promozione di iniziative volte a permettere la formazione e
l’aggiornamento professionale dei giudici tributari.
3. La tecnica di tutela
Nella quasi totalità dei casi, il processo tributario viene avviato dal soggetto destinatario di
un atto o di un comportamento da parte delle amministrazioni finanziarie (per
amministrazioni finanziarie si intendono tutte quelle entità, di natura sostanzialmente
pubblica, preposte all'attuazione dei tributi, siano poi esse titolari, o meno del gettito) e
l'azione si dirige proprio verso quell’atto o comportamento, in un termine decadenziale di
60 giorni.
La disposizione che, sotto questo aspetto, ha una funzione assolutamente centrale è l'art.
19, la cui funzione è quella di stabilire, elencandoli in maniera esplicita, contro quali atti il
ricorso alla commissione tributaria può essere autonomamente proposto; essendo poi
completata la disposizione da una previsione indeterminata e residuale (si può ricorrere
contro ogni altro atto, diversamente da quelli elencati, ma per il quale la legge ne preveda
l’autonoma impugnabilità), si è parlato di tassatività degli atti impugnabili, e l'elenco è stato
inteso talora in senso rigido, escludendo applicazioni estensive o analogiche e
riconoscendo portata integrativa dell'elenco alle sole disposizioni di legge espressamente
dichiarative dell’impugnabilità autonoma di atti diversi.
Si tende oggi a preferire una valutazione diversa dell'art. 19, comma 1, e a prendere atto
che la norma oggi preposta a definire i confini della giurisdizione tributaria è l'art. 2.
Stabilita la natura tributaria delle controversie l'art. 19 va letto e interpretato in modo tale
da rendere tendenzialmente possibile lo sviluppo più completo delle forme di tutela.
E’ essenziale osservare che l'art. 19, comma 1, prevede gli atti suscettibili di autonoma
impugnazione, ritenuti dal legislatore idonei a permettere l'accesso diretto al giudice
tributario. Non si deve pensare che contro atti diversi da quelli elencati nell'art. 19, comma
1 e nelle disposizioni di legge che stabiliscono altri atti impugnabili non sia data tutela (il
che violerebbe l'art. 113 cost. che vuole sindacabile dal giudice tutti gli atti della pubblica
amministrazione); i destinatari di tali atti avranno tutela non immediata, non autonoma, ma
connessa, o differita.
Si delinea una nozione diversa rispetto alla tassatività: quella