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INTRODUZIONE

L’EUROPA COMUNITARIA. CENNI SULLA SUA EVOLUZIONE

L’idea di un’Europa Comunitaria viene realizzata negli anni successivi alla Seconda Guerra
Mondiale al fine di impedire il riprodursi delle situazioni politiche, economiche e militari che
avevano portato il mondo a quel disastro. Accanto all’idea di un’Europa unita vi era innanzitutto la
necessità di un legame stretto e definitivo tra Francia e Germania da sempre al centro della
patologia dei rapporti tra Paesi europei, tanto è vero che Churchill all’Università di Zurigo dopo
aver espresso il suo favore alla creazione degli “Stati Uniti di Europa” affermava che per fare ciò
era necessaria una partnership tra Francia e Germania. I problemi più urgenti ai quali far fronte
riguardavano, da un lato l’assetto territoriale e militare dell’Europa centrale, dall’altro le vicende
economiche soprattutto dell’industria carbosiderurgica presente nei due bacini della Ruhr e della
Saar. In risposta a tali preoccupazioni ebbero origine la NATO e la CECA: entrambe miravano a far
entrare i singoli Paesi membri in strutture collettive che in loro vece si occupassero
rispettivamente della difesa del territorio e della gestione dell’industria del carbone e dell’acciaio.
Il Trattato CECA fu firmato a Parigi nel 1951 da Francia, Germania, Italia e Benelux ed entrò in
vigore nel ’52, l’obiettivo della CECA (come emerge dalla dichiarazione del ministro degli esteri
francese Shuman) era quello di porre l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di
acciaio sotto il controllo e la gestione di un’organizzazione aperta alla partecipazione degli altri
Paesi europei→ obiettivo economico, ma anche politico (l’integrazione tra i paesi europei già
aleggiava come obiettivo da realizzarsi con gradualità). La CECA era così composta:
• Alta Autorità→ organo di gestione (composto da personalità indipendenti) dotato di
un’ampia indipendenza deliberativa rispetto ai Paesi membri e di un vasto potere
decisionale nei cfr. delle imprese del settore.
• Consiglio speciale dei ministri→ composto dai rappresentanti degli stati membri e avente
competenze di controllo.
• Assemblea comune→ composta da membri designati dai Parlamenti nazionali.
• Corte di Giustizia
Successivamente il processo di integrazione subì una battuta di arresto, dato il fallimento
dell’iniziativa di creare una Comunità Europea di difesa (CED) il cui trattato, fondato sull’idea di
una forza armata europea collegata ad un’unitaria struttura istituzionale, non ebbe il consenso del
Parlamento francese. Il processo tuttavia continuò focalizzandosi sull’idea di un mercato comune
liberalizzato (ai fini di un graduale avvicinamento delle politiche economiche degli stati membri in
vista di una futura unione sempre più stretta) e di iniziative comuni nei settori dei trasporti e
dell’energia nucleare. Si delineò così accanto alla CECA anche la Comunità economica europea
(CEE) e la Comunità europea per l’energia atomica (CEEA o EURATOM) i cui Trattati istitutivi
furono firmati a Roma nel 1957 ed entrarono in vigore nel 1958.
Dal punto di vista strutturale le tre comunità su citate ebbero istituzioni almeno in parte separate,
comuni erano la Corte di giustizia e l’Assemblea mentre l’Alta Autorità caratterizzava solo la CECA
in quanto CEE e CEEA avevano una Commissione, così come distinto, per ogni organizzazione, era il
Consiglio dei Ministri. Tale assetto fu mantenuto fino al 1967 quando entrò in vigore il “Trattato
sulla fusione degli esecutivi” (T. Bruxelles) il cui obiettivo era quello di far funzionare le comunità
in maniera semplificata tanto è vero che istituisce un Consiglio unico ed una Commissione unica
delle Comunità europee→ da questo momento le Comunità rimangono sì distinte e con le diverse
competenze ad esse attribuite dai tre trattati istitutivi, ma funzionavano con organi comuni.

La crescita della struttura comunitaria e soprattutto la sua presenza sempre più attiva sia nella
sfera economica degli stati che in quella giuridica dei singoli, facevano avvertire da un lato il
bisogno di rendere più democratico il processo partecipativo e decisionale, dall’altro l’esigenza di
una più visibile cooperazione politica. Tutto ciò sfociò nell’iniziativa della elezione a suffragio
universale del Parlamento realizzata nel 1979.

Nella seconda metà degli anni Ottanta segnarono una vistosa accelerazione verso l’integrazione
dei mercati:

• Il Libro bianco della Commissione sul mercato interno diffuso→ fondato sulla logica
dell’integrazione negativa che consiste nell’abolizione degli ostacoli diretti e indiretti agli
scambi.
• L’atto Unico Europeo→ che ha come obiettivo quello di rafforzare il mercato europeo e di
estendere le competenze comunitarie; integra la logica sopra esposta di nuovi campi di
azione e di spinte rilevanti verso l’integrazione positiva in materia di ambiente, trasporti,
energia, telecomunicazioni; modifica il processo decisionale che vede ridotta la sua
dimensione contrattuale attraverso un uso più frequente del voto a maggioranza in seno al
Consiglio e con un significativo coinvolgimento del Parlamento. Il termine unico sta a
significare che il Trattato riunisce in un unico testo sia le disposizioni concernenti le
comunità sia quelle in materia di cooperazione politica europea. Con l’AUE si consolida la
dimensione sociale e parallelamente trova avallo formale anche l’obiettivo della coesione
economica e sociale.

Infine, negli anni ’80, il ruolo della Corte di giustizia consacra la Comunità di diritto come valore
fondamentale e porta l’integrazione giuridica ad un livello più avanzato rispetto ad ogni altro
campo di azione comunitaria. La dialettica con alcune giurisdizioni nazionali sancisce anche il
consolidarsi nelle giurisprudenze nazionali sia dell’effetto diretto delle norme comunitarie sulla
posizione giuridica dei singoli, sia del primato delle stesse sulle norme nazionali confliggenti.

Con il Trattato di Maastricht (T. sull’Unione Europea) firmato nel’92 ed entrato in vigore nel ’93, il
quadro finora delineato sull’Europa comunitaria subisce una modificazione ed un rilancio.
L’Unione resta fondata sulle Comunità europee di cui conserva interamente l’aquis -art. 2 tue-
insieme di diritti, obblighi ed obiettivi delle Comunità) integrandolo con nuove politiche ed il
rafforzamento di quelle già esistenti nonché con nuove forme di cooperazione. Non si tratta di una
nuova organizzazione internazionale che si aggiunge alle Comunità, tanto meno le sostituisce (può
essere immaginata come un contenitore). Il Trattato si compone di tre parti e per comprenderne
la struttura si utilizza l’immagine di un tempio greco con tre pilastri, dobbiamo immaginare per
ogni pilastro un diverso tipo e grado di integrazione europea.

1° pilastro→ è definito “comunitario” e contiene le disposizioni che hanno modificato i tre Trattati
esistenti. Tra le varie modifiche si pensi alla perdita della connotazione economica della CEE che si
trasforma nella Comunità europea (CE), con l’intento di avvicinarsi sempre più al cittadino e di
instaurare una reale solidarietà tra popoli (in tale occasione venne riconosciuta a tutti i cittadini
degli stati membri una cittadinanza europea). Inoltre vennero inseriti nuovi settori di competenza
sui quali già da tempo indirettamente incideva la regolamentazione europea (tutela della salute,
del consumatore, delle reti transeuropee, dell’industria). Risultano completamente riscritti i
capitoli dedicati alla politica sociale: istruzione, formazione professionale etc… Vengono snellite le
procedure, rese più democratiche e viene maggiormente coinvolto il Parlamento europeo. Infine,
viene definito l’obiettivo di procedere, attraverso tre fasi, all’instaurazione dell’Unione economica
e monetaria sostituendo le monete nazionali con l’euro.
2°pilastro→ è costituito dalla politica estera e di sicurezza comune: non si tratta di una semplice
cooperazione tra Stati membri, ma di una politica comune che si collocava all’interno dell’Unione,
pur restando al di fuori del quadro comunitario.
3°pilastro→ è costituito dalla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni: si tratta
di una mera cooperazione tra gli Stati membri nella politica di asilo e di immigrazione, nella lotta
contro la tossico dipendenza e la frode, una cooperazione circa la lotta e la prevenzione del
terrorismo e di altre forme di criminalità internazionale.
Nel 2° e 3° pilastro parliamo di un'integrazione molto più debole, siamo più nel campo della
cooperazione internazionale o meglio “intergovernativa” che nella vera e propria integrazione
comunitaria. Basti pensare ad esempio che nell'ambito della politica estera e di sicurezza comune
non è previsto un sindacato giurisdizionale della Corte di Giustizia, salvo dei casi eccezionali.
Un coinvolgimento pieno e rilevante del Parlamento Europeo lo riscontriamo solo in relazione al
pilastro comunitario, molto più debole nel 3°pilatro, del tutto marginale nell'ambito del 2° pilastro.
I protagonisti del 2° e del 3° pilastro sono gli Stati e le istituzioni (comunitarie e non) che li
rappresentano, Consiglio e Consiglio europeo.
Un sistema di tutela giurisdizionale completo e incondizionato c'è soltanto nell'ambito del sistema
comunitario, è inesistente nel 2°pilastro, nell'ambito del terzo pilastro è più debole perché, ad
esempio, per alcune competenze è richiesta la preventiva accettazione da parte degli stati
evocando sistemi di tutela giurisdizionale di altre organizzazioni internazionali.
Dal punto di vista dell’assetto strutturale non erano previste istituzioni dell’Unione che non
fossero quelle delle Comunità, non era molto facile, dunque, qualificare giuridicamente l’Unione e
neppure dare una definizione propria, era sicuro solo che essa era fondata sulle tre Comunità,
integrate dalle politiche e forme di cooperazione instaurate con il trattato di Maastricht. E’
un’organizzazione internazionale sui generis, cioè nasce nel solco delle tradizionali organizzazioni
internazionali, ma presenta caratteristiche non riscontrabili in nessun altra, il cui obiettivo
principale è quello dell’integrazione fra popoli europei. Non è uno stato, non è una confederazione
di stati, anche se aspira a diventarci. Il professor Conforti, la definiva la meno internazionale delle
organizzazioni internazionali, proprio per sottolineare le sue peculiarità. Quindi possiamo
sicuramente dare questa qualificazione di organizzazione internazionale anche se non è precisa
innanzitutto perché si basa sulle competenze che gli stati decidono di attribuire all’UE. E’ dotata di
una propria soggettività, di una personalità giuridica anche sul piano internazionale, quindi può
avere rapporti con altre organizzazioni internazionali, con altri stati terzi, anche se questo non fa
venire meno la personalità dei singoli stati. La diversità rispetto alle altre organizzazioni è data
innanzitutto dalla composizione e dal coinvolgimento delle istituzioni nella formazione degli atti
dell’ue, dall’incidenza del diritto ue sul diritto interno (nessun’altra organizzazione internazionale
ha la stessa incidenza sugli ordinamenti nazionali come l’ue), infine dal sistema di tutela
giurisdizionale, che non trova eguali in altre organizzazioni.

Lo stesso Trattato di M. prevedeva la revisione, quando si fossero rilevate inadeguate, delle


politiche e delle forme di cooperazione da esso previste; a tale scopo ebbe luogo nel 1996 una
conferenza intergovernativa dalla quale ebbe origine il Trattato di Amsterdam firmato nel ’97 ed
entrato in vigore nel ’99 che apporta modifiche al precedente Trattato.
Con questo trattato venne rafforzata la materia dei diritti fondamentali a tal proposito va
segnalata la previsione che il Consiglio poteva constatare all’unanimità l’esistenza di una
violazione grave e persistente dei valori fondanti dell’Unione da parte di uno Stato Membro.
La novità più significativa riguarda la comunitarizzazione del terzo pilastro del T. di Maastricht con
l’introduzione del Titolo IV (relativo ai visti, all’asilo, all’immigrazione ed altre politiche connesse
con la libera circolazione delle persone) che viene denominato “cooperazione di polizia e
giudiziaria in materia penale”→ è evidente dal titolo che si tratta di cittadini di Paesi terzi o meglio
dell’introduzione di una politica comune rispetto a questi ultimi che ha avuto l’effetto di facilitare
la stessa libertà di circolazione dei cittadini comunitari e di fornire loro un più elevato livello di
sicurezza e giustizia penale.

Nel 2003 entrò in vigore il Trattato di Nizza che non apporta parecchie novità al TUE, ma articola
meglio l’intervento del Consiglio nell’ipotesi di violazione dei principi fondamentali di libertà e
democrazia, apporta novità al meccanismo della cooperazione rafforzata, modifica infine le
modalità di decisione delle istituzioni. Al Consiglio europeo di Nizza viene proclamata la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea preparata dai rappresentati dei Parlamenti nazionali, del
Parlamento europeo, della Commissione e dei Capi di Stato e di Governo che inizialmente non
ebbe un riconoscimento formale vincolante come i trattati, ma ciò non le impedì di avere efficacia,
tanto è vero che veniva utilizzata per interpretare i principi fondamentali. Essa sancisce un
complesso di diritti fondamentali articolato sui valori della dignità, della libertà, eguaglianza,
giustizia e solidarietà e il suo scopo non era quello di innovare, ma di rendere solenne
l’affermazione di alcuni valori destinati ad ispirare il vivere insieme dei popoli europei.

Nel 2004 fu firmato il progetto per il “Trattato-Costituzione” con l’intento di dotare l’Europa di un
unico testo-costituzione che sostituisse, eliminandoli, i precedenti trattati; il progetto non trovò
applicazione pratica perché non fu ratificato da Francia ed Olanda.
Nel 2007 fu indetta una Conferenza intergovernativa grazie alla quale si tradussero, nella firma di
un Trattato, le linee della nuova riforma: si fa riferimento al Trattato di Lisbona firmato nel 2007
ed entrato in vigore nel 2009 che comportò una “successione” dell’Unione europea alla Comunità
europea, ad una revisione del Trattato sull’Unione europea (TUE) e del Trattato istitutivo della
Comunità europea (CE) la denominazione del quale è mutata in “Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea” (TFUE). Con questo Trattato (Lisbona) il terzo pilastro viene definitivamente
comunitarizzato, la Carta di Nizza riceve riconoscimento formale vincolante con lo stesso rango dei
Trattati, prevede che l’unione aderisce alla CEDU e che i diritti della convenzione fanno parte dei
diritti dell’unione in quanto principi generali, viene data una più evidente e formale attenzione alla
tutela dei diritti fondamentali; viene prevista una più incisiva partecipazione del Parlamento
europeo ai Parlamenti nazionali nel processo decisionale; viene previsto un Presidente del
Consiglio europeo di più lunga durata. Nonostante apporti queste modifiche il Trattato in
questione è pur sempre un trattato di “revisione” ed è l’ultimo che si è susseguito nel tempo ed ha
per sempre messo fine all’idea di una costituzione europea.

CAPITOLO 1: L’APPARTENENZA DEGLI STATI ALL’UNIONE

VALORI FONDANTI DELL’UNIONE


La Corte di Giustizia afferma che ciascuno stato membro condivide con tutti gli altri Stati una serie
di valori sui quali l’Unione si fonda, si tratta di valori condivisi da tutti i soggetti dell’unione:
istituzioni, organi, stati e singoli; inoltre questi valori sono posti a fondamento non solo dell’azione
interna dell’Unione, bensì anche di quella esterna con la finalità di promuoverli nel resto del
mondo. Un elenco di questi ultimi è contenuto nell’art. 2 TUE → “L'Unione si fonda sui valori del
rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di
diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze.
Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non
discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e
uomini”.
In primo luogo, l’art. 2 richiama la dignità umana, un riferimento alla quale lo ritroviamo anche
nell’art 1 della Carta dei diritti fondamentali e nella convenzione europea dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, collocando quindi la persona in quanto tale al centro del sistema
dell’ue. Dunque, oltre che un valore fondante è anche un diritto fondamentale assoluto (cioè non
può subire delle restrizioni, delle deroghe, anche nel bilanciamento con altri valori e diritti
fondamentali o con esigenze di interesse generale). Nella stessa prospettiva si colloca il principio
dell’uguaglianza che troviamo nelle costituzioni nazionali e in altre organizzazioni internazionali e
che come vedremo trova molteplici declinazioni nell’ambito dei due trattati: TUE TFUE. Quindi
viene posta un’enfasi particolare su questi due valori fondamentali che costituiscono anche dei
diritti fondamentali dell’Unione.
Sono poi espressamente richiamate la libertà da intendere in un senso ampio, non circoscritto alle
4 libertà fondamentali che caratterizzano il mercato unico europeo (libertà di circolazione delle
merci, persone, servizi e capitali) e la democrazia→ l’ue si fonda sulla democrazia rappresentativa
e partecipativa e sui principi democratici contenuti nel Titolo II del TUE. Il suo rafforzamento si è
avuto con il Trattato di Lisbona, proprio per dare una risposta al costante problema del deficit
democratico dell’ue. In origine le Istituzioni che avevano maggior potere erano la Commissione col
suo ruolo di bilanciamento in quanto rappresentante degli interessi comunitari (oggi interessi
dell’Unione) ed il Consiglio che invece rappresenta gli interessi degli stati. Poi ci si rese conto che
l’esigenza di democrazia non poteva essere soddisfatta soltanto attraverso il Consiglio Europeo e il
Consiglio i cui membri sono comunque democraticamente responsabili di fronte alle assemblee
parlamentari nazionali, dunque c’era già una forma di rappresentanza e democrazia, ma non era
sufficiente. Dunque, il ruolo del Parlamento Europeo progressivamente valorizzato nel processo di
integrazione europea, a partire dalla decisione dell’76 che ha previsto l’elezione a suffragio
universale e diretto in occasione delle prime elezioni del 79 e ciò ha rappresentato il riflesso di un
principio democratico fondamentale, in base al quale i popoli partecipano all’esercizio del potere
democratico per il tramite di una assemblea rappresentativa de cittadini europei. La conseguenza
di questa valorizzazione è che oggi la procedura più utilizzata è quella legislativa ordinaria, che
vede il Parlamento sullo stesso piano del Consiglio. Infine, ci sono vari strumenti di democrazia
partecipativa e viene riconosciuta anche l’importanza dei partiti politici europei che svolgono un
ruolo centrale per la formazione di una coscienza civica europea.
Dopo il valore della democrazia viene enunciato poi lo stato di Diritto che vincola tutti i soggetti
dell’ordinamento dell’ue al rispetto delle norme di questo ordinamento, tanto è vero che più volte
la corte di giustizia ha messo l’accento sul fatto che si tratta di una comunità di diritto, anche se
oggi si parla di un’Unione di diritto che significa che nessun soggetto dell’ordinamento dell’ue è
sottratto al controllo della conformità dei suoi comportamenti al rispetto del diritto dell’ue, ed è
previsto appunto un sistema di controllo di giurisdizionale proprio per garantire il rispetto di
questa unione di diritto: l’art. 19 par. 1, comma 2 TUE affida questo controllo non solo alla corte di
giustizia, ma anche agli organi giurisdizionali nazionali.
Questa unione giuridica poi poggia sul rispetto dei diritti umani che trovano riconoscimento più
deciso nell’art 6 TUE che, da una parte, attribuisce alla Carta dei diritti fondamentali lo stesso
valore dei trattati, quindi si trova al vertice della gerarchia delle fonti, dall’altra impone il rispetto
dei diritti fondamentali dell’uomo quali garantiti dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali
comuni.
Poi l’art 2 TUE ci dice anche che questi valori sono comuni agli stati membri in una società
caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza dalla amicizia dalla
solidarietà e dalla parità tra uomini e donne. Quindi ci si è posti il problema del perché l’art 2
richiamasse il principio di solidarietà ma non lo ricomprendesse nell’ambito dei valori
fondamentali dell’unione, citandolo limitatamente ai rapporti tra individui. Si tratta di una
questione di particolare rilevanza perché la violazione dei valori ex art 2 comporta delle
conseguenze: può portare all’applicazione di una sanzione mediante la procedura di cui all’art. 7
TUE, allora ci si pone il problema se sia o meno applicabile, questa procedura sanzionatoria, anche
in caso di violazione del principio di solidarietà. Formalmente non è applicabile perché la
solidarietà non è ricompresa nell’elenco e questa procedura può essere attivata solo in caso di
violazione dei valori espressamente indicati. Tuttavia, anche se c’è questa lacuna che andrebbe
colmata in occasione dei prossimi trattati di revisione, è chiaro che la solidarietà comunque
rappresenta un principio che ha fondamento nella costituzione europea, dunque viene comunque
considerata un valore fondante dell’unione. Oltre tutto viene richiamata nel successivo art. 3 TUE
nell’ambito degli obiettivi e anche con riferimento ad alcune politiche è richiamato espressamente
ad esempio, proprio in tema di immigrazione, si fa specifico riferimento alla solidarietà, si pensi
alla crisi emergenziale delle migrazioni che si sono avute in alcuni anni rispetto alla quale il
Consiglio aveva deciso di collocare gli immigrati sbarcati in alcuni paesi presso tutti i paesi europei,
ma alcuni stati si erano rifiutati di accoglierli→ in questo caso è stata accertata una loro violazione
del diritto dell’ue perchè erano previsti obblighi ben definiti che discendevano da norme previste
da trattati in tema di immigrazione. Quindi la violazione del principio di solidarietà, anche se non
sanzionabile ex art. 7, può essere contrastata con la procedura di infrazione (una procedura più
generale).

GLI OBIETTIVI DELL’UNIONE


Sono richiamati dall’art. 3 TUE ed ispirano l’azione dell’Unione, caratterizzandola rispetto alle altre
organizzazioni internazionali. L’art. 3 al paragrafo 1 enuncia come obiettivo generale quello di
promuovere la pace, i valori dell’Unione e il benessere dei suoi popoli; in particolare, la pace
rappresenta uno dei maggiori successi dell’ue in quanto ha contribuito a trasformare l’Europa da
un continente di guerra ad un continente di pace: nel 2012 ha ottenuto il Premio Nobel per la
pace. A questo macro-obiettivo si affiancano obiettivi più specifici che corrispondono ai principali
campi d’azione dell’Unione (questi coincidono con le finalità perseguite originariamente dai tre
pilastri, ora abrogati). In primis vengono in rilievo, al paragrafo 2, gli obiettivi (che facevano parte
del 3°pilastro): garantire ai cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere
interne in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone e misure appropriate circa il
controllo delle frontiere estere, l’immigrazione e la prevenzione della criminalità.
Al paragrafo 3 viene poi menzionato come obiettivo la realizzazione del mercato unico che
rappresenta il nucleo originario attorno al quale si è sviluppato il processo di integrazione europea
e che comporta uno spazio senza frontiere nel quale è assicurata la libera circolazione di: merci,
persone, servizi e capitali. Altro obiettivo legato a quest’ultimo è la realizzazione di un’economia
sociale di mercato fortemente competitiva → espressione coniata dalla scuola di Friburgo che
propose la creazione di un ordinamento della società liberale e al tempo stesso impegnato e
progressista sul piano sociale, alla quale il Trattato di Lisbona ha aggiunto “fortemente
competitiva” al fine di assicurare una coerenza tra le esigenze del mercato e della concorrenza da
un lato e quelle sociali dall’altro.
Il paragrafo 3 ai commi 1, 2, 3 e 4 elenca obiettivi di natura sociale: la lotta alle discriminazioni, la
promozione della giustizia, la tutela dei diritti del minore, la promozione del progresso tecnologico
e scientifico, il pluralismo linguistico, la salvaguardia del patrimonio culturale europeo, la coesione
economica sociale e territoriale, la riduzione dei divari strutturali fra le Regioni e la solidarietà che
è dunque al contempo un pilastro (valore) e un principio guida (obiettivo) delle politiche
dell’Unione.
Al paragrafo 4 viene enunciato come altro obiettivo l’unione economica e monetaria → obiettivi
considerati unitariamente, ma nell’ambito dei quali l’Unione dispone di competenze differenti.
L’art. 3 si chiude con l’affermazione secondo cui l’unione persegue i suoi obiettivi con i mezzi
appropriati e nel rispetto del principio delle competenze di attribuzione.
L’Unione persegue non solo obiettivi interni, ma anche esterni dunque nelle relazioni esterne con
il resto del mondo: affermazione dei valori e degli interessi ai fini della tutela dei suoi cittadini,
pace, sicurezza, sviluppo sostenibile della terra etc. Tali obiettivi generali vengono esplicitati nelle
successive disposizioni del TUE e del TFUE e devono essere tradotti in specifiche norme destinate
ad attuarli. In caso di contraddizioni tra obiettivi, così come tra valori, spetta alla Corte di Giustizia
svolgere una funzione di ribilanciamento valutando le circostanze del caso concreto.

IL RISPETTO DEI VALORI DELL’UNIONE E LE SANZIONI PER LA LORO VIOLAZIONE


I valori sono una condicio sine qua non sia per l’adesione di nuovi Stati, sia per la loro permanenza
nell’Unione e devono essere rispettati sia nelle situazioni che ricadono nel cono d’ombra del
diritto dell’Unione che in quelle puramente interne. A tal fine l’art. 7 TUE prevede un sistema di
controllo (di natura prevalentemente intergovernativa) sull’osservanza dei valori di cui all’art. 2.
Su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione
europea, il Consiglio, deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri, previa
approvazione (della suddetta deliberazione) del Parlamento europeo (a maggioranza dei due terzi
dei voti espressi), può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di
uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2, dunque può fornire preventivamente un
avvertimento (che potrebbe sfociare in una sanzione) al Paese coinvolto prima che la violazione
grave si materializzi. Inoltre, prima di procedere a tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato
membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa
procedura e invitando lo Stato a porre fine alla violazione (mediante lo strumento più soft della
raccomandazione). Il Consiglio verifica regolarmente se i motivi che hanno condotto a tale
constatazione permangono validi.
Se la violazione grave persiste, a seguito della procedura di allarme su menzionata, il Consiglio
europeo, deliberando all'unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della
Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare l'esistenza
di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2,
dopo aver invitato tale Stato membro a presentare osservazioni.
Una volta effettuata tale constatazione dovrebbero essere irrogate delle sanzioni e competente a
farlo è stavolta il Consiglio che deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere
alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall'applicazione dei trattati, compresi i
diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell'agire
in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui
diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche. Lo Stato membro in questione continua in
ogni caso ad essere vincolato dagli obblighi che gli derivano dai trattati.
Lo Stato interessato non prende parte alle votazioni che nell’ambito di tale procedura lo
riguardano, ma gli deve sempre essere garantito il contraddittorio mediante la possibilità di
presentare le proprie osservazioni prima che nei suoi confronti sia presa una decisione.
Qualora poi dovesse cambiare la situazione che ha portato all’imposizione della sanzione il
Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può successivamente decidere di modificare o
revocare le misure adottate.
La procedura è stata azionata nei confronti di alcuni paesi dell’est: la Romana, l’Ungheria, la
Polonia, ma non si è mai arrivati ancora alla sospensione dei diritti di voto, la clausola di
sospensione non ha mai trovato completa applicazione in ragione della complessità della
procedura. Ad es. proprio di recente è stata avviata la procedura nei confronti della Polonia,
nonché nei confronti dell’Ungheria però non si sono tradotte ancora in una sanzione; in
particolare l’Ungheria ha posto in discussione alcuni principi fondamentali dello stato di diritto
quali l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa, quindi si è posto un problema grave.
Tuttavia, bisogna anche evidenziare che fino ad oggi questo art 7 è stato uno strumento poco
efficace perché la procedura è complessa, di natura politica e richiede maggioranze
eccessivamente elevate. Tanto è vero sono state introdotte alcune modifiche: si è prevista, con
l’adozione da parte della Commissione di una comunicazione, la possibilità di instaurare una
procedura di dialogo pre-applicazione dell’art 7 in base alla quale si cercano di risolvere, in via
amichevole e bonaria, i conflitti con lo stato membro interessato, facendo dialogare la
commissione con lo stato. Quindi prima dell’intervento della procedura formale c’è una
interlocuzione tra la commissione e lo stato per cercare di risolvere il problema. Soltanto se questa
procedura di dialogo (dato che non è vincolante) non andasse a buon fine allora si attiva la
procedura ex art 7. Purtroppo, anche le procedure di dialogo non hanno dato il risultato sperato,
quindi emerge chiara l’esigenza di rivedere complessivamente questa procedura perché il rispetto
dei valori fondamentali è centrale per l’ue.
Infine, è bene specificare che il rispetto di tali valori è importante anche nelle relazioni esterne
dell’ue, spesso troviamo proprio delle clausole di condizionalità negli accordi che l’ue sottoscrive
con altri soggetti (organizzazioni internazionali o stati terzi), con le quali l’ue normalmente si
riserva di sospendere o interrompere l’accordo qualora la controparte non rispetti tali valori.
Le lacune e la debolezza di questa procedura ex art 7 spingono sempre più a intraprendere altre
strade, ad esempio l’utilizzazione della procedura di infrazione→ in alcuni casi che potevano
rientrare nel campo di applicazione dell’art7, però visto che è troppo complessa e richiede
maggioranze troppo elevate, la commissione ha deciso di attivare invece la generale procedura di
infrazione, che ha dei presupposti completamente diversi. La procedura di cui all’art. 7 a
differenza di quest’ultima ha natura politica, gli atti adottabili nel suo ambito non sono suscettibili
di sindacato giurisdizionale (se non per quanto concerne il rispetto delle sole prescrizioni di
carattere procedurale) e infine, l’ambito di applicazione è più ampio di quello della procedura di
infrazione perché non è limitato al diritto dell’unione, ma si estende anche ai settori di autonoma
competenza degli stati membri purché lo Stato di diritto sia in pericolo.
L’ADESIONE DEGLI STATI ALL’ UE

Dalle origini del processo di integrazione europea ad oggi si è passati da 6 paesi fondatori a 28 stati
membri si tratta di un processo rilevante che ha portato l’UE a condurre la crescita economica e a
rafforzare l’integrazione nel continente europeo. L’adesione ha la sua base giuridica nell’art. 49
TUE che ci descrive le condizioni e la procedura da seguire→ “Ogni Stato europeo che rispetti i
valori di cui all'articolo 2 e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro
dell'Unione”. La domanda di adesione può essere presentata soltanto da uno stato Europeo,
espressione che in questo caso assume un significato più ampio: implica delle derivazioni di
carattere non solo geografico, ma anche storico, culturale in vista della realizzazione di un
progetto comune di integrazione.
Il paese candidato deve altresì soddisfare i criteri di Copenaghen definiti dal Consiglio europeo
svoltosi a Copenaghen nel’93:
• criterio giuridico→ capacità di assumere gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione ivi
compresi gli obiettivi politici, economici e militari.
• politico→ presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i
diritti dell’uomo, il rispetto delle minoranze.
• economico→ esistenza di un’economia di mercato affidabile e capacità di far fronte alle
forze del mercato e alla pressione concorrenziale.

A questi, si aggiunge un quarto criterio (aggiunto in occasione del vertice del consiglio europeo nel
1995 a Madrid) → il paese deve essere capace di applicare il diritto dell’UE in modo efficace,
attraverso delle strutture amministrative e giudiziarie adeguate.
Queste sono le condizioni che oggi trovano applicazione, ma nell’art. 49 si prevede indirettamente
la possibilità del Consiglio di aggiungere dei nuovi criteri, modificando il quadro vigente: es. il
problema attuale è quello di introdurre degli obblighi più stringenti per quanto riguarda il rispetto
dell’equa ripartizione della responsabilità tra gli stati per fronteggiare le crisi, e quindi
sostanzialmente, una maggiore valorizzazione del principio di solidarietà ai fine dell’adesione,
perché in virtù del problema dell’immigrazione, non è giustificato che i nuovi stati non si sentano
obbligati a fare la loro parte per risolvere la crisi umanitaria degli ultimi anni ed aiutare i paesi che
si trovano imbrigliati in questo problema (es: Italia).

La procedura di adesione all’ UE prende avvio dalla domanda dallo stato interessato che viene
trasmessa al consiglio e comunicata ai parlamenti nazionali ed al Parlamento europeo. Il consiglio
deve deliberare all’unanimità ( tutti gli stati dell’unione devono approvare), previa consultazione
della commissione (che rende un parere obbligatorio ma non vincolante) e previa approvazione
del parlamento europeo a maggioranza dei membri (l’approvazione del parlamento europeo si
sostanzia in una sorta di diritto di veto). Il parlamento europeo se da il suo consenso, si può
continuare con il processo di adesione, in caso di dissenso si arresta il processo.
Dopo l’accoglimento della domanda di adesione (il richiedente assume lo status di Paese
candidato all’adesione) si apre una seconda fase che ha ad oggetto la negoziazione e la
conclusione dell’accordo: l’atto di adesione. Questa parte di trattativa viene condotta
parallelamente ad una fase di SCREENING sul rispetto degli obblighi dell’UE (viene sostanzialmente
offerta un’assistenza per valutare se si è in grado di conformarsi agli obblighi dell’UE).
L’accordo di adesione, una volta che viene approvato, deve essere sottoscritto da parte di tutti gli
stati contraenti che dovranno RATIFICARE l’accordo, rispettando le proprie procedure
costituzionali. Il parlamento, da questo punto di vista si è arrogato un potere autonomo, di fare un
ultimo controllo prima della firma finale. Questo processo non è automatico, infatti, non
necessariamente si traduce nell’adesione del paese candidato all’ UE.
Il periodo di negoziato e screening può durare anche molto tempo e potrebbe anche non tradursi
in un vero accordo di adesione: un esempio è fornito dalla Turchia che ha acquisito lo status di
paese candidato all’UE nel 1999 e ha avviato le trattative nel 2005 però si trova ancora in una
situazione di limbo, proprio perché non si considera uno stato affidabile sotto il profilo di alcuni
valori propri dello stato di diritto, mentre invece rispetta il criterio economico e il criterio politico.

IL RECESSO

I trattati hanno durata illimitata, cioè una volta che si entra a far parte dell’UE, l’adesione alla
stessa è illimitata, a meno che lo stato non decida di esercitare il diritto di recesso. Sin dai trattati
Di Roma, gli stessi hanno sempre avuto durata illimitata, a differenza dl trattato sul carbone e
l’acciaio che sin dalle origini era stato stipulato per una durata di 50 anni, infatti non ha più
efficacia dal 2002.
Il diritto di recesso viene previsto e disciplinato oggi dall’art 50 TUE, norma introdotta con il
Trattato di Lisbona prima del quale non era prevista una disposizione specifica. La dottrina infatti
si divideva: secondo alcuni il processo di appartenenza all’ue era irreversibile, mentre secondo altri
l’uscita era sempre possibile→ questi ultimi ritenevano che gli stati membri avessero la possibilità
di recedere in forza dell’art. 62 della Convenzione di che consentiva, in mancanza di una regola ad
hoc, l’applicazione della regola rebus sic stantibus; la CdV riconosce il diritto di recesso anche
quando vi sia il consenso di tutte le parti ovvero quando la facoltà di esercitarlo si ricava
implicitamente dei trattati.
Quanto alla procedura → ai sensi dell’art. 50 ogni Stato membro può decidere, conformemente
alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione, a tal fine notifica (non ha l’effetto di
sospendere l’applicazione del diritto europeo) tale intenzione al Consiglio europeo alla luce dei cui
orientamenti, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità
del recesso. L'accordo è negoziato conformemente all'art. 218 par. 3 TFUE con la differenza che lo
stato recedente non prenderà parte all’adozione della decisione in seno al consiglio. Esso è
concluso a nome dell'Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata (72% dei
membri del consiglio partecipanti e che rappresentino il 65% della popolazione di tali stati) previa
approvazione del Parlamento europeo. Non necessita della ratifica degli altri stati perché è un
accordo tra unione e stato recedente. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a
decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo,
due anni dopo la notifica della richiesta ( questa rappresenterebbe un’ipotesi traumatica perché
cessano di avere efficacia i trattati conclusi dallo stato recedente, ma non sono disciplinati i
rapporti tra lo stato recedente e l’UE), salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro
interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine. Se lo Stato che ha receduto
dall'Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui
all'articolo 49. Infine, il recesso non può essere parziale dunque riguardare un solo trattato,
riguarda tutti i trattati e comporta la perdita dello status di stato membro.

Prima del referendum del Regno Unito era difficilmente ipotizzabile che uno stato decidesse di
non far più parte dell’Unione, l’esito di questo referendum favorevole alla Brexit ha sollevato una
serie di questioni in merito all’esercizio di tale diritto:

• qual è l’organo nazionale competente a decidere se e quando procedere alla notifica? →


la Suprema Corte nel gennaio 2017 decise che il governo britannico non fosse
costituzionalmente legittimato ad attivare il recesso dall’Unione senza il preventivo voto
favorevole del parlamento.
• è possibile il ritiro della notifica di recesso? quali sono le modalità per farlo? quali sono le
conseguenze → sentenza C 621/18 della Corte di Giustizia (adita mediante il rinvio
pregiudiziale) → alla prima domanda la Corte risponde positivamente perché, osserva, che
appariva già chiaro dal testo del Trattato-Costituzione del 2004 che tanto il potere di
recedere (quindi presentare la notifica), quanto il potere di ritirare la notifica era ritenuto
come un principio espressivo della sovranità dello stato, quindi non si può pensare che nel
2004 si riconosce la sovranità allo Stato e poi nel 2007 con il Trattato di Lisbona si limita la
sovranità. Quanto alle modalità, si tratta di un atto unilaterale che non può essere
subordinato a parere unanime del Consiglio (proposta delle istituzioni che si costituirono
parti in causa) perché si subordinerebbe l’esercizio di una prerogativa dello Stato al parere
politico del Consiglio Europeo svilendo il principio di democrazia, libertà e sovranità.
Quanto alle conseguenze del ritiro della notifica della richiesta di recesso, non può
verificarsi che il ritorno alla situazione di partenza: cioè lo stato torna ad essere stato
membro dell’UE come era prima di presentare la notifica.

INTEGRAZIONE DIFFERENZIATA – COOPERAZIONI RAFFORZATE

Lo status di membro dell’Unione Europea comporta l’obbligo di applicare integralmente l’aquis


comunitario, i Trattati però contemplano vari casi di deroghe a questo obbligo: a tal proposito si
parla di Europa a geometria variabile. Tali deviazioni da un modello di integrazione uniforme si
possono racchiudere in due macro-categorie:

Forme di applicazione differenziata territoriale → l’art. 355 TFUE ne disciplina due tipologie: 1) la
normativa dell’unione (nella sua interezza o parzialmente) può non trovare applicazione in parti
del territorio metropolitano di taluni stati membri o in territori soggetti alla sovranità di uno stato
membro o ad essa riconducibili in base ad un particolare rapporto giuridico (es. isola di Man,
Normanna, Faer Oer); 2) è previsto un regime speciale per i territori che pur essendo parte
integrante di alcuni stati membri sono situati fuori dal continente europeo (Guadalupa, Azzorra
etc).

Forme di applicazione differenziata sostanziale → si fa innanzitutto riferimento, in questo caso,


alle clausole aperte cioè le disposizioni dei Trattati che abilitano qualsiasi stato membro a non
essere vincolato da norme o atti dell’Unione (art. 31 TUE in materia di PESC); poi ci sono deroghe
contenute nei Protocolli, si pensi al “Protocollo 30” che prevede la non applicabilità della Carta dei
diritti fondamentali alla Polonia ed al Regno Unito; infine altre deviazioni da un modello di
integrazione uniforme possono essere introdotte grazie al meccanismo delle cooperazioni
rafforzate → queste soddisfano l’esigenza di trovare, in seno al Consiglio, quale organo che riflette
gli interessi degli stati, quelle maggioranze necessarie per portare avanti il processo di unificazione
europea tra un numero ristretto di stati, qualora non ci sia un consenso generalizzato. Introdotte
dal Trattato di Amsterdam queste ultime consentono l’adozione di una normativa più avanzata
che vincola soltanto alcuni degli stati membri e che convive accanto alla normativa comune.
Queste, così come le altre forme di applicazione differenziata se da un lato rischiano di indebolire
il processo di integrazione europea, dall’altro, dato che si svolgono all’interno* dell’Unione e non
al suo esterno, consentendo di superare situazioni di blocco e di veti incrociati. *Tali forme di
cooperazione rafforzata, si svolgono all’interno del quadro dell’unione europea, non fuori
pertanto tutto ciò avviene in base alla previsione dei Trattati dell’ UE, si collocano all’interno dei
trattati stessi e sicuramente non possono essere messe sullo stesso piano di quelle che si
collocano all’esterno dei Trattati e che si realizzano mediante gli strumenti classici del diritto
internazionale, si pensi al Fiscal Compact che formalmente ha origine al di fuori del sistema
dell’Unione sebbene sia collegato ad esso.
Il meccanismo delle cooperazioni rafforzate è attualmente disciplinato dall’art. 20 TUE e dagli artt.
326-334 TFUE, l’iniziativa di instaurare una cooperazione deve essere presa da almeno 9 stati
membri ed il suo oggetto deve rientrare nei limiti delle competenze dell’Unione, ma non può
riguardare settori che rientrano nelle sue competenze esclusive in quanto è necessaria un’azione
comune che coinvolga tutti gli stati membri proprio in virtù dell’ oggetto che prevede un’
identificazione ben definita. La cooperazione deve rispettare non solo i Trattati ed il diritto
dell’Unione ma anche le competenze, i diritti e gli obblighi degli altri stati membri che non vi
partecipano. L’avvio di una cooperazione rafforzata ai sensi dell’art. 20 par. 2 TUE deve essere
autorizzata dal Consiglio a maggioranza qualificata sulla base di una proposta della Commissione
preparata su richiesta del gruppo di stati membri che intendano procedervi e previa approvazione
del Parlamento europeo. Se l’iniziativa riguarda i settori della PESC e della cooperazione giudiziaria
in materia penale, il consiglio delibera (per l’autorizzazione) all’unanimità sulla base dei pareri
rilasciati dall’Alto rappresentante e dalla Commissione. La decisione sull’autorizzazione deve
essere adottata dal Consiglio “in ultima istanza” cioè quando sia chiara l’impossibilità di realizzare
in tempi brevi un’iniziativa che coinvolga tutti gli stati membri. Spetta al Consiglio verificare in
concreto la sussistenza di questa condizione e tale verifica non è agevole, a tal proposito la Corte
di Giustizia ha affermato che una c.r. può essere legittimata non soltanto quando alcuni stati non
siano ancora pronti a partecipare ad un’azione, ma anche quando non si trovi un accordo sul
contenuto di tale azione.
Nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale c’è una particolarità: l’autorizzazione
per l’avvio di una c.r. si ritiene concessa de jure (deve essere concessa) nell’ipotesi in cui sia
attivato il c.d. “freno di emergenza”→ se uno stato membro reputa che un progetto di direttiva,
da adottare con la procedura legislativa ordinaria, incida sui suoi diritti fondamentali, esso può
richiedere l’intervento del Consiglio europeo chiedendo la sospensione della procedura legislativa
in questione; qualora si riscontri un disaccordo tra gli stati membri in seno al consiglio europeo,
almeno 9 stati possono informare il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione della
intenzione di instaurare una cooperazione rafforzata e adottare l’atto in questione.
Ad una c.r. può aderire qualsiasi stato membro sia al suo avvio sia successivamente e in tale ultimo
caso spetta alla Commissione verificare il rispetto delle condizioni ed adottare le misure transitorie
per l’applicazione degli atti già approvati nell’ambito della cooperazione rafforzata (nell’ambito
della PESC la verifica dell’adesione è devoluta direttamente al Consiglio in consultazione con l’alto
rappresentante).
Se autorizzata la c.r. deve seguire le procedure previste dai trattati cioè quelle contenute nelle
disposizioni che costituiscono la base giuridica della materia oggetto della cooperazione.
Gli atti adottati nel quadro di una c.r. vincolano soltanto gli stati partecipanti e sono esclusi
dall’aquis che deve accettare un nuovo stato che aderisca all’Unione.
Non rientra nella cooperazione rafforzata l’ EURO, sia perché parliamo di UNIONE MONETARIA ,la
quale, nei paesi che adottano l’euro rientra nell’ambito delle COMPETENZE ESCLUSIVE; sia perché
la posizione degli stati che non vi partecipano, fatta eccezione per Regno Unito e Danimarca, non è
il frutto di una scelta deliberata (si pensi alla mancata partecipazione di alcuni stati perché non
rispettano i criteri stabiliti a Maastricht).

Ci sono due ipotesi, disciplinate dai trattati, di c.r. che presentano delle particolarità rispetto alla
disciplina comune:
• la cooperazione strutturata permanente → è prevista dall’art. 42 par. 6 TUE in materia di
missioni che l’UE può effettuare in materia di sicurezza e difesa comune, la disciplina è
dettata dall’art. 46 TUE ai sensi del quale: “gli stati membri che rispondono a criteri più
elevati in termini di capacità militari e che abbiano sottoscritto impegni più vincolanti ai fini
delle missioni più impegnative, instaurano una c.r.” notificando la loro intensione al
Consiglio e all’Alto rappresentante; il Consiglio la istituisce entro 3 mesi dalla notifica con
maggioranza qualificata. A differenza della c.r. generale questa è reversibile in quanto è
previsto espressamente sia il recesso volontario, sia la sospensione della partecipazione di
uno stato membro che non sia più in possesso dei suddetti criteri; inoltre non è previsto un
numero minimo di partecipanti.
il Protocollo sull’acquis di Shengen→ (Protocollo 19) Si tratta di accordi internazionali che hanno
portato all’abolizione dei controlli alle frontiere interne e che poi sono stati convertiti nell’ambito
della comunità nei trattati europei.
Le applicazioni pratiche delle c.r. sono poche sia per la complessità della procedura sia per la
resistenza degli Stati membri non partecipanti all’introduzione di forme di integrazione non
differenziata. Un esempio pratico è l’adozione del regolamento in materia di legge applicabile al
divorzio/separazione legale.
Nel 2017 è stato presentato un LIBRO BIANCO dalla commissione europea che prefigura 5 possibili
scenari in riferimento all’evoluzione dello scenario dell’ UE, nella quale rientra anche quello di
valorizzazione del sistema delle cooperazioni rafforzate e delle forme di integrazione differenziali,
per favorire il processo di integrazione europea→ Ciò è stato subito realizzato poiché si è eseguita
la prima cooperazione in materia di difesa, inoltre si è istituita la procura europea il cui compito è
quello di indagare e perseguire gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE.

CAPITOLO II: LA RIPARTIZIONE DI COMPETENZE TRA UNIONE E STATI MEMBRI


IL PRINCIPIO DELLE COMPETENZE DI ATTRIBUZIONE
Il riparto di competenze tra Unione e stati membri è disciplinato dal principio delle competenze di
attribuzione. Il principio emerge innanzitutto dall’art. 5 comma 2 TUE → “In virtù del p. di
attribuzione, l’Unione agisce nei limiti delle competenze che le sono attribuite nei trattati per la
realizzazione degli obiettivi da questi stabiliti”. Esso è poi ripreso nella Carta dei diritti
fondamentali la quale stabilisce che le sue disposizioni non estendono le competenze dell’Unione
definite nei trattati. Infine, nella Dichiarazione 18 allegata al T. di Lisbona si evince che qualsiasi
competenza non attribuita all’Unione nei Trattati, appartiene agli stati membri.
I trattati designano gli obiettivi che l’Unione deve perseguire, indicano i compiti che essa deve
assolvere e le azioni che può intraprendere per perseguire tali fini, ma all’enunciazione di detti fini
non corrisponde un’attribuzione automatica di competenze necessarie alla loro realizzazione,
pertanto le competenze sono rimesse all’Unione solo nella misura in cui i trattati conferiscono
poteri di intervento alle istituzioni. Si tratta dunque di competenze derivate che possono investire
un intero settore o solo dei profili dello stesso. Il principio in questione opera come norma di
rinvio simultaneo a tutte le competenze che i Trattati attribuiscono all’Unione e tra queste
competenze vanno annoverate sia quelle richiamate espressamente dai Trattati, sia quelle cui è
fatto implicito rinvio→ a tal proposito va fatto riferimento:
1. alle tecniche di interpretazione giurisprudenziale che servono ad ampliare i poteri di
azione delle istituzioni in settori già attribuiti all’Unione.
2. la clausola di flessibilità che invece comporta l’estensione delle competenze dell’Unione in
materie non formalmente attribuite alla stessa.
LE TECNICHE INTERPRETATIVE UTILIZZATE DALLA CORTE DI GIUSTIZIA
Quanto alle tecniche di interpretazione utilizzate dalla Corte di Giustizia bisogna parlare
innanzitutto della DOTTRINA DEI “POTERI IMPLICITI” → elaborata dalla Corte Suprema degli Stati
Uniti e poi ripresa dalla Corte internazionale di Giustizia. Secondo questa teoria se l’esercizio di
un’azione è necessario alla realizzazione degli obiettivi previsti, anche qualora un determinato
potere (per compiere questa azione) non sia esplicitamente attribuito all’ UE, ciò non significa che
l’esercizio dei poteri dell’UE possa essere limitato in tale ambito se questa limitazione pregiudica le
finalità dell’Unione. Bisogna dunque attribuire quei poteri, anche impliciti, che risultino
indispensabili per far svolgere alle istituzioni dell’UE i compiti per realizzare le finalità. Ciò significa
che quando un articolo dei Trattati affida ad un’istituzione un compito preciso si deve ammettere,
affinché non si privi la disposizione di qualsiasi efficacia pratica, che esso le attribuisca anche tutti i
poteri indispensabili per svolgere tale compito anche se non espressamente previsti.

Un’altra tecnica di interpretazione giurisprudenziale è quella dell’interpretazione funzionale o


anche conosciuta come principio dell’effetto utile secondo la quale bisogna interpretare la norma
in modo utile in base alle finalità del trattato, attribuendole un significato dinamico ed evolutivo
che ne estende la portata.

Un esempio dell’applicazione, da parte della Corte di Giustizia, delle tecniche interpretative


ampliative dei poteri di azione (o anche dette estensive), è rappresentato dalle sentenze AETS e
KRAMER. Il trattato CE attribuiva alla comunità la competenza esclusiva o concorrente, a seconda
dei casi, a concludere accordi internazionali nelle ipotesi espressamente indicate, ma con queste
due sentenze la Corte ha significativamente ampliato la competenza della comunità a concludere
accordi spingendola al di là delle ipotesi espressamente indicate, e ha formulato in tal modo il
principio del parallelismo delle competenze interne ed esterne (positivizzato ormai nell’art. 216
TFUE) secondo cui tutte le volte che per realizzare una politica comune (interna) prevista dal
trattato, l’Unione adotta disposizioni normative comuni (interne), la sua competenza a concludere
accordi internazionali nel medesimo settore diviene esclusiva, dunque gli stati membri non
possono assumere obblighi internazionali nelle stesse materie perchè ciò pregiudicherebbe la
disciplina comunitaria. Quindi non era necessario che la competenza a stipulare risultasse solo
dalle norme dei trattati, poteva risultare anche da altre disposizioni del trattato, dagli atti adottati
in forza di queste disposizioni (diritto derivato) o dai poteri impliciti dell’Unione. Questo è il
contenuto della sentenza AETS “sull’accordo europeo dei trasporti su strada” che, riconoscendo
alla comunità la competenza esclusiva a concludere accordi internazionali e precludendo agli stati
di concludere accordi nelle stesse materie con paesi terzi.
Poi, con la sentenza Kramer, la Corte ha precisato la sua posizione su tale principio, affermando
che per stabilire la competenza della comunità (a concludere accordi internazionali) sia sufficiente
il solo fatto che il diritto comunitario attribuisca poteri normativi sul piano interno, alle istituzioni,
il cui esercizio può dunque avvenire anche solo per la stipula dell’accordo internazionale prima
ancora quindi che siano state adottate norme comuni (a differenza di quanto invece prevedeva la
sentenza AETS) nella misura in cui la sua partecipazione alla stipula dell’accordo è necessaria per
la realizzare uno degli obiettivi della comunità. Anche se in una recente precisazione la corte ha
però stabilito che la possibilità di concludere accordi internazionali prima che la comunità abbia
esercitato la sua potestà normativa interna è ammissibile solo nell’ipotesi in cui la competenza
interna possa essere esercitata contemporaneamente a quella esterna, non potendo altrimenti
essere realizzati gli obiettivi del trattato.

LA CLAUSOLA DI FLESSIBILITA’
Si tratta di uno strumento normativo disciplinato dall’art. 352 TFUE che consente l’estensione
delle competenze dell’Unione; tuttavia non va inteso tanto come uno strumento che consente un
ampliamento delle competenze in senso formale, quanto piuttosto una base giuridica che
consente l’esercizio di poteri per la realizzazione di un’azione in materie non formalmente
attribuite alle competenze dell’Unione.
Essa consente di attenuare le rigidità che discendono dal principio delle competenze di
attribuzione, dunque quando un’azione appare necessaria per realizzare gli obiettivi dei trattati,
senza che i trattati abbiano previsto i poteri per realizzare questi obiettivi, in virtù di questa
clausola si può esercitare, adottando atti di diritto dell’Unione Europea (Regolamenti, direttive
decisioni), misure di carattere legislativo ovvero atti di portata generale.
Il ricorso a tale clausola ha sollevato inizialmente numerose critiche perché si riteneva che
aggirasse la formale procedura di revisione dei Trattati pregiudicando dunque la sovranità statale
nonché l’esigenza di democraticità del processo di integrazione europea. L’iniziale scetticismo è
stato poi superato grazie alle garanzie offerte dalla procedura per l’utilizzo della clausola (quali il
coinvolgimento di tutte le istituzioni e l’unanimità in senso Consiglio) e grazie alla previsione di
alcune condizioni di operatività della stessa come base giuridica di un atto, quali:
• nessun’altra disposizione dei Trattati deve attribuire alle istituzioni la competenza per
l’emanazione dell’atto stesso.
• l’atto non può violare i principi generali e in particolare il p. di attribuzione delle
competenze, di sussidiarietà, di proporzionalità. La clausola non può essere dunque
utilizzata per ampliare la sfera dei poteri al di là dell’ambito generale risultante dal
complesso delle disposizioni dei Trattati, soprattutto da quelle che definiscono i compiti e
le azioni dell’Unione, perché altrimenti si verificherebbe la modifica dei trattati al di fuori
della procedura per ciò prevista.
• non può alterare il riparto di competenze tra Unione e stati membri nel senso che non può
consentire che una competenza concorrente o complementare divenga esclusiva
dell’Unione.
• l’azione dell’Unione non dovrà essere solo proporzionata, ma risultare anche necessaria
nel quadro delle politiche stabilite nei trattati per realizzarne uno degli obiettivi
prospettati, spetterà al consiglio valutare la necessità dell’azione e a tal riguardo gode di
un’ampia discrezionalità.
• non può essere utilizzata per alterare l’identità dell’unione devono essere dunque
rispettati i principi che regolano la struttura istituzionale ed i rapporti interistituzionali.7
• il ricorso alla clausola deve essere compatibile con i principi generali dell’ordinamento che
includono i diritti e le libertà sanciti nella Carta dei diritti fondamentali e nella CEDU,
nonché con i principi enucleati dalla Corte di Giustizia (legittimo affidamento, certezza del
diritto ecc).
• non può essere utilizzata se i trattati escludono l’armonizzazione per un determinato
settore, perché la volontà degli stati è stata quella di intervenire non in maniera forte in
quel settore o ambito.
• non può essere utilizzata per disciplinare aspetti della politica estera e di sicurezza comune,
a dimostrazione che questo costituisce un settore particolare, sui generis, che presenta
delle discontinuità rispetto agli altri settori ed alle altre politiche.
Quanto alla procedura il Consiglio deve deliberare all’unanimità su una proposta della
Commissione preventivamente approvata dal Parlamento europeo (che dispone in questo caso di
un vero e proprio potere di veto). L’unanimità garantisce sì gli interessi dei governi nazionali, ma
anche l’efficacia dei risultati in quanto l’accordo di tutti gli stati membri su una determinata azione
assicura la sua concreta realizzazione. Nelle ipotesi in cui l’azione riguardi una materia di
competenza concorrente nella procedura svolgono un ruolo di controllo i Parlamenti nazionali.
A partire dal Vertice dei Capi di Stato tenutosi a Parigi nel’72, nel quale si decise di utilizzare in
maniera più ampia possibile tutte le disposizioni dei Trattati (compreso dunque quello che oggi è il
352 prima 252 TFUE), il ricorso alla norma in questione è divenuto molto più frequente ed ha fatto
si che si registrassero progressi importanti. La clausola ha permesso sia di ampliare le competenze
materiali sia ad introdurre strumenti nuovi all’interno di una competenza materiale già esistente.
Nel primo caso, si pensi alla politica dell’ambiente, a quella di protezione dei consumatori ecc che
sono state introdotte nei Trattati in occasione delle successive revisioni ricevendo così una base
giuridica specifica. Nel secondo caso si pensi ad esempio agli strumenti necessari per il
funzionamento del mercato unico ad es. il marchio comunitario, il diritto di un cittadino a restare
sul territorio di un altro stato membro dopo avervi svolto un’attività non salariata ecc.

N.B. La clausola di flessibilità consente che l’UE abbia potere di azione in relazione all’esercizio di
una competenza, laddove il trattato non disciplini appunto la competenza→ l’utilizzo di questa
clausola ha consentito dunque l’estensione delle competenze dell’ue in materie non formalmente
attribuite, tuttavia non bisogna pensare ad un ampliamento di competenze in senso formale
quanto alla previsione di un potere di intervenire per realizzare l’azione. Quindi l’UE interviene con
competenze che potremmo dire “sussidiarie” rispetto ad un determinato settore, nel rispetto
ovviamente di varie condizioni.
La teoria dei poteri impliciti è anch’essa uno “strumento” finalizzato all’attenuazione del principio
di attribuzione delle competenze, ma a differenza della clausola di flessibilità è di creazione
giurisprudenziale→ differenza sostanziale è che la teoria dei poteri impliciti presuppone che il
trattato disciplini una competenza in un determinato settore per l’esercizio di una determinate
azione, ma non espressamente il potere per realizzarla → dunque in virtù di questa teoria si evince
che i poteri di intervento dell’Unione non sono necessariamente circoscritti a quelli espressamente
sanciti nei trattati: le istituzioni europee devono poter beneficiare anche di quei poteri che
sebbene non codificati risultino indispensabili per l’esercizio delle competenze attribuite.
Nel caso dei poteri impliciti è la giurisprudenza che desume attraverso tecniche interpretative ciò
che implicitamente già c’è nei trattati, mentre per la clausola di flessibilità interviene il legislatore
dell’Unione all’unanimità. La corte di giustizia deve, attraverso la teoria dei poteri impliciti
ricavare un determinato potere implicitamente da quanto già previsto dal trattato; mentre la
clausola di flessibilità dovrebbe rappresentare un passo ulteriore che prevede un intervento
legislativo.

LE CATEGORIE DI COMPETENZE. LE COMPETENZE ESCLUSIVE


Gli originari Trattati istitutivi non avevano previsto in modo espresso una ripartizione di
competenze tra Comunità e stati membri, erano pertanto le norme materiali ad indicare se nel
settore da esse disciplinato la comunità godeva di una competenza esclusiva o concorrente. Con il
T. di Lisbona invece il Titolo I della Parte I del TFUE è dedicato espressamente a “categorie e settori
di competenza dell’Unione”. Le competenze si distinguono in:
• esclusive→ presuppongono un trasferimento completo dell’originaria competenza statale
in capo all’Unione.
• concorrenti→ in tali materie c’è contitolarità di competenza il cui es. è regolato dai
principi di sussidiarietà e proporzionalità.
• complementari → in tali materie l’Unione affianca gli stati attraverso diverse forme di
intervento.
Le materie di competenza esclusiva sono tassativamente indicate all’art. 3 TFUE → unione
doganale; definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno
(mentre alle competenze concorrenti appartiene la disciplina delle libertà fondamentali del
mercato unico); politica monetaria per gli stati aderenti alla moneta unica; conservazione delle
risorse biologiche del mare (la politica della pesca → competenze concorrenti); politica
commerciale e comune; conclusione di accordi internazionali contemplati in un atto legislativo
dell’unione , necessari per esercitare le competenze interne o in grado di incidere su norme
comuni modificandone la portata (art. 3 par. 2). L’elenco non potrà essere ampliato in via
interpretativa ma soltanto attraverso la procedura ordinaria di revisione dei Trattati.
Nell’ambito delle competenze esclusive, c’è una competenza forte da parte dell’UE ed una più
debole da parte degli stati membri, l’esclusività non ammette alcuna azione degli stati, tranne in
alcune ipotesi espressamente contemplate, perché è l’Unione che deve legiferare e adottare atti
giuridicamente vincolanti (art. 2 par. 1 TUE), mentre gli stati membri possono farlo solo se
autorizzati dall’Unione (si pensi all’ipotesi in cui la regolamentazione dell’Unione dovesse risultare
lacunosa→gli stati membri possono chiedere l’autorizzazione ad adottare atti legislativi) oppure
quando si tratta di dare attuazione agli atti dell’Unione (es. recepimento direttiva UE) e sempre
previa autorizzazione possono mantenere una normativa preesistente se questa non risulti
incompatibile con quella europea, viceversa interventi statali non autorizzati determineranno
un’infrazione.
Infine, nelle materie di competenza esclusiva la necessità dell’azione dell’UE è presunta dunque le
istituzioni non sono tenute a dimostrare che un determinato atto sia indispensabile per il
perseguimento di determinati obiettivi.

LE COMPETENZE CONCORRENTI E IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’


L’art. 4 par. 2 TFUE enumera le principali materie di competenza concorrente (mercato interno,
politica sociale, coesione economica e territoriale, ambiente, protezione dei consumatori etc).
Questo elenco è esemplificativo e non tassativo dunque è suscettibile di essere integrato o
modificato alla luce di nuove esigenze→ ciò significa che è possibile trasferire ulteriori materie
all’Unione, ma soltanto se in capo alle istituzioni nazionali sia conservata una pari competenza
secondo un modello di “cogestione”. Le materie di competenza concorrente possono essere
oggetto di attività legislativa tanto da parte dell’Unione quanto da parte degli stati.
L’esercizio delle competenze concorrenti da parte dell’unione è ancorato a due principi:
sussidiarietà e proporzionalità. Il principio di sussidiarietà comporta che laddove sussista una
divisione di poteri tra un livello superiore e un livello inferiore le decisioni devono essere prese il
più vicino possibile ai cittadini, ciò implica la limitazione del potere di decisione del livello più
elevato. Il p. di sussidiarietà trova esplicito riconoscimento con l’AUE nell’ambito della politica
ambientale che poi è divenuta il modello cui si sono ispirate le relazioni tra l’Unione e gli stati
membri in altri settori. Attualmente esso è disciplinato dall’art. 5 par.3 TUE e dall’art. 2 par.2
TFUE, in termini negativi in quanto è vincolato al verificarsi di una duplice condizione cioè che
l’azione dell’Unione sia più adeguata di quella statale (regionale o locale) e che gli obiettivi non
possano essere sufficientemente realizzati dagli stati membri. Le due condizioni devono
necessariamente cumularsi, non è sufficiente infatti che l’azione dell’Ue sia più idonea ma occorre
soprattutto dimostrare che sia indispensabile al conseguimento dello scopo in questione che non
potrebbe essere raggiunto in modo sufficiente dallo stato membro.
In forza di tale principio l’es. di una competenza concorrente da parte dell’Ue non ha per
conseguenza automatica l’acquisto dell’esclusività dell’es. della stessa; implica invece che tale
competenza, in presenza delle condizioni suddette, possa essere legittimamente esercitata nei
limiti insiti nell’obiettivo fissato.
L’es. della competenza concorrente può riguardare anche solo taluni aspetti (limitandosi a quelli
per i quali l’azione europea è indispensabile) e la sciando agli stati membri la titolarità dei poteri
residui.
Solo l’effettivo esercizio della competenza da parte dell’ue limita o priva gli stati membri del
corrispondete potere legislativo; al contrario l’abrogazione dell’atto di es. di tale competenza ha
come conseguenza il riacquisto da parte delle autorità nazionali del relativo potere.

Quello di sussidiarietà è espressione del più generale principio di prossimità il quale comporta che
le decisioni siano prese il più vicino ai cittadini, è sancito dagli artt. 1 e 10 TUE e in entrambe le
disposizioni si esplica come corollario da un lato del principio di trasparenza, dall’altro della
partecipazione democratica alla vita dell’Unione; esso richiede la partecipazione attiva dei cittadini
nell’adozione delle decisioni da parte delle istituzioni che si concretizza, ad es., nelle consultazioni
che la Commissione svolge prima della presentazione delle proposte degli atti legislativi. Dunque,
a differenza del p. di sussidiarietà che consente di individuare l’autorità che meglio consente l’es.
della competenza concorrente, il p. di prossimità garantisce che siano sempre predisposti
meccanismi di partecipazione dei cittadini all’iter legislativo.

La disciplina relativa al rispetto ed al funzionamento del principio è contenuta nel Protocollo n°2
che individua precisi requisiti motivazionali di qualsiasi proposta di atto legislativo con riguardo
alla sussidiarietà consentendo un controllo ex ante (fase di formazione dell’atto) ed ex post
(quando l’atto è già stato adottato) → procedimentalizzazione del p. di sussidiarietà.
Quanto al controllo ex ante è la Commissione che per prima deve constatare il rispetto del
principio in questione perché avendo quasi un monopolio dell’iniziativa legislativa, il procedimento
normativo parte da essa; dunque è tenuta ad effettuare consultazioni prima di presentare la
proposta, verificare la necessità dell’intervento dell’unione dovrebbe redigere una scheda allegata
alla proposta legislativa nella quale inserisce gli indicatori che testimoniano l’opportunità
dell’intervento delle istituzioni europee. La Commissione è dunque tenuta a svolgere una
valutazione comparativa tra la capacità dello stato a perseguire anche solo in modo sufficiente
l’obiettivo dell’unione e quella dell’UE che se risulta migliore legittima il suo intervento.
L’art. 6 del Protocollo disciplina la PROCEDURA DI ALLARME PREVENTIVO (di controllo ex ante)→
la Commissione (ovvero il Consiglio per i casi in cui sono altri soggetti i titolari dell’iniziativa
legislativa) è tenuta a trasmettere ogni proposta legislativa ai parlamenti nazionali, consentendo
loro di formulare un parere motivato nel quale esporre le ragioni per le quali si ritiene che essi non
siano conformi al principio in esame. Ogni parlamento nazionale (nonché ogni camera dei
parlamenti nazionali) può presentare ai presidenti del parlamento europeo, della commissione e
del consiglio, entro 8 settimane, un parere motivato in cui dovrà motivare le ragioni per cui ritiene
che la proposta non è conforme al p. di sussidiarietà. Tale meccanismo produce effetti giuridici
solo se vengono raggiunte determinate soglie: considerato che ad ogni parlamento sono assegnati
due voti (nei sistemi bicamerali a ciascuna camera un voto), la prima soglia “del cartellino giallo” è
raggiunta con ¼ dei voti esprimibili dai parlamenti nazionali per gli atti relativi allo spazio di libertà,
sicurezza e giustizia; 1/3 per gli atti relativi alle altre materie. Se viene raggiunta una di queste due
soglie la commissione è tenuta a riesaminare la proposta e può decidere di modificarla, ritirarla
oppure mantenerla, ma in tale ultimo caso dovrà motivare perché la ritiene conforme al principio
di sussidiarietà. Qualora invece, nell’ambito di una procedura legislativa ordinaria, la maggioranza
semplice dei parlamenti nazionali sia contraria alla proposta, questa torna alla commissione che
deve riesaminarla e se decide di mantenerla la questione è rinviata agli organi legislativi e se il
consiglio a maggioranza del 55% dei suoi membri o il parlamento europeo a maggioranza dei suoi
voti ritengano la proposta contraria al principio in questione, la commissione deve abbandonarla
(cartellino arancione).

Quanto al controllo ex post (che prevede un coinvolgimento sempre maggiore dei parlamenti
nazionali) la Corte di giustizia può essere investita di un ricorso di annullamento contro un atto
legislativo per violazione del principio di sussidiarietà, il ricorso può essere promosso da uno stato
membro o, per il tramite di quest’ultimo, da un Parlamento nazionale o addirittura da una camera
di quest’ultimo → novità rispetto al passato che solleva qualche perplessità in quanto potrebbero
esserci divergenze di vedute ad esempio tra le due camere ed il conseguente il rischio che vengano
proiettate dinanzi alla Corte di Giustizia. Inoltre i parlamenti nazionali impugnando un atto per la
violazione di tale principio condizionano i governi nazionali essendo questi ultimi, espressione dei
parlamenti. Dunque, il rischio è quello della sovrapposizione dei parlamenti nazionali ad altre
istituzioni, ma si è comunque deciso di rafforzare il ruolo degli stessi. Nell’ottica della
democratizzazione europea si poteva pensare di potenziare il ruolo del parlamento europeo dato
che quest’ultimo non prevede una suddivisione per appartenenza di stato e di conseguenza e è più
semplice che vengano portata avanti battaglie sulla base di determinati principi e valori, mentre
quando queste battaglie sono portate avanti dai parlamenti nazionali ci può essere il rischio che
vengano difesi esclusivamente gli interessi nazionali, che sono importanti ma che possono porsi in
contrasto con gli interessi della UE. Però il sistema, con queste novità, è positivo in quanto si tratta
di tutta una serie di elementi importanti per rafforzare il principio di sussidiarietà e per dare una
risposta al problema del deficit democratico.
Anche il comitato delle regioni può fare ricorso per denunciare la violazione del p. di sussidiarietà,
qualora tale violazione sia dovuta ad atti legislativi sui quali è richiesta la sua consultazione.
IL PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’
E’ disciplinato dall’art. 5par. 4 TUE in virtù del quale: “il contenuto e la forma dell’azione
dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati”. Tale
principio impone di graduare (sia nell’es. delle competenze concorrenti che esclusive) i mezzi
prescelti per l’es. dell’azione in relazione alle caratteristiche dell’obiettivo di volta in volta
perseguito. Esso impone che l’es. di una determinata competenza risponda a tre requisiti:
1. deve essere utile e pertinente per la realizzazione dell’obiettivo.
2. necessario ed indispensabile cioè qualora per il raggiungimento dello scopo possano
essere impiegati vari mezzi, la competenza sarà esercitata in modo da recare meno
pregiudizio ad altri obiettivi di eguale protezione.
3. deve esserci un nesso causale tra l’azione e l’obiettivo.
Il principio in questione dunque identifica una simmetria tra misure da adottare e scopi da
perseguire al fine di evitare interventi dell’Unione eccessivi, inutili o dannosi. In ossequio a questo
principio, le istituzioni dovranno determinare, all’interno di un ampio ventaglio, l’atto che va
concretamente adottato. Per le materie di competenza esclusiva l’unione ha maggiore libertà di
scelta, mentre in quelle di competenza concorrente deve comunque rispettare le competenze
nazionali che subiscono una contrazione a seguito del suo intervento. Se gli stati risultano inidonei
o impossibilitati a perseguire l’obiettivo l’unione può imporre la sua azione senza alcun limite,
nonostante ciò si auspica che l’unione intervenga adottando direttive che lasciano un maggiore
spazio agli stati membri. Il controllo di questo principio è affidato alla Corte di giustizia secondo la
quale è la manifesta inidoneità della misura rispetto allo scopo da perseguire può inficiare la
legittimità della misura in esame.

COMPETENZE COMPLEMENTARI
Accanto a queste competenze principali c’è una terza categoria di competenze caratterizzate da
un intervento dell’Unione Europea più debole rispetto a quello che si realizza nell’ambito sia delle
competenze esclusive che di quelle concorrenti; l’intervento dell’Unione Europea si configura
spesso come un semplice coordinamento delle azioni degli stati membri ed è graduato rispetto
alle esigenze nazionali. Più precisamente, gli stati hanno in via primaria ed esclusiva il potere di
disciplinare il settore, mentre l’unione può essere soltanto chiamata a svolgere un’azione
integrativa e se l’esercizio di tali competenze comporta l’adozione di un atto vincolante, è regolato
dal principio di sussidiarietà. Quanto alle categorie di competenze complementari possiamo
distinguerne tre.
Innanzitutto, l’art. 4 TFUE prevede le competenze che sono dirette a porre in essere delle azioni di
definizione e di attuazione dei programmi relativi ai settori della ricerca, dello sviluppo
tecnologico e dello spazio, nonché ai settori della cooperazione allo sviluppo e all’aiuto
umanitario, tuttavia non possono tali competenze impedire agli stati membri di esercitare la loro
competenza. Sebbene questi settori siano ricompresi nel suddetto articolo, dedicato alle materie
di competenza concorrente, prevedono un intervento dell’Unione residuale rispetto a quello degli
stati membri ai quali compete gestire effettivamente tali politiche. Le istituzioni europee possono
elaborare programmi e fissare orientamenti generali, nonché elaborare “politiche comuni” ma
senza ostacolare gli stati nell’esercizio della loro competenza.
L’art. 5 TFUE prevede la seconda sottocategoria che è costituita dalle azioni di coordinamento
che si realizzano soprattutto nell’ambito della politica economica e delle politiche occupazionali e
sociali degli stati membri. In questi settori l’UE deve limitarsi a dettare linee guida attraverso cui
definisce interessi comuni (o quanto meno convergenti) che gli stati poi devono tenere conto
nell’elaborazione delle relative politiche. Un discorso leggermente diverso va fatto per le politiche
economiche rispetto alle quali si registra un’anomalia perché per le politiche monetarie, in
relazione agli stati che hanno adottato l’euro, è prevista una competenza esclusiva, mentre per
quanto riguarda le politiche economiche è prevista una mera competenza di coordinamento e
questo è singolare perché poi è inevitabile che entrambe siano strettamente connesse tra di loro.
Tuttavia, per la politica economica le competenze dell’Unione si sono progressivamente rafforzate
con una serie di iniziative quali ad esempio il Fiscal Compact ed altre che hanno realizzato una vera
e propria governance comune dell’economia europea e che si collegano ai trattati dell’Unione
anche se formalmente nascono al di fuori del sistema della stessa finendo così per rafforzare il suo
ruolo, attenuando di conseguenza le differenze tra politica monetaria e politica economica.
L’art. 6 TFUE prende in considerazione la terza sottocategoria nella quale sono comprese le azioni
volte a sostenere, coordinare, completare l’azione degli stati membri in materia di tutela della
salute umana, industria, cultura, istruzione, protezione civile ecc. In questi campi, come precisa
l’art. 2 par. 5 TFUE l’unione non può sostituirsi alla competenza degli stati membri nei settori in
questione e gli atti giuridici vincolanti adottati dalla stessa in questi ambiti non possono mai
comportare un’armonizzazione delle normative nazionali. Quindi questo ci dimostra un ulteriore
indice del fatto che in questo ambito appunto che la competenza dell’unione è sostanzialmente
residuale (integrativa) rispetto a quella degli stati membri. Non di rado in questi settori l’Unione
interviene sostenendo le azioni statali attraverso il cofinanziamento di specifici programmi.

LE COMPETENZE IN MATERIA DI PESC E PSDC


Possono farsi rientrare in una quarta categoria di competenza, la competenza in materia di
politica estera e di sicurezza comune e la politica di sicurezza e difesa comune. E’ difficile definire
l’esatta qualificazione di questa competenza, i suoi confini non sono ben definiti e spesso tendono
a confondersi con quelli relativi all’estrinsecazione di competenze dell’Unione sul piano esterno,
ma un ruolo predominante comunque continua ad essere assegnato agli stati membri in quanto è
stabilito in due Dichiarazioni che le competenze dell’Unione in materia di PESC lasciano
impregiudicate le competenze degli stati membri per la formulazione e la conduzione della loro
politica estera, la loro rappresentanza nelle organizzazioni internazionali e la loro responsabilità.
Per tali ragioni, i protagonisti di questo settore rimangono gli stati o comunque le istituzioni
europee che maggiormente rappresentano gli interessi degli stati quindi Consiglio Europeo,
Consiglio.
Ai sensi dell’art. 24 TUE il Consiglio dell'Unione prende le decisioni necessarie per l'attuazione
della PESC in base agli orientamenti strategici definiti dal Consiglio europeo che assumono valore
vincolante per lo stesso Consiglio: a tal fine adotta (all’unanimità) decisioni che definiscono gli
obiettivi, la portata e i mezzi di cui l'Unione deve disporre e sono vincolanti per gli stati membri
nella conduzione della loro azione, conformando così le loro politiche nazionali alle posizioni
dell'Unione; l’attuazione è affidata alla guida strategica e politica dell’Alto rappresentante. Le
astensioni non impediscono l'adozione di tali decisioni ma consentono allo stato astenutosi di
sottrarsi all'applicazione di una decisione con una dichiarazione motivata, ciò nell'intento di
alleggerire la regola dell’unanimità pur senza rinunciarvi (meccanismo dell’astensione
costruttiva). Se però gli stati membri che motivano la loro astensione rappresentano almeno un
terzo degli stati membri che totalizzano almeno un terzo della popolazione dell'Unione, la
decisione non è adottata. Il Parlamento europeo è solo consultato sulle scelte e informato
sull'evoluzione di tali politiche dall'Alto rappresentante e la Commissione può soltanto sottoporre
al Consiglio questioni o presentare proposte. La Corte di giustizia infine non ha alcuna competenza
in questa materia salvo quella di controllare il rispetto delle attribuzioni delle istituzioni previste
dai trattati tra politiche materiali e PESC e la legittimità delle decisioni che prevedono misure
restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche adottate dal Consiglio.
Sebbene faccia parte integrante della PESC, la politica di sicurezza e di difesa comune, la quale è
rivolta ad assicurare che l'Unione possa disporre di una capacità operativa ricorrendo a mezzi civili
e militari di cui può avvalersi per svolgere missioni al fine di garantire il mantenimento della pace e
la prevenzione dei conflitti, prevede una forma peculiare di integrazione: la cooperazione
rafforzata strutturata permanente che è affidata ad un numero più ristretto di stati. Le forze
operative, per ora, sono fornite dagli stati membri ma è previsto il passaggio ad una politica di
difesa comune per dotare l’unione di una struttura operativa autonoma composta da forze e
strutture realmente integrate. Allo stato attuala la PSDC resta una politica di carattere
marcatamente intergovernativo sia per il ruolo affidato alle istituzioni (lo stesso della PESC con
l’esclusione totale della competenza della Corte di giustizia) sia perché sono gli stati a fornire i
mezzi operativi per l’attuazione di tale politica.

IL PRINCIPIO DI LEALE COOPERAZIONE


I rapporti tra Unione e stati membri nell’esercizio delle loro competenze sono improntati al
PRINCIPIO DI LEALE COOPERAZIONE (art. 4 paragrafo 3 TUE) ai sensi del quale l’Unione Europea e
tutti gli stati membri (a tutti i livelli) devono cooperare lealmente per assicurare gli obiettivi
previsti dai trattati. Alcuni assimilano tale principio all’obbligo di diritto internazionale “pacta sunt
servanda” che impone alle parti contraenti di rispettare gli impegni assunti con i trattati, ma in
realtà è qualcosa di più rispetto a ciò → è un principio fondamentale dell’Unione Europea che
vincola, nell’esercizio delle proprie competenze, l’Unione Europea e gli stati membri al rispetto
della solidarietà e della buona fede e lealtà per il raggiungimento degli obiettivi ed ha un’efficacia
ampia/generalizzata che si estende a tutti i soggetti.
La corte di giustizia ha fatto derivare da questo principio un obbligo generale di cooperazione il
cui contenuto dipende di volta in volta dalle disposizioni del trattato che vengono in rilievo,
obbligo che innanzitutto grava sugli stati membri nei confronti delle istituzioni dell’Unione
Europea, i quali devono cooperare nei confronti dei suoi organi per garantire le sue finalità e
astenersi dai comportamenti che possano pregiudicarne il raggiungimento. Si tratta, in questo
caso, di un obbligo di carattere verticale di carattere ascendente degli stati nei confronti delle
istituzioni dell’Unione Europea (es. attuazione direttive → lo stato può decidere di recepire la
direttiva anche l’ultimo giorno, quindi nella data prevista dalla stessa direttiva per il suo
recepimento, tuttavia in questo lasso di tempo che intercorre tra l’approvazione della direttiva e il
termine di recepimento c’è un obbligo di astensione della buona fede che deriva proprio dal
principio di leale cooperazione che consiste nel fatto che lo stato deve astenersi dall’adottare degli
atti che siano in contrasto con il risultato voluto dalla direttiva).
Ma anche le istituzioni dell’Unione Europea hanno un obbligo di leale cooperazione con gli stati
membri e tutte le loro articolazioni, e in questo caso si tratta di un obbligo verticale di carattere
discendente di leale cooperazione (es. il giudice nazionale affronta una questione che coinvolge il
diritto dell’Unione Europea e necessita di alcuni dati che sono ad esempio in possesso della
Commissione Europea che può avere avviato un procedimento di infrazione; salvo che non
ricorrano motivi eccezionali di riservatezza, la Commissione è tenuta a trasmettere documenti,
informazioni ai giudici nazionali proprio in forza del principio di leale cooperazione).
Questo principio ha anche un’efficacia di carattere orizzontale tra gli stati membri o tra le
istituzioni che devono collaborare per l’attuazione del diritto dell’Unione Europea; e infine si
esplica anche sotto un profilo trasversale nei rapporti tra istituzioni ed autorità collocate a diversi
livelli (si pensi a quelle amministrative o giurisdizionali) per la realizzazione delle politiche di
integrazione.

CAPITOLO III: LA STRUTTURA ISTITUZIONALE

LE ISTITUZIONI DELL’UNIONE
Nel corso degli anni il quadro istituzionale dell’Unione ed il suo equilibrio sono profondamente
cambiati, passando dall’iniziale duopolio della commissione e del consiglio al pieno coinvolgimento
anche del parlamento europeo che ha consentito di far fronte al deficit democratico di cui soffriva
l’Unione. Si tratta di un sistema istituzionale che non riscontriamo in alcuna organizzazione
internazionale e statale in quanto riflette le caratteristiche sui generis dell’Unione→ per
descriverlo si utilizza l’espressione “triangolo istituzionale” dato il ruolo fondamentale esercitato
dalle tre istituzioni nel processo legislativo e decisionale dell’Unione che consiste nel (quasi)
monopolio della proposta in favore della commissione (che rappresenta gli interessi dell’Unione) e
nella sua approvazione da parte del consiglio (che rappresenta gli interessi degli stati membri) e
del parlamento europeo (che rappresenta gli interessi dei cittadini europei) che partecipa in
misura differente a seconda della procedura legislativa utilizzata. In realtà sarebbe più corretto
parla di un quadrilatero istituzionale in quanto c’è anche il consiglio europeo che anch’esso
rappresenta gli interessi degli stati stabilendo gli orientamenti di politica generale che poi devono
essere “tradotti” dal triangolo istituzionale. Al fianco di queste 4 istituzioni politiche si pone la
corte di giustizia che opera nell’ambito della tutela giurisdizionale e garantisce che i
comportamenti delle istituzioni siano conformi a quanto stabilito nei trattati. Tra le istituzioni
vanno annoverate anche la Corte dei conti e la banca centrale europea anche se non sono
paragonabili, quanto ad importanza e funzioni, alle altre istituzioni.
La nozione di istituzione non ha un significato soltanto formale, ma comporta delle conseguenze
sostanziali in quanto alcune norme del TUE e del TFUE si applicano solo nei loro confronti (ad es.,
in tema di tutela giurisdizionale solo le istituzioni possono intervenire nelle controversie dinanzi
alla corte di giustizia senza dover interessare il loro interesse alla soluzione del giudizio.
In questa cornice poi sono state introdotte nuove figure come il presidente del consiglio europeo,
l’alto rappresentante per gli affari esteri e per la politica di sicurezza. Poi ci sono altri organismi
taluni menzionati dai trattati come il comitato economico e sociale e altri come le agenzie
europee creati con atti delle istituzioni sulla base della clausola di flessibilità.
Le istituzioni operano in base ai principi delle competenze di attribuzione e di leale cooperazione
(orizzontale) ed inoltre grava su di esse l’obbligo di esercitare la propria competenza senza
compromettere quella delle altre istituzioni.

IL PARLAMENTO EUROPEO
È composto dai “rappresentanti dei cittadini dell’unione” ed esercita, congiuntamente al consiglio,
la funzione legislativa e quella di bilancio, nonché funzioni di controllo politico e consultive alle
condizioni stabilite dai trattati ed elegge il Presidente della Commissione. Assume questa
nomenclatura a partire dall’Atto Unico e per molti anni è stato composto da membri dei
parlamenti nazionali che venivano dagli stessi parlamenti nazionali designati → in tal modo la
rappresentatività dei popoli riuniti nella Comunità era indiretta ed imperfetta. Indiretta in quanto i
parlamentari non venivano eletti direttamente dai cittadini europei, bensì da rappresentanti di
questi ultimi eletti in seno ai rispettivi parlamenti. Imperfetta perché non rifletteva
proporzionalmente la presenza di tutte le componenti politiche in seno ai parlamenti nazionali.
L’elezione diretta fu prevista con un atto del Consiglio europeo nel’76 e le prime elezioni dirette si
sono svolte nel ’79 in base a sistemi elettorali diversi (non esiste un’armonizzazione in tal senso). Il
numero dei parlamentari europei che spettano ad ogni stato (che non può essere inferiore a 6 né
superiore a 96) è stabilito in base al principio di proporzionalità digressiva → secondo il quale i
paesi con una popolazione più elevata hanno più numeri di seggi rispetto ai paesi di dimensioni
minori, ma questi ultimi ottengono un numero di seggi superiore a quello che avrebbero in base
ad un rapporto puramente proporzionale tra numero di parlamentari e popolazione, così come i
primi ottengono proporzionalmente un numero di parlamentari minore rispetto a quello che
otterrebbero in base a un rapporto puramente proporzionale tra numero di parlamentari e
popolazione. Il numero dei membri è di 750 + 1 cioè il Presidente (l’italiano David Maria Sassoli) e
il consiglio europeo deliberando all’unanimità, su iniziativa e con l’approvazione del parlamento
europeo può modificarne la composizione.
I parlamentari hanno un mandato di 5 anni e sono divisi in gruppi politici e non in gruppi nazionali
(anche se possono decidere di non aderire a nessun gruppo nazionale) perché non devono
rappresentare gli interessi dello stato di appartenenza, ma devono essere raggruppati per
appartenenza politica ed è importante ai fini della realizzazione di una coscienza politica europea
idonea ad esprimere la volontà dei cittadini europei. L’elettorato attivo e passivo è collegato alle
condizioni previste dai paesi di residenza. La determinazione dello statuto dei partiti politici e le
norme sul loro funzionamento sono stabilite dal consiglio e dal parlamento stesso con la
procedura legislativa ordinaria. Attualmente ci sono 8 partiti politici e ciascuno di essi non ha
meno di 25 membri.
Nell’organizzazione dei lavori i parlamentari si dividono in commissioni permanenti con
competenza per materie. Tra i suoi membri il parlamento europeo elegge il Presidente il cui
mandato dura 2 anni e mezzo. I parlamentari godono di immunità e di privilegi ad es. non possono
essere perseguiti o detenuti per le opinioni o i voti espressi nell’es. delle loro funzioni, ovviamente
tali immunità trovano un limite sia nell’ipotesi di flagrante delitto sia quando l'immunità debba
necessariamente cedere il passo ai legittimi interessi del parlamento nel suo insieme ovvero
quando può essere di ostacolo alla realizzazione di interessi maggiormente meritevoli di tutela.
Il parlamento delibera a maggioranza dei voti espressi, il quorum è raggiunto quando sono
presenti un terzo dei membri anche se pur in assenza del raggiungimento di tal soglia le delibere
sono considerate valide tranne che non venga contestata la mancanza del numero legale. In altri
casi sono previste delle diverse maggioranze:
• maggioranza assoluta dei componenti → per la procedura semplificata di revisione dei
trattati.
• maggioranza dei componenti e dei due terzi dei voti espressi→ per l’approvazione della
mozione di censura sull’operato della commissione.
• maggioranza dei componenti e tre quinti dei voti espressi→ per confermare gli
emendamenti in bilancio respinti dal consiglio.

Quanto alla sua funzione di controllo la esercita soprattutto nei cfr. della Commissione europea:
nel corso degli anni si è cercato di rafforzare sempre più questo rapporto tra Parlamento e
Commissione quasi per riprodurre quel rapporto di fiducia che sussiste negli ordinamenti nazionali
tra Parlamento e governo, anche se poi controllo si esercita anche in relazione ad altre istituzioni
dell'Unione (ma in maniera affievolita). Una prima forma di controllo riguarda la nomina della
commissione europea funzione che si è consolidata con il T. di Lisbona proprio per dare alla
commissione una legittimazione democratica→ il presidente della commissione europea che viene
indicato dal Consiglio Europeo deve essere approvato/eletto dal Parlamento europeo. Una
seconda forma di controllo si esprime nel voto di approvazione degli altri componenti della
commissione, ivi compreso l'Alto Rappresentante nominati in un momento successivo dal consiglio
europeo. Un elemento importante in questo rapporto di fiducia è rappresentato dal fatto che nella
nomina del presidente della commissione si deve tener conto dei risultati delle elezioni politiche:
già a partire dalle precedenti elezioni politiche per la prima volta i partiti si sono presentati con un
proprio candidato alla presidenza della commissione europea. Infine, questo potere di controllo si
esercita non soltanto al momento della nomina, ma anche attraverso strumenti diversi: si pensi
alle interrogazioni del Parlamento alla commissione, i cui membri sono tenuti a oralmente o per
iscritto.

Il parlamento può, nell’ambito dell’esercizio dei suoi poteri di controllo, pronunciare una mozione
di censura sull’operato della commissione, da approvare con la maggioranza dei due terzi dei voti
espressi e la maggioranza dei membri: se la maggioranza viene raggiunta i membri della
commissione si dimettono e l’alto rappresentante si dimette dalle funzioni che esercita in seno alla
commissione. Si deve, tuttavia, realisticamente evidenziare che fino ad oggi non si è mai riusciti ad
approvare una mozione di censura perché le maggioranze sono talmente elevate, che non si
riescono a raggiungere. In realtà, una mozione di censura del 1959 fu avviata nei confronti della
commissione presieduta dall'allora presidente Santer, però non si arrivò a una vera e propria
approvazione perché la commissione si dimise prima del voto: in quel caso forse vi era alta
probabilità di approvarla, perché vi erano stati dei gravi episodi di corruzione che avevano
coinvolto diversi membri della commissione europea.

Quanto alla funzione normativa è stata progressivamente rafforzata prevedendo da un lato, una
partecipazione sempre più intensa al processo di formazione degli atti e di conclusione di accordi
internazionali negoziati dalla commissione e dal consiglio; dall’altro, attribuendo al parlamento,
nella procedura di bilancio, una posizione equiparata al consiglio ed è stato inoltre ampliato il suo
ruolo in relazione alla procedura di revisione dei trattati. La partecipazione al procedimento
legislativo si manifesta con un’intensità diversa a seconda che i trattati gli attribuiscano solo un
diritto di consultazione, un potere di codecisione o addirittura autonomia decisionale (nel caso ad
esempio di fissare il proprio statuto). Il suo ruolo è stato accresciuto al massimo dal T. di Lisbona in
quanto l’ex procedura di “codecisione” diviene la procedura legislativa ordinaria maggiormente
utilizzata. Il parlamento gode, inoltre, di un potere di pre-iniziativa legislativa → a norma del 225
TFUE può chiedere alla commissione di presentare proposte adeguate quando reputi necessaria
l’adozione di un determinato atto, la commissione può decidere di non dare seguito alla richiesta
ma deve farlo con atto motivato, l’iniziativa del parlamento ha solo natura politica.

La sede del parlamento non è unica: quella amministrativa è a Lussemburgo, le riunioni delle
commissioni si svolgono a Bruxelles e la sessione plenaria mensile si tiene a Strasburgo, tale
situazione ha spesso alimentato sterili contenzioni, ma si giustifica in quanto si vuole fare in modo
che ci sia un coinvolgimento di diversi paesi che sono situati perlopiù in una posizione centrale
dell'Europa e quindi strategica.

IL CONSIGLIO EUROPEO

È nato parallelamente alla struttura comunitaria, ma all’ esterno della stessa, dalla prassi delle
riunioni al vertice fra i capi di stato o di governo degli stati membri, prassi iniziata con il vertice di
Parigi del 1961 e proseguita poi fino agli anni ’70 senza una cadenza regolare per discutere
questioni attinenti alla vita ed allo sviluppo delle Comunità (le deliberazioni prese dai vertici non
erano atti comunitari, ma potevano configurarsi come accordi internazionali). Il sistema dei Vertici
ebbe termine negli anni ‘70 quando fu deciso di dare una cadenza periodica regolare alle riunioni
(tre volte l'anno e ogni volta che ne fosse necessario) e a sancire formalmente la sua nascita fu
l’Atto Unico. Tuttavia, tale organo, pur godendo da sempre di una posizione peculiare, non era
collocato nel sistema istituzionale, almeno fino al T. di Lisbona che lo inserì a pieno titolo fra le
istituzioni. Il Trattato sull'Unione europea riconosceva al Consiglio il compito di dare l'impulso
necessario allo sviluppo dell'Unione e di definirne gli orientamenti politici generali, escludendo la
funzione legislativa (ha un potere di indirizzo politico).
È composto, oltre che dai Capi di Stato o di governo degli stati membri (la partecipazione del capo
dello stato o del governo dipende dalle norme nazionali ad es. il rappresentante per l’Italia è il
capo del governo, mentre per la Francia è il presidente della Repubblica), dal suo Presidente , dal
Presidente della Commissione, inoltre (senza farne parte dal punto di vista della struttura
organizzativa) partecipa ai lavori anche l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la
politica di sicurezza. Se l’ordine del giorno lo richiede ciascun membro può decidere di farsi
assistere da un ministro e il presidente della commissione da un membro della commissione. La
presenza del presidente della commissione consente di rendere il potere di iniziativa legislativa
coerente con gli indirizzi indicati dal Consiglio europeo. Quanto invece al presidente del
parlamento europeo, questi può essere eventualmente invitato alle riunioni in quanto l’esigenza di
raccordo con il parlamento è soddisfatta mediante la trasmissione della relazione del presidente
del C.E. al parlamento dopo ciascuna riunione. Il C.E. si riunisce a Bruxelles due volte al semestre
su convocazione del suo presidente.
Quanto al Presidente del Consiglio europeo, questi viene eletto dai membri del C.E. a
maggioranza qualificata e resta in carica per un periodo di due anni e mezzo; egli presiede e anima
i lavori del Consiglio europeo, assicura la preparazione e la continuità dei lavori e assicura la
rappresentanza esterna dell'Unione per la PESC, fatte salve le attribuzioni dell'Alto rappresentante
dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
Il Consiglio europeo decide “per consensus” (tecnica usata normalmente per l'adozione degli atti
da parte di un organo internazionale intergovernativo classico) cioè con un’approvazione
concertata senza una votazione formale, salvo i casi in cui i trattati dispongano diversamente. Sono
previsti dunque casi in cui esso delibera a maggioranza semplice, in merito alle questioni di carattere
procedurale o per l’adozione del suo regolamento interno e casi in cui delibera anche a maggioranza
qualificata ad es. per la nomina della commissione o per stabilire l’elenco delle formazioni del
consiglio. Viene attribuito poi al Consiglio europeo il potere di adottare all'unanimità varie decisioni,
come in merito alla composizione del Parlamento europeo, al sistema di rotazione dei membri della
Commissione, alle procedure di revisione semplificata. Il Presidente del Consiglio europeo e il
Presidente della Commissione non partecipano al voto. Gli atti del Consiglio europeo adottati sono
ora soggetti a controllo di legittimità da parte della Corte di giustizia quando destinati a produrre
effetti giuridici nei confronti di terzi, ad eccezione di quelli riguardanti la PESC.

IL CONSIGLIO
L’art. 16 TUE stabilisce che il Consiglio è formato dai rappresentanti di ciascuno Stato membro, scelti
nell’ambito dei rispettivi governi, con il rango di ministri. Si tratta di un organo a composizione
variabile in quanto è composto dai ministri di volta in volta competenti per le materie iscritte
all'ordine del giorno, dunque si riunisce in diverse formazioni a seconda dell’argomento trattato il
cui elenco è adottato a maggioranza qualificata dal consiglio europeo. Il Trattato di Lisbona prevede
espressamente le seguenti formazioni: il Consiglio affari generali che assicura la coerenza del lavoro
nelle varie formazioni del Consiglio e rappresenta un momento di collegamento con il consiglio
europeo in quanto prepara i lavori di questo e ne assicura il seguito; il Consiglio affari esteri che
elabora l'azione esterna dell'Unione secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo ed
assicura la coerenza dell'azione dell'Unione ed è presieduto dall'Alto rappresentante.
La presidenza delle formazioni del consiglio (tranne quella affari esteri che spetta all’alto
rappresentante) è esercitata da gruppi predeterminati di tre stati membri, per un periodo di 18 mesi
secondo un sistema di rotazione paritaria stabilito da una deliberazione del C.E. adottata a
maggioranza qualificata; ciascuno dei tre stati esercita a turno la presidenza per 6 mesi e gli altri due
assistono secondo un programma stabilito in comune.
Il Consiglio si riunisce dietro convocazione del presidente su iniziativa o di uno Stato membro o della
Commissione; le sedute sono pubbliche quando delibera sul progetto di atto legislativo, mentre
l'obbligo della pubblicità non vige quando svolge attività non legislative→ di conseguenza ciascuna
sessione del Consiglio è divisa in due parti destinate rispettivamente alle deliberazioni legislative e
alle attività non legislative.

Il Consiglio in alcuni casi previsti dai trattati opera come organo e non come istituzione
dell’Unione→ in tale ipotesi i rappresentanti degli stati membri si riuniscono e deliberano in quanto
tali e non come componenti del consiglio: ne consegue che la deliberazione è presa non
dall’istituzione, ma da un organo intergovernativo (es. nomina dei membri della Corte di giustizia).
Quando opera come istituzione esprime una volontà propria distinta da quella degli Stati che lo
compongono anche quando le deliberazioni raccolgono l'unanimità dei consensi: infatti lo Stato può
impugnare una decisione del Consiglio anche se il rappresentante abbia votato a favore. Al di fuori
di questa ipotesi invece il Consiglio si comporta come una normale conferenza diplomatica: in tal
caso le sue decisioni sono sottratte alle norme dei Trattati che regolano le sue competenze e la
procedura decisionale.

Organi ausiliari → il consiglio è assistito da un segretariato generale che ne rappresenta il


supporto funzionale ed amministrativo, tale organo si compone di direzioni generali e di un
servizio giuridico ha sede a Bruxelles ed è posto sotto la responsabilità di funzionamento di un
segretario generale.
Poi c’è il Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) composto da rappresentanti dei
governi degli stati membri aventi rango di ambasciatori. Si tratta di una struttura di collegamento
tra l’Unione e gli stati membri e di coordinamento de lavoro delle tante commissioni tecniche che
preparano l’attività normativa del consiglio. E’ articolato in due formazioni: (COREPER 1) composto
dai rappresentanti permanenti aggiunti per trattare gli affari correnti, di procedura,
essenzialmente tecnici; (COREPER 2) composto da ambasciatori per trattare gli affari di rilievo
politico, economico -finanziario e riguardanti le relazioni esterne.
A quest’organo viene trasmessa da parte del consiglio le proposte legislative della Commissione
affinché le sottoponga al suo esame; se sulla proposta viene raggiunta l’unanimità viene iscritta al
punto A dell'ordine del giorno del Consiglio il quale approva la decisione semplicemente ratificando
l'accordo già intercorso al livello inferiore; al contrario la questione viene iscritta al punto B e viene
discussa in seno al Consiglio. In sostanza il COREPER è divenuto l’interlocutore della Commissione
ciò ha comportato un ridimensionamento delle competenze della Commissione e del valore delle
sue proposte, dato che esse non sono esaminate direttamente dal Consiglio, ma devono prima
passare al vaglio del COREPER e misurarsi in tale sede con le varie posizioni nazionali.
Altro organo ausiliario è il Comitato permanente che assicura all'interno dell'Unione la promozione
e il rafforzamento della cooperazione operativa in materia di sicurezza interna.

Il consiglio è investito della funzione legislativa e di bilancio che, ai sensi dell’art. 16 TUE, esercita
congiuntamente al Parlamento europeo; esercita altresì funzioni di definizione delle politiche e di
coordinamento alle condizioni stabilite dai trattati e autorizza la Commissione a negoziare accordi
internazionali, ne autorizza la firma e li conclude. I suoi poteri rispondono al principio delle
competenze di attribuzione essendo il loro es. collegato ad espresse previsioni dei trattati, tuttavia
fa eccezione la sua competenza in base al 352 TFUE che gli consente di adottare all’unanimità un
atto normativo in materie non espressamente attribuite alla sfera di competenza dell’Unione
necessario per perseguire un obiettivo dell’Unione.

Procedure di voto→ I sistemi di votazione previsti dai Trattati sono tre:


• maggioranza semplice, che ormai trova scarsa applicazione, calcolata sul numero dei membri
che compongono il Consiglio, e non sui presenti.
• l’unanimità si riferisce ai votanti; le astensioni dei membri presenti o rappresentati non
costituiscono ostacolo all'adozione delle deliberazioni.
Il Trattato di Lisbona mantiene la regola dell'unanimità per ipotesi particolari: ad esempio modalità
di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali e alle elezioni del Parlamento
europeo dei cittadini dell'Unione dello Stato membro di residenza (art. 22 TFUE), disposizioni
relative al sistema delle risorse proprie dell'Unione (art. 311 TFUE), accordi formali su un sistema di
tassi di cambio dell'euro (art. 219 TFUE).
L'unanimità costituisce poi la regola generale di votazione nell'ambito della politica estera e di
sicurezza comune e della politica di sicurezza comune (art. 24 TUE) attenuata dal meccanismo
dell'astensione costruttiva.
• maggioranza qualificata→ questa era calcolata attribuendo ai voti di ciascuno stato membro
un differente peso in ragione della loro importanza. Questo sistema è stato sostituito da
quello della doppia maggioranza secondo il quale:
1)Quando le deliberazioni sono adottate su proposta della Commissione per maggioranza
qualificata deve intendersi almeno il 55% dei membri del Consiglio (almeno 16) rappresentanti un
numero di gli Stati membri che totalizzano almeno il 65% della popolazione dell'Unione.
2)Qualora il consiglio non deliberi su proposta della commissione o su iniziativa dell’alto
rappresentante, la soglia della maggioranza qualificata è elevata al 72% dei membri del Consiglio
che totalizzano sempre almeno il 65% della popolazione complessiva dell'Unione.
Se gli stati che costituiscono una minoranza di blocco rappresentano il 55% della popolazione o il
55% del numero degli stati membri manifestano l’intenzione di opporsi all’adozione di un atto, il
consiglio discute la questione. Con tale accorgimento si vuole consentire a una minoranza
significativa di sospendere la votazione ed aprire una fase di negoziato nell'intento di soddisfare
anche le sue esigenze per poi raggiungere la maggioranza richiesta. Nei sistemi di voto a
maggioranza qualificata l’astensione non equivale alla non partecipazione al voto, ma è considerata
un voto contrario.
LA COMMISSIONE
La Commissione rappresenta e garantisce l'interesse generale dell'Unione in piena indipendenza
rispetto sia agli stati membri sia ad ogni altra istituzione od organo.
Il numero dei componenti la Commissione è variato nel tempo, si era prospettata una riduzione dei
commissari in modo da corrispondere ai 2/3 del numero degli stati membri (proprio per garantire
l’indipendenza dagli stati ed esprimere il principio della sovra-nazionalità) ma poi si è stabilito che
avrebbe dovuto essere composta da un cittadino per ciascuno stato membro. Il mandato dura 5
anni ed è rinnovabile.
Quanto alla nomina il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al
Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della Commissione, dopo aver effettuato
le appropriate consultazioni tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo.
Il presidente designato dal consiglio europeo è eletto dal Parlamento a maggioranza dei membri che
lo compongono: se non ottiene l'approvazione, il Consiglio europeo propone, sempre a maggioranza
qualificata, entro un mese un nuovo candidato.
Successivamente il Consiglio di comune accordo con il presidente eletto adotta l'elenco delle altre
personalità che propone di nominare membri della Commissione, selezionate in base alle proposte
presentate dagli stessi membri. I candidati commissari sono invitati a comparire davanti alle varie
commissioni parlamentari competenti per materia, secondo le probabili competenze che saranno
chiamate ad esercitare, per esporre il loro programma e per rispondere alle domande. Qualora la
Commissione competente manifesti contrarietà rispetto al candidato commissario, il Consiglio sarà
indotto a cambiare candidatura.
Infine, il presidente, il vicepresidente, l’Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e gli altri
commissari sono soggetti collettivamente a voto di approvazione da parte del Parlamento in seguito
al quale la Commissione è nominata dal Consiglio europeo che delibera a maggioranza qualificata.
Quindi, il rapporto fiduciario che intercorre tra Parlamento e Commissione conferisce maggiore
autorevolezza al controllo politico sull'operato della Commissione e alla stessa mozione di censura.
Il mandato può terminare per decesso, per dimissioni volontarie, per dimissioni d'ufficio con
decisione della Corte di giustizia su istanza del Consiglio o della Commissione per colpa grave, per il
venir meno delle condizioni prescritte per l'esercizio delle loro funzioni o per cessazione collettiva a
seguito dell'approvazione della mozione di censura da parte del Parlamento. Inoltre, un membro
rassegna le dimissioni se il presidente glielo chiede.
Il membro dimissionario o deceduto sarà sostituito, per la restante durata del suo mandato, da altro
della stessa nazionalità, tuttavia il Consiglio può decidere all'unanimità che non vi è motivo di
procedere a sostituzione.

Al presidente spetta il coordinamento dell'attività della Commissione e la sua rappresentanza esterna


nonché di definire gli orientamenti generali nel cui quadro la Commissione esercita i suoi compiti;
decide l'organizzazione interna per garantire la coerenza, l'efficacia e la collegialità della situazione,
affida ai vari membri del collegio le rispettive competenze e può modificarle nel corso del mandato e
nomina i vicepresidenti fra i suoi componenti.
L'apparato amministrativo è strutturato direzioni generali e vari servizi ed uffici, a ciascun commissario è
attribuita dal presidente la responsabilità di uno o più settori di attività della Commissione, ma tale
ripartizione dei compiti non comporta l'attribuzione di poteri decisionali autonomi, infatti
caratteristica del funzionamento di questa istituzione è il principio di collegialità: anche se ciascun
commissario ha la responsabilità di un settore, le decisioni sono prese collegialmente e tutti i
membri della Commissione sono responsabili delle decisioni adottate che impegnano l'istituzione
nel suo insieme (il mancato rispetto di tale principio può portare a ritenere come inesistente l'atto).
Le deliberazioni sono adottate, su proposta di uno o più membri della Commissione, a maggioranza
del numero dei suoi componenti anche se normalmente sono espressione di un consenso unanime.

Le competenze della Commissione sono indicate dall'art. 17 TUE, ma si ricavano anche da varie altre
disposizioni dei Trattati. Più significativo è indubbiamente l'esercizio del potere di iniziativa nella
procedura di formazione degli atti legislativi dell'Unione. Soltanto in alcuni casi, indicati dai Trattati,
la proposta della Commissione è prevista in via alternativa rispetto alla proposta di altri soggetti.
Per gli atti non legislativi ha potere di iniziativa solo se espressamente conferito in casi eccezionali
dai trattati. Il Consiglio può emendare tale proposta solo all’unanimità e la Commissione, finché il
Consiglio non abbia deliberato, può sempre modificare la sua proposta iniziale.
La proposta può essere sollecitata alla Commissione dal Parlamento, dal consiglio o da un milione
di cittadini europei, su questioni per le quali reputano necessaria l'elaborazione di un atto
dell'Unione. Si tratta di un potere di “pre-iniziativa” legislativa ciò significa che la commissione non
è obbligata a dar seguito a queste richieste, ma in ogni caso deve giustificare il motivo per il quale ritenga
di non dare seguito alla richiesta.

Un limitato potere autonomo di decisione è riconosciuto alla Commissione in alcune ipotesi


specificate dal Trattato, in particolare nell'ambito della politica della concorrenza: constatazione
delle infrazioni con decisione motivata (art. 105 TFUE), controllo sulla disciplina delle imprese
pubbliche (art. 106 TFUE), sorveglianza sulla compatibilità degli aiuti di Stato nel mercato interno
(art. 108 TFUE) con una decisione la cui inosservanza da parte dello Stato interessato può dar luogo
ad un ricorso diretto per inadempimento davanti alla Corte di giustizia. Essa dispone anche di un
potere normativo primario nei casi e alle condizioni previste dai Trattati: ad es. per emanare
regolamenti riguardanti le condizioni alle quali i lavoratori subordinati possono rimanere in uno
Stato membro dopo aver occupato l'impiego. Inoltre, il Trattato di Lisbona prevede che la
Commissione possa adottare atti a portata generale su delega di un atto legislativo al fine di
integrare e modificare determinati elementi non essenziali all'atto stesso (potere delegato di
integrazione o applicazione degli atti adottati).

Poteri di controllo→ la Commissione ha il compito di vigilare sull'applicazione delle norme dei


Trattati e del diritto derivato da parte sia degli stati membri che delle istituzioni degli stessi privati.
Può innanzitutto prendere l'iniziativa di segnalare agli Stati determinati comportamenti o misure
che a suo giudizio comportano il rischio di porsi in contrasto con il diritto dell'Unione, a tal fine
rivolge agli Stati membri raccomandazioni e pareri. In secondo luogo, la Commissione ha il potere di
perseguire nei confronti degli stati membri ogni violazione degli obblighi derivanti dal diritto
dell'Unione al fine di assicurarne l'osservanza: può quindi promuovere la procedura per infrazione
dinanzi la Corte di giustizia, di propria iniziativa o su richiesta di uno Stato membro, dopo
l'espletamento della procedura precontenziosa che prevede l'emissione di un parere motivato al
riguardo, dopo aver posto lo stato in condizione di presentare le proprie osservazioni. Una deroga
a tale procedura è prevista dall'articolo 108 TFUE secondo cui la Commissione può adire
direttamente la Corte qualora uno stato non si conformi alla decisione della Commissione che
constati l'incompatibilità di un aiuto di Stato.
Poteri esecutivi→ esercita funzioni di coordinamento, esecuzione e gestione alle condizioni
stabilite dai trattati; inoltre esercita il potere di esecuzione che, ai sensi dell’art. 291 par. 2 TFUE,
atti dell’unione giuridicamente vincolanti le conferiscono.

L’ALTO RAPPRESENTATE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E LA POLITICA DI SICUREZZA

Si tratta di una figura introdotta dal T. di Lisbona, egli svolge un ruolo delicato in virtù del “doppio
cappello” in quanto riveste uno status particolare all’interno di due diverse istituzioni: oltre alla
posizione di presidente del consiglio “affari esteri”, è vicepresidente della commissione. La sua
nomina spetta al consiglio europeo (con delibera a maggioranza qualificata) di comune accordo
con il presidente della commissione e in sede di approvazione collettiva della commissione in
quanto vicepresidente della stessa è soggetto al voto del parlamento europeo.
Quanto alle funzioni costituisce un pone fra i diversi centri decisionali al fine di garantire una
maggiore unità dell’Unione: in ambito PESC da un lato ha funzioni di guida e di proposta, dall’altro
è il rappresentante dell’unione per la PESC verso i paesi terzi ed in seno alle organizzazioni
internazionali. Come presidente del consiglio affari esteri in qualità di mandatario del consiglio, è
chiamato a dare attuazione a tale politica, preoccupandosi che vengano eseguite le decisioni
adottate. Come vicepresidente della commissione è incaricato di curare il settore delle relazioni
esterne, rendendo effettivo il coordinamento con la PESC; tuttavia in relazione a questo ruolo, non
è equiparabile al resto dei membri dell’”esecutivo europeo” dato che, essendo anche mandatario
del consiglio, non è sottoposto al divieto di accettare istruzioni da parte di altre istituzioni. Quale
figura chiave di raccordo tra consiglio e commissione può essere incaricato di svolgere la
negoziazione per la conclusione di accordi trasversali e, nell’es. del potere di iniziativa, può farsi
portatore di esigenze avvertite in qualità del ruolo di vicepresidente della commissione.
È tenuto a consultare regolarmente il P.E. sulle scelte della PESC nonché ad informarlo
sull’evoluzione di tale politica, presentando annualmente una relazione sull’attività in questo
settore (agisce allo stesso modo per quanto riguarda la PSDC.
Nell’es. delle sue funzioni si avvale del SEAE “servizio europeo per l’azione esterna” che è un vero
e proprio corpo diplomatico dell’Unione che lavora in collaborazione con i servizi diplomatici degli
stati membri per assicurare la coerenza tra i settori dell’azione esterna.

LA CORTE DI GIUSTIZIA E IL TRIBUNALE DELL’UNIONE EUROPEA


La corte di Giustizia è un’istituzione unica, ma articolata in più organismi: corte di giustizia, tribunale
e tribunali specializzati (attualmente assenti, ma nulla esclude la possibilità che ne vengano creati
altri). Si tratta di un’istituzione alla quale è attribuito il controllo giurisdizionale → da una parte:
sulla legittimità degli atti e dei comportamenti delle istituzioni dell’Unione rispetto ai trattati
(giurisdizione contenziosa); dall’altra: sull’interpretazione del diritto dell’Unione (giurisdizione non
contenziosa). La corte svolge un ruolo centrale nel processo di integrazione, tanto è vero che la
giurisdizione è inserita nel novero delle fonti, in quanto spesso le norme dei trattati sono scarne
dunque vanno interpretate ed applicate alla luce del diritto della Corte di giustizia che svolge una
funzione nomofilattica finalizzata ad assicurare una conforme interpretazione del diritto dell’Ue.

L’Unione è dotata di un sistema di tutela giurisdizionale che consente di qualificarla come “unione
di diritto” in quanto si tratta di un sistema completo e incondizionato che consente un sindacato e
un controllo di legittimità nei confronti di tutti gli atti e i comportamenti adottati da tutti i soggetti
dell’ordinamento dell’UE. Sistema che si incentra non solo sul ruolo fondamentale esercitato dalla
corte di giustizia ma anche dai giudici degli stati membri che sono definiti “giudici decentrati
dell’ue”, i quali hanno diverse competenze in tema di diritto dell’ue potendo contrastare le norme
nazionali, utilizzare il rimedio dell’interpretazione conforme, consentire il risarcimento dei danni,
collaborare con la corte di giustizia e sollevare inviti pregiudiziali di interpretazione o invalidità.

La corte è composta da un giudice per stato membro ed è assistita da avvocati generali il cui numero
è attualmente fissato a undici, mentre in passato erano otto anche se il TFUE prevedeva la possibilità
di aumentarne il numero su richiesta della stessa corte con deliberazione unanime del consiglio. Con
una Decisione del 2013 il consiglio ne ha confermato il numero in undici e ha stabilito che i sei stati
dell’Unione con la popolazione più numerosa dispongono di un avvocato generale permanente,
mentre i rimanenti cinque sono nominati secondo un sistema di rotazione. L’avvocato generale ha
il compito di presentare pubblicamente, in completa indipendenza rispetto alle parti dell’Unione,
conclusioni scritte e motivate che esprimano il suo punto di vista sulla soluzione della causa trattata
dinanzi alla corte. Le conclusioni non sono vincolanti ai fini della decisione tanto è vero che lo statuto
precisa che la corte potrà escludere le conclusioni dell’avvocato generale (sentito quest’ultimo e
quando la questione non presenti nuovi punti di diritto), ma comunque godono di una propria
rilevanza perché contengono un esame accurato della dottrina, dunque costituiscono un passaggio
importante per la conoscenza del diritto europeo e potrebbero comportare anche un cambiamento
di orientamento della corte. L’intervento dell’avvocato generale non è previsto per tutte le cause
(come accadeva prima), ma soltanto rispetto a quelle che, conformemente allo statuto della corte,
lo richiedono.

La corte ha sede a Lussemburgo e costituisce un organo di individui nel senso che i suoi membri
non rappresentano i rispettivi stati di appartenenza. Sia i giudici che gli avvocati generali hanno il
medesimo statuto e sono nominati, di comune accordo dagli stati membri per una durata di sei anni
con possibilità di rinnovo del mandato, tra personalità che offrano garanzie di indipendenza e che
esercitino le più alte funzioni giurisdizionali o siano giuristi di notoria competenza. Con il T. di Lisbona
è stato introdotto l’obbligo della previa consultazione di un comitato (composto da sette persone
scelte tra ex componenti della corte e del tribunale o giuristi di cui sia nota l’elevata competenza),
per ottenere un parere sull’adeguatezza dei candidati all’esercizio delle funzioni di giudice o di
avvocato generale. Il Presidente viene eletto fra i giudici per tre anni e dirige l’attività della corte sia
sotto il profilo amministrativo che giurisdizionale: presiede le udienze, designa il giudice relatore,
ha competenza in materia di provvedimenti cautelari nonché di sospensione dell’esecuzione delle
sentenze.

La corte può operare nella sua composizione plenaria (il gran plenum) ovvero nella composizione
di piccolo plenum denominato grande sezione (15 giudici), oppure in sezioni di 5 o 3 giudici. Per una
maggiore flessibilità ogni caso è rimesso alle sezioni, salvo che la grande sezione non sia
espressamente richiesta da uno stato membro o da un’istituzione che sia parte; i casi di ricorso alla
plenaria sono limitati invece: alle cause promosse contro il mediatore per mancanza delle condizioni
necessarie o per colpa grave; contro i membri della commissione per violazione degli obblighi
connessi alle loro funzioni o per colpa grave; contro i membri della corte dei conti per mancanza dei
requisiti previsti o per violazione degli obblighi derivanti dalla loro funzione. La singola sezione può
decidere, sentito l’avvocato generale, di rinviare un giudizio pendente alla plenaria per l’importanza
eccezionale delle questioni sollevate nello stesso. Quanto alle deliberazioni, la corte può deliberare
validamente solo in numero dispari. La corte nomina per un periodo di 6 anni un cancelliere che
oltre ad es. le funzioni convenzionalmente connesse a questa figura (ad es. tenuta del ruolo,
ricezione degli atti ecc) provvede all’amministrazione e alla gestione finanziaria della corte.

Il Tribunale, quale organo in cui tale istituzione si articola, viene istituito nel’88 con decisione del
consiglio su domanda della corte e previa consultazione di commissione e parlamento (tale
possibilità venne prevista dall’Atto unico nell’intento di affiancare all’operato della corte un altro
organo giurisdizionale); tuttavia soltanto con il trattato di M. il tribunale è divenuto parte integrante
dell’apparato giurisdizionale dell’Unione senza che la sua stessa esistenza dipendesse più da un atto
del consiglio (il cui potere è ora limitato alla definizione dell’organizzazione e delle competenze del
nuovo organo); infine con il T. di L. gli è stato riconosciuto il ruolo di giurisdizione autonoma (ai
sensi dell’art. 19 TUE è “compreso” nella corte di giustizia). La finalità cui si è voluta far fronte con
l’istituzione del tribunale è sicuramente quella di alleggerire il carico della corte creando un “doppio
grado di giurisdizione”→ dunque il tribunale opera come giudice di primo grado e le sue sentenze
sono impugnabili davanti alla corte di giustizia, ma “per soli motivi di diritto” (oltre alla parte
soccombente la legittimazione ad impugnare è riconosciuta anche agli stati ed alle istituzioni anche
se non hanno partecipato al giudizio di primo grado). Quindi, rapportando il sistema giurisdizionale
europeo al nostro, possiamo affermare che l’impugnazione è come se assumesse le vesti del ricorso
in cassazione piuttosto che di appello (secondo grado di giudizio)→ “per soli motivi di diritto” perché
la corte di giustizia, anche se ha altre competenze esclusive per alcuni contenziosi, svolge per lo più
un ruolo costituzionale di uniformazione del diritto.
Il tribunale è composto da almeno un giudice per stato membro ciò significa che, a differenza della
corte, possono esserci anche più giudici per ogni stato membro (attualmente sono 56 giudici – 2 per
stato membro), tali membri per essere nominati devono avere gli stessi requisiti richiesti per i giudici
della corte e le modalità sono analoghe a quelle previste per la nomina dei giudici della corte. A
differenza della corte, il tribunale, nella trattazione delle cause, non è tendenzialmente assistito
dall’avvocato generale, il quale può essere nominato nei casi previsti dallo statuto, scegliendo tra i
giudici, soltanto se il tribunale siede in plenaria o allorché lo esigono le difficoltà in diritto o la
complessità in fatto della causa. La competenza, limitata in un primo momento al contenzioso del
personale ed ai ricorsi individuali in materia di concorrenza, è stata estesa ai ricorsi diretti ad
eccezione di quelli che lo statuto riserva alla corte; il trattato inoltre prevede che lo statuto possa
estendere la competenza del tribunale a categorie di ricorsi dalle quali è al momento escluso
(procedimento per infrazione). Al tribunale è attribuita la competenza a conoscere di tutti i ricorsi
avverso gli atti o carenze della commissione (esclusi quelli in materia di risorse proprie)
prescindendo dalla qualità del ricorrente (potrebbe essere uno stato così come un’altra istituzione),
in quanto: lo statuto riserva alla corte soltanto i ricorsi di annullamento e in carenza presentati dalle
istituzioni o dagli stati e riguardanti determinati atti o carenze del parlamento e del consiglio (tranne
gli atti in materia di aiuti di stato, dumping e di competenze di esecuzione), nonché gli atti della
commissione in tema di cooperazione rafforzata. L’art. 256 TFUE prevede che si può attribuire al
tribunale la competenza a conoscere le questioni pregiudiziali sia pure nelle materie specificamente
indicate nello statuto (prettamente di natura tecnica), stabilendo altresì che in tali materie il
tribunale possa comunque rinviare la decisione alla corte se ravvisa la necessita di una decisione di
principio che potrebbe compromettere l’unità del diritto dell’Unione; lo stesso articolo prevede che
la decisione del tribunale sul rinvio pregiudiziale possa essere sottoposta alla procedura di riesame
dinanzi la corte di giustizia se sussistono gravi rischi che l’unità del diritto dell’Unione sia
compromessa, su richiesta del primo avvocato generale entro un mese dalla pronuncia del
tribunale. Tuttavia, ad oggi l’ipotesi di cognizione sui rinvii pregiudiziali del tribunale non ha trovato
ancora attuazione, restando di conseguenza ancora di competenza esclusiva della corte di giustizia.
Il tribunale può decidere anche come giudice unico se la sezione dinanzi alla quale la questione
pende all’unanimità la assegna ad un giudice unico e fatta salva l’opposizione che può porre in
essere uno stato membro o un’istituzione dell’unione; tale possibilità è limitata alle cause di
personale, ai ricorsi di annullamento o di responsabilità contrattuale che sollevano questioni già
chiarite da una consolidata giurisprudenza oppure sono parte di una serie di cause con lo stesso
oggetto uno delle quali sia stata già decisa con forza di giudicato. È esclusa questa possibilità quando
la causa sollevi questioni di legittimità di un atto avente portata generale ovvero quando verta in
materia di concorrenza, dumping, marchi ecc.
Al consiglio è attribuita la possibilità di istituire tribunali specializzati competenti a conoscere, in
primo grado, talune categorie di ricorsi in specifiche materie; nel 2009 fu istituito “il tribunale della
funzione pubblica dell’Unione, tuttavia nel 2005 il legislatore ha deciso di aumentare a 56 il numero
dei membri del tribunale, dato l’aumento del contenzioso e di conseguenza ha deciso di sopprimere
questa sezione specializzata trasferendone le competenze al tribunale. Le decisioni dei tribunali
specializzati possono essere oggetto di impugnazione dinanzi il tribunale per soli motivi di diritto ed
eccezionalmente la sentenza emessa in secondo grado dal tribunale può formare oggetto di
revisione dinanzi la corte, sempre che vi siano rischi per l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione.

LA CORTE DEI CONTI


Creata con il Trattato di Bruxelles del 1975, la Corte dei conti figura ormai tra le istituzioni
dell'Unione, come previsto espressamente dall’art. 13 TUE ed ha sede a Lussemburgo; che si tratti
di un’istituzione autonoma lo desumiamo dal potere di autodeterminazione nella definizione del
regolamento interno approvato dal consiglio a maggioranza qualificata (come per il tribunale e la
corte di giustizia). Essa è incaricata di effettuare il controllo contabile esterno alle singole istituzioni
e l'esame del bilancio dell'Unione. È composta da un cittadino di ogni Stato membro; i suoi membri
sono scelti a titolo individuale tra le personalità che appartengono o siano appartenuti alle istituzioni
di controllo esterno dei rispettivi paesi e siano in possesso della qualifica specifica per tale funzione
e offrono garanzie di indipendenza. L'elenco dei membri è adottato dal Consiglio che delibera a
maggioranza qualificata, in conformità alle proposte presentate da uno Stato membro. I membri
della Corte dei conti restano in carica per sei anni e il loro mandato è rinnovabile; svolgono il lavoro
in piena indipendenza nell'interesse dell'Unione, non devono accettare istruzioni da alcun governo
e devono astenersi da ogni atto incompatibile con le loro funzioni (corte dei conti = organo di
individui).
L'attività della Corte è collegiale: il lavoro svolto individualmente dai membri responsabili dei vari
settori viene esaminato dal collegio che decide sul seguito che dovrà loro essere dato e stabilisce il
testo definitivo dei pareri e delle relazioni.
La Corte dei conti ha competenza generale per il controllo esterno della gestione finanziaria
dell'Unione: esamina i conti di tutte le entrate e uscite delle istituzioni e di ogni altro organismo
creato dall'Unione a meno che ciò non sia escluso dal relativo atto costitutivo e ne accerta inoltre la
sana gestione finanziaria. I controlli possono essere effettuati sia presso le istituzioni, sia negli stati membri,
compresi i locali di persone fisiche e giuridiche che ricevono contributi a carico del bilancio dell'Unione,
chiedendo altresì la documentazione e le informazioni che ritenga necessarie a tal fine. Assiste il
Parlamento e il Consiglio nella loro funzione di controllo sull'esecuzione del bilancio, mentre è
sprovvista di poteri diretti di sanzione.
I risultati dei lavori della Corte formano oggetto di una relazione in cui essa attesta l'affidabilità dei
conti e la legittimità e regolarità delle relative operazioni, redatta dopo la chiusura dell'esercizio
finanziario, trasmessa a parlamento e consiglio e poi pubblicata sulla gazzetta ufficiale dell'Unione
europea. La Corte svolge anche una rilevante funzione consultiva potendo presentare di sua
iniziativa proprie osservazioni su questioni specifiche e rilasciare pareri su richiesta delle istituzioni;
a ciò si aggiungono alcune forme di consultazione obbligatoria nei casi contemplati dal Trattato.
A differenza della corte di conti nazionale non ha anche una funzione giurisdizionale, ciò significa
che è legittimata ad agire dinanzi alla corte di giustizia per la difesa delle proprie prerogative ed è
dunque ricompresa tra i ricorrenti semi-privilegiati, rispetto ad altre istituzioni definiti ricorrenti
privilegiati, perché deve dimostrare un interesse ad agire (poi ci sono i non privilegiati che sono le
singole persone fisiche e giuridiche, che hanno un interesse da dimostrare piuttosto complesso).

ALTRI ORGANI: IL COMITATO ECONOMICO E SOCIALE


Rappresenta a livello dell'Unione degli interessi delle diverse componenti economico-sociali nazionali ed ha
compiti esclusivamente consultivi. Si tratta di un “organo di individui” composto da rappresentanti delle
organizzazioni dei datori di lavoro, dei lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della
società civile; i suoi componenti sono nominati con una decisione del Consiglio adottata
all’unanimità su proposta della Commissione (attualmente comprende 350 membri), il loro
mandato dura 5 anni. Il Comitato designa il suo presidente per due anni e mezzo e stabilisce il
proprio regolamento interno; è convocato dal presidente su richiesta del Parlamento europeo, del
Consiglio e della Commissione ma può riunirsi anche di propria iniziativa.
Ci sono casi, previsti dai trattati, in cui è obbligatoriamente consultato dal Parlamento europeo, dal
Consiglio e dalla Commissione→ è tenuto a rendere un parere nell’iteri di formazione di determinati atti
che è obbligatorio ma di certo non vincolante. Inoltre, può emanare pareri di propria iniziativa su ogni
questione relativa alle materie rientranti nella competenza. Il Parlamento, il Consiglio e la
Commissione possono fissare un termine, non inferiore a un mese, entro cui il Comitato deve
presentare il parere, decorso il quale si può non tener conto dell'assenza di parere.

IL COMITATO DELLE REGIONI


Organo a carattere consultivo istituito dal Trattato di Maastricht la cui creazione ha consentito di dare
voce diretta alle collettività sub-statali ogni volta che determinate azioni dell’Unione siano destinate
ad incidere sulle loro competenze. E’ composto da rappresentanti delle collettività regionali locali
nominati per cinque anni che siano titolari di un mandato elettorale nell'ambito della collettività
regionale o locale oppure politicamente responsabili dinanzi all'assemblea eletta. Una decisione del
Consiglio su proposta della Commissione determina la sua composizione; il Comitato designa il suo
presidente per la durata di due anni e mezzo e stabilisce il proprio regolamento interno ed è
consultato obbligatoriamente dal Parlamento europeo, dal Consiglio o della Commissione dei casi
previsti dal Trattato, oppure ogni volta che lo ritengono opportuno, ma può formulare pareri anche
su iniziativa quando ritenga siano coinvolti interessi rientranti nella propria competenza. Il Consiglio
o la Commissione possono assegnare un termine per la presentazione del parere non inferiore a un mese,
scaduto il quale si può non tener conto dell'assenza di parere.
La sua consultazione è prevista in materia di istruzione, di cultura, di sanità, di organizzazione dei
fondi a finalità strutturali, di regolamenti di applicazione relativi al fondo europeo di sviluppo
regionale. Il Comitato delle regioni è incluso ora dal Trattato di Lisbona tra i soggetti legittimati a
proporre ricorso in annullamento, dinanzi alla Corte di giustizia, degli atti dell'Unione, al fine di
salvaguardare le proprie prerogative (si tratta in tal caso di un ricorrente semi-privilegiato e ciò
implica che debba avere un interesse giuridico alla tutela della propria sfera di competenze nei cfr.
di attività invasive dell’Unione) oppure per la pretesa violazione del principio di sussidiarietà avverso
atti legislativi, per l'adozione dei quali, il Trattato sul funzionamento dell'Unione richiede la sua
consultazione (si tratta di un ricorso speciale nell’ambito dei ricorsi di annullamento perché p
riservato soltanto agli stati membri e allo stesso e perché è fondato esclusivamente sul mancato
rispetto del p. di sussidiarietà).

LA BANCA EUROPEA DEGLI INVESTIMENTI (BEI)


Opera sui mercati finanziari come un istituto di credito, non ha scopo di lucro, ma ha l’obiettivo di
assicurare lo sviluppo del mercato unico europeo in modo equilibrato ed interviene in tema di fondi
strutturali proprio per garantire la coesione economica e sociale dell’ue. Non è considerata un’istituzione,
è formalmente prevista dagli artt. 308 e 309 TFUE, ma ad essa si applicano le competenze della Corte di
giustizia sia pure entro limiti specificati ed è inoltre parificata alle altre istituzioni ai fini dell’applicazione
dell’art. 340 TFUE in materia di responsabilità extracontrattuale, potendo essere chiamata a rispondere
davanti la Corte di giustizia per i danni cagionati da essa o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni.
È dotata di personalità giuridica e di autonomia finanziaria, agisce in modo indipendente sui mercati
finanziari internazionali, senza scopo di lucro e nei limiti del perseguimento degli obiettivi
dell'Unione, con il compito di contribuire ad uno sviluppo equilibrato e senza scosse del mercato
interno nell'interesse dell'Unione. È chiamata a facilitare il finanziamento di progetti per la
valorizzazione delle regioni meno sviluppate o per la riconversione di imprese o di interesse comune
per Stati membri nonché la realizzazione dei programmi di investimenti congiuntamente con gli
interventi dei fondi strutturali e degli altri strumenti finanziari dell'Unione.

agenzie → hanno competenze tecniche e di supporto informativo per gli stati membri e le istituzioni
dell’Unione; rispondono ad una logica di decentralizzazione funzionale e territoriale. Generalmente
dipendono dalla Commissione che ne mantiene la resp. finanziaria, quanto agli obiettivi alcune
svolgono una funzione di informazione e di coordinamento, altre sono dotate di un potere di
adottare decisioni individuali vincolanti o di un potere di raccomandare. In alcuni casi sviluppano il
know-how scientifico o tecnico in alcuni settori specifici, in altri svolgono un ruolo di mediazione tra
i vari gruppi di interesse (es. Agenzia per l’ambiente; Fondazione europea per la formazione con
sede a Torino)
eurojust → unità europea di cooperazione giudiziaria per le lotte alla criminalità organizzata.
procura europea→ tutela gli interessi finanziari dell’Unione ed è nata nell’ambito della
cooperazione rafforzata ed è organizzata su due livelli: uno centrale e l’altro decentrato.
europol→ cooperazione tra autorità di polizia e degli altri servizi incaricati dell’applicazione della
legge degli stati membri; espressione di quel principio di leale collaborazione tra stati membri e
questi organismi per dare diretta attuazione al diritto dell’Unione.

mediatore europeo→ Figura introdotta dal trattato di M. (questa figura è paragonabile al difensore
civico a livello regionale); è nominato dal parlamento per la durata della legislatura con mandato
rinnovabile; è un organo di individui ed è dotato di indipendenza; a seguito delle modifiche
introdotte con il T. di L. spetta al parlamento europeo fissare lo statuto e le condizioni per
l’esecuzione delle funzioni del mediatore, deliberando mediante regolamenti secondo una
procedura legislativa speciale previo parere della commissione e approvazione del consiglio. Egli
riceve le denunce di qualsiasi cittadino dell’Unione o di qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda
o abbia sede in uno stato membro, relativamente ai casi di cattiva amministrazione nell’attività delle
istituzioni dell’Unione (ad es. → irregolarità amministrative, abuso di potere, discriminazione etc.)
Il mediatore non ha nulla a che vedere con la cattiva amministrazione degli stati membri, ma ha a
che fare con gli organi dell’UE→ dunque risultano escluse dalle sue competenze le indagini relative
agli organi nazionali e all’attività della Corte di giustizia e del Tribunale.
La denuncia va presentata entro due anni dalla data da cui un soggetto ha avuto conoscenza dei
fatti e si apre così un procedimento dinanzi al mediatore europeo nell’ambito del quale l’istituzione
cui la denuncia si rivolge può difendersi. All’esito della procedura il mediatore trasmette una
relazione al parlamento europeo e informa il denunciante dell’esito dell’istruttoria, tuttavia le sue
decisioni non hanno efficacia vincolante → quindi l’istituzione potrebbe adeguarsi come non
adeguarsi a questa decisione. Un soggetto dunque decide di rivolgersi al mediatore europeo in
quanto talvolta è l’unico modo per ottenere tutela in quanto i cittadini essendo considerati
ricorrenti “non privilegiati” devono dimostrare l’interesse ad agire, ad es. per chiedere
l’annullamento di un atto devono dimostrare l’interesse ad agire in un termine di 2 mesi + 10 giorni
→ termine ristretto rispetto e devono dimostrare inoltre di essere danneggiati direttamente da
quell’atto (non deve essere condizionato da un atto ulteriore, altrimenti sarà impugnabile l’atto
ulteriore) e questa non è una dimostrazione non agevole soprattutto per gli atti di contenuto
generale. Dunque, si è deciso di prevedere questo rimedio di carattere generale, che non prevede
termini e condizioni restrittive, ma resta un rimedio molto più debole, quindi un soggetto se vuole
rimuovere un atto dovrà comunque presentare un’azione giurisdizionale.

L’UNIONE ECONOMICA E MONETARIA (UEM)


Nel giugno del 1988 il Consiglio europeo di Hannover affidò ad un comitato presieduto da Jaques
Delors il mandato di realizzare lo sviluppo del progetto relativo alla realizzazione di un’unione
economica e monetaria; il cd. “Rapporto Delors” (che poi è stato recepito dal Trattato di Maastricht,
il quale ha sancito formalmente la nascita dell’unione economica e monetaria) prevedeva
l’istituzione dell’UEM articolandola in tre fasi distinte e progressive: la prima aveva per oggetto la
totale liberalizzazione della circolazione dei capitali; la seconda ha avuto inizio nel ‘94 avendo per
finalità principale di adeguare le istituzioni economiche degli stati membri sulla base dei parametri
di convergenza specificate dall'art. 121 CE; la terza, iniziata nel ‘99 prevedeva la sostituzione
dell'euro alle monete nazionali sulla base di tassi di cambio predefiniti→ con l’avvio di questa terza
fase, la politica monetaria è stata affidata alla Banca centrale europea e alcuni Stati membri hanno
deciso di adottare l’euro (inizialmente solo 11 Stati membri ora 19).
La Danimarca ed il Regno Unito beneficiano di uno status speciale sancito dai Protocolli allegati ai
trattati la cd. “clausola di opting-out” che attribuisce loro il diritto di non aderire al sistema della
moneta unica pure se in possesso dei requisiti per l’ammissione. Rientrano invece nello status di
stato membro con deroga quegli stati che non adottano la moneta unica e continuano ad utilizzare
la loro moneta perché non soddisfano le condizioni necessarie per l’ammissione (la loro situazione
viene riesaminata a cadenze regolari per verificare se sussistono i requisiti per abolire la deroga). La
politica economica e la politica monetaria, disciplinate dagli artt. 120 ss. TFUE, si configurano come
un sistema particolare per i suoi singolari meccanismi di funzionamento, per il suo apparato istituzionale
specifico, per i poteri previsti, tanto da apparire un sistema fortemente caratterizzato da connotati
federativi.
Si parla di UNIONE ECONOMICA E MONETARIA, ma in realtà l’UE dispone di competenze differenti:
1) una competenza complementare di coordinamento in relazione alla politica economica; 2) una
competenza esclusiva in relazione alla politica monetaria limitatamente agli stati la cui moneta è
l’euro. Il paradosso di questo sistema trova ragione nella riluttanza degli stati a cedere all’Unione
competenze in un settore da sempre ancorato alla sovranità degli stati; reticenza mitigata però dai
poteri conferiti alle istituzioni europee in altri settori che indirettamente riguardano la politica
economica: politica monetaria, regola di concorrenza, mercato interno, coesione economica e
sociale, agricoltura, ecc.
Dunque, data questa “mitigazione” è inevitabile che in concreto, per la politica economica, assumono
una posizione determinante le istituzioni dell’UE che rappresentano gli interessi degli stati: il
Consiglio europeo stabilisce gli orientamenti di fondo delle politiche economiche degli Stati
membri, mentre il Consiglio su raccomandazione della Commissione, elabora un progetto di
indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e, proprio per questo, è
previsto anche un sistema di sorveglianza che l’art. 121 TFUE definisce “meccanismo di
sorveglianza multilaterale” sul rispetto di queste indicazioni, che è affidato, almeno in prima
battuta a norma dell’art. 126 TFUE alla Commissione→ qualora la commissione ravvisasse un tale
rischio avvisa il consiglio che può accertare, in contraddittorio con lo stato membro, l’esistenza di un
disavanzo eccessivo e formulare raccomandazioni; se queste ultime sono disattese il consiglio può
imporre allo stato membro ogni misura necessaria per evitare il disavanzo e in caso di inottemperanza
può essere coinvolta anche la BEI e possono quindi essere imposte delle sanzioni che si traducono nel
rivedere la politica ad es. di prestiti verso lo Stato membro interessato o nell’inflizione di ammende, per
spingere lo Stato progressivamente ad adeguarsi.

I meccanismi di sorveglianza si sono rafforzati a seguito della crisi che ha colpito alcuni stati membri;
nel 2011 è stato adottato il “six pack” ossia quattro regolamenti ed una direttiva che hanno reso più
stringenti i meccanismi di sorveglianza ex ante ed ex post nonché le eventuali sanzioni per i disavanzi
eccessivi o per la crescita del debito pubblico.
Questo è stato un primo passaggio che, però, si è rilevato non sufficiente quando c’è stata la crisi
economica cd. sistemica che si è verificata nel 2011-2012 e si è deciso di fare degli ulteriori passi in
avanti che, in realtà, sono sorti al di fuori del sistema comunitario, attraverso degli accordi
internazionali sottoposti alla ratifica degli Stati membri, che però si intrecciano con i Trattati per
un’esigenza di coordinamento con l’ordinamento dell’UE. Si tratta del meccanismo europeo di
stabilità (MES) e del cd. Fiscal compact cioè “il patto di bilancio europeo per la realizzazione
dell’equilibrio del bilancio” → accordi che hanno portato ad una serie di modifiche negli Stati
membri (ad es. a livello costituzionale nel nostro Stato) che hanno finito così per conformarsi per
attribuire ulteriori competenze alle istituzioni dell’UE, attenuando alcune differenze tra la politica
economica e quella monetaria.
Nell’ambito di quest’ultima (politica monetaria) svolgono un ruolo centrale la BCE e il SEBC
(composto dalla BCE e dalle banche centrali degli stati membri; è diretto dagli organi decisionali
della BCE; il suo obiettivo è il mantenimento della stabilità dei prezzi; si distingue dall’ Eurosistema
che è formato invece dalle banche centrali degli stati membri la cui moneta è l’euro -distinzione
necessaria finché vi saranno stati membri che non adottano l’euro-). Alla BCE ed al SEBC gli stati
membri hanno devoluto le loro funzioni in materia monetaria, inoltre le crisi bancarie degli ultimi
anni hanno reso necessario estendere in capo alla BCE i poteri di “vigilanza prudenziale” e di
“gestione della crisi ex post” degli enti creditizi. Queste competenze devono essere inquadrate
nell’ambito del “sistema accentrato dell’Unione bancaria” fondato su tre pilastri: 1) meccanismo di
vigilanza unico; 2) meccanismo unico per la gestione delle crisi bancarie; 3) meccanismo europeo di
assicurazione dei depositi.

Da ciò si desume che, oltre a quella economica, si è cercato di rafforzare anche la politica
monetaria, in quanto nel periodo di crisi sistemica si era determinata di conseguenza anche una
crisi del sistema bancario che si è riflettuta inevitabilmente sull’economia, tanto è vero che sono
stati introdotti dei principi nuovi, prima con una comunicazione del 2013 e poi con una direttiva
del 2014, come il principio del bail-in “salvataggio interno” → si tratta di un principio che
prevede il coinvolgimento degli obbligazionisti, correntisti e azionisti nella risoluzione della crisi
delle banche ad eccezione dei depositanti fino a 100mila euro. Si tratta di una “condivisione degli
oneri” (burden sharing) con mezzi propri da parte delle banche nell’ambito di una prospettiva di
riduzione al minimo del sostegno pubblico. Anche se in realtà nel periodo della crisi sistemica, la
Commissione europea aveva autorizzato tutta una serie di aiuti di stato che normalmente
venivano considerati illegittimi, ma si trattava di una situazione emergenziale e temporanea che
fece maturare l’esigenza di autorizzare questi aiuti per evitare una reazione a catena di fallimenti
di banche. Finita la fase emergenziale, si è deciso di ritornare alla normalità e di essere piuttosto
severi nell’applicazione della normativa dell’UE e, in particolare, quella sugli aiuti di stato,
prevedendo di concederli alle banche soltanto in via eccezionale e soltanto dopo che ci sia stata
questa “condivisione degli oneri”.

Questo principio deve essere coordinato al “burden sharing” che consiste nella condivisione degli
oneri, all’interno delle Banche, da parte di azionisti, obbligazionisti ed anche correntisti,
nell’ipotesi di una crisi bancaria; si tratta di un principio che “anticipa” il principio del bail-in (che è
più rigoroso). Con la sentenza KOTNIK causa C-526 del 2014 la Corte di giustizia valuta la
compatibilità di questi principi con altri principi dell’Unione; la sentenza consegue ad un rinvio
pregiudiziale presentato dalla Corte Costituzionale della Slovenia alla Corte di Giustizia
sull’interpretazione di tre alcune normative dell’Unione.

Nel 2013 cinque banche della Slovenia ebbero problemi con il capitale di base e per evitare il
fallimento e l’effetto domino nel resto dell’Unione, la Slovenia il 17 dicembre 2013 chiede alla
Commissione di poter concedere gli aiuti alle banche in crisi, richiesta che viene accolta il giorno
dopo. Prima di concedere gli aiuti però la Slovenia aveva imposto alle banche di mettere in atto il
principio di condivisione degli oneri in virtù del fatto che aveva recepito (con legge nazionale) la
Comunicazione della Commissione europea del 2013 relativa agli strumenti previsti per
l’applicazione delle norme in materia di aiuti di stato nel contesto della crisi finanziaria; dunque le
banche tentarono prima di risanare il loro debito utilizzando il capitale di base e ricorrendo alle
obbligazioni subordinate.

Gli aiuti di Stato sono disciplinati dagli artt. 107, 108 e 109 TFUE, si tratta di finanziamenti che gli
Stati attribuiscono ad enti finanziari o alle imprese. Nell’UE vige il principio del divieto degli aiuti di
Stato, salvo particolari eccezioni perché questi creano uno sbilanciamento: favoriscono un istituto
rispetto ad un altro, cosa che potrebbe comportare una crisi nel sistema della concorrenza.
Un’eccezione è prevista all’art. 107.3 par. b → “gli aiuti devono essere compatibili con il mercato
interno” e lo sono se consentono la realizzazione di progetti o se pongono rimedio ad un grave
turbamento nell’economia dello Stato membro. Quando uno Stato avanza una richiesta di
concessione degli aiuti di Stato, la Commissione ha un termine massimo di due mesi per poter
valutare la proposta, potendola accettare oppure rifiutare dandone motivazione. In tale ultimo
caso, lo Stato può ricorrere al Consiglio dell’UE che ha tre mesi per valutare la proposta e per
rispondere e nel caso in cui non risponda, la proposta si ritiene rigettata. Nel caso di rigetto
espresso o tacito, quella stessa proposta non è più avanzabile, ma lo Stato potrebbe riformulare
una nuova e diversa proposta→ tutto questo meccanismo, previsto dalla disciplina generale, non
era stato preso in considerazione durante la crisi infatti dal 2007/2008 in poi, infatti la
Commissione aveva concesso molti aiuti senza richiedere, ad esempio, l’intervento degli
obbligazionisti nel risanamento, bastando il ricorso al capitale di base, cioè alle obbligazioni di
primo grado.

Vengono sollevate sette questioni pregiudiziali → tutte rigettate dalla Corte

1. La Comunicazione ha effetto vincolante per gli Stati? → la Corte dice no perché non è un
atto normativo dell’Unione. L’art. 107 del TFUE attribuisce la competenza in materia di
aiuti di Stato alla Commissione, che attua sulle proposte un controllo preventivo. Con
l’emanazione della Comunicazione, la Commissione si autolimita perché contiene le
richieste di base, la Commissione dice: “se tu segui quanto scritto in questa
Comunicazione, in linea di massima io non ti dirò di no”. Tuttavia, pur seguendo il
richiedente quanto scritto nella comunicazione, la Commissione può comunque non
accettare la proposta in quanto si tratta di un atto atipico con il quale fa conoscere prima
ai soggetti interessati quale sarà la sua posizione, anche ai fini della certezza del diritto: io
mi comporterò in un determinato modo e ve lo faccio sapere prima così sarete in grado di
conformarvi a quanto da me richiesto.
2. La Comunicazione è incompatibile con quanto previsto agli artt. 107-109 TFUE? → La base
di questa Comunicazione sta proprio nell’art. 107, co. 3, par. b cioè “il grave turbamento
dell’economia all’interno degli Stati”; per cui nella normativa generale viene in rilievo un
problema che è quello del rischio morale, se noi attribuissimo facilmente gli aiuti, un ente
di credito potrebbe decidere di fare operazioni azzardate che gli portano tanto guadagno,
tanto poi se vanno male chiede allo Stato di essere aiutato e se non ci fosse stata la
Comunicazione in questione, lo avrebbe fatto anche senza provvedere in anticipo a un
tentativo di risanamento→ si parla in tal caso del rischio dell’azzardo morale. Dunque, per
rispondere alla seconda questione, la Corte evidenzia come nella Comunicazione sono
dettate norme di comportamento non vincolanti, ma che servono agli Stati per garantirsi
preventivamente e ad evitare che le proposte presentate siano incompatibili con le finalità
dell’Unione nei settori economici, quindi quanto scritto nella Comunicazione non si può
considerare non compatibile con quanto scritto nei trattati.
3. La Comunicazione è incompatibile con il principio del legittimo affidamento? → Il principio
del legittimo affidamento è un principio cardine dell’Unione, che non è previsto
espressamente nei trattati, ed è correlato con il principio di certezza del diritto che,
nell’ambito dell’Unione si esplica con la trasparenza del funzionamento delle istituzioni che
si riversa nell’ambito degli Stati interni con la certezza nella metodologia di acquisizione
delle normative dell’Unione, quindi con gli atti dei Parlamenti, con la recezione delle
direttive, con l’attuazione dei regolamenti. Tutto ciò per evitare che i cittadini possano
incorrere nelle violazioni delle direttive senza essere stati messi al corrente o aiutati dagli
Stati, che sono intermediari. La Corte chiarisce che il principio non è stato violato dalla
Comunicazione, perché la Comunicazione non intende imporre nulla, né la Commissione e
né le altre Istituzioni hanno atto credere agli istituti di credito che agendo in un
determinato modo fossero garantiti.
4. E’ incompatibile con il diritto di proprietà ex art. 17 Carta dei diritti fondamentali? → LA
Corte dice no perché chi si assume il rischio di acquistare una azione o di contrarre una
obbligazione, sa bene che sta facendo una operazione finanziaria che comporta un rischio,
dunque chi in virtù della “condivisione degli oneri” si vede ridotto il proprio capitale e leso
nel suo diritto di proprietà.
5. L’onere degli azionisti (etc.) di partecipare al risanamento è strettamente necessario che
avvenga prima dell’attribuzione degli aiuti o si può assolvere in maniera più proporzionata?
→ La Corte dice che tale questione non si pone perché se la comunicazione ti dice “prima
dell’attribuzione degli aiuti di Stato”, tu devi fare tutto il possibile, dopo di che se tu lo fai,
ti do gli aiuti di Stato, se non lo fai io te lo potrei negare. Comunque, al di là di questo
principio fondamentale secondo cui prima devono intervenire i soggetti della banca e poi
eventualmente lo Stato con risorse pubbliche, in linea eccezionale possono essere
utilizzate modalità diverse, ad es. la Commissione, per delle esigenze di interesse generale,
può autorizzare soluzioni differenti. Quindi, questa è la soluzione evidentemente
privilegiata, e ce lo dice nella Comunicazione (e poi questo principio sarà trasfuso nel bail-
in previsto espressamente in una direttiva, che è un atto vincolante).
6. Le altre due questioni (a detta del prof. non sono rilevanti ai fini dell’argomento trattato).

CASO BANCA TERCAS

L banca Tercas ha ricevuto un aiuto da un fondo interbancario tra privati, la Commissione


europea però ha ritenuto tale operazione in contrato con l’art. 107 TFUE, sostenendo che ci fosse
stata un’influenza determinante dello Stato che avrebbe imposto ai privati di concedere
quell’aiuto alla banca. Questa posizione della Commissione ha poi condizionato lo Stato italiano
nella gestione della crisi bancaria tanto è vero che scelse altre soluzioni per salvare la banca. Poi
venne fatto ricorso da parte di diversi soggetti privati, ai quali il Tribunale ha dato ragione
ribaltando la posizione della Commissione europea ed evidenziando che non c’era stata
un’influenza determinante dello Stato, ma che si trattasse di un intervento autonomo di un fondo
tra privati. Questa decisione che tra l’altro dimostra l’indipendenza del Tribunale rispetto alla
decisione della Commissione, apre tutta una serie di questioni: tutta una serie di soggetti hanno
chiesto il risarcimento dei danni; la Commissione presenta ricorso alla Corte di Giustizia; poi pone
il problema delle intese restrittive della concorrenza , ci si chiede quale sia la convenienza
economica delle imprese bancarie che sostengono un’impresa concorrente in difficoltà che, poi, se
ritorna alla normalità riprenderà a fare concorrenza alle imprese che l’hanno aiutata.

Nel caso Tercas sono due gli elementi oggetto di analisi da parte di Commissione e Tribunale: 1)
l’imputabilità allo stato di una misura di soggetti privati; 2) il trasferimento della stessa mediante
risorse statali. Dunque, si pone il problema: “la scelta da chi dipendeva, dallo Stato o dai privati?”.
Il Tribunale ha constatato che non ci sono prove, ma ha evidenziato alcuni elementi che
riconducono alla scelta dei privati, per esempio la convenienza economica dell’operazione.
Mentre l’intervento della Banca d’Italia che interviene sempre per la vigilanza prudenziale del
credito, è stato formale. Noi non lo sappiamo con certezza, può darsi che una certa influenza ci sia
stata, però dai fatti di causa non emerge in maniera evidente, almeno al momento. Poi la Corte di
Giustizia potrà ribaltare la sentenza, ma l’impugnazione può avvenire per motivi di diritto, i fatti si
sono già cristallizzati. Cosa più difficile è ottenere il risarcimento dei danni dalla Commissione,
perché non basta la semplice illegittimità del comportamento della Istituzione, ma è necessario
dimostrare il danno subito. Una cosa è l’accertamento dell’illegittimità, altra cosa è la
dimostrazione del danno. Poi, non è facile dimostrare il nesso di causalità. Però già tutte le banche
e anche il presidente dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana) hanno fatto delle dichiarazioni nel
senso di azioni risarcitorie. E’ una questione aperta, molto delicata e importante.

LA BANCA CENTRALE EUROPEA

E’ un’istituzione a pieno titolo (a partire dal T. di Lisbona) entrata in funzione nella terza fase
dell’UEM. E’ dotata di personalità giuridica ed è caratterizzata da un'assoluta indipendenza (sia
perché deve preservare le sue decisioni dalle influenze esterne sia perché svolge operazioni dal
carattere strettamente tecnico), con competenze consultive anche normative. La sua funzione
normativa ha sempre costituito un punto un po’ nevralgico perché non consente di soddisfare il
principio di democrazia, in quanto è vero che sono previste delle forme di comunicazione, dei
rapporti con altre istituzioni, degli obblighi di trasmettere tutta una serie di relazioni (ad es. al
Parlamento europeo), però non vi è un vero e proprio controllo né da parte del Parlamento
europeo né da parte delle altre istituzioni, perché si ritiene che sia un valore fondamentale, quello
di mantenere l’autonomia della Banca centrale europea.
E’ composta da:
• Comitato esecutivo→ responsabile della preparazione delle riunioni del Consiglio direttivo e
degli affari correnti della banca, attua la politica monetaria secondo gli indirizzi del Consiglio
direttivo; è composto dal presidente, dal vicepresidente e da quattro altri membri nominati
dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata, su raccomandazione del Consiglio per
previa consultazione del Parlamento e del Consiglio direttivo della BCE per una durata di otto
anni e non sono rinnovabili. Sono scelti dai cittadini degli stati membri di riconosciuta
levatura ed esperienza professionale nel settore monetario e bancario.
• il Consiglio direttivo, composto da membri del Comitato esecutivo della BCE e dai
governatori delle banche centrali degli stati membri la cui moneta è l'euro, è il principale
organo decisionale; ogni membro dispone di un voto, le decisioni sono prese a maggioranza
semplice.
• Terzo organo decisionale della BCE è il Consiglio generale, comprendente il presidente e il
vicepresidente della BCE e i governatori delle banche centrali nazionali→ Può presentare
osservazioni prima che il Consiglio direttivo adotti gli atti di sua competenza.
Per l'assolvimento dei propri compiti, la BCE dispone di un autonomo potere normativo: stabilisce
regolamenti, prende decisioni, formula raccomandazioni e pareri. Tali atti hanno il medesimo valore
di quelli contemplati nell'art. 288 TFUE e ad essi si applicano le stesse disposizioni di cui agli artt.
296 ss TFUE: i suoi atti vincolanti sono sottoposti al controllo giudiziario della Corte di giustizia e
possono formare oggetto di ricorso in annullamento o di un rinvio pregiudiziale e i suoi
comportamenti omissivi del ricorso e in carenza.
Ha il diritto esclusivo di autorizzare l'emissione di banconote in euro all'interno dell'Unione e
inoltre viene consultata dalle istituzioni in merito ad ogni proposta di atto dell'Unione che rientra
nelle sue competenze, nonché dalle autorità nazionali sui progetti di disposizioni legislative
rientranti nelle sue competenze, nei limiti e condizioni stabilite dal Consiglio, può formulare di sua
iniziativa pareri che sottopone alle istituzioni o alle autorità nazionali; è consultata nella procedura
di revisione dei Trattati quando essa comporti modifiche istituzionali nel settore monetario. In
tema di responsabilità risarcitoria, per i danni causati dalle altre istituzioni o dagli agenti
dell’Unione nell’esercizio delle loro funzioni, la responsabilità è dell’Unione; mentre la
responsabilità per i danni causati dalla Banca centrale europea è direttamente di questa→ ciò ci
dimostra, appunto, che ci sono delle differenze di questa istituzione rispetto ad altre istituzioni.

ALTRI ORGANI DELL’UEM


Comitato economico e finanziario→ composto da un massimo di sei membri designati per 1/3
dagli stati membri, per 1/3 dalla commissione e per 1/3 dalla BCE, svolge le funzioni un tempo
attribuite al comitato monetario.
Ecofin→ si tratta del “consiglio economia e finanza” che riunisce i ministri delle finanze di tutti gli
stati membri ed è chiamato ad assumere decisioni in relazione alla fissazione dei tassi di cambio
dell’euro rispetto alle altre monete nel rispetto della stabilità dei prezzi.
Eurogruppo→ riunione dei ministri dell’economia e delle finanze dell’eurozona, si tratta di un
organo consultivo che si riunisce periodicamente per affrontare le questioni relative al regolare
funzionamento della zona euro e dell’UEM.
SEBC.
Eurosistema.

CAPITOLO IV: LE PROCEDURE NORMATIVE


All’inizio gran parte degli atti erano adottati esclusivamente dal Consiglio perché gli Stati volevano
mantenere un proprio potere, c’era dunque un operare sostanzialmente intergovernativo. Poi si è
accresciuto progressivamente l’apporto del parlamento sulla base dell’idea che il progresso
nell’integrazione non può che andare par passo con una più accentuata partecipazione dei
cittadini alla formazione delle norme.
Prima delle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona avevamo:
• la procedura consultiva → l'atto viene adottato dal Consiglio su proposta della
Commissione previo parere del Parlamento: parere obbligatorio ma non vincolante nel
senso che il Consiglio può disattenderlo ma deve comunque richiederlo e attendere la sua
emanazione. L'atto adottato dal Consiglio senza attendere tale parere costituisce
violazione delle norme sostanziali e può essere annullato in quanto la partecipazione del
Parlamento al processo legislativo è necessaria per garantire il rispetto degli equilibri
istituzionali e costituisce espressione di un fondamentale principio di democrazia. Se il
Parlamento non esprime il parere richiesto in un termine ragionevole, violando così il suo
dovere di leale cooperazione con il Consiglio, non può opporre a quest'ultimo di non aver
atteso il suo parere, e l'atto può dunque essere validamente adottato. Quando la proposta
iniziale è modificata dalla Commissione o quando modifiche sostanziali sono apportate dal
Consiglio al testo proposto dalla Commissione, salvo che tali modifiche corrispondono
sostanzialmente al parere espresso dal Parlamento, il Consiglio ha l'obbligo di procedere ad
una nuova consultazione del Parlamento.
• la procedura di cooperazione (oggi abbandonata)→ introdotta dall’atto unico europeo, ha
rappresentato il primo tentativo per coinvolgere più attivamente il Parlamento europeo in
quanto la proposta della Commissione veniva trasmessa al Consiglio che esprimeva la sua
posizione e poi al Parlamento che se non la avesse approvata, avrebbe potuto apportare gli
emendamenti sui quali si pronunciava la Commissione. Questi venivano riesaminati in
seconda lettura dal Consiglio che poteva decidere in via definitiva, approvando con
maggioranza qualificata gli emendamenti oppure adottando ugualmente la precedente
formulazione ma in tal caso era necessaria l’unanimità.
• la procedura di codecisione che da un lato prevedeva una collaborazione effettiva da parte
di Consiglio e Parlamento il quale aveva un ruolo di compartecipazione nell’adozione
dell’atto, dall’altro aveva ridotto il potere della Commissione di mediare tra la posizione del
Parlamento e del Consiglio, cosa che effettivamente faceva nell’ambito della procedura di
cooperazione. Oggi questa procedura è ripresa sostanzialmente nella procedura legislativa
ordinaria dove non c’è un mero passaggio di un atto da un’istituzione ad un’altra, ma le
istituzioni dialogano tra loro ed è questo il motivo che può portare ad esempio la
Commissione a modificare la sua proposta, una modifica sulla base di un dialogo che c’è
stato tra le istituzioni (dialogo che nella maggior parte dei casi c’è a monte).
• la procedura del parere conforme nell’ambito della quale il parlamento deve rendere un
parere sull’intero atto, quindi non c’è la possibilità di intervenire su particolari profili come
nella procedura di codecisione, ma c’è un vero e proprio potere di veto.

Il Trattato di Lisbona ha introdotto significative novità circa la procedura di formazione degli atti
modifica la procedura di formazione degli atti, prevedendo una procedura legislativa ordinaria e
altre speciali in cui confluiscono sostanzialmente tutte quelle procedure che non vedono, al pari di
quella ordinaria, un ruolo paritetico tra Consiglio e Parlamento nella formazione dell’atto. L’utilizzo
di una procedura legislativa (ordinaria e speciale) porta all’adozione di atti che il Trattato oggi
definisce legislativi, poi ci sono gli atti non legislativi che non sono adottati a seguito di una
procedura legislativa, ma sono adottati dall’istituzione che ne ha la competenza alla luce della
base giuridica dell’atto. La procedura seguita per l'adozione degli atti normativi non influisce sul
loro valore formale e non determina una scala gerarchica tra atti legislativi e altri atti adottati dalle
istituzioni al di fuori di tale procedura: tutti gli atti normativi derivati hanno medesima forza
giuridica indipendentemente dall'autorità che emana.
Dunque il Trattato di Lisbona non introduce una fonte nuova nel sistema giuridico dell'Unione dal
momento che la natura e gli effetti degli atti rimangono identici (il nome degli atti che è possibile
adottare è rimasto lo stesso: regolamenti, direttive e decisioni, raccomandazioni), infatti l’art. 288
TFUE, nell’elencare gli atti normativi dell’Unione, precisa la loro efficacia senza distinguere quanto
all’istituzione che li emana o al procedimento seguito per la loro adozione.

IL POTERE DI INIZIATIVA
L’adozione degli atti legislativi ai sensi dell’art. 17 par.2 TUE avviene su proposta della
Commissione tranne nei casi in cui i Trattati stabiliscono diversamente; in talune ipotesi gli atti
legislativi possono essere adottati su iniziativa di un gruppo di Stati membri, del Parlamento
europeo, su raccomandazione della BCE, su richiesta della Corte di giustizia o della BEI (289 par.4
TFUE). Gli atti non legislativi possono essere adottati invece su proposta della Commissione solo se
i trattati lo prevedono, ma la regola vuole che siano adottati su iniziativa dell’istituzione che ne ha
la competenza alla luce della base giuridica dell’atto. Nel settore della PESC è l’Alto
rappresentante ad essere titolare del potere di iniziativa, mentre per l’assolvimento dei compiti
del Sistema europeo delle banche centrali gli atti sono adottati direttamente dalla BCE.
Un potere di pre-iniziativa (possono sollecitare la Commissione ad effettuare una proposta) è
riconosciuto:
• al parlamento europeo che delibera a maggioranza dei membri che lo compongono (art.
225 TFUE)
• ad un milione di cittadini che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati
membri (ART. 11 par. 4 TFUE) cioè non possono essere un milione di cittadini italiani, né
un milioni di cittadini italiani francesi e tedeschi, ma devono essere rappresentativi in
qualche modo di tutti gli Stati membri, cioè un numero minimo di voti deve essere
raggiunto nei vari Stati membri.
• dal Consiglio o da uno stato membro per taluni aspetti di politica economica e monetaria
(art. 135 TFUE).
La commissione non è vincolata da queste richieste in quanto spetterà alla stessa decidere
se presentare o meno questa proposta di atto legislativo ed eventualmente deciderne il
contenuto, l’oggetto e le finalità; nel caso in cui decida di non presentarla al legislatore
dell’Unione, deve motivare la sua decisione.
Sussiste, dunque, un quasi monopolio dell’iniziativa legislativa della Commissione che è
giustificato: 1) dall’esigenza di promuovere l’interesse generale dell’Unione e 2) dall’indipendenza
di cui essa gode nell’esercizio delle sue responsabilità.
La Commissione può modificare la proposta finché l’atto non sia definitivamente adottato, mentre
il Consiglio può emendare la proposta ma è necessaria l’unanimità e non può alterarne la sostanza
(293 TFUE). La Commissione può ritirare la proposta nell’ipotesi in cui non raggiunga un accordo
con il consiglio o qualora ritenga non sia più attuale, ha invece il diritto di ritirarla quando un
emendamento prospettato dal consiglio snatura la proposta; quando ritira la proposta deve
motivare le ragioni di tale ritiro→ quest’obbligo consente un sindacato giurisdizionale che può
esercitarsi con un ricorso in annullamento avverso la decisione di ritiro; l’esperibilità di questa
azione è giustificata dal fatto che la decisione di ritiro mette fine al procedimento legislativo
iniziato con la presentazione della proposta, impedendo al Consiglio ed al Parlamento di esercitare
la loro funzione legislativa.
LA PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA
La procedura legislativa ordinaria, disciplinata dall’art. 294 TFUE, consiste nell'adozione congiunta
di un atto normativo dell'Unione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio. Essa inizia con
la presentazione della proposta della Commissione tanto al Parlamento europeo che al Consiglio al
fine di consentirne un esame parallelo (prima lettura) da parte delle istituzioni. Tuttavia il primo
progetto dell'atto legislativo conseguente alla proposta della Commissione proviene dal
Parlamento il quale è chiamato ad adottare la sua posizione ed a trasmettere al Consiglio: questi o
approva la posizione del Parlamento – e allora l’atto è definitivamente adottato - oppure non la
approva e adotta la sua posizione rispetto al Parlamento. Inizia così la fase della seconda lettura→
Entro tre mesi da tale comunicazione, il Parlamento:
a) approva la posizione del Consiglio oppure non si pronuncia in tale termine → e allora l'atto
è adottato nel testo formulato dal Consiglio;
b) respinge tale posizione maggioranza dei suoi membri → e allora l'atto non viene adottato
(in questo caso dunque il Parlamento ha il potere di bloccare definitivamente l’adozione
dell’atto);
c) propone emendamenti alla posizione del Consiglio, sempre nella stessa maggioranza, e
comunica il testo al Consiglio e alla Commissione la quale formula un parere (positivo o
negativo) in proposito.
Se entro tre mesi dal ricevimento di tale comunicazione il Consiglio approva a maggioranza
qualificata tutti gli emendamenti del Parlamento, l'atto è adottato; è richiesta l’unanimità se la
commissione abbia espresso un parere negativo sugli emendamenti del parlamento.
Se invece non li approva, il presidente del Consiglio d'intesa con il presidente del Parlamento
convoca entro sei settimane il Comitato di conciliazione composto da un numero pari di membri
delle due istituzioni e con la partecipazione ai lavori anche della commissione; il consiglio ha il
compito di trovare un accordo su un progetto comune avendo sei settimane di tempo per
pronunciarsi, decorse le quali: se concorda un progetto comune, Consiglio e Parlamento (terza
lettura) hanno ulteriori sei settimane per adottarlo, il primo a maggioranza qualificata e il secondo
a maggioranza assoluta dei voti espressi. In mancanza di approvazione da parte di una delle due
istituzioni entro tale termine, l'atto non viene adottato.
Se il Comitato non riesce ad approvare un progetto comune, l'atto si considera non adottato e la
procedura termina definitivamente.
Quando la procedura legislativa ordinaria è svolta su iniziativa di un gruppo di Stati membri o su
raccomandazione della BCE o su richiesta della corte di giustizia, Parlamento e Consiglio
trasmettono alla Commissione il progetto di atto insieme alle loro posizioni in prima e seconda
lettura in quanto quest'ultima può essere richiesta di un parere o può formularlo di sua iniziativa e
anche partecipare, se lo reputa necessario, al Comitato di conciliazione.

LE PROCEDURE LEGISLATIVE SPECIALI


In alcuni casi specifici gli atti legislativi dell'Unione possono essere adottati secondo una procedura
legislativa speciale→ l'adozione del regolamento, della direttiva o di una decisione avviene da
parte del Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio o da parte di quest'ultimo con la
partecipazione del Parlamento europeo (art. 289 TFUE).
La specialità deriva dal fatto che si crea un disequilibrio tra i due rami del potere legislativo a
favore di uno dei due: in realtà nella maggior parte dei casi a favore del Consiglio che esercita il
vero potere decisionale, mentre il Parlamento si limita ad esprimere un parere. Soltanto in tre casi
l’adozione dell’atto è attribuita al Parlamento con la partecipazione del consiglio: approvazione del
proprio statuto; fissazione delle modalità di es. del diritto di inchiesta; adozione dello statuto per
l’es. delle funzioni del Mediatore europeo.
Un altro aspetto speciale è che spesso il Consiglio, a differenza della procedura legislativa ordinaria
dove delibera maggioranza qualificata, delibera all'unanimità.
Il parere del Parlamento deve essere obbligatoriamente richiesto dal Consiglio prima di assumere
la propria decisione pur non essendo vincolato a conformarsi ad esso; tuttavia non può limitarsi a
richiederlo ma deve attendere l'emanazione in modo da poterne effettivamente tener conto
nell'adozione dell'atto, pena la sua illegittimità per violazione delle forme sostanziali a meno che il
Parlamento non ritardi eccessivamente l'emanazione del parere che, se deve essere
obbligatoriamente richiesto, deve anche essere obbligatoriamente rilasciato in un termine
ragionevole. Tale procedura, che ricalca quella consultiva, è utilizzata ad esempio in materia di
stipulazione di accordi internazionali da parte dell'Unione; per l'adozione di misure relative alla
sicurezza sociale dei cittadini europei; per la nomina del Comitato esecutivo della BCE, per
disposizioni in materia di armonizzazione fiscale.
Anche la procedura del parere conforme, ora denominata “previa approvazione del Parlamento
europeo” è prevista dal Trattato di Lisbona sempre nell'ambito di una procedura legislativa
speciale e viene utilizzata in materia di accordi internazionali: per la conclusione degli accordi di
associazione, del futuro accordo di adesione all'Unione e alla convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo, degli accordi che creano un quadro istituzionale specifico
organizzando procedure di cooperazione, di accordi che hanno ripercussioni finanziarie
considerevoli per l’Unione, di accordi che riguardano settori ai quali si applica la procedura
legislativa ordinaria o speciale. L'approvazione del Parlamento viene prevista anche per i
procedimenti come per esempio attivazione della clausola di flessibilità; autorizzazione a
procedere ad una cooperazione rafforzata; ammissione di nuovi membri; recesso dall'Unione.

Le procedure legislative speciali possono essere sostituite dalla procedura legislativa ordinaria per
l’adozione di un atto legislativo a seguito di una decisione unanime del Consiglio europeo in tal
senso e previa approvazione del parlamento europeo : in questo caso, l’iniziativa presa dal
Consiglio europeo deve essere trasmessa ai parlamenti nazionali; in caso di opposizione anche di
un solo parlamento nazionale, tale decisione non può essere adottata (si tratta delle passerelle tra
le procedure speciali e quella ordinaria).

Accanto alle procedure legislative speciali di adozione degli atti il TFUE prevede diversi
procedimenti decisionali che si differenziano tra loro a seconda del ruolo svolto dal parlamento o
dal consiglio; o delle regole di votazione del consiglio oppure per la prescrizione di consultare
organi ausiliari. La scelta di questi procedimenti non è casuale dovendosi rispettare quanto la
disposizione normativa sulla cui base l’atto in questione va adottato, indica di volta in volta in
merito alla procedura da utilizzare. I trattati disciplinano anche l’ipotesi che l’atto di base preveda
l’adozione di una normativa integrativa o di esecuzione della commissione o del consiglio, per
l’adozione di questi atti successivi si può seguire una procedura semplificata → il legislatore delega
la commissione il potere di integrare o modificare elementi non essenziali dell’atto nell’ottica
dell’alleggerimento dell’attività legislativa. Ci sono poi alcune disposizioni che escludono la
partecipazione del PE all’adozione di un atto da parte del consiglio: in materia di misure di
attuazione del mercato interno; misure in materia di agricoltura e pesca; politica economica→ in
tali circostanze comunque il consiglio potrebbe richiedere il parere del parlamento, in tale ipotesi
si tratta di una mera facoltà che se non esperita non inficia l’atto.

LA PROCEDURA DI APPROVAZIONE DEL BILANCIO


Con il Trattato di Lisbona viene semplificata la procedura per l’approvazione del bilancio: questo è
ora stabilito dal Parlamento europeo e dal Consiglio secondo una procedura legislativa speciale. In
secondo luogo, viene abolita la distinzione tra spese obbligatorie e spese non obbligatorie, dunque
le due autorità di bilancio sono poste oggi sullo stesso piano e concorrono entrambe alla
determinazione dell'insieme delle spese. Le entrate iscritte a bilancio sono costituite da risorse
proprie che hanno sostituito a partire dal ‘71 i contributi volontari versati degli Stati membri,
conferendo così all'Unione un'autonomia finanziaria totale. Tali risorse sono costituite soprattutto
dai dazi doganali percepiti sulle importazioni in base alla tariffa esterna comune; nei prelievi
agricoli sullo scambio dei prodotti agricoli con paesi terzi nel quadro dell'organizzazione comune
dei mercati; dalle imposte sul trattamento dei funzionari dell'Unione, dalle ammende inflitte alle
imprese nell'ambito della politica della concorrenza, da penalità o somme forfettarie dovute dagli
Stati. L'entrata certamente più rilevante è costituita da una percentuale d'aliquota IVA calcolata su
base imponibile determinata in modo uniforme secondo regole europee. Una quarta risorse è
percepita sotto forma di contributo calcolato sulla base del PNL di ciascuno Stato membro e
determinato nel quadro della procedura di bilancio.
La formazione del bilancio è regolata soprattutto dagli artt. 310-324 TFUE e da vari accordi
interistituzionali fra Parlamento europeo e Consiglio. L'esercizio finanziario va dal 1 gennaio al 31
dicembre. Il bilancio annuale deve rispettare il quadro finanziario pluriennale stabilito per almeno
cinque anni e volto ad assicurare l'ordinario andamento delle spese dell'Unione entro i limiti delle
risorse proprie (tale quadro pluriennale è determinato con regolamento del Consiglio che delibera
all'unanimità previa approvazione del Parlamento a maggioranza dei suoi membri).

Procedura di adozione→ La Commissione redige un progetto preliminare di bilancio che presenta


al Parlamento europeo e al Consiglio entro il 1 settembre dell'anno precedente quello di
esecuzione del bilancio. Il Consiglio adotta la sua decisione sul progetto di bilancio e la comunica al
Parlamento. Il Parlamento europeo ha a disposizione 42 giorni di tempo dalla comunicazione del
progetto di bilancio per pronunciarsi in merito: 1) se approva la posizione del Consiglio o non ha
deliberato, il bilancio si considera adottato; 2) può apportare a maggioranza dei membri che lo
compongono, degli emendamenti→ il progetto così emendato viene trasmesso al Consiglio e alla
Commissione dopo di che se il Consiglio entro 10 giorni dalla trasmissione non approva tutti gli
emendamenti, viene convocato senza indugio dal presidente del parlamento d'intesa con il
presidente del Consiglio un Comitato di conciliazione con il compito di trovare un accordo su un
progetto comune entro il termine di 21 giorni. Se l'accordo viene raggiunto in seno al Comitato,
Parlamento e Consiglio dispongono di 14 giorni per approvare il progetto comune. In caso
contrario, il progetto si considera respinto e la Commissione deve presentare un nuovo progetto di
bilancio.
Il bilancio si considera adottato: 1) se le due istituzioni approvano il progetto comune o non
riescono a deliberare 2) o se una delle due approva il progetto mentre l'altra non riesce a
deliberare; 3) se il Parlamento approva il progetto comune, mentre il Consiglio respinge, ma il
primo decida a maggioranza dei suoi membri e dei tre quinti dei voti espressi di confermare tutti
gli emendamenti a suo tempo presentati o parte di essi.
Una volta che il bilancio sia definitivamente adottato, spetta formalmente al presidente del
Parlamento constatare tale adozione. Ogni volta che la procedura fallisce e il bilancio non viene
adottato in tempo utile la Commissione deve attivarsi per farla ripartire; nel frattempo si
applicherà il regime dei dodicesimi provvisori cioè le spese effettuate mensilmente non possono
superare 1/12 dei crediti aperti nel bilancio dell'esercizio precedente.
L'esecuzione di spese iscritte nel bilancio richiede l'adozione di un atto giuridicamente vincolante
dell'Unione che dà fondamento giuridico alla situazione. La responsabilità di curare l'esecuzione
del bilancio incombe sulla Commissione in cooperazione con gli Stati membri. Mentre il
Parlamento, su raccomandazione del Consiglio, da atto alla Commissione dell'esecuzione del
bilancio (decisione di discarico o di scarico).

LA PROCEDURA PER LA CONCLUSIONE DI ACCORDI INTERNAZIONALI


L’Unione ha personalità giuridica (art. 47 TFUE) e ciò significa che ha una sua autonomia rispetto
agli stati membri, cosa che sul piano esterno si traduce nella capacità di stipulare accordi con stati
terzi e con le altre organizzazioni internazionali, dunque ha una competenza normativa anche
esterna. Per la conclusione degli accordi internazionali in passato si faceva riferimento al principio
di attribuzione, dunque l’Unione era competente a concludere accordi solo nelle materie
espressamente previste: si pensi agli artt. 206 e ss. TFUE che attribuiscono all’Unione il potere di
stipulare accordi tariffari e commerciali nel contesto delle competenze relative alla politica
commerciale comune (c. esclusiva); oppure si pensi all’art. 217 TFUE in materia di accordi di
associazione con uno o più stati terzi o con organizzazioni internazionali.
La Corte di Giustizia è riuscita ad andare oltre tale principio, essa ha ampliato le competenze
dell’Unione a stipulare accordi internazionali, sancendo nella famosa sentenza AETS il principio del
parallelismo delle competenze, secondo il quale anche al di là delle competenze espressamente
previste dai trattati, c’è la possibilità di stipulare un accordo internazionale tutte le volte in cui la
Comunità abbia già adottato sul piano interno delle norme comuni. In questo caso la competenza
dell’Unione a concludere accordi internazionali diventava esclusiva perché visto che sul piano
interno aveva già adottato un atto di diritto derivato, per motivi di coerenza doveva essere la
stessa a concludere l’accordo internazionale. Se la competenza fosse invece rimasta agli Stati
membri ci sarebbe stato il rischio che gli stessi adottassero dei singoli accordi internazionali
incoerenti rispetto al “diritto interno” (cioè dell’unione). Quindi, secondo questa giurisprudenza,
se l’Unione ha già adottato un atto in un particolare settore, a questa spetta la competenza ad
adottare, in quella materia (già sviluppata sul piano interno), anche un accordo internazionale, per
motivi di unitarietà della disciplina e di coerenza. Ciò include la possibilità di adottare accordi
internazionali anche in tutti quei casi in cui c’è stato un esercizio dei cosiddetti poteri impliciti.
Questa giurisprudenza si evolve poi con la Sentenza Kramer nella quale la Corte di giustizia arriva a
dire che, affinché vi sia una competenza dell’Unione europea a stipulare un accordo
internazionale, non è necessario che ci sia già stato l’esercizio della competenza interna attraverso
un atto interno, ma è sufficiente che vi sia un’attribuzione alle istituzioni di poteri normativi sul
piano interno → quindi gli accordi internazionali secondo questa giurisprudenza possono essere
adottati anche prima dell’effettiva adozione dell’atto interno. Questa pronuncia è stata
considerata però un po’ troppo forte, perché è come se gli Stati fossero spogliati della possibilità di
stipulare accordi internazionali anche prima dell’effettiva esigenza dell’unitarietà; allora la Corte è
tornata sui suoi passi (e lo ha fatto nella s. “Commissione contro Danimarca”) stabilendo che
affinchè tale competenza sussistesse fosse sufficiente (come già in precedenza aveva stabilito) che
il diritto comunitario avesse affidato alle istituzioni europee poteri normativi sul piano interno, ma
in più il loro esercizio doveva venire in rilievo prima o quantomeno contemporaneamente alla
stipula dell’accordo sempre che fosse necessaria per realizzare uno scopo previsto dai trattati.
Attualmente il potere di stipulare accordi si estende ben oltre l’attuazione delle azioni
formalmente incluse nella politica esterna: anche in assenza di un’espressa attribuzione l’Unione
può stipulare accordi se ciò è necessario per realizzare un obiettivo fissato dai Trattati o da atti
vincolanti o qualora possa incidere su norme comuni o alterarne la portata → questo è il
contenuto dell’art. 216 TFUE che ha codificato il principio del parallelismo tra competenza interna
ed esterna.

Quanto alla natura della competenza esterna, questa “riflette” quella attribuita all’Unione sul
piano interno, dunque è esclusiva quando gli accordi riguardino materie su cui esercita la
competenza interna esclusiva, mentre nelle materie di competenza concorrente anche il potere
dell'Unione di concludere accordi internazionali è condiviso con quello degli Stati membri.
Ciò significa che l’art. 3 par. 2 TFUE ( “l’Unione ha competenza esclusiva per la conclusione di
accordi internazionali allorchè tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione o è
necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui
può incidere su norme comuni o modificarne la portata”) non riconosce una generale competenza
esclusiva all’Unione nella conclusione degli accordi internazionali, ma va letto in combinato
disposto con le altre disposizioni dei trattati e alla luce di questa lettura va stabilita la natura della
competenza. Dunque, nei settori di competenza esclusiva gli stati membri potranno stipulare
accordi internazionali soltanto previa autorizzazione da parte dell’Unione come nell’ipotesi in cui
l’accordo sia aperto soltanto agli stati, in tal caso l’autorizzazione la conferisce il Consiglio con una
decisione ( si pensi alla decisione del 2002 con la quale autorizza gli stati membri a firmare la
convenzione dell’Aja in materia di potestà genitoriale e di misure di protezione dei minori) e tale
accordo produrrà formalmente effetti giuridici a carico degli stati. Nei settori di competenza
concorrente, l’esercizio della competenza da parte dell’Unione sul piano interno, finisce per
affievolire il potere degli stati anche sul piano esterno e in tale prospettiva si colloca il par.2
dell’art. 3 nella parte in cui stabilisce che la competenza dell’Unione, per la conclusione di accordi
internazionali, è esclusiva nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la
portata→ l’esercizio da parte dell’Unione del suo potere normativo in una materia di competenza
concorrente comporta una corrispondente riduzione della competenza degli Stati membri ad
assumere obblighi sul piano internazionale nelle stesse materie, e quindi trasforma la competenza
dell’Unione da concorrente in esclusiva, almeno quando la conclusione di accordi internazionali
può incidere su norme comuni o modificarne la portata. Invece, nel caso in cui la materia oggetto
dell’accordo internazionale rientra nell’ambito di una competenza concorrente e l’Ue non sia
intervenuta, la legittimazione a stipulare l’accordo è ripartita tra Unione e Stati membri e si
concluderanno in tal caso accordi cd. “misti”.
La procedura di conclusione degli accordi internazionali è disciplinata dall’art. 218 TFUE→ La
Commissione (o l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri se in materia PESC) rivolge al
Consiglio una raccomandazione con la quale chiede l'autorizzazione ad aprire negoziati. Il Consiglio
adotta a maggioranza qualificata la decisione che autorizza l'avvio dei negoziati accompagnandola
dalla designazione del negoziatore e dalla indicazione delle direttive da seguire per il loro
svolgimento. Una volta concordato il progetto del testo dell'accordo, il negoziatore lo sottopone al
Consiglio che adotta una decisione per autorizzarne la firma. Successivamente il Consiglio adotta
una decisione relativa alla conclusione dell'accordo e notifica alla controparte che sono terminate
le formalità prescritte per l'entrata in vigore dell'accordo: questo atto contiene di solito anche le
modalità di esecuzione dell'accordo (la conclusione definitiva si ha con il deposito dell'atto di
approvazione).
Il Consiglio di regola delibera a maggioranza qualificata, l'unanimità è richiesta quando si tratti di
accordi riguardanti il settore per il quale è richiesta l'unanimità per l'adozione di un atto
dell'Unione sul piano interno, di accordi di associazione, dell'accordo di adesione dell'Unione alla
convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, di accordi di cooperazione con Stati
candidati alla gestione, di accordi sui tassi di cambio dell'euro nei confronti di valute dei paesi
terzi.
Par. 6 art. 218→ Tranne quando l’accordo riguarda esclusivamente la PESC (caso in cui non
è necessaria nè l’approvazione né la consultazione del Parlamento il quale deve comunque
essere informato di tutte le fasi della procedura), il Consiglio adotta la decisione di
conclusione dell’accordo:
a) previa approvazione del Parlamento europeo → nei casi di: accordi di associazione;
accordo di adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo;
accordi che creano un quadro istituzionale specifico utilizzando procedure specifiche di
cooperazione; accordi che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli; accordi che
riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria oppure quella
speciale quando sia necessaria l’approvazione del Parlamento europeo.
b) previa consultazione del parlamento europeo negli altri casi→ in questo caso il Parlamento
viene informato delle fasi della conclusione dell’accordo e ad esso si chiede un parere che è
obbligatorio, ma non vincolante; ciò significa che in sua assenza c’è un vizio che inficia
l’atto (la decisione sulla conclusione che potrebbe essere annullato).
È prevista anche una procedura semplificata dal par. 7→: il Consiglio può abilitare il
negoziatore a concludere l'accordo con la semplice firma o ad approvare a nome
dell'Unione le modifiche dell'accordo se questo ne prevede l'adozione con una procedura
semplificata.
Par. 11 art. 218→ Il parlamento, il Consiglio o la Commissione possono chiedere un parere
alla Corte di giustizia sulla compatibilità dell'accordo con i Trattati, in tal caso se la corte
rende un parere negativo l’accordo può entrare in vigore solo se modificato o a seguito
della revisione dei Trattati.
Gli accordi conclusi dall'Unione sono vincolanti per l'istituzione e per gli stati membri
formando parte integrante dell'ordinamento giuridico dell'Unione ove acquistano efficacia
in modo automatico con l'entrata in vigore sul piano internazionale senza richiedere la
successiva adozione di alcun atto di adattamento da parte dell'Unione; dalle loro
disposizioni possono discendere effetti diretti senza bisogno di firma o di ratifica o atti di
adattamento da parte degli Stati membri, salvo gli accordi misti.

Gli accordi misti o in forma mista sono negoziati e conclusi congiuntamente sia dal Consiglio in
nome dell'Unione sia dagli stati membri con l’altra parte contraente. Il ricorso a tale pratica è assai
frequente sia quando vi è difficoltà nel distinguere gli ambiti delle rispettive competenze tra
Unione e Stati membri sia quando vi è riluttanza di questi ultimi a riconoscere una competenza
esclusiva dell'Unione in determinate materie sia perché gli stati terzi richiedono spesso l'impegno
diretto degli stati membri attraverso la firma dell'accordo anche da parte loro.
Quanto all’interpretazione degli accordi misti, la loro peculiarità non osta all’interpretazione da
parte della Corte di giustizia delle disposizioni che rientrano nella competenza dell’Unione, ma è
da ritenersi che non possa estendersi alle disposizioni il cui oggetto risulta estraneo al diritto
dell’Unione. Tali accordi sono adottati mediante una procedura più complessa: sono negoziati e
firmati sia dall’Unione sia dagli stati membri e richiedono, ai fini dell’entrata in vigore, della ratifica
degli stati secondo le loro procedure costituzionali.

LA PROCEDURA PER L’ADOZIONE DEGLI ATTI PESC E PSDC


In questo settore vi sono differenze considerevoli con gli altri settori dell’Unione; queste
differenze riflettono la volontà di mantenere la PESC e la PSDC nell’ambito della cooperazione
intergovernativa sottraendole ai principi dell’integrazione, difatti le procedure legislative non sono
applicabili nell’ambito di queste politiche. I protagonisti sono dunque gli stati membri e le
istituzioni che maggiormente li rappresentano: consiglio europeo e consiglio oltre che l’Alto
rappresentante, la funzione del parlamento è ridotta ad un ruolo meramente consultivo e la
commissione europea non ha il quasi monopolio del potere di iniziativa legislativa. Ai sensi dell’art.
30 TFUE possono presentare proposte al consiglio, in tale settore, l’Alto rappresentate da solo o
con l’appoggio della Commissione. Ai sensi dell’art. 31 TFUE vige in tale settore la regola
dell’unanimità per l’adozione di qualunque tipo di decisione che trova applicazione con alcuni
correttivi volti ad attenuarne la rigidità e a scongiurare l’immobilismo: le astensioni non
impediscono il raggiungimento dell’unanimità, si parla di astensione costruttiva → gli stati non
votanti possono motivare il proprio non voto con una dichiarazione con la quale non si obbligano
all’atto in fieri, accettandone tuttavia gli effetti per l’Unione. Tuttavia, non si può raggiungere
l’adozione dell’atto se l’astensione coinvolga più di 1/3 degli stati membri che totalizzano almeno
1/3 della popolazione dell’Unione. La regola dell’unanimità non è seguita per l’adozione degli atti
esecutivi o più in generale di quelli che presuppongono altri atti adottati all’unanimità (in tal caso
è sufficiente la maggioranza qualificata che tuttavia non è mai sufficiente per: le decisioni del
settore militare o di difesa); per le questioni procedurali basta la maggioranza dei membri.

Capitolo V: LE FONTI

I TRATTATI

Il sistema delle fonti del diritto dell'Unione è costituito dai Trattati istitutivi, dagli accordi
internazionali conclusi dall'Unione, dal diritto derivato emanato dalle istituzioni secondo
procedimenti normativi prescritti, da una fonte non scritta di origine giurisprudenziale
rappresentata dai principi generali dell'ordinamento dell'Unione. Al vertice dell'ordinamento si
pongono le norme dei Trattati su cui si fonda l'Unione: il TUE ed il TFUE (sono il punto d'arrivo di
un processo evolutivo che ha portato ad integrare e modificare i Trattati istitutivi originari) i quali
hanno lo stesso valore giuridico. Sono equiparati ai Trattati e ne costituiscono parte integrante: i
Protocolli (regolano aspetti precisi del funzionamento dell’Unione o introducono una disciplina
differenziata per taluni stati rispetto a determinate politiche dell’Unione) e gli allegati (tra i quali le
Dichiarazioni che sono uno strumento di interpretazione delle norme alle quali si riferiscono. A ciò
bisogna aggiungere anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che ha lo stesso
valore giuridico dei Trattati. La sfera di applicazione territoriale dei Trattati si estende fin dove si
esercita la giurisdizione degli stati membri secondo le rispettive norme costituzionali, alle zone di
mare e agli spazi territoriali su cui si esercita il potere sovrano degli Stati, inoltre ai sensi del 355
TFUE norme dell’Unione possono produrre effetti anche al di fuori del territorio della stessa, è il
caso ad esempio delle norme sulla concorrenza per le intese che producano effetti nel mercato
comune pur se realizzate in paesi terzi; ovvero delle norme sulla circolazione delle persone che
trovano applicazione anche rispetto ad attività lavorative esercitate in uno stato terzo nell’ambito
di un rapporto che abbia stretti collegamenti con l’Unione. I Trattati prevalgono sulle norme
derivate e non possono subire modificazioni da parte degli atti emanati dagli organi dell'Unione
tanto che se in contrasto con i primi, sono suscettibili di annullamento (art. 263 TFUE). Allo stesso
modo, I Trattati non possono essere derogati da un accordo internazionale concluso dall'Unione.

LE PROCEDURE DI REVISIONE
Le modifiche ai Trattati istitutivi possono aver luogo esclusivamente nel rispetto della procedura di
revisione di cui all’art. 48 TUE che contempla:
Una procedura ordinaria → l'iniziativa può provenire da ogni governo degli stati membri, dal
Parlamento europeo o dalla commissione, che devono sottoporre i progetti di revisione al Consiglio che
li trasmette al Consiglio europeo e li notifica ai parlamenti nazionali. Tali progetti possono riguardare
sia l'accrescimento delle competenze dell'Unione sia la loro riduzione.
Consultai il Parlamento e all’occorrenza la Commissione (nonché la BCE ove si tratti di modifiche nel
settore monetario), il Presidente del Consiglio Europeo, qualora quest’ultimo abbia adottato a
maggioranza semplice una decisione in senso favorevole all'esame delle modifiche proposte,
convoca una Convenzione, composta da rappresentanti dei Parlamenti nazionali, dai capi di Stato e
di governo degli Stati membri, dal Parlamento europeo e dalla Commissione. La Convenzione, dopo
aver esaminato i progetti, adotta per consenso una raccomandazione trasmessa ad un'apposita
Conferenza dei rappresentanti dei governi degli stati membri che a sua volta svolge la sua attività
con lo scopo di stabilire di comune accordo le modifiche da apportare ai Trattati. Può succedere che
il Consiglio europeo decida a maggioranza semplice di non convocare la Convenzione qualora l'entità
delle modifiche non lo giustifichi, e di convocare direttamente la Conferenza. La Conferenza conclude i
suoi lavori con l'adozione di un atto finale contenente il testo di un Trattato nel quale sono recepite
le modifiche concordate; il Trattato entrerà in vigore dopo la ratifica da parte di ogni Stato membro
conformemente alle proprie norme costituzionali. Nell'ipotesi in cui, trascorsi tre anni dalla firma di
un Trattato di revisione, i quattro quinti degli stati membri lo abbiano ratificato mentre uno o più
Stati membri abbiano incontrato difficoltà nelle procedure di ratifica, la questione viene deferita al
Consiglio europeo.

Due procedure semplificate:


La PRIMA è relativa alla modifica totale o parziale delle disposizioni della parte terza del TFUE in
materia di politiche e azioni interne dell'Unione→ Sulla base di progetti di modifica presentati da
qualsiasi governo degli Stati membri, dal Parlamento europeo o dalla Commissione, il Consiglio
europeo deliberando all'unanimità adotta una decisione che modifica le disposizioni in materia, che
entrerà in vigore solo in seguito all'approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive
norme costituzionali. La previsione di una semplice approvazione piuttosto che la ratifica sembra
ammettere una manifestazione di volontà semplificata da parte degli stati membri. Per espressa
previsione dell’art. 48.6 TUE, tale decisione non può estendere le competenze attribuite all’Unione
dai Trattati, ma solo specificarle o ridurle.
La SECONDA procedura semplificata concerne l’utilizzo delle procedure di adozione degli atti e può
aver luogo in due diverse ipotesi:
La prima trova applicazione quando il TFUE o il titolo V del TUE prevedano che per un settore o in
un caso determinato il Consiglio delibera all'unanimità. A tal fine l’art. 48.7 TUE dispone che il
Consiglio europeo può adottare una decisione che consente al Consiglio di deliberare a maggioranza
salvo che vengano in rilievo decisioni con implicazioni militari o che rientrino nel settore della difesa.
La seconda ipotesi comporta la possibilità che il Consiglio adotti atti legislativi secondo la procedura
legislativa ordinaria in luogo di quella speciale prevista.
In entrambe le procedure descritte, le decisioni sono assunte dal Consiglio all'unanimità previa approvazione
del Parlamento però che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono. La proposta di
modifica viene così trasmessa ai Parlamenti nazionali; se entro tre mesi dalla data di tale
trasmissione, un Parlamento nazionale si oppone, la decisione non può essere adottata. In assenza
di opposizione, il Consiglio europeo potrà procedere all'adozione della decisione stessa senza
necessità di una ratifica da parte degli Stati membri.
Poi c’è una procedura di revisione atipica → i diritti di circolazione e soggiorno riconosciuti ai
cittadini degli stati membri possono essere integrati (ai sensi dell’art. 25 comma2 TFUE) attraverso
disposizioni adottate dal Consiglio all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa
approvazione del Parlamento europeo; tali disposizioni entrano in vigore previa approvazione degli
stati membri in conformità delle rispettive norme costituzionali.
Pur non potendosi parlare di modifica in senso proprio dei Trattati, è possibile giungere ad un
ampliamento o integrazione delle loro disposizioni ricorrendo all'art. 352 TFUE (clausola di
flessibilità) il quale consente alle istituzioni l'esercizio delle cosiddette competenze sussidiarie,
quando risultino necessarie per raggiungere uno degli obiettivi dell'Unione senza che siano stati
previsti poteri necessari.

I DIRITTI FONDAMENTALI (categoria dei p. generali del diritto dell’Unione)

Ai sensi dell’art. 6 par.1 comma1 TUE “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella
Carta dei diritti fondamentali che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Il riconoscimento e la
tutela sono il frutto di una rilevante attività giurisprudenziale che non ha però accompagnato da
subito il processo di integrazione. I Trattati istitutivi delle Comunità non contenevano alcuna
disposizione a tutela dei diritti umani che potesse costituire la base per il controllo giudiziale e se
talune libertà individuali vi risultavano fin da subito sancite (libertà di circolazione, a non essere
discriminati in base alla nazionalità ed al sesso), si trattava di libertà riconosciute al singolo
esclusivamente in quanto protagonista economico dell’unione. La Corte di giustizia nei primi anni
’60 affermava l’irrilevanza sul piano del diritto dell’Unione dei diritti fondamentali tutelati dalle
costituzioni degli stati membri e la propria incompetenza a garantire il rispetto di norme interne
anche costituzionali→ il suo principale interesse era quello di assicurare l’autonomia ed il primato
dell’Unione che rischiavano di essere pregiudicati dalla subordinazione di tale diritto alle norme
nazionali (anche se di rango cost. come quelle relative ai diritti dell’uomo). Un decennio più tardi
la Corte volta pagina affermando l’inevitabilità dell’interferenza della normativa dell’unione con i
diritti umani → ciò ha portato la Corte ad affermare che i diritti fondamentali quali risultano dalle
tradizioni cost degli stati membri e dalla CEDU fanno parte dei principi giuridici generali di cui essa
garantisce l’osservanza. Dunque, la Corte si riservò il compito di verificare di volta in volta il
rispetto dei diritti fondamentali, ma solo nelle situazioni in cui rileva la disciplina dell’Unione e non
la sola disciplina interna (il controllo della corte investiva: gli atti dell’Unione, gli atti o i
comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, rimangono fuori dal suo
controllo le norme nazionali prive di qualsiasi legame con il diritto dell’Unione).

Solo successivamente furono coinvolte anche le istituzioni in ordine al riconoscimento dei diritti
fondamentali: con la Dichiarazione del ’77 Consiglio e Commissione si impegnarono a rispettare,
nell’es. dei loro poteri, i diritti fondamentali quali risultanti dalle costituzioni degli stati membri,
nonché dalla Cedu.
Una vera e propria svolta si realizza con il T. di Maastricht che qualifica espressamente tali diritti
come principi generali del diritto dell’Unione, così formalizzando la giurisprudenza della Corte:
“L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Cedu e quali risultano dalle
tradizioni cost. degli stati membri”.

Successivamente ci si pose il problema di rafforzare questi diritti fondamentali e in tal senso


maturarono due ipotesi: 1) dotare l’UE di una propria Carta dei diritti fondamentali; 2) prevedere
l’adesione alla Cedu. In un primo momento la prima opzione fu accantonata e ci si pose il
problema dell’adesione alla Cedu e si chiese un parere alla Corte di giustizia (siamo negli anni ’90),
la quale ne rese uno negativo: l’adesione alla Cedu non era contemplata nei trattati, dunque era
necessaria una revisione che sancisse formalmente la possibilità per l’Ue di aderire alla Cedu.

LA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI

L’idea di dotare l’Unione di un proprio catalogo scritto di diritti fondamentali, più volte emersa
nella storia del processo di integrazione europea, si concretizza in occasione del Consiglio Europeo
di Nizza del 2000, nell’ambito del quale fu proclamata ad opera del Parlamento, Commissione e
Consiglio, anche se ad essa non fu attribuito da subito un valore giuridico vincolante, deferendo ad
una successiva conferenza intergovernativa il problema dell’individuazione del suo status. Questa
si compone di 7 Capi e 54 articoli e in essa si trovano tutti i diritti che la corte di g. aveva fin a quel
momento garantito in via giurisprudenziale e pochi in più. La carta non è stata inserita
formalmente nei trattati che hanno soltanto riconosciuto i diritti e principi sanciti nella stessa (art
6 par. 1 comma 1 TUE) → questa scelta si giustifica principalmente con una motivazione di ordine
pratico: cioè quella sottrarre eventuali future modificazioni della carta al passaggio obbligatorio
della revisione dei trattati, operazione troppo complicata che non consentirebbe di cogliere nei
tempi giusti le novità di una società in continuo cambiamento.

Tra le disposizioni della Carta assumono una rilevanza centrale gli artt. da 51 a 53 (cd. “disposizioni
orizzontali”) che ne definiscono la portata dei diritti e dei principi nonché le norme per la loro
interpretazione

• art. 51 par. 1 → “la Carta non introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione,
né modifica le competenze attribuite dai trattati”.. “le disposizioni della presente Carta si
applicano alle istituzioni, agli organi ed agli organismi dell’Unione come pure agli stati
membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. La Corte di g. ha fornito
un’interpretazione estensiva di questo paragrafo affermando che la Carta si applica alle
istituzioni dell’Unione anche quando queste agiscono al di fuori del quadro giudico
dell’Unione, come ad es. nell’ambito del T. di Bruxelles del 2012 che ha istituito il
meccanismo europeo di stabilità. Inoltre, per quanto riguarda gli stati membri, afferma che
i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione trovano tutela in
tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, ma non al di fuori di esse: dunque fa
coincidere l’ambito di applicazione della carta con quello del diritto dell’Ue. Dunque,
presupposto di applicabilità della Carta è che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice
sia disciplinata dal diritto europeo e non da sole norme nazionali prive di ogni legame con
tale diritto→ ciò significa che per stabilire se una normativa nazionale rientri
nell’attuazione del diritto dell’Ue occorre verificare: che abbia lo scopo di attuare una
disposizione del diritto dell’Unione; qual è il suo carattere e se è in grado di incidere sul
diritto dell’Unione; se esiste una normativa Ue che disciplini espressamente la materia che
possa incidere sulla stessa.
• art. 52 n° 1→ contiene una clausola limitativa generale in base alla quale eventuali
restrizioni dei diritti e libertà contemplati nella Carta devono: a) rispettarne il contenuto
essenziale; b) in conformità al p. di proporzionalità, devono risultare necessarie e
rispondere a finalità di interesse generale o all’esigenza di proteggere diritti e libertà altrui
e infine c) devono essere previste dalla legge → cosa si intende per legge non è chiaro
perché nell’ordinamento dell’Ue non c’è un vero e proprio concetto di legge, gli atti
adottati secondo la procedura legislativa sono atti legislativi, ma questa nozione non
corrisponde al nostro concetto di legge. Si sono comunque ritenuti, a tal fine, rientranti nel
concetto di legge: atti adottati secondo la procedura legislativa ordinaria (ruolo rilevante
attribuito al parlamento) e la giurisprudenza che ha una funzione “creativa” del diritto: è
considerata una vera e propria fonte. Ci sono alcuni diritti fondamentali che hanno valore
assoluto e non possono essere limitati (dignità umana).

• 52 n° 2→ chiarisce i rapporti tra i diritti già disciplinati nei Trattati e quelli disciplinati nella
Carta per evitare conflitti, stabilendo che i primi non sono modificati dalla entrata in vigore
della carta dunque restano soggetti alle condizioni ed ai limiti applicabili al diritto Ue.
• 52 n°3→ chiarisce i rapporti tra la carta e la Cedu stabilendo che: la portata dei diritti della
Carta, corrispondenti a quelli della Cedu, non può essere inferiore agli standard minimi
stabiliti dalla Cedu stessa, senza precludere che il diritto dell’Ue vi conceda una tutela più
ampia (massimizzazione dei diritti fondamentali).
• 52 n° 4 e 53 → il primo chiarisce i rapporti tra la Carta e le costituzioni nazionali stabilendo
che l’interpretazione delle norme della carta va fatta in armonia con quelle che risultano
dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri; l’art 53 chiarisce invece che la carta
non intende rimettere in discussione il livello di tutela dei diritti fondamentali riconosciuto
dalle costituzioni nazionali. Tuttavia, con la s. MELLONI la Corte precisa che l’art. 53
consente sì agli stati membri di mantenere lo standard di tutela più protettivo rispetto a
quello della Carta, ma sempre che il legislatore dell’Unione non abbia stabilito uno
standard comune di tutela. Dunque, in presenza di specifiche regole dell’Unione che
definiscono lo standard di tutela applicabile, non residua spazio alcuno per l’applicazione
degli standard nazionali, sia pure di rango costituzionale e maggiormente protettivi→ al
fine di non pregiudicare il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione. Nello
specifico si trattava del mandato di arresto europeo, e quindi di una disciplina dettata
dall’UE, una disciplina comune tra gli Stati membri che si fondava sul mutuo
riconoscimento e che quindi dettava norme di armonizzazione esaustiva delle legislazioni
nazionali. Quando era stato emesso un mandato di arresto, in realtà si chiedeva di non
dare esecuzione alle norme dell’UE, perché erano stati pregiudicati dei diritti fondamentali,
in questo caso il diritto di difesa. In realtà era una situazione creata ad hoc, perché la parte
aveva cambiato difensore ed era perfettamente a conoscenza di quello che il giudice aveva
comunicato, però invocava che era stato violato il suo diritto di difesa perché il nuovo
difensore non aveva avuto una conoscenza piena del giudizio. Al di là della vicenda del caso
concreto, quello che importa è che gli Stati avevano deciso con l’adozione di questo atto
dell’UE, di adottare un’armonizzazione esaustiva delle loro legislazioni nazionali di
prevedere una disciplina uniforme in tutti gli Stati, rinunciando ad applicare degli standard
diversi rispetto a quelli previsti dall’atto dell’UE, per cui una volta che è entrato in vigore
questo atto, non possono invocare degli standard di tutela più elevati.

L’ADESIONE DELL’UNIONE ALLA CEDU

L’art. 6 par. 2 TUE sancisce l’impegno e la competenza dell’Unione in ordine all’adesione alla CEDU
(dando applicazione alla modifica richiesta dal parere della corte negli anni ’90), ferme restando le
competenze dell’Ue così come definite nei trattati. Dunque, nonostante una parte minoritaria
della giurisprudenza per eccesso di entusiasmo aveva creduto che l’adesione fosse stata fatta con
la modifica apportata al TUE ed al TFUE dal T. di Lisbona, l’effettiva adesione resta subordinata
alla stipulazione di un accordo internazionale ai sensi del 218 TFUE. A tal fine il Protocollo n° 8 e la
Dichiarazione n°2 prevedono delle condizioni sostanziali: l’accordo non deve alterare le
competenze dell’Unione; deve preservare la specificità del suo diritto; non deve avere alcun
impatto sulle attribuzioni delle sue istituzioni e non deve scongiurare l’efficacia del 344 TFUE il
quale stabilisce che le controversie sull’interpretazione dei trattati vanno sottoposte
esclusivamente ai procedimenti di composizione previsti dai trattati stessi.

Il cammino verso l’adesione è iniziato nel 2010 con l’avvio del negoziato, nel 2013 è stato
presentato un Progetto di adesione, ma la procedura, nello stesso anno, ha subito una battuta di
arresto con il parere negativo n°2/2013 della Corte di g. chiamata a pronunciarsi in via consultiva
ai sensi del 218 par. 11. La Corte ha ritenuto il Progetto contrastante innanzitutto con la specificità
dell’ordinamento giuridico dell’Unione, specificità che si manifesta nella sua origine
convenzionale, dunque indipendente rispetto agli ordinamenti degli stati membri, e nell’effetto
diretto che connota molte delle sue norme. A questa considerazione la Corte ha aggiunto che la
specificità non sarebbe salvaguardata se l’interpretazione delle norme del diritto ue, ivi compresa
la carta, potesse essere messa in discussione da un organo esterno quale la corte di Strasburgo.
Inoltre, ha rilevato una potenziale incompatibilità con l’autonomia dell’ordinamento dell’Ue e con
l’esclusività della sua competenza quanto all’interpretazione/applicazione del diritto, dell’art. 33
Cedu ai sensi del quale “qualunque inosservanza delle disposizioni Cedu può essere deferita, da
ogni parte contraente, alla Corte EDU”. In base a tale disposizione dunque sarebbe ben possibile
ad esempio che uno stato membro sottoponga alla Corte EDU un’ipotesi di violazione della
convenzione da parte dell'Ue (se vi aderisse) realizzando così una violazione dell’art 344 TFUE
nonché della competenza esclusiva del giudice dell’Unione.

Inoltre, la Corte EDU acquisterebbe la competenza esclusiva, sebbene solo con riguardo al rispetto
della Cedu, del controllo giurisdizionale degli atti emanati nell’ambito della PESC (sottratti dai
trattati alla competenza della corte di giustizia se non per valutarne lo sconfinamento di
competenze rispetto a quelle dell’Ue e il controllo di legittimità sulle misure restrittive, nei cfr. di
persone fisiche o giuridiche, adottate dal consiglio).La Corte di giustizia ha escluso che
dall’art.6par.3 TUE (…“i diritti garantiti dalla cedu fanno parte del diritto dell’Unione in quanto
principi generali”.) possa dedursi un assimilazione delle norme cedu a quelle dell’Ue in particolare
quanto all’effetto diretto ed al potere-dovere del giudice nazionale di disapplicare la norma
nazionale in caso di conflitto, poiché questa disposizione non disciplina il rapporto tra la cedu e gli
ordinamenti giuridici interni degli stati membri e nemmeno le conseguenze del conflitto tra diritti
contenuti nella cedu e norme nazionali.

In realtà non è certo che l’adesione possa elevare il tasso di tutela dei diritti fondamentali, mentre
è certo il rischio dell’elevamento del tasso di vischiosità della tutela che si verificherebbe con tale
adesione. La carta dei diritti fondamentali, poi, è uno strumento adeguato a garanzia di una tutela
piena dei diritti fondamentali nel sistema di controllo giurisdizionale e non va trascurato che la
giurisprudenza della corte di giustizia utilizza sempre e costantemente come parametro di
confronto, insieme alle tradizioni costituzionali degli stati membri, le disposizioni della
Convenzione così come interpretate dalla corte EDU. L’unica soluzione affinchè si possa aderire
alla cedu, dunque, sarebbe la revisione dei trattati per eliminare il Protocollo n°8.

I PRINCIPI DELL'ORDINAMENTO DELL'UNIONE EUROPEA


I principi dell'ordinamento dell'Unione europea, talora contenuti e talora soltanto ricavabili da
alcune disposizioni dei Trattati o da una loro interpretazione globale, costituiscono fonti del diritto
dell’Unione e nel sistema delle fonti si collocano al vertice: essi infatti si impongono all’osservanza
sia delle istituzioni sia anche degli Stati membri quando questi agiscono nel campo del diritto
dell’Unione o adottano misure di applicazione del medesimo, e costituiscono parametri per il
giudizio di legittimità sia degli atti normativi derivati, sia del comportamento degli Stati membri
quando agiscono nel “cono d’ombra” del diritto dell’Unione. Possono distinguersi:

Principi generali del diritto internazionale→ gli artt. 5 e 21 TUE riconoscono che l’azione
dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sul rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite
e del diritto internazionale. Tali disposizioni vanno lette in combinato disposto con l’art. 47 TUE ai
sensi del quale l’Unione, quale soggetto di diritto internazionale, ha personalità giuridica, sicché le
norme del diritto internazionale vincolano le istituzioni dell’Unione e fanno parte dell’ordinamento
giuridico della stessa. Da ciò si desume che le competenze dell’Unione devono essere esercitate nel
rispetto del diritto internazionale e il diritto dell’Unione deve essere interpretato alla luce delle
norme di diritto internazionale (perché questo è parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione). Si
applicano tutta una serie di principi: pacta sunt servanda, buona fede, diritto
all’autodeterminazione, rebus sic stantibus (con riferimento al recesso prima dell’art 50).
Nonostante ciò la rilevanza del diritto internazionale nei rapporti interni è più limitata in ragione
della specificità di questa istituzione; in tal senso la Corte di giustizia si è discostata da alcuni principi
ritenuti incompatibili con le finalità dell’Unione→ si pensi al principio di reciprocità gli stati non
possono invocarlo per non adempiere gli obblighi UE in quanto verrebbe meno il fondamento del
diritto UE che prevede dei mezzi propri di tutela giurisdizionale, nessuno stato può farsi giustizia da
se: nessuno stato può utilizzare strumenti unilaterali. Ad esempio, nel caso COWAN che riguardava
una aggressione violenta subita da un cittadino inglese nella metropolitana di Parigi, non furono
scoperti i colpevoli e l’inglese chiese un indennizzo (che era previsto nello stato francese per le
vittime di questi reati violenti), questa richiesta fu negata dalla Francia che eccepì il principio di
reciprocità in quanto i cittadini francesi nel regno unito non hanno diritto di accedere, in una
situazione analoga, ad un simile risarcimento. La corte di giustizia evidenziò che si trattava di un
caso di discriminazione fondato sulla nazionalità ed evidenziò che l’obiezione sollevata riguardo la
reciprocità non aveva rilevanza perché esistono in entrambi i Paesi in questione dei sistemi di tutela
giurisdizionale completi. Dunque, se la Francia riteneva che l’UK non rispettata i propri obblighi,
aveva tutti gli strumenti (p. di infrazione, rinvio pregiudiziale) per adire il giudice UE, ma non poteva
farsi di certo giustizia da sé ed invocare la reciprocità che può essere applicata, così come altre
contromisure, nei confronti di stati terzi, ma non nei confronti di stati membri.

Principi generali di diritto comuni agli stati membri→ si tratta di quei principi comuni desunti dagli
ordinamenti degli stati membri e recepiti nell'ordinamento dell'Unione, che rappresentano il
comune sostrato giuridico dell'ordinamento integrato:
➢ principio di legalità, diritto a un equo processo, rispetto dei diritti della difesa, diritto al
contraddittorio.
➢ certezza del diritto, il quale impone che, tanto le norme dell'Unione quanto le norme degli stati
membri, nelle materie disciplinate dal diritto dell'Unione, devono essere formulate in modo non
equivoco al fine di consentire ai soggetti interessati di conoscere i loro diritti e obblighi modo
chiaro e preciso e ai giudici nazionali di garantirne l'osservanza. Tale principio comporta altresì:
➢ non retroattività delle norme penali, degli atti normativi, a meno di esplicita previsione, e degli
atti amministrativi in genere;
➢ legittimo affidamento, secondo cui gli amministrati devono poter contare sul mantenimento
della situazione giuridica di fronte a una modifica improvvisa che non potevano ragionevolmente
aspettarsi, oppure quando il comportamento dell'istituzione ha fatto sorgere nell'interessato
un'aspettativa ragionevolmente fondata; esso può essere invocato anche nei confronti di uno
Stato, ma non lo si può invocare se sia fondato su un errore, o rispetto ad una prassi nazionale
non conforme al diritto comunitario, o se l'impresa abbia infranto in modo manifesto il diritto
vigente.
Tali principi sono “selezionati” per orientare l'interpretazione del diritto derivato da parte della
Corte di giustizia o per colmare le lacune ed assicurare la coerenza generale del sistema giuridico
dell'Unione e di questo con gli ordinamenti nazionali. Ad essi la Corte ricorre per controllare la
legittimità di un atto derivato e spesso li utilizza anche per assicurare la protezione dei diritti dei
singoli nel quadro dei procedimenti giurisdizionali dell'Unione. Non necessariamente questi principi
devono risultare comuni a tutti gli stati membri, alcuni dei quali possono non contemplarli espressamente e
prevedere diversi criteri di applicazione e soluzioni diverse.

Principi generali propri del diritto dell'Unione:


➢ solidarietà, è alla base dell'intero sistema dell'Unione e lega anche gli Stati membri che ad essi
devono uniformare i loro comportamenti;
➢ leale cooperazione, che impone agli Stati membri di assicurare l'esecuzione degli obblighi
derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni, di facilitare queste nell'assolvimento
dei loro compiti e di astenersi da qualsiasi misura che possa compromettere la realizzazione degli
obiettivi dell'Unione;
➢ responsabilità dello Stato membro per danni derivanti da individui dalla violazione ad esso
imputabile di un obbligo imposto dal diritto dell'Unione;
➢ mutuo riconoscimento, affermatosi nell'ambito del mercato interno per superare le divergenze
delle discipline nazionali relative alla commercializzazione di determinati prodotti in modo da
consentire la loro libera circolazione nei paesi membri in assenza di una specifica disciplina di
armonizzazione dell'Unione;
➢ effetto utile, che impone un'interpretazione dell'atto normativo dell'Unione funzionale al
raggiungimento delle finalità perseguita (è sulla base di tale principio che si è attribuito effetto
diretto anche alle direttive);
➢ proporzionalità, per il quale gli atti delle istituzioni non devono oltrepassare i limiti di quanto
appropriato e necessario per raggiungere lo scopo ricercato e, in caso di misure alternative, dovrà
essere adottata quella che impone oneri minori;
➢ sussidiarietà, previsto dall’art. 5 TUE, è destinato a regolare la ripartizione delle competenze
concorrenti tra Unione e Stati membri.
Tra questi assume particolare rilievo il PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA che nel Trattato originario
trovava espresso riconoscimento, ma in funzione degli obiettivi di integrazione, dunque per rendere
operative le libertà previste e non come principio/diritto fondamentale. Attualmente è
espressamente disciplinato dai trattati anche se non in via generale, ma nelle sue varie declinazioni
e possiamo considerarlo al pari di un diritto fondamentale in quanto è sancito anche nella Carta dei
diritti fondamentali dunque è provvisto di effetto diretto e prescinde dalle condizioni di applicabilità
della direttiva che eventualmente lo disciplina, tanto da imporre al giudice nazionale la sua
applicazione in luogo di una legge nazionale confliggente anche prima della scadenza del termine di
trasposizione o in caso di mancata trasposizione di una direttiva non dotata di effetto diretto e
rispetto alla quale non è possibile l’interpretazione conforme (es. caso Melloni).
Il divieto di discriminazione fondato sulla nazionalità ne rappresenta una declinazione è
disciplinato ex art. 18 TFUE→ norma provvista di effetto diretto che trova applicazione solo in
assenza di altre disposizioni che in modo specifico vietino trattamenti discriminatori e nei limiti
dell’applicazione del trattato; tale principio si ritrova anche nella disciplina concernente le
organizzazioni comuni di mercato ex art. 40 par.2 com. 2 TFUE che prevede l’esclusione di qualsiasi
discriminazione tra produttori o consumatori dell’Unione; infine trova espressione anche nell’art.
157 TFUE in cui viene sancito in termini generali il p. della parità di retribuzione fra lavoratori e
lavoratrici. La corte ha inteso garantire un’uguaglianza sostanziale e non meramente formale tanto
è vero che ha interpretato le norme suddette estendendone la portata: ad es. l’art. 18 lo ha esteso
anche a quelle discriminazioni fondate su parametri diversi da quello della nazionalità (ad es. la
residenza) ma che di fatto conducono al medesimo risultato; del pari nel dare attuazione al p. di
parità retributiva di cui al 157 la giurisprudenza ha considerato in conflitto con tale principio le
norme nazionali che seppur fondate su criteri apparentemente neutri, finiscono con lo sfavorire le
donne ad es. retribuendo in modo diverso il part-time allorché sono prevalentemente le donne ad
optare per questa formula. In tal modo la Corte ha garantito un’uguaglianza sostanziale.

GLI ACCORDI INTERNAZIONALI DELL’UNIONE


Nell’esercizio delle competenze esterne l’Unione può concludere accordi internazionali con Paesi
Terzi o con Organizzazioni internazionali e tali accordi vincoleranno le istituzioni e gli stati membri
in virtù del principio “pacta sunt servanda” e dell’omologa disposizione di cui all’art. 216 par.2 TFUE.
Nel sistema delle fonti tali accordi si pongono subito dopo i trattati, ma prima del diritto derivato;
dunque la loro contrarietà ai trattati è sindacabile dalla Corte di Giustizia sotto il profilo dell’atto
dell’Unione con il quale le istituzioni hanno concluso l’accordo (decisione di conclusione). Quanto
agli atti derivati, questi non potranno contrastare con gli accordi, anzi la Corte di giustizia ha
dichiarato l’obbligo di interpretarli in conformità con gli accordi internazionali. Gli accordi entrano
a far parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione al momento della loro entrata in vigore per il solo
fatto di essere stati conclusi alle condizioni dei trattati e producono effetti diretti nelle sfere
giuridiche dei singoli sempre che le normative ivi contenute siano precise, chiare e direttamente
applicabili.
Non entrano, invece a far parte dell’Unione gli accordi stipulati tra stati membri o quelli stipulati tra
questi e Paesi terzi: i primi se preesistenti all’adesione all’Unione ed incompatibili con obblighi
derivanti dal diritto dell’Unione, sono abrogati implicitamente dai Trattati costitutivi in base al
principio della successione nel tempo tra Trattati aventi disposizioni contrastanti; se successivi
all’adesione all’Unione, restano fuori dal sistema delle fonti a prescindere dalla compatibilità con i
trattati. Quando stipulano accordi fra di loro, gli stati membri, non possono assumere obblighi
confliggenti con quelli derivanti dallo status di membro dell’Unione; accordi del genere possono
essere adottati anche in seno al Consiglio o al Consiglio europeo in forma semplificata: si parla al
riguardo di atti degli stati membri riuniti in sede di consiglio → ad es. quelli relativi alla nomina dei
giudici e degli avvocati generali della Corte di giustizia; non hanno dunque natura giuridica di atti
dell’Unione rimanendo imputabili agli stati membri collegialmente intesi →. Alcuni di tali atti sono
adottati al di fuori di ogni indicazione dei Trattati, per lo sviluppo del processo d’integrazione, in
materie che esulano dalle competenze attribuite alle istituzioni e sono sottoposti a ratifica degli Stati
membri secondo le procedure costituzionali interne. Altri sono adottati sulla base di alcune
disposizioni dei Trattati, come in materia di eliminazione della doppia imposizione fiscale, di
reciproco riconoscimento delle società, di reciproco riconoscimento e reciproca esecuzione delle
decisioni giudiziarie e arbitrali. Si pensi alla convenzione di Bruxelles del ’68 o al Trattato che
istituisce il meccanismo europeo di stabilità. Si tratta di accordi sottoposti a ratifica degli stati
membri, soggetti alle regole generali del diritto internazionale e che sfuggono alla competenza
interpretativa della Corte di giustizia salvo che non sia prevista da apposite clausole (si pensi alla
clausola compromissoria contenuta nella convenzione di Bruxelles con la quale fu scelto di attribuire
alla corte di giustizia la competenza pregiudiziale ad interpretare le disposizioni degli accordi) e
Protocolli. Anche se adottati in applicazione della disposizione del Trattato, essi non fanno parte
integrante dell'ordinamento dell'Unione: tuttavia possono considerarsi fonti complementari del
diritto dell'Unione.
I secondi se conclusi prima del TCEE o, per gli stati aderenti, anteriormente all’adesione all’Unione
conservano la loro efficacia in virtù dell’art. 351 TFUE e del p di diritto internazionale concernente
gli effetti dei trattati nei cfr. dei terzi (un accordo fa legge tra le parti e da esso non possono derivare
diritti ed obblighi agli stati terzi se non mediante una espressa forma di partecipazione). La stessa
norma prevede che nella misura in cui tali accordi siano incompatibili con i trattati, gli stati membri
si adoperano per eliminare le incompatibilità, a tal fine è prevista una reciproca assistenza e
l’adozione di una linea di condotta condivisa: tale obbligo grava sul giudice nazionale che è dunque
tenuto ad interpretare la convenzione preesistente in maniera conforme e qualora possibile con il
diritto dell’Unione.

IL DIRITTO DERIVATO DELL’UNIONE


Si tratta di atti emanati da parte delle istituzioni, nei limiti delle competenze attribuite e secondo i
procedimenti previsti dai Trattati. Secondo l’art. 288 TFUE, essi si distinguono, innanzitutto, tra atti
vincolanti e atti non vincolanti: i primi possono essere divisi in atti legislativi (se adottati con
procedura legislativa ordinaria o speciale) e atti non legislativi (adottati senza il ricorso ad una
procedura legislativa). Quanto agli atti non legislativi, il Trattato non ne fornisce una definizione
completa, ma si limita ad affermare, all’art 297 TFUE, che tali atti sono firmati dal Presidente
dell’istituzione che li ha emanati; da ciò si desume che rientrano in tale categoria, gli atti adottati da
una singola istituzione seguendo la procedura fissata dal proprio regolamento interno.
Gli atti non legislativi inoltre possono essere distinti in:
• atti non legislativi di secondo grado→ vi rientrano gli atti adottati da un’istituzione sulla base
di una specifica disposizione del Trattato, quali ad es. gli atti adottati dalla Commissione
nell’ambito del suo potere autonomo di decisione (101 par. 3; 106 par.3 TFUE)
• atti non legislativi di terzo grado→ vi rientrano quelli volti a rendere operative norme
secondarie, restando a queste subordinate: si tratta degli atti delegati e degli atti esecutivi.
I primi ai sensi del 290 par. 1 TFUE sono adottati dalla Commissione sulla base di una delega
contenuta in un atto legislativo, delega che implica l’es. di una funzione legislativa
limitatamente ai profili non essenziali dell’atto, mentre gli obiettivi, il contenuto e la portata
sono definiti dall’atto base; hanno portata generale, integrano o modificano determinati
elementi non essenziali dell’atto legislativo e devono essere definiti espressamente nel loro
titolo: regolamenti, decisioni, direttive “delegati”. Quanto ai secondi è bene specificare che,
ai sensi del 291 par.1, l’esecuzione è lasciata agli stati membri che sono tenuti ad adottare
tutte le misure di diritto interno necessarie a dare attuazione agli atti vincolanti dell’Unione;
nonostante ciò nell’ipotesi in cui sia preferibile un’esecuzione “uniforme”, i relativi poteri
saranno conferiti alla Commissione o in via eccezionale al Consiglio. Si distinguono dagli atti
delegati perché sono destinati ad operare all’interno degli stati membri nonché per il fatto
che il controllo sull’es. delle competenze di esecuzione è affidato agli stati stessi secondo
modalità stabilite dal Parlamento europeo e dal Consiglio.
Sebbene i Trattati non prevedano una formale gerarchia tra gli atti normativi attribuendo a tutti pari
forza a prescindere dalla loro denominazione (pertanto, l'eventuale conflitto tra le diverse
fonti dovrà essere risolto secondo i criteri generali di specialità o di successione delle norme
del tempo, senza avere riguardo all'autorità emanante o alla procedura di adozione), entrambe
queste due ultime fonti possono essere considerate di terzo grado e sono a loro volta in relazione
gerarchica: l’atto esecutivo non può derogare all’atto delegato il quale afferisce alla funzione
legislativa.

Elementi comuni agli atti dell’Unione


Tutti gli atti normativi, attraverso qualsiasi procedimento adottati, presentano delle caratteristiche
comuni. Innanzitutto devono fare riferimento alle proposte o ai pareri obbligatoriamente richiesti
(così garantendo la verifica del rispetto delle condizioni procedimentali imposte per l’adozione
dell’atto) e devono essere adeguatamente motivati (art. 296 TFUE): la motivazione è considerata una
forma sostanziale la cui violazione comporta l'invalidità dell'atto in quanto indispensabile per
consentire: agli interessati di conoscere le ragioni del provvedimento adottato ai fini della difesa dei
loro diritti, al giudice dell'Unione di esercitare il controllo giurisdizionale, agli Stati membri e ai
cittadini per conoscere le condizioni nelle quali le istituzioni applicano il Trattato. Affinché l’obbligo di
motivazione sia adempiuto non sono richieste forme particolati è necessario che dal tenore dell’atto si
evincano gli elementi di fatto e di diritto sui quali l’istituzione si è fondata, inoltre deve risultare chiaro
l’iter logico seguito dall’istituzione. La motivazione è solitamente contenuta nei "considerando" che
precedono la parte dispositiva dell'atto e può essere anche sommaria, purché sia sempre espressa
adeguatamente e contenga tutti gli elementi necessari per constatarne la fondatezza.

Rilevante è che l’atto faccia riferimento ad una o a più norme dei Trattati, cioè alla base giuridica,
l'inosservanza della quale costituisce un vizio sostanziale che può condurre all'annullamento dell'atto a
meno che non possa ricavarsi da altri dati contenuti nell'atto stesso. Secondo la giurisprudenza
costante, la scelta della base giuridica deve fondarsi su elementi oggettivi possibili di sindacato
giurisdizionale tra i quali lo scopo e il contenuto dell'atto. In molte occasioni la Corte di giustizia sarà
chiamata ad occuparsi della legittimità della scelta della base giuridica qualora l'atto da adottare
riguardi più settori di competenza dell'Unione ognuno dei quali prevede regole specifiche in tema
di procedimento normativo. La soluzione prescelta dalla Corte è quella di verificare quale sia il vero
centro di gravità dell'atto per cui questo dovrà basarsi unicamente sulla base giuridica richiesta dalla
finalità principale o preponderante. Possono tuttavia presentarsi situazioni in cui il parametro del
“centro di gravità” non può essere decisivo per la scelta di una sola base giuridica, un atto può quindi
essere fondato anche su una duplice base giuridica ma soltanto in via eccezionale, ovvero se
persegue contemporaneamente più obiettivi o si compone di vari elementi, tra loro imprescindibili,
senza che uno di essi assuma importanza secondaria e indiretta rispetto all’altro.
L’indicazione della base giuridica rileva sotto tre profili: il primo attiene alle competenze dell’Unione
che in linea di principio sono ispirate al criterio dell’attribuzione specifica dei trattati (fatta salva la
previsione del 352)→ dunque è necessario che l’azione delle istituzioni trovi giustificazione in una
norma dei trattati. Il secondo attiene al riparto di competenze tra le istituzioni; il terzo è quello
procedimentale → la scelta dell’una o dell’altra base giuridica implica una procedura diversa di
formazione del consenso (unanimità/maggioranza semplice o qualificata) e un diverso
coinvolgimento del parlamento (procedura legislativa ordinaria o speciale). Se vi sono due basi
giuridiche che prevedono 2 procedimenti diversi l’atto dovrà trovare fondamento esclusivo nella
norma che implica il procedimento più garantista e più rispettoso del principio democratico.

I principi del legittimo affidamento e della certezza del diritto impongono che gli atti non trovino
applicazione per i rapporti definiti anteriormente alla sua entrata in vigore: non hanno efficacia
retroattiva salvo che in casi eccezionali, ad es. dove ciò sia necessario per realizzare l’obiettivo
dell’atto e sempre che sia salvaguardato il legittimo affidamento degli interessati.
Quando più interpretazioni sono possibili, va privilegiata quella che consente di salvaguardare
l’effetto utile.

REGOLAMENTI→ Si tratta di atti a portata generale con valore erga omnes, ossia non si rivolgono
a destinatari indicati espressamente o comunque individuabili a priori, ma a categorie di soggetti
determinati in astratto nel loro insieme. La caratteristica della “portata generale” non discende
automaticamente dalla denominazione ufficiale dell’atto: la Corte di giustizia ha affermato che per
determinare in concreto la natura di ciascun atto,
la verifica non dovesse arrestarsi alla forma, bensì attribuire
rilevanza in primo luogo al suo contenuto e agli effetti giuridici da esso prodotti. Di conseguenza ha
ritenuto che il carattere regolamentare di un atto non viene meno solo perché sia possibile determinare il
numero o anche l'identità dei destinatari in un determinato momento (purché la qualità dei destinatari
dipende da una situazione obiettiva di diritto o di fatto, definita dall'atto); carattere che neanche viene meno
per l'applicazione territoriale dell'atto, limitata ad uno o ad alcuni stati membri, o per il fatto che esso possa
avere effetti diversi a seconda dei soggetti cui si applica purché tale situazione sia obiettivamente
determinata. A dimostrazione di ciò vi è il 263 comma 4 TFUE ai sensi del quale anche i regolamenti possono
essere impugnati dai singoli (p fisiche o giuridiche) dinanzi la Corte di giustizia se li riguardino direttamente
sempre che non comportino alcuna misura di esecuzione (indipendentemente dalla loro denominazione -
chiarisce l’articolo- dunque anche se si tratti di regolamenti che convenzionalmente hanno una portata
generale).
I regolamenti sono inoltre obbligatori in tutti i loro elementi per le stesse istituzioni, per gli Stati
membri e per i loro cittadini: ciò significa che non è consentita l'applicazione solo parziale,
incompleta o selettiva del regolamento, ma il loro carattere vincolante non viene meno per il solo
fatto che necessita di ulteriori provvedimenti di attuazione o di specificazione per consentire
l'effettiva applicazione.
Infine, sono direttamente applicabili dunque attribuiscono direttamente ai cittadini dell'Unione
obblighi e diritti che i giudici nazionali hanno il dovere di tutelare, anche nei rapporti interindividuali.
Tendenzialmente non hanno bisogno di alcun atto di recezione o di attuazione da parte degli stati
membri (qualsiasi misura di recepimento mediante un atto normativo interno deve considerarsi
illegittima poiché potrebbe nascondere agli amministrati la natura comunitaria di una norma
giuridica), ma non sempre i regolamenti risultano autosufficienti, pertanto, al fine di rendere possibile
la loro concreta esecuzione, essi richiedono talora un successivo intervento che, quando non affidato
alle stesse istituzioni, deve far carico alle autorità nazionali. Sono pubblicati nella GUUE ed entrano in
vigore alla data da essi stabilita ovvero a partire dal 20° giorno successivo alla loro pubblicazione; l'entrata
in vigore può essere ritardata oltre tale data per consentire agli interessati di conformarvisi
gradualmente.

DIRETTIVE → Ai sensi dell’art. 288 TFUE, le direttive presentano la caratteristica di vincolare gli stati
membri cui sono dirette per quanto riguarda il risultato da raggiungere, lasciandoli tuttavia liberi
quanto alla scelta della forma e dei mezzi necessari per conseguirlo. A differenza dei regolamenti,
non sono direttamente applicabili negli ordinamenti interni, in quanto richiedono un intervento di
attuazione da parte del legislatore nazionale, né hanno portata generale, avendo come destinatari
formali solo Stati membri, ma a determinate condizioni possono avere efficacia diretta.
Le direttive si presentano come uno strumento di legislazione indiretta mediante cui si vogliono
porre regole uniformi, con le stesse infatti si attiva una collaborazione tra il livello dell'Unione e
quello nazionale, lasciando così liberi gli Stati di determinare essi stessi le modifiche da apportare
alla propria normativa interna per renderla uniforme al risultato perseguito dalla direttiva,
conformemente alle loro esigenze e alle loro peculiarità nazionali, pur nel rispetto dell’unità del
diritto dell’Unione.
Entrano in vigore, producendo obblighi a carico dei destinatari a partire dalla data stabilita oppure
il 20° giorno successivo alla loro pubblicazione sulla GUCE. La data di entrata in vigore della direttiva
non deve confondersi con il termine (solitamente 2 anni) assegnato agli Stati per provvedere alla
sua attuazione: solo l'inosservanza di quest'ultimo comporta l'inadempienza dello Stato.
Dalla direttiva, una volta entrata in vigore e quindi divenuta vincolante nei confronti degli Stati
membri, possono derivare immediatamente degli obblighi di comportamento (stand-still)→ gli
Stati membri, nel rispetto dell'obbligo di leale collaborazione e della forza vincolante delle direttive,
hanno il dovere di astenersi dall'adottare, nel periodo intercorrente dall'entrata in vigore della
direttiva nei loro confronti e il termine assegnato per il suo recepimento, qualsiasi misura che possa
compromettere il conseguimento del risultato prescritto, altrimenti esponendosi al rischio da un
lato di un ricorso per infrazione, dall'altro dell'invocazione diretta delle disposizioni della direttiva
dinanzi ai giudici nazionali da parte di chi abbia interesse, di opporsi all'applicazione delle misure
nazionali in questione.
Le direttive dettagliate→ si è più volte sostenuta l’illegittimità di tale prassi, che in effetti appare
contraddire la natura stessa della direttiva e la sua funzione originaria, ma la Corte di giustizia non si è
mai espressa chiaramente sul punto e ha comunque riconosciuto la legittimità di tali direttive quando
necessarie per conseguire il fine prefissato: l'unica ipotesi in cui la Corte le ha ritenuto illegittime riguarda
quelle direttive dettagliate emanate in ipotesi in cui sia previsto il potere di emanare regolamenti.

DECISIONI → Le decisioni sono atti vincolanti, caratterizzati anch'esse dall'essere obbligatorie in


tutti i loro elementi (art. 288.4 TFUE). Esse hanno tendenzialmente portata individuale o almeno era
questa la loro principale caratteristica prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona secondo il quale
può anche avere portata generale. Le decisioni dunque possono assumere una duplice natura: 1) avere
portata individuale se designano i destinatari e sono obbligatorie solo nei confronti di queste
(eccezionalmente possono rivolgersi a tutti gli stati membri nel qual caso si avvicinano alle direttive). 2)
possono essere generali dunque prive di indicazione in merito ai destinatari→ si pensi a quelle con
le quali il consiglio avvia i negoziati di accordi internazionali; le decisioni sulle formazioni del
consiglio; quelle relative alla nomina del personale delle istituzioni.
La Corte di giustizia ha affermato che le decisioni hanno effetti diretti quando rivolte a soggetti
privati, potendo imporre obblighi e attribuire diritti che gli stessi giudici interni sono tenuti a
garantire, non solo nei confronti dei diretti destinatari ma anche dei terzi che vi abbiano interesse
(effetti orizzontali). Per quanto riguarda le decisioni rivolte agli stati, l'effetto diretto è dubbio: esse
vincolano lo stato destinatario ad un certo comportamento e quindi ad esso incomberà dare loro
puntuale esecuzione del proprio ordinamento seguendo le prescrizioni indicate; qualora non
richiedano misure interne di attuazione, certamente hanno efficacia diretta. Tuttavia, quanto agli
effetti diretti “orizzontali”, la Corte ha ritenuto che un privato non può far valere, in una controversia che
lo oppone ad un altro privato, la violazione da parte di quest’ultimo di una decisione diretta agli Stati
membri e dunque vincolante solo nei loro confronti.
Qualora comportino a carico dei privati un obbligo pecuniario, queste costituiscono titolo esecutivo
dietro apposizione della formula esecutiva da parte dell'autorità competente dello Stato membro e
previa verifica soltanto della autenticità del titolo (art. 299 TFUE)→ Simili decisioni, contenenti
ammende e penalità di more, sono frequentemente stabilite dalla commissione in materia di
concorrenza nei confronti delle imprese che violino i divieti di quegli artt. 101 ss TFUE.
Le decisioni che designano i destinatari devono essere notificate e prendono effetto dalla data di
notifica, mentre quelle che non designano i destinatari vengono pubblicate nella GUUE ed entrano
in vigore alla data fissata o al 20° giorno dalla pubblicazione; la mancata notifica non comporta la loro
invalidità, ma soltanto la conseguenza di renderle inopponibili.

ATTI NON VINCOLANTI


L’art. 288 TFUE contempla due categorie di atti non vincolanti: i pareri e le raccomandazioni e pur non
essendo netta la distinzione dei due tipi di atti, di norma i pareri sono rivolti da una istituzione a un destinatario
per esternare e far conoscere il proprio punto di vista su una determinata questione: possono essere rivolti ad
altre istituzioni, agli stati membri o anche a privati al fine di consigliare o orientare il loro
comportamento nel senso ritenuto auspicabile.
Le raccomandazioni hanno carattere più incisivo: esse sono rivolte da un'istituzione di solito agli
stati membri ed esprimono un invito a tenere un certo comportamento senza tuttavia porre alcun
obbligo di risultato, ma possono essere rivolte anche alle altre istituzioni o ai privati.
L'emanazione dei due tipi di atti rientra nelle prerogative di un'istituzione: con riferimento alle
raccomandazioni, è in particolare al Consiglio che i Trattati attribuiscono espressamente un potere
generale di adottarle, deliberando su proposta della commissione in tutti i casi in cui i Trattati prevedono
l'adozione di atti su proposta della commissione, e deliberando altresì all'unanimità nei settori nei quali
essa venga richiesta ai fini dell'adozione di un atto dell'Unione. Il potere di adottare raccomandazioni è
altresì attribuito anche alla commissione e alla BCE nei casi previsti.
Sia nel caso dei pareri che delle raccomandazioni, si tratta di atti sprovvisti di effetti vincolanti e
come tali non soggetti normalmente a controllo giurisdizionale di legittimità; essi non possono
inoltre formare oggetto di ricorso in carenza contro l'istituzione che si astenga dal formularle e,
d'altra parte, la loro inosservanza non può portare un ricorso per infrazione contro lo Stato che non
si conformi. Nonostante ciò, non può dirsi che tali atti siano del tutto privi di effetti giuridici, almeno
indiretti: si pensi ai pareri motivati emanati dalla commissione nella procedura di infrazione (artt. 258,
259 TFUE) la cui inosservanza può comportare il deferimento dello Stato alla Corte di giustizia, o alle
raccomandazioni di cui all’art. 117 TFUE in materia di ravvicinamento delle legislazioni nazionali con
le quali la Commissione indica a uno stato membro le misure idonee ad evitare una distorsione della
concorrenza derivante dalle modifiche normative che intenda apportare: se lo Stato non si conforma,
non può essere chiesto agli altri Stati di modificare la propria legislazione per sopprimere la distrazione
in parola. Lo stesso deve dirsi per quella categoria particolare di raccomandazioni previste nel settore
economico e monetario: spetta al Consiglio formulare raccomandazioni per fissare gli indirizzi di
massima della politica economica cui dovranno cercare di uniformarsi gli Stati membri. La Corte di
giustizia ha altresì affermato che i giudici nazionali sono tenuti a prendere in considerazione le
raccomandazioni per la soluzione delle controversie loro sottoposte specie quando contribuiscono
a chiarire l'interpretazione di disposizioni interne o hanno per oggetto quello di completare atti
dell'Unione a carattere vincolante. È poi evidente che l’emanazione di una raccomandazione rivolta agli
Stati comporta un'aspettativa che essi facciano il possibile per conformarvisi nell'ottica del dovere di
cooperazione che incombe loro nel perseguimento di un fine dell'Unione e che renda lecito comportamento
dello Stato che si sia adeguato a una raccomandazione e che altrimenti risulterebbe illecito.
Il TFUE definisce pareri anche le deliberazioni che vengono adottate da organi partecipi del processo
legislativo dell’Unione, nell’esercizio della funzione consultiva che lo stesso trattato assegna loro→ si tratta
di atti non riconducibili a quelli del 288 TFUE, perché non sono destinati a produrre alcun effetto all’esterno
del meccanismo decisionale, dunque sono dotati di una valenza interistituzionale. Neppure sono
riconducibili a tale disposizione ad es. il parere motivato con il quale la Commissione chiude la fase
precontenziosa della procedura di infrazione; il parere che la Corte di giustizia può emanare su richiesta
(218.11) prima della conclusione di un accordo internazionale; tali pareri possono essere classificati tra gli atti
atipici previsti in disposizioni diverse dal 288.

ATTI ATIPICI
Atti atipici in senso lato→ si tratta di atti che pur corrispondendo alla tipologia ex art. 288 TFUE,
hanno tuttavia natura, caratteri ed effetti diversi da quelli propri degli atti tipici oppure di atti non
rientranti nel 288, ma ai quali i trattati fanno riferimento.
Si pensi ai regolamenti interni di cui ciascuna istituzione si dota per disciplinare il suo funzionamento
e lo statuto dei propri funzionari. Si tratta di atti che hanno efficacia circoscritta ai rapporti interni
di ciascuna istituzione, pur potendo avere ripercussioni e anche condizionare rapporti con altre
istituzioni; questi non possono essere invocati dalle persone fisiche o giuridiche davanti ai giudici
nazionali a sostegno di un ricorso in annullamento perché non rivolti a tutela dei singoli, tuttavia
questi possono invocare la violazione di disposizioni del regolamento interno di un'istituzione a
sostegno delle loro conclusioni dirette contro un suo atto e nei limiti in cui tali disposizioni
costituiscono un fattore di sicurezza giuridica per le persone; inoltre è possibile che un atto venga
annullato dalla Corte di giustizia per violazione del regolamento interno dell'istituzione che l'ha
adottato.
Si pensi inoltre alle direttive, ai pareri, alle raccomandazioni che un'istituzione rivolge a un'altra
nell'ambito del procedimento decisionale e che non hanno effetti giuridici al di fuori dei rapporti
interistituzionali: come il parere del Parlamento degli organi consortili, le direttive indirizzate al
Consiglio e alla commissione per orientare i negoziati che essa conduce con gli Stati terzi al fine della
conclusione degli accordi internazionali, o le raccomandazioni che la commissione rivolge al Consiglio
per essere autorizzata ad aprire i negoziati. Col termine di decisione si indicano anche gli atti con cui
il Consiglio conclude accordi internazionali, o quelli adottati dal Consiglio per l'adozione di certi
provvedimenti, sulla base di specifiche disposizioni abilitanti del Trattato; altre decisioni hanno
portata interistituzionale come ad esempio la decisione del Parlamento di concedere il discarico alla
commissione per l'esecuzione del bilancio o la decisione con cui il Consiglio può autorizzare spese
superiori al limite di un 12° degli stanziamenti aperti nel bilancio dell'esercizio precedente. Si
possono annoverare in questa categoria ancora: la constatazione dell’avvenuta approvazione del
bilancio da parte del Presidente del Parlamento europeo; taluni atti preparatori quali le proposte
della commissione.

Atti atipici in senso stretto→ si tratta di atti che nascono dalla prassi delle istituzioni, non rientrano
in alcuna delle categorie di cui all'art. 288 TFUE e non sono neanche contemplate dai Trattati. Tra
questi rientrano:
➢ le comunicazioni, cui fa frequente ricorso la Commissione come i “libri verdi” per indicare le linee di
azione e i progetti in ordine alla preparazione di proposte normative più complesse o per chiarire il punto
di vista in ordine a certi problemi o per stabilire la sua dottrina nei settori in cui dispone di potere decisori
oppure le comunicazioni che raccolgono gli sviluppi normativi giurisprudenziali relativi ad un'intera
materia e indicano lo stato della normativa dell'Unione. Pur non provviste di effetti vincolanti essi
possono tuttavia provocare una legittima aspettativa negli amministrati che si conformino al loro
contenuto.
➢ le conclusioni e le risoluzioni, di solito adottate dal Consiglio e dal Consiglio europeo che chiariscono
il pensiero dell'istituzione e spesso assumono valore di impegno politico;
➢ programmi d'azione, dichiarazioni, deliberazioni, codici di condotta: si tratta di atti privi di valore
obbligatorio incapaci di produrre effetti giuridici di cui i singoli possono avvalersi. L'idoneità dell'atto
a produrre effetti vincolanti risulta il criterio decisivo per la sua sindacabilità, la Corte non ha esitato ad
annullare certe disposizioni ritenute avere effetti vincolanti, per incompetenza dell'organo o per
mancato rispetto delle regole di procedura.
➢ le dichiarazioni comuni e gli accordi interistituzionali firmate dai presidenti del Parlamento, del
Consiglio e della commissione→ adottati al fine di assumere una posizione comune su questioni
ritenute fondamentali oppure al fine di stabilire regole di comportamento, meccanismi di
coordinamento delle rispettive competenze o modalità di cooperazione in determinate procedure,
nell'ottica di migliorare il loro svolgimento ed evitare possibili conflitti.
Ai sensi del 259 TFUE questi atti possono essere vincolanti: ad es. le istituzioni saranno tenute a seguire
la procedura per rispettare la classificazione delle spese come definite nella dichiarazione comune
delle tre istituzioni; una decisione del Consiglio è stata annullata dalla Corte per violazione di un
accordo con la Commissione.
ATTI PESC E PSDC → per raggiungere gli obiettivi fissati in materia di PESC l’Unione ha a disposizione:
1) atti previsti dai Trattati
• orientamenti generali→ indirizzano le istituzioni europee nell’esercizio delle proprie
competenze esterne.
• decisioni→ possono definire l’azione dell’Ue nel quadro internazionale; possono definire la
posizione dell’Ue rispetto ad una particolare questione a cui gli stati membri sono tenuti a
conformare le proprie politiche nazionali; possono stabilire le modalità di esecuzione delle
decisioni appartenenti alle due precedenti categorie (decisioni che definiscono la sua azione
e decisioni che definiscono la sua posizione).
• linee strategiche (26 par. 2 tue)
• accordi internazionali (218 tfue)
• misure restrittive (215 tfue)

Gli atti tipici PESC e PDSC non sono atti legislativi per espressa previsione dell’art. 31 TUE → sono
adottati dal consiglio europeo o dal consiglio all’Unanimità. Per quanto riguarda la PDSC gli artt. 42
e 43 TUE attribuiscono al Consiglio la competenza ad adottare decisioni relative all’istituzione di
missioni civili e militari definendone la portata e le modalità di realizzazione.

2) atti che sono il risultato della prassi


• conclusioni del Consiglio europeo
• dichiarazioni dell’Unione o della Presidenza
Si tratta di atti che non hanno una base giuridica dunque hanno un carattere estremamente
flessibile, non sono vincolanti ma hanno una marcata valenza politica e gli stati nel rispetto dei
principi di leale cooperazione, solidarietà ecc sono tenuti ad elaborare le proprie politiche alla luce
della posizione assunta dall’Ue.

CAPITOLO VI: I RAPPORTI TRA IL DIRITTO DELL’UE E GLI ORDINAMENTI NAZIONALI

PARTE PRIMA: DIRITTO DELL’UNIONE E DIRITTO INTERNO

IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UNIONE SUL DIRITTO INTERNO


Tra i principi che qualificano i rapporti tra diritto dell’Ue e ordinamenti nazionali si colloca il
principio del primato del diritto dell’Ue sulle norme interne con esso contrastanti, sia precedenti
che successive e quale ne sia il rango. La conseguenza pratica della prevalenza della norma
dell’Unione è che la norma interna con essa contrastante deve essere disapplicata in modo tale
che il rapporto resti disciplinato dalla sola norma dell’Unione. Tale principio non era contenuto nei
Trattati istitutivi delle Comunità europee, né è stato poi inserito nel TUE e nel TFUE, esso risulta da
una Dichiarazione (n°17) allegata al T. di Lisbona che mette in risalto che tale principio è insito
nella natura del’UE e che la sua mancata inclusione nei trattati non ha alcuna rilevanza, rimanendo
invariata la sua efficacia.
Il T. di Lisbona ha introdotto anche l’art. 4 par. 2 TUE il quale prevede che l’Unione è tenuta a
rispettare l’identità nazionale degli stati membri; secondo alcune Corti Costituzionali
quest’obbligo rappresenterebbe il riconoscimento normativo della “teoria dei controlimiti”, in
realtà si tratta di una nozione piuttosto circoscritta che non coincide con quella dei controlimiti,
non comprendendo tra l’altro la tutela dei diritti fondamentali previsti dagli ordinamenti
costituzionali degli stati membri→ mentre la nostra C. Costituzionale, per sostenere la teoria dei
controlimiti include il rispetto di tali diritti.
Sicuramente il rispetto delle identità costituzionali degli stati membri costituisce un limite per la
legislazione derivata delle istituzioni dell’Ue, ma deve essere contemperato con gli altri principi
fondamentali dell’Unione e la sua valutazione spetta alla C. di giustizia (avvalendosi del dialogo
con le singole corti cost.), perché se fosse devoluta soltanto alle corti nazionali, ci potrebbe essere
il rischio che queste ultime facciano passare sotto la nozione di “identità nazionale” tutte le norme
sgradite allo stato→ si pensi alla Corte Suprema ungherese che ha fatto leva sulla nozione di
identità nazionale per dichiarare incostituzionale una decisione del Consiglio che imponeva, in
un’ottica di solidarietà, la redistribuzione di un numero di richiedenti protezione dall’Italia e dalla
Grecia verso gli altri stati membri (poi la corte cambia la sua posizione).

L’EFFETTO DIRETTO DELLE NORME DELL’UNIONE


L’effetto diretto consiste nell’idoneità della norma dell’Unione a creare diritti ed obblighi
direttamente in capo ai singoli (persone fisiche o giuridiche) senza che lo stato ponga in essere una
qualche procedura formale per riversare sui singoli gli obblighi o i diritti prefigurati da tali norme
esterne. In termini pratici, l’effetto diretto consente al singolo di far valere direttamente dinanzi al
giudice nazionale la posizione giuridica soggettiva vantata in forza della norma dell’Unione e per
l’amministrazione di far sì che il singolo adempia agli obblighi sanciti nella norma esterna. Alcuni
distinguono l’effetto diretto dall’applicazione diretta vedendo in quest’ultima una caratteristica di
alcuni atti (regolamenti)→ in realtà sono due facce della stessa medaglia: l’applicazione è una
qualità dell’atto, l’effetto diretto si colloca sul piano delle conseguenze dell’atto nell’ordinamento
interno- (questa differenza è solo dottrinaria).
Dell’effetto diretto sono provviste tutte le disposizioni dell’Unione che siano sufficientemente: 1)
chiare 2) precise 3) la cui applicazione non richieda l’emanazione di atti ulteriori da parte
dell’Unione o nazionali di esecuzione o comunque integrativi. Inoltre, non è necessario, perché
l’effetto si produca in capo ai singoli, che la norma sia ad essi formalmente destinata→ possono
essere provviste di effetto diretto anche norme indirizzate agli stati membri che impongono ad
essi un obbligo di fare o di non fare e dunque dalla cui osservanza deriva un diritto del singolo. Ad
esempio, sono provviste di effetto diretto le norme TFUE che hanno scandito la realizzazione del
mercato comune imponendo agli stati l’abolizione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci,
delle persone e dei capitali.
La giurisprudenza sull’effetto diretto è nata proprio con riguardo all’art. 30 TFUE ( “I dazi doganali
all’importazione o all’esportazione sono vietati tra gli stati membri -anche quelli di carattere
fiscale-) nella sentenza Van Gend en Loos nella quale la Corte afferma che i diritti attribuiti ai
singoli dal diritto dell’Unione possono anche essere una contropartita di precisi obblighi imposti
agli stati membri o alle istituzioni dell’Unione → nel senso che ad un obbligo dello stato
corrisponde un diritto del singolo alla sua osservanza.
Possono essere dotate di effetto diretto sicuramente le norme dei regolamenti che sono anche
dotati della diretta applicabilità, ma ciò non vuol dire che tutte le disposizioni di un regolamento
siano sempre dotate di effetto diretto (si pensi a quei regolamenti che vietino un comportamento
e obblighino al contempo l’adozione di normative diverse necessarie per la sua attuazione). Anche
le decisioni possono essere dotate di tale effetto: sia quelle rivolte ai singoli, sia quelle rivolte ad
uno stato membro (per gli stessi motivi di cui sopra).
La giurisprudenza riconosce la possibilità che possano essere dotate di effetto diretto anche le
norme di una direttiva, ma il problema in questo caso diventa più complesso: la direttiva si rivolge
ad uno o più stati membri, imponendo loro un risultato da realizzare “nelle forme che
sceglieranno”, ma nulla esclude che vi siano disposizioni di direttive che hanno le caratteristiche
(di cui sopra) proprie delle norme con effetto diretto. Questa ipotesi non va identificata in tutto e
per tutto con il caso delle direttive dettagliate/particolareggiate: una direttiva non è provvista di
effetto diretto in quanto è dettagliata poiché per avere effetto diretto non rileva che la
disposizione sia dettagliata (cioè che imponga uno specifico comportamento per realizzare un
determinato obiettivo), bensì che la norma non sia condizionata per la sua applicazione ad alcun
atto delle autorità nazionali.
Il problema dell’effetto diretto si pone solo per le ipotesi di mancata o intempestiva attuazione di
tali direttive nel termine e con i provvedimenti nazionali prescritti; nell’ipotesi di attuazione
corretta e puntuale il problema degli eventuali effetti diretti della direttiva non si pone proprio dal
momento che i singoli ne saranno investiti attraverso i provvedimenti nazionali di attuazione.
Dunque, nel caso della direttiva, l’effetto diretto piuttosto che essere costruito come una qualità
intrinseca (come si verifica per le disposizioni dei trattati e per i regolamenti), risulta collegato ad
un intento pedagogico che consente di ovviare alle negligenze ed ai ritardi degli stati membri
nell’adempimento puntuale e corretto degli obblighi loro imposti da una direttiva. E’ stato
concepito come una sanzione per gli stati inadempienti nella misura in cui attribuisce al giudice
nazionale il compito di realizzare comunque lo scopo della direttiva per la tutela delle posizioni
giuridiche individuali lese dal comportamento dello stato.
La giurisprudenza ha affermato che le direttive possono avere un effetto diretto soltanto verticale
perché il fondamento di tale effetto è stato ricondotto non ad una qualità intrinseca dell’atto
quanto all’esigenza di impedire che lo stato inadempiente possa opporre ai singoli, giovandosene,
il proprio inadempimento. Ciò significa che le disposizioni provviste di effetto diretto di una
direttiva non tempestivamente o non correttamente trasposta, possono essere fatte valere dal
singolo solo nei cfr. dello stato e non anche di altri individui (per stato si intende anche -s. Foster- :
enti territoriali, autorità incaricate di mantenere l’ordine pubblico anche se indipendenti dallo
stato, autorità che offrono servizi pubblici, più in generale nei cfr. di ogni organismo che
indipendentemente dalla sua forma giuridica sia stato incaricato dalla autorità pubblica di prestare
un servizio di interesse pubblico). L’effetto diretto verticale è unilaterale nel senso che al singolo
che fa valere il proprio diritto lo stato non può opporre la mancata trasposizione della direttiva di
cui si è reso inadempiente; mentre nell’ipotesi della direttiva che comporti un obbligo per il
singolo, lo stato non potrebbe farlo valere prima della trasposizione.
La stessa giurisprudenza ha invece escluso l’effetto diretto orizzontale delle disp. di una direttiva
→ cioè la possibilità per il singolo di far valere la norma europea anche nei cfr. di soggetti privati, e
ciò perché ai sensi del 288 TFUE la direttiva vincola solo gli stati cui è rivolta, dunque estendere
l’effetto diretto anche ai rapporti tra privati significherebbe riconoscere all’Ue il potere di emanare
norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi in capo a questi ultimi, mentre tale
competenza spetta solo laddove le sia attribuito il potere di emanare regolamenti. Tale
argomentazione, tuttavia, finisce per contraddire tout court l’effetto diretto poiché in generale
l’imposizione di obblighi agli stati membri dovrebbe essere operata con gli strumenti e le modalità
stabilite dai trattati: tra i quali non figura certamente l’effetto diretto, verticale o orizzontale che
sia. Le conseguenze di un tale approccio sono le discriminazioni che un tale sistema produce: si
pensi che nel caso di un rapporto di lavoro cui inerisca una direttiva provvista do effetto diretto
sarà favorito, sotto il profilo della tutela giurisdizionale diretta, il dipendente dell’ente pubblico
rispetto al dipendente di un’azienda privata, poiché solo nei cfr. del datore di lavoro pubblico
potrà farsi valere la direttiva.

Dell’effetto diretto possono essere provviste anche le disposizioni contenute in accordi stipulati
dall’Unione con paesi terzi nonché le decisioni degli organi misti istituiti da tali accordi (la Corte di
giustizia non riconosce la possibilità che possano avere effetto diretto le norme dell’OMG -
organizzazione mondiale del commercio- data la natura e la portata dell’accordo la cui osservanza
è fondata più sulla reciproca convivenza e non sulla vincolatività delle norme).
Quanto alle norme della Carta dei diritti fondamentali l’art. 52 par. 3della stessa pone delle
problematiche perché distingue: 1) disposizioni che garantiscono diritti e 2) disposizioni che
contengono principi. Per i primi sembra essere previsto un sistema di tutela più elevato in quanto i
diritti per essere “garantiti” vanno rispettati; per i secondi è previsto un regime di tutela più
debole: i principi vanno osservati. Da ciò si desume che mentre i diritti sono invocabili dal singolo,
a tutela delle loro posizioni giuridiche, davanti al giudice nazionale, i principi possono essere
invocati solo ai fini interpretativi. Tuttavia, ci sono artt. della Carta che contemplano sia principi
che diritti e sta alla Corte, in questi casi, il compito di individuarli e di valutare se le disp. che
contengono diritti hanno un effetto diretto verticale o anche orizzontale (si tratta di una
valutazione pragmatica che va fatta caso per caso).

L’OBBLIGO DI INTERPRETAZIONE CONFORME AL DIRITTO DELL’UNIONE


Si tratta di un rimedio utilizzabile in caso di norme sprovviste del tutto di effetto diretto (es.
direttiva non trasposta e sprovvista di effetto diretto) o nell’ipotesi di norme sprovviste di effetto
diretto orizzontale→ è infatti il rimedio apprestato dalla giurisprudenza rispetto al mancato
riconoscimento alle direttive dell’effetto diretto orizzontale: consiste nell’obbligo (imposto a tutti
gli organi nazionali -stato- ma soprattutto ai giudici) di interpretare il diritto interno in modo
compatibile con le prescrizioni dell’Unione. La corte ha plasmato tale obbligo riconducendolo al
combinato disposto dell’art 4 par. 3 TUE (“In virtù del p. di leale cooperazione, l’Ue e gli stati
membri si rispettato e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai
trattati) e dell’art. 288 TFUE comm. 3 (“le direttive vincolano lo stato membro cui si rivolgono per
quanto riguarda il risultato da raggiungere”). Tale rimedio ha un impatto meno traumatico sugli
ordinamenti nazionali rispetto alla disapplicazione con la quale viene messa da parte la norma
nazionale e applicata quella esterna; con l’interpretazione conforme formalmente si continua ad
applicare la norma nazionale, ma interpretata conformemente a quella dell’UE. E’ come se si
realizzasse in tal modo un effetto orizzontale “indiretto” delle direttive le cui norme vengono
direttamente applicate dal giudice ai rapporti tra privati, attraverso l’interpretazione conforme del
diritto interno.
Tuttavia, ci sono dei limiti per il principio in questione: innanzitutto, non si può far derivare un
obbligo del singolo dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme ad una direttiva
non trasposta, nonché non di determinare o aggravare la resp. penale dei singoli che la violano;
devono poi essere rispettati il principio della certezza del diritto, della non retroattività e infine,
non può essere data un’interpretazione contra legem (contraria ad un’altra legge nazionale) delle
norme nazionali.
Quindi, quando l’interpretazione conforme non sia possibile, in virtù dell’operatività di uno di
questi limiti, si pone un problema per le direttive prive di effetto diretto (o del solo effetto diretto
orizzontale) e non ancora recepite → la giurisprudenza tuttavia considera la direttiva non
trasposta (o trasposta in maniera non corretta) comunque un valido atto dell’unione idoneo a
produrre effetti giuridici; dunque partendo dal 288 com. 3 TFUE che individua lo stato
(unitariamente considerato) come destinatario della direttiva, la giurisprudenza, in particolare con
la sent. MANGOLD individua un ulteriore rimedio nelle ipotesi in cui non sia possibile
l’interpretazione conforme rispetto ad una norma di una direttiva non trasposta e non dotata di
effetto diretto: “la possibilità che il giudice applichi, al posto della direttiva, i principi generali
dell’unione europea sui quali la stessa direttiva si fonda”. Il caso Mangold riguardava una
normativa tedesca che per l’accesso a determinati impieghi prevedeva una discriminazione in base
all’età quindi le persone al di sopra di una determinata età non potevano svolgere determinate
attività senza un ragionevole giustificazione. Questa normativa era in contrasto con una direttiva e
il problema si era proprio posto in un rapporto tra privati (un rapporto orizzontale); non era
possibile l’interpretazione conforme perché la normativa nazionale prevedeva espressamente il
divieto per le persone che avessero raggiunto una determinata età di svolgere quella attività
lavorativa (quindi l’interpretazione conforme sarebbe andata contra legem). Però in questo caso
alla base della direttiva vi era il principio generale del divieto di discriminazione in base all’età che
rientra tra i principi generali nell’ambito delle fonti dell’unione europea. Quindi per evitare questi
effetti discriminatori e per consentire l’applicazione di questo divieto anche nei rapporti tra privati
la corte di giustizia ha applicato il principio generale del divieto di discriminazione in base all’età
per risolvere il problema del mancato recepimento o non corretto recepimento di una direttiva. Si
tratta di un caso eccezionale in quanto si applica il principio generale piuttosto che la norma di una
direttiva che è finalizzata a specificare quel principio generale che spesso è configurato in termini
piuttosto ampi. Con la sentenza in questione la corte ha “aggirato il problema” individuando la
fonte del divieto di discriminazione non nella direttiva in questione, ma in un principio generale
con conseguente disapplicazione della norma interna confliggente.

Dunque, una direttiva priva di effetto diretto non trasposta entra, alla scadenza del termine, a far
parte del diritto dell’Unione e condiziona la normativa nazionale che disciplina la stessa materia
(diviene dunque un parametro di legittimità della normativa nazionale), in questa ipotesi (altri
rimedi):

• SUL PIANO ESTERNO→ si può attivare la procedura di infrazione e se è accertata


l’incompatibilità produce come risultato l’inapplicabilità della legge nazionale da parte del
giudice e dell’amministrazione, sempre laddove non sia possibile l’interpretazione
conforme.
• SUL PIANO INTERNO → il contrasto tra norma interna ed esterna sprovvista di effetto
diretto, insanabile in via interpretativa (dunque sempre che non sia possibile
l’interpretazione conforme) è costruito come una questione di legittimità si può sollevare
alla corte cost una questione di illegittimità cost (art. 11 e 117).

OBBLIGO RISARCITORIO DELLO STATO INADEMPIENTE NEI CONFRONTI DEL SINGOLO

La giurisprudenza, a partire da alcune pronunce della seconda metà degli anni Settanta, ha
affermato il diritto del singolo al risarcimento del danno patrimoniale subito per effetto
dell’inadempimento dello stato membro, stabilendo in particolare che “quando il pregiudizio al
singolo derivi dalla violazione di una norma di diritto comunitario da parte dello stato, questo dovrà
risponderne nei cfr. del soggetto leso, in conformità alle disposizioni di diritto interno relative alla
responsabilità della p.a.”.
Tale giurisprudenza è stata poi consacrata nella s. FRANCOVICH → Si trattava di una direttiva non
trasposta dall'ordinamento nazionale che imponeva agli stati di istituire un fondo di garanzia a tutela
dei crediti maturati dai lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro. Questo obbligo non era
provvisto di effetto diretto, ma era necessario l'intervento dello stato per istituire questo fondo e
l'ordinamento italiano non l'aveva fatto, quindi si poneva il problema di tutelare i crediti dei
lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro. La corte di giustizia nella sentenza evidenziò che
sarebbero state compromesse: 1) l’efficacia delle norme (all'epoca) comunitarie e 2) la tutela dei
diritti che queste norme riconoscono ai singoli se questi soggetti non avessero avuto la possibilità
di ottenere il risarcimento dei danni quando i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto
comunitario imputabile ad uno stato membro. Una volta affermata l’esistenza del principio di
responsabilità dello stato da mancata attuazione di una direttiva, la Corte precisò le condizioni per
darne attuazione: a) il risultato prescritto dalla direttiva doveva implicare l’attribuzione di diritti a
favore dei singoli; b) il contenuto di tali diritti doveva poter essere individuato sulla base delle
disposizioni della direttiva; c) doveva sussistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a
carico dello stato e il danno subito dai soggetti lesi. → tali condizioni, affermava la corte, erano
sufficienti per far sorgere a vantaggio del singolo un diritto al risarcimento che trova direttamente
il suo fondamento nel diritto dell’Unione; inoltre affermò che “è nell’ambito delle norme del diritto
nazionale relative alla responsabilità che lo stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno
provocato.”
Dunque, la prima sentenza che in modo chiaro ha riconosciuto questo obbligo risarcitorio in capo
agli stati è stata la sentenza Francovich, anche se poi è stata la sentenza successiva BRASSERIE DU
PECHEUR (osteria del pescatore) che ha delineato le condizioni necessarie affinché possa sorgere la
responsabilità risarcitoria degli stati (che sostanzialmente ha ripreso le conclusioni dell'avvocato
generale che all'epoca era Tesauro). Prima di tutto, tale sentenza, ha fornito dei chiarimenti
fondamentali perché dopo la sentenza Francovich era sorto un dubbio (risolto negativamente in
Francovich) e cioè se il rimedio risarcitorio in questione è di carattere generale. In questa sentenza
la corte ha dato una risposta positiva: si tratta di un rimedio di carattere generale che prescinde
dall'effetto diretto o meno della norma violata: può essere fatto valere sia quando la violazione
riguardi una norma sprovvista di effetto diretto (non invocabile davanti al giudice nazionale) sia
quando la violazione riguarda una norma invece provvista di effetto diretto ( non solo la tutela c’è
già, ma è direttamente azionabile in quanto la norma è invocabile davanti al giudice nazionale,
dunque resta solo da accompagnare a questa tutela sostanziale e processuale quel minus che è
rappresentato dalla “tutela patrimoniale”).
Sempre in questa sentenza è stato stabilito un parallelismo tra il regime della responsabilità
risarcitoria degli stati e regime della resp. extracontrattuale dell'unione perché si è detto che i
presupposti dei due rimedi non devono essere differenti in mancanza di una ragionevole
giustificazione, in quanto il risarcimento del danno non può variare in funzione della natura
dell'organo nazionale o dell'unione che abbia commesso la violazione ,anche se poi, andando a
vedere in concreto, il sistema della responsabilità risarcitoria dell'unione è più rigido rispetto a
quello degli stati (ci sono delle peculiarità per cui è più difficile ottenere il risarcimento dei danni).
Altro principio fondamentale che è stato stabilito nella sentenza Brasserie e poi ripreso dalla
giurisprudenza successiva è il principio dell'unità dello stato, o dell'indifferenza dell'organo che
abbia commesso la violazione. Agli occhi dell'unione europea, il soggetto responsabile è sempre lo
stato, a prescindere dall'organo che abbia commesso la violazione (organo del potere legislativo,
esecutivo, amministrazione centrale o locale oppure organo del potere giudiziario); è una questione
di diritto interno se poi lo stato intende rivalersi sul soggetto responsabile dei danni derivanti dalla
violazione. Negli stati a struttura federale è possibile che lo stato possa dire che al suo posto paghi
la regione che abbia effettivamente commesso la violazione, ma se la regione non pagherà o
pagherà in modo insoddisfacente il soggetto responsabile è sempre e comunque lo stato.
Il principio, secondo tale giurisprudenza, vale anche per i GIUDICI, tuttavia il fatto che lo stato sia
responsabile anche nelle ipotesi in cui le sentenze della cassazione o del consiglio di stato (di ultimo
grado: definitive) siano in contrasto con il diritto dell'unione europea, ha suscitato parecchi dubbi;
in particolare furono sollevate due obiezioni: 1) è leso il principio dell'autonomia e
dell’indipendenza della magistratura; 2) è messo in discussione il passaggio in giudicato di una
sentenza che è un principio fondamentale di certezza del diritto.
A queste due obiezioni la corte di giustizia ha risposto con la sentenza KOBLER e poi con la sentenza
“Traghetti nel mediterraneo”) fornendo chiarezza su entrambi i punti. Primo punto: se si riconosce
la responsabilità dello stato per fatto del giudice, non si mette in discussione l'autonomia della
magistratura perché non è in tal modo investita la responsabilità personale del giudice, ma la
responsabilità dello stato. Poi per una questione di diritto interno, su come si intende regolare il
rapporto tra il magistrato e stato è una questione che non coinvolge il diritto dell'Unione, è una
questione interna che va risolta secondo le proprie norme costituzionali o le norme convenzionali,
come le norme della CEDU sull'equità del processo e l'autonomia del magistrato.
Secondo punto: la corte ha chiarito che il riconoscimento della responsabilità risarcitoria degli stati
è cosa diversa dal mettere in discussione il giudicato di una sentenza anche perché il giudicato, e
quindi la certezza del diritto, è un principio comune agli ordinamenti degli stati membri ed è un
principio generale del diritto dell’UE che la corte di giustizia deve garantire.
Queste conclusioni cui è pervenuta la corte non dovrebbero applicarsi, in linea di principio, alle
violazioni del diritto dell’Ue riconducibili alle decisioni di un giudice non di ultima istanza sia perché
su di esso non grava l’obbligo di sollevare un quesito pregiudiziale, sia perché la sua sentenza può
essere impugnata davanti un giudice superiore; eppure c’è chi ha sostenuto che nell’ipotesi di
un’interpretazione consolidata della giurisprudenza dell’Unione, si possa ipotizzare una resp. dello
stato per una violazione sistemica compiuta da un giudice non di ultima istanza.

Le CONDIZIONI SOSTANZIALI del diritto al risarcimento sono cumulative e sono tre:

1) la norma del diritto dell’Ue violata deve conferire diritti ai singoli→ deve trattarsi di una
disposizione che genera diritti in favore dei singoli, che abbiano lo scopo di tutelare gli interessi del
singoli: tale condizione non va confusa con il significato dell’effetto diretto, è chiaro che una norma
provvista di effetto diretto è sempre una norma preordinata a conferire diritti ai singoli, ma non è
vero il contrario; una norma preordinata a conferire diritti ai singoli può o meno essere provvista di
effetto diretto a seconda che abbia quegli ulteriori requisiti (sia chiara, precisa, suscettibile di
applicazione immediata), ad es. le norme della direttiva Francovich attribuivano diritti ai singoli in
caso di insolvenza del datore di lavoro ma non erano provviste di effetto diretto perché richiedevano
un intervento da parte del legislatore italiano.

2) vi deve essere una violazione sufficientemente qualificata da intendere come violazione grave e
manifesta→ a tal fine vanno presi in considerazione una serie di elementi: a) innanzitutto il grado
di discrezionalità dell’organo che abbia commesso la violazione (tanto maggiore è la discrezionalità
attribuita all’organo nazionale, tanto meno grave e manifesta è la violazione; tanto meno l’organo
ha discrezionalità a sua disposizione, tanto più grave e manifesta è la violazione, fino ad arrivare al
caso limite che il comportamento dell’organo è vincolato, non ha discrezionalità, in questo caso
basta la semplice violazione per integrare gli estremi della violazione grave e manifesta. b) il
carattere intenzionale o involontario della violazione; c) la scusabilità o inescusabilità; d) la
circostanza che le istituzioni dell’Unione abbiano potuto concorrere alla violazione del diritto
dell’UE; e) l’esistenza o meno di una giurisprudenza consolidata della corte di giustizia (quando c’è
già un precedente, è chiaro che si ritiene presunta la violazione grave e manifesta); f) in particolare,
nell’ipotesi di responsabilità dello stato giudice un altro elemento da prendere in considerazione è
la violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza.
3) nesso causale tra violazione e danno.

CONDIZIONI PROCEDURALI→ le azioni risarcitorie devono essere proposte dinanzi ai giudici interni
applicando le regole procedurali nazionali data l’assenza di un’armonizzazione dell’Unione delle
norme procedurali nazionali: si parla di autonomia procedurale → è l’ordinamento giuridico interno
di ciascuno stato membro che designa il giudice competente e stabilisce le modalità procedurali
delle azioni intese a garantire i diritti spettanti ai singoli in forza delle norme dell’Unione. Si
applicano quindi le regole interne, ma con dei limiti, l’autonomia processuale deve rispettare due
principi fondamentali:

1) principio di equivalenza → le condizioni fissate dalla normativa nazionale in materia di


risarcimento dei danni per violazione del diritto dell’UE non devono essere meno favorevoli
di quelle previste per gli analoghi rimedi disponibili a livello nazionale.
2) principio di effettività → le condizioni processuali non devono essere congeniate in modo
tale da rendere impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento del danno.

Questi principi valgono anche per il soggetto che intende far valere un rimedio di tutela
diretta/sostanziale. Questo rimedio risarcitorio è stato utilizzato nel nostro ordinamento a tutela
dei soggetti deboli (caso Francovich) si pensi anche alle questione che riguarda i medici
specializzandi: la normativa interna prevedeva un’attività lavorativa da parte dei medici senza
alcuna remunerazione in contrasto con una direttiva comunitaria. Si trattava di soggetti che
svolgevano a tutti gli effetti un’attività lavorativa e non meramente formativa. Ai sensi della direttiva
comunitaria dovevano avere una remunerazione; però lo stato italiano non la prevedeva e in questo
caso è stato utilizzato il rimedio risarcitorio nei confronti dello stato per violazione di una direttiva
comunitaria. Un altro caso è quello di Traghetti nel Mediterraneo→ si trattava di un’impresa che
era fallita perché si trovava a competere con la Tirrenia che beneficiava di aiuti dallo stato e
Traghetti del Mediterraneo no, dunque non era una competizione ad armi pari: questo portò al
fallimento di Traghetti nel Mediterraneo che propose un’azione risarcitoria.

PARTE SECONDA: I RAPPORTI TRA L’UNIONE E L’ORDINAMENTO ITALIANO

Mentre la Corte di giustizia è pervenuta subito all’affermazione della prevalenza delle norme
dell’Unione sulle norme nazionali, la Corte Costituzionale vi è pervenuta dopo un grande travaglio
intellettuale. In origine, le posizioni delle due corti erano diametralmente opposte, progressivamente
poi la Corte Cost. si è avvicinata alla posizione della Corte di Giustizia. Poi, quando sembrava che il
quadro si fosse assestato è intervenuta la Sentenza “Taricco” che ha aperto una nuova fase dei rapporti
tra diritto dell’Unione europea e diritto interno.

SENTENZA “COSTA/ENEL”→ Nei primi anni Sessanta, in vista della legge di nazionalizzazione
dell’energia elettrica, si poneva un problema di compatibilità di questa legge con il diritto allora
comunitario. Il problema si poneva perché nel nostro ordinamento i rapporti tra diritto comunitario e
diritto interno venivano affrontati sulla base del principio della successione delle leggi nel tempo: la
legge successiva deroga e prevale sulla legge precedente. Il problema non si poneva nell’ipotesi in cui
la normativa comunitaria fosse stata successiva a una norma di legge nazionale perché in base al
principio della successione era chiaro che la norma comunitaria, in quanto successiva, prevaleva sulla
orma nazionale. Il principio del primato del diritto dell’Unione, invece, veniva messo in discussione
nell’ipotesi in cui una legge interna fosse stata successiva alla norma comunitaria, proprio come nel
caso della legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica perché in base a questo principio della
successione delle norme nel tempo la norma interna doveva prevalere sulla norma comunitaria. Infatti,
questa fu la posizione espressa dalla Corte Costituzionale quando, contestata la legge italiana sulla
nazionalizzazione dell’energia elettrica dinanzi al giudice conciliatore di Milano sotto il duplice profilo
della incompatibilità con la Costituzione e con il diritto comunitario, lo stesso rivolse, la questione di
compatibilità prima alla Corte Costituzionale e poi alla Corte di Giustizia. Mentre la Corte di Giustizia
affermò in modo netto e chiaro il principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno,
principio che doveva trovare sempre applicazione, a prescindere dal fatto che la norma comunitaria
fosse stata precedente o successiva; la Corte Cost., invece, affermò la preminenza della legge di
nazionalizzazione dell’energia elettrica sulla norma del Trattato→ questo perché, a differenza di altri,
nel nostro ordinamento non fu modificata la Costituzione per aprire il sistema all’ingresso delle norme
comunitarie; dunque ai Trattati istitutivi era stata data attuazione con una legge ordinaria e, quindi, il
conflitto, in questo caso, secondo la Corte Cost., andava risolto tra leggi ordinarie: una di adattamento
ai Trattati e una, nel caso di specie, di nazionalizzazione dell’energia elettrica, successiva alla legge di
attuazione dei Trattati istitutivi e in quanto tale prevalente.

Si può notare, quindi, come in origine la posizione delle due corti fosse antitetica; progressivamente
poi la Corte Costituzionale si è avvicinata alla posizione della Corte di Giustizia, cercando un
fondamento, a livello costituzionale, che potesse assicurare il principio del primato.
Secondo una tesi (Monaco) si poteva far affidamento sulla formulazione dell’art. 11 Cost→“L'Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” sulle limitazioni di sovranità. Tuttavia, si
riteneva che l’art. 11 Cost. non potesse essere stato pensato per enunciare il principio del primato del
diritto comunitario perché essendo la Costituzione precedente all’entrata in vigore dei Trattati
istitutivi, il nostro Costituente non poteva di certo prevedere che successivamente si sarebbe dovuto
dare attuazione ai Trattati istitutivi delle Comunità europee. Proprio per questo “limitazione di
sovranità” era inteso come limitazione di sovranità territoriale e militare per le organizzazioni
internazionali, per fare in modo che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale le nostre forze armate
potessero essere guidate da forze internazionali quali la NATO. Però la tesi del Monaco aveva ipotizzato
che qui “limitazione di sovranità” potesse essere inteso in senso ampio, quindi nel senso di consentire
anche le limitazioni di sovranità a carattere normativo, per assicurare il principio del primato del diritto
comunitario sul diritto interno. Si trattava di una tesi, in origine minoritaria, che poteva sembrare anche
una forzatura, che poi, però, la Corte Cost. accolse, proprio per trovare un fondamento costituzionale
alla preminenza del diritto comunitario sul diritto interno→ questo fondamento venne, quindi,
individuato nell’art. 11 Cost.
Questo passaggio si realizzò con le SENTENZE “INDUSTRIE CHIMICHE” E “FRONTINI” che danno inizio
ad una fase intermedia in cui la Corte ipotizzava che qualsiasi conflitto con una norma comunitaria si
risolvesse come un conflitto con l’art. 11 Cost.; dunque il giudice nazionale posto di fronte al conflitto
tra norma comunitaria e norma nazionale non poteva direttamente disapplicare la norma nazionale in
conflitto con una norma comunitaria provvista di effetto diretto, ma doveva sospendere il giudizio e
rimettere la questione alla Corte Costituzionale. Una soluzione che da una parte poteva avere un pregio
perché, sostanzialmente, consentiva di risolvere definitivamente la questione nell’ipotesi in cui fosse
accertato dalla Corte Costituzionale il conflitto, in quanto veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale
della norma di legge nazionale e questa veniva espunta dall’ordinamento interno. Tuttavia, tale
soluzione non ebbe molti consensi dalla giurisprudenza nazionale e dalla dottrina perché se ogni
conflitto dovesse essere risolto dalla Corte Costituzionale, ci sarebbe stato un allungamento eccessivo
dei tempi del giudizio e la mancanza di un’efficace tutela delle posizioni giuridiche del singolo tutelate
dal diritto comunitario; restava a favore della posizione della Corte Cost. il pregio della certezza del
diritto che consegue al giudizio centralizzato di legittimità.

Proprio per questo, fu investita della questione la Corte di Giustizia nella famosa SENTENZA
“SIMMENTHAL” → il giudice nazionale chiese, in via pregiudiziale, alla Corte di giustizia se quel
meccanismo ipotizzato dalla nostra Corte Cost. non fosse, in qualche modo, incompatibile con il diritto
comunitario e con l’esigenza di assicurare un’applicazione diretta e immediata alle norme comunitarie
provviste di effetto diretto. Il punto focale del problema era rappresentato dalla circostanza che al
giudice era preclusa dal suo diritto nazionale, così come interpretato dalla Corte Cost., la
disapplicazione della norma interna posteriore contrastante con quella dell’Unione, in quanto doveva
previamente esaurirsi il procedimento di verifica di compatibilità costituzionale dato che il contrasto
tra norma nazionale e norma dell’Unione si configurava come contrasto con l’art. 11 della Costituzione.
La Corte di Giustizia diede una risposta netta, affermando che i principi dell’effetto diretto e del primato
impongono che le norme comunitarie siano applicate immediatamente al posto di quelle nazionali con
esse contrastanti. Verrebbe altrimenti compromessa l’efficacia e l’uniforme applicazione del diritto
comunitario, se si dovesse di volta in volta attendere o una rimozione in via legislativa dell’antinomia,
o un accertamento da parte della Corte Costituzionale dell’illegittimità costituzionale della norma di
legge. Quindi, una critica forte che portò, inevitabilmente, la Corte di Cost a cambiare la sua posizione.

Questo cambiamento di posizione si ebbe con la sentenza “GRANITAL” che affermò il principio del
primato. La corte Cost in questa sentenza evidenziò che, pur muovendo da una posizione teorica
diversa (in quanto la Corte di Giustizia ha sempre avuto una visione monista dei rapporti tra diritto
dell’Unione e diritti nazionali -considerandoli come un unico ordinamento-, mentre la stessa ha una
visione dualista -ossia sostiene che i due ordinamenti sono autonomi e distinti anche se coordinati tra
loro in forza dell’art. 11 Cost. che ha consentito di trasferire determinate competenze dell’ordinamento
nazionale al diritto comunitario-), nell’ipotesi di conflitto con una norma comunitaria provvista di
effetto diretto, questa impedisce alla norma nazionale di venire in rilievo, ai fini della disciplina del
rapporto→ di conseguenza, si impone al giudice nazionale la disapplicazione della norma interna, che
non significa annullamento della norma interna, ma significa che il giudice nazionale metterà da parte
la norma nazionale confliggente, per poter applicare, invece, direttamente la norma comunitaria che
disciplinerà quel rapporto controverso che viene portato dinanzi al giudice nazionale ai fini della
soluzione della controversia. Quindi, si consente un’applicazione immediata del diritto comunitario ma
non si rimuove definitivamente dall’ordinamento interno quel conflitto. Sarà sempre necessario per
rimuoverlo o un intervento tempestivo da parte del legislatore oppure un intervento della Corte di
Giustizia. Si presuppone o un intervento della Corte di Giustizia, soprattutto attraverso lo strumento
del rinvio pregiudiziale che consente di risolvere definitivamente il conflitto e di interpretare la norma
europea in questione, o un intervento tempestivo da parte del legislatore nazionale che porti ad
eliminare dall’ordinamento, abrogare o modificare la norma nazionale in contrasto con la norma
comunitaria.

Naturalmente, il giudice nazionale può provvedere alla disapplicazione quando la norma comunitaria
è provvista di effetto diretto (quando è chiara e precisa e suscettibile di applicazione immediata), se la
norma comunitaria non è dotata di effetto diretto, una delle possibilità è proprio il rinvio alla Corte
Costituzionale per far valere la violazione dell’art. 11 Cost. e altresì dell’art. 117 Cost, sempreché non
sia possibile utilizzare il rimedio dell’interpretazione conforme, che ha acquisito sempre più rilevanza
e perché, evidentemente, l’interpretazione conforme è un rimedio meno traumatico, ha un impatto
minore sugli ordinamenti nazionali e quindi il giudice comune dovrà verificare prima la strada
dell’interpretazione conforme e poi percorrere, eventualmente, quella della disapplicazione o degli
altri rimedi (a seconda che la norma europea abbia o meno effetto diretto).

LA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE POST GRANITAL


La posizione espressa nella sentenza “Granital” si è mantenuta invariata per diversi anni anche se ci
sono state delle ulteriori precisazioni: la Corte Costituzionale ha limitato l’ammissibilità del referendum
abrogativo delle norme che si collegano ad impegni assunti a livello europeo. C’è stata, poi, un’ulteriore
novità fornita dalla riforma dell’art. 117 Cost (“la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle
regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione e dagli
obblighi internazionali”) che ha formalizzato il principio del primato, al di là della collocazione forse
poco felice, in quanto avrebbe dovuto essere introdotto nella prima parte della Costituzione, più che
nella parte dedicata ai rapporti Stato-Regioni. Nel nostro ordinamento non c’era una previsione
espressa del primato e perciò questo art. costituisce un elemento di chiarezza che però non modifica
tutta la costruzione teorica dell’art. 11 Cost. che rimane in piedi. Dunque, in caso di conflitto con una
norma comunitaria non dotata di effetto diretto si farà valere la violazione dell’art. 11 Cost. e dell’art.
117 Cost. Nel conflitto invece con una norma dell’Unione dotata di effetto diretto la norma interna
resta soggetta alla disapplicazione, non essendoci alcuna questione di legittimità costituzionale, ma
solo di competenza dell’ordinamento dell’Unione in luogo di quello nazionale, dunque nell’ipotesi in
cui venga portato di fronte alla Corte Costituzionale il conflitto tra una norma comunitaria provvista di
effetto diretto e una norma nazionale, dichiarerà la questione inammissibile.
La Corte di Giustizia è arrivata ad affermare anche, proprio ai fini dell’effettività e del primato del diritto
dell’Unione europea sul diritto interno, che il giudice comune può addirittura sospendere in via
cautelare una legge → questa affermazione di principio è contenuta nella sentenza “Factortame”→
nella specie si trattava del potere di sospendere in via cautelare l’applicazione di una legge inglese che
precludeva l’iscrizione nel registro navale di soggetti privi di determinati requisiti di nazionalità e
residenza, potere che un principio del diritto interno inglese negava al giudice finché il contrasto tra
legge interna e norma dell’unione non fosse ancora accertato.

LA TEORIA DEI CONTROLIMITI


C’è stato, nel corso degli anni un tentativo da parte di alcune Corti Costituzionali, di rafforzare le proprie
competenze e prerogative nei rapporti col diritto dell’Unione europea. Tanto è vero che la Corte di
Giustizia ha rivisto il principio elaborato nella sentenza Simmenthal: in alcune sentenze (“Melki”) ha
riconosciuto la possibilità che il giudizio di costituzionalità possa avere una priorità rispetto al rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia, sempre che tali giudici mantengano in ogni tempo, anche all’esito
del giudizio di costituzionalità, il potere di adire la Corte di giustizia e di dare attuazione al diritto
dell’Unione come da questa interpretato.

Con la sentenza GRANITAL è stata affermata in modo chiaro la prevalenza del diritto dell’Unione, ma
la corte Cost., muovendo dalla tradizionale teoria dei controlimiti e da un approccio dualistico dei
rapporti tra ordinamento interno e dell’unione, ha inteso comunque salvaguardare il nucleo dei valori
fondamentali del nostro ordinamento nelle ipotesi di eventuali conflitti con una norma dell’Unione
quale che sia il rango con cui quest’ultima entri a far parte del nostro ordinamento.
La sentenza “Granital” precisava quando si verificano queste ipotesi di “controlimiti”: quando entrano
in gioco i principi fondamentali del nostro ordinamento, quando entrano in gioco quindi i diritti
inalienabili della persona, i diritti fondamentali, o quando ci sono delle norme che mettono in
discussione la perdurante osservanza del nocciolo duro dei Trattati, vale a dire le cd. ipotesi di
“ribellione del legislatore” (che si verifica quando il legislatore volutamente e in modo ripetuto abbia
violato i Trattati, le norme fondamentali dei Trattati). Vi sono, in sostanza, tre ipotesi che non si
sottraggono all’intervento della Corte costituzionale (e in cui l’applicazione del diritto dell’Unione
risulta recessivo in via eccezionale). In queste ipotesi il giudice comune non può procedere alla
disapplicazione ma deve coinvolgere la Corte di Costituzionale.
Dunque, la teoria dei controlimiti rappresenta un limite all’applicazione generalizzata del principio del
primato del diritto dell’Unione, il diritto dell’Ue prevale ma non fino a lede i diritti fondamentali del
nostro ordinamento; tuttavia tale teoria ha sempre avuto uno scarso impatto pratico innanzitutto
perché i diritti fondamentali costituiscono parte integrante del diritto dell’Unione e poi perché tali
diritti sono stati rafforzati con la Carta.
Negli ultimi anni però c’è stata una riespansione del controllo della corte costituzionale sul rispetto dei
controlimiti prima con la 269 del 2017 e poi con la Taricco con la quale si è manifestato in concreto il
rischio dell’utilizzo dei controlimiti da parte della corte costituzionale.

CASO TARICCO

Taricco 1 →Nel 2014 il GUP presso il tribunale di Cuneo chiamato a giudicare due soggetti
imputati dei reati di frode fiscale in materia di IVA sollevò rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia
perché si era reso conto che il procedimento si sarebbe concluso dopo che erano già decorsi i
termini di prescrizione e quindi chiedeva alla stessa se la normativa italiana in materia di
prescrizione fosse compatibile con le disposizioni dei trattati. La Corte di Giustizia ha considerato
la normativa italiana sulla prescrizione in contrasto con l’art. 325 TFUE il quale sancisce l’obbligo
degli Stati membri di contrastare i reati in materia di frode fiscale con delle misure sanzionatorie
effettive e dissuasive, in quanto l’IVA costituisce una parte importante del bilancio comunitario e
queste frodi, se non adeguatamente sanzionate, sottraggono importi allo stesso. Sulla base di
questa disposizione, la Corte di Giustizia ritiene che la norma in tema di prescrizione sia idonea a
pregiudicare gli obblighi imposti dal 325 agli Stati perché impedisce agli stessi di infliggere sanzioni
effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode. Dunque, il Giudice nazionale - in
virtù del 325 - è tenuto direttamente a disapplicare le normative in tema di prescrizione
confliggenti con gli obblighi del diritto dell’Unione

La Corte Costituzionale, reinvestita della questione, indica che la regola prevista nella Taricco 1
contrasta con il principio di legalità dei delitti e delle pene il quale impone che le norme penali
debbano avere un contenuto preciso e non possano essere retroattive. Dunque, secondo la Corte
Costituzionale applicando il 325 in luogo del 160 cp. si violerebbe tale principio, punendo gli
imputati creando per loro conseguenze sfavorevoli senza che avessero avuto la possibilità di
prevederle. Dunque, in tale occasione la Corte Costituzionale minaccia di applicare i controlimiti
affermando che avrebbe dichiarato la illegittimità costituzionale della legge nazionale contenete
l’autorizzazione alla ratifica e all’esecuzione dei Trattati europei per la parte in cui essa consente la
violazione del principio fondamentale di legalità dei delitti e delle pene. In questa occasione la
Corte non applica i controlimiti, ma ne minaccia l’applicazione e investe la Corte di Giustizia di un
ulteriore rinvio pregiudiziale chiedendo alla stessa se il 325 debba essere interpretato nel senso
dettato dalla Corte di Giustizia nella Taricco 1 anche se comporta la violazione del principio di
legalità penale.

Taricco 2 → Con questa sentenza la Corte di Giustizia viene incontro alle esigenze della Corte
Costituzionale e ritorna sui propri passi stabilendo che il 325 debba essere interpretato nel senso
che impone la disapplicazione di tutte quelle norme nazionali che impediscono l’applicazione di
sanzioni effettive, a meno che tali disapplicazione non comporti una violazione del principio di
legalità, a causa dell’applicazione retroattiva di una normativa che pone un regime più severo di
quello vigente al momento della commissione del reato.

Nonostante questo passo avanti della corte di Giustizia, la Corte Costituzionale con sentenza 115
del 2018 sancisce che non solo che la regola Taricco non si applica ai casi verificatesi prima della
Taricco 1, ma anche nei procedimenti futuri. Dunque, il Giudice nazionale non può disapplicare la
norma interna perché spetta alla Corte Costituzionale il compito di accertare se il diritto
dell’Unione è in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento interno. Da questa
reazione della Corte Costituzionale si evince che ci si trova in una nuova fase dei rapporti tra
ordinamento dell’Unione e ordinamento interno, quantomeno relativamente ai conflitti tra
disposizione dell’Unione e principi fondamentali dell’ordinamento interno che non possono essere
risolti dal parte del Giudice interno con la disapplicazione, ma è necessario un intervento della
Corte Costituzionale (sembra essere tornati, in questo caso, alla posizione che assunse la Corte
Costituzionale nelle sentenze Industrie Chimiche e Frontini).

PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UNIONE E GIUDICATO


La corte di giustizia occupandosi del rapporto tra diritto dell’Unione e sentenze nazionali con esso
contrastanti e passate in giudicato, a differenza di quanto la dottrina aveva sulla base di una erronea e
veloce lettura delle sue sentenze affermato, ha più volte ribadito la centralità del principio
dell’intangibilità del giudicato nazionale. Nelle sentenze KUHNE (2004) e PIZZAROTTI (2014) sancisce
infatti la prevalenza del giudicato sul diritto comunitario (in caso di contrasto) almeno che non ci sino
strumenti, apprestati dal diritto nazionale, che permettano di integrare/modificare il giudicato (ad es.
ottemperanza). Inoltre, nella recente Pizzarotti la corte afferma che quanto sancito nella sent.
LUCCHINI (2007) è un’eccezione alla regola che è contenuta nelle sentenze suddette, perché in
quest’ultima entra in gioco la ripartizione di competenze tra gli stati membri e l’unione in materia di
aiuti di stato. Con la s. Lucchini la corte sancisce eccezionalmente la superiorità del diritto comunitario
rispetto ad una sentenza nazionale passata in giudicato→ stabilendo dunque che il giudicato nazionale
“anticomunitario” non è intangibile perché sussistendo alcune condizioni può essere superato a favore
della corretta applicazione del diritto comunitario. Tali condizioni sono quelle indicate nelle due
sentenze suddette e un’altra prevista nel caso Lucchini→ cioè il fatto che il giudicato verte su una
materia di competenza esclusiva dell’Unione (aiuti di stato), in tal caso il giudicato soccombe in quanto
risulta reso in carenza di potere. Al di fuori di questa ipotesi, la possibilità che il giudicato nazionale
anti-comunitario sia messo in discussione, dipende dalla relativa disciplina nazionale.

PARTE TERZA: LA PARTECIPAZIONE DELL’ITALIA ALL’UNIONE

La legge n° 234/2012 ha riformato le norme che regolano la partecipazione dell’Italia alla


formazione ed all’attuazione della normativa europea, adeguando il nostro ordinamento alle
modifiche intervenute nell’Unione a partire dall’entrata in vigore del T. di Lisbona e sostituendo la
l. Buttiglione del 2005 che a sua volta abrogò la l. La Pergola del 1989. La responsabilità delle due
fasi (ascendente -di formazione- e discendente -di attuazione-) continua ad essere attribuita al
Governo, alle Camere, alle Regioni e alle Province autonome, prevedendo tuttavia un maggiore
coinvolgimento delle camere e delle autonomie territoriali.

LA FASE ASCENDENTE
Questa fase trova sede operativa nel Dipartimento per le politiche europee (Dipartimento del
Consiglio dei Ministri) istituito per gestire la partecipazione dello stato alla formazione delle
politiche e degli atti adottati dalle istituzioni dell’Unione. Esso collabora con il Presidente del
Consiglio per l’esercizio delle funzioni attribuite all’esecutivo nel processo di formazione ed
attuazione degli atti dell’Unione ed è posto sotto la direzione del Ministro degli affari europei. Più
precisamente la posizione che il Governo assume nelle sedi istituzionali si forma attraverso
un’azione di coordinamento operata dal Comitato interministeriale per gli affari europei (CIAE) al
quale è affidato il compito di coordinare a livello ministeriale le linee politiche del governo ed
elaborare una posizione italiana da esprimere da esprimere nella fase di predisposizione degli atti
dell’Unione. Per lo svolgimento delle sue funzioni si avvale di un CTV (comitato tecnico di
valutazione) composto da un rappresentante di ogni ministero e, nel caso, di ogni regione e
provincia autonoma che ha il compito di raccogliere le istanze delle diverse amministrazioni sulle
questioni in discussione in sede europea.

La legge in questione ha valorizzato il ruolo del Parlamento che deve essere informato sulla
posizione che il Governo intende assumere prima di ciascuna riunione del Consiglio europeo e del
Consiglio, nonché a posteriori sui risultati di tali riunioni. Al parlamento devono pervenire poi: una
relazione programmatica (entro il 31 dicembre) ed un’altra consuntiva (entro il 28 febbraio) che
servono rispettivamente a chiarire gli orientamenti che il governo intende perseguire nell’anno
successivo e a render conto degli sviluppi nel processo di integrazione registratisi l’anno
precedente. Inoltre, è direttamente coinvolto nell’elaborazione degli atti dell’Unione in quanto il
presidente del Consiglio o il Ministro per gli affari esteri trasmette alle Camere i progetti di atti
dell’unione unitamente alla nota illustrativa dell’esecutivo; le informazioni così trasmesse alle
Camere consentono loro di orientare la politica dell’esecutivo in seno all’Unione e in tale ottica le
stesse possono trasmettere al Governo precisi atti di indirizzo e quest’ultimo è tenuto a farsi
portavoce degli stessi in sede europea ed a riferire e motivare eventuali posizioni difformi assunte.
Altro strumento di partecipazione è la riserva di esame parlamentare cioè il Governo può far
presente l’impossibilità di votare in sede europea su un determinato atto perché è in attesa del
parere del Parlamento. L’importanza del ruolo assunto dalle Camere si fa ancora più evidente nella
verifica del rispetto del p. di sussidiarietà → la legge in questione, riprendendo quanto sancito nei
Protocolli 1 e 2 allegati ai trattati, aggiunge l’obbligo di trasmissione anche al Governo dei pareri
motivati che possono essere inviati dalle Camere al Parlamento europeo, al Consiglio ed alla
Commissione per contestare la conformità del progetto dell’atto dell’Unione al principio di
conformità (siamo nell’ambito della procedura di allarme preventivo cioè di controllo ex ante sul
rispetto del principio in questione); nell’ambito del controllo ex post la suddetta legge prevede
l’obbligo del governo di presentare alla Corte di giustizia i ricorsi deliberati dalla Camera o dal
Senato avverso un atto legislativo dell’Unione per violazione del suddetto principio. Infine, il
Parlamento può chiedere al rappresentante dell’Italia in seno al Consiglio dell’unione di avvalersi
del meccanismo del freno di emergenza che consente al Governo di opporsi ad una delibera del
Consiglio a maggioranza qualificata, adducendo motivi di politica nazionale o la salvaguardia dei p.
fondamentali.

LA FASE DISCENDENTE
In precedenza, l’adeguamento dell’ordinamento all’Unione avveniva con la legge comunitaria
emanata annualmente dal Parlamento e contenente le disposizioni di legge necessarie ad
assicurare l’adempimento di più atti ed obblighi europei; tuttavia, l’uso della stessa non è stato
efficace, anzi è sfociato in numerose procedure di infrazione per inadempimento degli obblighi o
di tardivo recepimento delle direttive europee. Attualmente, invece, assicurano il periodico
adattamento dell’ordinamento nazionale a quello dell’unione, la legge di delegazione e la legge
europea, anche se vi è la possibilità, in specifiche ipotesi, di procedervi con altri provvedimenti di
legge oppure specifici atti legislativi.
Quanto alla prima, il disegno di legge di delegazione deve essere presentato alle Camere il 28
febbraio di ogni anno ed è accompagnato da una relazione illustrativa che spiega il suo contenuto
motivando l’inclusione delle direttive da recepire con strumento delegato, dando conto
dell’eventuale omesso inserimento delle direttive il cui termine di recepimento è in scadenza o è
scaduto, fornendo l’elenco delle direttive da recepire in via amministrativa e riferendo, infine,
sullo stato di conformità dell’ordinamento al diritto dell’unione e sullo stato delle eventuali
procedure di infrazione. Un’ulteriore legge di delegazione europea, completata dalla dicitura
“secondo semestre”, senza relazione illustrativa, può essere presentata entro il 31 luglio di ogni
anno, se il governo ritiene siano emerse nuove esigenze di adempimento degli obblighi
dell’Unione. Essa contiene disposizioni per il conferimento al Governo di delega legislativa:
• volta all’attuazione delle direttive e degli atti che necessitano di essere attuati;
• per modificare o abrogare disposizioni statali vigenti limitatamente a quanto indispensabile
per garantire la conformità dell’ordinamento interno ai pareri motivati indirizzati all’Italia
dalla Commissione ai sensi dell’art. 258 TFUE o al dispositivo di sentenze di condanna per
inadempimento emesse dalla Corte di giustizia;
• per l’attuazione di norme non direttamente applicabili contenute in regolamenti europei;
• per l’emanazione di decreti legislativi, nelle materie di competenza legislativa delle regioni
e delle province autonome recanti sanzioni penali per la violazione delle disposizioni
dell’Unione recepite da tali enti.
Contiene altresì disposizioni che individuano i principi fondamentali nel rispetto dei quali regioni e
province autonome esercitano la propria competenza normativa per recepire atti dell’Unione nelle
materie di loro competenza.
Il Governo è tenuto ad adottare i decreti legislativi entro i quattro mesi antecedenti al termine
indicato in ciascuna direttiva e se il termine è già scaduto o sta per scadere devono essere adottati
entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge di delegazione; se non è indicato alcun termine di
recepimento vanno adottati entro 12 mesi dall’entrata in vigore della suddetta legge. E’ fatto
divieto al governo, in sede di recepimento, di introdurre livelli di regolazione superiori a quelli
minimi richiesti dalla direttiva e deve assicurare la parità di trattamento dei cittadini italiani
rispetto a quelli degli altri stati membri.
In particolare, le direttive possono essere recepite a prescindere dalla legge di delegazione in
quanto:
• la delega, sulla cui base vengono emanati i decreti legislativi attuativi di una direttiva, può
essere contenuta in una legge diversa dalla legge di delegazione, ma sempre nel rispetto
dei principi e dei criteri direttivi generali previsti dalla stessa legge di delegazione europea
per l’anno di riferimento.
• il governo può adattare provvedimenti urgenti necessari a far fronte ad atti dell’Unione o
sentenze della corte di giustizia che comportano obblighi statali di adeguamento.
• il recepimento delle direttive può avvenire anche in via regolamentare nelle materie di cui
al 117.2 già disciplinate con legge, ma non coperte da riserva di legge assoluta, qualora il
tenore della direttiva lo consenta.
• possono essere recepite con atto ministeriale o interministeriale qualora la direttiva non
riguardi una materia disciplinata dalla legge o qualora si tratti di dare esecuzione ad una
direttiva già recepita nel nostro ordinamento.

Quanto alla “la legge europea”, essa rappresenta lo strumento normativo di adeguamento dell’Italia
agli obblighi dell’Unione adottato direttamente dal Parlamento; anch’essa ha cadenza annuale, ma
non è previsto un termine per la presentazione del relativo disegno di legge, è finalizzata
essenzialmente ad adottare interventi di “attuazione diretta” del diritto dell’Unione, senza la delega
al governo per l’adozione degli atti necessari. Contiene dunque disposizioni:

• modificative o abrogative di disposizioni statali in contrasto con gli obblighi imposti dal
diritto dell’Unione o oggetto di procedure di infrazione avviate dalla Commissione europea
o di sentenze della Corte di giustizia;
• finalizzate a porre rimedio al non corretto recepimento della normativa dell’Unione, nei casi
in cui il governo abbia riconosciuto la fondatezza dei rilievi mossi dalla Commissione
nell’ambito delle procedure di infrazione;
• occorrenti per dare esecuzione ai trattati internazionali conclusi nel quadro delle relazioni
esterne dell’Unione
• emanate nell’esercizio del potere sostitutivo dello stato nei cfr. delle regioni che non
adempiono all’attuazione degli atti normativi dell’Unione, nelle materie di propria
competenza.

REGIONI E DIRITTO DELL’UNIONE


Le amministrazioni regionali e locali degli stati membri partecipano, al pari di quelle centrali, al
processo di integrazione europea. Il Trattato di Lisbona modifica la composizione del Consiglio,
riconoscendo la possibilità per ciascuno stato di essere rappresentato da organi di governo
territoriali; viene consolidato il Comitato delle regioni che è volto a garantire che le politiche di
sviluppo dell’Unione si articolino lungo l’asse della sussidiarietà e della proporzionalità e che
promuovano la cooperazione a livello decentrato. L’Unione riconosce all’ente locale la competenza
di intervenire quando un progetto di sviluppo possa essere raggiunto più efficacemente a livello
decentrato→ si tratta di una governance multilivello che si è intensificata anche a seguito della
riforma costituzionale del 2001 che ha ampliato le competenze legislative degli enti locali che
assumono la nuova veste di protagonisti nel processo legislativo, non essendo più considerate meri
esecutori.
La 234/2012 disciplina la partecipazione delle autonomie locali alla fase ascendente e discendente.
Quanto alla prima: la partecipazione Regioni, delle Province autonome e degli enti locali
all’elaborazione degli indirizzi governativi nel processo di formazione degli atti normativi
dell’Unione, persegue lo scopo di raccordare, in sede di elaborazione degli atti dell’Unione europea,
le linee della politica nazionale con le esigenze rappresentate dalle regioni e dalle province nelle
materie di loro competenza. Le politiche dell’Ue di interesse regionale e provinciale trovano sede di
discussione nella sessione europea della Conferenza permanente stato-regioni e province
autonome. La partecipazione alla formazione degli atti dell’Unione si evince innanzitutto dall’art.24,
ai sensi del quale il Presidente del Consiglio dei Ministri, o il Ministro per gli affari europei, trasmette
i progetti di atti dell’Unione e gli atti preordinati alla loro formazione alla Conferenza delle regioni e
delle Province autonome e alla Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e
delle province autonome che entro 30 giorni dal ricevimento di tali atti, nelle materie di loro
competenza, possono trasmettere osservazioni.
Poi, analogamente a quanto avviene per il Parlamento, è prevista la riserva di esame che può essere
apposta dal Governo, su richiesta della Conferenza stato-regioni, nel caso in cui un progetto riguardi
una materia di competenza legislativa delle regioni o delle province autonome (in tal caso il governo
potrà procedere alle attività legate alla fase ascendente solo al termine dell’esame da parte della
conferenza stato-regione).
Quanto alla fase discendente l’art. 29 della 234/2012, rifacendosi a quanto stabilito nel 117.5 cost
(così come modificato nel 2001) riconosce che le regioni e le province autonome, nelle materie di
propria competenza, procedono all’attuazione delle direttive e di qualsiasi altro atto che richieda
disposizioni di recepimento o di applicazione; all’attuazione in parola possono provvedervi
immediatamente e direttamente o con leggi annuali di recepimento. Allorché abbiano una
competenza legislativa concorrente la potestà legislativa resta subordinata ai principi fondamentali
posti dallo stato nella legge di delegazione europea; se hanno una competenza esclusiva subiscono
l’ingerenza dello stato solo in caso di inadempimento. L’art. 120.2 Cost prevede un potere
sostitutivo del governo (stato) esercitabile quando tali autonomie non rispettano il diritto
dell’Unione (sia che abbiamo competenza esclusiva sia concorrente). In particolare, possiamo
distinguere:
• potere sostitutivo preventivo→ lo stato anticipa l’intervento delle autonomie in materie di
sua competenza, adottando disposizioni attuative di obblighi europei, per evitare che
eventuali ritardi o inesattezze di queste ultime determinino l’inadempienza dello Stato nei
cfr. dell’Unione; tali disposizioni hanno un carattere cedevole perché destinate a cadere con
l’entrata in vigore dei provvedimenti attuativi delle regioni.
• potere sostitutivo successivo→ in caso di mancato tempestivo adeguamento, nelle materie
di loro competenza, delle autonomie al diritto dell’Unione; anche le disposizioni emanate
alla luce di tale potere hanno carattere temporaneo.
E’ vero che la violazione da parte di queste autonomie delle norme dell’Unione è imputabile allo
stato, cioè solo questi ne risponde nei cfr. dell’Unione, ma lo stato può rivalersi sulle autonomie
responsabili in concreto della violazione del diritto dell’Unione. Con la rivalsa lo stato può
pretendere il pagamento delle sanzioni pecuniarie derivanti dalle sent di condanna della corte di
giustizia. Questo rimedio ha natura deterrente: è volto a scongiurare comportamenti illegittimi di
tali autonomie nel processo di adeguamento al diritto Ue.

CAPITOLO VII: LA CITTADINANZA DELL’UNIONE


LO STATUS DI CITTADINO DELL’UNIONE
Con il T. di Maastricht viene istituita la cittadinanza europea che attribuisce ai cittadini degli stati
membri uno status privilegiato e differenziato rispetto a quello di cittadini di stati terzi. La
cittadinanza dell’Unione si è realizzata sul presupposto che i Trattati istitutivi hanno dato vita ad
un ordinamento giuridico di nuovo genere, a favore del quale gli stati hanno rinunciato, in settori
sempre più ampi, ai loro poteri sovrani e che riconosce come soggetti non soltanto gli stati
membri, ma anche i loro cittadini. La cittadinanza è riservata alle persone fisiche, non a quelle
giuridiche che sono destinatarie di altre norme. Non si deve però ritenere che i diritti riconosciuti
dai trattati siano necessariamente riservati ai cittadini dell’Unione, perché gli stati membri
possono legittimamente estenderli agli stranieri. Dallo status di cittadino derivano diritti
(espressamente contemplati) ed obblighi non espressamente enunciati.
Non esiste una nozione di cittadinanza, ma le norme dell’Unione che ne prevedono il possesso
come presupposto soggettivo per la loro applicazione rinviano alla legge nazionale dello stato in
cui la cittadinanza viene posta a fondamento del diritto invocato. L’art. 20 TFUE (esempio di norma
che rinvia) stabilisce che “è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno stato
membro”→ dunque l’acquisto o la perdita della cittadinanza di uno stato membro comporta
automaticamente l’acquisto o la perdita della cittadinanza europea. Il T. di Maastricht, alla
Dichiarazione n° 2 ad esso allegata, riconosce la libertà degli stati membri in materia di
cittadinanza, di conseguenza l’UE non ha competenza per definire i criteri di acquisto o perdita
della cittadinanza né per adottare norme di armonizzazione delle normative nazionali. Tuttavia, ciò
non significa che la competenza degli stati membri in materia di cittadinanza sia assoluta in quanto
essa deve esercitarsi sempre entro taluni limiti definiti dal diritto dell’Unione così come
interpretato dalla Corte di giustizia; si prendano come esempio le sentt. Micheletti e Rottman:

CASO MICHELETTI→ il sig. Micheletti, nato in Argentina, era figlio di genitori italiani, dunque
aveva doppia cittadinanza; diventa odontotecnico in Argentina, ma poi decide di svolgere la
propria attività in Spagna ove ottiene il riconoscimento del titolo di studio, ma non un permesso di
soggiorno in quanto il codice spagnolo prevedeva che in caso di doppia cittadinanza, dovesse
prevalere la cittadinanza di ultima residenza che in tal caso è quella Argentina, paese che non fa
parte dell’Unione. Micheletti ricorre dinanzi ad un giudice spagnolo che investe con un rinvio
pregiudiziale chiedendo alla Corte di giustizia se fosse corretto che la Spagna considerasse
Micheletti un cittadino argentino. La Corte ritenne che la normativa spagnola era intervenuta
attribuzione di cittadinanza effettuata da un altro stato (italiano) e ciò contrastava con il diritto
comunitario. Secondo la corte la legge di uno stato membro non può ridurre gli effetti della
nazionalità attribuita da un altro stato membro (Italia) esigendo come condizione supplementare
la residenza abituale ai fini del godimento delle libertà previste dai trattati. Dunque, autonomia in
materia di cittadinanza, ma nei limiti stabiliti dal diritto dell’UE così come interpretato dalla Corte
di giustizia.
CASO ROTTMAN→ è un cittadino austriaco che si trasferisce in Germania e ne acquista la
cittadinanza per naturalizzazione (perdendo tra l’altro quella austriaca dove vige il divieto di
doppia cittadinanza). Tuttavia, nel processo di naturalizzazione aveva omesso di dichiarare un
precedente penale che lo aveva coinvolto, cosa che poi scoprì la Germania che gli revocò il
riconoscimento della cittadinanza tedesca ottenuta in maniera illecita. Tutto ciò risulta in linea con
il trattato in quanto il venir meno della cittadinanza tedesca è un esito lecito fondato sulla non
lealtà di Rottman; quanto alla revivescenza di quella austriaca, il diritto comunitario non impone
nessun obbligo al riguardo. Dunque, il diritto comunitario non osta alla perdita della cittadinanza a
seguito della revoca della naturalizzazione, basta rispettare il principio di proporzionalità.

LA LIBERTA’ DI CIRCOLAZIONE DEL CITTADINO DELL’UNIONE


Il diritto di libera circolazione, esplicazione della cittadinanza europea, vede disciplinate le sue
modalità di esercizio da parte del cittadino europeo e dei suoi familiari dalla direttiva n° 38/2004
la quale ha riconosciuto a tutti i cittadini dell’Unione, sebbene con talune limitazioni, un diritto di
soggiorno generalizzato e dunque un diritto di circolare. Tale direttiva, l’art. 21 TFUE e la
giurisprudenza della CDGE sanciscono il definitivo superamento della concezione mercantilistica
del diritto di circolazione: non si tratta più di una “libertà di circolazione in funzione dello
svolgimento di un’attività economica”, ma libertà di circolazione e di soggiorno in quanto cittadini
dell’Unione; tale libertà viene separata dai suoi elementi funzionali e viene elevata a categoria di
diritto proprio inerente allo status politico di cittadini dell’Unione. La Corte ha chiarito che l’art. 21
TFUE è provvisto di effetto diretto e attribuisce al cittadino UE un diritto di circolare e soggiornare
liberamente, ma non si tratta di un diritto assoluto perché è attribuito subordinatamente ai limiti
ed alle condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni di attuazione. Uno stato membro può
adottare provvedimenti restrittivi (deroga) a tale diritto per motivi di ordine pubblico, pubblica
sicurezza o sanità pubblica, sempre che sia rispettato il principio di proporzionalità. Quanto
all’ambito di applicazione di tale diritto, in passato si riteneva che fosse ancorato all’esercizio
effettivo della libera circolazione (che scaturisce dalla cittadinanza europea) e che fosse invocabile
solo quando l’individuo si trovasse in una situazione che cadesse nel perimetro dell’Unione e non
puramente interna (come nel caso Chen -2004-). Poi la corte (a partire dal caso Zambrano -2011-)
dissocia l’esercizio di tale diritto dall’esercizio dei diritti di cittadinanza, fornendo
un’interpretazione estensiva dell’art. 21.

CASO CHEN→ La vicenda rispetto alla quale la Corte si è pronunciata riguarda la suddetta signora,
Man Lavette Chen, la quale, d’intesa con il marito, anch’egli cinese, aveva deciso di avere un
secondo figlio, in contrasto con la politica di contenimento delle nascite attuata dalla Repubblica
popolare cinese. Proprio per sfuggire a tale politica la signora Chen, in prossimità della nascita
della secondogenita, si recava a Belfast dove nasceva la figlia Catherine Zhu. La scelta di Belfast,
quale città per il parto, aveva uno scopo ben preciso: la legge sulla cittadinanza irlandese
attribuisce la cittadinanza iure soli, consentendone l’acquisto a tutti coloro che siano nati nell’isola
dell’Irlanda. L’intento della signora Chen era proprio di partorire una figlia irlandese per stabilirsi
poi, con la stessa, nel Regno Unito che, al contrario dell’Irlanda, non attribuisce la cittadinanza in
base alla nascita nel proprio territorio. Il Regno Unito aveva rifiutato di accordare alla signora Chen
e a sua figlia Catherine il permesso di soggiorno di lunga durata, ritenendo che non avessero
diritto a soggiornare nel Regno Unito, poiché la prima non è cittadina di un Paese europeo e la
seconda non rientra tra le categorie di tali cittadini.
Il giudice di rinvio, dinanzi al quale le ricorrenti hanno impugnato il provvedimento di rifiuto, ha
sollevato una serie di questioni, concernenti l’interpretazione del diritto comunitario, chiedendo
alla Corte di giustizia se un diritto di soggiorno non possa fondarsi su tale diritto. La Corte ha
respinto, in primo luogo, l’eccezione dei governi irlandese e del Regno Unito secondo la quale la
situazione della piccola Catherine sarebbe puramente interna e sfuggirebbe, pertanto, al diritto
comunitario, poiché la stessa non si è mai spostata da uno Stato membro ad un altro, stabilendo
che affinché si applichino le disposizioni del diritto comunitario, è sufficiente che una persona
abbia una cittadinanza (nella specie irlandese) diversa da quella dello Stato di residenza (essendosi
intanto Catherine trasferita nel Galles con la sua mamma). Sulla base dell’art. 21 TFUE ha statuito
anzitutto che tale disposizione, avendo un contenuto chiaro e preciso, è direttamente applicabile
e, quindi, conferisce ad ogni cittadino dell’Unione il diritto di soggiorno negli Stati membri,
seppure con le limitazioni e alle condizioni previste dal diritto comunitario. Sotto quest’ultimo
profilo la Corte ha ritenuto sussistenti le condizioni contemplate dalla direttiva n° 38/2004,
secondo la quale gli Stati membri possono richiedere che i cittadini di altri Stati membri che
intendano soggiornare nel proprio territorio dispongano di un’assicurazione malattia e di risorse
sufficienti, al fine di evitare che essi costituiscano un onere per l’assistenza sociale dello Stato
ospite. Ambedue le condizioni erano presenti nel caso di Catherine, non essendo rilevante la
circostanza che le risorse non erano personali della bimba, ma provenivano dalla signora Chen
perché, contrariamente a quanto sostenuto dai governi irlandese e del Regno Unito, la direttiva
non richiede affatto che le necessarie risorse appartengano al cittadino in questione, nulla
prescrivendo in merito alla provenienza delle stesse e, al contrario, dovendosi interpretare
estensivamente le disposizioni comunitarie che sanciscono un principio fondamentale come quello
della libera circolazione delle persone. La Corte, sulla base delle disposizioni del Trattato riconosce
il diritto di circolazione e di soggiorno negli Stati membri ad una signora cinese, madre di una
bimba irlandese in tenera età.

CASO ZAMBRANO→ rappresenta una vera e propria svolta nella giurisprudenza della CGUE
relativamente alla materia della cittadinanza dell’Unione europea; tradizionalmente infatti
questioni del genere sono state trattate dai giudici di Lussemburgo come connesse all’esercizio del
diritto alla libera circolazione nel territorio degli Stati membri da parte del cittadino dell’Unione,
per favorire una progressiva integrazione su scala transnazionale, volta all’avvicinamento delle
posizioni dei nazionali e dei cittadini di altri Stati dell’UE nei paesi ospitanti. Ciò che emerge dalla
lettura della sentenza Zambrano, invece, è un ribaltamento completo della prospettiva, seppure in
parte anticipato da casi precedenti (come il caso Chen); la CGUE infatti abbandona la tradizionale
prospettiva transnazionale e sceglie un approccio decisamente “europeo”.
Zambrano è un signore di nazionalità colombiana, che decide di lasciare il suo paese per andare a
vivere in Belgio insieme alla moglie, tuttavia le istanze dei coniugi volte al riconoscimento del
diritto di asilo in Belgio sono state respinte dalle autorità competenti, seppure l’ordine di
abbandonare il territorio fosse seguito da una clausola di non rimpatrio in Colombia, stante la
situazione di perdurante guerra civile nel paese latino-americano. Nonostante questi dinieghi, i
due coniugi hanno comunque provveduto ad ufficializzare la loro condizione di residenti in un
comune belga dove il sig. Zambrano ha cominciato a lavorare. Durante la permanenza in Belgio, la
coppia ha dato vita a due bambini e poiché questi ultimi sono nati in territorio belga e i due
genitori non hanno intrapreso alcuna iniziativa perché fosse loro riconosciuta la cittadinanza
colombiana, i due bambini sono da considerarsi cittadini belgi e dunque dell’UE. Successivamente
Zambrano ha presentato domanda di permesso di soggiorno, ma questa gli è stata respinta e
avverso tale diniego ha presentato ricorso, in pendenza del quale ha beneficiato di un titolo
speciale di soggiorno. Perde anche questo ricorso e decide di adire il Tribunal du Travail belga che
solleva una serie di questioni pregiudiziali alla CGUE che è, nella specie, chiamata a stabilire se le
disposizioni dei Trattati attribuiscano ad un cittadino di uno Stato terzo, che abbia in carico figli in
tenera età e cittadini di uno Stato membro (e, quindi, dell’Unione), un diritto di soggiorno nello
Stato di cui questi ultimi siano cittadini. Tradizionalmente la Corte di Lussemburgo ha collegato i
diritti dei cittadini dell’Unione all’esercizio della loro libertà di circolazione all’interno, con la
decisione in esame, invece slega il diritto di cittadinanza dell’Unione dalla libera circolazione fra
Stati membri, trattando la cittadinanza dell’Unione come diritto ex se. La Corte chiarisce come la
Direttiva 2004/38 non trovi applicazione nel caso di specie, riguardando i cittadini dell’Unione che
si rechino o soggiornino in Stati membri diversi da quello di cittadinanza e i loro familiari. La CGUE
ridisegna i confini dell’art 20 TFUE e l’ampiezza dei diritti connessi allo status di cittadino
dell’Unione, l’art. 20 TFUE deve essere letto nel senso che impedisca restrizioni al godimento
pieno ed effettivo dei diritti connessi a tale status. Secondo la Corte, dunque, un diniego del diritto
di soggiorno al genitore cittadino di un paese terzo, che abbia in carico due minori cittadini di uno
Stato dell’Unione, rappresenta un’eccessiva compressione dei diritti di questi ultimi connessi alla
cittadinanza dell’Unione e un ostacolo al pieno ed effettivo godimento degli stessi. In aggiunta, al
soggetto cittadino dello Stato terzo non deve essere nemmeno negato il permesso di lavoro,
perché rischierebbe, altrimenti, di non disporre dei mezzi necessari per far fronte alle esigenze e ai
bisogni primari del nucleo familiare.
Se in passato, infatti, la cittadinanza dell’Unione era stata vista come lo strumento per
promuovere il godimento dei diritti connessi allo status di cittadini di uno Stato membro, oggi
assurge a elemento centrale per la protezione di un nucleo fondamentale di diritti, fra questi
rientra il diritto dei minori a non essere allontanati dai loro genitori o, comunque, a non essere
costretti ad abbandonare il territorio dell’Unione per seguire i propri genitori sans papiers. I diritti
connessi alla cittadinanza dell’Unione vengono, dunque, sganciati dal concreto esercizio alla libera
circolazione finendo per fungere da pilastro portante per la protezione dei diritti fondamentali
riconosciuti dalla Carta di Nizza e dalla CEDU.

GLI ALTRI DIRITTI DEL CITTADINO DELL’UNIONE


Lo status di cittadino europeo attribuisce la titolarità di altri diritti, oltre a quello fondamentale di
circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri, tra i quali: il diritto di voto e
di eleggibilità alle elezioni del parlamento europeo ed alle elezioni comunali nello stato membro in
cui si risiede alle stesse condizioni dei cittadini di detto stato; il diritto di godere nel territorio di un
paese terzo ove il proprio stato membro non abbia una rappresentanza diplomatica, della tutela
delle autorità consolari, alle stesse condizioni di quest’ultimo; il diritto di presentare petizioni al
parlamento europeo, di ricorrere al mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni, organi e
organismi dell’Unione. Tali diritti non possono essere messi sullo stesso piano perché alcuni di essi
non sono collegati in via esclusiva alla cittadinanza europea, ma possono essere invocati da
chiunque sia residente in uno stato membro (quelli in grassetto).
Gli stati membri possono stabilire delle limitazioni nell’esercizio dei suddetti diritti, ad es→ ai
sensi della direttiva n°94 / 80 gli stati membri possono riservare ai propri cittadini la carica di capo
di un ente locale, pur sempre rispettando i principi dell’Unione (soprattutto la parità di
trattamento).
L’elenco contenuto nell’art. 20 PAR. 2 TFUE non è tassativo perché può essere ampliato dal
Consiglio deliberando all’unanimità (e con approvazione del PE) secondo la procedura legislativa
speciale di cui all’art. 25 TFUE (procedura di revisione “atipica”).
Lo status di cittadino è inoltre da sempre collegato: al divieto di discriminazione in base alla
nazionalità e all’uguaglianza che non risultano nell’elenco di cui all’art. 20. In particolare, l’art. 9
del TUE richiama il p. di uguaglianza dei cittadini europei; inoltre l’art 10 prevede forme di
democrazia rappresentativa → “i cittadini europei sono direttamente rappresentati nel
Parlamento europeo e indirettamente nel Consiglio europeo e nel Consiglio che sono direttamente
resp dinanzi ai loro parlamenti nazionali o dinanzi ai loro cittadini”; l’art. 11 prevede invece forme
di democrazia partecipativa→ l’art. 11 par. 4 TUE e il 24 comma 1 TFUE disciplinano l’iniziativa
popolare. Da ultimo meritano un cenno altri due diritti che non sono menzionati nell’art. 20, ma
nel 41 e 42 della Carta dei diritti fondamentali: la buona amministrazione ed il diritto di accesso ai
documenti.

IL SISTEMA DI TUTELA GIURISDIZIONALE

Si tratta di un sistema che non ha eguali sia sotto il profilo funzionale che sotto il profilo degli
effetti che il suo funzionamento produce sulla posizione giuridica dei destinatari: istituzioni
dell’Unione, stati membri e singoli; questo sistema consente di realizzare un’unione di diritto→
tutti i soggetti dell’ordinamento dell’Ue sono soggetti a controllo giurisdizionale (questo è un altro
elemento distintivo del diritto dell’Ue rispetto ad altre organizzazioni internazionali, perché il
singolo è titolare di diritti e doveri). Il Trattato di Lisbona ha mantenuto inalterato il previgente
sistema giurisdizionale estendendolo, tuttavia, anche al settore della cooperazione di polizia e
giudiziaria in materia penale; la CGUE ha acquisito dunque una competenza generale in relazione
al diritto dell’Ue in conseguenza dell’abolizione della struttura in pilastri. Tuttavia, continua a non
avere competenza in materia di PESC ad eccezione del controllo sulla legittimità delle decisioni del
Consiglio che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche e giuridiche (ricorso per
annullamento) e del controllo sulla delimitazione delle competenze dell’Ue e quelle degli stati
membri in materia di PESC. Tale sistema si sviluppa su due piani procedurali: il primo è quello del
controllo diretto della CGUE o del Tribunale che può essere attivato da istituzioni, stati o singoli
attraverso dei RIMEDI GIURISDIZIONALI DIRETTI; il secondo è quello del controllo indiretto
attraverso il rinvio pregiudiziale.

L'AZIONE DI ANNULLAMENTO
L’azione di annullamento è regolata dal 263 TFUE e consiste nell’impugnazione, mediante ricorso,
di un atto adottato dalle istituzioni dell’Unione che si assume gravato da alcuni vizi.
Gli atti impugnabili → ai sensi del 263.1 sono “gli atti legislativi, gli atti del consiglio, della
commissione e della BEI che non siano raccomandazioni o pareri; gli atti del parlamento europeo e
del consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei cfr. dei terzi; nonché gli atti degli organi
o organismi dell’unione destinati a produrre gli effetti giuridici nei cfr. dei terzi”. L’espressa
esclusione del controllo di legittimità delle raccomandazioni e dei pareri sta a significare che sono
impugnabili unicamente gli atti vincolanti. Tuttavia, la giurisprudenza della Corte di giustizia, ispirata
al criterio di privilegiare la sostanza rispetto alla forma, ha progressivamente ampliato la categoria
degli atti impugnabili: la Corte ritiene impugnabili tutti gli atti e i provvedimenti posti in essere dalle
istituzioni che producano effetti vincolanti per i destinatari, indipendentemente dal nomen iuris
attribuito dall’istituzione che lo ha posto in essere oppure dalle modalità di comunicazione ai
destinatari. L'azione dunque non è limitata all'impugnazione degli atti tipici di cui all'art. 288 TFUE,
ma deve essere estesa a tutti gli atti definitivi che, tenendo conto della loro sostanza, producono
effetti giuridici obbligatori idonei ad incidere sugli interessi dei ricorrenti. Non sono soggetti a
impugnazione invece gli atti produttivi di effetti solo nella sfera interna dell'istituzione, gli atti che
costituiscono fasi intermedie di un procedimento o meramente preparatori di un atto definitivo: i
loro vizi potranno essere eventualmente fatti valere nel ricorso diretto contro l'atto definitivo, a
meno che l'atto intermedio non sia di per sé produttivo di effetti giuridici nei confronti dei terzi. Gli
atti della Corte dei conti non figurano tra quelli indicati dall'art. 263 TFUE come suscettibili di
impugnazione, tuttavia la Corte di giustizia ha ritenuto ricevibile un ricorso presentato da un
sindacato contro un atto della Corte dei conti, in quanto produttivo di effetti giuridici e in quanto,
del resto, quest'ultima ormai "promossa" dal TFUE tra le istituzioni. Non sono ricevibili i ricorsi diretti
contro atti degli Stati membri adottati in esecuzione di atti dell'Unione, poiché non spetta alla Corte
decidere sulla compatibilità di una disposizione nazionale con il diritto comunitario". Lo stesso deve
dirsi per gli atti adottati dai rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio,
che sono in sostanza degli accordi in forma semplificata, che rilevano in quanto tali del diritto
internazionale. Irricevibile è altresì il ricorso in annullamento della comunicazione con la quale la
Commissione rende noto al denunciante l’intenzione di non voler dar seguito ad una procedura d’infrazione;
parimenti irricevibile è un ricorso avverso atti puramente confermativi di un atto precedente non
impugnato entro i termini.
Quanto all'azione esterna dell'Unione, non è previsto nei Trattati che l'azione di annullamento possa
essere esercitata nei confronti degli accordi internazionali stipulati dalla prima: in teoria potrebbe
non escludersi , dal momento che tali accordi sono assimilati dalla Corte ad "atti delle istituzioni",
ma ciò pare difficilmente ammissibile dato che un accordo internazionale interviene tra soggetti del
diritto internazionale e dunque non può considerarsi atto interno dell'ordinamento dell'Unione.
Tuttavia, sono impugnabili gli atti che autorizzano o approvano la conclusione di un accordo, poiché
l'esercizio delle competenze attribuite alle istituzioni in campo internazionale non può essere
sottratto al controllo di legittimità. In questi casi però la sentenza di annullamento non potrà avere effetto nei
confronti degli Stati terzi parte all’accordo internazionale; potrà quindi derivarne sul piano internazionale una
situazione di responsabilità dell’Unione, o comunque l’avvio di nuovi negoziati per modificare l’accordo in questione.

I soggetti legittimati a presentare il ricorso in annullamento→ Possono proporre il ricorso in


annullamento i ricorrenti privilegiati vale a dire gli Stati membri (non anche le sue articolazioni
interne che sono considerati ai sensi del 263.4 ricorrenti non privilegiati), il Consiglio, la
Commissione nonché il Parlamento europeo: il privilegio per questi soggetti consiste nel diritto di
impugnare qualsiasi atto senza dover dimostrare che questo incida sulla posizione giuridica del
ricorrente, in quanto l’interesse ad agire è rinvenuto nell’esigenza di assicurare l’effettività
dell’ordinamento giuridico dell’Unione.
I ricorrenti semi-privilegiati sono: la BCE e la Corte dei conti ed il Comitato delle Regioni (a partire
dal T. di Lisbona anche per la violazione del principio di sussidiarietà) le quali sono legittimate a
proporre ricorso in annullamento soltanto qualora agiscano per la salvaguardia delle loro
prerogative. Si parla invece di ricorrenti non privilegiati con riferimento alle persone fisiche o
giuridiche che sono ammesse ad esercitare l'azione di annullamento ma a condizioni più restrittive dei
ricorrenti privilegiati o semi-privilegiati, dovendo dimostrare un interesse ad agire personale, effettivo e
attuale derivante dal prodursi di un pregiudizio nella propria sfera giuridica. Ai sensi del 263.4 TFUE, il
ricorso in annullamento può essere proposto dalle persone fisiche o giuridiche:
• avverso le decisioni di cui siano (formalmente) destinatarie.
• contro quegli atti che di cui non siano formalmente destinatari (ad esempio regolamenti,
direttive o decisioni rivolte ad altre persone) che le riguardino individualmente e
direttamente → è sufficiente che non ricorra uno dei due requisiti perché il ricorso sia
respinto. Lo scopo di estendere la facoltà di ricorso dei privati anche nei confronti di atti a portata
generale è quello di evitare che, ricorrendo alla forma del regolamento o della direttiva, le
istituzioni dell'Unione possano impedire che i singoli impugnino un provvedimento che li riguarda
direttamente e individualmente. Il ricorrente sarà direttamente riguardato quando esiste un
legame stretto di causalità tra l'atto impugnato e la situazione del ricorrente che deve
trovarsi in analoga posizione a quella in cui si troverebbe se ne fosse il destinatario diretto e
quando il provvedimento adottato dalle istituzioni produca direttamente effetti sulla sua
situazione giuridica e non lascia alcun potere discrezionale ai destinatari del provvedimento
stesso incaricati della sua attuazione, avendo tale applicazione carattere automatico e
derivando gli effetti dell'atto dalla sola normativa dell'Unione senza interventi di altre norme
intermedie. Un atto invece riguarda individualmente un soggetto se il provvedimento lo
tocchi a causa di determinate qualità personali ovvero di circostanze atte a distinguerlo dalla
generalità identificandolo alla stessa stregua dei destinatari. Pertanto, quando un
regolamento contenga disposizioni che riguardano direttamente e individualmente
determinate persone fisiche o giuridiche producendo effetti nella loro sfera giuridica in
modo certo e attuale, a prescindere dal numero della situazione di altri soggetti ugualmente
riguardati dallo stesso atto, esso può essere impugnato da tali persone. Lo stesso dicasi per
le direttive anche se hanno per definizione come destinatari gli stati membri, non deve
ritenersi esclusa la possibilità di una loro impugnativa da parte dei privati sempre che
contengano disposizioni a carattere decisorio e i ricorrenti dimostrino di esserne
individualmente e direttamente riguardati. Anche le decisioni indirizzate a tutti gli Stati
membri hanno carattere normativo, ma ciò non esclude che degli individui siano
individualmente riguardati se colpiti nella loro posizione giuridica in ragione della situazione
di fatto che li caratterizza in relazione a ogni altra persona e li identifica in modo analogo a
quello di un destinatario.
• contro gli atti regolamentari che le riguardano direttamente e non richiedono misure di
esecuzione→ l’art. 263.4 non ci dice cosa dobbiamo intendere per atti regolamentati ma
avvalendoci dell’interpretazione della CdG, possiamo dire che per atto regolamentare, in tal
caso, bisogna intendere un atto a portata generale ma non legislativo. Tali atti sono impugnabili
dai privati qualora li riguardino direttamente (e non anche individualmente) e non comportino
misure di esecuzione (se non rispettano questi requisiti il singolo potrà richiedere al giudice un
rinvio pregiudiziale di validità, che però è a discrezione del giudice stesso). La difficoltà per i
privati di dimostrare di essere direttamente e individualmente colpiti dall’atto ha fatto sì che con
il trattato di Lisbona, venisse introdotta al 263.4 (terza parte) la possibilità per i soli atti
regolamentari di essere impugnati allorchè ricorra uno solo di quei due requisiti, non devono
dimostrare di esserne riguardati anche individualmente; per gli atti legislativi a portata generale
(263.4 parte seconda) invece devono sussistere entrambi i requisiti e la ratio sta nel fatto che
per l'annullamento degli atti legislativi è prevista una maggiore onerosità perchè sono
espressione di maggiore legittimazione democratica.
Il ricorrente deve in ogni caso essere portatore di un interesse proprio: dunque è irricevibile il ricorso
presentato da un'associazione che rappresenta una categoria di imprenditori, che tutela un interesse
collettivo e non interessi individuali, salvo il caso in cui l'associazione ricorrente rappresenti gli
interessi di membri che a loro volta sono legittimati ad agire per introdurre un ricorso in
annullamento; oppure qualora tale associazione abbia svolto un ruolo nell'ambito del procedimento
che ha portato all'adozione dell'atto in questione, o faccia valere un interesse proprio distinto da
quello dei suoi membri.

Termini e motivi→ Nel termine di due mesi dalla notifica dell'atto o dalla sua pubblicazione sulla GUUE (o in
mancaza dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto l’effettiva conoscenza) i ricorsi possono essere proposti per
incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione dei Trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla
loro applicazione, per sviamento di potere (art. 263.2 TFUE). A tale termine va aggiunto il cd. termine di distanza
di 10 giorni previsto dall’art. 51 del regolamento di procedura della Corte.
a) Incompetenza, derivante dall'assenza di un potere dell'Unione (assoluta) o delle istituzioni ad
emanare l'atto (relativa): può configurarsi in una delle tre ipotesi classiche: ratione materiae,
quando l'atto non rientra nell'area di competenza dell'organo; ratione loci quando l'atto ha effetti
al di fuori del territorio sul quale si esercita la competenza dell'organo; ratione temporis quando
l'atto è adottato oltre i limiti di tempo fissati.
b) Violazione delle forme sostanziali si verifica nell’ipotesi di difetto di motivazione, di mancata
consultazione di un’altra istituzione o di un organo dell’Unione allorché espressamente prevista,
nell’ipotesi di errata individuazione della base giuridica ogniqualvolta abbia conseguenze sulle
condizioni di adozione dell’atto.
c) Violazione di legge → si realizza quando sono violate: le norme dei trattati, degli atti di diritto
derivato, i principi consolidatisi della giurisprudenza, le norme che comunque vincolano l’Unione
come le norme internazionali convenzionali e consuetudinarie (provviste di effetto diretto), nonché
la carta dei diritti fondamentali
d) Sviamento di potere: si configura quando l'istituzione utilizza l'atto per perseguire un obiettivo
diverso da quello per il quale i poteri gli sono conferiti o segua una procedura per fini diversi da
quelli per i quali è prevista (sviamento di procedura).

Misure cautelari→ Il ricorso non ha effetto sospensivo, tuttavia l’art 278 TFUE prevede la possibilità
di chiedere alla corte, in via cautelare, la sospensione dell’atto impugnato. La corte può indicare
misure provvisorie diverse dalla sospensione che ritiene necessarie. La misura viene decisa dal
presidente, che solo eccezionalmente può investire il plenum. Le misure cautelari sono accessorie e
strumentali rispetto alla sentenza e i presupposti sono il fumus boni iuris (la presunzione
dell’esistenza dei presupposti per applicare la misura) ed il periculum in mora (il ritardo della
decisione potrebbe concretizzare il danno prospettato).
Effetti della sentenza→Se il ricorso è accolto, la Corte dichiara l'atto impugnato nullo e non avvenuto
(art. 264 TFUE). L'annullamento può essere anche solo parziale se il vizio riscontrato riguarda solo
alcune disposizioni dell'atto purché siano separati dal resto. La sentenza di annullamento ha
efficacia erga omnes, opera ex tunc e ha l'autorità di cosa giudicata; dunque sarà irricevibile un
nuovo ricorso contro l'atto già annullato mentre qualora l'atto sia stato dichiarato legittimo, un
nuovo ricorso sarà proponibile qualora si fondi su nuovi motivi, sempre naturalmente che non sia
spirato il termine previsto per l'impugnazione. L'istituzione, l'organo o l'organismo dell'Unione che
ha emanato l'atto annullato dovrà adottare provvedimenti che l'esecuzione della sentenza
comporta (art. 266 TFUE), entro un termine ragionevole: così sarà tenuto ad eliminarlo o modificare
le disposizioni viziate. Il mancato rispetto da parte dell'istituzione degli obblighi derivanti dalla
sentenza potrà formare oggetto di un successivo ricorso in carenza.
Effetti ex nunc→ L’art. 264.2 TFUE prevede “la facoltà per la corte di stabilire gli effetti dell’atto che
devono essere considerati come definitivi”, ciò significa che la Corte può riservarsi di precisare che
l'annullamento abbia efficacia ex nunc o che addirittura conservi i suoi effetti fino a quando
l’amministrazione non avrà modificato o sostituito con un nuovo atto quello impugnato, per ragioni
di certezza del diritto e per la tutela del legittimo affidamento.

L’AZIONE IN CARENZA
L'art. 265 TFUE contempla la possibilità di rivolgersi alla Corte per "far constatare" il comportamento omissivo
delle istituzioni che si astengano dal pronunciarsi in violazione dei Trattati. Si tratta di uno strumento
di impugnazione autonomo rispetto all’azione di annullamento, anche se a questa è logicamente
collegato. Il ricorso è proponibile nei confronti di un atto del Consiglio, della Commissione, del
Parlamento europeo, della BCE ed infine, con il Trattato di Lisbona, il medesimo rimedio è ora
previsto anche nei confronti del Consiglio europeo, nonché degli organi ed organismi dell'Unione.
Sono legittimati invece a proporre tale ricorso, oltre gli Stati membri, tutte le istituzioni dell'Unione
diverse dal responsabile dell'omissione, ma tra queste sono esclusi gli organi ed organismi
dell'Unione che hanno legittimazione passiva, ma non attiva→ questi sono i ricorrenti privilegiati
(265.1) i quali possono ricorrere contro qualsiasi tipo di carenza senza dover giustificare un interesse
particolare, anche contro l'omissione di atti non vincolanti.
I ricorrenti non privilegiati sono le persone fisiche o giuridiche che possono adire la Corte di giustizia
dell'Unione europea per contestare a una delle istituzioni di avere omesso di emanare nei suoi
confronti un atto vincolanti, che non sia cioè una raccomandazione o un parere (art. 265.3). Può
trattarsi di un atto di cui il ricorrente sarebbe stato personalmente il destinatario formale, ma anche
di un atto di cui non sia il formale destinatario, purché che lo riguardi direttamente e individualmente
il ricorrente (parallelismo tra 263.4 e 265.3)
L’esistenza di un margine di discrezionalità quanto alle modalità e al contenuto di un'azione e alla
natura delle misure da prendere non costituisce ostacolo alla constatazione di una carenza, mentre
il ricorso non è ammissibile quando l'istituzione gode di un potere discrezionale in merito alla stessa
emanazione dell'atto (mancata attivazione di una procedura di infrazione).
Presupposto dell’azione in carenza è l'esistenza di un obbligo di agire dell'istituzione in virtù di una
regola di diritto dell'Unione, dunque non può essere esperita nel caso di rifiuto (che è pur sempre
un provvedimento), ma nel caso di illegittima assenza di una decisione. Affinché il ricorso sia
ricevibile, occorre che l'istituzione in causa sia stata preventivamente messa in mora, cioè occorre
che alla stessa sia stato richiesto di agire, con una domanda in cui si indicano con precisione il
contenuto dell'obbligo che si pretende violato e le misure richieste per far cessare l'inerzia. Non è
precisato il termine entro cui inoltrare validamente la diffida rispetto alla presunta carenza, ma dovrà
comunque trattarsi di un termine “ragionevole” per esigenze di certezza giuridica.
Se, trascorsi due mesi da tale richiesta, l'istituzione diffidata non ha preso posizione, il ricorso può
essere introdotto nei due mesi successivi; se rifiuta di prendere posizione oppure ha preso
posizione l’azione in carenza non è più proponibile, anche se non abbia soddisfatto il richiedente o
sia stato adottato un atto diverso da quello ritenuto necessario, l’unico rimedio esperibile sarà
l’azione di annullamento, così come lo sarà nel caso in cui l’atto di cui si chiede l’adozione, viene
emanato dopo la presentazione del ricorso ma prima della sentenza, caso in cui il ricorso diviene
privo di oggetto. Se il ricorrente ha lasciato decorrere i termini di impugnazione per il ricorso in
annullamento contro un atto, non potrà aggirare la prescrizione dell'azione chiedendo all'istituzione di
ritirare o modificare l'atto e agire poi contro il suo silenzio attraverso un ricorso in carenza.

Effetti della sentenza→La sentenza del giudice dell'Unione che accolga il ricorso in carenza ha
carattere dichiarativo, limitandosi ad accertare l'illiceità del comportamento. L'istituzione, la cui
omissione sia stata dichiarata in violazione del Trattato, è tenuta a prendere le misure che
l'esecuzione della sentenza comporta, entro un termine ragionevole. Se il comportamento omissivo
dell’istituzione ha cagionato un danno nulla esclude che possa essere proposta un’azione di
responsabilità extracontrattuale. Un nuovo ricorso in carenza potrà essere proposto qualora
l'istituzione convenuta rimanga inattiva, omettendo di prendere i provvedimenti dovuti alla luce
dell'obbligo di conformarsi alla sentenza, mentre un ricorso in annullamento sarà proponibile
qualora gli atti dall'istituzione intesi a dare esecuzione alla sentenza risultino inadeguati o in
contrasto col giudicato della Corte.
L'ECCEZIONE DI INVALIDITÀ
L’art. 277 TFUE disciplina un ulteriore mezzo per far valere l’illegittimità di un atto avente portata
generale adottato da un’istituzione, da un organo o da un organismo dell’Unione. Si tratta di
un’eccezione incidentale che le parti legittimate possono sollevare nel corso di una procedura già
attivata per altri motivi dinanzi alla Corte, al fine di far dichiarare l’inapplicabilità dell’atto di cui si
tratta facendo valere, anche dopo il decorso del termine di impugnazione previsto per l’azione di
annullamento, gli stessi motivi del 264 TFUE. L’ipotesi tipica è quella dell’eccezione di invalidità
avverso un regolamento sollevata nel giudizio di impugnazione di un atto di esecuzione di quel
regolamento. Inizialmente la sfera di applicazione dell’eccezione di invalidità era limitata ai
regolamenti, mentre nel TFUE è stata estesa a tutti gli atti di portata generale allo scopo di evitare
che un atto viziato possa, poiché non impugnato, possa costituire una base giuridica valida per altri
atti e allo scopo ulteriore di rimediare ai limiti posti dal 263 alle possibilità di impugnazione offerte
ai singoli in relazione agli atti dell’Unione aventi portata generale che ai sensi del suddetto articolo,
se si tratta di atti legislativi, possono essere impugnati dagli stessi solo a condizione che li riguardano
direttamente ed individualmente, se si tratta di atti non legislativi aventi portata generale (atti
regolamentari) possono essere impugnati solo se li riguardano direttamente e sempre che non
necessitino di misure di esecuzione. Al contrario, questa eccezione non può avere ad oggetto atti
che il singolo avrebbe potuto impugnare con l’azione di annullamento (sussistendo i requisiti di cui
al 263), ma non lo ha fatto, ciò per evitare che lo strumento in questione venga utilizzato per eludere
l’onere della tempestività dell’impugnazione, dovendo restare un mezzo offerto al singolo per
contestare la legittimità di un atto dell’Unione nella sola ipotesi in cui gli sia preclusa ogni altra
possibilità. Anche i ricorrenti privilegiati di cui al 263 possono sollevare una tale eccezione:
innanzitutto perché la norma fa riferimento a “ciascuna parte” e non indica un legittimato specifico,
poi perché la sua ratio è quella di evitare che un atto viziato possa costituire base giuridica valida
per altri atti e sia perché la giurisprudenza depone in tal senso. Ovviamente non può essere sollevata
una tale eccezione rispetto ad una decisione di cui il ricorrente sia il destinatario: si pensi
all’eccezione di invalidità avverso un atto nel corso di una procedura di infrazione intentata dalla
commissione contro uno stato membro per la violazione di quello stesso atto (ad eccezione del caso
in cui l’atto sia viziato in modo così evidente da essere inesistente).
L’effetto di un eventuale accoglimento dell’eccezione è l’inapplicabilità: l’atto viene dichiarato
inapplicabile alla fattispecie, ma resta pienamente in vigore (efficacia ex nunc ed intra partes).
L’eccezione non può essere sollevata nell’ambito di un rinvio pregiudiziale o dinanzi ad un giudice
nazionale perché in tale ultimo caso si utilizza il rinvio pregiudiziale di validità.

L'AZIONE DI RESPONSABILITÀ' EXTRACONTRATTUALE


Il trasferimento di numerose competenze statali all’Unione non poteva non comportare anche la
previsione di un meccanismo che consentisse di accertare la sua responsabilità per l’operato delle
sue istituzioni nell’esercizio dei poteri loro attribuiti dai Trattati; ciò al fine di assicurare ai soggetti
dell’ordinamento europeo, i cittadini degli Stati membri, un risarcimento per i pregiudizi ad essi
derivanti da qualsiasi attività (anche legislativa) svolta dalle istituzioni e dai loro agenti.
L'art. 268 TFUE attribuisce in via esclusiva al giudice dell'Unione la competenza a conoscere delle
controversie relative al risarcimento dei danni di cui all'art. 340 TFUE che sancisce la responsabilità
extracontrattuale dell'Unione per i danni cagionati dalle sue istituzioni e dai suoi agenti nell'esercizio
delle loro funzioni e prevede una disciplina derogatoria per la BCE, la quale risponde personalmente
dei danni provocati da essa stessa o dai suoi agenti.
L'azione in risarcimento può essere presentata contro l'Unione da qualsiasi persona fisica o giuridica e
anche da parte degli Stati membri, quanto ritengono di aver subito un pregiudizio. Il testo del Trattato ha
sempre riferito la responsabilità extracontrattuale al comportamento delle sole istituzioni e dei loro
agenti, tuttavia, da tempo la Corte ha esteso la nozione di istituzione facendovi rientrare anche altri
organismi dell'Unione, quali il Mediatore europeo e la BEI: ciò in quanto, perseguendo gli obiettivi
dell'Unione, essi svolgono un'attività riconducibile a quest'ultima nel suo insieme.

Condizioni di ricevibilità
L'azione deve essere proposta, pena la prescrizione del diritto al risarcimento, entro cinque anni a
decorrere dal momento in cui avviene il fatto che dà origine al danno.
Rapporto con le altre azioni→ L'azione di risarcimento deve considerarsi autonoma rispetto alle
altre azioni esercitabili davanti alla Corte nell'ambito della competenza contenziosa in sostanza, la
previa impugnazione dell'atto contestato non è più una condizione di ricevibilità come al contrario veniva
affermato nella sentenza PLaumann dove la corte dichiaro inammissibile una domanda di risarcimento fondata
sull’illegittimità di un atto di cui non era stato previamente richiesto l’annullamento perché sosteneva che un
atto non annullato non poteva costituire di per sé un illecito e di conseguenza non poteva causare un danno.
Criterio della competenza efficiente e rapporto con i mezzi interni → La Corte ha competenza esclusiva in
materia di risarcimento del danno quanto il danno sia stato cagionato da un’Istituzione dell’Unione o dai suoi
agenti ovvero dalla BCE o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. Invece la competenza appartiene
esclusivamente ai giudici nazionali quando il danno è stato prodotto dagli organi nazionali sia pure in
conseguenza dell’applicazione di una normativa dell’Unione ad esempio quando il danno deriva dal
comportamento di un'autorità nazionale che ha adottato misure illegittime in applicazione di un atto
dell'Unione legittimo, oppure quando una violazione del diritto dell'Unione sia imputabile al legislatore
nazionale che disponga di un ampio potere discrezionale in ordine alle scelte normative, allora il
comportamento lesivo non è imputabile all'Unione: dunque, l'azione di risarcimento dovrà essere diretta
contro l'amministrazione nazionale e rientra nella competenza dei giudici interni ai quali i privati debbono
rivolgersi. Al contrario, la Corte di giustizia è competente a pronunciarsi quando il danno derivi da
un'attività statale meramente esecutiva di un atto dell'Unione che non lascia margini di
discrezionalità, o da un’attività che sia imposta dalle istruzioni di un'istituzione dell'Unione, o
costituisca comunque esercizio di una competenza vincolata. In tali casi, la Corte ha introdotto il
principio della competenza efficiente in base al quale: l'azione di risarcimento ha carattere
sussidiario rispetto ai ricorsi interni se il danneggiato può ottenere la medesima soddisfazione
rivolgendosi al giudice interno senza dunque necessità di adire la Corte, o comunque, in via generale,
quando sia dubbio se il danno sia imputabile al comportamento di un'autorità nazionale o a quello
di un'istituzione dell'Unione. Il previo esaurimento dei rimedi giurisdizionali interni a disposizione
dei singoli per ottenere riparazione è di norma necessario per la ricevibilità dell'azione di
risarcimento: ma non quando quei rimedi non siano in rado di assicurare in modo efficace la tutela
degli interessi, in quanto non idonei a condurre al risarcimento dei danni lamentati. Dunque, quando
risulta coinvolta in modo chiaro anche la responsabilità di uno Stato membro, la Corte ha ritenuto
che la riparazione del danno sia subordinata alla prova che i ricorrenti abbiano esperito le vie di
ricorso interne, al fine di evitare un doppio risarcimento; in caso di cumulo di responsabilità,
l'Unione risponderà solo dei danni ad essa imputabili.

Condizioni per il sorgere della responsabilità


1. illiceità del comportamento dell’istituzione→ occorre che ci sia stata la violazione di norme
destinate a proteggere gli interessi degli stessi ricorrenti.
2. la violazione deve essere grave e manifesta in modo tale da realizzare un danno effettivo→
quanto più ampio è il potere discrezionale dell’istituzione tanto più occorre che sia grave la
violazione dei limiti al suo esercizio perché sussista il danno. Quando il margine di
discrezionalità è ridotto o inesistente, la mera violazione della norma integra l’ipotesi di
violazione grave e manifesta.
3. nesso di causalità tra il comportamento contestato ed il danno.

Affinché invece sussista la responsabilità dell’Unione per un atto normativo che implichi scelte di
carattere economico, è prevista una condizione supplementare: la violazione deve riguardare una
norma a carattere superiore. Tale condizione vale solo ed esclusivamente per l’azione di
responsabilità extracontrattuale dell’UE (e non per quanto riguarda la stessa azione nei confronti
degli Stati membri). Questo, perché non si vuole che le scelte economiche siano sindacate, se non
in casi eccezionali. Per norma a carattere si intende una norma fondamentale dell’UE (es. legittimo
affidamento, principio di non discriminazione, rispetto dei diritti quesiti).

Il danno risarcibile→ Una volta ritenuta responsabile, l'Unione europea è tenuta a indennizzare la
vittima del pregiudizio arrecato. Il ricorrente deve provare la sussistenza, l'attualità e l'effettività del
danno; tuttavia il ricorso è ricevibile anche se l'entità del danno non è ancora esattamente determinata
ma è comunque prevedibile con sufficiente precisione ed è imminente.
La determinazione dell'ammontare del risarcimento può farsi sia a seguito di accordo fra il ricorrente
e l'istituzione responsabile sia nell'ambito di un nuovo procedimento davanti alla Corte che lo
calcolerà secondo i principi generali comuni agli ordinamenti degli stati membri in materia di
responsabilità extracontrattuale, potendosi tener conto sia delle perdite subite che del mancato
guadagno ed eventualmente del danno morale, oltre che degli interessi. La riparazione può essere
esclusa o ridotta se il danneggiato ha contribuito con il suo comportamento al verificarsi del danno.
Di recente il Tribunale dell’Ue ha condannato, per la prima volta, l’Ue al risarcimento dei danni
materiali e morali causati dall’eccessiva durata di un processo, svoltosi proprio dinanzi al Tribunale,
ma in diversa composizione, riconoscendo che era stat violata la Carta all’art. 47 comma 2 in quanto
aveva ecceduto di 20 mesi il termine ragionevole di durata del giudizio integrando così una
violazione sufficientemente qualificata di una norma del diritto dell’Ue intesa a conferire diritti ai
singoli.

IL CONTENZIOSO IN MATERIA DI PERSONALE


L'art. 270 TFUE prevede la competenza della Corte di giustizia a conoscere delle controversie tra
l'Unione e i suoi agenti, nei limiti e alle condizioni determinate dagli artt. 90 e 91 dello statuto del
personale riguardanti qualsiasi condizione e modalità del rapporto di impiego.
Con la creazione del tribunale della funzione pubblica i ricorsi erano di competenza di quest'ultimo,
con il tribunale operante in funzione di giudice di secondo grado e la Corte chiamata esclusivamente
a pronunciarsi nelle ipotesi eccezionali di richiesta di riesame da parte del primo avvocato generale.
Con la soppressione nel 2016 di detto tribunale, competente a conoscere in primo grado tale
contenzioso è il Tribunale, mentre la corte è giudice di 2° grado.
La competenza del Tribunale sul contenzioso in materia di personale comprende tutte le
controversie che afferiscono al rapporto di impiego (assunzioni, condizioni di lavoro, trattamento
economico etc.) I ricorsi possono essere presentati da funzionari e agenti dell'Unione con esclusione
degli agenti locali che devono rivolgersi al giudice nazionale, e anche dai funzionari della BCE;
nonché dagli aspiranti funzionari o agenti che partecipano ad un concorso ed intendano contestarne
i risultati o/e lo svolgimento.
La ricevibilità del ricorso è subordinata: 1) al previo esperimento di un reclamo in via amministrativa
(fase precontenziosa) tranne nell’ipotesi in cui venga impugnato un atto che l’amministrazione non
ha il potere di annullare o modificare (ad es. la decisione presa dalla commissione di concorso); 2)
ad un interesse personale ad agire, certo e attuale del ricorrente.
Se l’amministrazione rigetta il reclamo oppure entro quattro mesi non risponde allo stesso, ipotesi
in cui il silenzio equivale a una decisione implicita di rigetto, l'interessato può adire il tribunale: il ricorso
contro gli atti o le omissioni dell'istituzione o contro le decisioni implicite di rigetto deve essere formulato
entro tre mesi a partire dalla notifica della decisione che statuisce sul reclamo o dalla data in cui scade il
termine di quattro mesi previsti per la pronuncia dell'istituzione.
Quanto al merito i ricorsi possono riguardare l'annullamento di un atto, la contestazione di una
omissione, la richiesta di un risarcimento per il pregiudizio subito. Insieme all’annullamento il
ricorrente può chiedere sia provvedimenti provvisori sia la sospensione dell’atto, ma ottenere una
misura cautelare è difficile perché oltre ai soliti requisiti, il ricorrente deve provare che la misura
non sia tale da ostacolare il buon funzionamento del servizio interessato (probatio diabolica).
L’IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA DEL TRIBUNALE
Il trasferimento di competenze al Tribunale ha inteso contribuire ad un miglioramento del livello di
tutela giurisdizionale complessivamente offerto dal sistema dell’Unione, soprattutto con riguardo
alla tutela dei singoli. Tuttavia, è possibile che tanto la Corte quanto il Tribunale siano
contemporaneamente chiamati a decidere su ricorsi aventi lo stesso oggetto, che sollevino le
stesse questioni di interpretazione o che mettano in discussione la legittimità di uno stesso atto (
un esempio potrebbe essere quello di una decisione della Commissione in tema di aiuti pubblici
alle imprese, impugnabile dagli Stati membri davanti alla Corte e dalle singole imprese interessate
dinanzi al Tribunale) nel caso in cui si venga a verificare una situazione del genere , l’art.54 c.3
dello Statuto della Corte consente tre soluzioni:
Il tribunale sospende la procedura e attende la pronuncia della Corte; soluzione che,
rispettosa del doppio grado di giudizio, rischia di pregiudicare il ruolo del Tribunale sotto il
profilo della decisione sulla questione di diritto, che verrebbe assicurata prima dalla Corte in
un processo in cui la parte privata non potrebbe in alcun modo interloquire
La Corte decide di sospendere la procedura pendente dinanzi ad essa; in tal caso si
continuerà dinanzi al Tribunale; tale soluzione assicura alle parti il doppio grado di giudizio,
senza pregiudicare la decisione del Tribunale con una soluzione anticipata della questione di
diritto.
Nell’ipotesi di ricorso per annullamento il Tribunale può scegliere di spogliarsi della causa,
declinando la propria competenza e lasciando decidere alla Corte.
Nel caso in cui uno Stato membro e un’istituzione impugnino lo stesso atto, il Tribunale sarà
tenuto a declinare la propria competenza e a lasciare alla Corte di decidere sul ricorso. Gli
istituti della declinatoria e della sospensione da parte del Tribunale non sono applicabili nel
caso in cui pendano dinanzi alla Corte e al Tribunale domande di sospensione dell’esecuzione
del medesimo atto.

Impugnazione della sentenza del Tribunale→ l’impugnazione della sentenza di primo grado
può essere proposta entro due mesi dalle parti (principali e intervenute). Una posizione
privilegiata è assicurata agli Stati e alle istituzioni, i quali possono impugnare una sentenza
del Tribunale indipendentemente dalla loro presenza nella procedura dinanzi al Tribunale
(anche come parti intervenienti). In tale caso, ove la Corte accolga l’impugnazione, potrà
precisare gli effetti della decisione annullata che devono essere considerati definitivi dalle
parti della controversia.
Oggetto della domanda di impugnazione→ l’impugnazione deve essere diretta a rimediare
ai pretesi errori in diritto della sentenza di primo grado. Pertanto, essa non può limitarsi ad
una mera riproposizione della domanda originaria o sollevare dinanzi alla Corte un motivo
non fatto valere nella prima fase, ma deve indicare espressamente i punti della sentenza
impugnata di cui si chiede l’annullamento perché viziati.
I vizi censurabili→ sono l’incompetenza del Tribunale; i vizi di procedura che hanno causato
pregiudizio al ricorrente, la violazione del diritto dell’Unione. In sostanza al giudice di
secondo grado è stata lasciata la cognizione finalizzata ad eliminare gli errori di diritto che
possono pregiudicare la coerenza dell’ordinamento e l’uniformità nell’applicazione delle
norme. In questa ottica, la Corte controlla altresì se il Tribunale ha commesso un errore di
diritto modificando l’oggetto della controversia o se è in corso un eccesso (o sviamento) di
potere o se ha statuito ultra petita (è più simile ad un giudizio di Cassazione che di appello).
Vizio di motivazione→ L’assenza della previsione di tale vizio nell’ambito di quelli censurabili
non può certo condurre ad escluderne la sua qualificazione come ipotesi di violazione del
diritto dell’Unione. La Corte ha chiarito che la motivazione della sentenza del Tribunale deve
contenere tutti gli elementi di fatto e di diritto che permettono all’interessato di conoscere le
ragioni della decisione adottata e ad essa di esercitare il controllo giurisdizionale. I motivi
dedotti devono individuare con precisione le parti della motivazione della sentenza del
tribunale contestata; non possono essere sollevati nuovi motivi in sede di impugnazione
tranne nel caso in cui ampliano un motivo già dedotto, non modificando l’oggetto della
controversia.
La valutazione delle prove →secondo quanto affermato dalla Corte, è di competenza
esclusiva del Tribunale. Tuttavia da un alt ha affermato la propria competenza a
verificare se le prove assunte dal Tribunale siano state acquisite regolarmente e se i
principi generali del diritto e le norme di procedura in materia di onere e di produzione
della prova siano stati rispettati. Dall’altro, la Corte si è riservata la facoltà di sindacare
lo snaturamento degli elementi di prova (questi sono due limiti all’insindacabilità
dell’apprezzamento del materiale probatorio).
Effetti della sentenza di accoglimento del ricorso→ ai sensi dell’art.61 dello Statuto
della Corte, la sentenza della Corte che accoglie l’impugnazione comporta
l’annullamento della pronuncia del Tribunale; nonostante ciò la Corte può essere essa
stessa a decidere della controversia <<qualora lo stato degli atti lo consenta>> (in tali
casi è ritenuta competente anche a risolvere le questioni di fatto). Se il dispositivo della
sentenza del Tribunale appare fondato ma per motivi diversi, il ricorso deve essere
respinto; in caso contrario, la Corte rinvia nuovamente la causa al Tribunale perché
quest’ultimo decida. La Corte potrà decidere nel merito la controversia solo se i fatti
risultino integralmente accertati nella fase del giudizio già svolta di fronte al Tribunale.
Le decisioni del Tribunale che non sono impugnate nei termini indicati diventato
definitive, in quanto passate in giudicato.

REVOCAZIONE → si tratta di un istituto applicabile sia alle pronunce del tribunale che della
Corte, entro il termine di 10 anni dalla data della sentenza; non si tratta di impugnazione, ma
di un mezzo di ricorso straordinario. La condizione indispensabile per attivare la procedura è
la scoperta, dopo l’emissione della sentenza, di elementi nuovi che siano però anteriori alla
pronuncia della sentenza e tali che, se conosciuti e apprezzati dal giudice, avrebbero potuto
condurre lo stesso ad una diversa soluzione della controversia. E’ stata esclusa la revocazione
avverso una sentenza emessa ex 267 in quanto soltanto il giudice nazionale, destinatario di
tale sentenza, potrà introdurre nuovi elementi di valutazione.

RIESAME→ ai sensi dell’art.256 par.2 e 3 TFUE e degli artt. 62,62 bis e 62 ter dello Statuto, è
possibile procedere ad un riesame di una decisione del Tribunale qualora sia a rischio l’unità
e la coerenza del diritto dell’Unione. In base agli articoli sopra ricordati, il primo avvocato
generale è competente a proporre alla Corte il riesame di una decisione del Tribunale. Tale
proposta deve essere fatta entro un mese a decorrere dalla pronuncia della decisione del
Tribunale e la Corte deve decidere entro un mese dalla presentazione della proposta
sull’opportunità di procedere ad un riesame. Con la sentenza del riesame, la Corte accerta la
presenta di errori di diritto commessi dal Tribunale e verifica se tali errori siano in grado di
pregiudicare la coerenza o l’unità del diritto dell’Unione. In caso positivo, rinvia la causa
dinanzi al Tribunale che sarà vincolato ai punti di diritto decisi dalla Corte.
RINVIO → l’art.256 par.3 TFUE attribuisce al Tribunale la facoltà di disporre del rinvio alla
Corte <<ove ritenga che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe
compromettere l’unità o la coerenza del diritto dell’Unione>>.

IL PROCEDIMENTO DINANZI AL TRIBUNALE ED ALLA CORTE (NELLE IPOTESI DI AZIONE


DIRETTE)
La fase scritta→ha lo scopo di far conoscere alla Corte fatti, censure, mezzi, argomenti e
conclusioni delle parti sulle quali la stessa è chiamata a pronunciarsi. Questa fase si attiva a
seguito del deposito di un ricorso e dei documenti allegati, che devono essere presentati
entro 2 mesi (cui si aggiungono 10 giorni in ragione della distanza), prorogabili dal Presidente
su domanda motivata del convenuto. Il ricorso, redatto nella lingua del ricorrente, contiene
indicazione delle parti e dei difensori, nonché l’esatta enunciazione della domanda. Il ricorso
viene inviato alla cancelleria della Corte tramite raccomandata che provvede alla notifica alla
controparte la quale, entro un mese, potrà presentare controricorso. Le parti potranno
presentare rispettivamente una replica ed una controreplica nel termine fissato dal
Presidente. In tale fase possono intervenire terzi mediante la presentazione di una memoria
di intervento, notificata dal cancelliere alle parti in causa. Le parti possono replicare solo se
autorizzate dal Presidente. Le parti diverse dagli Stati membri e dalle istituzioni dell’Unione
devono essere rappresentate da un avvocato abilitato al patrocinio in uno Stato membro.
Fase orale→dopo l’ultima memoria il giudice relatore, sentito l’avvocato generale deposita una
relazione d’udienza che riassume i termini essenziali della causa, il quadro normativo e la
posizione delle parti; tale relazione viene poi inviata alle parti per le eventuali richieste di
modificazione e integrazione. Sulla base di tale relazione il tribunale o la corte decidono se è
necessaria un’integrazione dell’istruttoria, della documentazione o altro, in caso affermativo si
fanno richieste o si pongono quesiti alle parti ed allo stesso tempo viene fissata la data
dell’udienza di discussione che può anche non svolgersi, ed in tal caso verrà fissata la data
dell’udienza per la presentazione delle conclusioni dell’avvocato generale. Inoltre, dopo la
chiusura della fase scritta la corte potrebbe rendersi conto di essere sufficientemente edotta per
decidere e farlo direttamente senza attendere le conclusioni dell’avvocato. La decisione è assunta
in camera di Consiglio e successivamente pronunciata in seduta pubblica. La sentenza viene
pubblicata sulla Gazzetta ufficiale.
Accanto alla procedura ordinaria appena analizzata, sono previsti procedimenti alternativi e
speciali. È previsto un procedimento accelerato qualora la natura della controversia imponga un
suo rapido trattamento. Tale procedimento comporta un’abbreviazione della fase scritta,
prevedendo termini per presentare le memorie è più brevi; inoltre la replica, la controreplica e la
memoria d’intervento possono essere presentate solo nel caso in cui il Presidente lo ritenga
necessario, dopo aver sentito il giudice relatore e l’avvocato generale. Infine, la Corte decide,
sentito l’avvocato generale che, dal 2016, presenta anche in questi procedimenti le “conclusioni”.
Bisogna ricordare che, a seguito della riforma del 2016, al Tribunale è stata trasferita la
competenza a risolvere le controversie tra l’Unione e i suoi agenti. Il Capo XI bis disciplina la
procedura di composizione amichevole. In particolare, il Tribunale può incaricare il giudice
relatore ad esperire un tentativo di composizione amichevole, di conseguenza il giudice
relatore può: invitare le parti a fornire informazioni e documenti utili, convocare riunioni
con i rappresentanti delle parti principali, avere colloqui separati con ciascuna delle parti.
Nel caso in cui l’accordo venga ad essere raggiunto, le parti possono chiedere che esso
abbia valore di atto pubblico e che sia firmato dal giudice relatore e dal cancelliere. Gli atti
processuali avvenuti nell’ambito di una composizione amichevole vengono iscritti in un
registro specifico e inseriti in un fascicolo distinto dal fascicolo della causa ( ciò significa che
solo le parti del procedimento potranno consultare il registro in questione ed avere copie o
estratti).

LA FUNZIONE CONSULTIVA→ In base all’art.218 par.11 TFUE la Corte è competente a


rendere pareri in ordine alla compatibilità con i trattati degli accordi internazionali o
degli accordi tra l’Unione e Paesi terzi; sebbene il parere della Corte non sia necessario
ai fini della stipulazione di un accordo internazionale, nel caso in cui il parere venga
richiesto, questo produce effetti vincolanti. Di conseguenza, qualora la Corte si pronunci
in senso negativo cioè stabilendo l’incompatibilità di talune disposizioni dell’accordo,
quest’ultimo non potrà entrare in vigore; se permane l’interesse di stipularlo, questo
dovrà essere modificato oppure dovrà procedersi ad una modifica non dell’accordo ma
dei Trattati in base alle condizioni stabilite dall’art.48 TUE. La possibilità di una modifica
dei trattati è difficile: ad oggi, ha trovato riscontro solo a seguito del parere 2/94, con la
quale la Corte aveva ritenuto che i trattati non permettessero l’adesione della CEDU. I
trattati sono stati successivamente modificati con l’emendamento dell’art.6 TUE che ha
introdotto un’espressa base giuridica per l’adesione. Il parere negativo della Corte può
anche determinare l’abbandono dell’accordo. Il parere della Corte è preventivo, quindi
deve essere richiesto in un momento precedente alla conclusione; successivamente è
soltanto possibile un ricorso di annullamento contro la decisone del Consiglio di
conclusione dell’accordo. Non c’è dunque un termine a quo. La competenza in esame,
anche se tradizionalmente configurata come competenza consultiva, si colloca più
precisamente tra i procedimenti di controllo della legittimità degli atti dell’Unione. Lo
scopo del parere è quindi di evitare che i dubbi di compatibilità con i trattati o anche di
competenza a stipulare dell’Unione diano luogo ad un contenzioso successivo alla
stipulazione. In caso di parere positivo, la stessa giurisprudenza dell’Unione ha ammesso
la possibilità di un controllo successivo sull’accordo secondo l’art.263 TFUE. La
legittimazione attiva è riconosciuta ad ogni Stato membro, al P.E., al Consiglio e alla
Commissione, alle istituzioni che sono coinvolte nella stipulazione e agli Stati membri
che hanno un interesse evidente alla conclusione dell’accordo.
I RICORSI PER INFRAZIONE

Il ricorso per infrazione ha lo scopo di consentire al giudice dell'Unione di esercitare un controllo


sul rispetto, da parte degli Stati membri, degli obblighi loro derivanti dalle regole
dell'ordinamento dell'Unione. La sua funzione essenziale è di ristabilire la legalità, più che
sanzionare lo Stato colpevole, ciò spiega perché il suo esercizio non presupponga necessariamente
l'esistenza di un pregiudizio subito dagli altri Stati membri né una colpa a carico dello Stato contro
cui la procedura di infrazione è rivolta, e giustifica le complesse modalità del suo svolgimento e il
ruolo centrale svolto dalla Commissione. Può formare oggetto del ricorso per infrazione qualsiasi
violazione, conseguente a un comportamento attivo od omissivo, da parte di uno Stato membro dei
suoi obblighi imposti dal diritto dell'Unione. Può trattarsi di obblighi derivanti da qualsiasi fonte
dell'ordinamento dell'Unione, e dunque da una disposizione dei Trattati o dal diritto derivato dagli
accordi internazionali vincolanti l'Unione; da una sentenza dalla Corte di giustizia; dai principi
generali dell'ordinamento in quanto facenti parte integrante del diritto dell'Unione e non assume
rilievo la circostanza che la norma violata rivesta o meno efficacia diretta.
Inoltre, non ha rilevanza la qualità dell'organo che abbia commesso la violazione, né si può escludere
che l’infrazione derivi dalla decisione nel merito di un organo giurisdizionale di ultimo grado che
abbia disconosciuto in modo manifesto il diritto dell’Unione applicabile, o sia dovuto alla sua
inosservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale derivante dall’art. 267.3 TFUE. Oggetto
dell'infrazione può essere anche la mancata comunicazione alla Commissione delle informazioni
richieste in merito all'attuazione, in un caso concreto, degli obblighi imposti da una direttiva.
Lo Stato non può addurre a giustificazione del suo comportamento norme, prassi o situazioni
peculiari del proprio ordinamento interno, o la particolare articolazione dell'ordinamento nazionale
che attribuisca ad enti territoriali autonomi determinate competenze in certe materie, per cui
ricadrebbe su di esse il compito di dare corretta attuazione alle norme dell'Unione. Neppure lo Stato
può invocare particolari difficoltà che abbia incontrato nell'esecuzione dell'atto dell'Unione come
l'opposizione di privati ed i problemi di ordine pubblico da questa derivanti, ovvero ancora
avvenimenti politici imprevedibili come i ritardi nella procedura legislativa, lo scioglimento del
Parlamento nazionale, le crisi di governo, i ritardi derivanti dal compimento di formalità
costituzionali obbligatorie: vanno tuttavia fatti salvi i casi di forza maggiore e solo per il periodo
necessario ad un'amministrazione diligente per porvi rimedio; neppure può considerarsi motivo
esonerante il fatto che la violazione non abbia prodotto alcun danno. Ugualmente, uno Stato non
può addurre a sua giustificazione l'illegittimità di una decisione di cui è destinatario come mezzo di
difesa avverso un ricorso per infrazione fondato sulla mancata esecuzione di tale decisione, poiché
in tal caso avrebbe dovuto utilizzare l'azione in annullamento, a meno che l'atto sia affetto da un
vizio talmente grave da doversi considerare inesistente.
La violazione commessa da uno Stato membro non può costituire giustificazione per il mancato
rispetto degli obblighi dell'Unione da parte di altro Stato membro: ciò in quanto gli Stati membri
hanno la possibilità di far accertare l'inadempimento di un altro Stato attraverso le varie procedure
previste dai Trattati (le misure di autotutela, contemplate dal diritto internazionale, non possono
trovare applicazione nell’ordinamento dell’Unione, ove è vietato agli Stati “farsi giustizia da sé”).

La procedura→ Due procedure sono previste dal Trattato: su iniziativa della Commissione (art.
258TFUE), oppure su iniziativa di uno o più Stati membri (art. 259 TFUE): anche in questo secondo
caso, peraltro, il ricorso passa sempre al vaglio della Commissione, in ragione del ruolo ad essa
affidato di “guardiana” del Trattato (art. 17 TFUE).
Iniziativa della Commissione: la fase precontenziosa→ Quando la Commissione ritenga che uno
Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione, per conoscenza
diretta o dietro richiesta di altro Stato membro, o sollecitata da un esposto di privati, può d'ufficio
iniziare la procedura per inadempimento. Secondo l’interpretazione fornita dalla Corte, la
Commissione non è obbligata a dar corso alla procedura, neanche se abbia ricevuto un reclamo
puntuale, disponendo al riguardo di un ampio potere discrezionale: dunque la sua decisione di
iniziare oppure di non avviare la procedura non può formare oggetto di ricorso in annullamento, né
la sua inerzia o il suo silenzio formare oggetto di un ricorso in carenza, poiché la fase precontenziosa
non implica alcun atto giuridicamente vincolante né può far nascere una sua responsabilità.
Il primo atto ufficiale della procedura è la lettera di messa in mora o di intimazione, nella quale la
Commissione comunica allo Stato i motivi del suo intervento, contesta gli addebiti e
lo invita a presentare le sue"osservazioni"entro un termine fissato (di solito due mesi): la lettera è
una condizione di forma sostanziale che condiziona la regolarità della procedura e quindi la
ricevibilità del ricorso successivo, poiché la facoltà concessa allo Stato di presentare le sue
osservazioni costituisce una garanzia fondamentale per l'esercizio del suo diritto di difesa. A seguito
delle spiegazioni dello Stato, se queste siano ritenute sufficienti o se lo Stato abbia posto termine
all'infrazione, la Commissione può decidere di archiviare il caso; altrimenti, può emanare un parere
motivato, che chiude la fase precontenziosa, nel quale si ingiunge allo Stato di porre fine alla
violazione entro un termine che fissa discrezionalmente a seconda della gravità del caso: se troppo
breve o irragionevole, costituisce violazione dei diritti della difesa e può comportare il rigetto del
ricorso da parte della Corte. Il parere motivato contiene un'esposizione dettagliata dei motivi che
hanno indotto la Commissione a ritenere l'esistenza dell'infrazione di un obbligo dell'Unione e gli
elementi di fatto e di diritto da prendere in considerazione nonché eventualmente l'indicazione
delle misure che la Commissione ritiene necessario siano adottate per porre termine alla violazione.
Il parere motivato non può discostarsi dai motivi e dagli addebiti già enunciati nella lettera di
intimazione: solo questi potranno essere discussi davanti alla Corte, mentre nuovi elementi di
giudizio sono irricevibili, poiché la lettera di intimazione ha appunto lo scopo di delimitare la materia
del contendere e allo stesso tempo di fornire allo Stato membro i dati necessari per preparare la sua
difesa. Sia la lettera di messa in mora che il parere motivato sono adempimenti necessari per la
regolarità della procedura, non solo perché necessari per garantire allo Stato la possibilità di
giustificarsi e difendersi, ma anche perché possono consentire di giungere al ristabilimento della
legalità comunitaria senza passare attraverso la fase giudiziaria.
Trattandosi di un atto preparatorio, il parere motivato non può formare oggetto di ricorso in
annullamento.
La Commissione ha istituito una nuova procedura denominata EU Pilot che consiste nello scambio
di informazioni e nella risoluzione dei problemi con gli Stati membri prima dell’eventuale avvio della
fase precontenziosa; tale procedura implica una cooperazione tra la Commissione e gli stati membri
e mira tanto a verificare la corretta applicazione del diritto, quanto a risolvere rapidamente le
questioni sollevate da tale applicazione. In virtù di questo sistema informale, le comunicazioni tra le
due parti avvengono tramite una sistema informatico, ma la commissione, se non soddisfatta del
risultato del dialogo con lo stato membro interessato può comunque avviare la procedura formale
ex 258. La chiusura di tale procedura non incide sulla facoltà della commissione di avviare un
successivo procedimento formale, né consente allo stato membro di invocare il suo legittimo
affidamento quanto alla conformità della sua normativa nazionale al diritto dell’Unione.

La fase contenziosa → si apre con la presentazione del ricorso alla Corte, qualora lo Stato in causa
non si conformi al parere della Commissione nel termine fissato. Il ricorso non è soggetto ad alcun
termine, poiché anche in questa fase la Commissione resta libera di valutare i tempi e l'opportunità
del suo esercizio, o decidere di astenersi dall'adire la Corte anche se lo Stato non ha eliminato il
proprio inadempimento. Incombe alla Commissione l'onere di provare l'esistenza di una violazione
ma, quale"guardiana"del Trattato, non deve dimostrare il suo interesse ad agire.
L'adempimento (tardivo) da parte dello Stato non interrompe la procedura, se interviene nel corso
del giudizio, la Commissione può rinunciare a dar seguito al procedimento, ma tale rinuncia non
implica alcun riconoscimento della liceità del comportamento discusso né priva di oggetto il ricorso
già avviato. La Commissione conserva un interesse a proseguire ugualmente l'azione e ad ottenere
una pronuncia giudiziale sull'esistenza o meno della violazione, ad esempio al fine di stabilire
un'eventuale responsabilità dello Stato tanto nei confronti dell'Unione che degli altri Stati membri
o dei singoli: se ne ricava dunque che l'azione per infrazione non ha il solo scopo di ristabilire la
legalità comunitaria imponendo a uno Stato il rispetto dei suoi obblighi, ma può avere anche quello
di accertare la sua responsabilità e di fungere da "precedente" per eventuali altre violazioni da parte
dello stesso o di altri Stati membri.
La Corte può ordinare i provvedimenti provvisori che ritenga necessari, quali misure cautelari; ad
esempio può imporre allo Stato di sospendere l'applicazione di una misura interna fino
all'emanazione della sentenza.

Su iniziativa degli Stati membri → Anche agli Stati membri è riconosciuta la possibilità di adire la
Corte, siano o meno parti lese, quando ritengano che un altro Stato membro abbia mancato a un
obbligo dell'Unione; tuttavia, prima di adire la Corte, l’art. 259 TFUE prevede che essi devono
rivolgersi alla Commissione la quale, dopo aver chiesto agli Stati interessati di presentare in
contraddittorio le loro osservazioni, emette un parere motivato. La Commissione è tenuta a
formulare il parere sull'esistenza o meno della violazione lamentata entro tre mesi dalla domanda:
spetterà poi allo Stato decidere di adire o meno la Corte. La mancata emanazione del parere non
impedisce allo Stato di ricorrere ugualmente alla Corte, così come non glielo impedisce un parere
che risulti favorevole allo Stato convenuto.

Effetti della sentenza di inadempimento→ sono prefigurati dall’art. 260 par. TFUE il quale
stabilisce che “la sentenza riconosce che lo stato è inadempiente rispetto ad una o più obbligazioni
che gli derivano dai Trattati ovvero da un atto dell’Unione”. Si tratta di una sentenza meramente
dichiarativa rispetto alla quale non esiste la possibilità di attuarla in forma coattiva, nonostante ciò
gli stati dichiarati inadempienti sono comunque tenuti a prendere provvedimenti: abrogare o
introdurre una nuova norma nell’ordinamento, trasporre una direttiva, modificare una prassi. La
giurisprudenza, in particolare, ha precisato che la pronuncia che accerti l’incompatibilità con i
Trattati di una legge nazionale, comporta per lo stato l’obbligo di modificarla, nonché l’obbligo per
i giudici nazionali di garantire l’osservanza della norma comunitaria così come interpretata dalla
corte, non essendo sufficienti, ad esempio, a tale scopo, semplici prassi amministrative in quanto
l’incompatibilità di una normativa nazionale può essere definitivamente rimossa solo con
disposizioni vincolanti che abbiano lo stesso rango di quelle riconosciute in contrasto con
l’ordinamento dell’Unione. Il TFUE non fissa alcun termine per l’esecuzione della sentenza che
accerti l’inadempimento, ma in virtù del p. di leale cooperazione sono richiesti tempi brevi.

Novità introdotte dal T. di Lisbona (successiva alla novità di Maastricht della “doppia
condanna”)→ Il 260 par. 2 TFUE prevede che “se la Commissione ritiene che lo stato membro non
abbia preso le misure che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta, dopo aver posto tale
stato in condizione di presentare osservazioni, può adire la corte, precisando inoltre l’importo
della somma forfettaria o della penalità (che essa consideri adeguata alle circostanze) da versare
da parte dello stato membro in questione”→ dunque prevede che la Commissione possa ricorrere
direttamente alla Corte dopo aver inviato la sola lettera di messa in mora allo stato che si sia reso
inadempiente alla prima sentenza di condanna emanata a norma del 258 (si tratta di una
procedura accelerata che non prevede l’invio del parere motivato).
Il par. 3 dello stesso articolo invece prevede che “la Commissione, quando propone ricorso dinanzi
alla corte ex 258 reputando che lo stato membro non abbia adempiuto l’obbligo di comunicare le
misure di una direttiva adottata secondo una procedura legislativa, può indicare l’importo di una
somma forfettaria o della penalità da versare da parte di tale stato”→ dunque è prevista la
possibilità, per la Commissione, di richiedere già nel primo ricorso alla corte, soltanto in questo
caso specifico, la condanna dello stato inadempiente al pagamento di una sanzione pecuniaria. In
entrambi i casi rimane fermo il potere discrezionale della corte nel decidere in merito
all’irrogazione o meno della sanzione (o delle sanzioni -perché possono cumularsi-) e nel
determinare l’importo.
Indipendentemente dalla sanzione pecuniaria, peraltro, la sentenza che accerta l’infrazione non è
priva di conseguenze: qualora lo stato sia inadempiente per aver introdotto o mantenuto una
norma incompatibile con il diritto dell’Ue la conseguenza è per i giudici e le amministrazioni
nazionali, un obbligo di non applicare la norma incompatibile, ma direttamente le norme
comunitarie provviste di effetto diretto così come interpretate dalla corte nella sentenza.

Procedure speciali→ in talune specifiche ipotesi di inadempimento, il TFUE prevede, in deroga agli
artt. 258 e 259, una procedura accelerata che consente alla Commissione e agli stati membri di
saltare la fase precontenziosa e di adire direttamente la Corte. Si pensi all’art. 108 TFUE in materia
di aiuti di stato, qualora lo stato in questione non si conformi, nel termine prescritto, ad una
decisione di incompatibilità dell’aiuto concesso, ovvero eroghi un aiuto prima ancora che la
Commissione si sia pronunciata sulla compatibilità nell’ambito della procedura avviata al riguardo.
Oppure all’art. 114 par. 9 TFUE in materia di ravvicinamento delle legislazioni, qualora uno stato
abusi del potere di applicare misure nazionali più rigorose rispetto alle misure di armonizzazione
adottate a livello europeo. Il Fiscal Compact prevede all’art. 8 una procedura mutuata da quella di
infrazione al fine di verificare l’attuazione degli obblighi di cui all’art. 3 in materia di disavanzo e
costituzionalizzazione del pareggio di bilancio: qualora la Commissione accerti l’inadempimento di
tali obblighi, dopo aver dato alle parti contraenti interessate la possibilità di presentare le proprie
osservazioni, una o più parti contraenti possono presentare ricorso alla corte di giustizia. Così
come una parte contraente, se ritiene che un’altra parte contraente abbia violato tali obblighi, può
adire direttamente la corte. In entrambi i casi il giudizio è vincolante per le parti in causa che sono
tenute ad adottare tutte le misure necessarie per conformarsi alla sentenza entro il termine
stabilito. Se una parte o la Commissione ritengano che la parte inadempiente non abbia posto fine
all’inadempimento, possono chiedere alla corte di comminargli delle sanzioni. In tale giudizio la
corte agisce nell’ambito delle sue competenze arbitrali ai sensi del 273 TFUE.

LA COOPERAZIONE TRA GIUDICE NAZIONALE E GIUDICE DELL’UE: IL RINVIO PREGIUDIZIALE


Si tratta della procedura attraverso la quale si delinea un sistema giurisdizionale integrato fra Stati
membri ed Unione, per il tramite del quale si intende garantire l'interpretazione e l'applicazione
uniforme del diritto dell'Unione all'interno degli ordinamenti statali attraverso una stretta
cooperazione tra i due livelli che si fonda sulla distinzione e sul rispetto delle reciproche
competenze. La Corte di giustizia non può risolvere nel merito le controversie, può solo intervenire
nell'ambito dei procedimenti interni per fornire ai giudici nazionali le indicazioni cui essi debbano
attenersi nell'applicazione del diritto dell'Unione che venga in rilievo e risulti necessario per
giungere alla decisione. La procedura pregiudiziale è avviata dalla decisione di un giudice interno di
adire la Corte di giustizia quando reputi che si ponga un problema di interpretazione del diritto
dell'Unione o di validità di un atto derivato nel corso di un procedimento pendente dinanzi ad esso.
Dunque, è una procedura di natura accidentale e non contenziosa che si innesta nell’ambito di un
giudizio pendente dinanzi a Giudici nazionali, non costituendo un mezzo autonomo di ricorso, ma
un incidente all’interno di un giudizio.
L’art. 267 TFUE ha attribuito alla corte una competenza generale in materia pregiudiziale,
eliminando le differenze prima esistenti tra i meccanismi di tutela giurisdizionale del diritto
comunitario (ex primo pilastro) e quelli della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale
(ex terzo pilastro). Al contempo sono state eliminate le differenze all’interno del primo pilastro, in
quanto il precedente titolo IV del Trattato CE (relativo alla materia dei visti, dell’asilo,
dell’immigrazione) è stato comunitarizzato (oggi titolo V), in quest’ambito l’unica eccezione alla
competenza della Corte è rappresentata dalla validità o proporzionalità di operazioni condotte dalla
polizia o da altri servizi incaricati dell’applicazione della legge di uno stato membro o l’esercizio delle
responsabilità incombenti agli stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la
salvaguardia della sicurezza interna (276 TFUE).

RINVIO PREGIUDIZIALE DI INTERPRETAZIONE → Le richieste di interpretazione possono


riguardare: il diritto primario dell’UE (Trattati istitutivi, integrativi e modificativi, protocolli annessi
e accordi di adesione); gli atti emanati dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione; i
principi generali del diritto dell’Unione; le sentenze della Corte; le norme di diritto internazionale
generale; gli accordi conclusi da Stati membri con Stati terzi, ma vincolanti l’Unione; è invece
esclusa la competenza della Corte per gli accordi bilaterali tra Stati membri e per quelli conclusi
fuori del quadro dell’Unione.
In tal caso il giudice del rinvio chiede quale sia la corretta interpretazione della norma dell’Unione
e se quest’ultima precluda o meno (osta o non osta) all’applicazione di un atto di uno stato
membro. Si evince da ciò che la sua funzione essenziale è innanzitutto quella di garantire
un’uniforme interpretazione e dunque applicazione del diritto dell’Unione. Tuttavia, consente
anche di realizzare un controllo di legittimità della normativa nazionale rispetto al diritto
dell’Unione anche se indiretto perché la sentenza del giudice interno che accerta la legittimità o
meno dell’atto in questione, consegue all’interpretazione del diritto UE da parte della Corte di
giustizia, in sostanza però si realizza un sindacato di legittimità della norma nazionale rispetto al
parametro dell’unione. In questi casi spesso il quesito del giudice interno è formulato proprio in
termini di legittimità della norma nazionale rispetto al diritto dell’Unione; rinvii che la corte riceve,
previa modificazione del quesito (dandogli la giusta forma), perché non è competente a giudicare
la compatibilità di una norma interna con il diritto dell’Unione, ma sostanzialmente lo fa con
questo tipo di rinvio, tanto che le pronunce che conseguono non sono tanto diverse da quelle
emanate all’esito di un ricorso per infrazione. Dunque, quando un singolo ritiene di subire un
pregiudizio per effetto dell’applicazione di una norma assunta come incompatibile con il diritto
dell’Unione può far accertare tale incompatibilità in due modi: 1) segnalazione alla Commissione
che deciderà se attivare o meno la procedura d’infrazione; 2) chiedere al giudice nazionale dinanzi
al quale sia stata portata la controversia di procedere al rinvio pregiudiziale di interpretazione. Le
sentenze della corte saranno rispettivamente: 1) di inadempimento dunque di accertamento di
una violazione da parte del diritto nazionale con conseguente possibilità di applicare il 260 e 2)
formalmente di interpretazione (ma sostanzialmente anch’essa di inadempimento) con la quale
viene fornita una lettura della norma Ue dalla quale potrà dedursi l’incompatibilità di una norma
nazionale, ma senza poter attivare il 260 TFUE.

RINVIO PREGIUDIZIALE DI VALIDITÀ → In tal caso il giudice del rinvio chiede se la norma
dell’unione sia valida e quindi efficace; tale pronuncia consente alla Corte di esercitare un
controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni, degli organi o organismi dell’UE, aventi valore
vincolante, anche se sprovvisti di efficacia diretta. Le sentenze, invece, data la loro autorità di cosa
giudicata, non possono costituire oggetto di rinvio di validità. Il controllo sulla validità degli atti da
parte della Corte è analogo a quello esercitato dalla stessa nell’ambito del ricorso in annullamento,
con la differenza che, quando i giudici nazionali ritengano di adire la Corte in via pregiudiziale
perché si pronunci sulla validità di un atto dell’Unione, non operano le condizioni restrittive in
materia di ricevibilità previste in particolare per i privati che si applicano al ricorso in annullamento
e non trova applicazione il termine di ricorso di due mesi ivi previsto. Dunque, anche se si tratta di
un atto avente portata generale che non riguarda il singolo direttamente ed individualmente, lo
stesso può sollecitare il giudice a formulare alla Corte il quesito circa la validità dell’atto in
questione. Tale mezzo completa, quindi, il sistema di tutela giurisdizionale soprattutto per quanto
riguarda i singoli, poiché dà loro la possibilità di tutelarsi nei confronti di atti a portata normativa
generale rispetto ai quali è loro preclusa l’azione diretta in annullamento, ma si tratta comunque
di un ricorso indiretto, nel senso che il privato può soltanto sollevare la pretesa invalidità dell’atto
dell’Unione dinanzi al giudice interno, il quale è l’unico a decidere se ricorrere o meno alla Corte.

CONDIZIONI SOGGETTIVE: LA NOZIONE DI ORGANO GIURISDIZIONALE NAZIONALE


La Corte di giustizia ha indicato alcuni requisiti che gli organi interni devono rivestire per potersi ritenere
giurisdizioni e dunque essere abilitati a rivolger quesiti pregiudiziali: la sua costituzione per legge, il
carattere permanente dell'organo, l'obbligatorietà della giurisdizione (se il procedimento è destinato a
concludersi con una decisione di carattere giurisdizionale, vincolante per le parti, la domanda di
pronuncia pregiudiziale è ricevibile dalla Corte anche se il procedimento presenta aspetti meno tipici
dei procedimenti giudiziari), il compito di applicare il diritto, inoltre l'organo deve rivestire carattere
indipendente e una posizione di terzietà senza vincoli gerarchici e di subordinazione nei confronti di
alcuno.
Dunque, sulla base di tali requisiti, nella prassi, la Corte ha negato la qualità di giurisdizione alla
pubblica accusa, come il procuratore della Repubblica italiana, al Consiglio dell'ordine degli avvocati
di Parigi, in quanto ritenuto non esercitante una funzione giurisdizionale e si è dichiarata, inoltre,
incompetente a pronunciarsi su domanda di una Commissione consultiva italiana per le infrazioni in
materia valutaria in quanto il suo compito non è quello di dirimere controversie ma di esprimere
pareri nell'ambito di un procedimento amministrativo. La Corte ha invece riconosciuto la qualità di
giurisdizione a una Commissione olandese di ricorso in materia medica: in assenza di rimedi giuridici
effettivi dinanzi ai giudici ordinari in una materia che coinvolge l'applicazione del diritto dell'Unione,
tale Commissione, che esercita le sue funzioni con l'approvazione delle autorità pubbliche le cui
decisioni sono di fatto definitive, deve considerarsi alla stregua di una giurisdizione ai sensi dell'art.
267 TFUE. Poi, l'assenza di una procedura in contraddittorio davanti al giudice nazionale di per sé
non osta alla ricevibilità del ricorso, quanto meno qualora il contraddittorio tra le parti sia soltanto
differito: per cui sono da considerarsi giurisdizioni: il giudice cautelare, il giudice dell'ingiunzione e
il giudice istruttore.
Per quanto riguarda gli arbitri, la Corte ha escluso in via generale la possibilità di accogliere il loro
rinvio pregiudiziale qualora non vi sia alcun obbligo per le parti di risolvere le loro liti mediante
arbitrato e le autorità pubbliche non siano implicate nella scelta della via dell'arbitrato; tuttavia, per
consentire in ogni caso che la controversia possa essere portata all'attenzione della Corte, ha
ammesso di poter essere adita eventualmente degli organi giudiziari competenti a pronunciarsi
sull’impugnazione dei lodi arbitrali.
Quanto alle autorità amministrative indipendenti, ci sono state delle oscillazioni nella
giurisprudenza della corte di giustizia perché in un primo caso, che riguardava la Spagna, la corte
aveva ritenuto ricevibile un rinvio pregiudiziale proposto dall'organo spagnolo che si occupa della
tutela della concorrenza, poi invece di recente con riferimento ad un caso Greco, la corte ha
raggiunto una diversa soluzione dichiarando irricevibili i quesiti per il legame in quel caso
dell’autorità con l’esecutivo. Tuttavia, sulla base di tali pronunce, la corte ha escluso, in via generale
che un’autorità amministrativa (che adotta decisioni più di carattere amministrativo che
giurisdizionale) rientri nella nozione di giurisdizione; perché se tutte la autorità amministrative
indipendenti degli Stati membri potessero sollevare dei rinvii pregiudiziali, il contenzioso (che ha
raggiunto delle proporzioni enormi) finirebbe per allargarsi a dismisura anche perché le decisioni
delle autorità amministrative indipendenti sono impugnabili dinanzi al giudice amministrativo: al
TAR e al Consiglio di Stato in secondo grado, quindi saranno questi ultimi a poter sollevare un rinvio
pregiudiziale. E’ stato considerato rientrante nella nozione di giurisdizione anche il Consiglio
Nazionale Forense sulla base della sua composizione (è prevista l’incompatibilità della carica di
consigliere con quella di membro di un consiglio degli avvocati locale) e poi perché deve rispettare
tutta una serie di garanzie in materia di indipendenza ed imparzialità ed è un organo pienamente
autonomo.
Quanto alla Corte costituzionale, dal tenore letterale del 267 sembra potersi dedurre che il rinvio
compete al giudice della controversia inteso come giudice che definisce la causa, dunque la corte
non è il giudice della controversia nel contesto di un incidente di costituzionalità, ma lo è il giudice
a quo; il giudice costituzionale può essere considerato giudice che definisce la causa nei casi dei
ricorsi in via principale e di conflitto di attribuzioni ove è anche giudice di ultima istanza si che
sarebbe obbligato al rinvio. Per tale motivazione la Corte cost. inizialmente riconosceva soltanto nei
giudizi di costituzionalità in via principale la sua competenza a proporre una questione pregiudiziale
dinanzi alla Corte di giustizia. Tuttavia, nel 2014, la Corte Costituzionale ha sollevato per la prima
volta un rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia nell’ambito di un ricorso di legittimità
costituzionale in via incidentale riguardante i cc.dd. “precari della scuola” in quanto l’abuso di
contratti a termine senza la stabilizzazione degli insegnanti di scuola, poneva un problema di
compatibilità con il diritto dell'Unione Europea; a questo rinvio ha fatto seguito quello della vicenda
Taricco.

CONDIZIONI OGGETTIVE: LA RICEVIBILITÀ DELLE QUESTIONI PREGIUDIZIALI


La ripartizione di competenze per Corte di giustizia e giurisdizioni nazionali comporta che
esclusivamente a queste ultime compete l'accertamento dei fatti, la verifica della loro esattezza e
l'applicazione del diritto dell'Unione alla fattispecie in esame, mentre alla prima spetta pronunciarsi
sul quesito posto in relazione alla norma dell'Unione: di fronte alla richiesta del giudice nazionale,
la Corte dunque non può sottrarsi al suo dovere di emanare una pronuncia a meno che ritenga che
questa esca dalla propria competenza. Tuttavia, ha individuato dei requisiti di ricevibilità, in assenza
dei quali può dichiarare “il non luogo a provvedere” o l’irricevibilità di tutti o soltanto alcuni questi.
Non può però pronunciarsi sulla rilevanza della questione per la soluzione della controversia
dell'ordinamento interno (ciò spetta al giudice nazionale).
La Corte ha stabilito che il suo dovere di pronunciarsi non opera quando risulti il carattere fittizio
della controversia in quanto risulta sia dal tenore letterario che dalla ratio del 267 che il
procedimento pregiudiziale presuppone la pendenza, dinanzi ai giudici nazionali, di un’effettiva
controversia. Ad esempio: la Corte ha rifiutato di rispondere al quesito pregiudiziale sollevato in
occasione di una controversia che ha considerato fittizia in quanto riteneva che le parti fossero
d’accordo sull’esito del litigio e sull’interpretazione delle norme dell’Unione, ma tendevano a far
risultare l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di una norma di un paese diverso da quello del
foro. In alcune sentenze successive, ha invece ritenuto non sufficiente la concordanza delle parti sul
risultato da ottenere nella causa principale ad incidere sulla effettività della controversia (e quindi
sulla ricevibilità del rinvio), mentre ha confermato di dover esercitare una particolare vigilanza
quando la questione pregiudiziale sia diretta a far valutare la compatibilità di una normativa di un
altro stato membro con il diritto dell’Unione; ovviamente il carattere fittizio della controversia deve
risultare in modo manifesto dagli elementi di fatto indicati nella decisione di rinvio. Inoltre, la Corte
si è riservata di dichiarare irricevibili questioni giudicate manifestatamente irrilevanti per la
soluzione della controversia principale: così si è rifiutata di rispondere a questioni aventi come fine
quello di farle emanare dei pareri consultivi su questioni generali o non pertinenti, cioè non
corrispondenti ad un bisogno obiettivo inerente alla soluzione di una controversia: infatti il suo
compito è quello di cooperare per l'amministrazione della giustizia negli stati membri per risolvere
una controversia effettiva ed attuale e non quello di esprimere pareri; oppure quando la questione
posta non aveva manifestamente alcun rapporto con l'oggetto della causa principale, o perché non
necessaria al fine di decidere la controversia vertendo su norme del diritto dell'Unione non applicabili al
caso di specie; o ancora perché si trattava di questioni di natura ipotetica non suffragate da elementi di
fatto o di diritto tali da consentirle di emanare una pronuncia utile. La Corte dichiara altresì irricevibili
i quesiti pregiudiziali quando li ritiene troppo generici o quando a suo parere le indicazioni fornite
nell'ordinanza di rinvio sono troppo imprecise per consentirle di dare una risposta utile per la
soluzione della causa; il giudice di rinvio deve fornire le indicazioni delle ragioni che lo inducono ad
interrogarsi sull'interpretazione del diritto dell'Unione e a ritenere necessario sollevare una
questione pregiudiziale, nonché spiegare le ragioni della scelta delle disposizioni di cui chiede
l'interpretazione e il legame tra esse e la normativa nazionale applicabile alla controversia; talvolta,
in questi casi, la corte si è spinta fino a riformulare quesiti poco chiari. L'esigenza che il giudice
definisca con precisione l'ambito di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni pregiudiziali
sollevate, si spiega anche con la necessità di consentire agli stati membri ed alle altre parti
interessate di esercitare la propria facoltà di presentare osservazioni alla Corte sulle questioni
pregiudiziali posto che alle parti interessate vengono notificate esclusivamente le decisioni di rinvio.
La Corte sottolinea anche che non rientra nella sua competenza la valutazione di conformità del
diritto nazionale con il diritto dell'Unione, tuttavia spesso il quesito del giudice nazionale è formulato
proprio in termini di compatibilità o legittimità della normativa nazionale rispetto al diritto
dell’Unione; in tal caso la corte, dopo aver precisato di non essere competente a dichiarare essa
stessa l’incompatibilità di una norma nazionale, provvede a riformulare il quesito, dandogli la giusta
forma del quesito interpretativo, dunque, in sostanza, risponde al quesito posto dal giudice anche
se conferendogli una forma diversa→ è evidente come tale risultato possa ugualmente raggiungersi
come conseguenza dell'esercizio della competenza pregiudiziale della Corte che può affermare
l'incompatibilità di una norma interna con il diritto dell'Unione alla luce della sua pronuncia
interpretativa.
La Corte invece si è ritenuta competente ad interpretare le disposizioni del diritto interno
riproduttive del diritto dell'Unione, o a quest'ultimo facenti rinvio per determinarne il contenuto di
una norma applicabile a una situazione interna, giustificando questa apparente estensione delle sue
competenze, al di là del campo di applicazione del diritto dell'Unione europea, col fatto che quando
la normativa nazionale si conforma a quella adottata nel diritto dell'Unione, al fine di evitare che vi
siano discriminazioni nei confronti dei cittadini nazionali o eventuali distorsioni della concorrenza,
esiste un interesse certo dell'Unione a che le disposizioni o le nozioni riprese dal diritto dell'Unione
ricevano un'interpretazione uniforme a prescindere dalle condizioni in cui verranno applicate.

FACOLTÀ ED OBBLIGO DI RINVIO


Quanto al rinvio pregiudiziale di interpretazione, se si tratta di un giudice le cui decisioni possono
essere sottoposte ad ulteriori gradi di giudizio, esso ha la semplice facoltà di rinviare alla Corte
(dunque può pronunciarsi esso stesso sull'interpretazione del diritto dell'Unione perché poi quella
sentenza potrà essere impugnata e sarà rimediabile innanzi ad un giudice di grado superiore);
quando invece si tratti di un giudice avverso le cui decisioni non possa essere proposto ricorso in via
giurisdizionale, esso ha l’obbligo di rinviare alla Corte perché una sentenza di un giudice di ultima
istanza passa in giudicato, dunque potrebbe consolidare una giurisprudenza nazionale che sia in
contrasto con le norme dell’unione europea.
Nei casi di rinvio pregiudiziale di validità, invece, non solo il giudice di ultima istanza, ma anche
quello di grado inferiore è obbligato ad utilizzare il rimedio in esame nell’ipotesi di dubbio sulla
validità di una norma dell’Unione, non potendone dichiarare l’invalidità in quanto solo la Corte di
giustizia è competente a farlo.
Sono state previste, inoltre, delle eccezioni rispetto all’obbligo del giudice di ultima istanza a
sollevare un rinvio pregiudiziale (che tuttavia non trovano applicazione nell’ambito del rinvio
pregiudiziale di validità) perché c’è stato un aumento consistente dei rinvii pregiudiziali dinanzi alla
corte e proprio per questo a partire dalla sentenza CILFIT, la corte di giustizia ha individuato delle
ipotesi in cui il giudice di ultima istanza può legittimamente non sollevare un rinvio pregiudiziale : in
primo luogo quando la questione sia materialmente identica ad un’altra già decisa dalla Corte in via
pregiudiziale su una fattispecie analoga; in secondo luogo, riprendendo la teoria dell’atto chiaro
propria del diritto francese, laddove la questione sia talmente chiara ed evidente da non alimentare
alcun ragionevole dubbio interpretativo (il giudice nazionale dovrebbe essere convinto che la stessa
evidenza si imporrebbe ai giudici degli altri stati).
L'iniziativa di operare il rinvio spetta unicamente al giudice interno che può essere sollecitato in tal
senso dalle parti, ma non è tenuto a seguire la loro richiesta di rivolgersi alla Corte, mentre può
decidere di sollevare d'ufficio la questione anche contro il consenso delle parti (si parla di
procedimento da giudice a giudice). La questione può essere sollevata in qualsiasi stadio del
procedimento interno e spetta al giudice nazionale la scelta del momento più utile per operare il
rinvio; anche se può essere vantaggioso che gli elementi di fatto e di diritto siano già stati chiariti in
modo da consentire alla Corte di poter valutare adeguatamente il quesito posto.
LE CONSEGUENZE DERIVANTI DALLA VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI RINVIO
L'inosservanza di tale dovere può condurre:
• all’avvio, da parte della Commissione, di una procedura di infrazione nei confronti dello Stato
membro cui appartiene l'organo giudiziario per violazione del Trattato (art. 267 comma 3).
Tuttavia, questo rimedio ha un limite: non è nella disponibilità dei privati che possono solo
sollecitare l’avvio della procedura, senza poter impugnare il rifiuto o l’inerzia della
Commissione.
• può fondare altresì un'azione per il risarcimento del danno promossa dal privato
danneggiato nei confronti dello Stato membro cui appartiene la giurisdizione di ultima
istanza che abbia emanato una decisione definitiva in contrasto con una norma dell'Unione
o con l'interpretazione di essa successivamente fornita dalla Corte di giustizia, tale omissione
integrando da sola gli estremi di una violazione sufficientemente caratterizzata. Di per sé la
violazione dell'obbligo di rinvio pregiudiziale non è sufficiente per chiamare in causa la
responsabilità risarcitoria degli stati perché manca il primo requisito e cioè che la norma
violata deve essere preordinata a conferire diritti ai singoli→ il rinvio pregiudiziale non è
nella disponibilità dei singoli, non c'è un diritto al rinvio pregiudiziale poiché il dominus è il
giudice nazionale e non la parte. Inoltre vi è anche il problema del nesso di casualità tra la
violazione e il danno perché bisogna dimostrare che, se ci fosse stato il rinvio pregiudiziale,
l'esito della controversia sarebbe stato verosimilmente diverso. Ciò significa che la violazione
dell'obbligo di rinvio pregiudiziale si deve accompagnare, per poter chiamare in causa la
responsabilità sul piano risarcitorio degli stati, alla violazione di un'altra norma, principio,
diritto fondamentale o sentenza dell'Unione Europea.
• Infine, c'è la possibilità di far valere una violazione a un equo processo, quindi la violazione
dell'art. 6 della cedu la quale ha censurato l’omesso rinvio pregiudiziale soltanto nelle ipotesi
in cui il rifiuto non sia stato in alcun modo giustificato, dunque arbitrario.

GIUDIZIO CAUTELARE NAZIONALE E RINVIO→ se il giudice nazionale non potesse concedere misure
provvisorie, fino all’esito della causa, l’utilità del 267 verrebbe ridotta e non sarebbe garantita una
tutela piena ed effettiva. Una delle prime ipotesi sottoposte alla Corte circa i rimedi cautelari lo è
stata quella relativa alla causa Factortrame, in cui la società aveva dedotto l’incompatibilità
comunitaria di una norma nazionale e la necessità di non applicarla e relativamente alla quale il
giudice inglese chiedeva alla corte se nell’attesa della pronuncia definitiva la sua applicazione
potesse essere sospesa: chiedeva la tutela cautelare di un diritto che pretendeva essergli conferito
dal diritto comunitario la corte diede una risposta positiva. Inoltre, il giudice nazionale può
sospendere in via cautelare l’applicazione di una normativa nazionale a regione di una pretesa
illegittimità dell’atto dell’Unione di cui rappresenta la misura interna di attuazione, purché operi un
rinvio pregiudiziale di validità alla corte. Il giudice nazionale può, sempre sussistendone i
presupposti, concedere misure positive che creino situazioni giuridiche soggettive inibite dalla
normativa europea.

NATURA ED EFFETTI DELLE SENTENZE PREGIUDIZIALI


Le sentenze pregiudiziali della Corte di giustizia hanno carattere dichiarativo e il giudice del rinvio è
vincolato a tenerne conto nella soluzione della causa: il loro mancato rispetto può formare oggetto
di impugnativa interna o configurare gli estremi di una violazione del Trattato rispetto alla quale la
Corte potrebbe essere ulteriormente adita con un ricorso per infrazione.
Il giudice interno potrà operare un nuovo rinvio pregiudiziale qualora incontri difficoltà di
comprensione o di applicazione della sentenza resa, se ritenga la risposta inadeguata o incapace di
fornire gli elementi utili per la soluzione della causa o se sottoponga nuovi elementi di valutazione.
Le sentenze pregiudiziali di interpretazione vincolano il giudice che ha operato il rinvio ad applicare
la norma dell'Unione come interpretata dalla Corte (interpretazione e norma diventano un
tutt’uno), disapplicando all'occasione la norma interna in contrasto se la prima è dotata di efficacia
diretta; altre giurisdizioni nazionali, chiamate a conoscere della stessa questione, sono tenute
ugualmente ad attenersi all'interpretazione della Corte (la sentenza interpretativa della quale
produce dunque effetti extragiudiziali simili al precedente giudiziario -stare decisis-)
La sentenza pregiudiziale che dichiara l'invalidità dell'atto pure se emessa nell’ambito di un giudizio
incidentale ha gli stessi effetti della pronuncia di annullamento dell'Unione (giudicato formale e
sostanziale). La pronuncia di invalidità, pur avendo come destinatario solo il giudice del rinvio,
costituisce ragione sufficiente per ogni altro giudice di considerare tale atto come invalido ai fini
della decisione che è chiamato a rendere salvo che ritenga avere interesse a sollevare nuovamente
la questione in caso di incertezza sulla portata e sulle conseguenze dell'invalidità pronunciata.
Vincola, nella sostanza, oltre al giudice a quo e l’istituzione che ha emanato l’atto, anche gli altri
giudici dinanzi al quale l’atto dovesse essere invocato. La sentenza che dichiara l'invalidità di un atto
delle istituzioni non ha effetto di eliminarlo dall'ordinamento giuridico dell'Unione né di far rivivere
la disciplina anteriore all'entrata in vigore; tuttavia l'istituzione che l'ha emanato deve adottare le
misure necessarie per eliminare i vizi riscontrati modificandolo o abrogandolo. La pronuncia di
validità invece riguarda soltanto il caso di specie.

Gli effetti temporali→ Normalmente l’effetto della sentenza, sia interpretativa che dichiarativa
dell’invalidità di un atto dell’Unione, si estende anche ai rapporti sorti in epoca precedente alla
sentenza stessa, purché non esauriti, dunque si tratta di una efficacia ex tunc. Tuttavia, la
giurisprudenza della Corte aveva esteso la facoltà di limitare gli effetti e dunque dichiarare
l’efficacia ex nunc, prevista dal 264.2 TFUE per le sole sentenze di annullamento, alle pronunce
pregiudiziali di invalidità che realizzano, in sostanza, gli stessi effetti di una sentenza di
annullamento ex 263. La corte ha altresì limitato nel tempo gli effetti delle sentenze pregiudiziali
interpretative, attribuendo a queste un’efficacia ex nunc, richiamando il principio della certezza
del diritto al fine di tutelare gli effetti giuridici che si erano costituiti in buona fede ma, questi casi,
solo in presenza di circostanze ben precise: quando c’era il rischio di gravi ripercussioni
economiche dovute all’elevato numero di rapporti giuridici costruitisi in buona fede; in presenza di
un comportamento non conforme alla normativa nazionale dovuto ad una oggettiva e rilevante
incertezza sulla portata delle disposizioni dell’Unione.
Va precisato però che, inizialmente, la Corte aveva ritenuto che gli effetti della propria sentenza,
quando ex nunc, non potessero nemmeno applicarsi alle parti del giudizio a quo, ma ciò era in
contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale; dunque, nella giurisprudenza
successiva ha precisato che, allorché si avvalga della possibilità di limitare gli effetti nel tempo di
una sua sentenza, spetta ad essa stessa determinare se una deroga a tale limitazione possa essere
prevista a favore della parte della causa principale che abbia impugnato dinanzi al giudice
nazionale l’atto, oppure se, anche nei confronti della detta parte, la declaratoria di invalidità o
l’interpretazione dell’atto con effetti unicamente ex nunc costituisca un rimedio adeguato.

PROCEDURA
La procedura pregiudiziale inizia dinanzi al giudice interno con la sospensione del procedimento e la
rimessione alla Corte di un’ordinanza che indica: i quesiti di interpretazione o di validità, le
circostanze del caso, i motivi, la rilevanza della questione per la soluzione del caso e ogni elemento
utile di giudizio. L'ordinanza viene poi ratificata dalla Corte alle parti del giudizio interno, agli stati
membri, alla Commissione, nonché all'istituzione, all'organo o all'organismo dell'Unione che ha
adottato l'atto di cui si contesta la validità o l'interpretazione: tutti costoro hanno la possibilità di
presentare memorie ed osservazioni scritte entro due mesi dalla notifica. La Corte, sentito
l’avvocato generale, può decidere di non tenere un’udienza di discussione, qualora essa giudichi, a
seguito della lettura delle memorie e delle osservazioni depositate durante la fase scritta del
procedimento, di essere sufficientemente edotta per statuire. Quando invece si da luogo ad
un’udienza di discussione, la corte invita i partecipanti ad incentrare le loro osservazioni su aspetti
specifici; questa fase consente alla corte di perfezionare la sua conoscenza della causa mediante
l’audizione delle parti ed eventualmente delle conclusioni dell’avvocato generale.
Le parti del procedimento non hanno formale qualità di parti dinanzi alla Corte, dunque non possono
modificare la formulazione del quesito contenuta nella decisione di rinvio né rivolgersi direttamente
alla Corte, ma possono da questa essere sentite nella fase della procedura orale anche qualora non
abbiano partecipato a quella scritta. Il dispositivo, all’esito della fase deliberativa, viene letto in
udienza pubblica, pubblicato sulla gazzetta ufficiale e una copia viene ricevuta dalla cancelleria del
giudice a quo. Un PPU (procedimento pregiudiziale d’urgenza) può essere applicato nei settori di cui
al titolo V della parte terza del TFUE (relativo allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia): il giudice
nazionale che procede al rinvio deve esporre le questioni di fatto e di diritto che provano l’urgenza
e che giustificano l’applicazione di tale procedimento; il diritto di depositare le osservazioni scritte
è riservato solo alle parti in causa del giudizio principale, allo stato membro cui appartiene il giudice,
alla commissione, al consiglio o al parlamento qualora uno dei loro atti sia oggetto di causa, gli altri
interessati potranno partecipare solo alla fase orale della procedura; infine la trattazione è riservata
ad una sezione di 5 giudici appositamente selezionati che decide sentito l’avvocato generale→ tali
procedimenti si concludono in tempi brevissimi.

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