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In realtà il termine mercato unico non figura nei trattati attraverso i quali gli Stati membri hanno
dato l'avvio all'unificazione dei mercati. Si parla più che altro di mercato comune e anche di
mercato interno.
L'uso del termine unico è invece molto diffuso nel dibattito attorno all'integrazione europea, che
prende avvio dalla Dichiarazione del Ministro degli esteri francese Robert Shuman nel marzo del
1950. Shuman e i suoi collaboratori infatti, scelsero di puntare su un progetto molto avanzato di
integrazione economica e di liberalizzazione degli scambi adottando il termine di mercato
comune europeo. Essi erano convinti che una completa apertura dei mercati nazionali e la loro
reciproca interpenetrazione in un mercato comune, avrebbero offerto alle economie degli Stati
europei una grande opportunità di crescita economica e ciò si sarebbe poi tradotto in un
miglioramento del tenore di vita di quelle popolazioni. A lungo termine avrebbe condotto ad una
vera e propria Europa unita.
Lo strumento del mercato comune trova una sua prima applicazione limitata al settore del carbone e
dell'acciaio. Il Trattato di Parigi del 1951 infatti, istituisce la Comunità Europea del Carbone e
dell'Acciaio (CECA), nel cui ambito era previsto un mercato comune del carbone e dell'acciaio.
Successivamente, con i due Trattati di Roma del 1957, l'esperienza assume una dimensione
globale: viene creato il mercato comune dell'energia atomica per uso pacifico e, nel quadro della
CEE, si da vita ad un mercato comune generale esteso a tutti i settori.
Nel corso dell'intera storia dell'integrazione europea, il progetto di far funzionare al meglio il
mercato unico ha sempre avuto un ruolo centrale. Anche perchè esso costituisce lo strumento
principale di cui la Comunità dispone per raggiungere le sue finalità di sviluppo economico e di
integrazione tra gli Stati membri.
Le istituzioni sono chiamate a svolgere e perseguire gli obiettivi della Comunità e le loro azioni e
politiche sono necessarie per instaurare il mercato comune: dall'abolizione fra gli Stati membri dei
dazi doganali e delle restrizioni quantitative all'entrata e all'uscita delle merci, come pure di tutte le
misure di effetto equivalente, alla creazione di un regime teso a garantire che la concorrenza non sia
falsata nel mercato comune.
Anche l'unione monetaria (UEM), dunque il rafforzamento del coordinamento delle politiche
economiche nazionali e la creazione della moneta unica, quale l'euro, sono visti come dei passi
fondamentali per completare il progetto di sviluppo del mercato unico che, in queste misure, viene
protetto da iniziative autonome assunte dai singoli Stati membri in campo economico e monetario.
L'introduzione della cittadinanza dell'Unione e il riconoscimento della libertà di circolazione e di
soggiorno come diritto del cittadino, rappresentano le caratteristiche di grande mobilità del mercato
unico.
In altri termini, il mercato unico è il vero motore dell'integrazione, senza il quale nulla di tutto ciò
che è stato fatto finora sarebbe stato possibile.
In tutti questi anni, il progetto del mercato unico, non è rimasto immutato nel tempo: man mano che
l'unificazione dei mercati avanzava, hanno acquisito sempre maggiore rilievo a livello europeo,
esigenze di tipo sociale e ambientale. Secondo la Corte, la Comunità non ha soltanto una finalità
economica, ma anche una finalità sociale, pertanto, i diritti previsti dal Trattato della CE relativi alla
libera circolazione delle persone, merci e capitali, devono essere bilanciati con gli obiettivi
perseguiti dalla politica sociale, tra i quali il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.
L'unione doganale.
L'unione doganale costituisce una competenza esclusiva dell'Unione. Essa rappresenta un aspetto
interno, che consiste nell'abolizione di dazi doganali negli scambi di merci tra territori facenti
parte dell'Unione, e un aspetto esterno, rappresentato dalla sostituzione della protezione doganale di
ciascun territorio facente parte dell'Unione con un'unica tariffa doganale.
L'aspetto interno è assicurato dal divieto dei dazi doganali tra Stati membri, tanto all'importazione,
quanto all'esportazione, divieto che si estende anche alle tasse di effetto equivalente e si applica sia
ai prodotti originari degli Stati membri, che ai prodotti provenienti da Paesi terzi che si trovano in
libera pratica negli Stati membri.
Per quanto riguarda l'aspetto esterno, negli scambi con i paesi non appartenenti all'unione doganale,
si applicano i dazi della tariffa doganale comune, stabiliti dal Consiglio su proposta della
Commissione.
La cittadinanza dell'Unione.
Nel sistema dell'Unione, la titolarità di alcuni diritti non è generalizzata, ma è subordinata al
possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri. A tali cittadini sono riservati diritti di libera
circolazione e di soggiorno (art.21), di libera circolazione dei lavoratori (art.43), di stabilimento
(art.49), nonchè il diritto alla libera prestazione di servizi (art.56).
Dalla cittadinanza nazionale di uno Stato membro, deriva quella dell'Unione. Agli Stati viene
riconosciuta l'autonomia per l'attribuzione della propria cittadinanza nazionale. Il comportamento di
uno Stato membro che rifiuta di riconoscere la cittadinanza di un altro Stato membro è ritenuto
illegittimo. Il problema si pone soprattutto nel caso di effettiva o potenziale doppia cittadinanza, che
si verifica qualora una stessa persona sia considerata cittadino nazionale da due Stati di cui uno
almeno sia uno Stato membro. Nel caso di doppia cittadinanza di cui la prima di uno Stato membro
e la seconda di uno Stato terzo, un altro Stato membro non può disconoscere la prima e dare
rilevanza soltanto alla seconda.
Nella sentenza Micheletti, la Corte precisa che le competenze degli Stati membri per definire la
cittadinanza, devono essere esercitate nel rispetto del diritto comunitario. Da tale affermazione
discende che il diritto dell'Unione può interferire nell'autonomia degli Stati in tale materia, ponendo
dei limiti. Tali limiti entrano in gioco quando la legislazione nazionale in materia di cittadinanza
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incide negativamente sulla titolarità o sull'esercizio di diritti attribuiti al cittadino dal diritto
dell'Unione.
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CAPITOLO SECONDO: LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI
La disciplina che regola la libera circolazione delle merci all'interno dell'Unione, è interamente
contenuta nel TFUE. Gli artt. 28 e 30 vietano fra gli Stati membri i dazi doganali all'importazione e
all'esportazione, nonchè tasse di effetto equivalente. L'art. 110 inoltre, vieta l'applicazione ai
prodotti importati da altri Stati membri di "imposizioni interne" discriminatorie o protezionistiche e
svolge pertanto una funzione complementare rispetto alle norme sui dazi. Infine, gli artt. 34 e 35
vietano restrizioni quantitative e misure d'effetto equivalente tanto alle importazioni quanto alle
esportazioni.
Tutte le norme relative alla circolazione delle merci sono dotate di efficacia diretta.
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a quelle applicate ai prodotti nazionali similari. Inoltre nessuno Stato membro applica ai prodotti
degli altri Stati membri imposizioni interne intese a proteggere altre produzioni."
Lo scopo della norma. Da un alto essa riconosce che ciascuno Stato può tassare i prodotti
provenienti da altri Stati membri; dall'altro però la norma limita tale potere, vietando agli Stati
membri di colpire i prodotti importati in maniera discriminatoria o protezionistica.
La portata del divieto. Come per i dazi, riguarda tutti gli Stati membri e si applica sia per i prodotti
importati, che per quelli esportati. Il divieto si estende anche ai prodotti provenienti da Stati terzi
che siano stati messi in libera pratica in uno Stato membro.
Quanto alla nozione di "imposizioni interne", occorre distinguerle dai dazi e dalle tasse d'effetto
equivalente. Quest'ultime sono semplicemente vietate, le imposizioni interne sono invece vietate
solo nella misura in cui sono discriminatorie nei confronti dei prodotti importati, o hanno effetti
protezionistici a favore della produzione interna.
L'art 110 dunque sostiene che le imposizioni interne non debbano essere superiori a quelle applicate
ai prodotti nazionali similari. Per stabilire se il sistema di tassazione in causa sia o meno contrario
all'art.,basta confrontare l'onere fiscale gravante sul prodotto importato, con quello gravante sul
prodotto nazionale similare.
Perchè risulti applicabile il secondo comma dell'articolo invece (secondo il quale non si possono
applicare le imposizioni interne tese a proteggere altre produzioni), è sufficiente che il prodotto
importato si trovi in concorrenza col prodotto nazionale protetto in uno o più impieghi economici.
Un tale rapporto di concorrenza esiste solo quando i prodotti sono perfettamente sostituibili, anche
solo parzialmente. In altre parole il prodotto importato deve essere una "scelta alternativa".
Una volta accertata una certa concorrenzialità tra prodotto nazionale e prodotto importato, bisogna
stabilire se questa maggiore tassazione si traduca in protezione del prodotto nazionale.
Il mercato interno stabilisce che vi sia "uno spazio senza frontiere interne nel quale e' assicurata la
libera circolazione delle merci, delle persone e dei servizi". Con l'istituzione della cittadinanza
dell'Unione, ai cittadini dell'Unione è stato attribuito il "diritto di circolare e soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri". La libera circolazione ha pertanto assunto un
importante valore e portata e si è trasformata in un vero e proprio diritto della persona in quanto tale
che ha trovato la sua consacrazione negli articoli:
- 20 e 21 relativi ai cittadini;
- 45-48 che hanno ad oggetto i lavoratori;
- 49-55 dedicati al diritto di stabilimento;
- 56-62 relativi ai servizi.
Nei gruppi di disposizioni figura il richiamo al divieto di discriminazione in base alla nazionalità.
Inoltre sono previste possibili deroghe alla libertà di circolazione o dei limiti al suo campo
d'applicazione.
Le disposizioni del TFUE che introducono la libera circolazione delle persone sono dotate di
efficacia diretta, idonee ad essere invocate in giudizio dai soggetti interessati, nei confronti tanto di
enti pubblici, quanto di soggetti di natura privatistica. Un'altra caratteristica comune alle
disposizioni dei trattati sulla libera circolazione delle persone è che esse vanno trattate rispettando i
diritti fondamentali delle persone coinvolte, diritti che vanno quindi anche al di fuori del settore
della libera circolazione delle persone.
I quattro gruppi delle disposizioni attribuiscono alle istituzioni il potere di adottare atti legislativi
per facilitare l'esercizio della libertà di circolazione e i diritti in essa compresi. In passato, le
istituzioni adottavano atti legislativi distinti, a seconda che si trattasse di lavoratori, di soggetti che
esercitavano il diritto allo stabilimento o la libera prestazione di servizi, ovvero meri cittadini. Più
di recente e soprattutto con l'introduzione della cittadinanza dell'Unione, si è affermata la prassi di
emanare atti legislativi che si riferiscono indifferentemente a qualunque cittadino che circoli nel
territorio degli Stati membri e ai loro familiari, che si tratti indistintamente di lavoratori o soggetti
esercenti attività autonome o di prestazione di servizi. La direttiva a riguardo, raccoglie in un unico
testo le disposizioni in materia che in precedenza erano distribuite in testi legislativi numerosi e
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diversi. Essa mira anche a incorporare, codificandole, molte delle soluzioni cui era pervenuta la
giurisprudenza della Corte nell'interpretare le disposizioni dei trattati e ad aggiornare l'intera
disciplina, introducendo elementi di novità di rilievo: tra questi, il diritto di soggiorno permanente
in uno Stato membro diverso dal proprio.
Gli atti legislativi che danno attuazione alle norme, mirano a facilitare l'esercizio dei diritti che i
lavoratori interessati traggono direttamente dall'art.45. Essi non possono mai avere l'effetto di
restringere la portata di tali diritti. Vanno inoltre ricordati gli atti adottati in forza dell'art. 48, che
autorizza le istituzioni ad approvare misure specifiche in materia di sicurezza sociale finalizzate a
rendere possibile l'instaurazione della libertà di circolazione. Tali misure consistono nel prevedere,
da un lato, la possibilità per il lavoratore di ottenere il pagamento delle prestazioni sociali cui ha
diritto in ogni Stato membro, dall'altro, il diritto al cumulo dei periodi assicurativi maturati nei
diversi Stati membri in cui il lavoratore è occupato, instaurando così quella che si può definire la
libera circolazione delle prestazioni sociali.
I beneficiari.
Inizialmente la libera circolazione non spettava a tutti i cittadini degli Stati membri. Potevano
usufruirne soltanto coloro che erano coinvolti in un'attività economicamente rilevante: i lavoratori e
coloro che esercitavano il diritto di stabilimento o libera prestazione di servizi. Tale requisito è
venuto meno con l'introduzione della cittadinanza dell'Unione. Gli atti legislativi hanno poi esteso
alcuni diritti anche ai familiari dei soggetti che beneficiano della libera circolazione. Pertanto tali
diritti sono attribuiti alle seguenti categorie:
- i lavoratori;
- gli esercenti di un'attività autonoma o di libera prestazione, i lavoratori autonomi;
- i cittadini;
- i familiari dei soggetti di cui sopra.
A queste categorie potrebbe aggiungersi anche quella dei destinatari dei servizi, intesi come
soggetti che circolano nel territorio degli Stati membri per poter beneficiare di una prestazione di
servizi da parte di soggetti stabiliti in uno Stato membro diverso da quello d'origine del destinatario
del servizio.
Ma la portata dei diritti non è identica per tutte le categorie indicate. In particolare le differenze
riguardano il diritto di soggiorno e il principio di non-discriminazione o di parità di trattamento a
seconda che si tratti di un semplice cittadino o di un soggetto economicamente attivo.
Secondo la giurisprudenza, la nozione di lavoratore va interpretata in maniera autonoma e
indipendente dalle definizioni contenute nei vari diritti nazionali e comunque in maniera non
restrittiva. Occorre che il soggetto in questione svolga un'attività per un certo periodo di tempo, a
favore di un'altra persona e sotto la direzione di quest'ultima, ricevendo come contropartita una
retribuzione. Devono pertanto sussistere le seguenti caratteristiche:
- vincolo di subordinazione. (La natura subordinata non è esclusa solo perchè il lavoratore è il
coniuge del datore di lavoro)
- durata prolungata. (quanto alla durata, la Corte ha incluso il lavoratore stagionale e ipotesi di
prestazioni lavorative di durata molto breve)
- una remunerazione. (circa il carattere retributivo dell'attività lavorativa, la Corte ha dichiarato
che vanno considerati lavoratori anche coloro che svolgono o che intendono svolgere un'attività
subordinata a orario ridotto e che percepiscono o percepirebbero per questo motivo solo una
retribuzione inferiore a quella minima garantita)
La libera circolazione può essere invocata anche da un ex lavoratore. Infatti, una volta acquisita la
qualità di lavoratore ai sensi dell'art. 45, non si perde se l'attività lavorativa viene interrotta.
(beneficia infatti di tale diritto anche colui che intraprende studi universitari in uno Stato membro
diverso dal suo, dopo avervi svolto un'attività lavorativa.)
Anche un soggetto in cerca di occupazione rientra nel campo di coloro che possono usufruire del
diritto di circolazione. La Corte infatti ha stabilito che ai cittadini degli Stati membri spetta anche
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"il diritto di circolare liberamente sul territorio degli Stati membri e di prendervi dimora al fine di
cercarci un lavoro".
Tra i beneficiari della libera circolazione delle persone figurano anche i familiari dei soggetti che,
in quanto lavoratori subordinati o autonomi o anche in quanto semplici cittadini che si spostano dal
proprio Stato membro, godono di tale libertà. Quelli che spettano ai familiari pertanto sono diritti
derivati o secondari rispetto al diritto principale di circolazione che spetta alla persona con cui il
familiare ha il rapporto di parentela. Essi sono conferiti per rendere più agevole e completa la libera
circolazione del titolare del diritto principale. I diritti derivati non sorgono se manca il diritto
principale.
Rientrano nella nozione di familiare soltanto i seguenti soggetti:
- il coniuge;
- il partner che abbia contratto con il cittadino dell'Unione un'unione registrata sulla base della
legislazione di uno Stato membro;
- i discendenti diretti di età inferiore ai 21 anni o a carico e quelli del coniuge;
Il conferimento dei diritti di libera circolazione ai familiari vale sia che si tratti di cittadini di Stati
membri sia che si tratti di cittadini di Stati terzi.
Perchè tali diritti possano essere invocati da una persona, occorre che essa non si trovi in una
situazione puramente interna. infatti, le disposizioni relative non si applicano qualora tutti gli
elementi della fattispecie siano confinati all'interno di un solo e unico Stato membro. Il principio
vale anche nel caso dei diritti dei familiari. Nel tempo si sono moltiplicati i casi in cui la
giurisprudenza ha riconosciuto il diritto di invocare le disposizioni sulla libera circolazione delle
persone nei confronti del proprio Stato membro nazionale da parte di cittadini in uscita, cioè
soggetti che tendono ad utilizzare la libera circolazione per andare a lavorare in un altro Stato
membro o beneficiarne di servizi o ancora per trasferirvi la propria residenza.
Il diritto di soggiorno.
Sono previsti tre tipo di diritti di soggiorno che un cittadino può esercitare in uno Stato membro
diverso dal proprio:
- diritto di soggiorno fino a 3 mesi;
- diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi.
- diritto di soggiorno permanente.
Il diritto di soggiorno sino a tre mesi spetta ai cittadini dell'Unione senza alcuna specificazione,
nonché ai loro familiari non aventi la cittadinanza di uno stato membro che accompagnino o
raggiungano il cittadino dell'Unione. Anche il suo esercizio é praticamente libero: non é richiesta
alcuna condizione o formalità, salvo il possesso di un passaporto in corso di validità. Per i familiari
non aventi la cittadinanza di uno Stato membro basta il possesso del passaporto in corso di validità.
La portata del diritto di soggiorno sino a tre mesi é tuttavia limitata dall'art. 14, il quale sembra
introdurre anche in questi casi, come per i casi di soggiorno per periodi superiori, una condizione
relativa alla disponibilità di risorse economiche o meglio a non necessità di ricorrere
eccessivamente al sistema di assistenza sociale.
Il diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi spetta anch'esso a tutti i cittadini
dell'Unione ma le condizioni cui tale diritto é sottoposto dipendono dalla situazione personale
dell'interessato e prevede quattro categorie di persone:
- coloro che sono lavoratori subordinati o autonomi nello Stato membro ospitante: per costoro non é
prevista alcuna condizione.
- coloro che sono iscritti presso un istituto pubblico o privato, riconosciuto o finanziato dallo Stato
membro ospitante in base alla sua legislazione o prassi amministrativa per perseguirvi un titolo di
studio o una formazione professionale. Per costoro sono richieste due condizioni: - devono disporre
di un'assicurazione malattia che copre tutti i rischi nello Stato membro ospitante (assicurazione
malattia); - devono assicurare all'autorità nazionale competente, con una dichiarazione o altro
mezzo equivalente, di disporre per se stesso e per i propri familiari di risorse economiche
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sufficienti, affinché non divenga onere a carico dell'assistenza sociale dello Stato membro ospitante
durante il suo periodo di soggiorno. (risorse economiche sufficienti).
- coloro che non rientrano in alcune delle categorie precedenti (semplici cittadini). Per costoro sono
richieste le stesse condizioni per gli studenti (assicurazione malattia e risorse economiche
sufficienti). Tuttavia tali condizioni in questo caso sono piu' rigorose.
- i familiari che accompagnano o raggiungono coloro che rientrano nelle categorie precedenti. Tale
diritto é esteso anche ai familiari che non siano cittadini di uno Stato membro.
Una delle novità di maggiore rilievo introdotte è la possibilità per il cittadino di un diritto di
soggiorno permanente. Le condizioni per l'acquisizione di tale diritto sono puramente condizioni
temporali: è necessario che il cittadino abbia soggiornato legalmente ed in via continuativa per
cinque anni nello Stato membro ospitante. Non sono richieste condizioni differenziate. Tale diritto
spetta anche ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che abbiano soggiornato
legalmente o in via continuativa per cinque anni assieme al cittadino dell'Unione nello Stato
membro ospitante.
La parità di trattamento.
Le norme del TFUE in materia di libertà di circolazione delle persone, utilizzano il divieto di
discriminazione in base alla nazionalità, come uno degli strumenti per garantire tale libertà. Le
norme vietano infatti qualunque trattamento discriminatorio ai danni dei cittadini degli altri Stati
membri, ovvero impone che tali cittadini siano sottoposti allo stesso trattamento riservato ai
cittadini nazionali. (principio di trattamento nazionale).
Con l'introduzione della cittadinanza dell'Unione, il divieto di discriminazione ha assunto un ruolo
centrale. La Corte ha infatti affermato che "lo status di cittadino dell'Unione è destinato ad essere
lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri e che questo status consente a chi si trova
nella medesima situazione di ottenere, indipendentemente dalla cittadinanza, il medesimo
trattamento giuridico".
Le discriminazioni possono essere dirette o indirette. Le prime sono sempre stato oggetto di una
disciplina particolarmente articolata per quel che riguarda i lavoratori. Una prima articolazione
stabilisce che "è vietato discriminare i lavoratori degli altri Stati membri per quanto riguarda
l'impiego, la retribuzione e le condizioni di lavoro". Il divieto di discriminazione si applica anche se
la fonte di discriminazione è costituita da una clausola contenuta in un contratto di lavoro
individuale o collettivo.
Le discriminazioni in base alla nazionalità sono vietate anche in materia di diritto di stabilimento,
di libera prestazione di servizi e in materia di meri cittadini.
Vi sono poi le discriminazioni indirette, anch'esse vietate nel campo della libera circolazione delle
persone. Si tratta di quelle normative che, benchè non prescrivano la nazionalità come condizione
per l'attribuzione di un certo diritto, impongono condizioni che, pur essendo applicabili a tutti, sono
difficilmente soddisfatte dai cittadini di altri stati membri.
La giurisprudenza ha applicato con molta ampiezza la nozione di discriminazione indiretta in base
alla nazionalità, sia che si trattasse di casi rientranti nella libera circolazione dei lavoratori, sia in
quelli nel diritto di stabilimento, sia che si trattasse di semplici cittadini che esercitano la libertà di
circolazione e soggiorno. Tra le condizione indirettamente discriminatorie rientrano quelle attinenti
alla residenza del territorio nazionale. Es. la condizione della residenza nel territorio nazionale per
poter iscriversi ai corsi universitari di medicina senza dover sottostare ad un sistema di ammissione
con sorteggio riservato ai non residenti.
Accanto alle discriminazioni dirette e indirette ci sono quelle a danno dei cittadini in uscita.
Trattasi dei soggetti, i quali esercitano i diritti di libera circolazione e proprio per questo vengono
assoggettati dal loro Stato membro nazionale ad un trattamento deteriore rispetto a quello riservato
ai cittadini che non utilizzano tali diritti. Spesso la discriminazione dei cittadini in uscita consiste in
una condizione di residenza sul territorio nazionale che tali cittadini non possono soddisfare.
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Le discriminazioni basate sui criteri vietati dai trattati non sono sempre a loro volta vietate, per cui
una discriminazione può essere giustificata e sfuggire al divieto. Occorre però che la
giustificazione risponda a due condizioni: che sia basata su condizioni oggettive e che rispetti il
principio di proporzionalità. La possibilità di addurre giustificazioni trova frequente applicazione
nel campo della libera circolazione delle persone, ma e' stata ammessa anche in campo delle
discriminazioni per i cittadini in uscita. Alcune delle discriminazioni ammesse poichè giustificate,
sono state trasformate in vere e proprie eccezioni legislative al principio della parità di trattamento.
Esse riguardano persone in cerca di occupazione e studenti. Per quanto riguarda le prime, tali
soggetti godono del diritto di soggiorno fino a tre mesi. La giurisprudenza si era posta il problema
del se le persone che godono della posizione descritta, possano godere della parità di trattamento
anche per quanto riguarda il diritto di ottenere dallo Stato ospitante le stesse prestazioni sociali
riservate ai lavoratori nazionali. In un primo momento la Corte aveva risposto negativamente
sostenendo che lo Stato ospitante non è tenuto ad attribuire il diritto a prestazioni d'assistenza
sociale durante i primi tre mesi di soggiorno o durante il periodo piu' lungo previsto. Tuttavia ad
oggi, lo Stato membro ospitante non può negare la prestazione, ma valutare se concederla o meno.
Analogo problema si pone per la categoria studenti: lo Stato non è tenuto a concedere prima
dell'acquisizione del soggiorno permanente, aiuti di mantenimento agli studi, compresa la
formazione professionale, comprendenti borse di studio o prestiti per studenti. Lo studente ha
pertanto il diritto di ottenere dallo Stato ospite le stesse borse di studio e gli stessi prestiti previsti
per gli studenti nazionali nel caso in cui abbia lo status di lavoratore subordinato o autonomo, o nel
caso in cui abbia acquisito il soggiorno permanente. Gli Stati membri dunque non potrebbero
negare a priori il diritto di borse allo studio o altre prestazioni se non per giustificazioni oggettive e
non discriminatorie.
Un'eccezione prevista alla parità di trattamento consiste nella conoscenza della lingua nazionale che
molte volte viene richiesta dallo Stato membro ospitante.
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CAPITOLO QUARTO IL DIRITTO DI STAILIMENTO E LA LIBERA
PRESTAZIONE DI SERVIZI.
I gruppi di disposizioni dei due diritti - il dirtto di stabilimento (artt. 49 a 55 TFUE) e la libera
prestazione dei servizi (artt. 56 a 62) - presentano dei contenuti per molti versi simili e
stabiliscono il divieto per le restrizioni alle due libertà.
I beneficiari.
I soggetti che rientrano nel campo d'applicazione di tali articoli sono quelli che prestano un'attività
autonoma, ovvero esercitata senza vincolo di subordinazione rispetto al destinatario della
prestazione. Deve infatti trattarsi di un'attività economica, nel senso che deve consistere in
prestazioni in cambio delle quali viene percepita una retribuzione.
L'oggetto dell'attività può essere il più diverso e non si presta ad essere definito con certezza. Ci si
deve accontentare dell'elencazione contenuta nell'art.57, secondo cui i servizi comprendono in
particolare le attività di carattere industriale o commerciale, artigiane o le libere professioni.
Tra i beneficiari dei due diritti rientrano anche le società: "le società commerciali costituite
conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l'amministrazione
centrale o il centro di attività principale all'interno dell'Unione sono equiparate alle persone fisiche
aventi la cittadinanza di uno Stato membro". Tale assimilazione amplia notevolmente la portata
delle due libertà. La Corte ha ritenuto che, allo stato attuale della normativa dell'Unione, le società
godono solo del diritto di stabilimento secondario, potendo esse aprire agenzie, succursali o filiali
in uno Stato diverso da quello della sede, ma non potendo trasferire la propria sede legale o reale da
uno Stato membro all'altro, se non quando ciò viene ammesso dalle legislazioni di entrambi gli Stati
interessati.
Possono considerarsi beneficiari della libera prestazione anche i destinatari dei servizi. La Corte
infatti ha affermato che la libera prestazione dei servizi comprende anche la libertà da parte dei
destinatari dei servizi, di recarsi in un altro Stato membro per fruire ivi di un servizio, senza essere
impediti da alcun tipo di restrizioni. Non può essere considerato invece destinatario di servizi, e
dunque beneficiare della libera prestazione di servizi, il cittadino di uno Stato membro che
stabilisce la sua residenza principale in un territorio di uno Stato membro per beneficiarvi di
prestazioni di servizi per una durata indeterminata.
Sebbene le disposizioni che disciplinano i due diritti in questione sembrino coincidere in larga
misura, le differenze che intercorrono tra il contenuto dell'uno e dell'altro diritto sono molto
marcate.
In particolare, lo Stato membro sul cui territorio si stabilisce un soggetto, dispone di ampi poteri nei
confronti di quest'ultimo e può imporgli condizioni di accesso e d'esercizio che, invece, non
potrebbero essere imposte nel caso in cui un soggetto, in quello stesso Stato, agisca a titolo di libera
prestazione di servizi. Infatti, l'attività effettuata in regime di stabilimento è assoggettata alla legge
dello Stato membro dello stabilimento, mentre quella esercitata in regime di libera prestazione è
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assoggettata alla legge dello Stato membro d'origine (home country) e non a quella dello Stato
membro ospitante (host country). Da qui la preferenza per i soggetti a qualificare la propria attività
come semplice prestazione di servizi.
Si è ampiamente discusso sulla nozione di diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi e
al criterio distintivo. Per quanto riguarda il primo, l'art. 49 dispone che esso "comporta l'accesso
alle attività non salariate e al loro esercizio, nonchè la costituzione e la gestione di imprese e in
particolare di società, alle condizioni stabilite dalla legislazione del paese di stabilimento nei
confronti dei propri cittadini". Per quanto riguarda la prestazione di servizi, "il prestatore può, per
l'esecuzione della sua prestazione, esercitare, a titolo temporaneo, la sua attività nello Stato membro
ove la prestazione è fornita, alle stesse condizioni imposte da tale Stato ai propri cittadini".
La differenza tra le due libertà risiede dunque non nel contenuto dell'attività, quanto nel carattere
stabile o temporaneo. Più precisamente il diritto di stabilimento "implica la possibilità, per un
cittadino comunitario, di partecipare in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno
Stato membro diverso dal proprio e di trarne vantaggio". La libera prestazione di servizi invece
riguarda il caso in cui "il prestatore di servizi si sposti in un altro Stato membro e vi eserciti la
propria attività in via temporanea".
Il carattere stabile o temporaneo dell'attività è a sua volta difficile da determinare. Secondo la Corte,
per decidere, non possono essere applicati rigidi criteri qualitativi. In altri termini un prestatore
potrebbe mantenere la propria qualità di libero prestatore e non essere quindi soggetto all'obbligo di
stabilirsi.
In alcuni casi, la giurisprudenza ha invece utilizzato il criterio della prevalenza: qualora l'attività
svolta nello Stato ospite sia prevalente rispetto a quella svolta nello Stato membro d'origine, ciò è
considerato sufficiente per escludere che l'attività possa essere svolta in regime di libera
prestazione.
Non possono essere utilizzati come criteri invece quelli circa la durata di un'attività o la frequenza
della presenza di un prestatore nello Stato membro della prestazione. Secondo la Corte rientrano nel
campo di applicazione della libera prestazione anche i servizi la cui prestazione si estende per un
periodo di tempo di tempo prolungato, anche anni, come ad es avviene per i servizi forniti
nell'ambito della costruzione di un edificio. Non essendo possibile determinare, in maniera astratta,
la durata o la frequenza di un servizio, non può essere considerato questo una prestazione di
servizio ai sensi del Trattato. Tali criteri sembrano invece rilevanti se riferiti ad un numero ampio e
non predefinito di prestazioni. Ad es., se un prestatore si trattiene a lungo nello Stato membro ospite
ed ivi accetta di svolgere numerose prestazioni di servizi, la sua posizione cadrà nel campo
d'applicazione dell'art. 49.
Questione delicata è se la disponibilità da parte di un prestatore di una sede di attività nello Stato
membro ospite implichi di per sè che lo stesso sia da considerarsi stabilito.
In conclusione, sembrerebbe che la prova del carattere non temporaneo di una determinata attività
autonoma dipenda dal tipo di sede o infrastruttura di cui si dota il prestaore.
Il diritto di stabilimento.
L'art. 49 prevede che le restrizioni alla libertà di stabilimento siano vietate e tale divieto si estende
anche alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursale o filiali da parte di cittadini di uno
Stato membro in un altro Stato membro.
Forme di stabilimento:
- il diritto di stabilimento vero e proprio che si realizza quando un soggetto stabilisce in uno Stato
membro diverso dal proprio ( o quello in cui si era in precedenza stabilito) il proprio centro di
attività. Stabilimento primario.
- il diritto di aprire agenzie, succursali o filiali, che si realizza quando un soggetto, che è già
stabilito in uno Stato membro, crea un ulteriore centro di attività in un altro Stato membro.
Stabilimento secondario.
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Per comprendere la portata del diritto di stabilimento primario, bisogna tener presente che essa
conferisce, in primo luogo, ai cittadini di uno Stato membro il diritto di accesso e di esercizio delle
attività autonome nel territorio di un altro Stato membro, contemplando anche la possibilità che ciò
avvenga attraverso la costruzione e gestione di imprese o società di cui il soggetto interessato
detenga il controllo.
In secondo luogo la norma vieta allo Stato membro dello stabilimento di imporre ai cittadini di altri
Stati membri che intendono stabilirsi nel proprio territorio condizioni diverse da quelle applicate ai
propri cittadini. (principio del trattamento nazionale).
Sotto il primo profilo, diritto di accesso e di esercizio, l'art.49 vieta qualsiasi normativa che
impedisca ai cittadini di altri Stati membri di svolgere determinate attività autonome che sono
invece consentite ai soli cittadini nazionali (clausole di nazionalità).
Sotto il secondo profilo, principio di trattamento nazionale, l'art. 49 prescrive che i cittadini di
altri Stati membri siano ammessi a svolgere un'attività autonoma alle stesse condizioni applicabili ai
cittadini dello Stato dello stabilimento. Vi è violazione del principio del trattamento nazionale in
presenza di disposizioni che, pur consentendo lo svolgimento di attività autonome da parte di
cittadini di altri Stati, assoggettano costoro a condizioni diverse e meno favorevoli dei cittadini
nazionali. In tal caso si parla di discriminazione diretta o palese. È violato anche qualora la
normativa di uno Stato membro, pur applicandosi in base a criteri indipendenti dalla nazionalità,
tuttavia discrimini di fatto i cittadini di altri Stati membri, in quanto per questi risulta più difficile
soddisfare i criteri d'applicazione della norma che non per i cittadini nazionali. Si parla di
discriminazione indiretta o occulta. Un es. di questo tipo è dato dalle normative nazionali che
subordinano la possibilità di esercitare talune attività a requisiti di residenza nel territorio
nazionale.
La Corte ha giudicato che possono stabilire degli ostacoli al diritto di stabilimento o di prestazione
di servizi anche normative nazionali indistintamente applicabili.
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CAPITOLO QUINTO LA LIBERA CIRCOLAZIONE DEI CAPITALI E DEI
PAGAMENTI
Alla libertà di circolazione dei capitali e dei pagamenti il TFUE cita dedica alcuni articoli. L'art.63 è
diviso in due paragrafi:
1) "nell'ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai
movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi."
2) "nell'ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai
pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi."
Seguono gli artt. dal 64 al 66 che prevedono possibilità di deroga rispetto al divieto dell'art.63. Le
attuali norme del TFUE risalgono al Trattato di Maastricht. Questo aveva profondamente
modificato il testo originario del TCE e aveva allineato la disciplina della libera circolazione in
esame alle altre libertà di circolazione, permettendo così di compiere un notevole progresso rispetto
al passato. Infatti non era prescritta la liberalizzazione assoluta e incondizionata dei movimenti di
capitali; questa era dovuta solo "nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato
comune". Questo parametro conferiva al Consiglio il potere di decidere la portata che la
liberalizzazione dei capitali doveva assumere in un determinato momento.
Ben diversa è la situazione attuale. La Corte ha affermato che il divieto di restrizioni al movimento
di capitali, nonostante le possibilità di deroga previste dagli artt.64 e 65, "può essere invocato
dinnanzi al giudice nazionale e determinare l'inapplicabilità delle norme nazionali in contrasto con
esso". Si tratta quindi di una norma dotata di efficacia diretta. Già prima della riforma introdotta
dal Trattato di Maastricht, era stata invece riconosciuta l'efficacia dell'art.106 (ora sostituito
dall'art.63). La norma prevedeva che gli Stati membri dovessero autorizzare "i pagamenti relativi
agli scambi di merci, servizi e capitali, nonché dei trasferimenti di capitali o salari nella misura in
cui la circolazione delle merci, servizi, dei capitali e delle persone è liberalizzata tra gli Stati
membri in applicazione del presente trattato". Essendo tanto la fornitura di merci quanto la
prestazione dei servizi già da tempo interamente liberalizzate, gli interessati avevano pertanto il
diritto di pretendere che gli Stati membri non ostacolassero l'effettuazione dei corrispondenti
pagamenti. Era stato perciò riconosciuto il diritto di colui il quale intendeva fruire all'estero di
servizi turistici, medici e didattici, di opporsi all'applicazione nei suoi confronti delle misure di
controllo adottate da uno Stato membro in materia di esportazione di valuta straniera, qualora tali
misure impedissero la possibilità di effettuare i pagamenti dei servizi in questione.
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CAPITOLO SESTO LE REGOLE DI CONCORRENZA APPLICABILI ALLE IMPRESE
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Ci riferiamo agli artt.101 e 102. Le regole in esame non riguardano che alcuni aspetti della
disciplina della concorrenza e, in particolare, la repressione di quei comportamenti delle imprese
che siano suscettibili di pregiudicare il commercio tra gli Stati membri. La competenza dell'Unione
in materia non può dirsi esclusiva e lascia intatta la competenza degli Stati membri in riferimento a
quei comportamenti delle imprese che abbiano effetti anticoncorrenziali sul piano meramente
nazionale. Può capitare che il comportamento di un'impresa sia rilevante tanto per gli artt.101 e 102
quanto per la disciplina nazionale della concorrenza. Si pone pertanto il problema dell'applicazione
parallela del diritto della concorrenza dell'Unione e nazionale ad una medesima fattispecie. In
teoria, esistono due soluzioni al problema. Una prima, detta della doppia barriera, consiste nel
considerare applicabili tanto ilo diritto dell'Unione quanto quello nazionale. Una seconda soluzione,
detta della barriera unica, postula invece che le fattispecie che ricadono nel campo d'applicazione
del diritto dell'Unione siano sottratte all'applicazione del diritto nazionale.
La Corte ha preferito la prima soluzione e ha ammesso la possibilità di un'applicazione parallela di
entrambi i diritti alla medesima fattispecie, ma ha imposto che ciò avvenisse nel rispetto del
principio del primato del diritto del'Unione su quello nazionale.
Un problema analogo è dato dall'applicazione extraterritoriale delle norme dell'Unione sulla
concorrenza, cioè dalla possibilità di farle valere nei confronti di imprese appartenenti a Stati terzi.
Si tratta di stabilire in quali casi una tale applicazione sia ammissibile. Si discute se come criterio di
collegamento tra l'ordinamento dell'Unione e la fattispecie sia sufficiente che gli effetti
anticoncorrenziali del comportamento delle imprese con sede al di fuori dell'Unione si facciano
sentire nel mercato interno (teoria degli effetti) o se sia altresì necessaria una certa "localizzazione"
del comportamento stesso nel territorio dell'Unione (teoria della territorialità). Laddove era
possibile provare che il comportamento era stato posto in essere, sia pur parzialmente, all'interno
del territorio dell'Unione, anche attraverso filiali o agenti delle imprese interessate, la Corte ha fatto
riferimento a questa circostanza per legittimare l'intervento della Commissione. Successivamente la
Corte ha dato maggiore risalto al fatto che l'intesa, benché conclusa, al di fuori del territorio
dell'Unione, da imprese stabilite in Stati terzi, avesse tuttavia prodotto effetti restrittivi alla
concorrenza sul mercato unico.
La Corte definisce impresa "qualsiasi entità che esercita un'attività economica". Tale è qualsiasi
attività che consiste nell'offerta di beni e servizi sul mercato. Qualora l'attività svolta abbia natura
economica, anche un ente pubblico può essere considerato impresa. Può darsi che un ente pubblico
eserciti contemporaneamente attività in quanto pubblica autorità e in quanto attività economiche. In
questo caso, l'assoggettamento agli articoli riguarderà solo le attività del secondo tipo, sempre che
siano separabili dalle prime. Anche i liberi professionisti sono da considerarsi imprese. Inoltre non
è possibile esentare dall'applicazione delle regole di concorrenza le entità che svolgano un'attività
qualificabile come economica ma che non perseguono un fine di lucro. Non costituiscono invece
attività economiche quelle che assolvono una funzione di carattere esclusivamente sociale.
Divieto di intese
L'art.101 stabilisce: "sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese,
tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possono pregiudicare
il commercio tra gli Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o
falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato interno".
Nozione d'intesa: presuppone l'esistenza di almeno due soggetti che tra di loro la pongono in
essere. Fa infatti sempre riferimento ad una pluralità d'imprese. Tale pluralità manca qualora a dar
vita a un comportamento definibile intesa sono due o più imprese indipendenti da un punto di vista
giuridico, ma strettamente collegate tra di loro da un punto di vista economico, così che si possa
parlare di un'unica impresa (principio dell'unità economica). Il caso tipico è quello di una società
madre che controlla una o più società figlie. Perché casi del genere non rientrino nel campo
d'applicazione dell'articolo, non basta un mero rapporto di dipendenza ma occorre che il controllo di
una società sull'altra o sulle altre sia completo ed effettivo, in modo tale che la società controllata
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non sia autonoma del proprio comportamento sul mercato. Il criterio di unità economica viene
applicato anche nel caso di rapporti tra fornitore e distributore quando quest'ultimo, pur essendo
giuridicamente indipendente rispetto al primo, non sopporta in proprio alcun rischio per l'attività
economica di cui trattasi.
Secondo la giurisprudenza, esistono tre forme di intesa:
- L'accordo presuppone l'esistenza di un vero e proprio incontro di volontà tra le parti. È
sufficiente che le parti abbiano espresso la loro comune volontà di comportarsi sul mercato in un
determinato modo e abbiano concluso un gentlemen's agreement che rappresenta la fedele
espressione della comune volontà dei membri circa il loro comportamento sul mercato comune.
Non è necessario che l'accordo sia giuridicamente vincolante e valido ai sensi del diritto nazionale,
né che sia redatto in forma scritta e nemmeno che la sua accettazione risulti per iscritto, potendo
bastare anche un comportamento tacito della parte che è stata invitata a comportarsi in un
determinato modo.
Nel contesto dei rapporti contrattuali tra produttori/fornitori e distributori/rivenditori, risulta
talvolta particolarmente difficile stabilire se si sia in presenza di un accordo restrittivo della
concorrenza voluto dal produttore ma tacitamente accettato dal distributore, ovvero se si tratti di
una decisione unilaterale.
- La pratica concordata non richiede una manifestazione di volontà reciproca tra le parti. Secondo
la giurisprudenza, corrisponde ad una forma di coordinamento delle imprese che, senza essere stata
spinta fino all'attuazione di un vero e proprio accordo, costituisca una consapevole collaborazione
tra le imprese stesse a danno della concorrenza.
Quando si riscontra che le imprese operanti sul mercato agiscono in maniera identica o simile
(parallelismo di comportamenti), occorre dunque provare che tale fenomeno non è il frutto
dell'autonoma scelta di ciascuna impresa, ma il risultato di una concertazione. Una prova
difficilmente confutabile che il comportamento delle imprese appartenenti allo stesso mercato ha
alle spalle una concertazione è che queste hanno tenuto tra di loro riunioni periodiche ovvero hanno
dato vita a un periodico scambio di informazioni che normalmente dovrebbero essere riservate.
- Le decisioni di associazioni di imprese. Per associazione d'impresa s'intende qualunque
organizzazione che riunisca le imprese operanti in un certo mercato. Il termine decisione copre
tanto il caso di una raccomandazione adottata da un'associazione che sia obbligatoria per tutti gli
associati, quanto il caso di una raccomandazione che sia stata accettata da un gran numero di
associati.
Perché un'intesa ricada nel divieto dell'art.101, devono essere soddisfatte due condizioni:
A) L'intesa deve essere in grado di provocare, anche solo potenzialmente, un pregiudizio al
commercio tra gli Stati membri.
B) Essa deve avere per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della
concorrenza all'interno del mercato interno (pregiudizio alla concorrenza).
In mancanza della prova che l'intesa abbia già pregiudicato gli scambi intracomunitari o la
concorrenza, sono sufficienti gli effetti potenziali che un'intesa è in grado di produrre.
Cominciando dal requisito del pregiudizio alla concorrenza, è sufficiente che la restrizione alla
concorrenza costituisca oggetto o effetto dell'intesa. Tra le intese che comportano restrizioni per
oggetto, si segnalano per la loro gravità (hard-core restrictions) quelle che prevedono la fissazione
dei prezzi e la ripartizione del mercato. Le restrizioni alla concorrenza possono derivare sia da
intese concluse da imprese che operano allo stesso livello del ciclo produttivo (intese orizzontali) e
che siano dunque in concorrenza diretta tra di loro, sia da intese concluse da imprese operanti a
livelli differenti (intese verticali). Esempi tipici di intese orizzontali sono costituiti dagli accordi tra
produttori di un medesimo tipo di prodotto o servizio avente lo scopo di ripartirsi tra loro i mercati.
Possono costituire intese verticali gli accordi di distribuzione, come anche gli accordi di acquisto o
di fornitura. In genere, tuttavia, tali accordi sono presi in considerazione non nella loro individualità
ma per l'effetto cumulativo che una rete di accordi dello stesso tipo può produrre sul gioco della
concorrenza. Gli accordi di distribuzione non sono vietati dall'art.101 in se, ma solo se presentano
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contenuti tali da restringere la concorrenza sul mercato interno. Sono senz'altro vietati gli accordi di
distribuzione esclusiva. Con maggiore favore sono considerati invece gli accordi di distribuzione
selettiva, nell'ambito dei quali i distributori vengono scelti in base a criteri di qualità e
professionalità. Quanto agli accordi di acquisto fornitura, essi possono essere considerati contrari
all'art.101 nella misura in cui si configurano come accordi di acquisto esclusivo e si inseriscono in
una rete di accordi analoghi tali da rendere difficile l'accesso al mercato da parte di nuovi
concorrenti.
Un pregiudizio alla concorrenza può aversi sia se ad essere ristretta è la concorrenza tra imprese che
operano con prodotti di un'unica marca (concorrenza intrabrand), sia se l'intesa restringe la
concorrenza tra imprese che operano con prodotti di marche diverse (concorrenza interbrand).
Quanto al pregiudizio al commercio tra gli Stati membri, la giurisprudenza ritiene che si possa
parlare di esso in presenza di qualunque intesa che incide sulla libertà del commercio fra Stati
membri, in un senso che possa nuocere alla realizzazione degli scopi di un mercato unico fra gli
Stati, isolando i mercati nazionali o modificando la struttura della concorrenza nel mercato comune.
L'aspetto più interessante affrontato dalla giurisprudenza riguarda un pregiudizio agli scambi tra
Stati membri nel caso di intese nazionali, cioè intese concluse tra imprese appartenenti ad uno
stesso e unico Stato membro e destinate ad operare solo in quel mercato nazionale. In generale
intese del genere sfuggono al campo d'applicazione dell'art. 101, ma esse comunque, abbracciando
l'intero territorio nazionale, per natura tendono a rinforzare le barriere nazionali, ostacolando ciò
che il trattato prevede, ossia la compenetrazione economica.
Perchè un'intesa rientri nel campo d'applicazione dell'art 101, essa deve essere in grado di produrre
un pregiudizio al commercio e una restrizione della concorrenza di una certa rilevanza (pregiudizio
sensibile). Esiste pertanto una soglia al di sotto della quale le eventuali restrizioni al commercio tra
Stati membri o alla concorrenza non fanno scattare il divieto in esame. (c.d. de minimis).
La seconda parte dell'art 101 contiene un elenco dei possibili contenuti che puo' presentare
un'intesa anticoncorrenziale :
- fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o vendita ovvero altre condizioni di
transazione;
- limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti;
- ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
- applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni diverse per prestazioni
equivalenti, cosi da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza;
Il divieto di intese non é assoluto. L'art. prevede di inapplicare il divieto ad un'intera categoria di
intese. La possibilità di concedere una dichiarazione di inapplicabilità (detta anche esenzione) è
subordinata a quattro condizioni cumulative, di cui due positive e due negative. In particolare
occorro che le intese:
- contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il
progresso tecnico ed economico. Deve tradursi in un miglioramento oggettivo;
- riservino agli utilizzatori, intesi come i consumatori (vantaggio per i consumatori), una congrua
parte dell'utile dell'accordo;
Le intese, invece, nono devono:
- imporre alle imprese necessarie restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali
obiettivi. Impone dunque l'eventuale dimostrazione della indispensabilità della restrizione alla
concorrenza. Anche in questo campo viene introdotta una valutazione da effettuare secondo il
principio di proporzionalità;
- dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte di prodotti di cui trattasi.
Esige un mantenimento della concorrenza in una parte sostanziale dei prodotti in questione.
L'art. 101, infine, prevede anche una sanzione per il caso di non rispetto del divieto: la nullità. Essa
riguarda solo due delle tre categorie di intese: gli accordi e le decisioni di associazione di imprese.
Può essere assoluta (l'accordo pertanto è privo di effetti nei rapporti tra i contraenti), o parziale, nel
senso che riguarda non l'accordo nel suo complesso, ma solo alcune clausole vietate dall'art.
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L'abuso di posizione dominante
L'art. 102 stabilisce che è incompatibile col mercato interno e vietato lo sfruttamento abusivo, da
parte di una o piu' imprese, di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte
sostanziale di esso, qualora tale comportamento possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati
membri.
Oggetto del divieto previsto dalla norma non è dunque la detenzione o acquisizione di una
posizione dominante da parte di un'impresa, ma soltanto lo sfruttamento abusivo. Il TFUE infatti
non contiene norme che impediscano l'acquisizione o il mantenimento di posizioni monopolistiche
o oligopolistiche.
Spesso l'art. 102 trova applicazione in ipotesi in cui lo sfruttamento della posizione dominante è
attribuibile ad un'unica impresa (posizione dominante individuale). Nell'ambito del diritto
dell'Unione, la nozione di impresa va considerata come unità in senso economico e dunque
comprensiva anche di eventuali imprese affiliate. Per questo motivo, si parlerebbe di posizione
dominante di gruppo. Il testo inoltre prevede anche l'ipotesi di una posizione dominante tenuta da
piu' imprese. Si parla di posizione dominante collettiva. Tale situazione si verifica in presenza di
piu' imprese tra loro indipendenti, ma tuttavia unite da vincoli economici e per tale motivo, esse
detengono insieme una posizione dominante rispetto ad altri. La Corte ha affermato che, per poter
stabilire se si tratti o meno di un tale tipo di posizione dominante (collettiva), è necessario
esaminare se le imprese interessate costituiscano insieme un'entità collettiva nei confronti dei
concorrenti. Solo se questa prima condizione risulta soddisfatta si puo' passare ad esaminare se le
imprese interessate detengono in questo mercato posizioni dominanti e se vi è sfruttamento abusivo.
Per stabilire se l'art. 102 è violato, di solito si procede attraverso un'indagine articolata in tre fasi:
- in primo luogo si individua il mercato rilevante (relevant market), cioè il mercato sul quale si
presume che l'impresa oggetto di indagine potrebbe detenere la posizione dominante. Questo va
definito in termini sia geografici, che di prodotti o servizi. Si parla di mercato geografico nel primo
caso e si prende in considerazione l'intero mercato interno di un paese o, in alternativa, un'area piu'
ristretta purchè si tratti comunque di una parte sostanziale di mercato interno; Si deve inoltre
prendere in considerazione il mercato dei prodotti, non solo quelli identici a quelli dell'impresa in
questione, ma anche quelli che presentano rispetto a questi un certo grado di intercambiabilità o
sostituibilità reciproca.
- in secondo luogo si stabilisce se all'interno del mercato rilevante, la posizione dell'impresa può
essere definita come dominante. La nozione di posizione dominante fornita dalla giurisprudenza è
quella secondo la quale un'impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una
concorrenza effettiva sul mercato in questione ed ha la possibilità di tenere comportamenti alquanto
indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti e dei consumatori. Per stabilire quando una
sussiste una tale posizione, numerosi sono i fattori da prendere in considerazione. la valutazione
della sola quota di mercato detenuta da un'impresa non basta, benchè estremamente importante.
Gli altri fattori si riferiscono alla struttura dell'impresa, il numero e la forza dei concorrenti in
rapporto all'impresa dominante e l'esistenza o meno di barriere all'ingresso sul mercato da parte di
nuovi concorrenti.
- si esamina se il comportamento in posizione dominante presenta un abuso. Può accadere che non
vi sia coincidenza tra il mercato rilevante, sul quale domina l'impresa, e il mercato sul quale si
verifica l'abuso. L'es. tipico é quello di un'impresa dominante sul mercato di una materia prima che
sfrutta la sua posizione sul mercato dei prodotti derivati da tale materia. la nozione di sfruttamento
abusivo, secondo la Corte, riguarda un comportamento oggettivo di posizione dominante di
un'impresa, atto ad influire sulla struttura di un mercato già indebolita, in cui il grado di
concorrenza viene sminuito. Ciò comporta una particolare responsabilità a carico dell'impresa
dominante, la quale non deve compromettere col suo comportamento lo svolgimento di una
concorrenza non falsata nel mercato comune. Essa è dunque soggetta a dei limiti d'azione più
gravosi rispetto ad un'impresa non dominante.
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Le pratiche abusive possono essere distinte secondo i loro effetti sulla concorrenza in:
- abusi di sfruttamento (explotative abuses). L'impresa tende a massimizzare il profitto che può
trarre dalla sua posizione sul mercato, imponendo condizioni che non le sarebbe consentito di
applicare in un mercato concorrenziale.
- abusi di esclusione (exclusionary abuses). Mirano a proteggere o incrementare la posizione
dell'impresa dominante, espellendo dal mercato attuali concorrenti o impedendo a concorrenti
potenziali di entrarvi.
Gli abusi possono essere distinti inoltre in base al loro contenuto:
- prezzi eccessivi o non equi. L'abuso si verifica quando l'impresa dominante pratica prezzi privi di
ogni ragionevole rapporto con il valore economico della prestazione fornita.
- prezzi discriminatori. Un'impresa dominante, considerata la sua posizione di forza sul mercato,
non è libera di decidere di praticare prezzi differenti per prestazioni equivalenti, a meno che non
siano oggettivamente giustificati ad esempio da diversità nelle spese di trasporto.
- prezzi predatori. Costituisce abuso praticare prezzi troppo bassi.
- sconti sui prezzi. Anche una politica di sconti, se praticata da un'impresa in posizione dominante,
può costituire abuso. In particolare gli sconti fedeltà, i quali sono legati all'impegno di rifornirsi
esclusivamente dall'impresa dominante.
- tying and building agreements. Tale pratica abusiva consiste nel subordinare la conclusione dei
contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro
natura, non abbiano alcun nesso con l'oggetto del trattato stesso.
- rifiuto di vendere. Rifiuto da parte di un'impresa dominante di vendere i propri prodotti o servizi
ad un'impresa che ne faccia richiesta. L'abuso é particolarmente grave se l'impresa richiedente era
un abituale cliente dell'impresa dominante.
- rifiuto di accesso a essential facilities. Si tratta di un orientamento tendente a considerare le
imprese in una posizione dominante come soggette all'obbligo di consentire ai concorrenti l'accesso
a proprie strutture o servizi quando si tratti di essential facilities, cioè di strutture o servizi in
mancanza dei quali l'attività in questione non potrebbe essere svolta.
Perché l'abuso di una posizione dominante sia vietato, è necessario che produca un pregiudizio al
commercio tra Stati membri. Il divieto è assoluto e non è possibile alcuna condizione di
inapplicabilità.
Le procedure per l'applicazione degli artt. 101 e 102
Il compito di applicare le regole, é affidato:
- alla Commissione;
- alle autorità degli Stati membri competenti in materia (autorità nazionali o ANC);
- ai giudici nazionali;
Il primo regolamento d'applicazione degli articoli, aveva riservato alla Commissione un ruolo
primario. La sua competenza prevaleva su quella delle ANC. Queste potevano esse stesse applicare
gli artt. 101 e 102 seguendo la legislazione del proprio Stato, ma il loro potere veniva meno nel
momento in cui la Commissione dava inizio alla procedura per adottare una decisione.
Quanto ai giudici nazionali, questi erano in grado di applicare autonomamente gli artt. nei giudizi
di propria competenza, trattandosi di norme di efficacia diretta. Tuttavia i giudici erano tenuti a
rispettare le eventuali decisioni già adottate dalla Commissione a proposito della medesima
fattispecie, ma diversamente dalle autorità nazionali, i giudici nazionali non perdevano la loro
competenza nell'applicare gli artt. Erano comunque invitati dalla Commissione a sospendere il
proprio giudizio.
Tutto ciò mostra come il ruolo della Commissione fosse dominante. Essa, soprattutto, era l'unica a
potere adottare a favore di un'intesa una decisione di inapplicabilità del divieto. Questo limite,
rendeva monco il potere delle autorità nazionali e spingeva le imprese interessate a preferire il
coinvolgimento della Commissione. L'esperienza in materia, da essa accumulata, garantiva un
intervento senz'altro più efficace di quello che potevano assicurare i giudici nazionali o le autorità
nazionali.
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Questa situazione aveva prodotto degli inconvenienti. Il carico di lavoro della Commissione, col
tempo, era divenuto insopportabile. I tentativi che consentissero a questa istituzione di rifiutarsi di
prendere posizione su quei casi che presentassero meno carattere comunitario, avevano dato il via
ad un difficile contenzioso.
Il sistema precedente è stato perciò modificato nel senso di una maggiore decentralizzazione. La
chiave di volta del nuovo sistema consiste nell'abolizione del potere esclusivo della Commissione
di concedere esenzioni individuali e nel riconoscimento che le autorità nazionali, quando
applicano l'art.101, lo applicano nella sua interezza. Essi perciò non possono soltanto accertare che
si è in presenza di un'intesa contraria agli artt., ma devono anche verificare se sono soddisfatte le
condizioni previste. Si è passato così da un regime di autorizzazione (riservata alla Commissione)
ad un regime di eccezione direttamente applicabile da parte di tutti gli organi competenti.
Anche in questo mutato contesto, la Commissione conserva un ruolo centrale, anche se meno
operativo. Essa dispone infatti di un amplissimo potere di decisione che può esprimersi in diverse
forme:
- decisione di mera contestazione di infrazione. Qualora l'infrazione sia già cessata ma la
Commissione abbia un legittimo interesse a constatarla.
- decisione inibitoria. Avendo constatato l'esistenza di un'infrazione ancora in atto, la
Commissione obbliga le imprese o le associazioni di imprese interessate a porre fine all'infrazione,
imponendo rimedi (comportamentali o strutturali) che debbono essere attuati a questo fine.
- decisione comminatoria di ammende. Generalmente la decisione inibitoria contiene anche
l'obbligo a carico delle imprese interessate di pagare un'ammenda di valore che non deve superare il
10% del fatturato totale realizzato durante l'esercizio sociale precedente.
- decisione di accettazione di impegni. In alternativa ad una decisione inibitoria, la Commissione
rende obbligatori per le imprese gli impegni offerti dalle imprese interessate per rispondere alle loro
preoccupazioni. L'intervento della Commissione non è più giustificato fintanto che gli impegni sono
rispettati.
- decisione di irrogazione di penalità mora. Una penalità di mora, il cui importo può giungere
fino al 5% del fatturato medio giornaliero realizzato durante l'esercizio sociale precedente, può
essere irrogata per costringere le imprese interessate a porre fine ad un'infrazione, rispettare le
misure cautelari disposte, rispettare gli impegni accettati.
- decisione di constatazione di inapplicabilità. Nonostante il nuovo sistema basato sul principio
dell'eccezione, la Commissione per ragioni di interesse pubblico e comunitario e d'ufficio può
procedere ad una constatazione di inapplicabilità dell'art. 101 ad una specifica intesa.
- decisione che adotta misure cautelari.
- decisione di rigetto di una denuncia. Possibilità per la Commissione di respingere una denuncia
relativa ad un'intesa o a una pratica già esaminata o trattata da autorità nazionale della concorrenza.
- decisioni di revoca. La Commissione può revocare, in casi specifici il beneficio di un
regolamento di esenzione per categoria.
In conclusione, la Commissione dispone di un potere decisionale ampio ed articolata. Tuttavia,
rispetto al passato ne fa un uso più raro.
Anche nel nuovo sistema resta affidato alla Commissione il potere normativo di adottare
regolamenti che dichiarano l'inapplicabilità del divieto di cui l'art. 101 ad intere categoria di intese
(esenzioni per categoria). La competenza a prevedere esenzioni per categoria spetta in realtà al
Consiglio, il quale però si è finora limitato ad adottare dei regolamenti di primo grado nei quali si
indica le categorie di intese esentabili e, si affida poi, alla Commissione, il compito di stabilire con i
propri regolamenti di secondo grado se, e a quali condizioni l'esenzione entrerà in vigore. Tale
potere normativo è completato da un potere di revoca in casi specifici, del beneficio dell'esenzione
per categoria, qualora si constati che un accordo, una decisione o una pratica concordata cui si
applica il regolamento dell'esenzione, ha effetti incompatibili con l'art 101.
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Dopo aver precisato che le autorità nazionali della concorrenza sono competenti ad applicare gli
artt. 101 e 102 in casi individuali, stabilisce che a tal fine, esse possono adottare le seguenti
decisioni:
- ordinare la cessazione di un'infrazione (decisioni inibitorie)
- disporre misure cautelari (decisioni cautelari)
- accettare impegni (decisioni di accettazione di impegni)
- comminare ammende, penalità di mora o qualunque altra sanzione prevista dal diritto nazionale
(decisioni sanzionatorie)
- decidere di non aver motivo di intervenire qualora in base alle informazioni di cui dispongono,
non sussistono le condizioni per un divieto.
Dispongono dunque di poteri del tutto analoghi a quelli della Commissione. Rispetto ad esse,
tuttavia, non si trovano in una posizione di eguaglianza, ma sono sottoposte al potere di
coordinamento della Commissione che si esprime nelle seguenti forme:
- obbligo di informazione. le autorità nazionali devono informare la Commissione di tutti i casi
che intendono istruire ai sensi degli artt. 101 e 102, con un preavviso di almeno 30 giorni delle
decisioni che intendono adottare in proposito (cooperazione verticale)
- effetto preclusivo. L'avvio di un procedimento da parte della Commissione priva le autorità
nazionali del potere di procedere a loro volta in merito alla stessa fattispecie.
- obbligo di applicazione uniforme. Quando le autorità nazionali si pronunciano su accordi,
decisioni o pratiche che sono già oggetto della Commissione, non possono prendere decisioni che
siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione.
Anche tra le varie autorità nazionali viene instaurata una cooperazione orizzontale.
Tra la Commissione e le autorità si è pertanto creata una vera e propria rete (European
Competition Network - ECN) per agevolare la cooperazione e la distribuzione ottimale dei casi a
favore dell'autorità più idonea. Una lacuna che però viene messa in evidenza, è il fatto che
nell'ambito dell'ECN non sono previste vere e proprie norme che ripartiscano, in base a criteri
predeterminati, la competenza tra la Commissione e le ANC e tra queste. Eventuali conflitti
vengono risolti a favore della Commissione.
Quanto ai giudici nazionali, ora il potere è più pieno anche se nel momento in cui la Commissione
adotta una decisione, i giudici nazionali non possono adottarne un'altra che sia difforme.
In conclusione, vi è la posizione dei denuncianti, cioè di coloro che si rivolgono alla Commissione
chiedendone l'intervento per reprimere un comportamento contrario all'artt. 101 e 102. E' previsto
che detti soggetti interessati a denunciare il caso, presentino una denuncia alla Commissione. Nel
nuovo regime i denuncianti non hanno la stessa posizione giuridica che avevano in passato. Ciò
dipende dal fatto che, nel nuovo regime, le autorità nazionali e i giudici nazionali dispongono ormai
di poteri idonei a tutelare i soggetti aventi legittimo interesse di reprimere dei comportamenti vietati
dagli artt. Gli interventi della Commissione sono pertanto diretti a tutelare gli interessi generali
dell'Unione, piuttosto che a proteggere interessi dei singoli.
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CAPITOLO SETTIMO LA DISCIPLINA DEGLI AIUTI PUBBLICI ALLE IMPRESE
Accanto alle regole applicabili alle imprese, il TFUE prevede anche alcune norme in materia di
concorrenza dirette più specificatamente agli Stati membri: si tratta degli artt. da 107 a 109, che si
occupano degli aiuti pubblici alle imprese. L'art. 107 pone il principio di incompatibilità con il
mercato interno degli aiuti pubblici alle imprese, prevedendo una serie di casi in cui tale principio
non si applica o può non applicarsi (deroghe o esenzioni). L'art. 108 invece, disciplina la
procedura di controllo attraverso cui il principio di incompatibilità o le deroghe allo stesso vanno
applicati. La procedura è affidata alla Commissione. L'art. 109 infine, attribuisce al Consiglio il
potere di stabilire tutti i regolamenti utili ai fini dell'applicazione degli artt. 107 e 108 e fissare, in
particolare, le categorie di aiuti che sono dispensate da tale procedura.
Fino a qualche anno fa il Consiglio non aveva utilizzato il potere riconosciutogli dall'art. 109, ma da
alcuni anni è stato in grado di approvare importanti regolamenti in forza di tale articolo. Il primo
sull'applicazione degli artt. 107 e 108 a determinate categorie di aiuti di Stato orizzontali, con il
quale si abilita la Commissione ad adottare regolamenti di secondo grado che specificano le
condizioni in cui tali aiuti sono considerati compatibili con il mercato interno e non debbono
pertanto essere previamente autorizzati dalla Commissione. In forza di tale delega, la Commissione
ha adottato nel tempo numerosi regolamenti di esenzione per categoria.
Nozione di aiuto.
Secondo le disposizioni dell'art. 107, la giurisprudenza qualifica una misura come aiuto ai sensi del
Trattato, presupponendo che esso sia soddisfatto da ognuno dei quattro criteri cumulativi, quali:
- deve trattarsi di un intervento dello Stato ovvero effettuato mediante risorse statali.
(finanziamento di origine pubblica). Secondo la Corte rientrano nella nozione di aiuto non solo
gli aiuti direttamente concessi dagli Stati, ma anche quelli concessi da enti pubblici o privati
designati o istituiti dagli Stati. Tale è anche l'aiuto che viene erogato da un'autorità pubblica non
statale, come ad es. gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici economici o le società controllate
dallo Stato. L'aiuto è considerato concesso mediante risorse statali se le risorse utilizzate per
erogarlo provengono da contributi obbligatori o da tasse riscosse da un ente pubblico a carico delle
imprese di un certo settore e utilizzate a favore di queste.
- tale intervento deve poter incidere sugli scambi tra gli Stati membri (conferimento di un
vantaggio ai beneficiari). L'aiuto può assumere le forme più diverse. Sono distinti tra quelli che
comportano prestazioni positive a carico dell'ente erogatore e quelli che consistono in una rinuncia
ad introiti. L'es. tipico di aiuto sottoforma di prestazioni positive è quello che consiste in un
trasferimento materiale di risorse finanziarie dal bilancio dell'ente pubblico erogatore a quello
dell'impresa beneficiaria (sovvenzioni).
Possono consistere anche nella rinuncia ad un introito da parte delle autorità pubbliche. In
quest'ottica, sono comprese le agevolazioni fiscali, sottoforma di esoneri o riduzioni di imposte,
tasse o contributi concessi a determinate imprese nazionali. Altri es. sono la fissazione di prezzi di
favore per determinati beni pubblici (es fornitura di combustibili di proprietà statale a prezzo
inferiori rispetto a quelli praticati da altri utenti).
- deve concedere un vantaggio al suo beneficiario. Perchè ciò avvenga, si deve accertare che l'aiuto
presenti un carattere di selettività. L'art. 107 considera incompatibili con il mercato interno gli
aiuti che favoriscono alcune imprese o alcune produzioni. Al contrario, non sono vietate le misure
che favoriscono lo sviluppo delle attività economiche in generale (misure di carattere generale),
quale una riduzione generalizzata delle tasse o dei contributi sociali, aiuti alla ricerca o
all'occupazione, purchè si tratti di aiuti di cui beneficiano tutte le imprese, indipendentemente dal
settore in cui operano.
Una questione particolarmente delicata si pone qualora si tratti di aiuti concessi da autorità
regionali o locali di uno Stato membro. Ci si domanda se in casi del genere la selettività dell'aiuto
debba essere valutata anch'essa con riferimento alle sole imprese aventi sede nel territorio di
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pertinenza dell'ente erogatore o se invece il confronto vada esteso a tutte le imprese dello Stato
membro. La Corte ha affermato che il contesto di riferimento deve essere il territorio nel quale
esercita la sua competenza l'entità infrastatale che ha adottato il provvedimento, e non il territorio
nazionale nella sua totalità. La Corte ha tuttavia subordinato tale possibilità alla dimostrazione che
il provvedimento sia stato adottato da tale entità nell'esercizio di poteri autonomi rispetto al governo
centrale. (requisito dell'autonomia). Qualora il requisito sia soddisfatto, per verificare se la misura
ha carattere selettivo, occorrerà esaminare se il regime previsto per le imprese con sede nel territorio
dell'ente in questione sia di applicazione generale o si applichi soltanto a talune imprese.
Molto spesso gli Stati membri non si limitano ad accordare un aiuto ad una singola impresa, ma
istituiscono strumenti di carattere generale erogati a più imprese. Gli aiuti individuali sono quelli
concessi alle singole imprese che vengono individuate nello stesso atto istitutivo dell'aiuto. I regimi
di aiuto sono invece riconosciuti da atti di portata generale che autorizzano la successiva adozione
di provvedimenti individuali di erogazione, ovvero consentono alle imprese interessate di avvalersi
dei provvedimenti di favore.
Non tutti gli aiuti concessi dagli Stati membri alle imprese sono vietati. Ai sensi del'art. 107, sono
incompatibili con i trattati, solo gli aiuti che incidono sugli scambi tra gli Stati e falsano, o
minacciano di falsare, la concorrenza. Occorre dunque che siano soddisfatte le condizioni di
pregiudizio al commercio tra Stati membri e pregiudizio alla concorrenza. Basta dunque
dimostrare che:
- l'aiuto provochi il rafforzamento della posizione dell'impresa beneficiaria rispetto ai suoi
concorrenti;
- l'impresa operi in un mercato aperto agli scambi tra Stati membri, nel senso che in tale mercato
sono presenti imprese di più Stati.
Secondo al giurisprudenza, per ritenere che queste condizioni siano soddisfatte, non basta sostenere
che l'aiuto è rivolto ad un' impresa operante nel mercato nazionale e non è nemmeno sufficiente
sostenere che l'aiuto sia destinato ad un'impresa operante soprattutto nel mercato con Paesi
Terzi, dal momento che non si può escludere che un aiuto del genere possa alterare la concorrenza
intracomunitaria.
Anche nel settore degli aiuti pubblici delle imprese è richiesto che il pregiudizio alla concorrenza
e agli scambi sia sensibile. Ciò non si verifica in aiuti di importanza minore.
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