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L’idea di un’Europa Comunitaria viene realizzata negli anni successivi alla Seconda Guerra
Mondiale al fine di impedire il riprodursi delle situazioni politiche, economiche e militari che
avevano portato il mondo a quel disastro. Accanto all’idea di un’Europa unita vi era innanzitutto la
necessità di un legame stretto e definitivo tra Francia e Germania da sempre al centro della
patologia dei rapporti tra Paesi europei, tanto è vero che Churchill all’Università di Zurigo dopo
aver espresso il suo favore alla creazione degli “Stati Uniti di Europa” affermava che per fare ciò
era necessaria una partnership tra Francia e Germania. I problemi più urgenti ai quali far fronte
riguardavano, da un lato l’assetto territoriale e militare dell’Europa centrale, dall’altro le vicende
economiche soprattutto dell’industria carbosiderurgica presente nei due bacini della Ruhr e della
Saar. In risposta a tali preoccupazioni ebbero origine la NATO e la CECA: entrambe miravano a far
entrare i singoli Paesi membri in strutture collettive che in loro vece si occupassero
rispettivamente della difesa del territorio e della gestione dell’industria del carbone e dell’acciaio.
Il Trattato CECA fu firmato a Parigi nel 1951 da Francia, Germania, Italia e Benelux ed entrò in
vigore nel ’52, l’obiettivo della CECA (come emerge dalla dichiarazione del ministro degli esteri
francese Shuman) era quello di porre l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di
acciaio sotto il controllo e la gestione di un’organizzazione aperta alla partecipazione degli altri
Paesi europei→ obiettivo economico, ma anche politico (l’integrazione tra i paesi europei già
aleggiava come obiettivo da realizzarsi con gradualità). La CECA era così composta:
• Alta Autorità→ organo di gestione (composto da personalità indipendenti) dotato di
un’ampia indipendenza deliberativa rispetto ai Paesi membri e di un vasto potere
decisionale nei cfr. delle imprese del settore.
• Consiglio speciale dei ministri→ composto dai rappresentanti degli stati membri e avente
competenze di controllo.
• Assemblea comune→ composta da membri designati dai Parlamenti nazionali.
• Corte di Giustizia
Successivamente il processo di integrazione subì una battuta di arresto, dato il fallimento
dell’iniziativa di creare una Comunità Europea di difesa (CED) il cui trattato, fondato sull’idea di
una forza armata europea collegata ad un’unitaria struttura istituzionale, non ebbe il consenso del
Parlamento francese. Il processo tuttavia continuò focalizzandosi sull’idea di un mercato comune
liberalizzato (ai fini di un graduale avvicinamento delle politiche economiche degli stati membri in
vista di una futura unione sempre più stretta) e di iniziative comuni nei settori dei trasporti e
dell’energia nucleare. Si delineò così accanto alla CECA anche la Comunità economica europea
(CEE) e la Comunità europea per l’energia atomica (CEEA o EURATOM) i cui Trattati istitutivi
furono firmati a Roma nel 1957 ed entrarono in vigore nel 1958.
Dal punto di vista strutturale le tre comunità su citate ebbero istituzioni almeno in parte separate,
comuni erano la Corte di giustizia e l’Assemblea mentre l’Alta Autorità caratterizzava solo la CECA
in quanto CEE e CEEA avevano una Commissione, così come distinto, per ogni organizzazione, era il
Consiglio dei Ministri. Tale assetto fu mantenuto fino al 1967 quando entrò in vigore il “Trattato
sulla fusione degli esecutivi” (T. Bruxelles) il cui obiettivo era quello di far funzionare le comunità
in maniera semplificata tanto è vero che istituisce un Consiglio unico ed una Commissione unica
delle Comunità europee→ da questo momento le Comunità rimangono sì distinte e con le diverse
competenze ad esse attribuite dai tre trattati istitutivi, ma funzionavano con organi comuni.
La crescita della struttura comunitaria e soprattutto la sua presenza sempre più attiva sia nella
sfera economica degli stati che in quella giuridica dei singoli, facevano avvertire da un lato il
bisogno di rendere più democratico il processo partecipativo e decisionale, dall’altro l’esigenza di
una più visibile cooperazione politica. Tutto ciò sfociò nell’iniziativa della elezione a suffragio
universale del Parlamento realizzata nel 1979.
Nella seconda metà degli anni Ottanta segnarono una vistosa accelerazione verso l’integrazione
dei mercati:
• Il Libro bianco della Commissione sul mercato interno diffuso→ fondato sulla logica
dell’integrazione negativa che consiste nell’abolizione degli ostacoli diretti e indiretti agli
scambi.
• L’atto Unico Europeo→ che ha come obiettivo quello di rafforzare il mercato europeo e di
estendere le competenze comunitarie; integra la logica sopra esposta di nuovi campi di
azione e di spinte rilevanti verso l’integrazione positiva in materia di ambiente, trasporti,
energia, telecomunicazioni; modifica il processo decisionale che vede ridotta la sua
dimensione contrattuale attraverso un uso più frequente del voto a maggioranza in seno al
Consiglio e con un significativo coinvolgimento del Parlamento. Il termine unico sta a
significare che il Trattato riunisce in un unico testo sia le disposizioni concernenti le
comunità sia quelle in materia di cooperazione politica europea. Con l’AUE si consolida la
dimensione sociale e parallelamente trova avallo formale anche l’obiettivo della coesione
economica e sociale.
Infine, negli anni ’80, il ruolo della Corte di giustizia consacra la Comunità di diritto come valore
fondamentale e porta l’integrazione giuridica ad un livello più avanzato rispetto ad ogni altro
campo di azione comunitaria. La dialettica con alcune giurisdizioni nazionali sancisce anche il
consolidarsi nelle giurisprudenze nazionali sia dell’effetto diretto delle norme comunitarie sulla
posizione giuridica dei singoli, sia del primato delle stesse sulle norme nazionali confliggenti.
Con il Trattato di Maastricht (T. sull’Unione Europea) firmato nel’92 ed entrato in vigore nel ’93, il
quadro finora delineato sull’Europa comunitaria subisce una modificazione ed un rilancio.
L’Unione resta fondata sulle Comunità europee di cui conserva interamente l’aquis -art. 2 tue-
insieme di diritti, obblighi ed obiettivi delle Comunità) integrandolo con nuove politiche ed il
rafforzamento di quelle già esistenti nonché con nuove forme di cooperazione. Non si tratta di una
nuova organizzazione internazionale che si aggiunge alle Comunità, tanto meno le sostituisce (può
essere immaginata come un contenitore). Il Trattato si compone di tre parti e per comprenderne
la struttura si utilizza l’immagine di un tempio greco con tre pilastri, dobbiamo immaginare per
ogni pilastro un diverso tipo e grado di integrazione europea.
1° pilastro→ è definito “comunitario” e contiene le disposizioni che hanno modificato i tre Trattati
esistenti. Tra le varie modifiche si pensi alla perdita della connotazione economica della CEE che si
trasforma nella Comunità europea (CE), con l’intento di avvicinarsi sempre più al cittadino e di
instaurare una reale solidarietà tra popoli (in tale occasione venne riconosciuta a tutti i cittadini
degli stati membri una cittadinanza europea). Inoltre vennero inseriti nuovi settori di competenza
sui quali già da tempo indirettamente incideva la regolamentazione europea (tutela della salute,
del consumatore, delle reti transeuropee, dell’industria). Risultano completamente riscritti i
capitoli dedicati alla politica sociale: istruzione, formazione professionale etc… Vengono snellite le
procedure, rese più democratiche e viene maggiormente coinvolto il Parlamento europeo. Infine,
viene definito l’obiettivo di procedere, attraverso tre fasi, all’instaurazione dell’Unione economica
e monetaria sostituendo le monete nazionali con l’euro.
2°pilastro→ è costituito dalla politica estera e di sicurezza comune: non si tratta di una semplice
cooperazione tra Stati membri, ma di una politica comune che si collocava all’interno dell’Unione,
pur restando al di fuori del quadro comunitario.
3°pilastro→ è costituito dalla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni: si tratta
di una mera cooperazione tra gli Stati membri nella politica di asilo e di immigrazione, nella lotta
contro la tossico dipendenza e la frode, una cooperazione circa la lotta e la prevenzione del
terrorismo e di altre forme di criminalità internazionale.
Nel 2° e 3° pilastro parliamo di un'integrazione molto più debole, siamo più nel campo della
cooperazione internazionale o meglio “intergovernativa” che nella vera e propria integrazione
comunitaria. Basti pensare ad esempio che nell'ambito della politica estera e di sicurezza comune
non è previsto un sindacato giurisdizionale della Corte di Giustizia, salvo dei casi eccezionali.
Un coinvolgimento pieno e rilevante del Parlamento Europeo lo riscontriamo solo in relazione al
pilastro comunitario, molto più debole nel 3°pilatro, del tutto marginale nell'ambito del 2° pilastro.
I protagonisti del 2° e del 3° pilastro sono gli Stati e le istituzioni (comunitarie e non) che li
rappresentano, Consiglio e Consiglio europeo.
Un sistema di tutela giurisdizionale completo e incondizionato c'è soltanto nell'ambito del sistema
comunitario, è inesistente nel 2°pilastro, nell'ambito del terzo pilastro è più debole perché, ad
esempio, per alcune competenze è richiesta la preventiva accettazione da parte degli stati
evocando sistemi di tutela giurisdizionale di altre organizzazioni internazionali.
Dal punto di vista dell’assetto strutturale non erano previste istituzioni dell’Unione che non
fossero quelle delle Comunità, non era molto facile, dunque, qualificare giuridicamente l’Unione e
neppure dare una definizione propria, era sicuro solo che essa era fondata sulle tre Comunità,
integrate dalle politiche e forme di cooperazione instaurate con il trattato di Maastricht. E’
un’organizzazione internazionale sui generis, cioè nasce nel solco delle tradizionali organizzazioni
internazionali, ma presenta caratteristiche non riscontrabili in nessun altra, il cui obiettivo
principale è quello dell’integrazione fra popoli europei. Non è uno stato, non è una confederazione
di stati, anche se aspira a diventarci. Il professor Conforti, la definiva la meno internazionale delle
organizzazioni internazionali, proprio per sottolineare le sue peculiarità. Quindi possiamo
sicuramente dare questa qualificazione di organizzazione internazionale anche se non è precisa
innanzitutto perché si basa sulle competenze che gli stati decidono di attribuire all’UE. E’ dotata di
una propria soggettività, di una personalità giuridica anche sul piano internazionale, quindi può
avere rapporti con altre organizzazioni internazionali, con altri stati terzi, anche se questo non fa
venire meno la personalità dei singoli stati. La diversità rispetto alle altre organizzazioni è data
innanzitutto dalla composizione e dal coinvolgimento delle istituzioni nella formazione degli atti
dell’ue, dall’incidenza del diritto ue sul diritto interno (nessun’altra organizzazione internazionale
ha la stessa incidenza sugli ordinamenti nazionali come l’ue), infine dal sistema di tutela
giurisdizionale, che non trova eguali in altre organizzazioni.
Nel 2003 entrò in vigore il Trattato di Nizza che non apporta parecchie novità al TUE, ma articola
meglio l’intervento del Consiglio nell’ipotesi di violazione dei principi fondamentali di libertà e
democrazia, apporta novità al meccanismo della cooperazione rafforzata, modifica infine le
modalità di decisione delle istituzioni. Al Consiglio europeo di Nizza viene proclamata la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea preparata dai rappresentati dei Parlamenti nazionali, del
Parlamento europeo, della Commissione e dei Capi di Stato e di Governo che inizialmente non
ebbe un riconoscimento formale vincolante come i trattati, ma ciò non le impedì di avere efficacia,
tanto è vero che veniva utilizzata per interpretare i principi fondamentali. Essa sancisce un
complesso di diritti fondamentali articolato sui valori della dignità, della libertà, eguaglianza,
giustizia e solidarietà e il suo scopo non era quello di innovare, ma di rendere solenne
l’affermazione di alcuni valori destinati ad ispirare il vivere insieme dei popoli europei.
Nel 2004 fu firmato il progetto per il “Trattato-Costituzione” con l’intento di dotare l’Europa di un
unico testo-costituzione che sostituisse, eliminandoli, i precedenti trattati; il progetto non trovò
applicazione pratica perché non fu ratificato da Francia ed Olanda.
Nel 2007 fu indetta una Conferenza intergovernativa grazie alla quale si tradussero, nella firma di
un Trattato, le linee della nuova riforma: si fa riferimento al Trattato di Lisbona firmato nel 2007
ed entrato in vigore nel 2009 che comportò una “successione” dell’Unione europea alla Comunità
europea, ad una revisione del Trattato sull’Unione europea (TUE) e del Trattato istitutivo della
Comunità europea (CE) la denominazione del quale è mutata in “Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea” (TFUE). Con questo Trattato (Lisbona) il terzo pilastro viene definitivamente
comunitarizzato, la Carta di Nizza riceve riconoscimento formale vincolante con lo stesso rango dei
Trattati, prevede che l’unione aderisce alla CEDU e che i diritti della convenzione fanno parte dei
diritti dell’unione in quanto principi generali, viene data una più evidente e formale attenzione alla
tutela dei diritti fondamentali; viene prevista una più incisiva partecipazione del Parlamento
europeo ai Parlamenti nazionali nel processo decisionale; viene previsto un Presidente del
Consiglio europeo di più lunga durata. Nonostante apporti queste modifiche il Trattato in
questione è pur sempre un trattato di “revisione” ed è l’ultimo che si è susseguito nel tempo ed ha
per sempre messo fine all’idea di una costituzione europea.
Dalle origini del processo di integrazione europea ad oggi si è passati da 6 paesi fondatori a 28 stati
membri si tratta di un processo rilevante che ha portato l’UE a condurre la crescita economica e a
rafforzare l’integrazione nel continente europeo. L’adesione ha la sua base giuridica nell’art. 49
TUE che ci descrive le condizioni e la procedura da seguire→ “Ogni Stato europeo che rispetti i
valori di cui all'articolo 2 e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro
dell'Unione”. La domanda di adesione può essere presentata soltanto da uno stato Europeo,
espressione che in questo caso assume un significato più ampio: implica delle derivazioni di
carattere non solo geografico, ma anche storico, culturale in vista della realizzazione di un
progetto comune di integrazione.
Il paese candidato deve altresì soddisfare i criteri di Copenaghen definiti dal Consiglio europeo
svoltosi a Copenaghen nel’93:
• criterio giuridico→ capacità di assumere gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione ivi
compresi gli obiettivi politici, economici e militari.
• politico→ presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i
diritti dell’uomo, il rispetto delle minoranze.
• economico→ esistenza di un’economia di mercato affidabile e capacità di far fronte alle
forze del mercato e alla pressione concorrenziale.
A questi, si aggiunge un quarto criterio (aggiunto in occasione del vertice del consiglio europeo nel
1995 a Madrid) → il paese deve essere capace di applicare il diritto dell’UE in modo efficace,
attraverso delle strutture amministrative e giudiziarie adeguate.
Queste sono le condizioni che oggi trovano applicazione, ma nell’art. 49 si prevede indirettamente
la possibilità del Consiglio di aggiungere dei nuovi criteri, modificando il quadro vigente: es. il
problema attuale è quello di introdurre degli obblighi più stringenti per quanto riguarda il rispetto
dell’equa ripartizione della responsabilità tra gli stati per fronteggiare le crisi, e quindi
sostanzialmente, una maggiore valorizzazione del principio di solidarietà ai fine dell’adesione,
perché in virtù del problema dell’immigrazione, non è giustificato che i nuovi stati non si sentano
obbligati a fare la loro parte per risolvere la crisi umanitaria degli ultimi anni ed aiutare i paesi che
si trovano imbrigliati in questo problema (es: Italia).
La procedura di adesione all’ UE prende avvio dalla domanda dallo stato interessato che viene
trasmessa al consiglio e comunicata ai parlamenti nazionali ed al Parlamento europeo. Il consiglio
deve deliberare all’unanimità ( tutti gli stati dell’unione devono approvare), previa consultazione
della commissione (che rende un parere obbligatorio ma non vincolante) e previa approvazione
del parlamento europeo a maggioranza dei membri (l’approvazione del parlamento europeo si
sostanzia in una sorta di diritto di veto). Il parlamento europeo se da il suo consenso, si può
continuare con il processo di adesione, in caso di dissenso si arresta il processo.
Dopo l’accoglimento della domanda di adesione (il richiedente assume lo status di Paese
candidato all’adesione) si apre una seconda fase che ha ad oggetto la negoziazione e la
conclusione dell’accordo: l’atto di adesione. Questa parte di trattativa viene condotta
parallelamente ad una fase di SCREENING sul rispetto degli obblighi dell’UE (viene sostanzialmente
offerta un’assistenza per valutare se si è in grado di conformarsi agli obblighi dell’UE).
L’accordo di adesione, una volta che viene approvato, deve essere sottoscritto da parte di tutti gli
stati contraenti che dovranno RATIFICARE l’accordo, rispettando le proprie procedure
costituzionali. Il parlamento, da questo punto di vista si è arrogato un potere autonomo, di fare un
ultimo controllo prima della firma finale. Questo processo non è automatico, infatti, non
necessariamente si traduce nell’adesione del paese candidato all’ UE.
Il periodo di negoziato e screening può durare anche molto tempo e potrebbe anche non tradursi
in un vero accordo di adesione: un esempio è fornito dalla Turchia che ha acquisito lo status di
paese candidato all’UE nel 1999 e ha avviato le trattative nel 2005 però si trova ancora in una
situazione di limbo, proprio perché non si considera uno stato affidabile sotto il profilo di alcuni
valori propri dello stato di diritto, mentre invece rispetta il criterio economico e il criterio politico.
IL RECESSO
I trattati hanno durata illimitata, cioè una volta che si entra a far parte dell’UE, l’adesione alla
stessa è illimitata, a meno che lo stato non decida di esercitare il diritto di recesso. Sin dai trattati
Di Roma, gli stessi hanno sempre avuto durata illimitata, a differenza dl trattato sul carbone e
l’acciaio che sin dalle origini era stato stipulato per una durata di 50 anni, infatti non ha più
efficacia dal 2002.
Il diritto di recesso viene previsto e disciplinato oggi dall’art 50 TUE, norma introdotta con il
Trattato di Lisbona prima del quale non era prevista una disposizione specifica. La dottrina infatti
si divideva: secondo alcuni il processo di appartenenza all’ue era irreversibile, mentre secondo altri
l’uscita era sempre possibile→ questi ultimi ritenevano che gli stati membri avessero la possibilità
di recedere in forza dell’art. 62 della Convenzione di che consentiva, in mancanza di una regola ad
hoc, l’applicazione della regola rebus sic stantibus; la CdV riconosce il diritto di recesso anche
quando vi sia il consenso di tutte le parti ovvero quando la facoltà di esercitarlo si ricava
implicitamente dei trattati.
Quanto alla procedura → ai sensi dell’art. 50 ogni Stato membro può decidere, conformemente
alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione, a tal fine notifica (non ha l’effetto di
sospendere l’applicazione del diritto europeo) tale intenzione al Consiglio europeo alla luce dei cui
orientamenti, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità
del recesso. L'accordo è negoziato conformemente all'art. 218 par. 3 TFUE con la differenza che lo
stato recedente non prenderà parte all’adozione della decisione in seno al consiglio. Esso è
concluso a nome dell'Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata (72% dei
membri del consiglio partecipanti e che rappresentino il 65% della popolazione di tali stati) previa
approvazione del Parlamento europeo. Non necessita della ratifica degli altri stati perché è un
accordo tra unione e stato recedente. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a
decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo,
due anni dopo la notifica della richiesta ( questa rappresenterebbe un’ipotesi traumatica perché
cessano di avere efficacia i trattati conclusi dallo stato recedente, ma non sono disciplinati i
rapporti tra lo stato recedente e l’UE), salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro
interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine. Se lo Stato che ha receduto
dall'Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui
all'articolo 49. Infine, il recesso non può essere parziale dunque riguardare un solo trattato,
riguarda tutti i trattati e comporta la perdita dello status di stato membro.
Prima del referendum del Regno Unito era difficilmente ipotizzabile che uno stato decidesse di
non far più parte dell’Unione, l’esito di questo referendum favorevole alla Brexit ha sollevato una
serie di questioni in merito all’esercizio di tale diritto:
Forme di applicazione differenziata territoriale → l’art. 355 TFUE ne disciplina due tipologie: 1) la
normativa dell’unione (nella sua interezza o parzialmente) può non trovare applicazione in parti
del territorio metropolitano di taluni stati membri o in territori soggetti alla sovranità di uno stato
membro o ad essa riconducibili in base ad un particolare rapporto giuridico (es. isola di Man,
Normanna, Faer Oer); 2) è previsto un regime speciale per i territori che pur essendo parte
integrante di alcuni stati membri sono situati fuori dal continente europeo (Guadalupa, Azzorra
etc).
Ci sono due ipotesi, disciplinate dai trattati, di c.r. che presentano delle particolarità rispetto alla
disciplina comune:
• la cooperazione strutturata permanente → è prevista dall’art. 42 par. 6 TUE in materia di
missioni che l’UE può effettuare in materia di sicurezza e difesa comune, la disciplina è
dettata dall’art. 46 TUE ai sensi del quale: “gli stati membri che rispondono a criteri più
elevati in termini di capacità militari e che abbiano sottoscritto impegni più vincolanti ai fini
delle missioni più impegnative, instaurano una c.r.” notificando la loro intensione al
Consiglio e all’Alto rappresentante; il Consiglio la istituisce entro 3 mesi dalla notifica con
maggioranza qualificata. A differenza della c.r. generale questa è reversibile in quanto è
previsto espressamente sia il recesso volontario, sia la sospensione della partecipazione di
uno stato membro che non sia più in possesso dei suddetti criteri; inoltre non è previsto un
numero minimo di partecipanti.
il Protocollo sull’acquis di Shengen→ (Protocollo 19) Si tratta di accordi internazionali che hanno
portato all’abolizione dei controlli alle frontiere interne e che poi sono stati convertiti nell’ambito
della comunità nei trattati europei.
Le applicazioni pratiche delle c.r. sono poche sia per la complessità della procedura sia per la
resistenza degli Stati membri non partecipanti all’introduzione di forme di integrazione non
differenziata. Un esempio pratico è l’adozione del regolamento in materia di legge applicabile al
divorzio/separazione legale.
Nel 2017 è stato presentato un LIBRO BIANCO dalla commissione europea che prefigura 5 possibili
scenari in riferimento all’evoluzione dello scenario dell’ UE, nella quale rientra anche quello di
valorizzazione del sistema delle cooperazioni rafforzate e delle forme di integrazione differenziali,
per favorire il processo di integrazione europea→ Ciò è stato subito realizzato poiché si è eseguita
la prima cooperazione in materia di difesa, inoltre si è istituita la procura europea il cui compito è
quello di indagare e perseguire gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE.
LA CLAUSOLA DI FLESSIBILITA’
Si tratta di uno strumento normativo disciplinato dall’art. 352 TFUE che consente l’estensione
delle competenze dell’Unione; tuttavia non va inteso tanto come uno strumento che consente un
ampliamento delle competenze in senso formale, quanto piuttosto una base giuridica che
consente l’esercizio di poteri per la realizzazione di un’azione in materie non formalmente
attribuite alle competenze dell’Unione.
Essa consente di attenuare le rigidità che discendono dal principio delle competenze di
attribuzione, dunque quando un’azione appare necessaria per realizzare gli obiettivi dei trattati,
senza che i trattati abbiano previsto i poteri per realizzare questi obiettivi, in virtù di questa
clausola si può esercitare, adottando atti di diritto dell’Unione Europea (Regolamenti, direttive
decisioni), misure di carattere legislativo ovvero atti di portata generale.
Il ricorso a tale clausola ha sollevato inizialmente numerose critiche perché si riteneva che
aggirasse la formale procedura di revisione dei Trattati pregiudicando dunque la sovranità statale
nonché l’esigenza di democraticità del processo di integrazione europea. L’iniziale scetticismo è
stato poi superato grazie alle garanzie offerte dalla procedura per l’utilizzo della clausola (quali il
coinvolgimento di tutte le istituzioni e l’unanimità in senso Consiglio) e grazie alla previsione di
alcune condizioni di operatività della stessa come base giuridica di un atto, quali:
• nessun’altra disposizione dei Trattati deve attribuire alle istituzioni la competenza per
l’emanazione dell’atto stesso.
• l’atto non può violare i principi generali e in particolare il p. di attribuzione delle
competenze, di sussidiarietà, di proporzionalità. La clausola non può essere dunque
utilizzata per ampliare la sfera dei poteri al di là dell’ambito generale risultante dal
complesso delle disposizioni dei Trattati, soprattutto da quelle che definiscono i compiti e
le azioni dell’Unione, perché altrimenti si verificherebbe la modifica dei trattati al di fuori
della procedura per ciò prevista.
• non può alterare il riparto di competenze tra Unione e stati membri nel senso che non può
consentire che una competenza concorrente o complementare divenga esclusiva
dell’Unione.
• l’azione dell’Unione non dovrà essere solo proporzionata, ma risultare anche necessaria
nel quadro delle politiche stabilite nei trattati per realizzarne uno degli obiettivi
prospettati, spetterà al consiglio valutare la necessità dell’azione e a tal riguardo gode di
un’ampia discrezionalità.
• non può essere utilizzata per alterare l’identità dell’unione devono essere dunque
rispettati i principi che regolano la struttura istituzionale ed i rapporti interistituzionali.7
• il ricorso alla clausola deve essere compatibile con i principi generali dell’ordinamento che
includono i diritti e le libertà sanciti nella Carta dei diritti fondamentali e nella CEDU,
nonché con i principi enucleati dalla Corte di Giustizia (legittimo affidamento, certezza del
diritto ecc).
• non può essere utilizzata se i trattati escludono l’armonizzazione per un determinato
settore, perché la volontà degli stati è stata quella di intervenire non in maniera forte in
quel settore o ambito.
• non può essere utilizzata per disciplinare aspetti della politica estera e di sicurezza comune,
a dimostrazione che questo costituisce un settore particolare, sui generis, che presenta
delle discontinuità rispetto agli altri settori ed alle altre politiche.
Quanto alla procedura il Consiglio deve deliberare all’unanimità su una proposta della
Commissione preventivamente approvata dal Parlamento europeo (che dispone in questo caso di
un vero e proprio potere di veto). L’unanimità garantisce sì gli interessi dei governi nazionali, ma
anche l’efficacia dei risultati in quanto l’accordo di tutti gli stati membri su una determinata azione
assicura la sua concreta realizzazione. Nelle ipotesi in cui l’azione riguardi una materia di
competenza concorrente nella procedura svolgono un ruolo di controllo i Parlamenti nazionali.
A partire dal Vertice dei Capi di Stato tenutosi a Parigi nel’72, nel quale si decise di utilizzare in
maniera più ampia possibile tutte le disposizioni dei Trattati (compreso dunque quello che oggi è il
352 prima 252 TFUE), il ricorso alla norma in questione è divenuto molto più frequente ed ha fatto
si che si registrassero progressi importanti. La clausola ha permesso sia di ampliare le competenze
materiali sia ad introdurre strumenti nuovi all’interno di una competenza materiale già esistente.
Nel primo caso, si pensi alla politica dell’ambiente, a quella di protezione dei consumatori ecc che
sono state introdotte nei Trattati in occasione delle successive revisioni ricevendo così una base
giuridica specifica. Nel secondo caso si pensi ad esempio agli strumenti necessari per il
funzionamento del mercato unico ad es. il marchio comunitario, il diritto di un cittadino a restare
sul territorio di un altro stato membro dopo avervi svolto un’attività non salariata ecc.
N.B. La clausola di flessibilità consente che l’UE abbia potere di azione in relazione all’esercizio di
una competenza, laddove il trattato non disciplini appunto la competenza→ l’utilizzo di questa
clausola ha consentito dunque l’estensione delle competenze dell’ue in materie non formalmente
attribuite, tuttavia non bisogna pensare ad un ampliamento di competenze in senso formale
quanto alla previsione di un potere di intervenire per realizzare l’azione. Quindi l’UE interviene con
competenze che potremmo dire “sussidiarie” rispetto ad un determinato settore, nel rispetto
ovviamente di varie condizioni.
La teoria dei poteri impliciti è anch’essa uno “strumento” finalizzato all’attenuazione del principio
di attribuzione delle competenze, ma a differenza della clausola di flessibilità è di creazione
giurisprudenziale→ differenza sostanziale è che la teoria dei poteri impliciti presuppone che il
trattato disciplini una competenza in un determinato settore per l’esercizio di una determinate
azione, ma non espressamente il potere per realizzarla → dunque in virtù di questa teoria si evince
che i poteri di intervento dell’Unione non sono necessariamente circoscritti a quelli espressamente
sanciti nei trattati: le istituzioni europee devono poter beneficiare anche di quei poteri che
sebbene non codificati risultino indispensabili per l’esercizio delle competenze attribuite.
Nel caso dei poteri impliciti è la giurisprudenza che desume attraverso tecniche interpretative ciò
che implicitamente già c’è nei trattati, mentre per la clausola di flessibilità interviene il legislatore
dell’Unione all’unanimità. La corte di giustizia deve, attraverso la teoria dei poteri impliciti
ricavare un determinato potere implicitamente da quanto già previsto dal trattato; mentre la
clausola di flessibilità dovrebbe rappresentare un passo ulteriore che prevede un intervento
legislativo.
Quello di sussidiarietà è espressione del più generale principio di prossimità il quale comporta che
le decisioni siano prese il più vicino ai cittadini, è sancito dagli artt. 1 e 10 TUE e in entrambe le
disposizioni si esplica come corollario da un lato del principio di trasparenza, dall’altro della
partecipazione democratica alla vita dell’Unione; esso richiede la partecipazione attiva dei cittadini
nell’adozione delle decisioni da parte delle istituzioni che si concretizza, ad es., nelle consultazioni
che la Commissione svolge prima della presentazione delle proposte degli atti legislativi. Dunque,
a differenza del p. di sussidiarietà che consente di individuare l’autorità che meglio consente l’es.
della competenza concorrente, il p. di prossimità garantisce che siano sempre predisposti
meccanismi di partecipazione dei cittadini all’iter legislativo.
La disciplina relativa al rispetto ed al funzionamento del principio è contenuta nel Protocollo n°2
che individua precisi requisiti motivazionali di qualsiasi proposta di atto legislativo con riguardo
alla sussidiarietà consentendo un controllo ex ante (fase di formazione dell’atto) ed ex post
(quando l’atto è già stato adottato) → procedimentalizzazione del p. di sussidiarietà.
Quanto al controllo ex ante è la Commissione che per prima deve constatare il rispetto del
principio in questione perché avendo quasi un monopolio dell’iniziativa legislativa, il procedimento
normativo parte da essa; dunque è tenuta ad effettuare consultazioni prima di presentare la
proposta, verificare la necessità dell’intervento dell’unione dovrebbe redigere una scheda allegata
alla proposta legislativa nella quale inserisce gli indicatori che testimoniano l’opportunità
dell’intervento delle istituzioni europee. La Commissione è dunque tenuta a svolgere una
valutazione comparativa tra la capacità dello stato a perseguire anche solo in modo sufficiente
l’obiettivo dell’unione e quella dell’UE che se risulta migliore legittima il suo intervento.
L’art. 6 del Protocollo disciplina la PROCEDURA DI ALLARME PREVENTIVO (di controllo ex ante)→
la Commissione (ovvero il Consiglio per i casi in cui sono altri soggetti i titolari dell’iniziativa
legislativa) è tenuta a trasmettere ogni proposta legislativa ai parlamenti nazionali, consentendo
loro di formulare un parere motivato nel quale esporre le ragioni per le quali si ritiene che essi non
siano conformi al principio in esame. Ogni parlamento nazionale (nonché ogni camera dei
parlamenti nazionali) può presentare ai presidenti del parlamento europeo, della commissione e
del consiglio, entro 8 settimane, un parere motivato in cui dovrà motivare le ragioni per cui ritiene
che la proposta non è conforme al p. di sussidiarietà. Tale meccanismo produce effetti giuridici
solo se vengono raggiunte determinate soglie: considerato che ad ogni parlamento sono assegnati
due voti (nei sistemi bicamerali a ciascuna camera un voto), la prima soglia “del cartellino giallo” è
raggiunta con ¼ dei voti esprimibili dai parlamenti nazionali per gli atti relativi allo spazio di libertà,
sicurezza e giustizia; 1/3 per gli atti relativi alle altre materie. Se viene raggiunta una di queste due
soglie la commissione è tenuta a riesaminare la proposta e può decidere di modificarla, ritirarla
oppure mantenerla, ma in tale ultimo caso dovrà motivare perché la ritiene conforme al principio
di sussidiarietà. Qualora invece, nell’ambito di una procedura legislativa ordinaria, la maggioranza
semplice dei parlamenti nazionali sia contraria alla proposta, questa torna alla commissione che
deve riesaminarla e se decide di mantenerla la questione è rinviata agli organi legislativi e se il
consiglio a maggioranza del 55% dei suoi membri o il parlamento europeo a maggioranza dei suoi
voti ritengano la proposta contraria al principio in questione, la commissione deve abbandonarla
(cartellino arancione).
Quanto al controllo ex post (che prevede un coinvolgimento sempre maggiore dei parlamenti
nazionali) la Corte di giustizia può essere investita di un ricorso di annullamento contro un atto
legislativo per violazione del principio di sussidiarietà, il ricorso può essere promosso da uno stato
membro o, per il tramite di quest’ultimo, da un Parlamento nazionale o addirittura da una camera
di quest’ultimo → novità rispetto al passato che solleva qualche perplessità in quanto potrebbero
esserci divergenze di vedute ad esempio tra le due camere ed il conseguente il rischio che vengano
proiettate dinanzi alla Corte di Giustizia. Inoltre i parlamenti nazionali impugnando un atto per la
violazione di tale principio condizionano i governi nazionali essendo questi ultimi, espressione dei
parlamenti. Dunque, il rischio è quello della sovrapposizione dei parlamenti nazionali ad altre
istituzioni, ma si è comunque deciso di rafforzare il ruolo degli stessi. Nell’ottica della
democratizzazione europea si poteva pensare di potenziare il ruolo del parlamento europeo dato
che quest’ultimo non prevede una suddivisione per appartenenza di stato e di conseguenza e è più
semplice che vengano portata avanti battaglie sulla base di determinati principi e valori, mentre
quando queste battaglie sono portate avanti dai parlamenti nazionali ci può essere il rischio che
vengano difesi esclusivamente gli interessi nazionali, che sono importanti ma che possono porsi in
contrasto con gli interessi della UE. Però il sistema, con queste novità, è positivo in quanto si tratta
di tutta una serie di elementi importanti per rafforzare il principio di sussidiarietà e per dare una
risposta al problema del deficit democratico.
Anche il comitato delle regioni può fare ricorso per denunciare la violazione del p. di sussidiarietà,
qualora tale violazione sia dovuta ad atti legislativi sui quali è richiesta la sua consultazione.
IL PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’
E’ disciplinato dall’art. 5par. 4 TUE in virtù del quale: “il contenuto e la forma dell’azione
dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati”. Tale
principio impone di graduare (sia nell’es. delle competenze concorrenti che esclusive) i mezzi
prescelti per l’es. dell’azione in relazione alle caratteristiche dell’obiettivo di volta in volta
perseguito. Esso impone che l’es. di una determinata competenza risponda a tre requisiti:
1. deve essere utile e pertinente per la realizzazione dell’obiettivo.
2. necessario ed indispensabile cioè qualora per il raggiungimento dello scopo possano
essere impiegati vari mezzi, la competenza sarà esercitata in modo da recare meno
pregiudizio ad altri obiettivi di eguale protezione.
3. deve esserci un nesso causale tra l’azione e l’obiettivo.
Il principio in questione dunque identifica una simmetria tra misure da adottare e scopi da
perseguire al fine di evitare interventi dell’Unione eccessivi, inutili o dannosi. In ossequio a questo
principio, le istituzioni dovranno determinare, all’interno di un ampio ventaglio, l’atto che va
concretamente adottato. Per le materie di competenza esclusiva l’unione ha maggiore libertà di
scelta, mentre in quelle di competenza concorrente deve comunque rispettare le competenze
nazionali che subiscono una contrazione a seguito del suo intervento. Se gli stati risultano inidonei
o impossibilitati a perseguire l’obiettivo l’unione può imporre la sua azione senza alcun limite,
nonostante ciò si auspica che l’unione intervenga adottando direttive che lasciano un maggiore
spazio agli stati membri. Il controllo di questo principio è affidato alla Corte di giustizia secondo la
quale è la manifesta inidoneità della misura rispetto allo scopo da perseguire può inficiare la
legittimità della misura in esame.
COMPETENZE COMPLEMENTARI
Accanto a queste competenze principali c’è una terza categoria di competenze caratterizzate da
un intervento dell’Unione Europea più debole rispetto a quello che si realizza nell’ambito sia delle
competenze esclusive che di quelle concorrenti; l’intervento dell’Unione Europea si configura
spesso come un semplice coordinamento delle azioni degli stati membri ed è graduato rispetto
alle esigenze nazionali. Più precisamente, gli stati hanno in via primaria ed esclusiva il potere di
disciplinare il settore, mentre l’unione può essere soltanto chiamata a svolgere un’azione
integrativa e se l’esercizio di tali competenze comporta l’adozione di un atto vincolante, è regolato
dal principio di sussidiarietà. Quanto alle categorie di competenze complementari possiamo
distinguerne tre.
Innanzitutto, l’art. 4 TFUE prevede le competenze che sono dirette a porre in essere delle azioni di
definizione e di attuazione dei programmi relativi ai settori della ricerca, dello sviluppo
tecnologico e dello spazio, nonché ai settori della cooperazione allo sviluppo e all’aiuto
umanitario, tuttavia non possono tali competenze impedire agli stati membri di esercitare la loro
competenza. Sebbene questi settori siano ricompresi nel suddetto articolo, dedicato alle materie
di competenza concorrente, prevedono un intervento dell’Unione residuale rispetto a quello degli
stati membri ai quali compete gestire effettivamente tali politiche. Le istituzioni europee possono
elaborare programmi e fissare orientamenti generali, nonché elaborare “politiche comuni” ma
senza ostacolare gli stati nell’esercizio della loro competenza.
L’art. 5 TFUE prevede la seconda sottocategoria che è costituita dalle azioni di coordinamento
che si realizzano soprattutto nell’ambito della politica economica e delle politiche occupazionali e
sociali degli stati membri. In questi settori l’UE deve limitarsi a dettare linee guida attraverso cui
definisce interessi comuni (o quanto meno convergenti) che gli stati poi devono tenere conto
nell’elaborazione delle relative politiche. Un discorso leggermente diverso va fatto per le politiche
economiche rispetto alle quali si registra un’anomalia perché per le politiche monetarie, in
relazione agli stati che hanno adottato l’euro, è prevista una competenza esclusiva, mentre per
quanto riguarda le politiche economiche è prevista una mera competenza di coordinamento e
questo è singolare perché poi è inevitabile che entrambe siano strettamente connesse tra di loro.
Tuttavia, per la politica economica le competenze dell’Unione si sono progressivamente rafforzate
con una serie di iniziative quali ad esempio il Fiscal Compact ed altre che hanno realizzato una vera
e propria governance comune dell’economia europea e che si collegano ai trattati dell’Unione
anche se formalmente nascono al di fuori del sistema della stessa finendo così per rafforzare il suo
ruolo, attenuando di conseguenza le differenze tra politica monetaria e politica economica.
L’art. 6 TFUE prende in considerazione la terza sottocategoria nella quale sono comprese le azioni
volte a sostenere, coordinare, completare l’azione degli stati membri in materia di tutela della
salute umana, industria, cultura, istruzione, protezione civile ecc. In questi campi, come precisa
l’art. 2 par. 5 TFUE l’unione non può sostituirsi alla competenza degli stati membri nei settori in
questione e gli atti giuridici vincolanti adottati dalla stessa in questi ambiti non possono mai
comportare un’armonizzazione delle normative nazionali. Quindi questo ci dimostra un ulteriore
indice del fatto che in questo ambito appunto che la competenza dell’unione è sostanzialmente
residuale (integrativa) rispetto a quella degli stati membri. Non di rado in questi settori l’Unione
interviene sostenendo le azioni statali attraverso il cofinanziamento di specifici programmi.
LE ISTITUZIONI DELL’UNIONE
Nel corso degli anni il quadro istituzionale dell’Unione ed il suo equilibrio sono profondamente
cambiati, passando dall’iniziale duopolio della commissione e del consiglio al pieno coinvolgimento
anche del parlamento europeo che ha consentito di far fronte al deficit democratico di cui soffriva
l’Unione. Si tratta di un sistema istituzionale che non riscontriamo in alcuna organizzazione
internazionale e statale in quanto riflette le caratteristiche sui generis dell’Unione→ per
descriverlo si utilizza l’espressione “triangolo istituzionale” dato il ruolo fondamentale esercitato
dalle tre istituzioni nel processo legislativo e decisionale dell’Unione che consiste nel (quasi)
monopolio della proposta in favore della commissione (che rappresenta gli interessi dell’Unione) e
nella sua approvazione da parte del consiglio (che rappresenta gli interessi degli stati membri) e
del parlamento europeo (che rappresenta gli interessi dei cittadini europei) che partecipa in
misura differente a seconda della procedura legislativa utilizzata. In realtà sarebbe più corretto
parla di un quadrilatero istituzionale in quanto c’è anche il consiglio europeo che anch’esso
rappresenta gli interessi degli stati stabilendo gli orientamenti di politica generale che poi devono
essere “tradotti” dal triangolo istituzionale. Al fianco di queste 4 istituzioni politiche si pone la
corte di giustizia che opera nell’ambito della tutela giurisdizionale e garantisce che i
comportamenti delle istituzioni siano conformi a quanto stabilito nei trattati. Tra le istituzioni
vanno annoverate anche la Corte dei conti e la banca centrale europea anche se non sono
paragonabili, quanto ad importanza e funzioni, alle altre istituzioni.
La nozione di istituzione non ha un significato soltanto formale, ma comporta delle conseguenze
sostanziali in quanto alcune norme del TUE e del TFUE si applicano solo nei loro confronti (ad es.,
in tema di tutela giurisdizionale solo le istituzioni possono intervenire nelle controversie dinanzi
alla corte di giustizia senza dover interessare il loro interesse alla soluzione del giudizio.
In questa cornice poi sono state introdotte nuove figure come il presidente del consiglio europeo,
l’alto rappresentante per gli affari esteri e per la politica di sicurezza. Poi ci sono altri organismi
taluni menzionati dai trattati come il comitato economico e sociale e altri come le agenzie
europee creati con atti delle istituzioni sulla base della clausola di flessibilità.
Le istituzioni operano in base ai principi delle competenze di attribuzione e di leale cooperazione
(orizzontale) ed inoltre grava su di esse l’obbligo di esercitare la propria competenza senza
compromettere quella delle altre istituzioni.
IL PARLAMENTO EUROPEO
È composto dai “rappresentanti dei cittadini dell’unione” ed esercita, congiuntamente al consiglio,
la funzione legislativa e quella di bilancio, nonché funzioni di controllo politico e consultive alle
condizioni stabilite dai trattati ed elegge il Presidente della Commissione. Assume questa
nomenclatura a partire dall’Atto Unico e per molti anni è stato composto da membri dei
parlamenti nazionali che venivano dagli stessi parlamenti nazionali designati → in tal modo la
rappresentatività dei popoli riuniti nella Comunità era indiretta ed imperfetta. Indiretta in quanto i
parlamentari non venivano eletti direttamente dai cittadini europei, bensì da rappresentanti di
questi ultimi eletti in seno ai rispettivi parlamenti. Imperfetta perché non rifletteva
proporzionalmente la presenza di tutte le componenti politiche in seno ai parlamenti nazionali.
L’elezione diretta fu prevista con un atto del Consiglio europeo nel’76 e le prime elezioni dirette si
sono svolte nel ’79 in base a sistemi elettorali diversi (non esiste un’armonizzazione in tal senso). Il
numero dei parlamentari europei che spettano ad ogni stato (che non può essere inferiore a 6 né
superiore a 96) è stabilito in base al principio di proporzionalità digressiva → secondo il quale i
paesi con una popolazione più elevata hanno più numeri di seggi rispetto ai paesi di dimensioni
minori, ma questi ultimi ottengono un numero di seggi superiore a quello che avrebbero in base
ad un rapporto puramente proporzionale tra numero di parlamentari e popolazione, così come i
primi ottengono proporzionalmente un numero di parlamentari minore rispetto a quello che
otterrebbero in base a un rapporto puramente proporzionale tra numero di parlamentari e
popolazione. Il numero dei membri è di 750 + 1 cioè il Presidente (l’italiano David Maria Sassoli) e
il consiglio europeo deliberando all’unanimità, su iniziativa e con l’approvazione del parlamento
europeo può modificarne la composizione.
I parlamentari hanno un mandato di 5 anni e sono divisi in gruppi politici e non in gruppi nazionali
(anche se possono decidere di non aderire a nessun gruppo nazionale) perché non devono
rappresentare gli interessi dello stato di appartenenza, ma devono essere raggruppati per
appartenenza politica ed è importante ai fini della realizzazione di una coscienza politica europea
idonea ad esprimere la volontà dei cittadini europei. L’elettorato attivo e passivo è collegato alle
condizioni previste dai paesi di residenza. La determinazione dello statuto dei partiti politici e le
norme sul loro funzionamento sono stabilite dal consiglio e dal parlamento stesso con la
procedura legislativa ordinaria. Attualmente ci sono 8 partiti politici e ciascuno di essi non ha
meno di 25 membri.
Nell’organizzazione dei lavori i parlamentari si dividono in commissioni permanenti con
competenza per materie. Tra i suoi membri il parlamento europeo elegge il Presidente il cui
mandato dura 2 anni e mezzo. I parlamentari godono di immunità e di privilegi ad es. non possono
essere perseguiti o detenuti per le opinioni o i voti espressi nell’es. delle loro funzioni, ovviamente
tali immunità trovano un limite sia nell’ipotesi di flagrante delitto sia quando l'immunità debba
necessariamente cedere il passo ai legittimi interessi del parlamento nel suo insieme ovvero
quando può essere di ostacolo alla realizzazione di interessi maggiormente meritevoli di tutela.
Il parlamento delibera a maggioranza dei voti espressi, il quorum è raggiunto quando sono
presenti un terzo dei membri anche se pur in assenza del raggiungimento di tal soglia le delibere
sono considerate valide tranne che non venga contestata la mancanza del numero legale. In altri
casi sono previste delle diverse maggioranze:
• maggioranza assoluta dei componenti → per la procedura semplificata di revisione dei
trattati.
• maggioranza dei componenti e dei due terzi dei voti espressi→ per l’approvazione della
mozione di censura sull’operato della commissione.
• maggioranza dei componenti e tre quinti dei voti espressi→ per confermare gli
emendamenti in bilancio respinti dal consiglio.
Quanto alla sua funzione di controllo la esercita soprattutto nei cfr. della Commissione europea:
nel corso degli anni si è cercato di rafforzare sempre più questo rapporto tra Parlamento e
Commissione quasi per riprodurre quel rapporto di fiducia che sussiste negli ordinamenti nazionali
tra Parlamento e governo, anche se poi controllo si esercita anche in relazione ad altre istituzioni
dell'Unione (ma in maniera affievolita). Una prima forma di controllo riguarda la nomina della
commissione europea funzione che si è consolidata con il T. di Lisbona proprio per dare alla
commissione una legittimazione democratica→ il presidente della commissione europea che viene
indicato dal Consiglio Europeo deve essere approvato/eletto dal Parlamento europeo. Una
seconda forma di controllo si esprime nel voto di approvazione degli altri componenti della
commissione, ivi compreso l'Alto Rappresentante nominati in un momento successivo dal consiglio
europeo. Un elemento importante in questo rapporto di fiducia è rappresentato dal fatto che nella
nomina del presidente della commissione si deve tener conto dei risultati delle elezioni politiche:
già a partire dalle precedenti elezioni politiche per la prima volta i partiti si sono presentati con un
proprio candidato alla presidenza della commissione europea. Infine, questo potere di controllo si
esercita non soltanto al momento della nomina, ma anche attraverso strumenti diversi: si pensi
alle interrogazioni del Parlamento alla commissione, i cui membri sono tenuti a oralmente o per
iscritto.
Il parlamento può, nell’ambito dell’esercizio dei suoi poteri di controllo, pronunciare una mozione
di censura sull’operato della commissione, da approvare con la maggioranza dei due terzi dei voti
espressi e la maggioranza dei membri: se la maggioranza viene raggiunta i membri della
commissione si dimettono e l’alto rappresentante si dimette dalle funzioni che esercita in seno alla
commissione. Si deve, tuttavia, realisticamente evidenziare che fino ad oggi non si è mai riusciti ad
approvare una mozione di censura perché le maggioranze sono talmente elevate, che non si
riescono a raggiungere. In realtà, una mozione di censura del 1959 fu avviata nei confronti della
commissione presieduta dall'allora presidente Santer, però non si arrivò a una vera e propria
approvazione perché la commissione si dimise prima del voto: in quel caso forse vi era alta
probabilità di approvarla, perché vi erano stati dei gravi episodi di corruzione che avevano
coinvolto diversi membri della commissione europea.
Quanto alla funzione normativa è stata progressivamente rafforzata prevedendo da un lato, una
partecipazione sempre più intensa al processo di formazione degli atti e di conclusione di accordi
internazionali negoziati dalla commissione e dal consiglio; dall’altro, attribuendo al parlamento,
nella procedura di bilancio, una posizione equiparata al consiglio ed è stato inoltre ampliato il suo
ruolo in relazione alla procedura di revisione dei trattati. La partecipazione al procedimento
legislativo si manifesta con un’intensità diversa a seconda che i trattati gli attribuiscano solo un
diritto di consultazione, un potere di codecisione o addirittura autonomia decisionale (nel caso ad
esempio di fissare il proprio statuto). Il suo ruolo è stato accresciuto al massimo dal T. di Lisbona in
quanto l’ex procedura di “codecisione” diviene la procedura legislativa ordinaria maggiormente
utilizzata. Il parlamento gode, inoltre, di un potere di pre-iniziativa legislativa → a norma del 225
TFUE può chiedere alla commissione di presentare proposte adeguate quando reputi necessaria
l’adozione di un determinato atto, la commissione può decidere di non dare seguito alla richiesta
ma deve farlo con atto motivato, l’iniziativa del parlamento ha solo natura politica.
La sede del parlamento non è unica: quella amministrativa è a Lussemburgo, le riunioni delle
commissioni si svolgono a Bruxelles e la sessione plenaria mensile si tiene a Strasburgo, tale
situazione ha spesso alimentato sterili contenzioni, ma si giustifica in quanto si vuole fare in modo
che ci sia un coinvolgimento di diversi paesi che sono situati perlopiù in una posizione centrale
dell'Europa e quindi strategica.
IL CONSIGLIO EUROPEO
È nato parallelamente alla struttura comunitaria, ma all’ esterno della stessa, dalla prassi delle
riunioni al vertice fra i capi di stato o di governo degli stati membri, prassi iniziata con il vertice di
Parigi del 1961 e proseguita poi fino agli anni ’70 senza una cadenza regolare per discutere
questioni attinenti alla vita ed allo sviluppo delle Comunità (le deliberazioni prese dai vertici non
erano atti comunitari, ma potevano configurarsi come accordi internazionali). Il sistema dei Vertici
ebbe termine negli anni ‘70 quando fu deciso di dare una cadenza periodica regolare alle riunioni
(tre volte l'anno e ogni volta che ne fosse necessario) e a sancire formalmente la sua nascita fu
l’Atto Unico. Tuttavia, tale organo, pur godendo da sempre di una posizione peculiare, non era
collocato nel sistema istituzionale, almeno fino al T. di Lisbona che lo inserì a pieno titolo fra le
istituzioni. Il Trattato sull'Unione europea riconosceva al Consiglio il compito di dare l'impulso
necessario allo sviluppo dell'Unione e di definirne gli orientamenti politici generali, escludendo la
funzione legislativa (ha un potere di indirizzo politico).
È composto, oltre che dai Capi di Stato o di governo degli stati membri (la partecipazione del capo
dello stato o del governo dipende dalle norme nazionali ad es. il rappresentante per l’Italia è il
capo del governo, mentre per la Francia è il presidente della Repubblica), dal suo Presidente , dal
Presidente della Commissione, inoltre (senza farne parte dal punto di vista della struttura
organizzativa) partecipa ai lavori anche l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la
politica di sicurezza. Se l’ordine del giorno lo richiede ciascun membro può decidere di farsi
assistere da un ministro e il presidente della commissione da un membro della commissione. La
presenza del presidente della commissione consente di rendere il potere di iniziativa legislativa
coerente con gli indirizzi indicati dal Consiglio europeo. Quanto invece al presidente del
parlamento europeo, questi può essere eventualmente invitato alle riunioni in quanto l’esigenza di
raccordo con il parlamento è soddisfatta mediante la trasmissione della relazione del presidente
del C.E. al parlamento dopo ciascuna riunione. Il C.E. si riunisce a Bruxelles due volte al semestre
su convocazione del suo presidente.
Quanto al Presidente del Consiglio europeo, questi viene eletto dai membri del C.E. a
maggioranza qualificata e resta in carica per un periodo di due anni e mezzo; egli presiede e anima
i lavori del Consiglio europeo, assicura la preparazione e la continuità dei lavori e assicura la
rappresentanza esterna dell'Unione per la PESC, fatte salve le attribuzioni dell'Alto rappresentante
dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
Il Consiglio europeo decide “per consensus” (tecnica usata normalmente per l'adozione degli atti
da parte di un organo internazionale intergovernativo classico) cioè con un’approvazione
concertata senza una votazione formale, salvo i casi in cui i trattati dispongano diversamente. Sono
previsti dunque casi in cui esso delibera a maggioranza semplice, in merito alle questioni di carattere
procedurale o per l’adozione del suo regolamento interno e casi in cui delibera anche a maggioranza
qualificata ad es. per la nomina della commissione o per stabilire l’elenco delle formazioni del
consiglio. Viene attribuito poi al Consiglio europeo il potere di adottare all'unanimità varie decisioni,
come in merito alla composizione del Parlamento europeo, al sistema di rotazione dei membri della
Commissione, alle procedure di revisione semplificata. Il Presidente del Consiglio europeo e il
Presidente della Commissione non partecipano al voto. Gli atti del Consiglio europeo adottati sono
ora soggetti a controllo di legittimità da parte della Corte di giustizia quando destinati a produrre
effetti giuridici nei confronti di terzi, ad eccezione di quelli riguardanti la PESC.
IL CONSIGLIO
L’art. 16 TUE stabilisce che il Consiglio è formato dai rappresentanti di ciascuno Stato membro, scelti
nell’ambito dei rispettivi governi, con il rango di ministri. Si tratta di un organo a composizione
variabile in quanto è composto dai ministri di volta in volta competenti per le materie iscritte
all'ordine del giorno, dunque si riunisce in diverse formazioni a seconda dell’argomento trattato il
cui elenco è adottato a maggioranza qualificata dal consiglio europeo. Il Trattato di Lisbona prevede
espressamente le seguenti formazioni: il Consiglio affari generali che assicura la coerenza del lavoro
nelle varie formazioni del Consiglio e rappresenta un momento di collegamento con il consiglio
europeo in quanto prepara i lavori di questo e ne assicura il seguito; il Consiglio affari esteri che
elabora l'azione esterna dell'Unione secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo ed
assicura la coerenza dell'azione dell'Unione ed è presieduto dall'Alto rappresentante.
La presidenza delle formazioni del consiglio (tranne quella affari esteri che spetta all’alto
rappresentante) è esercitata da gruppi predeterminati di tre stati membri, per un periodo di 18 mesi
secondo un sistema di rotazione paritaria stabilito da una deliberazione del C.E. adottata a
maggioranza qualificata; ciascuno dei tre stati esercita a turno la presidenza per 6 mesi e gli altri due
assistono secondo un programma stabilito in comune.
Il Consiglio si riunisce dietro convocazione del presidente su iniziativa o di uno Stato membro o della
Commissione; le sedute sono pubbliche quando delibera sul progetto di atto legislativo, mentre
l'obbligo della pubblicità non vige quando svolge attività non legislative→ di conseguenza ciascuna
sessione del Consiglio è divisa in due parti destinate rispettivamente alle deliberazioni legislative e
alle attività non legislative.
Il Consiglio in alcuni casi previsti dai trattati opera come organo e non come istituzione
dell’Unione→ in tale ipotesi i rappresentanti degli stati membri si riuniscono e deliberano in quanto
tali e non come componenti del consiglio: ne consegue che la deliberazione è presa non
dall’istituzione, ma da un organo intergovernativo (es. nomina dei membri della Corte di giustizia).
Quando opera come istituzione esprime una volontà propria distinta da quella degli Stati che lo
compongono anche quando le deliberazioni raccolgono l'unanimità dei consensi: infatti lo Stato può
impugnare una decisione del Consiglio anche se il rappresentante abbia votato a favore. Al di fuori
di questa ipotesi invece il Consiglio si comporta come una normale conferenza diplomatica: in tal
caso le sue decisioni sono sottratte alle norme dei Trattati che regolano le sue competenze e la
procedura decisionale.
Il consiglio è investito della funzione legislativa e di bilancio che, ai sensi dell’art. 16 TUE, esercita
congiuntamente al Parlamento europeo; esercita altresì funzioni di definizione delle politiche e di
coordinamento alle condizioni stabilite dai trattati e autorizza la Commissione a negoziare accordi
internazionali, ne autorizza la firma e li conclude. I suoi poteri rispondono al principio delle
competenze di attribuzione essendo il loro es. collegato ad espresse previsioni dei trattati, tuttavia
fa eccezione la sua competenza in base al 352 TFUE che gli consente di adottare all’unanimità un
atto normativo in materie non espressamente attribuite alla sfera di competenza dell’Unione
necessario per perseguire un obiettivo dell’Unione.
Le competenze della Commissione sono indicate dall'art. 17 TUE, ma si ricavano anche da varie altre
disposizioni dei Trattati. Più significativo è indubbiamente l'esercizio del potere di iniziativa nella
procedura di formazione degli atti legislativi dell'Unione. Soltanto in alcuni casi, indicati dai Trattati,
la proposta della Commissione è prevista in via alternativa rispetto alla proposta di altri soggetti.
Per gli atti non legislativi ha potere di iniziativa solo se espressamente conferito in casi eccezionali
dai trattati. Il Consiglio può emendare tale proposta solo all’unanimità e la Commissione, finché il
Consiglio non abbia deliberato, può sempre modificare la sua proposta iniziale.
La proposta può essere sollecitata alla Commissione dal Parlamento, dal consiglio o da un milione
di cittadini europei, su questioni per le quali reputano necessaria l'elaborazione di un atto
dell'Unione. Si tratta di un potere di “pre-iniziativa” legislativa ciò significa che la commissione non
è obbligata a dar seguito a queste richieste, ma in ogni caso deve giustificare il motivo per il quale ritenga
di non dare seguito alla richiesta.
Si tratta di una figura introdotta dal T. di Lisbona, egli svolge un ruolo delicato in virtù del “doppio
cappello” in quanto riveste uno status particolare all’interno di due diverse istituzioni: oltre alla
posizione di presidente del consiglio “affari esteri”, è vicepresidente della commissione. La sua
nomina spetta al consiglio europeo (con delibera a maggioranza qualificata) di comune accordo
con il presidente della commissione e in sede di approvazione collettiva della commissione in
quanto vicepresidente della stessa è soggetto al voto del parlamento europeo.
Quanto alle funzioni costituisce un pone fra i diversi centri decisionali al fine di garantire una
maggiore unità dell’Unione: in ambito PESC da un lato ha funzioni di guida e di proposta, dall’altro
è il rappresentante dell’unione per la PESC verso i paesi terzi ed in seno alle organizzazioni
internazionali. Come presidente del consiglio affari esteri in qualità di mandatario del consiglio, è
chiamato a dare attuazione a tale politica, preoccupandosi che vengano eseguite le decisioni
adottate. Come vicepresidente della commissione è incaricato di curare il settore delle relazioni
esterne, rendendo effettivo il coordinamento con la PESC; tuttavia in relazione a questo ruolo, non
è equiparabile al resto dei membri dell’”esecutivo europeo” dato che, essendo anche mandatario
del consiglio, non è sottoposto al divieto di accettare istruzioni da parte di altre istituzioni. Quale
figura chiave di raccordo tra consiglio e commissione può essere incaricato di svolgere la
negoziazione per la conclusione di accordi trasversali e, nell’es. del potere di iniziativa, può farsi
portatore di esigenze avvertite in qualità del ruolo di vicepresidente della commissione.
È tenuto a consultare regolarmente il P.E. sulle scelte della PESC nonché ad informarlo
sull’evoluzione di tale politica, presentando annualmente una relazione sull’attività in questo
settore (agisce allo stesso modo per quanto riguarda la PSDC.
Nell’es. delle sue funzioni si avvale del SEAE “servizio europeo per l’azione esterna” che è un vero
e proprio corpo diplomatico dell’Unione che lavora in collaborazione con i servizi diplomatici degli
stati membri per assicurare la coerenza tra i settori dell’azione esterna.
L’Unione è dotata di un sistema di tutela giurisdizionale che consente di qualificarla come “unione
di diritto” in quanto si tratta di un sistema completo e incondizionato che consente un sindacato e
un controllo di legittimità nei confronti di tutti gli atti e i comportamenti adottati da tutti i soggetti
dell’ordinamento dell’UE. Sistema che si incentra non solo sul ruolo fondamentale esercitato dalla
corte di giustizia ma anche dai giudici degli stati membri che sono definiti “giudici decentrati
dell’ue”, i quali hanno diverse competenze in tema di diritto dell’ue potendo contrastare le norme
nazionali, utilizzare il rimedio dell’interpretazione conforme, consentire il risarcimento dei danni,
collaborare con la corte di giustizia e sollevare inviti pregiudiziali di interpretazione o invalidità.
La corte è composta da un giudice per stato membro ed è assistita da avvocati generali il cui numero
è attualmente fissato a undici, mentre in passato erano otto anche se il TFUE prevedeva la possibilità
di aumentarne il numero su richiesta della stessa corte con deliberazione unanime del consiglio. Con
una Decisione del 2013 il consiglio ne ha confermato il numero in undici e ha stabilito che i sei stati
dell’Unione con la popolazione più numerosa dispongono di un avvocato generale permanente,
mentre i rimanenti cinque sono nominati secondo un sistema di rotazione. L’avvocato generale ha
il compito di presentare pubblicamente, in completa indipendenza rispetto alle parti dell’Unione,
conclusioni scritte e motivate che esprimano il suo punto di vista sulla soluzione della causa trattata
dinanzi alla corte. Le conclusioni non sono vincolanti ai fini della decisione tanto è vero che lo statuto
precisa che la corte potrà escludere le conclusioni dell’avvocato generale (sentito quest’ultimo e
quando la questione non presenti nuovi punti di diritto), ma comunque godono di una propria
rilevanza perché contengono un esame accurato della dottrina, dunque costituiscono un passaggio
importante per la conoscenza del diritto europeo e potrebbero comportare anche un cambiamento
di orientamento della corte. L’intervento dell’avvocato generale non è previsto per tutte le cause
(come accadeva prima), ma soltanto rispetto a quelle che, conformemente allo statuto della corte,
lo richiedono.
La corte ha sede a Lussemburgo e costituisce un organo di individui nel senso che i suoi membri
non rappresentano i rispettivi stati di appartenenza. Sia i giudici che gli avvocati generali hanno il
medesimo statuto e sono nominati, di comune accordo dagli stati membri per una durata di sei anni
con possibilità di rinnovo del mandato, tra personalità che offrano garanzie di indipendenza e che
esercitino le più alte funzioni giurisdizionali o siano giuristi di notoria competenza. Con il T. di Lisbona
è stato introdotto l’obbligo della previa consultazione di un comitato (composto da sette persone
scelte tra ex componenti della corte e del tribunale o giuristi di cui sia nota l’elevata competenza),
per ottenere un parere sull’adeguatezza dei candidati all’esercizio delle funzioni di giudice o di
avvocato generale. Il Presidente viene eletto fra i giudici per tre anni e dirige l’attività della corte sia
sotto il profilo amministrativo che giurisdizionale: presiede le udienze, designa il giudice relatore,
ha competenza in materia di provvedimenti cautelari nonché di sospensione dell’esecuzione delle
sentenze.
La corte può operare nella sua composizione plenaria (il gran plenum) ovvero nella composizione
di piccolo plenum denominato grande sezione (15 giudici), oppure in sezioni di 5 o 3 giudici. Per una
maggiore flessibilità ogni caso è rimesso alle sezioni, salvo che la grande sezione non sia
espressamente richiesta da uno stato membro o da un’istituzione che sia parte; i casi di ricorso alla
plenaria sono limitati invece: alle cause promosse contro il mediatore per mancanza delle condizioni
necessarie o per colpa grave; contro i membri della commissione per violazione degli obblighi
connessi alle loro funzioni o per colpa grave; contro i membri della corte dei conti per mancanza dei
requisiti previsti o per violazione degli obblighi derivanti dalla loro funzione. La singola sezione può
decidere, sentito l’avvocato generale, di rinviare un giudizio pendente alla plenaria per l’importanza
eccezionale delle questioni sollevate nello stesso. Quanto alle deliberazioni, la corte può deliberare
validamente solo in numero dispari. La corte nomina per un periodo di 6 anni un cancelliere che
oltre ad es. le funzioni convenzionalmente connesse a questa figura (ad es. tenuta del ruolo,
ricezione degli atti ecc) provvede all’amministrazione e alla gestione finanziaria della corte.
Il Tribunale, quale organo in cui tale istituzione si articola, viene istituito nel’88 con decisione del
consiglio su domanda della corte e previa consultazione di commissione e parlamento (tale
possibilità venne prevista dall’Atto unico nell’intento di affiancare all’operato della corte un altro
organo giurisdizionale); tuttavia soltanto con il trattato di M. il tribunale è divenuto parte integrante
dell’apparato giurisdizionale dell’Unione senza che la sua stessa esistenza dipendesse più da un atto
del consiglio (il cui potere è ora limitato alla definizione dell’organizzazione e delle competenze del
nuovo organo); infine con il T. di L. gli è stato riconosciuto il ruolo di giurisdizione autonoma (ai
sensi dell’art. 19 TUE è “compreso” nella corte di giustizia). La finalità cui si è voluta far fronte con
l’istituzione del tribunale è sicuramente quella di alleggerire il carico della corte creando un “doppio
grado di giurisdizione”→ dunque il tribunale opera come giudice di primo grado e le sue sentenze
sono impugnabili davanti alla corte di giustizia, ma “per soli motivi di diritto” (oltre alla parte
soccombente la legittimazione ad impugnare è riconosciuta anche agli stati ed alle istituzioni anche
se non hanno partecipato al giudizio di primo grado). Quindi, rapportando il sistema giurisdizionale
europeo al nostro, possiamo affermare che l’impugnazione è come se assumesse le vesti del ricorso
in cassazione piuttosto che di appello (secondo grado di giudizio)→ “per soli motivi di diritto” perché
la corte di giustizia, anche se ha altre competenze esclusive per alcuni contenziosi, svolge per lo più
un ruolo costituzionale di uniformazione del diritto.
Il tribunale è composto da almeno un giudice per stato membro ciò significa che, a differenza della
corte, possono esserci anche più giudici per ogni stato membro (attualmente sono 56 giudici – 2 per
stato membro), tali membri per essere nominati devono avere gli stessi requisiti richiesti per i giudici
della corte e le modalità sono analoghe a quelle previste per la nomina dei giudici della corte. A
differenza della corte, il tribunale, nella trattazione delle cause, non è tendenzialmente assistito
dall’avvocato generale, il quale può essere nominato nei casi previsti dallo statuto, scegliendo tra i
giudici, soltanto se il tribunale siede in plenaria o allorché lo esigono le difficoltà in diritto o la
complessità in fatto della causa. La competenza, limitata in un primo momento al contenzioso del
personale ed ai ricorsi individuali in materia di concorrenza, è stata estesa ai ricorsi diretti ad
eccezione di quelli che lo statuto riserva alla corte; il trattato inoltre prevede che lo statuto possa
estendere la competenza del tribunale a categorie di ricorsi dalle quali è al momento escluso
(procedimento per infrazione). Al tribunale è attribuita la competenza a conoscere di tutti i ricorsi
avverso gli atti o carenze della commissione (esclusi quelli in materia di risorse proprie)
prescindendo dalla qualità del ricorrente (potrebbe essere uno stato così come un’altra istituzione),
in quanto: lo statuto riserva alla corte soltanto i ricorsi di annullamento e in carenza presentati dalle
istituzioni o dagli stati e riguardanti determinati atti o carenze del parlamento e del consiglio (tranne
gli atti in materia di aiuti di stato, dumping e di competenze di esecuzione), nonché gli atti della
commissione in tema di cooperazione rafforzata. L’art. 256 TFUE prevede che si può attribuire al
tribunale la competenza a conoscere le questioni pregiudiziali sia pure nelle materie specificamente
indicate nello statuto (prettamente di natura tecnica), stabilendo altresì che in tali materie il
tribunale possa comunque rinviare la decisione alla corte se ravvisa la necessita di una decisione di
principio che potrebbe compromettere l’unità del diritto dell’Unione; lo stesso articolo prevede che
la decisione del tribunale sul rinvio pregiudiziale possa essere sottoposta alla procedura di riesame
dinanzi la corte di giustizia se sussistono gravi rischi che l’unità del diritto dell’Unione sia
compromessa, su richiesta del primo avvocato generale entro un mese dalla pronuncia del
tribunale. Tuttavia, ad oggi l’ipotesi di cognizione sui rinvii pregiudiziali del tribunale non ha trovato
ancora attuazione, restando di conseguenza ancora di competenza esclusiva della corte di giustizia.
Il tribunale può decidere anche come giudice unico se la sezione dinanzi alla quale la questione
pende all’unanimità la assegna ad un giudice unico e fatta salva l’opposizione che può porre in
essere uno stato membro o un’istituzione dell’unione; tale possibilità è limitata alle cause di
personale, ai ricorsi di annullamento o di responsabilità contrattuale che sollevano questioni già
chiarite da una consolidata giurisprudenza oppure sono parte di una serie di cause con lo stesso
oggetto uno delle quali sia stata già decisa con forza di giudicato. È esclusa questa possibilità quando
la causa sollevi questioni di legittimità di un atto avente portata generale ovvero quando verta in
materia di concorrenza, dumping, marchi ecc.
Al consiglio è attribuita la possibilità di istituire tribunali specializzati competenti a conoscere, in
primo grado, talune categorie di ricorsi in specifiche materie; nel 2009 fu istituito “il tribunale della
funzione pubblica dell’Unione, tuttavia nel 2005 il legislatore ha deciso di aumentare a 56 il numero
dei membri del tribunale, dato l’aumento del contenzioso e di conseguenza ha deciso di sopprimere
questa sezione specializzata trasferendone le competenze al tribunale. Le decisioni dei tribunali
specializzati possono essere oggetto di impugnazione dinanzi il tribunale per soli motivi di diritto ed
eccezionalmente la sentenza emessa in secondo grado dal tribunale può formare oggetto di
revisione dinanzi la corte, sempre che vi siano rischi per l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione.
agenzie → hanno competenze tecniche e di supporto informativo per gli stati membri e le istituzioni
dell’Unione; rispondono ad una logica di decentralizzazione funzionale e territoriale. Generalmente
dipendono dalla Commissione che ne mantiene la resp. finanziaria, quanto agli obiettivi alcune
svolgono una funzione di informazione e di coordinamento, altre sono dotate di un potere di
adottare decisioni individuali vincolanti o di un potere di raccomandare. In alcuni casi sviluppano il
know-how scientifico o tecnico in alcuni settori specifici, in altri svolgono un ruolo di mediazione tra
i vari gruppi di interesse (es. Agenzia per l’ambiente; Fondazione europea per la formazione con
sede a Torino)
eurojust → unità europea di cooperazione giudiziaria per le lotte alla criminalità organizzata.
procura europea→ tutela gli interessi finanziari dell’Unione ed è nata nell’ambito della
cooperazione rafforzata ed è organizzata su due livelli: uno centrale e l’altro decentrato.
europol→ cooperazione tra autorità di polizia e degli altri servizi incaricati dell’applicazione della
legge degli stati membri; espressione di quel principio di leale collaborazione tra stati membri e
questi organismi per dare diretta attuazione al diritto dell’Unione.
mediatore europeo→ Figura introdotta dal trattato di M. (questa figura è paragonabile al difensore
civico a livello regionale); è nominato dal parlamento per la durata della legislatura con mandato
rinnovabile; è un organo di individui ed è dotato di indipendenza; a seguito delle modifiche
introdotte con il T. di L. spetta al parlamento europeo fissare lo statuto e le condizioni per
l’esecuzione delle funzioni del mediatore, deliberando mediante regolamenti secondo una
procedura legislativa speciale previo parere della commissione e approvazione del consiglio. Egli
riceve le denunce di qualsiasi cittadino dell’Unione o di qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda
o abbia sede in uno stato membro, relativamente ai casi di cattiva amministrazione nell’attività delle
istituzioni dell’Unione (ad es. → irregolarità amministrative, abuso di potere, discriminazione etc.)
Il mediatore non ha nulla a che vedere con la cattiva amministrazione degli stati membri, ma ha a
che fare con gli organi dell’UE→ dunque risultano escluse dalle sue competenze le indagini relative
agli organi nazionali e all’attività della Corte di giustizia e del Tribunale.
La denuncia va presentata entro due anni dalla data da cui un soggetto ha avuto conoscenza dei
fatti e si apre così un procedimento dinanzi al mediatore europeo nell’ambito del quale l’istituzione
cui la denuncia si rivolge può difendersi. All’esito della procedura il mediatore trasmette una
relazione al parlamento europeo e informa il denunciante dell’esito dell’istruttoria, tuttavia le sue
decisioni non hanno efficacia vincolante → quindi l’istituzione potrebbe adeguarsi come non
adeguarsi a questa decisione. Un soggetto dunque decide di rivolgersi al mediatore europeo in
quanto talvolta è l’unico modo per ottenere tutela in quanto i cittadini essendo considerati
ricorrenti “non privilegiati” devono dimostrare l’interesse ad agire, ad es. per chiedere
l’annullamento di un atto devono dimostrare l’interesse ad agire in un termine di 2 mesi + 10 giorni
→ termine ristretto rispetto e devono dimostrare inoltre di essere danneggiati direttamente da
quell’atto (non deve essere condizionato da un atto ulteriore, altrimenti sarà impugnabile l’atto
ulteriore) e questa non è una dimostrazione non agevole soprattutto per gli atti di contenuto
generale. Dunque, si è deciso di prevedere questo rimedio di carattere generale, che non prevede
termini e condizioni restrittive, ma resta un rimedio molto più debole, quindi un soggetto se vuole
rimuovere un atto dovrà comunque presentare un’azione giurisdizionale.
I meccanismi di sorveglianza si sono rafforzati a seguito della crisi che ha colpito alcuni stati membri;
nel 2011 è stato adottato il “six pack” ossia quattro regolamenti ed una direttiva che hanno reso più
stringenti i meccanismi di sorveglianza ex ante ed ex post nonché le eventuali sanzioni per i disavanzi
eccessivi o per la crescita del debito pubblico.
Questo è stato un primo passaggio che, però, si è rilevato non sufficiente quando c’è stata la crisi
economica cd. sistemica che si è verificata nel 2011-2012 e si è deciso di fare degli ulteriori passi in
avanti che, in realtà, sono sorti al di fuori del sistema comunitario, attraverso degli accordi
internazionali sottoposti alla ratifica degli Stati membri, che però si intrecciano con i Trattati per
un’esigenza di coordinamento con l’ordinamento dell’UE. Si tratta del meccanismo europeo di
stabilità (MES) e del cd. Fiscal compact cioè “il patto di bilancio europeo per la realizzazione
dell’equilibrio del bilancio” → accordi che hanno portato ad una serie di modifiche negli Stati
membri (ad es. a livello costituzionale nel nostro Stato) che hanno finito così per conformarsi per
attribuire ulteriori competenze alle istituzioni dell’UE, attenuando alcune differenze tra la politica
economica e quella monetaria.
Nell’ambito di quest’ultima (politica monetaria) svolgono un ruolo centrale la BCE e il SEBC
(composto dalla BCE e dalle banche centrali degli stati membri; è diretto dagli organi decisionali
della BCE; il suo obiettivo è il mantenimento della stabilità dei prezzi; si distingue dall’ Eurosistema
che è formato invece dalle banche centrali degli stati membri la cui moneta è l’euro -distinzione
necessaria finché vi saranno stati membri che non adottano l’euro-). Alla BCE ed al SEBC gli stati
membri hanno devoluto le loro funzioni in materia monetaria, inoltre le crisi bancarie degli ultimi
anni hanno reso necessario estendere in capo alla BCE i poteri di “vigilanza prudenziale” e di
“gestione della crisi ex post” degli enti creditizi. Queste competenze devono essere inquadrate
nell’ambito del “sistema accentrato dell’Unione bancaria” fondato su tre pilastri: 1) meccanismo di
vigilanza unico; 2) meccanismo unico per la gestione delle crisi bancarie; 3) meccanismo europeo di
assicurazione dei depositi.
Da ciò si desume che, oltre a quella economica, si è cercato di rafforzare anche la politica
monetaria, in quanto nel periodo di crisi sistemica si era determinata di conseguenza anche una
crisi del sistema bancario che si è riflettuta inevitabilmente sull’economia, tanto è vero che sono
stati introdotti dei principi nuovi, prima con una comunicazione del 2013 e poi con una direttiva
del 2014, come il principio del bail-in “salvataggio interno” → si tratta di un principio che
prevede il coinvolgimento degli obbligazionisti, correntisti e azionisti nella risoluzione della crisi
delle banche ad eccezione dei depositanti fino a 100mila euro. Si tratta di una “condivisione degli
oneri” (burden sharing) con mezzi propri da parte delle banche nell’ambito di una prospettiva di
riduzione al minimo del sostegno pubblico. Anche se in realtà nel periodo della crisi sistemica, la
Commissione europea aveva autorizzato tutta una serie di aiuti di stato che normalmente
venivano considerati illegittimi, ma si trattava di una situazione emergenziale e temporanea che
fece maturare l’esigenza di autorizzare questi aiuti per evitare una reazione a catena di fallimenti
di banche. Finita la fase emergenziale, si è deciso di ritornare alla normalità e di essere piuttosto
severi nell’applicazione della normativa dell’UE e, in particolare, quella sugli aiuti di stato,
prevedendo di concederli alle banche soltanto in via eccezionale e soltanto dopo che ci sia stata
questa “condivisione degli oneri”.
Questo principio deve essere coordinato al “burden sharing” che consiste nella condivisione degli
oneri, all’interno delle Banche, da parte di azionisti, obbligazionisti ed anche correntisti,
nell’ipotesi di una crisi bancaria; si tratta di un principio che “anticipa” il principio del bail-in (che è
più rigoroso). Con la sentenza KOTNIK causa C-526 del 2014 la Corte di giustizia valuta la
compatibilità di questi principi con altri principi dell’Unione; la sentenza consegue ad un rinvio
pregiudiziale presentato dalla Corte Costituzionale della Slovenia alla Corte di Giustizia
sull’interpretazione di tre alcune normative dell’Unione.
Nel 2013 cinque banche della Slovenia ebbero problemi con il capitale di base e per evitare il
fallimento e l’effetto domino nel resto dell’Unione, la Slovenia il 17 dicembre 2013 chiede alla
Commissione di poter concedere gli aiuti alle banche in crisi, richiesta che viene accolta il giorno
dopo. Prima di concedere gli aiuti però la Slovenia aveva imposto alle banche di mettere in atto il
principio di condivisione degli oneri in virtù del fatto che aveva recepito (con legge nazionale) la
Comunicazione della Commissione europea del 2013 relativa agli strumenti previsti per
l’applicazione delle norme in materia di aiuti di stato nel contesto della crisi finanziaria; dunque le
banche tentarono prima di risanare il loro debito utilizzando il capitale di base e ricorrendo alle
obbligazioni subordinate.
Gli aiuti di Stato sono disciplinati dagli artt. 107, 108 e 109 TFUE, si tratta di finanziamenti che gli
Stati attribuiscono ad enti finanziari o alle imprese. Nell’UE vige il principio del divieto degli aiuti di
Stato, salvo particolari eccezioni perché questi creano uno sbilanciamento: favoriscono un istituto
rispetto ad un altro, cosa che potrebbe comportare una crisi nel sistema della concorrenza.
Un’eccezione è prevista all’art. 107.3 par. b → “gli aiuti devono essere compatibili con il mercato
interno” e lo sono se consentono la realizzazione di progetti o se pongono rimedio ad un grave
turbamento nell’economia dello Stato membro. Quando uno Stato avanza una richiesta di
concessione degli aiuti di Stato, la Commissione ha un termine massimo di due mesi per poter
valutare la proposta, potendola accettare oppure rifiutare dandone motivazione. In tale ultimo
caso, lo Stato può ricorrere al Consiglio dell’UE che ha tre mesi per valutare la proposta e per
rispondere e nel caso in cui non risponda, la proposta si ritiene rigettata. Nel caso di rigetto
espresso o tacito, quella stessa proposta non è più avanzabile, ma lo Stato potrebbe riformulare
una nuova e diversa proposta→ tutto questo meccanismo, previsto dalla disciplina generale, non
era stato preso in considerazione durante la crisi infatti dal 2007/2008 in poi, infatti la
Commissione aveva concesso molti aiuti senza richiedere, ad esempio, l’intervento degli
obbligazionisti nel risanamento, bastando il ricorso al capitale di base, cioè alle obbligazioni di
primo grado.
1. La Comunicazione ha effetto vincolante per gli Stati? → la Corte dice no perché non è un
atto normativo dell’Unione. L’art. 107 del TFUE attribuisce la competenza in materia di
aiuti di Stato alla Commissione, che attua sulle proposte un controllo preventivo. Con
l’emanazione della Comunicazione, la Commissione si autolimita perché contiene le
richieste di base, la Commissione dice: “se tu segui quanto scritto in questa
Comunicazione, in linea di massima io non ti dirò di no”. Tuttavia, pur seguendo il
richiedente quanto scritto nella comunicazione, la Commissione può comunque non
accettare la proposta in quanto si tratta di un atto atipico con il quale fa conoscere prima
ai soggetti interessati quale sarà la sua posizione, anche ai fini della certezza del diritto: io
mi comporterò in un determinato modo e ve lo faccio sapere prima così sarete in grado di
conformarvi a quanto da me richiesto.
2. La Comunicazione è incompatibile con quanto previsto agli artt. 107-109 TFUE? → La base
di questa Comunicazione sta proprio nell’art. 107, co. 3, par. b cioè “il grave turbamento
dell’economia all’interno degli Stati”; per cui nella normativa generale viene in rilievo un
problema che è quello del rischio morale, se noi attribuissimo facilmente gli aiuti, un ente
di credito potrebbe decidere di fare operazioni azzardate che gli portano tanto guadagno,
tanto poi se vanno male chiede allo Stato di essere aiutato e se non ci fosse stata la
Comunicazione in questione, lo avrebbe fatto anche senza provvedere in anticipo a un
tentativo di risanamento→ si parla in tal caso del rischio dell’azzardo morale. Dunque, per
rispondere alla seconda questione, la Corte evidenzia come nella Comunicazione sono
dettate norme di comportamento non vincolanti, ma che servono agli Stati per garantirsi
preventivamente e ad evitare che le proposte presentate siano incompatibili con le finalità
dell’Unione nei settori economici, quindi quanto scritto nella Comunicazione non si può
considerare non compatibile con quanto scritto nei trattati.
3. La Comunicazione è incompatibile con il principio del legittimo affidamento? → Il principio
del legittimo affidamento è un principio cardine dell’Unione, che non è previsto
espressamente nei trattati, ed è correlato con il principio di certezza del diritto che,
nell’ambito dell’Unione si esplica con la trasparenza del funzionamento delle istituzioni che
si riversa nell’ambito degli Stati interni con la certezza nella metodologia di acquisizione
delle normative dell’Unione, quindi con gli atti dei Parlamenti, con la recezione delle
direttive, con l’attuazione dei regolamenti. Tutto ciò per evitare che i cittadini possano
incorrere nelle violazioni delle direttive senza essere stati messi al corrente o aiutati dagli
Stati, che sono intermediari. La Corte chiarisce che il principio non è stato violato dalla
Comunicazione, perché la Comunicazione non intende imporre nulla, né la Commissione e
né le altre Istituzioni hanno atto credere agli istituti di credito che agendo in un
determinato modo fossero garantiti.
4. E’ incompatibile con il diritto di proprietà ex art. 17 Carta dei diritti fondamentali? → LA
Corte dice no perché chi si assume il rischio di acquistare una azione o di contrarre una
obbligazione, sa bene che sta facendo una operazione finanziaria che comporta un rischio,
dunque chi in virtù della “condivisione degli oneri” si vede ridotto il proprio capitale e leso
nel suo diritto di proprietà.
5. L’onere degli azionisti (etc.) di partecipare al risanamento è strettamente necessario che
avvenga prima dell’attribuzione degli aiuti o si può assolvere in maniera più proporzionata?
→ La Corte dice che tale questione non si pone perché se la comunicazione ti dice “prima
dell’attribuzione degli aiuti di Stato”, tu devi fare tutto il possibile, dopo di che se tu lo fai,
ti do gli aiuti di Stato, se non lo fai io te lo potrei negare. Comunque, al di là di questo
principio fondamentale secondo cui prima devono intervenire i soggetti della banca e poi
eventualmente lo Stato con risorse pubbliche, in linea eccezionale possono essere
utilizzate modalità diverse, ad es. la Commissione, per delle esigenze di interesse generale,
può autorizzare soluzioni differenti. Quindi, questa è la soluzione evidentemente
privilegiata, e ce lo dice nella Comunicazione (e poi questo principio sarà trasfuso nel bail-
in previsto espressamente in una direttiva, che è un atto vincolante).
6. Le altre due questioni (a detta del prof. non sono rilevanti ai fini dell’argomento trattato).
Nel caso Tercas sono due gli elementi oggetto di analisi da parte di Commissione e Tribunale: 1)
l’imputabilità allo stato di una misura di soggetti privati; 2) il trasferimento della stessa mediante
risorse statali. Dunque, si pone il problema: “la scelta da chi dipendeva, dallo Stato o dai privati?”.
Il Tribunale ha constatato che non ci sono prove, ma ha evidenziato alcuni elementi che
riconducono alla scelta dei privati, per esempio la convenienza economica dell’operazione.
Mentre l’intervento della Banca d’Italia che interviene sempre per la vigilanza prudenziale del
credito, è stato formale. Noi non lo sappiamo con certezza, può darsi che una certa influenza ci sia
stata, però dai fatti di causa non emerge in maniera evidente, almeno al momento. Poi la Corte di
Giustizia potrà ribaltare la sentenza, ma l’impugnazione può avvenire per motivi di diritto, i fatti si
sono già cristallizzati. Cosa più difficile è ottenere il risarcimento dei danni dalla Commissione,
perché non basta la semplice illegittimità del comportamento della Istituzione, ma è necessario
dimostrare il danno subito. Una cosa è l’accertamento dell’illegittimità, altra cosa è la
dimostrazione del danno. Poi, non è facile dimostrare il nesso di causalità. Però già tutte le banche
e anche il presidente dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana) hanno fatto delle dichiarazioni nel
senso di azioni risarcitorie. E’ una questione aperta, molto delicata e importante.
E’ un’istituzione a pieno titolo (a partire dal T. di Lisbona) entrata in funzione nella terza fase
dell’UEM. E’ dotata di personalità giuridica ed è caratterizzata da un'assoluta indipendenza (sia
perché deve preservare le sue decisioni dalle influenze esterne sia perché svolge operazioni dal
carattere strettamente tecnico), con competenze consultive anche normative. La sua funzione
normativa ha sempre costituito un punto un po’ nevralgico perché non consente di soddisfare il
principio di democrazia, in quanto è vero che sono previste delle forme di comunicazione, dei
rapporti con altre istituzioni, degli obblighi di trasmettere tutta una serie di relazioni (ad es. al
Parlamento europeo), però non vi è un vero e proprio controllo né da parte del Parlamento
europeo né da parte delle altre istituzioni, perché si ritiene che sia un valore fondamentale, quello
di mantenere l’autonomia della Banca centrale europea.
E’ composta da:
• Comitato esecutivo→ responsabile della preparazione delle riunioni del Consiglio direttivo e
degli affari correnti della banca, attua la politica monetaria secondo gli indirizzi del Consiglio
direttivo; è composto dal presidente, dal vicepresidente e da quattro altri membri nominati
dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata, su raccomandazione del Consiglio per
previa consultazione del Parlamento e del Consiglio direttivo della BCE per una durata di otto
anni e non sono rinnovabili. Sono scelti dai cittadini degli stati membri di riconosciuta
levatura ed esperienza professionale nel settore monetario e bancario.
• il Consiglio direttivo, composto da membri del Comitato esecutivo della BCE e dai
governatori delle banche centrali degli stati membri la cui moneta è l'euro, è il principale
organo decisionale; ogni membro dispone di un voto, le decisioni sono prese a maggioranza
semplice.
• Terzo organo decisionale della BCE è il Consiglio generale, comprendente il presidente e il
vicepresidente della BCE e i governatori delle banche centrali nazionali→ Può presentare
osservazioni prima che il Consiglio direttivo adotti gli atti di sua competenza.
Per l'assolvimento dei propri compiti, la BCE dispone di un autonomo potere normativo: stabilisce
regolamenti, prende decisioni, formula raccomandazioni e pareri. Tali atti hanno il medesimo valore
di quelli contemplati nell'art. 288 TFUE e ad essi si applicano le stesse disposizioni di cui agli artt.
296 ss TFUE: i suoi atti vincolanti sono sottoposti al controllo giudiziario della Corte di giustizia e
possono formare oggetto di ricorso in annullamento o di un rinvio pregiudiziale e i suoi
comportamenti omissivi del ricorso e in carenza.
Ha il diritto esclusivo di autorizzare l'emissione di banconote in euro all'interno dell'Unione e
inoltre viene consultata dalle istituzioni in merito ad ogni proposta di atto dell'Unione che rientra
nelle sue competenze, nonché dalle autorità nazionali sui progetti di disposizioni legislative
rientranti nelle sue competenze, nei limiti e condizioni stabilite dal Consiglio, può formulare di sua
iniziativa pareri che sottopone alle istituzioni o alle autorità nazionali; è consultata nella procedura
di revisione dei Trattati quando essa comporti modifiche istituzionali nel settore monetario. In
tema di responsabilità risarcitoria, per i danni causati dalle altre istituzioni o dagli agenti
dell’Unione nell’esercizio delle loro funzioni, la responsabilità è dell’Unione; mentre la
responsabilità per i danni causati dalla Banca centrale europea è direttamente di questa→ ciò ci
dimostra, appunto, che ci sono delle differenze di questa istituzione rispetto ad altre istituzioni.
Il Trattato di Lisbona ha introdotto significative novità circa la procedura di formazione degli atti
modifica la procedura di formazione degli atti, prevedendo una procedura legislativa ordinaria e
altre speciali in cui confluiscono sostanzialmente tutte quelle procedure che non vedono, al pari di
quella ordinaria, un ruolo paritetico tra Consiglio e Parlamento nella formazione dell’atto. L’utilizzo
di una procedura legislativa (ordinaria e speciale) porta all’adozione di atti che il Trattato oggi
definisce legislativi, poi ci sono gli atti non legislativi che non sono adottati a seguito di una
procedura legislativa, ma sono adottati dall’istituzione che ne ha la competenza alla luce della
base giuridica dell’atto. La procedura seguita per l'adozione degli atti normativi non influisce sul
loro valore formale e non determina una scala gerarchica tra atti legislativi e altri atti adottati dalle
istituzioni al di fuori di tale procedura: tutti gli atti normativi derivati hanno medesima forza
giuridica indipendentemente dall'autorità che emana.
Dunque il Trattato di Lisbona non introduce una fonte nuova nel sistema giuridico dell'Unione dal
momento che la natura e gli effetti degli atti rimangono identici (il nome degli atti che è possibile
adottare è rimasto lo stesso: regolamenti, direttive e decisioni, raccomandazioni), infatti l’art. 288
TFUE, nell’elencare gli atti normativi dell’Unione, precisa la loro efficacia senza distinguere quanto
all’istituzione che li emana o al procedimento seguito per la loro adozione.
IL POTERE DI INIZIATIVA
L’adozione degli atti legislativi ai sensi dell’art. 17 par.2 TUE avviene su proposta della
Commissione tranne nei casi in cui i Trattati stabiliscono diversamente; in talune ipotesi gli atti
legislativi possono essere adottati su iniziativa di un gruppo di Stati membri, del Parlamento
europeo, su raccomandazione della BCE, su richiesta della Corte di giustizia o della BEI (289 par.4
TFUE). Gli atti non legislativi possono essere adottati invece su proposta della Commissione solo se
i trattati lo prevedono, ma la regola vuole che siano adottati su iniziativa dell’istituzione che ne ha
la competenza alla luce della base giuridica dell’atto. Nel settore della PESC è l’Alto
rappresentante ad essere titolare del potere di iniziativa, mentre per l’assolvimento dei compiti
del Sistema europeo delle banche centrali gli atti sono adottati direttamente dalla BCE.
Un potere di pre-iniziativa (possono sollecitare la Commissione ad effettuare una proposta) è
riconosciuto:
• al parlamento europeo che delibera a maggioranza dei membri che lo compongono (art.
225 TFUE)
• ad un milione di cittadini che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati
membri (ART. 11 par. 4 TFUE) cioè non possono essere un milione di cittadini italiani, né
un milioni di cittadini italiani francesi e tedeschi, ma devono essere rappresentativi in
qualche modo di tutti gli Stati membri, cioè un numero minimo di voti deve essere
raggiunto nei vari Stati membri.
• dal Consiglio o da uno stato membro per taluni aspetti di politica economica e monetaria
(art. 135 TFUE).
La commissione non è vincolata da queste richieste in quanto spetterà alla stessa decidere
se presentare o meno questa proposta di atto legislativo ed eventualmente deciderne il
contenuto, l’oggetto e le finalità; nel caso in cui decida di non presentarla al legislatore
dell’Unione, deve motivare la sua decisione.
Sussiste, dunque, un quasi monopolio dell’iniziativa legislativa della Commissione che è
giustificato: 1) dall’esigenza di promuovere l’interesse generale dell’Unione e 2) dall’indipendenza
di cui essa gode nell’esercizio delle sue responsabilità.
La Commissione può modificare la proposta finché l’atto non sia definitivamente adottato, mentre
il Consiglio può emendare la proposta ma è necessaria l’unanimità e non può alterarne la sostanza
(293 TFUE). La Commissione può ritirare la proposta nell’ipotesi in cui non raggiunga un accordo
con il consiglio o qualora ritenga non sia più attuale, ha invece il diritto di ritirarla quando un
emendamento prospettato dal consiglio snatura la proposta; quando ritira la proposta deve
motivare le ragioni di tale ritiro→ quest’obbligo consente un sindacato giurisdizionale che può
esercitarsi con un ricorso in annullamento avverso la decisione di ritiro; l’esperibilità di questa
azione è giustificata dal fatto che la decisione di ritiro mette fine al procedimento legislativo
iniziato con la presentazione della proposta, impedendo al Consiglio ed al Parlamento di esercitare
la loro funzione legislativa.
LA PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA
La procedura legislativa ordinaria, disciplinata dall’art. 294 TFUE, consiste nell'adozione congiunta
di un atto normativo dell'Unione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio. Essa inizia con
la presentazione della proposta della Commissione tanto al Parlamento europeo che al Consiglio al
fine di consentirne un esame parallelo (prima lettura) da parte delle istituzioni. Tuttavia il primo
progetto dell'atto legislativo conseguente alla proposta della Commissione proviene dal
Parlamento il quale è chiamato ad adottare la sua posizione ed a trasmettere al Consiglio: questi o
approva la posizione del Parlamento – e allora l’atto è definitivamente adottato - oppure non la
approva e adotta la sua posizione rispetto al Parlamento. Inizia così la fase della seconda lettura→
Entro tre mesi da tale comunicazione, il Parlamento:
a) approva la posizione del Consiglio oppure non si pronuncia in tale termine → e allora l'atto
è adottato nel testo formulato dal Consiglio;
b) respinge tale posizione maggioranza dei suoi membri → e allora l'atto non viene adottato
(in questo caso dunque il Parlamento ha il potere di bloccare definitivamente l’adozione
dell’atto);
c) propone emendamenti alla posizione del Consiglio, sempre nella stessa maggioranza, e
comunica il testo al Consiglio e alla Commissione la quale formula un parere (positivo o
negativo) in proposito.
Se entro tre mesi dal ricevimento di tale comunicazione il Consiglio approva a maggioranza
qualificata tutti gli emendamenti del Parlamento, l'atto è adottato; è richiesta l’unanimità se la
commissione abbia espresso un parere negativo sugli emendamenti del parlamento.
Se invece non li approva, il presidente del Consiglio d'intesa con il presidente del Parlamento
convoca entro sei settimane il Comitato di conciliazione composto da un numero pari di membri
delle due istituzioni e con la partecipazione ai lavori anche della commissione; il consiglio ha il
compito di trovare un accordo su un progetto comune avendo sei settimane di tempo per
pronunciarsi, decorse le quali: se concorda un progetto comune, Consiglio e Parlamento (terza
lettura) hanno ulteriori sei settimane per adottarlo, il primo a maggioranza qualificata e il secondo
a maggioranza assoluta dei voti espressi. In mancanza di approvazione da parte di una delle due
istituzioni entro tale termine, l'atto non viene adottato.
Se il Comitato non riesce ad approvare un progetto comune, l'atto si considera non adottato e la
procedura termina definitivamente.
Quando la procedura legislativa ordinaria è svolta su iniziativa di un gruppo di Stati membri o su
raccomandazione della BCE o su richiesta della corte di giustizia, Parlamento e Consiglio
trasmettono alla Commissione il progetto di atto insieme alle loro posizioni in prima e seconda
lettura in quanto quest'ultima può essere richiesta di un parere o può formularlo di sua iniziativa e
anche partecipare, se lo reputa necessario, al Comitato di conciliazione.
Le procedure legislative speciali possono essere sostituite dalla procedura legislativa ordinaria per
l’adozione di un atto legislativo a seguito di una decisione unanime del Consiglio europeo in tal
senso e previa approvazione del parlamento europeo : in questo caso, l’iniziativa presa dal
Consiglio europeo deve essere trasmessa ai parlamenti nazionali; in caso di opposizione anche di
un solo parlamento nazionale, tale decisione non può essere adottata (si tratta delle passerelle tra
le procedure speciali e quella ordinaria).
Accanto alle procedure legislative speciali di adozione degli atti il TFUE prevede diversi
procedimenti decisionali che si differenziano tra loro a seconda del ruolo svolto dal parlamento o
dal consiglio; o delle regole di votazione del consiglio oppure per la prescrizione di consultare
organi ausiliari. La scelta di questi procedimenti non è casuale dovendosi rispettare quanto la
disposizione normativa sulla cui base l’atto in questione va adottato, indica di volta in volta in
merito alla procedura da utilizzare. I trattati disciplinano anche l’ipotesi che l’atto di base preveda
l’adozione di una normativa integrativa o di esecuzione della commissione o del consiglio, per
l’adozione di questi atti successivi si può seguire una procedura semplificata → il legislatore delega
la commissione il potere di integrare o modificare elementi non essenziali dell’atto nell’ottica
dell’alleggerimento dell’attività legislativa. Ci sono poi alcune disposizioni che escludono la
partecipazione del PE all’adozione di un atto da parte del consiglio: in materia di misure di
attuazione del mercato interno; misure in materia di agricoltura e pesca; politica economica→ in
tali circostanze comunque il consiglio potrebbe richiedere il parere del parlamento, in tale ipotesi
si tratta di una mera facoltà che se non esperita non inficia l’atto.
Quanto alla natura della competenza esterna, questa “riflette” quella attribuita all’Unione sul
piano interno, dunque è esclusiva quando gli accordi riguardino materie su cui esercita la
competenza interna esclusiva, mentre nelle materie di competenza concorrente anche il potere
dell'Unione di concludere accordi internazionali è condiviso con quello degli Stati membri.
Ciò significa che l’art. 3 par. 2 TFUE ( “l’Unione ha competenza esclusiva per la conclusione di
accordi internazionali allorchè tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione o è
necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui
può incidere su norme comuni o modificarne la portata”) non riconosce una generale competenza
esclusiva all’Unione nella conclusione degli accordi internazionali, ma va letto in combinato
disposto con le altre disposizioni dei trattati e alla luce di questa lettura va stabilita la natura della
competenza. Dunque, nei settori di competenza esclusiva gli stati membri potranno stipulare
accordi internazionali soltanto previa autorizzazione da parte dell’Unione come nell’ipotesi in cui
l’accordo sia aperto soltanto agli stati, in tal caso l’autorizzazione la conferisce il Consiglio con una
decisione ( si pensi alla decisione del 2002 con la quale autorizza gli stati membri a firmare la
convenzione dell’Aja in materia di potestà genitoriale e di misure di protezione dei minori) e tale
accordo produrrà formalmente effetti giuridici a carico degli stati. Nei settori di competenza
concorrente, l’esercizio della competenza da parte dell’Unione sul piano interno, finisce per
affievolire il potere degli stati anche sul piano esterno e in tale prospettiva si colloca il par.2
dell’art. 3 nella parte in cui stabilisce che la competenza dell’Unione, per la conclusione di accordi
internazionali, è esclusiva nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la
portata→ l’esercizio da parte dell’Unione del suo potere normativo in una materia di competenza
concorrente comporta una corrispondente riduzione della competenza degli Stati membri ad
assumere obblighi sul piano internazionale nelle stesse materie, e quindi trasforma la competenza
dell’Unione da concorrente in esclusiva, almeno quando la conclusione di accordi internazionali
può incidere su norme comuni o modificarne la portata. Invece, nel caso in cui la materia oggetto
dell’accordo internazionale rientra nell’ambito di una competenza concorrente e l’Ue non sia
intervenuta, la legittimazione a stipulare l’accordo è ripartita tra Unione e Stati membri e si
concluderanno in tal caso accordi cd. “misti”.
La procedura di conclusione degli accordi internazionali è disciplinata dall’art. 218 TFUE→ La
Commissione (o l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri se in materia PESC) rivolge al
Consiglio una raccomandazione con la quale chiede l'autorizzazione ad aprire negoziati. Il Consiglio
adotta a maggioranza qualificata la decisione che autorizza l'avvio dei negoziati accompagnandola
dalla designazione del negoziatore e dalla indicazione delle direttive da seguire per il loro
svolgimento. Una volta concordato il progetto del testo dell'accordo, il negoziatore lo sottopone al
Consiglio che adotta una decisione per autorizzarne la firma. Successivamente il Consiglio adotta
una decisione relativa alla conclusione dell'accordo e notifica alla controparte che sono terminate
le formalità prescritte per l'entrata in vigore dell'accordo: questo atto contiene di solito anche le
modalità di esecuzione dell'accordo (la conclusione definitiva si ha con il deposito dell'atto di
approvazione).
Il Consiglio di regola delibera a maggioranza qualificata, l'unanimità è richiesta quando si tratti di
accordi riguardanti il settore per il quale è richiesta l'unanimità per l'adozione di un atto
dell'Unione sul piano interno, di accordi di associazione, dell'accordo di adesione dell'Unione alla
convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, di accordi di cooperazione con Stati
candidati alla gestione, di accordi sui tassi di cambio dell'euro nei confronti di valute dei paesi
terzi.
Par. 6 art. 218→ Tranne quando l’accordo riguarda esclusivamente la PESC (caso in cui non
è necessaria nè l’approvazione né la consultazione del Parlamento il quale deve comunque
essere informato di tutte le fasi della procedura), il Consiglio adotta la decisione di
conclusione dell’accordo:
a) previa approvazione del Parlamento europeo → nei casi di: accordi di associazione;
accordo di adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo;
accordi che creano un quadro istituzionale specifico utilizzando procedure specifiche di
cooperazione; accordi che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli; accordi che
riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria oppure quella
speciale quando sia necessaria l’approvazione del Parlamento europeo.
b) previa consultazione del parlamento europeo negli altri casi→ in questo caso il Parlamento
viene informato delle fasi della conclusione dell’accordo e ad esso si chiede un parere che è
obbligatorio, ma non vincolante; ciò significa che in sua assenza c’è un vizio che inficia
l’atto (la decisione sulla conclusione che potrebbe essere annullato).
È prevista anche una procedura semplificata dal par. 7→: il Consiglio può abilitare il
negoziatore a concludere l'accordo con la semplice firma o ad approvare a nome
dell'Unione le modifiche dell'accordo se questo ne prevede l'adozione con una procedura
semplificata.
Par. 11 art. 218→ Il parlamento, il Consiglio o la Commissione possono chiedere un parere
alla Corte di giustizia sulla compatibilità dell'accordo con i Trattati, in tal caso se la corte
rende un parere negativo l’accordo può entrare in vigore solo se modificato o a seguito
della revisione dei Trattati.
Gli accordi conclusi dall'Unione sono vincolanti per l'istituzione e per gli stati membri
formando parte integrante dell'ordinamento giuridico dell'Unione ove acquistano efficacia
in modo automatico con l'entrata in vigore sul piano internazionale senza richiedere la
successiva adozione di alcun atto di adattamento da parte dell'Unione; dalle loro
disposizioni possono discendere effetti diretti senza bisogno di firma o di ratifica o atti di
adattamento da parte degli Stati membri, salvo gli accordi misti.
Gli accordi misti o in forma mista sono negoziati e conclusi congiuntamente sia dal Consiglio in
nome dell'Unione sia dagli stati membri con l’altra parte contraente. Il ricorso a tale pratica è assai
frequente sia quando vi è difficoltà nel distinguere gli ambiti delle rispettive competenze tra
Unione e Stati membri sia quando vi è riluttanza di questi ultimi a riconoscere una competenza
esclusiva dell'Unione in determinate materie sia perché gli stati terzi richiedono spesso l'impegno
diretto degli stati membri attraverso la firma dell'accordo anche da parte loro.
Quanto all’interpretazione degli accordi misti, la loro peculiarità non osta all’interpretazione da
parte della Corte di giustizia delle disposizioni che rientrano nella competenza dell’Unione, ma è
da ritenersi che non possa estendersi alle disposizioni il cui oggetto risulta estraneo al diritto
dell’Unione. Tali accordi sono adottati mediante una procedura più complessa: sono negoziati e
firmati sia dall’Unione sia dagli stati membri e richiedono, ai fini dell’entrata in vigore, della ratifica
degli stati secondo le loro procedure costituzionali.
Capitolo V: LE FONTI
I TRATTATI
Il sistema delle fonti del diritto dell'Unione è costituito dai Trattati istitutivi, dagli accordi
internazionali conclusi dall'Unione, dal diritto derivato emanato dalle istituzioni secondo
procedimenti normativi prescritti, da una fonte non scritta di origine giurisprudenziale
rappresentata dai principi generali dell'ordinamento dell'Unione. Al vertice dell'ordinamento si
pongono le norme dei Trattati su cui si fonda l'Unione: il TUE ed il TFUE (sono il punto d'arrivo di
un processo evolutivo che ha portato ad integrare e modificare i Trattati istitutivi originari) i quali
hanno lo stesso valore giuridico. Sono equiparati ai Trattati e ne costituiscono parte integrante: i
Protocolli (regolano aspetti precisi del funzionamento dell’Unione o introducono una disciplina
differenziata per taluni stati rispetto a determinate politiche dell’Unione) e gli allegati (tra i quali le
Dichiarazioni che sono uno strumento di interpretazione delle norme alle quali si riferiscono. A ciò
bisogna aggiungere anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che ha lo stesso
valore giuridico dei Trattati. La sfera di applicazione territoriale dei Trattati si estende fin dove si
esercita la giurisdizione degli stati membri secondo le rispettive norme costituzionali, alle zone di
mare e agli spazi territoriali su cui si esercita il potere sovrano degli Stati, inoltre ai sensi del 355
TFUE norme dell’Unione possono produrre effetti anche al di fuori del territorio della stessa, è il
caso ad esempio delle norme sulla concorrenza per le intese che producano effetti nel mercato
comune pur se realizzate in paesi terzi; ovvero delle norme sulla circolazione delle persone che
trovano applicazione anche rispetto ad attività lavorative esercitate in uno stato terzo nell’ambito
di un rapporto che abbia stretti collegamenti con l’Unione. I Trattati prevalgono sulle norme
derivate e non possono subire modificazioni da parte degli atti emanati dagli organi dell'Unione
tanto che se in contrasto con i primi, sono suscettibili di annullamento (art. 263 TFUE). Allo stesso
modo, I Trattati non possono essere derogati da un accordo internazionale concluso dall'Unione.
LE PROCEDURE DI REVISIONE
Le modifiche ai Trattati istitutivi possono aver luogo esclusivamente nel rispetto della procedura di
revisione di cui all’art. 48 TUE che contempla:
Una procedura ordinaria → l'iniziativa può provenire da ogni governo degli stati membri, dal
Parlamento europeo o dalla commissione, che devono sottoporre i progetti di revisione al Consiglio che
li trasmette al Consiglio europeo e li notifica ai parlamenti nazionali. Tali progetti possono riguardare
sia l'accrescimento delle competenze dell'Unione sia la loro riduzione.
Consultai il Parlamento e all’occorrenza la Commissione (nonché la BCE ove si tratti di modifiche nel
settore monetario), il Presidente del Consiglio Europeo, qualora quest’ultimo abbia adottato a
maggioranza semplice una decisione in senso favorevole all'esame delle modifiche proposte,
convoca una Convenzione, composta da rappresentanti dei Parlamenti nazionali, dai capi di Stato e
di governo degli Stati membri, dal Parlamento europeo e dalla Commissione. La Convenzione, dopo
aver esaminato i progetti, adotta per consenso una raccomandazione trasmessa ad un'apposita
Conferenza dei rappresentanti dei governi degli stati membri che a sua volta svolge la sua attività
con lo scopo di stabilire di comune accordo le modifiche da apportare ai Trattati. Può succedere che
il Consiglio europeo decida a maggioranza semplice di non convocare la Convenzione qualora l'entità
delle modifiche non lo giustifichi, e di convocare direttamente la Conferenza. La Conferenza conclude i
suoi lavori con l'adozione di un atto finale contenente il testo di un Trattato nel quale sono recepite
le modifiche concordate; il Trattato entrerà in vigore dopo la ratifica da parte di ogni Stato membro
conformemente alle proprie norme costituzionali. Nell'ipotesi in cui, trascorsi tre anni dalla firma di
un Trattato di revisione, i quattro quinti degli stati membri lo abbiano ratificato mentre uno o più
Stati membri abbiano incontrato difficoltà nelle procedure di ratifica, la questione viene deferita al
Consiglio europeo.
Ai sensi dell’art. 6 par.1 comma1 TUE “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella
Carta dei diritti fondamentali che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Il riconoscimento e la
tutela sono il frutto di una rilevante attività giurisprudenziale che non ha però accompagnato da
subito il processo di integrazione. I Trattati istitutivi delle Comunità non contenevano alcuna
disposizione a tutela dei diritti umani che potesse costituire la base per il controllo giudiziale e se
talune libertà individuali vi risultavano fin da subito sancite (libertà di circolazione, a non essere
discriminati in base alla nazionalità ed al sesso), si trattava di libertà riconosciute al singolo
esclusivamente in quanto protagonista economico dell’unione. La Corte di giustizia nei primi anni
’60 affermava l’irrilevanza sul piano del diritto dell’Unione dei diritti fondamentali tutelati dalle
costituzioni degli stati membri e la propria incompetenza a garantire il rispetto di norme interne
anche costituzionali→ il suo principale interesse era quello di assicurare l’autonomia ed il primato
dell’Unione che rischiavano di essere pregiudicati dalla subordinazione di tale diritto alle norme
nazionali (anche se di rango cost. come quelle relative ai diritti dell’uomo). Un decennio più tardi
la Corte volta pagina affermando l’inevitabilità dell’interferenza della normativa dell’unione con i
diritti umani → ciò ha portato la Corte ad affermare che i diritti fondamentali quali risultano dalle
tradizioni cost degli stati membri e dalla CEDU fanno parte dei principi giuridici generali di cui essa
garantisce l’osservanza. Dunque, la Corte si riservò il compito di verificare di volta in volta il
rispetto dei diritti fondamentali, ma solo nelle situazioni in cui rileva la disciplina dell’Unione e non
la sola disciplina interna (il controllo della corte investiva: gli atti dell’Unione, gli atti o i
comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, rimangono fuori dal suo
controllo le norme nazionali prive di qualsiasi legame con il diritto dell’Unione).
Solo successivamente furono coinvolte anche le istituzioni in ordine al riconoscimento dei diritti
fondamentali: con la Dichiarazione del ’77 Consiglio e Commissione si impegnarono a rispettare,
nell’es. dei loro poteri, i diritti fondamentali quali risultanti dalle costituzioni degli stati membri,
nonché dalla Cedu.
Una vera e propria svolta si realizza con il T. di Maastricht che qualifica espressamente tali diritti
come principi generali del diritto dell’Unione, così formalizzando la giurisprudenza della Corte:
“L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Cedu e quali risultano dalle
tradizioni cost. degli stati membri”.
L’idea di dotare l’Unione di un proprio catalogo scritto di diritti fondamentali, più volte emersa
nella storia del processo di integrazione europea, si concretizza in occasione del Consiglio Europeo
di Nizza del 2000, nell’ambito del quale fu proclamata ad opera del Parlamento, Commissione e
Consiglio, anche se ad essa non fu attribuito da subito un valore giuridico vincolante, deferendo ad
una successiva conferenza intergovernativa il problema dell’individuazione del suo status. Questa
si compone di 7 Capi e 54 articoli e in essa si trovano tutti i diritti che la corte di g. aveva fin a quel
momento garantito in via giurisprudenziale e pochi in più. La carta non è stata inserita
formalmente nei trattati che hanno soltanto riconosciuto i diritti e principi sanciti nella stessa (art
6 par. 1 comma 1 TUE) → questa scelta si giustifica principalmente con una motivazione di ordine
pratico: cioè quella sottrarre eventuali future modificazioni della carta al passaggio obbligatorio
della revisione dei trattati, operazione troppo complicata che non consentirebbe di cogliere nei
tempi giusti le novità di una società in continuo cambiamento.
Tra le disposizioni della Carta assumono una rilevanza centrale gli artt. da 51 a 53 (cd. “disposizioni
orizzontali”) che ne definiscono la portata dei diritti e dei principi nonché le norme per la loro
interpretazione
• art. 51 par. 1 → “la Carta non introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione,
né modifica le competenze attribuite dai trattati”.. “le disposizioni della presente Carta si
applicano alle istituzioni, agli organi ed agli organismi dell’Unione come pure agli stati
membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. La Corte di g. ha fornito
un’interpretazione estensiva di questo paragrafo affermando che la Carta si applica alle
istituzioni dell’Unione anche quando queste agiscono al di fuori del quadro giudico
dell’Unione, come ad es. nell’ambito del T. di Bruxelles del 2012 che ha istituito il
meccanismo europeo di stabilità. Inoltre, per quanto riguarda gli stati membri, afferma che
i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione trovano tutela in
tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, ma non al di fuori di esse: dunque fa
coincidere l’ambito di applicazione della carta con quello del diritto dell’Ue. Dunque,
presupposto di applicabilità della Carta è che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice
sia disciplinata dal diritto europeo e non da sole norme nazionali prive di ogni legame con
tale diritto→ ciò significa che per stabilire se una normativa nazionale rientri
nell’attuazione del diritto dell’Ue occorre verificare: che abbia lo scopo di attuare una
disposizione del diritto dell’Unione; qual è il suo carattere e se è in grado di incidere sul
diritto dell’Unione; se esiste una normativa Ue che disciplini espressamente la materia che
possa incidere sulla stessa.
• art. 52 n° 1→ contiene una clausola limitativa generale in base alla quale eventuali
restrizioni dei diritti e libertà contemplati nella Carta devono: a) rispettarne il contenuto
essenziale; b) in conformità al p. di proporzionalità, devono risultare necessarie e
rispondere a finalità di interesse generale o all’esigenza di proteggere diritti e libertà altrui
e infine c) devono essere previste dalla legge → cosa si intende per legge non è chiaro
perché nell’ordinamento dell’Ue non c’è un vero e proprio concetto di legge, gli atti
adottati secondo la procedura legislativa sono atti legislativi, ma questa nozione non
corrisponde al nostro concetto di legge. Si sono comunque ritenuti, a tal fine, rientranti nel
concetto di legge: atti adottati secondo la procedura legislativa ordinaria (ruolo rilevante
attribuito al parlamento) e la giurisprudenza che ha una funzione “creativa” del diritto: è
considerata una vera e propria fonte. Ci sono alcuni diritti fondamentali che hanno valore
assoluto e non possono essere limitati (dignità umana).
• 52 n° 2→ chiarisce i rapporti tra i diritti già disciplinati nei Trattati e quelli disciplinati nella
Carta per evitare conflitti, stabilendo che i primi non sono modificati dalla entrata in vigore
della carta dunque restano soggetti alle condizioni ed ai limiti applicabili al diritto Ue.
• 52 n°3→ chiarisce i rapporti tra la carta e la Cedu stabilendo che: la portata dei diritti della
Carta, corrispondenti a quelli della Cedu, non può essere inferiore agli standard minimi
stabiliti dalla Cedu stessa, senza precludere che il diritto dell’Ue vi conceda una tutela più
ampia (massimizzazione dei diritti fondamentali).
• 52 n° 4 e 53 → il primo chiarisce i rapporti tra la Carta e le costituzioni nazionali stabilendo
che l’interpretazione delle norme della carta va fatta in armonia con quelle che risultano
dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri; l’art 53 chiarisce invece che la carta
non intende rimettere in discussione il livello di tutela dei diritti fondamentali riconosciuto
dalle costituzioni nazionali. Tuttavia, con la s. MELLONI la Corte precisa che l’art. 53
consente sì agli stati membri di mantenere lo standard di tutela più protettivo rispetto a
quello della Carta, ma sempre che il legislatore dell’Unione non abbia stabilito uno
standard comune di tutela. Dunque, in presenza di specifiche regole dell’Unione che
definiscono lo standard di tutela applicabile, non residua spazio alcuno per l’applicazione
degli standard nazionali, sia pure di rango costituzionale e maggiormente protettivi→ al
fine di non pregiudicare il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione. Nello
specifico si trattava del mandato di arresto europeo, e quindi di una disciplina dettata
dall’UE, una disciplina comune tra gli Stati membri che si fondava sul mutuo
riconoscimento e che quindi dettava norme di armonizzazione esaustiva delle legislazioni
nazionali. Quando era stato emesso un mandato di arresto, in realtà si chiedeva di non
dare esecuzione alle norme dell’UE, perché erano stati pregiudicati dei diritti fondamentali,
in questo caso il diritto di difesa. In realtà era una situazione creata ad hoc, perché la parte
aveva cambiato difensore ed era perfettamente a conoscenza di quello che il giudice aveva
comunicato, però invocava che era stato violato il suo diritto di difesa perché il nuovo
difensore non aveva avuto una conoscenza piena del giudizio. Al di là della vicenda del caso
concreto, quello che importa è che gli Stati avevano deciso con l’adozione di questo atto
dell’UE, di adottare un’armonizzazione esaustiva delle loro legislazioni nazionali di
prevedere una disciplina uniforme in tutti gli Stati, rinunciando ad applicare degli standard
diversi rispetto a quelli previsti dall’atto dell’UE, per cui una volta che è entrato in vigore
questo atto, non possono invocare degli standard di tutela più elevati.
L’art. 6 par. 2 TUE sancisce l’impegno e la competenza dell’Unione in ordine all’adesione alla CEDU
(dando applicazione alla modifica richiesta dal parere della corte negli anni ’90), ferme restando le
competenze dell’Ue così come definite nei trattati. Dunque, nonostante una parte minoritaria
della giurisprudenza per eccesso di entusiasmo aveva creduto che l’adesione fosse stata fatta con
la modifica apportata al TUE ed al TFUE dal T. di Lisbona, l’effettiva adesione resta subordinata
alla stipulazione di un accordo internazionale ai sensi del 218 TFUE. A tal fine il Protocollo n° 8 e la
Dichiarazione n°2 prevedono delle condizioni sostanziali: l’accordo non deve alterare le
competenze dell’Unione; deve preservare la specificità del suo diritto; non deve avere alcun
impatto sulle attribuzioni delle sue istituzioni e non deve scongiurare l’efficacia del 344 TFUE il
quale stabilisce che le controversie sull’interpretazione dei trattati vanno sottoposte
esclusivamente ai procedimenti di composizione previsti dai trattati stessi.
Il cammino verso l’adesione è iniziato nel 2010 con l’avvio del negoziato, nel 2013 è stato
presentato un Progetto di adesione, ma la procedura, nello stesso anno, ha subito una battuta di
arresto con il parere negativo n°2/2013 della Corte di g. chiamata a pronunciarsi in via consultiva
ai sensi del 218 par. 11. La Corte ha ritenuto il Progetto contrastante innanzitutto con la specificità
dell’ordinamento giuridico dell’Unione, specificità che si manifesta nella sua origine
convenzionale, dunque indipendente rispetto agli ordinamenti degli stati membri, e nell’effetto
diretto che connota molte delle sue norme. A questa considerazione la Corte ha aggiunto che la
specificità non sarebbe salvaguardata se l’interpretazione delle norme del diritto ue, ivi compresa
la carta, potesse essere messa in discussione da un organo esterno quale la corte di Strasburgo.
Inoltre, ha rilevato una potenziale incompatibilità con l’autonomia dell’ordinamento dell’Ue e con
l’esclusività della sua competenza quanto all’interpretazione/applicazione del diritto, dell’art. 33
Cedu ai sensi del quale “qualunque inosservanza delle disposizioni Cedu può essere deferita, da
ogni parte contraente, alla Corte EDU”. In base a tale disposizione dunque sarebbe ben possibile
ad esempio che uno stato membro sottoponga alla Corte EDU un’ipotesi di violazione della
convenzione da parte dell'Ue (se vi aderisse) realizzando così una violazione dell’art 344 TFUE
nonché della competenza esclusiva del giudice dell’Unione.
Inoltre, la Corte EDU acquisterebbe la competenza esclusiva, sebbene solo con riguardo al rispetto
della Cedu, del controllo giurisdizionale degli atti emanati nell’ambito della PESC (sottratti dai
trattati alla competenza della corte di giustizia se non per valutarne lo sconfinamento di
competenze rispetto a quelle dell’Ue e il controllo di legittimità sulle misure restrittive, nei cfr. di
persone fisiche o giuridiche, adottate dal consiglio).La Corte di giustizia ha escluso che
dall’art.6par.3 TUE (…“i diritti garantiti dalla cedu fanno parte del diritto dell’Unione in quanto
principi generali”.) possa dedursi un assimilazione delle norme cedu a quelle dell’Ue in particolare
quanto all’effetto diretto ed al potere-dovere del giudice nazionale di disapplicare la norma
nazionale in caso di conflitto, poiché questa disposizione non disciplina il rapporto tra la cedu e gli
ordinamenti giuridici interni degli stati membri e nemmeno le conseguenze del conflitto tra diritti
contenuti nella cedu e norme nazionali.
In realtà non è certo che l’adesione possa elevare il tasso di tutela dei diritti fondamentali, mentre
è certo il rischio dell’elevamento del tasso di vischiosità della tutela che si verificherebbe con tale
adesione. La carta dei diritti fondamentali, poi, è uno strumento adeguato a garanzia di una tutela
piena dei diritti fondamentali nel sistema di controllo giurisdizionale e non va trascurato che la
giurisprudenza della corte di giustizia utilizza sempre e costantemente come parametro di
confronto, insieme alle tradizioni costituzionali degli stati membri, le disposizioni della
Convenzione così come interpretate dalla corte EDU. L’unica soluzione affinchè si possa aderire
alla cedu, dunque, sarebbe la revisione dei trattati per eliminare il Protocollo n°8.
Principi generali del diritto internazionale→ gli artt. 5 e 21 TUE riconoscono che l’azione
dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sul rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite
e del diritto internazionale. Tali disposizioni vanno lette in combinato disposto con l’art. 47 TUE ai
sensi del quale l’Unione, quale soggetto di diritto internazionale, ha personalità giuridica, sicché le
norme del diritto internazionale vincolano le istituzioni dell’Unione e fanno parte dell’ordinamento
giuridico della stessa. Da ciò si desume che le competenze dell’Unione devono essere esercitate nel
rispetto del diritto internazionale e il diritto dell’Unione deve essere interpretato alla luce delle
norme di diritto internazionale (perché questo è parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione). Si
applicano tutta una serie di principi: pacta sunt servanda, buona fede, diritto
all’autodeterminazione, rebus sic stantibus (con riferimento al recesso prima dell’art 50).
Nonostante ciò la rilevanza del diritto internazionale nei rapporti interni è più limitata in ragione
della specificità di questa istituzione; in tal senso la Corte di giustizia si è discostata da alcuni principi
ritenuti incompatibili con le finalità dell’Unione→ si pensi al principio di reciprocità gli stati non
possono invocarlo per non adempiere gli obblighi UE in quanto verrebbe meno il fondamento del
diritto UE che prevede dei mezzi propri di tutela giurisdizionale, nessuno stato può farsi giustizia da
se: nessuno stato può utilizzare strumenti unilaterali. Ad esempio, nel caso COWAN che riguardava
una aggressione violenta subita da un cittadino inglese nella metropolitana di Parigi, non furono
scoperti i colpevoli e l’inglese chiese un indennizzo (che era previsto nello stato francese per le
vittime di questi reati violenti), questa richiesta fu negata dalla Francia che eccepì il principio di
reciprocità in quanto i cittadini francesi nel regno unito non hanno diritto di accedere, in una
situazione analoga, ad un simile risarcimento. La corte di giustizia evidenziò che si trattava di un
caso di discriminazione fondato sulla nazionalità ed evidenziò che l’obiezione sollevata riguardo la
reciprocità non aveva rilevanza perché esistono in entrambi i Paesi in questione dei sistemi di tutela
giurisdizionale completi. Dunque, se la Francia riteneva che l’UK non rispettata i propri obblighi,
aveva tutti gli strumenti (p. di infrazione, rinvio pregiudiziale) per adire il giudice UE, ma non poteva
farsi di certo giustizia da sé ed invocare la reciprocità che può essere applicata, così come altre
contromisure, nei confronti di stati terzi, ma non nei confronti di stati membri.
Principi generali di diritto comuni agli stati membri→ si tratta di quei principi comuni desunti dagli
ordinamenti degli stati membri e recepiti nell'ordinamento dell'Unione, che rappresentano il
comune sostrato giuridico dell'ordinamento integrato:
➢ principio di legalità, diritto a un equo processo, rispetto dei diritti della difesa, diritto al
contraddittorio.
➢ certezza del diritto, il quale impone che, tanto le norme dell'Unione quanto le norme degli stati
membri, nelle materie disciplinate dal diritto dell'Unione, devono essere formulate in modo non
equivoco al fine di consentire ai soggetti interessati di conoscere i loro diritti e obblighi modo
chiaro e preciso e ai giudici nazionali di garantirne l'osservanza. Tale principio comporta altresì:
➢ non retroattività delle norme penali, degli atti normativi, a meno di esplicita previsione, e degli
atti amministrativi in genere;
➢ legittimo affidamento, secondo cui gli amministrati devono poter contare sul mantenimento
della situazione giuridica di fronte a una modifica improvvisa che non potevano ragionevolmente
aspettarsi, oppure quando il comportamento dell'istituzione ha fatto sorgere nell'interessato
un'aspettativa ragionevolmente fondata; esso può essere invocato anche nei confronti di uno
Stato, ma non lo si può invocare se sia fondato su un errore, o rispetto ad una prassi nazionale
non conforme al diritto comunitario, o se l'impresa abbia infranto in modo manifesto il diritto
vigente.
Tali principi sono “selezionati” per orientare l'interpretazione del diritto derivato da parte della
Corte di giustizia o per colmare le lacune ed assicurare la coerenza generale del sistema giuridico
dell'Unione e di questo con gli ordinamenti nazionali. Ad essi la Corte ricorre per controllare la
legittimità di un atto derivato e spesso li utilizza anche per assicurare la protezione dei diritti dei
singoli nel quadro dei procedimenti giurisdizionali dell'Unione. Non necessariamente questi principi
devono risultare comuni a tutti gli stati membri, alcuni dei quali possono non contemplarli espressamente e
prevedere diversi criteri di applicazione e soluzioni diverse.
Rilevante è che l’atto faccia riferimento ad una o a più norme dei Trattati, cioè alla base giuridica,
l'inosservanza della quale costituisce un vizio sostanziale che può condurre all'annullamento dell'atto a
meno che non possa ricavarsi da altri dati contenuti nell'atto stesso. Secondo la giurisprudenza
costante, la scelta della base giuridica deve fondarsi su elementi oggettivi possibili di sindacato
giurisdizionale tra i quali lo scopo e il contenuto dell'atto. In molte occasioni la Corte di giustizia sarà
chiamata ad occuparsi della legittimità della scelta della base giuridica qualora l'atto da adottare
riguardi più settori di competenza dell'Unione ognuno dei quali prevede regole specifiche in tema
di procedimento normativo. La soluzione prescelta dalla Corte è quella di verificare quale sia il vero
centro di gravità dell'atto per cui questo dovrà basarsi unicamente sulla base giuridica richiesta dalla
finalità principale o preponderante. Possono tuttavia presentarsi situazioni in cui il parametro del
“centro di gravità” non può essere decisivo per la scelta di una sola base giuridica, un atto può quindi
essere fondato anche su una duplice base giuridica ma soltanto in via eccezionale, ovvero se
persegue contemporaneamente più obiettivi o si compone di vari elementi, tra loro imprescindibili,
senza che uno di essi assuma importanza secondaria e indiretta rispetto all’altro.
L’indicazione della base giuridica rileva sotto tre profili: il primo attiene alle competenze dell’Unione
che in linea di principio sono ispirate al criterio dell’attribuzione specifica dei trattati (fatta salva la
previsione del 352)→ dunque è necessario che l’azione delle istituzioni trovi giustificazione in una
norma dei trattati. Il secondo attiene al riparto di competenze tra le istituzioni; il terzo è quello
procedimentale → la scelta dell’una o dell’altra base giuridica implica una procedura diversa di
formazione del consenso (unanimità/maggioranza semplice o qualificata) e un diverso
coinvolgimento del parlamento (procedura legislativa ordinaria o speciale). Se vi sono due basi
giuridiche che prevedono 2 procedimenti diversi l’atto dovrà trovare fondamento esclusivo nella
norma che implica il procedimento più garantista e più rispettoso del principio democratico.
I principi del legittimo affidamento e della certezza del diritto impongono che gli atti non trovino
applicazione per i rapporti definiti anteriormente alla sua entrata in vigore: non hanno efficacia
retroattiva salvo che in casi eccezionali, ad es. dove ciò sia necessario per realizzare l’obiettivo
dell’atto e sempre che sia salvaguardato il legittimo affidamento degli interessati.
Quando più interpretazioni sono possibili, va privilegiata quella che consente di salvaguardare
l’effetto utile.
REGOLAMENTI→ Si tratta di atti a portata generale con valore erga omnes, ossia non si rivolgono
a destinatari indicati espressamente o comunque individuabili a priori, ma a categorie di soggetti
determinati in astratto nel loro insieme. La caratteristica della “portata generale” non discende
automaticamente dalla denominazione ufficiale dell’atto: la Corte di giustizia ha affermato che per
determinare in concreto la natura di ciascun atto,
la verifica non dovesse arrestarsi alla forma, bensì attribuire
rilevanza in primo luogo al suo contenuto e agli effetti giuridici da esso prodotti. Di conseguenza ha
ritenuto che il carattere regolamentare di un atto non viene meno solo perché sia possibile determinare il
numero o anche l'identità dei destinatari in un determinato momento (purché la qualità dei destinatari
dipende da una situazione obiettiva di diritto o di fatto, definita dall'atto); carattere che neanche viene meno
per l'applicazione territoriale dell'atto, limitata ad uno o ad alcuni stati membri, o per il fatto che esso possa
avere effetti diversi a seconda dei soggetti cui si applica purché tale situazione sia obiettivamente
determinata. A dimostrazione di ciò vi è il 263 comma 4 TFUE ai sensi del quale anche i regolamenti possono
essere impugnati dai singoli (p fisiche o giuridiche) dinanzi la Corte di giustizia se li riguardino direttamente
sempre che non comportino alcuna misura di esecuzione (indipendentemente dalla loro denominazione -
chiarisce l’articolo- dunque anche se si tratti di regolamenti che convenzionalmente hanno una portata
generale).
I regolamenti sono inoltre obbligatori in tutti i loro elementi per le stesse istituzioni, per gli Stati
membri e per i loro cittadini: ciò significa che non è consentita l'applicazione solo parziale,
incompleta o selettiva del regolamento, ma il loro carattere vincolante non viene meno per il solo
fatto che necessita di ulteriori provvedimenti di attuazione o di specificazione per consentire
l'effettiva applicazione.
Infine, sono direttamente applicabili dunque attribuiscono direttamente ai cittadini dell'Unione
obblighi e diritti che i giudici nazionali hanno il dovere di tutelare, anche nei rapporti interindividuali.
Tendenzialmente non hanno bisogno di alcun atto di recezione o di attuazione da parte degli stati
membri (qualsiasi misura di recepimento mediante un atto normativo interno deve considerarsi
illegittima poiché potrebbe nascondere agli amministrati la natura comunitaria di una norma
giuridica), ma non sempre i regolamenti risultano autosufficienti, pertanto, al fine di rendere possibile
la loro concreta esecuzione, essi richiedono talora un successivo intervento che, quando non affidato
alle stesse istituzioni, deve far carico alle autorità nazionali. Sono pubblicati nella GUUE ed entrano in
vigore alla data da essi stabilita ovvero a partire dal 20° giorno successivo alla loro pubblicazione; l'entrata
in vigore può essere ritardata oltre tale data per consentire agli interessati di conformarvisi
gradualmente.
DIRETTIVE → Ai sensi dell’art. 288 TFUE, le direttive presentano la caratteristica di vincolare gli stati
membri cui sono dirette per quanto riguarda il risultato da raggiungere, lasciandoli tuttavia liberi
quanto alla scelta della forma e dei mezzi necessari per conseguirlo. A differenza dei regolamenti,
non sono direttamente applicabili negli ordinamenti interni, in quanto richiedono un intervento di
attuazione da parte del legislatore nazionale, né hanno portata generale, avendo come destinatari
formali solo Stati membri, ma a determinate condizioni possono avere efficacia diretta.
Le direttive si presentano come uno strumento di legislazione indiretta mediante cui si vogliono
porre regole uniformi, con le stesse infatti si attiva una collaborazione tra il livello dell'Unione e
quello nazionale, lasciando così liberi gli Stati di determinare essi stessi le modifiche da apportare
alla propria normativa interna per renderla uniforme al risultato perseguito dalla direttiva,
conformemente alle loro esigenze e alle loro peculiarità nazionali, pur nel rispetto dell’unità del
diritto dell’Unione.
Entrano in vigore, producendo obblighi a carico dei destinatari a partire dalla data stabilita oppure
il 20° giorno successivo alla loro pubblicazione sulla GUCE. La data di entrata in vigore della direttiva
non deve confondersi con il termine (solitamente 2 anni) assegnato agli Stati per provvedere alla
sua attuazione: solo l'inosservanza di quest'ultimo comporta l'inadempienza dello Stato.
Dalla direttiva, una volta entrata in vigore e quindi divenuta vincolante nei confronti degli Stati
membri, possono derivare immediatamente degli obblighi di comportamento (stand-still)→ gli
Stati membri, nel rispetto dell'obbligo di leale collaborazione e della forza vincolante delle direttive,
hanno il dovere di astenersi dall'adottare, nel periodo intercorrente dall'entrata in vigore della
direttiva nei loro confronti e il termine assegnato per il suo recepimento, qualsiasi misura che possa
compromettere il conseguimento del risultato prescritto, altrimenti esponendosi al rischio da un
lato di un ricorso per infrazione, dall'altro dell'invocazione diretta delle disposizioni della direttiva
dinanzi ai giudici nazionali da parte di chi abbia interesse, di opporsi all'applicazione delle misure
nazionali in questione.
Le direttive dettagliate→ si è più volte sostenuta l’illegittimità di tale prassi, che in effetti appare
contraddire la natura stessa della direttiva e la sua funzione originaria, ma la Corte di giustizia non si è
mai espressa chiaramente sul punto e ha comunque riconosciuto la legittimità di tali direttive quando
necessarie per conseguire il fine prefissato: l'unica ipotesi in cui la Corte le ha ritenuto illegittime riguarda
quelle direttive dettagliate emanate in ipotesi in cui sia previsto il potere di emanare regolamenti.
ATTI ATIPICI
Atti atipici in senso lato→ si tratta di atti che pur corrispondendo alla tipologia ex art. 288 TFUE,
hanno tuttavia natura, caratteri ed effetti diversi da quelli propri degli atti tipici oppure di atti non
rientranti nel 288, ma ai quali i trattati fanno riferimento.
Si pensi ai regolamenti interni di cui ciascuna istituzione si dota per disciplinare il suo funzionamento
e lo statuto dei propri funzionari. Si tratta di atti che hanno efficacia circoscritta ai rapporti interni
di ciascuna istituzione, pur potendo avere ripercussioni e anche condizionare rapporti con altre
istituzioni; questi non possono essere invocati dalle persone fisiche o giuridiche davanti ai giudici
nazionali a sostegno di un ricorso in annullamento perché non rivolti a tutela dei singoli, tuttavia
questi possono invocare la violazione di disposizioni del regolamento interno di un'istituzione a
sostegno delle loro conclusioni dirette contro un suo atto e nei limiti in cui tali disposizioni
costituiscono un fattore di sicurezza giuridica per le persone; inoltre è possibile che un atto venga
annullato dalla Corte di giustizia per violazione del regolamento interno dell'istituzione che l'ha
adottato.
Si pensi inoltre alle direttive, ai pareri, alle raccomandazioni che un'istituzione rivolge a un'altra
nell'ambito del procedimento decisionale e che non hanno effetti giuridici al di fuori dei rapporti
interistituzionali: come il parere del Parlamento degli organi consortili, le direttive indirizzate al
Consiglio e alla commissione per orientare i negoziati che essa conduce con gli Stati terzi al fine della
conclusione degli accordi internazionali, o le raccomandazioni che la commissione rivolge al Consiglio
per essere autorizzata ad aprire i negoziati. Col termine di decisione si indicano anche gli atti con cui
il Consiglio conclude accordi internazionali, o quelli adottati dal Consiglio per l'adozione di certi
provvedimenti, sulla base di specifiche disposizioni abilitanti del Trattato; altre decisioni hanno
portata interistituzionale come ad esempio la decisione del Parlamento di concedere il discarico alla
commissione per l'esecuzione del bilancio o la decisione con cui il Consiglio può autorizzare spese
superiori al limite di un 12° degli stanziamenti aperti nel bilancio dell'esercizio precedente. Si
possono annoverare in questa categoria ancora: la constatazione dell’avvenuta approvazione del
bilancio da parte del Presidente del Parlamento europeo; taluni atti preparatori quali le proposte
della commissione.
Atti atipici in senso stretto→ si tratta di atti che nascono dalla prassi delle istituzioni, non rientrano
in alcuna delle categorie di cui all'art. 288 TFUE e non sono neanche contemplate dai Trattati. Tra
questi rientrano:
➢ le comunicazioni, cui fa frequente ricorso la Commissione come i “libri verdi” per indicare le linee di
azione e i progetti in ordine alla preparazione di proposte normative più complesse o per chiarire il punto
di vista in ordine a certi problemi o per stabilire la sua dottrina nei settori in cui dispone di potere decisori
oppure le comunicazioni che raccolgono gli sviluppi normativi giurisprudenziali relativi ad un'intera
materia e indicano lo stato della normativa dell'Unione. Pur non provviste di effetti vincolanti essi
possono tuttavia provocare una legittima aspettativa negli amministrati che si conformino al loro
contenuto.
➢ le conclusioni e le risoluzioni, di solito adottate dal Consiglio e dal Consiglio europeo che chiariscono
il pensiero dell'istituzione e spesso assumono valore di impegno politico;
➢ programmi d'azione, dichiarazioni, deliberazioni, codici di condotta: si tratta di atti privi di valore
obbligatorio incapaci di produrre effetti giuridici di cui i singoli possono avvalersi. L'idoneità dell'atto
a produrre effetti vincolanti risulta il criterio decisivo per la sua sindacabilità, la Corte non ha esitato ad
annullare certe disposizioni ritenute avere effetti vincolanti, per incompetenza dell'organo o per
mancato rispetto delle regole di procedura.
➢ le dichiarazioni comuni e gli accordi interistituzionali firmate dai presidenti del Parlamento, del
Consiglio e della commissione→ adottati al fine di assumere una posizione comune su questioni
ritenute fondamentali oppure al fine di stabilire regole di comportamento, meccanismi di
coordinamento delle rispettive competenze o modalità di cooperazione in determinate procedure,
nell'ottica di migliorare il loro svolgimento ed evitare possibili conflitti.
Ai sensi del 259 TFUE questi atti possono essere vincolanti: ad es. le istituzioni saranno tenute a seguire
la procedura per rispettare la classificazione delle spese come definite nella dichiarazione comune
delle tre istituzioni; una decisione del Consiglio è stata annullata dalla Corte per violazione di un
accordo con la Commissione.
ATTI PESC E PSDC → per raggiungere gli obiettivi fissati in materia di PESC l’Unione ha a disposizione:
1) atti previsti dai Trattati
• orientamenti generali→ indirizzano le istituzioni europee nell’esercizio delle proprie
competenze esterne.
• decisioni→ possono definire l’azione dell’Ue nel quadro internazionale; possono definire la
posizione dell’Ue rispetto ad una particolare questione a cui gli stati membri sono tenuti a
conformare le proprie politiche nazionali; possono stabilire le modalità di esecuzione delle
decisioni appartenenti alle due precedenti categorie (decisioni che definiscono la sua azione
e decisioni che definiscono la sua posizione).
• linee strategiche (26 par. 2 tue)
• accordi internazionali (218 tfue)
• misure restrittive (215 tfue)
Gli atti tipici PESC e PDSC non sono atti legislativi per espressa previsione dell’art. 31 TUE → sono
adottati dal consiglio europeo o dal consiglio all’Unanimità. Per quanto riguarda la PDSC gli artt. 42
e 43 TUE attribuiscono al Consiglio la competenza ad adottare decisioni relative all’istituzione di
missioni civili e militari definendone la portata e le modalità di realizzazione.
Dell’effetto diretto possono essere provviste anche le disposizioni contenute in accordi stipulati
dall’Unione con paesi terzi nonché le decisioni degli organi misti istituiti da tali accordi (la Corte di
giustizia non riconosce la possibilità che possano avere effetto diretto le norme dell’OMG -
organizzazione mondiale del commercio- data la natura e la portata dell’accordo la cui osservanza
è fondata più sulla reciproca convivenza e non sulla vincolatività delle norme).
Quanto alle norme della Carta dei diritti fondamentali l’art. 52 par. 3della stessa pone delle
problematiche perché distingue: 1) disposizioni che garantiscono diritti e 2) disposizioni che
contengono principi. Per i primi sembra essere previsto un sistema di tutela più elevato in quanto i
diritti per essere “garantiti” vanno rispettati; per i secondi è previsto un regime di tutela più
debole: i principi vanno osservati. Da ciò si desume che mentre i diritti sono invocabili dal singolo,
a tutela delle loro posizioni giuridiche, davanti al giudice nazionale, i principi possono essere
invocati solo ai fini interpretativi. Tuttavia, ci sono artt. della Carta che contemplano sia principi
che diritti e sta alla Corte, in questi casi, il compito di individuarli e di valutare se le disp. che
contengono diritti hanno un effetto diretto verticale o anche orizzontale (si tratta di una
valutazione pragmatica che va fatta caso per caso).
Dunque, una direttiva priva di effetto diretto non trasposta entra, alla scadenza del termine, a far
parte del diritto dell’Unione e condiziona la normativa nazionale che disciplina la stessa materia
(diviene dunque un parametro di legittimità della normativa nazionale), in questa ipotesi (altri
rimedi):
La giurisprudenza, a partire da alcune pronunce della seconda metà degli anni Settanta, ha
affermato il diritto del singolo al risarcimento del danno patrimoniale subito per effetto
dell’inadempimento dello stato membro, stabilendo in particolare che “quando il pregiudizio al
singolo derivi dalla violazione di una norma di diritto comunitario da parte dello stato, questo dovrà
risponderne nei cfr. del soggetto leso, in conformità alle disposizioni di diritto interno relative alla
responsabilità della p.a.”.
Tale giurisprudenza è stata poi consacrata nella s. FRANCOVICH → Si trattava di una direttiva non
trasposta dall'ordinamento nazionale che imponeva agli stati di istituire un fondo di garanzia a tutela
dei crediti maturati dai lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro. Questo obbligo non era
provvisto di effetto diretto, ma era necessario l'intervento dello stato per istituire questo fondo e
l'ordinamento italiano non l'aveva fatto, quindi si poneva il problema di tutelare i crediti dei
lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro. La corte di giustizia nella sentenza evidenziò che
sarebbero state compromesse: 1) l’efficacia delle norme (all'epoca) comunitarie e 2) la tutela dei
diritti che queste norme riconoscono ai singoli se questi soggetti non avessero avuto la possibilità
di ottenere il risarcimento dei danni quando i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto
comunitario imputabile ad uno stato membro. Una volta affermata l’esistenza del principio di
responsabilità dello stato da mancata attuazione di una direttiva, la Corte precisò le condizioni per
darne attuazione: a) il risultato prescritto dalla direttiva doveva implicare l’attribuzione di diritti a
favore dei singoli; b) il contenuto di tali diritti doveva poter essere individuato sulla base delle
disposizioni della direttiva; c) doveva sussistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a
carico dello stato e il danno subito dai soggetti lesi. → tali condizioni, affermava la corte, erano
sufficienti per far sorgere a vantaggio del singolo un diritto al risarcimento che trova direttamente
il suo fondamento nel diritto dell’Unione; inoltre affermò che “è nell’ambito delle norme del diritto
nazionale relative alla responsabilità che lo stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno
provocato.”
Dunque, la prima sentenza che in modo chiaro ha riconosciuto questo obbligo risarcitorio in capo
agli stati è stata la sentenza Francovich, anche se poi è stata la sentenza successiva BRASSERIE DU
PECHEUR (osteria del pescatore) che ha delineato le condizioni necessarie affinché possa sorgere la
responsabilità risarcitoria degli stati (che sostanzialmente ha ripreso le conclusioni dell'avvocato
generale che all'epoca era Tesauro). Prima di tutto, tale sentenza, ha fornito dei chiarimenti
fondamentali perché dopo la sentenza Francovich era sorto un dubbio (risolto negativamente in
Francovich) e cioè se il rimedio risarcitorio in questione è di carattere generale. In questa sentenza
la corte ha dato una risposta positiva: si tratta di un rimedio di carattere generale che prescinde
dall'effetto diretto o meno della norma violata: può essere fatto valere sia quando la violazione
riguardi una norma sprovvista di effetto diretto (non invocabile davanti al giudice nazionale) sia
quando la violazione riguarda una norma invece provvista di effetto diretto ( non solo la tutela c’è
già, ma è direttamente azionabile in quanto la norma è invocabile davanti al giudice nazionale,
dunque resta solo da accompagnare a questa tutela sostanziale e processuale quel minus che è
rappresentato dalla “tutela patrimoniale”).
Sempre in questa sentenza è stato stabilito un parallelismo tra il regime della responsabilità
risarcitoria degli stati e regime della resp. extracontrattuale dell'unione perché si è detto che i
presupposti dei due rimedi non devono essere differenti in mancanza di una ragionevole
giustificazione, in quanto il risarcimento del danno non può variare in funzione della natura
dell'organo nazionale o dell'unione che abbia commesso la violazione ,anche se poi, andando a
vedere in concreto, il sistema della responsabilità risarcitoria dell'unione è più rigido rispetto a
quello degli stati (ci sono delle peculiarità per cui è più difficile ottenere il risarcimento dei danni).
Altro principio fondamentale che è stato stabilito nella sentenza Brasserie e poi ripreso dalla
giurisprudenza successiva è il principio dell'unità dello stato, o dell'indifferenza dell'organo che
abbia commesso la violazione. Agli occhi dell'unione europea, il soggetto responsabile è sempre lo
stato, a prescindere dall'organo che abbia commesso la violazione (organo del potere legislativo,
esecutivo, amministrazione centrale o locale oppure organo del potere giudiziario); è una questione
di diritto interno se poi lo stato intende rivalersi sul soggetto responsabile dei danni derivanti dalla
violazione. Negli stati a struttura federale è possibile che lo stato possa dire che al suo posto paghi
la regione che abbia effettivamente commesso la violazione, ma se la regione non pagherà o
pagherà in modo insoddisfacente il soggetto responsabile è sempre e comunque lo stato.
Il principio, secondo tale giurisprudenza, vale anche per i GIUDICI, tuttavia il fatto che lo stato sia
responsabile anche nelle ipotesi in cui le sentenze della cassazione o del consiglio di stato (di ultimo
grado: definitive) siano in contrasto con il diritto dell'unione europea, ha suscitato parecchi dubbi;
in particolare furono sollevate due obiezioni: 1) è leso il principio dell'autonomia e
dell’indipendenza della magistratura; 2) è messo in discussione il passaggio in giudicato di una
sentenza che è un principio fondamentale di certezza del diritto.
A queste due obiezioni la corte di giustizia ha risposto con la sentenza KOBLER e poi con la sentenza
“Traghetti nel mediterraneo”) fornendo chiarezza su entrambi i punti. Primo punto: se si riconosce
la responsabilità dello stato per fatto del giudice, non si mette in discussione l'autonomia della
magistratura perché non è in tal modo investita la responsabilità personale del giudice, ma la
responsabilità dello stato. Poi per una questione di diritto interno, su come si intende regolare il
rapporto tra il magistrato e stato è una questione che non coinvolge il diritto dell'Unione, è una
questione interna che va risolta secondo le proprie norme costituzionali o le norme convenzionali,
come le norme della CEDU sull'equità del processo e l'autonomia del magistrato.
Secondo punto: la corte ha chiarito che il riconoscimento della responsabilità risarcitoria degli stati
è cosa diversa dal mettere in discussione il giudicato di una sentenza anche perché il giudicato, e
quindi la certezza del diritto, è un principio comune agli ordinamenti degli stati membri ed è un
principio generale del diritto dell’UE che la corte di giustizia deve garantire.
Queste conclusioni cui è pervenuta la corte non dovrebbero applicarsi, in linea di principio, alle
violazioni del diritto dell’Ue riconducibili alle decisioni di un giudice non di ultima istanza sia perché
su di esso non grava l’obbligo di sollevare un quesito pregiudiziale, sia perché la sua sentenza può
essere impugnata davanti un giudice superiore; eppure c’è chi ha sostenuto che nell’ipotesi di
un’interpretazione consolidata della giurisprudenza dell’Unione, si possa ipotizzare una resp. dello
stato per una violazione sistemica compiuta da un giudice non di ultima istanza.
1) la norma del diritto dell’Ue violata deve conferire diritti ai singoli→ deve trattarsi di una
disposizione che genera diritti in favore dei singoli, che abbiano lo scopo di tutelare gli interessi del
singoli: tale condizione non va confusa con il significato dell’effetto diretto, è chiaro che una norma
provvista di effetto diretto è sempre una norma preordinata a conferire diritti ai singoli, ma non è
vero il contrario; una norma preordinata a conferire diritti ai singoli può o meno essere provvista di
effetto diretto a seconda che abbia quegli ulteriori requisiti (sia chiara, precisa, suscettibile di
applicazione immediata), ad es. le norme della direttiva Francovich attribuivano diritti ai singoli in
caso di insolvenza del datore di lavoro ma non erano provviste di effetto diretto perché richiedevano
un intervento da parte del legislatore italiano.
2) vi deve essere una violazione sufficientemente qualificata da intendere come violazione grave e
manifesta→ a tal fine vanno presi in considerazione una serie di elementi: a) innanzitutto il grado
di discrezionalità dell’organo che abbia commesso la violazione (tanto maggiore è la discrezionalità
attribuita all’organo nazionale, tanto meno grave e manifesta è la violazione; tanto meno l’organo
ha discrezionalità a sua disposizione, tanto più grave e manifesta è la violazione, fino ad arrivare al
caso limite che il comportamento dell’organo è vincolato, non ha discrezionalità, in questo caso
basta la semplice violazione per integrare gli estremi della violazione grave e manifesta. b) il
carattere intenzionale o involontario della violazione; c) la scusabilità o inescusabilità; d) la
circostanza che le istituzioni dell’Unione abbiano potuto concorrere alla violazione del diritto
dell’UE; e) l’esistenza o meno di una giurisprudenza consolidata della corte di giustizia (quando c’è
già un precedente, è chiaro che si ritiene presunta la violazione grave e manifesta); f) in particolare,
nell’ipotesi di responsabilità dello stato giudice un altro elemento da prendere in considerazione è
la violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza.
3) nesso causale tra violazione e danno.
CONDIZIONI PROCEDURALI→ le azioni risarcitorie devono essere proposte dinanzi ai giudici interni
applicando le regole procedurali nazionali data l’assenza di un’armonizzazione dell’Unione delle
norme procedurali nazionali: si parla di autonomia procedurale → è l’ordinamento giuridico interno
di ciascuno stato membro che designa il giudice competente e stabilisce le modalità procedurali
delle azioni intese a garantire i diritti spettanti ai singoli in forza delle norme dell’Unione. Si
applicano quindi le regole interne, ma con dei limiti, l’autonomia processuale deve rispettare due
principi fondamentali:
Questi principi valgono anche per il soggetto che intende far valere un rimedio di tutela
diretta/sostanziale. Questo rimedio risarcitorio è stato utilizzato nel nostro ordinamento a tutela
dei soggetti deboli (caso Francovich) si pensi anche alle questione che riguarda i medici
specializzandi: la normativa interna prevedeva un’attività lavorativa da parte dei medici senza
alcuna remunerazione in contrasto con una direttiva comunitaria. Si trattava di soggetti che
svolgevano a tutti gli effetti un’attività lavorativa e non meramente formativa. Ai sensi della direttiva
comunitaria dovevano avere una remunerazione; però lo stato italiano non la prevedeva e in questo
caso è stato utilizzato il rimedio risarcitorio nei confronti dello stato per violazione di una direttiva
comunitaria. Un altro caso è quello di Traghetti nel Mediterraneo→ si trattava di un’impresa che
era fallita perché si trovava a competere con la Tirrenia che beneficiava di aiuti dallo stato e
Traghetti del Mediterraneo no, dunque non era una competizione ad armi pari: questo portò al
fallimento di Traghetti nel Mediterraneo che propose un’azione risarcitoria.
Mentre la Corte di giustizia è pervenuta subito all’affermazione della prevalenza delle norme
dell’Unione sulle norme nazionali, la Corte Costituzionale vi è pervenuta dopo un grande travaglio
intellettuale. In origine, le posizioni delle due corti erano diametralmente opposte, progressivamente
poi la Corte Cost. si è avvicinata alla posizione della Corte di Giustizia. Poi, quando sembrava che il
quadro si fosse assestato è intervenuta la Sentenza “Taricco” che ha aperto una nuova fase dei rapporti
tra diritto dell’Unione europea e diritto interno.
SENTENZA “COSTA/ENEL”→ Nei primi anni Sessanta, in vista della legge di nazionalizzazione
dell’energia elettrica, si poneva un problema di compatibilità di questa legge con il diritto allora
comunitario. Il problema si poneva perché nel nostro ordinamento i rapporti tra diritto comunitario e
diritto interno venivano affrontati sulla base del principio della successione delle leggi nel tempo: la
legge successiva deroga e prevale sulla legge precedente. Il problema non si poneva nell’ipotesi in cui
la normativa comunitaria fosse stata successiva a una norma di legge nazionale perché in base al
principio della successione era chiaro che la norma comunitaria, in quanto successiva, prevaleva sulla
orma nazionale. Il principio del primato del diritto dell’Unione, invece, veniva messo in discussione
nell’ipotesi in cui una legge interna fosse stata successiva alla norma comunitaria, proprio come nel
caso della legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica perché in base a questo principio della
successione delle norme nel tempo la norma interna doveva prevalere sulla norma comunitaria. Infatti,
questa fu la posizione espressa dalla Corte Costituzionale quando, contestata la legge italiana sulla
nazionalizzazione dell’energia elettrica dinanzi al giudice conciliatore di Milano sotto il duplice profilo
della incompatibilità con la Costituzione e con il diritto comunitario, lo stesso rivolse, la questione di
compatibilità prima alla Corte Costituzionale e poi alla Corte di Giustizia. Mentre la Corte di Giustizia
affermò in modo netto e chiaro il principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno,
principio che doveva trovare sempre applicazione, a prescindere dal fatto che la norma comunitaria
fosse stata precedente o successiva; la Corte Cost., invece, affermò la preminenza della legge di
nazionalizzazione dell’energia elettrica sulla norma del Trattato→ questo perché, a differenza di altri,
nel nostro ordinamento non fu modificata la Costituzione per aprire il sistema all’ingresso delle norme
comunitarie; dunque ai Trattati istitutivi era stata data attuazione con una legge ordinaria e, quindi, il
conflitto, in questo caso, secondo la Corte Cost., andava risolto tra leggi ordinarie: una di adattamento
ai Trattati e una, nel caso di specie, di nazionalizzazione dell’energia elettrica, successiva alla legge di
attuazione dei Trattati istitutivi e in quanto tale prevalente.
Si può notare, quindi, come in origine la posizione delle due corti fosse antitetica; progressivamente
poi la Corte Costituzionale si è avvicinata alla posizione della Corte di Giustizia, cercando un
fondamento, a livello costituzionale, che potesse assicurare il principio del primato.
Secondo una tesi (Monaco) si poteva far affidamento sulla formulazione dell’art. 11 Cost→“L'Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” sulle limitazioni di sovranità. Tuttavia, si
riteneva che l’art. 11 Cost. non potesse essere stato pensato per enunciare il principio del primato del
diritto comunitario perché essendo la Costituzione precedente all’entrata in vigore dei Trattati
istitutivi, il nostro Costituente non poteva di certo prevedere che successivamente si sarebbe dovuto
dare attuazione ai Trattati istitutivi delle Comunità europee. Proprio per questo “limitazione di
sovranità” era inteso come limitazione di sovranità territoriale e militare per le organizzazioni
internazionali, per fare in modo che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale le nostre forze armate
potessero essere guidate da forze internazionali quali la NATO. Però la tesi del Monaco aveva ipotizzato
che qui “limitazione di sovranità” potesse essere inteso in senso ampio, quindi nel senso di consentire
anche le limitazioni di sovranità a carattere normativo, per assicurare il principio del primato del diritto
comunitario sul diritto interno. Si trattava di una tesi, in origine minoritaria, che poteva sembrare anche
una forzatura, che poi, però, la Corte Cost. accolse, proprio per trovare un fondamento costituzionale
alla preminenza del diritto comunitario sul diritto interno→ questo fondamento venne, quindi,
individuato nell’art. 11 Cost.
Questo passaggio si realizzò con le SENTENZE “INDUSTRIE CHIMICHE” E “FRONTINI” che danno inizio
ad una fase intermedia in cui la Corte ipotizzava che qualsiasi conflitto con una norma comunitaria si
risolvesse come un conflitto con l’art. 11 Cost.; dunque il giudice nazionale posto di fronte al conflitto
tra norma comunitaria e norma nazionale non poteva direttamente disapplicare la norma nazionale in
conflitto con una norma comunitaria provvista di effetto diretto, ma doveva sospendere il giudizio e
rimettere la questione alla Corte Costituzionale. Una soluzione che da una parte poteva avere un pregio
perché, sostanzialmente, consentiva di risolvere definitivamente la questione nell’ipotesi in cui fosse
accertato dalla Corte Costituzionale il conflitto, in quanto veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale
della norma di legge nazionale e questa veniva espunta dall’ordinamento interno. Tuttavia, tale
soluzione non ebbe molti consensi dalla giurisprudenza nazionale e dalla dottrina perché se ogni
conflitto dovesse essere risolto dalla Corte Costituzionale, ci sarebbe stato un allungamento eccessivo
dei tempi del giudizio e la mancanza di un’efficace tutela delle posizioni giuridiche del singolo tutelate
dal diritto comunitario; restava a favore della posizione della Corte Cost. il pregio della certezza del
diritto che consegue al giudizio centralizzato di legittimità.
Proprio per questo, fu investita della questione la Corte di Giustizia nella famosa SENTENZA
“SIMMENTHAL” → il giudice nazionale chiese, in via pregiudiziale, alla Corte di giustizia se quel
meccanismo ipotizzato dalla nostra Corte Cost. non fosse, in qualche modo, incompatibile con il diritto
comunitario e con l’esigenza di assicurare un’applicazione diretta e immediata alle norme comunitarie
provviste di effetto diretto. Il punto focale del problema era rappresentato dalla circostanza che al
giudice era preclusa dal suo diritto nazionale, così come interpretato dalla Corte Cost., la
disapplicazione della norma interna posteriore contrastante con quella dell’Unione, in quanto doveva
previamente esaurirsi il procedimento di verifica di compatibilità costituzionale dato che il contrasto
tra norma nazionale e norma dell’Unione si configurava come contrasto con l’art. 11 della Costituzione.
La Corte di Giustizia diede una risposta netta, affermando che i principi dell’effetto diretto e del primato
impongono che le norme comunitarie siano applicate immediatamente al posto di quelle nazionali con
esse contrastanti. Verrebbe altrimenti compromessa l’efficacia e l’uniforme applicazione del diritto
comunitario, se si dovesse di volta in volta attendere o una rimozione in via legislativa dell’antinomia,
o un accertamento da parte della Corte Costituzionale dell’illegittimità costituzionale della norma di
legge. Quindi, una critica forte che portò, inevitabilmente, la Corte di Cost a cambiare la sua posizione.
Questo cambiamento di posizione si ebbe con la sentenza “GRANITAL” che affermò il principio del
primato. La corte Cost in questa sentenza evidenziò che, pur muovendo da una posizione teorica
diversa (in quanto la Corte di Giustizia ha sempre avuto una visione monista dei rapporti tra diritto
dell’Unione e diritti nazionali -considerandoli come un unico ordinamento-, mentre la stessa ha una
visione dualista -ossia sostiene che i due ordinamenti sono autonomi e distinti anche se coordinati tra
loro in forza dell’art. 11 Cost. che ha consentito di trasferire determinate competenze dell’ordinamento
nazionale al diritto comunitario-), nell’ipotesi di conflitto con una norma comunitaria provvista di
effetto diretto, questa impedisce alla norma nazionale di venire in rilievo, ai fini della disciplina del
rapporto→ di conseguenza, si impone al giudice nazionale la disapplicazione della norma interna, che
non significa annullamento della norma interna, ma significa che il giudice nazionale metterà da parte
la norma nazionale confliggente, per poter applicare, invece, direttamente la norma comunitaria che
disciplinerà quel rapporto controverso che viene portato dinanzi al giudice nazionale ai fini della
soluzione della controversia. Quindi, si consente un’applicazione immediata del diritto comunitario ma
non si rimuove definitivamente dall’ordinamento interno quel conflitto. Sarà sempre necessario per
rimuoverlo o un intervento tempestivo da parte del legislatore oppure un intervento della Corte di
Giustizia. Si presuppone o un intervento della Corte di Giustizia, soprattutto attraverso lo strumento
del rinvio pregiudiziale che consente di risolvere definitivamente il conflitto e di interpretare la norma
europea in questione, o un intervento tempestivo da parte del legislatore nazionale che porti ad
eliminare dall’ordinamento, abrogare o modificare la norma nazionale in contrasto con la norma
comunitaria.
Naturalmente, il giudice nazionale può provvedere alla disapplicazione quando la norma comunitaria
è provvista di effetto diretto (quando è chiara e precisa e suscettibile di applicazione immediata), se la
norma comunitaria non è dotata di effetto diretto, una delle possibilità è proprio il rinvio alla Corte
Costituzionale per far valere la violazione dell’art. 11 Cost. e altresì dell’art. 117 Cost, sempreché non
sia possibile utilizzare il rimedio dell’interpretazione conforme, che ha acquisito sempre più rilevanza
e perché, evidentemente, l’interpretazione conforme è un rimedio meno traumatico, ha un impatto
minore sugli ordinamenti nazionali e quindi il giudice comune dovrà verificare prima la strada
dell’interpretazione conforme e poi percorrere, eventualmente, quella della disapplicazione o degli
altri rimedi (a seconda che la norma europea abbia o meno effetto diretto).
Con la sentenza GRANITAL è stata affermata in modo chiaro la prevalenza del diritto dell’Unione, ma
la corte Cost., muovendo dalla tradizionale teoria dei controlimiti e da un approccio dualistico dei
rapporti tra ordinamento interno e dell’unione, ha inteso comunque salvaguardare il nucleo dei valori
fondamentali del nostro ordinamento nelle ipotesi di eventuali conflitti con una norma dell’Unione
quale che sia il rango con cui quest’ultima entri a far parte del nostro ordinamento.
La sentenza “Granital” precisava quando si verificano queste ipotesi di “controlimiti”: quando entrano
in gioco i principi fondamentali del nostro ordinamento, quando entrano in gioco quindi i diritti
inalienabili della persona, i diritti fondamentali, o quando ci sono delle norme che mettono in
discussione la perdurante osservanza del nocciolo duro dei Trattati, vale a dire le cd. ipotesi di
“ribellione del legislatore” (che si verifica quando il legislatore volutamente e in modo ripetuto abbia
violato i Trattati, le norme fondamentali dei Trattati). Vi sono, in sostanza, tre ipotesi che non si
sottraggono all’intervento della Corte costituzionale (e in cui l’applicazione del diritto dell’Unione
risulta recessivo in via eccezionale). In queste ipotesi il giudice comune non può procedere alla
disapplicazione ma deve coinvolgere la Corte di Costituzionale.
Dunque, la teoria dei controlimiti rappresenta un limite all’applicazione generalizzata del principio del
primato del diritto dell’Unione, il diritto dell’Ue prevale ma non fino a lede i diritti fondamentali del
nostro ordinamento; tuttavia tale teoria ha sempre avuto uno scarso impatto pratico innanzitutto
perché i diritti fondamentali costituiscono parte integrante del diritto dell’Unione e poi perché tali
diritti sono stati rafforzati con la Carta.
Negli ultimi anni però c’è stata una riespansione del controllo della corte costituzionale sul rispetto dei
controlimiti prima con la 269 del 2017 e poi con la Taricco con la quale si è manifestato in concreto il
rischio dell’utilizzo dei controlimiti da parte della corte costituzionale.
CASO TARICCO
Taricco 1 →Nel 2014 il GUP presso il tribunale di Cuneo chiamato a giudicare due soggetti
imputati dei reati di frode fiscale in materia di IVA sollevò rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia
perché si era reso conto che il procedimento si sarebbe concluso dopo che erano già decorsi i
termini di prescrizione e quindi chiedeva alla stessa se la normativa italiana in materia di
prescrizione fosse compatibile con le disposizioni dei trattati. La Corte di Giustizia ha considerato
la normativa italiana sulla prescrizione in contrasto con l’art. 325 TFUE il quale sancisce l’obbligo
degli Stati membri di contrastare i reati in materia di frode fiscale con delle misure sanzionatorie
effettive e dissuasive, in quanto l’IVA costituisce una parte importante del bilancio comunitario e
queste frodi, se non adeguatamente sanzionate, sottraggono importi allo stesso. Sulla base di
questa disposizione, la Corte di Giustizia ritiene che la norma in tema di prescrizione sia idonea a
pregiudicare gli obblighi imposti dal 325 agli Stati perché impedisce agli stessi di infliggere sanzioni
effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode. Dunque, il Giudice nazionale - in
virtù del 325 - è tenuto direttamente a disapplicare le normative in tema di prescrizione
confliggenti con gli obblighi del diritto dell’Unione
La Corte Costituzionale, reinvestita della questione, indica che la regola prevista nella Taricco 1
contrasta con il principio di legalità dei delitti e delle pene il quale impone che le norme penali
debbano avere un contenuto preciso e non possano essere retroattive. Dunque, secondo la Corte
Costituzionale applicando il 325 in luogo del 160 cp. si violerebbe tale principio, punendo gli
imputati creando per loro conseguenze sfavorevoli senza che avessero avuto la possibilità di
prevederle. Dunque, in tale occasione la Corte Costituzionale minaccia di applicare i controlimiti
affermando che avrebbe dichiarato la illegittimità costituzionale della legge nazionale contenete
l’autorizzazione alla ratifica e all’esecuzione dei Trattati europei per la parte in cui essa consente la
violazione del principio fondamentale di legalità dei delitti e delle pene. In questa occasione la
Corte non applica i controlimiti, ma ne minaccia l’applicazione e investe la Corte di Giustizia di un
ulteriore rinvio pregiudiziale chiedendo alla stessa se il 325 debba essere interpretato nel senso
dettato dalla Corte di Giustizia nella Taricco 1 anche se comporta la violazione del principio di
legalità penale.
Taricco 2 → Con questa sentenza la Corte di Giustizia viene incontro alle esigenze della Corte
Costituzionale e ritorna sui propri passi stabilendo che il 325 debba essere interpretato nel senso
che impone la disapplicazione di tutte quelle norme nazionali che impediscono l’applicazione di
sanzioni effettive, a meno che tali disapplicazione non comporti una violazione del principio di
legalità, a causa dell’applicazione retroattiva di una normativa che pone un regime più severo di
quello vigente al momento della commissione del reato.
Nonostante questo passo avanti della corte di Giustizia, la Corte Costituzionale con sentenza 115
del 2018 sancisce che non solo che la regola Taricco non si applica ai casi verificatesi prima della
Taricco 1, ma anche nei procedimenti futuri. Dunque, il Giudice nazionale non può disapplicare la
norma interna perché spetta alla Corte Costituzionale il compito di accertare se il diritto
dell’Unione è in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento interno. Da questa
reazione della Corte Costituzionale si evince che ci si trova in una nuova fase dei rapporti tra
ordinamento dell’Unione e ordinamento interno, quantomeno relativamente ai conflitti tra
disposizione dell’Unione e principi fondamentali dell’ordinamento interno che non possono essere
risolti dal parte del Giudice interno con la disapplicazione, ma è necessario un intervento della
Corte Costituzionale (sembra essere tornati, in questo caso, alla posizione che assunse la Corte
Costituzionale nelle sentenze Industrie Chimiche e Frontini).
LA FASE ASCENDENTE
Questa fase trova sede operativa nel Dipartimento per le politiche europee (Dipartimento del
Consiglio dei Ministri) istituito per gestire la partecipazione dello stato alla formazione delle
politiche e degli atti adottati dalle istituzioni dell’Unione. Esso collabora con il Presidente del
Consiglio per l’esercizio delle funzioni attribuite all’esecutivo nel processo di formazione ed
attuazione degli atti dell’Unione ed è posto sotto la direzione del Ministro degli affari europei. Più
precisamente la posizione che il Governo assume nelle sedi istituzionali si forma attraverso
un’azione di coordinamento operata dal Comitato interministeriale per gli affari europei (CIAE) al
quale è affidato il compito di coordinare a livello ministeriale le linee politiche del governo ed
elaborare una posizione italiana da esprimere da esprimere nella fase di predisposizione degli atti
dell’Unione. Per lo svolgimento delle sue funzioni si avvale di un CTV (comitato tecnico di
valutazione) composto da un rappresentante di ogni ministero e, nel caso, di ogni regione e
provincia autonoma che ha il compito di raccogliere le istanze delle diverse amministrazioni sulle
questioni in discussione in sede europea.
La legge in questione ha valorizzato il ruolo del Parlamento che deve essere informato sulla
posizione che il Governo intende assumere prima di ciascuna riunione del Consiglio europeo e del
Consiglio, nonché a posteriori sui risultati di tali riunioni. Al parlamento devono pervenire poi: una
relazione programmatica (entro il 31 dicembre) ed un’altra consuntiva (entro il 28 febbraio) che
servono rispettivamente a chiarire gli orientamenti che il governo intende perseguire nell’anno
successivo e a render conto degli sviluppi nel processo di integrazione registratisi l’anno
precedente. Inoltre, è direttamente coinvolto nell’elaborazione degli atti dell’Unione in quanto il
presidente del Consiglio o il Ministro per gli affari esteri trasmette alle Camere i progetti di atti
dell’unione unitamente alla nota illustrativa dell’esecutivo; le informazioni così trasmesse alle
Camere consentono loro di orientare la politica dell’esecutivo in seno all’Unione e in tale ottica le
stesse possono trasmettere al Governo precisi atti di indirizzo e quest’ultimo è tenuto a farsi
portavoce degli stessi in sede europea ed a riferire e motivare eventuali posizioni difformi assunte.
Altro strumento di partecipazione è la riserva di esame parlamentare cioè il Governo può far
presente l’impossibilità di votare in sede europea su un determinato atto perché è in attesa del
parere del Parlamento. L’importanza del ruolo assunto dalle Camere si fa ancora più evidente nella
verifica del rispetto del p. di sussidiarietà → la legge in questione, riprendendo quanto sancito nei
Protocolli 1 e 2 allegati ai trattati, aggiunge l’obbligo di trasmissione anche al Governo dei pareri
motivati che possono essere inviati dalle Camere al Parlamento europeo, al Consiglio ed alla
Commissione per contestare la conformità del progetto dell’atto dell’Unione al principio di
conformità (siamo nell’ambito della procedura di allarme preventivo cioè di controllo ex ante sul
rispetto del principio in questione); nell’ambito del controllo ex post la suddetta legge prevede
l’obbligo del governo di presentare alla Corte di giustizia i ricorsi deliberati dalla Camera o dal
Senato avverso un atto legislativo dell’Unione per violazione del suddetto principio. Infine, il
Parlamento può chiedere al rappresentante dell’Italia in seno al Consiglio dell’unione di avvalersi
del meccanismo del freno di emergenza che consente al Governo di opporsi ad una delibera del
Consiglio a maggioranza qualificata, adducendo motivi di politica nazionale o la salvaguardia dei p.
fondamentali.
LA FASE DISCENDENTE
In precedenza, l’adeguamento dell’ordinamento all’Unione avveniva con la legge comunitaria
emanata annualmente dal Parlamento e contenente le disposizioni di legge necessarie ad
assicurare l’adempimento di più atti ed obblighi europei; tuttavia, l’uso della stessa non è stato
efficace, anzi è sfociato in numerose procedure di infrazione per inadempimento degli obblighi o
di tardivo recepimento delle direttive europee. Attualmente, invece, assicurano il periodico
adattamento dell’ordinamento nazionale a quello dell’unione, la legge di delegazione e la legge
europea, anche se vi è la possibilità, in specifiche ipotesi, di procedervi con altri provvedimenti di
legge oppure specifici atti legislativi.
Quanto alla prima, il disegno di legge di delegazione deve essere presentato alle Camere il 28
febbraio di ogni anno ed è accompagnato da una relazione illustrativa che spiega il suo contenuto
motivando l’inclusione delle direttive da recepire con strumento delegato, dando conto
dell’eventuale omesso inserimento delle direttive il cui termine di recepimento è in scadenza o è
scaduto, fornendo l’elenco delle direttive da recepire in via amministrativa e riferendo, infine,
sullo stato di conformità dell’ordinamento al diritto dell’unione e sullo stato delle eventuali
procedure di infrazione. Un’ulteriore legge di delegazione europea, completata dalla dicitura
“secondo semestre”, senza relazione illustrativa, può essere presentata entro il 31 luglio di ogni
anno, se il governo ritiene siano emerse nuove esigenze di adempimento degli obblighi
dell’Unione. Essa contiene disposizioni per il conferimento al Governo di delega legislativa:
• volta all’attuazione delle direttive e degli atti che necessitano di essere attuati;
• per modificare o abrogare disposizioni statali vigenti limitatamente a quanto indispensabile
per garantire la conformità dell’ordinamento interno ai pareri motivati indirizzati all’Italia
dalla Commissione ai sensi dell’art. 258 TFUE o al dispositivo di sentenze di condanna per
inadempimento emesse dalla Corte di giustizia;
• per l’attuazione di norme non direttamente applicabili contenute in regolamenti europei;
• per l’emanazione di decreti legislativi, nelle materie di competenza legislativa delle regioni
e delle province autonome recanti sanzioni penali per la violazione delle disposizioni
dell’Unione recepite da tali enti.
Contiene altresì disposizioni che individuano i principi fondamentali nel rispetto dei quali regioni e
province autonome esercitano la propria competenza normativa per recepire atti dell’Unione nelle
materie di loro competenza.
Il Governo è tenuto ad adottare i decreti legislativi entro i quattro mesi antecedenti al termine
indicato in ciascuna direttiva e se il termine è già scaduto o sta per scadere devono essere adottati
entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge di delegazione; se non è indicato alcun termine di
recepimento vanno adottati entro 12 mesi dall’entrata in vigore della suddetta legge. E’ fatto
divieto al governo, in sede di recepimento, di introdurre livelli di regolazione superiori a quelli
minimi richiesti dalla direttiva e deve assicurare la parità di trattamento dei cittadini italiani
rispetto a quelli degli altri stati membri.
In particolare, le direttive possono essere recepite a prescindere dalla legge di delegazione in
quanto:
• la delega, sulla cui base vengono emanati i decreti legislativi attuativi di una direttiva, può
essere contenuta in una legge diversa dalla legge di delegazione, ma sempre nel rispetto
dei principi e dei criteri direttivi generali previsti dalla stessa legge di delegazione europea
per l’anno di riferimento.
• il governo può adattare provvedimenti urgenti necessari a far fronte ad atti dell’Unione o
sentenze della corte di giustizia che comportano obblighi statali di adeguamento.
• il recepimento delle direttive può avvenire anche in via regolamentare nelle materie di cui
al 117.2 già disciplinate con legge, ma non coperte da riserva di legge assoluta, qualora il
tenore della direttiva lo consenta.
• possono essere recepite con atto ministeriale o interministeriale qualora la direttiva non
riguardi una materia disciplinata dalla legge o qualora si tratti di dare esecuzione ad una
direttiva già recepita nel nostro ordinamento.
Quanto alla “la legge europea”, essa rappresenta lo strumento normativo di adeguamento dell’Italia
agli obblighi dell’Unione adottato direttamente dal Parlamento; anch’essa ha cadenza annuale, ma
non è previsto un termine per la presentazione del relativo disegno di legge, è finalizzata
essenzialmente ad adottare interventi di “attuazione diretta” del diritto dell’Unione, senza la delega
al governo per l’adozione degli atti necessari. Contiene dunque disposizioni:
• modificative o abrogative di disposizioni statali in contrasto con gli obblighi imposti dal
diritto dell’Unione o oggetto di procedure di infrazione avviate dalla Commissione europea
o di sentenze della Corte di giustizia;
• finalizzate a porre rimedio al non corretto recepimento della normativa dell’Unione, nei casi
in cui il governo abbia riconosciuto la fondatezza dei rilievi mossi dalla Commissione
nell’ambito delle procedure di infrazione;
• occorrenti per dare esecuzione ai trattati internazionali conclusi nel quadro delle relazioni
esterne dell’Unione
• emanate nell’esercizio del potere sostitutivo dello stato nei cfr. delle regioni che non
adempiono all’attuazione degli atti normativi dell’Unione, nelle materie di propria
competenza.
CASO MICHELETTI→ il sig. Micheletti, nato in Argentina, era figlio di genitori italiani, dunque
aveva doppia cittadinanza; diventa odontotecnico in Argentina, ma poi decide di svolgere la
propria attività in Spagna ove ottiene il riconoscimento del titolo di studio, ma non un permesso di
soggiorno in quanto il codice spagnolo prevedeva che in caso di doppia cittadinanza, dovesse
prevalere la cittadinanza di ultima residenza che in tal caso è quella Argentina, paese che non fa
parte dell’Unione. Micheletti ricorre dinanzi ad un giudice spagnolo che investe con un rinvio
pregiudiziale chiedendo alla Corte di giustizia se fosse corretto che la Spagna considerasse
Micheletti un cittadino argentino. La Corte ritenne che la normativa spagnola era intervenuta
attribuzione di cittadinanza effettuata da un altro stato (italiano) e ciò contrastava con il diritto
comunitario. Secondo la corte la legge di uno stato membro non può ridurre gli effetti della
nazionalità attribuita da un altro stato membro (Italia) esigendo come condizione supplementare
la residenza abituale ai fini del godimento delle libertà previste dai trattati. Dunque, autonomia in
materia di cittadinanza, ma nei limiti stabiliti dal diritto dell’UE così come interpretato dalla Corte
di giustizia.
CASO ROTTMAN→ è un cittadino austriaco che si trasferisce in Germania e ne acquista la
cittadinanza per naturalizzazione (perdendo tra l’altro quella austriaca dove vige il divieto di
doppia cittadinanza). Tuttavia, nel processo di naturalizzazione aveva omesso di dichiarare un
precedente penale che lo aveva coinvolto, cosa che poi scoprì la Germania che gli revocò il
riconoscimento della cittadinanza tedesca ottenuta in maniera illecita. Tutto ciò risulta in linea con
il trattato in quanto il venir meno della cittadinanza tedesca è un esito lecito fondato sulla non
lealtà di Rottman; quanto alla revivescenza di quella austriaca, il diritto comunitario non impone
nessun obbligo al riguardo. Dunque, il diritto comunitario non osta alla perdita della cittadinanza a
seguito della revoca della naturalizzazione, basta rispettare il principio di proporzionalità.
CASO CHEN→ La vicenda rispetto alla quale la Corte si è pronunciata riguarda la suddetta signora,
Man Lavette Chen, la quale, d’intesa con il marito, anch’egli cinese, aveva deciso di avere un
secondo figlio, in contrasto con la politica di contenimento delle nascite attuata dalla Repubblica
popolare cinese. Proprio per sfuggire a tale politica la signora Chen, in prossimità della nascita
della secondogenita, si recava a Belfast dove nasceva la figlia Catherine Zhu. La scelta di Belfast,
quale città per il parto, aveva uno scopo ben preciso: la legge sulla cittadinanza irlandese
attribuisce la cittadinanza iure soli, consentendone l’acquisto a tutti coloro che siano nati nell’isola
dell’Irlanda. L’intento della signora Chen era proprio di partorire una figlia irlandese per stabilirsi
poi, con la stessa, nel Regno Unito che, al contrario dell’Irlanda, non attribuisce la cittadinanza in
base alla nascita nel proprio territorio. Il Regno Unito aveva rifiutato di accordare alla signora Chen
e a sua figlia Catherine il permesso di soggiorno di lunga durata, ritenendo che non avessero
diritto a soggiornare nel Regno Unito, poiché la prima non è cittadina di un Paese europeo e la
seconda non rientra tra le categorie di tali cittadini.
Il giudice di rinvio, dinanzi al quale le ricorrenti hanno impugnato il provvedimento di rifiuto, ha
sollevato una serie di questioni, concernenti l’interpretazione del diritto comunitario, chiedendo
alla Corte di giustizia se un diritto di soggiorno non possa fondarsi su tale diritto. La Corte ha
respinto, in primo luogo, l’eccezione dei governi irlandese e del Regno Unito secondo la quale la
situazione della piccola Catherine sarebbe puramente interna e sfuggirebbe, pertanto, al diritto
comunitario, poiché la stessa non si è mai spostata da uno Stato membro ad un altro, stabilendo
che affinché si applichino le disposizioni del diritto comunitario, è sufficiente che una persona
abbia una cittadinanza (nella specie irlandese) diversa da quella dello Stato di residenza (essendosi
intanto Catherine trasferita nel Galles con la sua mamma). Sulla base dell’art. 21 TFUE ha statuito
anzitutto che tale disposizione, avendo un contenuto chiaro e preciso, è direttamente applicabile
e, quindi, conferisce ad ogni cittadino dell’Unione il diritto di soggiorno negli Stati membri,
seppure con le limitazioni e alle condizioni previste dal diritto comunitario. Sotto quest’ultimo
profilo la Corte ha ritenuto sussistenti le condizioni contemplate dalla direttiva n° 38/2004,
secondo la quale gli Stati membri possono richiedere che i cittadini di altri Stati membri che
intendano soggiornare nel proprio territorio dispongano di un’assicurazione malattia e di risorse
sufficienti, al fine di evitare che essi costituiscano un onere per l’assistenza sociale dello Stato
ospite. Ambedue le condizioni erano presenti nel caso di Catherine, non essendo rilevante la
circostanza che le risorse non erano personali della bimba, ma provenivano dalla signora Chen
perché, contrariamente a quanto sostenuto dai governi irlandese e del Regno Unito, la direttiva
non richiede affatto che le necessarie risorse appartengano al cittadino in questione, nulla
prescrivendo in merito alla provenienza delle stesse e, al contrario, dovendosi interpretare
estensivamente le disposizioni comunitarie che sanciscono un principio fondamentale come quello
della libera circolazione delle persone. La Corte, sulla base delle disposizioni del Trattato riconosce
il diritto di circolazione e di soggiorno negli Stati membri ad una signora cinese, madre di una
bimba irlandese in tenera età.
CASO ZAMBRANO→ rappresenta una vera e propria svolta nella giurisprudenza della CGUE
relativamente alla materia della cittadinanza dell’Unione europea; tradizionalmente infatti
questioni del genere sono state trattate dai giudici di Lussemburgo come connesse all’esercizio del
diritto alla libera circolazione nel territorio degli Stati membri da parte del cittadino dell’Unione,
per favorire una progressiva integrazione su scala transnazionale, volta all’avvicinamento delle
posizioni dei nazionali e dei cittadini di altri Stati dell’UE nei paesi ospitanti. Ciò che emerge dalla
lettura della sentenza Zambrano, invece, è un ribaltamento completo della prospettiva, seppure in
parte anticipato da casi precedenti (come il caso Chen); la CGUE infatti abbandona la tradizionale
prospettiva transnazionale e sceglie un approccio decisamente “europeo”.
Zambrano è un signore di nazionalità colombiana, che decide di lasciare il suo paese per andare a
vivere in Belgio insieme alla moglie, tuttavia le istanze dei coniugi volte al riconoscimento del
diritto di asilo in Belgio sono state respinte dalle autorità competenti, seppure l’ordine di
abbandonare il territorio fosse seguito da una clausola di non rimpatrio in Colombia, stante la
situazione di perdurante guerra civile nel paese latino-americano. Nonostante questi dinieghi, i
due coniugi hanno comunque provveduto ad ufficializzare la loro condizione di residenti in un
comune belga dove il sig. Zambrano ha cominciato a lavorare. Durante la permanenza in Belgio, la
coppia ha dato vita a due bambini e poiché questi ultimi sono nati in territorio belga e i due
genitori non hanno intrapreso alcuna iniziativa perché fosse loro riconosciuta la cittadinanza
colombiana, i due bambini sono da considerarsi cittadini belgi e dunque dell’UE. Successivamente
Zambrano ha presentato domanda di permesso di soggiorno, ma questa gli è stata respinta e
avverso tale diniego ha presentato ricorso, in pendenza del quale ha beneficiato di un titolo
speciale di soggiorno. Perde anche questo ricorso e decide di adire il Tribunal du Travail belga che
solleva una serie di questioni pregiudiziali alla CGUE che è, nella specie, chiamata a stabilire se le
disposizioni dei Trattati attribuiscano ad un cittadino di uno Stato terzo, che abbia in carico figli in
tenera età e cittadini di uno Stato membro (e, quindi, dell’Unione), un diritto di soggiorno nello
Stato di cui questi ultimi siano cittadini. Tradizionalmente la Corte di Lussemburgo ha collegato i
diritti dei cittadini dell’Unione all’esercizio della loro libertà di circolazione all’interno, con la
decisione in esame, invece slega il diritto di cittadinanza dell’Unione dalla libera circolazione fra
Stati membri, trattando la cittadinanza dell’Unione come diritto ex se. La Corte chiarisce come la
Direttiva 2004/38 non trovi applicazione nel caso di specie, riguardando i cittadini dell’Unione che
si rechino o soggiornino in Stati membri diversi da quello di cittadinanza e i loro familiari. La CGUE
ridisegna i confini dell’art 20 TFUE e l’ampiezza dei diritti connessi allo status di cittadino
dell’Unione, l’art. 20 TFUE deve essere letto nel senso che impedisca restrizioni al godimento
pieno ed effettivo dei diritti connessi a tale status. Secondo la Corte, dunque, un diniego del diritto
di soggiorno al genitore cittadino di un paese terzo, che abbia in carico due minori cittadini di uno
Stato dell’Unione, rappresenta un’eccessiva compressione dei diritti di questi ultimi connessi alla
cittadinanza dell’Unione e un ostacolo al pieno ed effettivo godimento degli stessi. In aggiunta, al
soggetto cittadino dello Stato terzo non deve essere nemmeno negato il permesso di lavoro,
perché rischierebbe, altrimenti, di non disporre dei mezzi necessari per far fronte alle esigenze e ai
bisogni primari del nucleo familiare.
Se in passato, infatti, la cittadinanza dell’Unione era stata vista come lo strumento per
promuovere il godimento dei diritti connessi allo status di cittadini di uno Stato membro, oggi
assurge a elemento centrale per la protezione di un nucleo fondamentale di diritti, fra questi
rientra il diritto dei minori a non essere allontanati dai loro genitori o, comunque, a non essere
costretti ad abbandonare il territorio dell’Unione per seguire i propri genitori sans papiers. I diritti
connessi alla cittadinanza dell’Unione vengono, dunque, sganciati dal concreto esercizio alla libera
circolazione finendo per fungere da pilastro portante per la protezione dei diritti fondamentali
riconosciuti dalla Carta di Nizza e dalla CEDU.
Si tratta di un sistema che non ha eguali sia sotto il profilo funzionale che sotto il profilo degli
effetti che il suo funzionamento produce sulla posizione giuridica dei destinatari: istituzioni
dell’Unione, stati membri e singoli; questo sistema consente di realizzare un’unione di diritto→
tutti i soggetti dell’ordinamento dell’Ue sono soggetti a controllo giurisdizionale (questo è un altro
elemento distintivo del diritto dell’Ue rispetto ad altre organizzazioni internazionali, perché il
singolo è titolare di diritti e doveri). Il Trattato di Lisbona ha mantenuto inalterato il previgente
sistema giurisdizionale estendendolo, tuttavia, anche al settore della cooperazione di polizia e
giudiziaria in materia penale; la CGUE ha acquisito dunque una competenza generale in relazione
al diritto dell’Ue in conseguenza dell’abolizione della struttura in pilastri. Tuttavia, continua a non
avere competenza in materia di PESC ad eccezione del controllo sulla legittimità delle decisioni del
Consiglio che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche e giuridiche (ricorso per
annullamento) e del controllo sulla delimitazione delle competenze dell’Ue e quelle degli stati
membri in materia di PESC. Tale sistema si sviluppa su due piani procedurali: il primo è quello del
controllo diretto della CGUE o del Tribunale che può essere attivato da istituzioni, stati o singoli
attraverso dei RIMEDI GIURISDIZIONALI DIRETTI; il secondo è quello del controllo indiretto
attraverso il rinvio pregiudiziale.
L'AZIONE DI ANNULLAMENTO
L’azione di annullamento è regolata dal 263 TFUE e consiste nell’impugnazione, mediante ricorso,
di un atto adottato dalle istituzioni dell’Unione che si assume gravato da alcuni vizi.
Gli atti impugnabili → ai sensi del 263.1 sono “gli atti legislativi, gli atti del consiglio, della
commissione e della BEI che non siano raccomandazioni o pareri; gli atti del parlamento europeo e
del consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei cfr. dei terzi; nonché gli atti degli organi
o organismi dell’unione destinati a produrre gli effetti giuridici nei cfr. dei terzi”. L’espressa
esclusione del controllo di legittimità delle raccomandazioni e dei pareri sta a significare che sono
impugnabili unicamente gli atti vincolanti. Tuttavia, la giurisprudenza della Corte di giustizia, ispirata
al criterio di privilegiare la sostanza rispetto alla forma, ha progressivamente ampliato la categoria
degli atti impugnabili: la Corte ritiene impugnabili tutti gli atti e i provvedimenti posti in essere dalle
istituzioni che producano effetti vincolanti per i destinatari, indipendentemente dal nomen iuris
attribuito dall’istituzione che lo ha posto in essere oppure dalle modalità di comunicazione ai
destinatari. L'azione dunque non è limitata all'impugnazione degli atti tipici di cui all'art. 288 TFUE,
ma deve essere estesa a tutti gli atti definitivi che, tenendo conto della loro sostanza, producono
effetti giuridici obbligatori idonei ad incidere sugli interessi dei ricorrenti. Non sono soggetti a
impugnazione invece gli atti produttivi di effetti solo nella sfera interna dell'istituzione, gli atti che
costituiscono fasi intermedie di un procedimento o meramente preparatori di un atto definitivo: i
loro vizi potranno essere eventualmente fatti valere nel ricorso diretto contro l'atto definitivo, a
meno che l'atto intermedio non sia di per sé produttivo di effetti giuridici nei confronti dei terzi. Gli
atti della Corte dei conti non figurano tra quelli indicati dall'art. 263 TFUE come suscettibili di
impugnazione, tuttavia la Corte di giustizia ha ritenuto ricevibile un ricorso presentato da un
sindacato contro un atto della Corte dei conti, in quanto produttivo di effetti giuridici e in quanto,
del resto, quest'ultima ormai "promossa" dal TFUE tra le istituzioni. Non sono ricevibili i ricorsi diretti
contro atti degli Stati membri adottati in esecuzione di atti dell'Unione, poiché non spetta alla Corte
decidere sulla compatibilità di una disposizione nazionale con il diritto comunitario". Lo stesso deve
dirsi per gli atti adottati dai rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio,
che sono in sostanza degli accordi in forma semplificata, che rilevano in quanto tali del diritto
internazionale. Irricevibile è altresì il ricorso in annullamento della comunicazione con la quale la
Commissione rende noto al denunciante l’intenzione di non voler dar seguito ad una procedura d’infrazione;
parimenti irricevibile è un ricorso avverso atti puramente confermativi di un atto precedente non
impugnato entro i termini.
Quanto all'azione esterna dell'Unione, non è previsto nei Trattati che l'azione di annullamento possa
essere esercitata nei confronti degli accordi internazionali stipulati dalla prima: in teoria potrebbe
non escludersi , dal momento che tali accordi sono assimilati dalla Corte ad "atti delle istituzioni",
ma ciò pare difficilmente ammissibile dato che un accordo internazionale interviene tra soggetti del
diritto internazionale e dunque non può considerarsi atto interno dell'ordinamento dell'Unione.
Tuttavia, sono impugnabili gli atti che autorizzano o approvano la conclusione di un accordo, poiché
l'esercizio delle competenze attribuite alle istituzioni in campo internazionale non può essere
sottratto al controllo di legittimità. In questi casi però la sentenza di annullamento non potrà avere effetto nei
confronti degli Stati terzi parte all’accordo internazionale; potrà quindi derivarne sul piano internazionale una
situazione di responsabilità dell’Unione, o comunque l’avvio di nuovi negoziati per modificare l’accordo in questione.
Termini e motivi→ Nel termine di due mesi dalla notifica dell'atto o dalla sua pubblicazione sulla GUUE (o in
mancaza dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto l’effettiva conoscenza) i ricorsi possono essere proposti per
incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione dei Trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla
loro applicazione, per sviamento di potere (art. 263.2 TFUE). A tale termine va aggiunto il cd. termine di distanza
di 10 giorni previsto dall’art. 51 del regolamento di procedura della Corte.
a) Incompetenza, derivante dall'assenza di un potere dell'Unione (assoluta) o delle istituzioni ad
emanare l'atto (relativa): può configurarsi in una delle tre ipotesi classiche: ratione materiae,
quando l'atto non rientra nell'area di competenza dell'organo; ratione loci quando l'atto ha effetti
al di fuori del territorio sul quale si esercita la competenza dell'organo; ratione temporis quando
l'atto è adottato oltre i limiti di tempo fissati.
b) Violazione delle forme sostanziali si verifica nell’ipotesi di difetto di motivazione, di mancata
consultazione di un’altra istituzione o di un organo dell’Unione allorché espressamente prevista,
nell’ipotesi di errata individuazione della base giuridica ogniqualvolta abbia conseguenze sulle
condizioni di adozione dell’atto.
c) Violazione di legge → si realizza quando sono violate: le norme dei trattati, degli atti di diritto
derivato, i principi consolidatisi della giurisprudenza, le norme che comunque vincolano l’Unione
come le norme internazionali convenzionali e consuetudinarie (provviste di effetto diretto), nonché
la carta dei diritti fondamentali
d) Sviamento di potere: si configura quando l'istituzione utilizza l'atto per perseguire un obiettivo
diverso da quello per il quale i poteri gli sono conferiti o segua una procedura per fini diversi da
quelli per i quali è prevista (sviamento di procedura).
Misure cautelari→ Il ricorso non ha effetto sospensivo, tuttavia l’art 278 TFUE prevede la possibilità
di chiedere alla corte, in via cautelare, la sospensione dell’atto impugnato. La corte può indicare
misure provvisorie diverse dalla sospensione che ritiene necessarie. La misura viene decisa dal
presidente, che solo eccezionalmente può investire il plenum. Le misure cautelari sono accessorie e
strumentali rispetto alla sentenza e i presupposti sono il fumus boni iuris (la presunzione
dell’esistenza dei presupposti per applicare la misura) ed il periculum in mora (il ritardo della
decisione potrebbe concretizzare il danno prospettato).
Effetti della sentenza→Se il ricorso è accolto, la Corte dichiara l'atto impugnato nullo e non avvenuto
(art. 264 TFUE). L'annullamento può essere anche solo parziale se il vizio riscontrato riguarda solo
alcune disposizioni dell'atto purché siano separati dal resto. La sentenza di annullamento ha
efficacia erga omnes, opera ex tunc e ha l'autorità di cosa giudicata; dunque sarà irricevibile un
nuovo ricorso contro l'atto già annullato mentre qualora l'atto sia stato dichiarato legittimo, un
nuovo ricorso sarà proponibile qualora si fondi su nuovi motivi, sempre naturalmente che non sia
spirato il termine previsto per l'impugnazione. L'istituzione, l'organo o l'organismo dell'Unione che
ha emanato l'atto annullato dovrà adottare provvedimenti che l'esecuzione della sentenza
comporta (art. 266 TFUE), entro un termine ragionevole: così sarà tenuto ad eliminarlo o modificare
le disposizioni viziate. Il mancato rispetto da parte dell'istituzione degli obblighi derivanti dalla
sentenza potrà formare oggetto di un successivo ricorso in carenza.
Effetti ex nunc→ L’art. 264.2 TFUE prevede “la facoltà per la corte di stabilire gli effetti dell’atto che
devono essere considerati come definitivi”, ciò significa che la Corte può riservarsi di precisare che
l'annullamento abbia efficacia ex nunc o che addirittura conservi i suoi effetti fino a quando
l’amministrazione non avrà modificato o sostituito con un nuovo atto quello impugnato, per ragioni
di certezza del diritto e per la tutela del legittimo affidamento.
L’AZIONE IN CARENZA
L'art. 265 TFUE contempla la possibilità di rivolgersi alla Corte per "far constatare" il comportamento omissivo
delle istituzioni che si astengano dal pronunciarsi in violazione dei Trattati. Si tratta di uno strumento
di impugnazione autonomo rispetto all’azione di annullamento, anche se a questa è logicamente
collegato. Il ricorso è proponibile nei confronti di un atto del Consiglio, della Commissione, del
Parlamento europeo, della BCE ed infine, con il Trattato di Lisbona, il medesimo rimedio è ora
previsto anche nei confronti del Consiglio europeo, nonché degli organi ed organismi dell'Unione.
Sono legittimati invece a proporre tale ricorso, oltre gli Stati membri, tutte le istituzioni dell'Unione
diverse dal responsabile dell'omissione, ma tra queste sono esclusi gli organi ed organismi
dell'Unione che hanno legittimazione passiva, ma non attiva→ questi sono i ricorrenti privilegiati
(265.1) i quali possono ricorrere contro qualsiasi tipo di carenza senza dover giustificare un interesse
particolare, anche contro l'omissione di atti non vincolanti.
I ricorrenti non privilegiati sono le persone fisiche o giuridiche che possono adire la Corte di giustizia
dell'Unione europea per contestare a una delle istituzioni di avere omesso di emanare nei suoi
confronti un atto vincolanti, che non sia cioè una raccomandazione o un parere (art. 265.3). Può
trattarsi di un atto di cui il ricorrente sarebbe stato personalmente il destinatario formale, ma anche
di un atto di cui non sia il formale destinatario, purché che lo riguardi direttamente e individualmente
il ricorrente (parallelismo tra 263.4 e 265.3)
L’esistenza di un margine di discrezionalità quanto alle modalità e al contenuto di un'azione e alla
natura delle misure da prendere non costituisce ostacolo alla constatazione di una carenza, mentre
il ricorso non è ammissibile quando l'istituzione gode di un potere discrezionale in merito alla stessa
emanazione dell'atto (mancata attivazione di una procedura di infrazione).
Presupposto dell’azione in carenza è l'esistenza di un obbligo di agire dell'istituzione in virtù di una
regola di diritto dell'Unione, dunque non può essere esperita nel caso di rifiuto (che è pur sempre
un provvedimento), ma nel caso di illegittima assenza di una decisione. Affinché il ricorso sia
ricevibile, occorre che l'istituzione in causa sia stata preventivamente messa in mora, cioè occorre
che alla stessa sia stato richiesto di agire, con una domanda in cui si indicano con precisione il
contenuto dell'obbligo che si pretende violato e le misure richieste per far cessare l'inerzia. Non è
precisato il termine entro cui inoltrare validamente la diffida rispetto alla presunta carenza, ma dovrà
comunque trattarsi di un termine “ragionevole” per esigenze di certezza giuridica.
Se, trascorsi due mesi da tale richiesta, l'istituzione diffidata non ha preso posizione, il ricorso può
essere introdotto nei due mesi successivi; se rifiuta di prendere posizione oppure ha preso
posizione l’azione in carenza non è più proponibile, anche se non abbia soddisfatto il richiedente o
sia stato adottato un atto diverso da quello ritenuto necessario, l’unico rimedio esperibile sarà
l’azione di annullamento, così come lo sarà nel caso in cui l’atto di cui si chiede l’adozione, viene
emanato dopo la presentazione del ricorso ma prima della sentenza, caso in cui il ricorso diviene
privo di oggetto. Se il ricorrente ha lasciato decorrere i termini di impugnazione per il ricorso in
annullamento contro un atto, non potrà aggirare la prescrizione dell'azione chiedendo all'istituzione di
ritirare o modificare l'atto e agire poi contro il suo silenzio attraverso un ricorso in carenza.
Effetti della sentenza→La sentenza del giudice dell'Unione che accolga il ricorso in carenza ha
carattere dichiarativo, limitandosi ad accertare l'illiceità del comportamento. L'istituzione, la cui
omissione sia stata dichiarata in violazione del Trattato, è tenuta a prendere le misure che
l'esecuzione della sentenza comporta, entro un termine ragionevole. Se il comportamento omissivo
dell’istituzione ha cagionato un danno nulla esclude che possa essere proposta un’azione di
responsabilità extracontrattuale. Un nuovo ricorso in carenza potrà essere proposto qualora
l'istituzione convenuta rimanga inattiva, omettendo di prendere i provvedimenti dovuti alla luce
dell'obbligo di conformarsi alla sentenza, mentre un ricorso in annullamento sarà proponibile
qualora gli atti dall'istituzione intesi a dare esecuzione alla sentenza risultino inadeguati o in
contrasto col giudicato della Corte.
L'ECCEZIONE DI INVALIDITÀ
L’art. 277 TFUE disciplina un ulteriore mezzo per far valere l’illegittimità di un atto avente portata
generale adottato da un’istituzione, da un organo o da un organismo dell’Unione. Si tratta di
un’eccezione incidentale che le parti legittimate possono sollevare nel corso di una procedura già
attivata per altri motivi dinanzi alla Corte, al fine di far dichiarare l’inapplicabilità dell’atto di cui si
tratta facendo valere, anche dopo il decorso del termine di impugnazione previsto per l’azione di
annullamento, gli stessi motivi del 264 TFUE. L’ipotesi tipica è quella dell’eccezione di invalidità
avverso un regolamento sollevata nel giudizio di impugnazione di un atto di esecuzione di quel
regolamento. Inizialmente la sfera di applicazione dell’eccezione di invalidità era limitata ai
regolamenti, mentre nel TFUE è stata estesa a tutti gli atti di portata generale allo scopo di evitare
che un atto viziato possa, poiché non impugnato, possa costituire una base giuridica valida per altri
atti e allo scopo ulteriore di rimediare ai limiti posti dal 263 alle possibilità di impugnazione offerte
ai singoli in relazione agli atti dell’Unione aventi portata generale che ai sensi del suddetto articolo,
se si tratta di atti legislativi, possono essere impugnati dagli stessi solo a condizione che li riguardano
direttamente ed individualmente, se si tratta di atti non legislativi aventi portata generale (atti
regolamentari) possono essere impugnati solo se li riguardano direttamente e sempre che non
necessitino di misure di esecuzione. Al contrario, questa eccezione non può avere ad oggetto atti
che il singolo avrebbe potuto impugnare con l’azione di annullamento (sussistendo i requisiti di cui
al 263), ma non lo ha fatto, ciò per evitare che lo strumento in questione venga utilizzato per eludere
l’onere della tempestività dell’impugnazione, dovendo restare un mezzo offerto al singolo per
contestare la legittimità di un atto dell’Unione nella sola ipotesi in cui gli sia preclusa ogni altra
possibilità. Anche i ricorrenti privilegiati di cui al 263 possono sollevare una tale eccezione:
innanzitutto perché la norma fa riferimento a “ciascuna parte” e non indica un legittimato specifico,
poi perché la sua ratio è quella di evitare che un atto viziato possa costituire base giuridica valida
per altri atti e sia perché la giurisprudenza depone in tal senso. Ovviamente non può essere sollevata
una tale eccezione rispetto ad una decisione di cui il ricorrente sia il destinatario: si pensi
all’eccezione di invalidità avverso un atto nel corso di una procedura di infrazione intentata dalla
commissione contro uno stato membro per la violazione di quello stesso atto (ad eccezione del caso
in cui l’atto sia viziato in modo così evidente da essere inesistente).
L’effetto di un eventuale accoglimento dell’eccezione è l’inapplicabilità: l’atto viene dichiarato
inapplicabile alla fattispecie, ma resta pienamente in vigore (efficacia ex nunc ed intra partes).
L’eccezione non può essere sollevata nell’ambito di un rinvio pregiudiziale o dinanzi ad un giudice
nazionale perché in tale ultimo caso si utilizza il rinvio pregiudiziale di validità.
Condizioni di ricevibilità
L'azione deve essere proposta, pena la prescrizione del diritto al risarcimento, entro cinque anni a
decorrere dal momento in cui avviene il fatto che dà origine al danno.
Rapporto con le altre azioni→ L'azione di risarcimento deve considerarsi autonoma rispetto alle
altre azioni esercitabili davanti alla Corte nell'ambito della competenza contenziosa in sostanza, la
previa impugnazione dell'atto contestato non è più una condizione di ricevibilità come al contrario veniva
affermato nella sentenza PLaumann dove la corte dichiaro inammissibile una domanda di risarcimento fondata
sull’illegittimità di un atto di cui non era stato previamente richiesto l’annullamento perché sosteneva che un
atto non annullato non poteva costituire di per sé un illecito e di conseguenza non poteva causare un danno.
Criterio della competenza efficiente e rapporto con i mezzi interni → La Corte ha competenza esclusiva in
materia di risarcimento del danno quanto il danno sia stato cagionato da un’Istituzione dell’Unione o dai suoi
agenti ovvero dalla BCE o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. Invece la competenza appartiene
esclusivamente ai giudici nazionali quando il danno è stato prodotto dagli organi nazionali sia pure in
conseguenza dell’applicazione di una normativa dell’Unione ad esempio quando il danno deriva dal
comportamento di un'autorità nazionale che ha adottato misure illegittime in applicazione di un atto
dell'Unione legittimo, oppure quando una violazione del diritto dell'Unione sia imputabile al legislatore
nazionale che disponga di un ampio potere discrezionale in ordine alle scelte normative, allora il
comportamento lesivo non è imputabile all'Unione: dunque, l'azione di risarcimento dovrà essere diretta
contro l'amministrazione nazionale e rientra nella competenza dei giudici interni ai quali i privati debbono
rivolgersi. Al contrario, la Corte di giustizia è competente a pronunciarsi quando il danno derivi da
un'attività statale meramente esecutiva di un atto dell'Unione che non lascia margini di
discrezionalità, o da un’attività che sia imposta dalle istruzioni di un'istituzione dell'Unione, o
costituisca comunque esercizio di una competenza vincolata. In tali casi, la Corte ha introdotto il
principio della competenza efficiente in base al quale: l'azione di risarcimento ha carattere
sussidiario rispetto ai ricorsi interni se il danneggiato può ottenere la medesima soddisfazione
rivolgendosi al giudice interno senza dunque necessità di adire la Corte, o comunque, in via generale,
quando sia dubbio se il danno sia imputabile al comportamento di un'autorità nazionale o a quello
di un'istituzione dell'Unione. Il previo esaurimento dei rimedi giurisdizionali interni a disposizione
dei singoli per ottenere riparazione è di norma necessario per la ricevibilità dell'azione di
risarcimento: ma non quando quei rimedi non siano in rado di assicurare in modo efficace la tutela
degli interessi, in quanto non idonei a condurre al risarcimento dei danni lamentati. Dunque, quando
risulta coinvolta in modo chiaro anche la responsabilità di uno Stato membro, la Corte ha ritenuto
che la riparazione del danno sia subordinata alla prova che i ricorrenti abbiano esperito le vie di
ricorso interne, al fine di evitare un doppio risarcimento; in caso di cumulo di responsabilità,
l'Unione risponderà solo dei danni ad essa imputabili.
Affinché invece sussista la responsabilità dell’Unione per un atto normativo che implichi scelte di
carattere economico, è prevista una condizione supplementare: la violazione deve riguardare una
norma a carattere superiore. Tale condizione vale solo ed esclusivamente per l’azione di
responsabilità extracontrattuale dell’UE (e non per quanto riguarda la stessa azione nei confronti
degli Stati membri). Questo, perché non si vuole che le scelte economiche siano sindacate, se non
in casi eccezionali. Per norma a carattere si intende una norma fondamentale dell’UE (es. legittimo
affidamento, principio di non discriminazione, rispetto dei diritti quesiti).
Il danno risarcibile→ Una volta ritenuta responsabile, l'Unione europea è tenuta a indennizzare la
vittima del pregiudizio arrecato. Il ricorrente deve provare la sussistenza, l'attualità e l'effettività del
danno; tuttavia il ricorso è ricevibile anche se l'entità del danno non è ancora esattamente determinata
ma è comunque prevedibile con sufficiente precisione ed è imminente.
La determinazione dell'ammontare del risarcimento può farsi sia a seguito di accordo fra il ricorrente
e l'istituzione responsabile sia nell'ambito di un nuovo procedimento davanti alla Corte che lo
calcolerà secondo i principi generali comuni agli ordinamenti degli stati membri in materia di
responsabilità extracontrattuale, potendosi tener conto sia delle perdite subite che del mancato
guadagno ed eventualmente del danno morale, oltre che degli interessi. La riparazione può essere
esclusa o ridotta se il danneggiato ha contribuito con il suo comportamento al verificarsi del danno.
Di recente il Tribunale dell’Ue ha condannato, per la prima volta, l’Ue al risarcimento dei danni
materiali e morali causati dall’eccessiva durata di un processo, svoltosi proprio dinanzi al Tribunale,
ma in diversa composizione, riconoscendo che era stat violata la Carta all’art. 47 comma 2 in quanto
aveva ecceduto di 20 mesi il termine ragionevole di durata del giudizio integrando così una
violazione sufficientemente qualificata di una norma del diritto dell’Ue intesa a conferire diritti ai
singoli.
Impugnazione della sentenza del Tribunale→ l’impugnazione della sentenza di primo grado
può essere proposta entro due mesi dalle parti (principali e intervenute). Una posizione
privilegiata è assicurata agli Stati e alle istituzioni, i quali possono impugnare una sentenza
del Tribunale indipendentemente dalla loro presenza nella procedura dinanzi al Tribunale
(anche come parti intervenienti). In tale caso, ove la Corte accolga l’impugnazione, potrà
precisare gli effetti della decisione annullata che devono essere considerati definitivi dalle
parti della controversia.
Oggetto della domanda di impugnazione→ l’impugnazione deve essere diretta a rimediare
ai pretesi errori in diritto della sentenza di primo grado. Pertanto, essa non può limitarsi ad
una mera riproposizione della domanda originaria o sollevare dinanzi alla Corte un motivo
non fatto valere nella prima fase, ma deve indicare espressamente i punti della sentenza
impugnata di cui si chiede l’annullamento perché viziati.
I vizi censurabili→ sono l’incompetenza del Tribunale; i vizi di procedura che hanno causato
pregiudizio al ricorrente, la violazione del diritto dell’Unione. In sostanza al giudice di
secondo grado è stata lasciata la cognizione finalizzata ad eliminare gli errori di diritto che
possono pregiudicare la coerenza dell’ordinamento e l’uniformità nell’applicazione delle
norme. In questa ottica, la Corte controlla altresì se il Tribunale ha commesso un errore di
diritto modificando l’oggetto della controversia o se è in corso un eccesso (o sviamento) di
potere o se ha statuito ultra petita (è più simile ad un giudizio di Cassazione che di appello).
Vizio di motivazione→ L’assenza della previsione di tale vizio nell’ambito di quelli censurabili
non può certo condurre ad escluderne la sua qualificazione come ipotesi di violazione del
diritto dell’Unione. La Corte ha chiarito che la motivazione della sentenza del Tribunale deve
contenere tutti gli elementi di fatto e di diritto che permettono all’interessato di conoscere le
ragioni della decisione adottata e ad essa di esercitare il controllo giurisdizionale. I motivi
dedotti devono individuare con precisione le parti della motivazione della sentenza del
tribunale contestata; non possono essere sollevati nuovi motivi in sede di impugnazione
tranne nel caso in cui ampliano un motivo già dedotto, non modificando l’oggetto della
controversia.
La valutazione delle prove →secondo quanto affermato dalla Corte, è di competenza
esclusiva del Tribunale. Tuttavia da un alt ha affermato la propria competenza a
verificare se le prove assunte dal Tribunale siano state acquisite regolarmente e se i
principi generali del diritto e le norme di procedura in materia di onere e di produzione
della prova siano stati rispettati. Dall’altro, la Corte si è riservata la facoltà di sindacare
lo snaturamento degli elementi di prova (questi sono due limiti all’insindacabilità
dell’apprezzamento del materiale probatorio).
Effetti della sentenza di accoglimento del ricorso→ ai sensi dell’art.61 dello Statuto
della Corte, la sentenza della Corte che accoglie l’impugnazione comporta
l’annullamento della pronuncia del Tribunale; nonostante ciò la Corte può essere essa
stessa a decidere della controversia <<qualora lo stato degli atti lo consenta>> (in tali
casi è ritenuta competente anche a risolvere le questioni di fatto). Se il dispositivo della
sentenza del Tribunale appare fondato ma per motivi diversi, il ricorso deve essere
respinto; in caso contrario, la Corte rinvia nuovamente la causa al Tribunale perché
quest’ultimo decida. La Corte potrà decidere nel merito la controversia solo se i fatti
risultino integralmente accertati nella fase del giudizio già svolta di fronte al Tribunale.
Le decisioni del Tribunale che non sono impugnate nei termini indicati diventato
definitive, in quanto passate in giudicato.
REVOCAZIONE → si tratta di un istituto applicabile sia alle pronunce del tribunale che della
Corte, entro il termine di 10 anni dalla data della sentenza; non si tratta di impugnazione, ma
di un mezzo di ricorso straordinario. La condizione indispensabile per attivare la procedura è
la scoperta, dopo l’emissione della sentenza, di elementi nuovi che siano però anteriori alla
pronuncia della sentenza e tali che, se conosciuti e apprezzati dal giudice, avrebbero potuto
condurre lo stesso ad una diversa soluzione della controversia. E’ stata esclusa la revocazione
avverso una sentenza emessa ex 267 in quanto soltanto il giudice nazionale, destinatario di
tale sentenza, potrà introdurre nuovi elementi di valutazione.
RIESAME→ ai sensi dell’art.256 par.2 e 3 TFUE e degli artt. 62,62 bis e 62 ter dello Statuto, è
possibile procedere ad un riesame di una decisione del Tribunale qualora sia a rischio l’unità
e la coerenza del diritto dell’Unione. In base agli articoli sopra ricordati, il primo avvocato
generale è competente a proporre alla Corte il riesame di una decisione del Tribunale. Tale
proposta deve essere fatta entro un mese a decorrere dalla pronuncia della decisione del
Tribunale e la Corte deve decidere entro un mese dalla presentazione della proposta
sull’opportunità di procedere ad un riesame. Con la sentenza del riesame, la Corte accerta la
presenta di errori di diritto commessi dal Tribunale e verifica se tali errori siano in grado di
pregiudicare la coerenza o l’unità del diritto dell’Unione. In caso positivo, rinvia la causa
dinanzi al Tribunale che sarà vincolato ai punti di diritto decisi dalla Corte.
RINVIO → l’art.256 par.3 TFUE attribuisce al Tribunale la facoltà di disporre del rinvio alla
Corte <<ove ritenga che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe
compromettere l’unità o la coerenza del diritto dell’Unione>>.
La procedura→ Due procedure sono previste dal Trattato: su iniziativa della Commissione (art.
258TFUE), oppure su iniziativa di uno o più Stati membri (art. 259 TFUE): anche in questo secondo
caso, peraltro, il ricorso passa sempre al vaglio della Commissione, in ragione del ruolo ad essa
affidato di “guardiana” del Trattato (art. 17 TFUE).
Iniziativa della Commissione: la fase precontenziosa→ Quando la Commissione ritenga che uno
Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione, per conoscenza
diretta o dietro richiesta di altro Stato membro, o sollecitata da un esposto di privati, può d'ufficio
iniziare la procedura per inadempimento. Secondo l’interpretazione fornita dalla Corte, la
Commissione non è obbligata a dar corso alla procedura, neanche se abbia ricevuto un reclamo
puntuale, disponendo al riguardo di un ampio potere discrezionale: dunque la sua decisione di
iniziare oppure di non avviare la procedura non può formare oggetto di ricorso in annullamento, né
la sua inerzia o il suo silenzio formare oggetto di un ricorso in carenza, poiché la fase precontenziosa
non implica alcun atto giuridicamente vincolante né può far nascere una sua responsabilità.
Il primo atto ufficiale della procedura è la lettera di messa in mora o di intimazione, nella quale la
Commissione comunica allo Stato i motivi del suo intervento, contesta gli addebiti e
lo invita a presentare le sue"osservazioni"entro un termine fissato (di solito due mesi): la lettera è
una condizione di forma sostanziale che condiziona la regolarità della procedura e quindi la
ricevibilità del ricorso successivo, poiché la facoltà concessa allo Stato di presentare le sue
osservazioni costituisce una garanzia fondamentale per l'esercizio del suo diritto di difesa. A seguito
delle spiegazioni dello Stato, se queste siano ritenute sufficienti o se lo Stato abbia posto termine
all'infrazione, la Commissione può decidere di archiviare il caso; altrimenti, può emanare un parere
motivato, che chiude la fase precontenziosa, nel quale si ingiunge allo Stato di porre fine alla
violazione entro un termine che fissa discrezionalmente a seconda della gravità del caso: se troppo
breve o irragionevole, costituisce violazione dei diritti della difesa e può comportare il rigetto del
ricorso da parte della Corte. Il parere motivato contiene un'esposizione dettagliata dei motivi che
hanno indotto la Commissione a ritenere l'esistenza dell'infrazione di un obbligo dell'Unione e gli
elementi di fatto e di diritto da prendere in considerazione nonché eventualmente l'indicazione
delle misure che la Commissione ritiene necessario siano adottate per porre termine alla violazione.
Il parere motivato non può discostarsi dai motivi e dagli addebiti già enunciati nella lettera di
intimazione: solo questi potranno essere discussi davanti alla Corte, mentre nuovi elementi di
giudizio sono irricevibili, poiché la lettera di intimazione ha appunto lo scopo di delimitare la materia
del contendere e allo stesso tempo di fornire allo Stato membro i dati necessari per preparare la sua
difesa. Sia la lettera di messa in mora che il parere motivato sono adempimenti necessari per la
regolarità della procedura, non solo perché necessari per garantire allo Stato la possibilità di
giustificarsi e difendersi, ma anche perché possono consentire di giungere al ristabilimento della
legalità comunitaria senza passare attraverso la fase giudiziaria.
Trattandosi di un atto preparatorio, il parere motivato non può formare oggetto di ricorso in
annullamento.
La Commissione ha istituito una nuova procedura denominata EU Pilot che consiste nello scambio
di informazioni e nella risoluzione dei problemi con gli Stati membri prima dell’eventuale avvio della
fase precontenziosa; tale procedura implica una cooperazione tra la Commissione e gli stati membri
e mira tanto a verificare la corretta applicazione del diritto, quanto a risolvere rapidamente le
questioni sollevate da tale applicazione. In virtù di questo sistema informale, le comunicazioni tra le
due parti avvengono tramite una sistema informatico, ma la commissione, se non soddisfatta del
risultato del dialogo con lo stato membro interessato può comunque avviare la procedura formale
ex 258. La chiusura di tale procedura non incide sulla facoltà della commissione di avviare un
successivo procedimento formale, né consente allo stato membro di invocare il suo legittimo
affidamento quanto alla conformità della sua normativa nazionale al diritto dell’Unione.
La fase contenziosa → si apre con la presentazione del ricorso alla Corte, qualora lo Stato in causa
non si conformi al parere della Commissione nel termine fissato. Il ricorso non è soggetto ad alcun
termine, poiché anche in questa fase la Commissione resta libera di valutare i tempi e l'opportunità
del suo esercizio, o decidere di astenersi dall'adire la Corte anche se lo Stato non ha eliminato il
proprio inadempimento. Incombe alla Commissione l'onere di provare l'esistenza di una violazione
ma, quale"guardiana"del Trattato, non deve dimostrare il suo interesse ad agire.
L'adempimento (tardivo) da parte dello Stato non interrompe la procedura, se interviene nel corso
del giudizio, la Commissione può rinunciare a dar seguito al procedimento, ma tale rinuncia non
implica alcun riconoscimento della liceità del comportamento discusso né priva di oggetto il ricorso
già avviato. La Commissione conserva un interesse a proseguire ugualmente l'azione e ad ottenere
una pronuncia giudiziale sull'esistenza o meno della violazione, ad esempio al fine di stabilire
un'eventuale responsabilità dello Stato tanto nei confronti dell'Unione che degli altri Stati membri
o dei singoli: se ne ricava dunque che l'azione per infrazione non ha il solo scopo di ristabilire la
legalità comunitaria imponendo a uno Stato il rispetto dei suoi obblighi, ma può avere anche quello
di accertare la sua responsabilità e di fungere da "precedente" per eventuali altre violazioni da parte
dello stesso o di altri Stati membri.
La Corte può ordinare i provvedimenti provvisori che ritenga necessari, quali misure cautelari; ad
esempio può imporre allo Stato di sospendere l'applicazione di una misura interna fino
all'emanazione della sentenza.
Su iniziativa degli Stati membri → Anche agli Stati membri è riconosciuta la possibilità di adire la
Corte, siano o meno parti lese, quando ritengano che un altro Stato membro abbia mancato a un
obbligo dell'Unione; tuttavia, prima di adire la Corte, l’art. 259 TFUE prevede che essi devono
rivolgersi alla Commissione la quale, dopo aver chiesto agli Stati interessati di presentare in
contraddittorio le loro osservazioni, emette un parere motivato. La Commissione è tenuta a
formulare il parere sull'esistenza o meno della violazione lamentata entro tre mesi dalla domanda:
spetterà poi allo Stato decidere di adire o meno la Corte. La mancata emanazione del parere non
impedisce allo Stato di ricorrere ugualmente alla Corte, così come non glielo impedisce un parere
che risulti favorevole allo Stato convenuto.
Effetti della sentenza di inadempimento→ sono prefigurati dall’art. 260 par. TFUE il quale
stabilisce che “la sentenza riconosce che lo stato è inadempiente rispetto ad una o più obbligazioni
che gli derivano dai Trattati ovvero da un atto dell’Unione”. Si tratta di una sentenza meramente
dichiarativa rispetto alla quale non esiste la possibilità di attuarla in forma coattiva, nonostante ciò
gli stati dichiarati inadempienti sono comunque tenuti a prendere provvedimenti: abrogare o
introdurre una nuova norma nell’ordinamento, trasporre una direttiva, modificare una prassi. La
giurisprudenza, in particolare, ha precisato che la pronuncia che accerti l’incompatibilità con i
Trattati di una legge nazionale, comporta per lo stato l’obbligo di modificarla, nonché l’obbligo per
i giudici nazionali di garantire l’osservanza della norma comunitaria così come interpretata dalla
corte, non essendo sufficienti, ad esempio, a tale scopo, semplici prassi amministrative in quanto
l’incompatibilità di una normativa nazionale può essere definitivamente rimossa solo con
disposizioni vincolanti che abbiano lo stesso rango di quelle riconosciute in contrasto con
l’ordinamento dell’Unione. Il TFUE non fissa alcun termine per l’esecuzione della sentenza che
accerti l’inadempimento, ma in virtù del p. di leale cooperazione sono richiesti tempi brevi.
Novità introdotte dal T. di Lisbona (successiva alla novità di Maastricht della “doppia
condanna”)→ Il 260 par. 2 TFUE prevede che “se la Commissione ritiene che lo stato membro non
abbia preso le misure che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta, dopo aver posto tale
stato in condizione di presentare osservazioni, può adire la corte, precisando inoltre l’importo
della somma forfettaria o della penalità (che essa consideri adeguata alle circostanze) da versare
da parte dello stato membro in questione”→ dunque prevede che la Commissione possa ricorrere
direttamente alla Corte dopo aver inviato la sola lettera di messa in mora allo stato che si sia reso
inadempiente alla prima sentenza di condanna emanata a norma del 258 (si tratta di una
procedura accelerata che non prevede l’invio del parere motivato).
Il par. 3 dello stesso articolo invece prevede che “la Commissione, quando propone ricorso dinanzi
alla corte ex 258 reputando che lo stato membro non abbia adempiuto l’obbligo di comunicare le
misure di una direttiva adottata secondo una procedura legislativa, può indicare l’importo di una
somma forfettaria o della penalità da versare da parte di tale stato”→ dunque è prevista la
possibilità, per la Commissione, di richiedere già nel primo ricorso alla corte, soltanto in questo
caso specifico, la condanna dello stato inadempiente al pagamento di una sanzione pecuniaria. In
entrambi i casi rimane fermo il potere discrezionale della corte nel decidere in merito
all’irrogazione o meno della sanzione (o delle sanzioni -perché possono cumularsi-) e nel
determinare l’importo.
Indipendentemente dalla sanzione pecuniaria, peraltro, la sentenza che accerta l’infrazione non è
priva di conseguenze: qualora lo stato sia inadempiente per aver introdotto o mantenuto una
norma incompatibile con il diritto dell’Ue la conseguenza è per i giudici e le amministrazioni
nazionali, un obbligo di non applicare la norma incompatibile, ma direttamente le norme
comunitarie provviste di effetto diretto così come interpretate dalla corte nella sentenza.
Procedure speciali→ in talune specifiche ipotesi di inadempimento, il TFUE prevede, in deroga agli
artt. 258 e 259, una procedura accelerata che consente alla Commissione e agli stati membri di
saltare la fase precontenziosa e di adire direttamente la Corte. Si pensi all’art. 108 TFUE in materia
di aiuti di stato, qualora lo stato in questione non si conformi, nel termine prescritto, ad una
decisione di incompatibilità dell’aiuto concesso, ovvero eroghi un aiuto prima ancora che la
Commissione si sia pronunciata sulla compatibilità nell’ambito della procedura avviata al riguardo.
Oppure all’art. 114 par. 9 TFUE in materia di ravvicinamento delle legislazioni, qualora uno stato
abusi del potere di applicare misure nazionali più rigorose rispetto alle misure di armonizzazione
adottate a livello europeo. Il Fiscal Compact prevede all’art. 8 una procedura mutuata da quella di
infrazione al fine di verificare l’attuazione degli obblighi di cui all’art. 3 in materia di disavanzo e
costituzionalizzazione del pareggio di bilancio: qualora la Commissione accerti l’inadempimento di
tali obblighi, dopo aver dato alle parti contraenti interessate la possibilità di presentare le proprie
osservazioni, una o più parti contraenti possono presentare ricorso alla corte di giustizia. Così
come una parte contraente, se ritiene che un’altra parte contraente abbia violato tali obblighi, può
adire direttamente la corte. In entrambi i casi il giudizio è vincolante per le parti in causa che sono
tenute ad adottare tutte le misure necessarie per conformarsi alla sentenza entro il termine
stabilito. Se una parte o la Commissione ritengano che la parte inadempiente non abbia posto fine
all’inadempimento, possono chiedere alla corte di comminargli delle sanzioni. In tale giudizio la
corte agisce nell’ambito delle sue competenze arbitrali ai sensi del 273 TFUE.
RINVIO PREGIUDIZIALE DI VALIDITÀ → In tal caso il giudice del rinvio chiede se la norma
dell’unione sia valida e quindi efficace; tale pronuncia consente alla Corte di esercitare un
controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni, degli organi o organismi dell’UE, aventi valore
vincolante, anche se sprovvisti di efficacia diretta. Le sentenze, invece, data la loro autorità di cosa
giudicata, non possono costituire oggetto di rinvio di validità. Il controllo sulla validità degli atti da
parte della Corte è analogo a quello esercitato dalla stessa nell’ambito del ricorso in annullamento,
con la differenza che, quando i giudici nazionali ritengano di adire la Corte in via pregiudiziale
perché si pronunci sulla validità di un atto dell’Unione, non operano le condizioni restrittive in
materia di ricevibilità previste in particolare per i privati che si applicano al ricorso in annullamento
e non trova applicazione il termine di ricorso di due mesi ivi previsto. Dunque, anche se si tratta di
un atto avente portata generale che non riguarda il singolo direttamente ed individualmente, lo
stesso può sollecitare il giudice a formulare alla Corte il quesito circa la validità dell’atto in
questione. Tale mezzo completa, quindi, il sistema di tutela giurisdizionale soprattutto per quanto
riguarda i singoli, poiché dà loro la possibilità di tutelarsi nei confronti di atti a portata normativa
generale rispetto ai quali è loro preclusa l’azione diretta in annullamento, ma si tratta comunque
di un ricorso indiretto, nel senso che il privato può soltanto sollevare la pretesa invalidità dell’atto
dell’Unione dinanzi al giudice interno, il quale è l’unico a decidere se ricorrere o meno alla Corte.
GIUDIZIO CAUTELARE NAZIONALE E RINVIO→ se il giudice nazionale non potesse concedere misure
provvisorie, fino all’esito della causa, l’utilità del 267 verrebbe ridotta e non sarebbe garantita una
tutela piena ed effettiva. Una delle prime ipotesi sottoposte alla Corte circa i rimedi cautelari lo è
stata quella relativa alla causa Factortrame, in cui la società aveva dedotto l’incompatibilità
comunitaria di una norma nazionale e la necessità di non applicarla e relativamente alla quale il
giudice inglese chiedeva alla corte se nell’attesa della pronuncia definitiva la sua applicazione
potesse essere sospesa: chiedeva la tutela cautelare di un diritto che pretendeva essergli conferito
dal diritto comunitario la corte diede una risposta positiva. Inoltre, il giudice nazionale può
sospendere in via cautelare l’applicazione di una normativa nazionale a regione di una pretesa
illegittimità dell’atto dell’Unione di cui rappresenta la misura interna di attuazione, purché operi un
rinvio pregiudiziale di validità alla corte. Il giudice nazionale può, sempre sussistendone i
presupposti, concedere misure positive che creino situazioni giuridiche soggettive inibite dalla
normativa europea.
Gli effetti temporali→ Normalmente l’effetto della sentenza, sia interpretativa che dichiarativa
dell’invalidità di un atto dell’Unione, si estende anche ai rapporti sorti in epoca precedente alla
sentenza stessa, purché non esauriti, dunque si tratta di una efficacia ex tunc. Tuttavia, la
giurisprudenza della Corte aveva esteso la facoltà di limitare gli effetti e dunque dichiarare
l’efficacia ex nunc, prevista dal 264.2 TFUE per le sole sentenze di annullamento, alle pronunce
pregiudiziali di invalidità che realizzano, in sostanza, gli stessi effetti di una sentenza di
annullamento ex 263. La corte ha altresì limitato nel tempo gli effetti delle sentenze pregiudiziali
interpretative, attribuendo a queste un’efficacia ex nunc, richiamando il principio della certezza
del diritto al fine di tutelare gli effetti giuridici che si erano costituiti in buona fede ma, questi casi,
solo in presenza di circostanze ben precise: quando c’era il rischio di gravi ripercussioni
economiche dovute all’elevato numero di rapporti giuridici costruitisi in buona fede; in presenza di
un comportamento non conforme alla normativa nazionale dovuto ad una oggettiva e rilevante
incertezza sulla portata delle disposizioni dell’Unione.
Va precisato però che, inizialmente, la Corte aveva ritenuto che gli effetti della propria sentenza,
quando ex nunc, non potessero nemmeno applicarsi alle parti del giudizio a quo, ma ciò era in
contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale; dunque, nella giurisprudenza
successiva ha precisato che, allorché si avvalga della possibilità di limitare gli effetti nel tempo di
una sua sentenza, spetta ad essa stessa determinare se una deroga a tale limitazione possa essere
prevista a favore della parte della causa principale che abbia impugnato dinanzi al giudice
nazionale l’atto, oppure se, anche nei confronti della detta parte, la declaratoria di invalidità o
l’interpretazione dell’atto con effetti unicamente ex nunc costituisca un rimedio adeguato.
PROCEDURA
La procedura pregiudiziale inizia dinanzi al giudice interno con la sospensione del procedimento e la
rimessione alla Corte di un’ordinanza che indica: i quesiti di interpretazione o di validità, le
circostanze del caso, i motivi, la rilevanza della questione per la soluzione del caso e ogni elemento
utile di giudizio. L'ordinanza viene poi ratificata dalla Corte alle parti del giudizio interno, agli stati
membri, alla Commissione, nonché all'istituzione, all'organo o all'organismo dell'Unione che ha
adottato l'atto di cui si contesta la validità o l'interpretazione: tutti costoro hanno la possibilità di
presentare memorie ed osservazioni scritte entro due mesi dalla notifica. La Corte, sentito
l’avvocato generale, può decidere di non tenere un’udienza di discussione, qualora essa giudichi, a
seguito della lettura delle memorie e delle osservazioni depositate durante la fase scritta del
procedimento, di essere sufficientemente edotta per statuire. Quando invece si da luogo ad
un’udienza di discussione, la corte invita i partecipanti ad incentrare le loro osservazioni su aspetti
specifici; questa fase consente alla corte di perfezionare la sua conoscenza della causa mediante
l’audizione delle parti ed eventualmente delle conclusioni dell’avvocato generale.
Le parti del procedimento non hanno formale qualità di parti dinanzi alla Corte, dunque non possono
modificare la formulazione del quesito contenuta nella decisione di rinvio né rivolgersi direttamente
alla Corte, ma possono da questa essere sentite nella fase della procedura orale anche qualora non
abbiano partecipato a quella scritta. Il dispositivo, all’esito della fase deliberativa, viene letto in
udienza pubblica, pubblicato sulla gazzetta ufficiale e una copia viene ricevuta dalla cancelleria del
giudice a quo. Un PPU (procedimento pregiudiziale d’urgenza) può essere applicato nei settori di cui
al titolo V della parte terza del TFUE (relativo allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia): il giudice
nazionale che procede al rinvio deve esporre le questioni di fatto e di diritto che provano l’urgenza
e che giustificano l’applicazione di tale procedimento; il diritto di depositare le osservazioni scritte
è riservato solo alle parti in causa del giudizio principale, allo stato membro cui appartiene il giudice,
alla commissione, al consiglio o al parlamento qualora uno dei loro atti sia oggetto di causa, gli altri
interessati potranno partecipare solo alla fase orale della procedura; infine la trattazione è riservata
ad una sezione di 5 giudici appositamente selezionati che decide sentito l’avvocato generale→ tali
procedimenti si concludono in tempi brevissimi.