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DIRITTO DEL MERCATO UNICO EUROPEO

CAPITOLO I: NOZIONI GENERALI


1. Il mercato unico europeo

Il termine mercato unico non figura nei trattati attraverso i quali gli Stati membri hanno dato l'avvio
all'unificazione dei mercati. Si parla più che altro di mercato comune e anche di mercato interno.

L'uso del termine unico è invece molto diffuso nel dibattito attorno all'integrazione europea, che
prende avvio dalla Dichiarazione del Ministro degli esteri francese Robert Shuman nel marzo del
1950.

Shuman e i suoi collaboratori infatti, scelsero di puntare su un progetto molto avanzato di


integrazione economica e di liberalizzazione degli scambi adottando il termine di mercato
comune europeo. Essi erano convinti che una completa apertura dei mercati nazionali e la loro
reciproca interpenetrazione in un mercato comune, avrebbero offerto alle economie degli Stati
europei una grande opportunità di crescita economica e ciò si sarebbe poi tradotto in un
miglioramento del tenore di vita di quelle popolazioni. A lungo termine avrebbe condotto ad una vera
e propria Europa unita.

Lo strumento del mercato comune trova una sua prima applicazione limitata al settore del carbone e
dell'acciaio. Il Trattato di Parigi del 1951 infatti, istituisce la Comunità Europea del Carbone e
dell'Acciaio (CECA), nel cui ambito era previsto un mercato comune del carbone e dell'acciaio.
Successivamente, con i due Trattati di Roma del 1957, l'esperienza assume una dimensione
globale: viene creato il mercato comune dell'energia atomica per uso pacifico e, nel quadro della
CEE, si da vita ad un mercato comune generale esteso a tutti i settori.

Nel corso dell'intera storia dell'integrazione europea, il progetto di far funzionare al meglio il mercato
unico ha sempre avuto un ruolo centrale. Anche perchè esso costituisce lo strumento principale di
cui la Comunità dispone per raggiungere le sue finalità di sviluppo economico e di integrazione
tra gli Stati membri.

Le istituzioni sono chiamate a svolgere e perseguire gli obiettivi della Comunità e le loro azioni e
politiche sono necessarie per instaurare il mercato comune: dall'abolizione fra gli Stati membri dei
dazi doganali e delle restrizioni quantitative all'entrata e all'uscita delle merci, come pure di tutte le
misure di effetto equivalente, alla creazione di un regime teso a garantire che la concorrenza non sia
falsata nel mercato comune.

Anche l'unione monetaria (UEM), dunque il rafforzamento del coordinamento delle politiche
economiche nazionali e la creazione della moneta unica, quale l'euro, sono visti come dei passi
fondamentali per completare il progetto di sviluppo del mercato unico che, in queste misure, viene
protetto da iniziative autonome assunte dai singoli Stati membri in campo economico e monetario.

L'introduzione della cittadinanza dell'Unione e il riconoscimento della libertà di circolazione e di


soggiorno come diritto del cittadino, rappresentano le caratteristiche di grande mobilità del mercato
unico.

In altri termini, il mercato unico è il vero motore dell'integrazione, senza il quale nulla di tutto ciò che
è stato fatto finora sarebbe stato possibile.

In tutti questi anni, il progetto del mercato unico, non è rimasto immutato nel tempo: man mano che
l'unificazione dei mercati avanzava, hanno acquisito sempre maggiore rilievo a livello europeo,
esigenze di tipo sociale e ambientale. Secondo la Corte, la Comunità non ha soltanto una finalità
economica, ma anche una finalità sociale, pertanto, i diritti previsti dal Trattato della CE relativi alla
libera circolazione delle persone, merci e capitali, devono essere bilanciati con gli obiettivi perseguiti
dalla politica sociale, tra i quali il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.

2. Il mercato unico europeo: contenuti e prospettive.


Una definizione normativa del mercato unico è assente nei trattati istitutivi delle tre Comunità e
questo perchè il mercato unico costituiva, più che una nozione giuridica, un obiettivo da raggiungere.
Tuttavia, secondo la Corte, viene delineato come quel mercato che deve diventare quanto più simile
possibile al mercato che storicamente si trova all'interno di ogni singolo Stato nazionale.

Per perseguire tale obiettivo, sono stati messi a disposizione una serie molto articolata di strumenti:
alcuni consistono nell'imporre agli Stati membri e alle imprese alcuni divieti previsti in termini chiari e
precisi dal TUFE, come ad es. regole relative alla libertà di circolazione, in forza delle quali ogni
ostacolo ai movimenti tra Stati di merci, persone, servizi e capitali deve essere abolito; oppure regole
in materia di concorrenza e aiuti di Stato alle imprese, che vietano ad imprese e Stati di tenere dei
comportamenti contrari al libero gioco della concorrenza. (A tal proposito si parla di integrazione
negativa)

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La piena realizzazione della quattro libertà di circolazione tuttavia non basta per garantire la
realizzazione di un mercato davvero unico. Sono necessari anche degli interventi di tipo legislativo
tendenti ad assicurare la piena apertura dei mercati e l'eliminazione delle distorsioni alla
concorrenza. Vengono previste infatti, una serie di disposizioni che non si limitano a stabilire dei
divieti, ma attribuiscono alle istituzioni dell'Unione il potere di adottare atti legislativi. (si parla di
integrazione positiva)

Ci si chiede oggi se, a distanza di quasi 10 anni dal termine fissato per l'instaurazione del mercato
unico, l'obiettivo sia stato raggiunto. La risposta è che l'unificazione dei mercati rimane comunque
un obiettivo dinamico, che necessiterà sempre l'attenzione delle istituzioni volte a difendere il
mercato unico dalle iniziative autonome degli Stati membri capaci di creare nuovi ostacoli.

3. L’unione doganale

L'unione doganale costituisce una competenza esclusiva dell'Unione. Essa rappresenta un aspetto
interno, che consiste nell'abolizione di dazi doganali negli scambi di merci tra territori facenti parte
dell'Unione, e un aspetto esterno, rappresentato dalla sostituzione della protezione doganale di
ciascun territorio facente parte dell'Unione con un'unica tariffa doganale.

L'aspetto interno è assicurato dal divieto dei dazi doganali tra Stati membri, tanto all'importazione,
quanto all'esportazione, divieto che si estende anche alle tasse di effetto equivalente e si applica sia
ai prodotti originari degli Stati membri, che ai prodotti provenienti da Paesi terzi che si trovano in
libera pratica negli Stati membri.

Per quanto riguarda l'aspetto esterno, negli scambi con i paesi non appartenenti all'unione doganale,
si applicano i dazi della tariffa doganale comune, stabiliti dal Consiglio su proposta della
Commissione.

4. La cittadinanza dell’Unione

Nel sistema dell'Unione, la titolarità di alcuni diritti non è generalizzata, ma è subordinata al possesso
della cittadinanza di uno degli Stati membri. A tali cittadini sono riservati diritti di libera circolazione
e di soggiorno (art.21), di libera circolazione dei lavoratori (art.43), di stabilimento (art.49), nonchè il
diritto alla libera prestazione di servizi (art.56).

Dalla cittadinanza nazionale di uno Stato membro, deriva quella dell'Unione.

Agli Stati viene riconosciuta l'autonomia per l'attribuzione della propria cittadinanza nazionale. Il
comportamento di uno Stato membro che rifiuta di riconoscere la cittadinanza di un altro Stato
membro è ritenuto illegittimo. Il problema si pone soprattutto nel caso di effettiva o potenziale doppia
cittadinanza, che si verifica qualora una stessa persona sia considerata cittadino nazionale da due
Stati di cui uno almeno sia uno Stato membro. Nel caso di doppia cittadinanza di cui la prima di uno
Stato membro e la seconda di uno Stato terzo, un altro Stato membro non può disconoscere la
prima e dare rilevanza soltanto alla seconda.

Nella sentenza Micheletti, la Corte precisa che le competenze degli Stati membri per definire la
cittadinanza, devono essere esercitate nel rispetto del diritto comunitario. Da tale affermazione
discende che il diritto dell'Unione può interferire nell'autonomia degli Stati in tale materia, ponendo
dei limiti. Tali limiti entrano in gioco quando la legislazione nazionale in materia di cittadinanza incide
negativamente sulla titolarità o sull'esercizio di diritti attribuiti al cittadino dal diritto dell'Unione.

5. Le libertà di circolazione: un quadro d’insieme


Il TFUE attribuisce ai cittadini dell’Unione il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio
degli Stati membri, e garantisce anche la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione.

Le disposizioni del TFUE relative alle libertà di circolazione, fanno largo uso del divieto di
discriminazione: vengono vietate le discriminazioni in base alla nazionalità, in base all’origine o alla
destinazione delle merci o dei capitali.

Secondo la Corte le discriminazioni in materia di libera circolazione possono essere di più tipi:

> discriminazioni dirette e indirette:


se il criterio è quello della cittadinanza nazionale, l'origine delle merci o altri criteri vietati dai trattati,
siamo in presenza di discriminazione diretta;

se il criterio non è tra quelli espressi nei trattati, si parla di discriminazione indiretta, la quale può
anche godere di giustificazione.

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> discriminazioni formali e materiali:

si ha discriminazione formale se, ad es., l'ordinamento tratta diversamente i cittadini degli altri Stati
membri rispetto ai cittadini nazionali;

si parla di discriminazione materiale se l'ordinamento tratta nella stessa maniera gli uni e gli altri,
senza tenere conto delle situazioni di partenza.

Anche per queste discriminazioni possono essere adottate delle giustificazioni.

Per giudicare se una determinata normativa, pur non essendo discriminatoria, è da considerarsi
vietata dalle disposizioni relative alla libertà di circolazione, la Corte ha sviluppato nel tempo un test
che utilizza un approccio globale alla nozione di ostacolo alla libera circolazione.

Tale test prevede 4 fasi:

- vedere se la normativa è indistintamente applicabile;

- se costituisce un ostacolo alla libera circolazione;

- se l'ostacolo può essere giustificato da un motivo superiore di interesse pubblico o generale.

- se l'ostacolo rispetta il principio di proporzionalità.

CAPITOLO II: LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI


1. Quadro normativo

La disciplina che regola la libera circolazione delle merci all'interno dell'Unione, è interamente
contenuta nel TFUE.

Gli artt. 28 e 30 vietano fra gli Stati membri i dazi doganali all'importazione e all'esportazione,
nonchè tasse di effetto equivalente.

L'art. 110 inoltre, vieta l'applicazione ai prodotti importati da altri Stati membri di "imposizioni
interne" discriminatorie o protezionistiche e svolge pertanto una funzione complementare rispetto
alle norme sui dazi. Infine, gli artt. 34 e 35 vietano restrizioni quantitative e misure d'effetto
equivalente tanto alle importazioni quanto alle esportazioni.

Tutte le norme relative alla circolazione delle merci sono dotate di efficacia diretta.

2. Il divieto di dazi doganali e tasse d’effetto equivalente

Negli scambi tra gli Stati membri, i dazi doganali, tanto all'importazione quanto all'esportazione,
sono oggetto di divieto assoluto.

Il motivo per cui sono aboliti è legato agli effetti che essi producono. La loro riscossione, infatti,
provoca un aumento dei costi dei prodotti, e sfavorisce tali prodotti rispetto alle merci nazionali
corrispondenti che ne sono esenti.

Quanto alla portata del divieto, occorre ricordare che esso si applica soltanto negli scambi di merci
tra gli Stati membri e riguarda tanto le merci originate negli Stati membri, quanto i prodotti originari di
Stati terzi, una volta che siano stati immessi in libera pratica nel territorio di una Stato membro, ma
non prodotti importati direttamente da fuori l'Unione.

Dal punto di vista della nozione, i dazi costituiscono dei tributi di tipo particolare, dotati di propria
denominazione, calcolati in percentuale rispetto al valore del bene (dazi ad valorem) e riscossi, di
norma, all'attraversamento delle frontiere.

Più problematica invece è stata l'applicazione del correlativo divieto delle tasse d'effetto
equivalente.

Lo scopo è quello di impedire che l'effetto liberatorio derivante dall'abolizione dei dazi, possa essere
intralciato da altri tipi di prelievi fiscali che abbiano gli stessi effetti di un dazio doganale. Secondo la
Corte, infatti, il divieto di tasse d'effetto equivalente si riferisce a qualsiasi tributo riscosso in
occasione dell'importazione, colpendo così la merce importata ed avendo di conseguenza, gli stessi
effetti prodotti da un dazio doganale.

Dal punto di vista della nozione, viene definita dalla Corte come "qualsiasi onere pecuniario imposto
unilateralmente, a prescindere dalla sua denominazione e dalla sua struttura, che colpisca le merci in
ragione del fatto che varcano la frontiera, se non e' un dazio, è una tassa d'effetto equivalente."
Di questa definizione, evidenziamo alcuni punti:

- deve trattarsi di un onere pecuniario: deve consistere in un tributo di denaro a favore del soggetto
(un'autorità pubblica o anche un soggetto privato), autorizzato per legge alla riscossione;

- deve trattarsi di un onere imposto alle sole merci che varchino la frontiera nazionale (in un senso o
nell'altro);

- deve trattarsi di un onere imposto al soggetto obbligato al pagamento:

- deve trattarsi di un onere imposto unilateralmente dallo Stato membro di importazione o


esportazione. Ciò esclude che vadano considerati come tasse d'effetto equivalente, quegli oneri
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pecuniari riscossi solo su prodotti importati o esportati, qualora siano previsti dalle norme
dell'Unione, per favorire, anzichè ostacolare, gli scambi tra gli Stati membri (ad.es i diritti riscossi
in relazione ai controlli sanitari).

La portata di tale divieto riguarda soltanto gli Stati membri.

3. Divieto di imposizioni discriminatorie o protezionistiche

Gli articoli precedenti sull'abolizione di dazi e tasse d'effetto equivalente, vanno letti in combinazione
con l'art.110, secondo il quale "nessuno Stato membro applica direttamente o indirettamente ai
prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne, di qualsiasi natura, superiori a quelle applicate ai
prodotti nazionali similari. Inoltre nessuno Stato membro applica ai prodotti degli altri Stati membri
imposizioni interne intese a proteggere altre produzioni."

Lo scopo della norma. Da un alto essa riconosce che ciascuno Stato può tassare i prodotti
provenienti da altri Stati membri; dall'altro però la norma limita tale potere, vietando agli Stati membri
di colpire i prodotti importati in maniera discriminatoria o protezionistica.

La portata del divieto. Come per i dazi, riguarda tutti gli Stati membri e si applica sia per i prodotti
importati, che per quelli esportati. Il divieto si estende anche ai prodotti provenienti da Stati terzi che
siano stati messi in libera pratica in uno Stato membro.

Quanto alla nozione di "imposizioni interne", occorre distinguerle dai dazi e dalle tasse d'effetto
equivalente. Quest'ultime sono semplicemente vietate, le imposizioni interne sono invece vietate
solo nella misura in cui sono discriminatorie nei confronti dei prodotti importati, o hanno effetti
protezionistici a favore della produzione interna.

L'art 110 dunque sostiene che le imposizioni interne non debbano essere superiori a quelle applicate
ai prodotti nazionali similari. Per stabilire se il sistema di tassazione in causa sia o meno contrario
all'art.,basta confrontare l'onere fiscale gravante sul prodotto importato, con quello gravante sul
prodotto nazionale similare.

Perchè risulti applicabile il secondo comma dell'articolo invece (secondo il quale non si possono
applicare le imposizioni interne tese a proteggere altre produzioni), è sufficiente che il prodotto
importato si trovi in concorrenza col prodotto nazionale protetto in uno o più impieghi economici. Un
tale rapporto di concorrenza esiste solo quando i prodotti sono perfettamente sostituibili, anche solo
parzialmente. In altre parole il prodotto importato deve essere una "scelta alternativa".

Una volta accertata una certa concorrenzialità tra prodotto nazionale e prodotto importato, bisogna
stabilire se questa maggiore tassazione si traduca in protezione del prodotto nazionale.

4. Divieto di restrizioni quantitative e misure d’effetto equivalente

Le disposizioni del TFUE riguardo questi divieti, sono più complesse di quelle che riguardano i dazi e
le tasse d'effetto equivalente. Queste, si limitano a porre un divieto e non sono previste deroghe.

In primo luogo, il divieto di queste misure si articola in due disposizioni: l'art.34 che riguarda il divieto
di qualunque restrizione quantitativa e misura d'effetto equivalente sulle importazioni; e l'art.35 che
contiene un divieto totalmente identico, ma riferito alle esportazioni.

Il TFUE ha previsto anche una deroga prevista nell’art. 36, la quale lascia impregiudicati quei divieti
giustificati da motivi di interesse generale, specificati nella norma stessa.

La portata dei divieti in esame riguarda solo gli scambi intracomunitari e non quelli con stati terzi, e i
prodotti agricoli.

La nozione. Secondo la Corte “il divieto di restrizioni interne riguarda misure aventi carattere di
proibizione, totale o parziale, di importare o esportare, o di far transitare” determinate merci.

La Corte inoltre ritiene che rientrino nel divieto i provvedimenti di uno Stato membro che vietano del
tutto l'importazione o l'esportazione di una merce, e anche quei provvedimenti che ne vietano un
certo quantitativo.

Più problematica risulta essere la definizione di misura d'effetto equivalente. E qui è bene chiarire il
concetto di misura e quello di "effetto equivalente".

Il termine "misura" ricopre qualsiasi atto o comportamento che sia riferibile ai pubblici poteri e
dunque non a semplici privati.

Dal punto di vista della forma, possono esserlo tutte le disposizioni legislative o regolamentari di uno
stato membro, ma anche le norme non scritte derivanti dalla prassi. Può costituire una misura anche
un provvedimento applicabile sono ad una parte del territorio di uno Stato membro, o intesa a
favorire i prodotti originari di una determinata area.

Passando alla nozione di effetto equivalente, queste sono tutti quei provvedimenti di uno Stato
membro che producono lo stesso risultato delle restrizioni quantitative. L'interprete dunque deve
domandarsi se le importazioni e le esportazioni sarebbero maggiori, qualora la misura in esame non
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esistesse o venisse abrogata. Se la risposta è affermativa l'interprete deve concludere che si è in
presenza di una misura di effetto equivalente con una restrizione quantitativa vera e propria.

Questa nozione viene interpretata dalla Corte in maniera diversa a seconda che si tratti di misure
all'importazione o all'esportazione. Le prime, secondo la Corte, sono costituite da "ogni normativa
commerciale degli Stati membri che possa ostacolare, direttamente o indirettamente, in atto o in
potenza, gli scambi intracomunitari", ogniqualvolta, dunque, una determinata normativa nazionale
renda meno agevole la commercializzazione di un prodotto e possa scoraggiarne l'importazione da
altri Stati membri.

Inoltre, l'ostacolo agli scambi può avere carattere diretto o potenziale: non è necessario dimostrare
che la normativa in questione riguardi espressamente le esportazioni o che ne abbia effettivamente
provocato la loro diminuzione. Secondo la Corte, infatti, una volta accertato che la misura statale
può costituire un ostacolo agli scambi, questa non è sottratta all'applicazione dell'art.34 solo perchè
non è dimostrato che tale effetto si sia ancora realizzato. Occorre tracciare una netta distinzione tra
le misure restrittive che si applicano ai soli prodotti importati (discriminatorie o distintamente
applicabili) e le misure che, invece, sono previste per qualsiasi merce che circoli o sia
commercializzata nel territorio dello Stato membro, indipendentemente dall'origine (misure
indistintamente applicabili).

Le prime, misure discriminatorie, sono costituite da provvedimenti statali che sottopongono


l'importazione o la commercializzazione di merci provenienti da altri Stati membri a requisiti o
condizioni non previste per le merci corrispondenti di produzione nazionale.

Le misure indistintamente applicabili, riguardano ad es., i provvedimenti adottati dagli Stati membri
per il controllo dei prezzi. Tali provvedimenti, presenti soprattutto in periodo di alta inflazione, sono
applicabili indistintamente tanto ai prodotti nazionali, quanto a quelli importati. La Corte ha affermato
che, provvedimenti nazionali del genere, proprio perchè indistintamente applicabili, non ostacolano
la libera circolazione delle merci tra i diversi Stati e non possono quindi considerarsi misure d'effetto
equivalente. Ciò tuttavia non esclude che provvedimenti sui prezzi possano entrare in conflitto con
l'art. 34, qualora i prezzi siano fissati ad un livello tale da rendere la commercializzazione dei prodotti
importati impossibile o più difficile di quello dei prodotti interni.

Un esempio più recente di misure d'effetto equivalente indistintamente applicabili è in relazione agli
ostacoli tecnici agli scambi. La nozione fa riferimento a quegli ostacoli alla libera circolazione delle
merci che sono provocati dalle diverse normative di ciascuno Stato membro sulle modalità di
fabbricazione, composizione, imballaggio, confezionamento, etichettaggio, dei prodotti industriali o
agro-alimentari (norme tecniche). Generalmente tali normative si applicano a tutti i prodotti posti in
commercio nel territorio dello Stato membro, indipendentemente dall'origine nazionale o straniera.
La diversità tra le normative nazionali di questo tipo fa si che il prodotto fabbricato e confezionato
secondo le norme tecniche vigenti nello Stato di produzione non possa essere posto in vendita nel
territorio di un altro Stato, se non previo adattamento alle norme vigenti in quest'ultimo.

La normativa di uno Stato membro riguardante i requisiti tecnici dei prodotti, può essere applicata ai
prodotti importati da altri Stati membri alle seguenti condizioni (test Cassis):

a) la normativa deve essere giustificata da esigenze imperative relative alla protezione di interessi di
ordine generale, come la salute pubblica, efficacia dei controlli fiscali, lealtà dei negozi
commerciali, ecc.

b) la normativa deve rispettare il principio di proporzionalità e pertanto essere idonea allo scopo di
interesse generale perseguito, non comportare restrizioni eccessive, nel senso che non esistano
altri mezzi meno restrittivi per conseguire lo stesso risultato.

In caso contrario, l'art.34 impone allo Stato membro d'importazione di consentire la


commercializzazione di prodotti non conformi alla propria normativa tecnica, ma che siano
legittimamente fabbricati e venduti nello Stato membro d'origine. In quest'ottica, lo Stato membro
d'importazione avrà l'onere di valutare se la normativa tecnica in vigore nello Stato d'origine del
prodotto non offra garanzie equivalenti a quelle richieste dalla propria normativa: in caso affermativo,
e sempre che il prodotto sia conforme alla normativa tecnica dello Stato d'origine, lo Stato
d'importazione non potrà imporre allo stesso prodotto il rispetto anche della propria normativa
tecnica perché, così facendo, lo sottoporrebbe a due normative diverse.

Ciò implica che nel campo delle normative tecniche, può parlarsi di mutuo riconoscimento delle
legislazioni nazionali: gli Stati membri sono tenuti a permettere che i prodotti legalmente in
commercio nel territorio di un altro Stato membro (poiché conformi alla normativa tecnica in vigore)
siano commercializzati anche nel proprio territorio, salvo qualora dimostrino che la normativa tecnica
dello Stato d'origine non assicura una protezione equivalente a quella assicurata dalla propria
normativa.

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Le condizioni in cui i prodotti possono essere venduti, ovvero i metodi di promozione delle vendite
ammessi (norme sulla modalità di vendita dei prodotti), sono disciplinate da norme che vietano e
sottopongono a determinate restrizioni o limitazioni alcune modalità di vendita o alcuni modi di
promozione delle vendite. Normative del genere sono considerate alla stessa stregua delle misure
d'effetto equivalente o di una restrizione quantitativa, dunque vietate dall'art.34 a meno che non
siano giustificate da esigenze imperative legate alle necessità di tutelare l'interesse generale e
sempre che venga rispettato il principio di proporzionalità. Effettivamente le norme sulle modalità di
vendita dei prodotti producono un effetto restrittivo e costituiscono una misura ad effetto equivalente
soltanto qualora sia dimostrato che la normativa in questione non è applicabile a tutti gli operatori
interessati (ad es. si applica soltanto a coloro che commerciano prodotti originari degli altri Stati
membri) e quando impedisce l'accesso al mercato nazionale da parte dei prodotti importati, ovvero
lo rende più difficile di quanto non lo sia per i prodotti nazionali.

Il test Keck, consiste nel verificare se la normativa comporta una discriminazione indiretta a danno
dei prodotti provenienti dagli altri Stati membri in termini di accesso al mercato.

Per quanto riguarda le misure d'effetto equivalente all'esportazione, oggetto dell'art. 35 di un divieto
del tutto identico rispetto a quello formulato per le importazioni. Per incorrere nel divieto dell'art 35,
una misura non deve soltanto produrre degli effetti restrittivi, cioè ostacolare le esportazioni, ma deve
anche avere carattere discriminatorio, nel senso di applicarsi ai soli prodotti destinati all'esportazione
e non anche a quelli destinati al mercato nazionale. Pertanto le misure discriminatorie sono sempre
considerate vietate dall'art.35. Sfuggono invece dal divieto in esame le misure indistintamente
applicabili, cioè i provvedimenti nazionali applicabili alla generalità dei prodotti, nonostante essi
provochino effetti restrittivi alle esportazioni. L'approccio restrittivo adottato dalla Corte a proposito
dell'art 35 è stato oggetto di numerose critiche per la sua incoerenza rispetto all'atteggiamento molto
più ampio dell'art 34. Di recente la Corte sembra avere accolto almeno in parte tali critiche.

5. Le deroghe al divieto di restrizione quantitative

Il TFUE ha previsto una clausola che consente di considerare ammissibile un provvedimento


nazionale che sia da qualificare come restrizione quantitativa o come misura d'effetto equivalente
(secondo gli artt. 34-35), e si tratta dell'art.36: "Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano
impregiudicati i divieti o restrizioni alle importazione, all'esportazione o al transito delle merci,
giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della
salute e della vita delle persone e degli animali, di protezione del patrimonio artistico, storico,
archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia tali divieti o
restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, nè una Restrizione dissimulata
al commercio tra gli Stati membri”.
La giurisprudenza ha avuto modo di applicare l'art. 36 in numerose occasioni di motivi di interesse di
ordine generale, come ad es. in materia di moralità pubblica. Soluzioni particolarmente originali sono
state raggiunte dalla corte in materia di protezione della proprietà industriale e commerciale. La corte
ha accolto una nozione alquanto ampia di proprietà industriale e commerciale, includendovi non solo
i diritti di brevetto delle invenzioni industriali e i marchi d'impresa, ma anche i diritti d'autore. I diritti di
proprietà industriale e commerciale hanno carattere territoriale: ciascuno Stato membro accorda
diritti del genere in relazione al suo territorio. Il titolare di un diritto di proprietà industriale o
commerciale, ha il potere esclusivo di sfruttarlo economicamente sul territorio dello Stato membro
secondo la cui legislazione il diritto gli è stato accordato. Fra i diritti che spettano al titolare, vi è
quello di opporsi all'importazione di prodotti provenienti da altri Stati membri in violazione del suo
diritto esclusivo (es. prodotti muniti di marchio contraffatto o confondibile con quello registrato). Ciò
evidentemente ostacola la libera circolazione di determinate merci.

Per distinguere le forme di esercizio legittime e abusive, la giurisprudenza fa perno sull'idea di


"oggetto specifico" e di "funzione essenziale" del diritto di proprietà industriale e commerciale.
Qualora la forma del diritto di privativa ecceda il suo oggetto specifico, la deroga dell'art.36 non può
essere applicata.

6. Libera circolazione delle merci e monopoli pubblici

Occorre infine soffermarsi sull'art. 37 in tema di monopoli pubblici a carattere commerciale. La


norma tende a conciliare "la possibilità per gli Stati membri, di mantenere taluni monopoli di carattere
commerciale, in quanto strumenti per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico, con le
esigenze di instaurazione e mantenimento del mercato comune" e "mira ad eliminare gli ostacoli alla

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libera circolazione delle merci, ad eccezione degli effetti restrittivi che sugli scambi che siano inerenti
sull'esistenza dei monopoli".
La nozione di monopolio. "qualsiasi organismo attraverso cui uno Stato membro dirige e influenza,
direttamente o indirettamente, le importazioni o le esportazioni tra gli Stati membri".

CAPITOLO III: LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE


1. Quadro normativo

Il mercato interno stabilisce che vi sia "uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la
libera circolazione delle merci, delle persone e dei servizi".

Con l'istituzione della cittadinanza dell'Unione, ai cittadini dell'Unione è stato attribuito il "diritto di
circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri".

La libera circolazione ha pertanto assunto un importante valore e portata e si è trasformata in un


vero e proprio diritto della persona in quanto tale che ha trovato la sua consacrazione negli articoli:

- 20 e 21 relativi ai cittadini;

- 45-48 che hanno ad oggetto i lavoratori;

- 49-55 dedicati al diritto di stabilimento;

- 56-62 relativi ai servizi.

Nei gruppi di disposizioni figura il richiamo al divieto di discriminazione in base alla nazionalità.
Inoltre sono previste possibili deroghe alla libertà di circolazione o dei limiti al suo campo
d'applicazione.

Le disposizioni del TFUE che introducono la libera circolazione delle persone sono dotate di
efficacia diretta, idonee ad essere invocate in giudizio dai soggetti interessati, nei confronti tanto di
enti pubblici, quanto di soggetti di natura privatistica. Un'altra caratteristica comune alle disposizioni
dei trattati sulla libera circolazione delle persone è che esse vanno trattate rispettando i diritti
fondamentali delle persone coinvolte, diritti che vanno quindi anche al di fuori del settore della libera
circolazione delle persone.

I quattro gruppi delle disposizioni attribuiscono alle istituzioni il potere di adottare atti legislativi per
facilitare l'esercizio della libertà di circolazione e i diritti in essa compresi.

In passato, le istituzioni adottavano atti legislativi distinti, a seconda che si trattasse di lavoratori, di
soggetti che esercitavano il diritto allo stabilimento o la libera prestazione di servizi, ovvero meri
cittadini. Più di recente e soprattutto con l'introduzione della cittadinanza dell'Unione, si è affermata
la prassi di emanare atti legislativi che si riferiscono indifferentemente a qualunque cittadino che
circoli nel territorio degli Stati membri e ai loro familiari, che si tratti indistintamente di lavoratori o
soggetti esercenti attività autonome o di prestazione di servizi.

La direttiva a riguardo, raccoglie in un unico testo le disposizioni in materia che in precedenza erano
distribuite in testi legislativi numerosi e diversi.

Essa mira anche a incorporare, codificandole, molte delle soluzioni cui era pervenuta la
giurisprudenza della Corte nell'interpretare le disposizioni dei trattati e ad aggiornare l'intera
disciplina, introducendo elementi di novità di rilievo: tra questi, il diritto di soggiorno permanente in
uno Stato membro diverso dal proprio.

Gli atti legislativi che danno attuazione alle norme, mirano a facilitare l'esercizio dei diritti che i
lavoratori interessati traggono direttamente dall'art.45. Essi non possono mai avere l'effetto di
restringere la portata di tali diritti. Vanno inoltre ricordati gli atti adottati in forza dell'art. 48, che
autorizza le istituzioni ad approvare misure specifiche in materia di sicurezza sociale finalizzate a
rendere possibile l'instaurazione della libertà di circolazione. Tali misure consistono nel prevedere, da
un lato, la possibilità per il lavoratore di ottenere il pagamento delle prestazioni sociali cui ha diritto in
ogni Stato membro, dall'altro, il diritto al cumulo dei periodi assicurativi maturati nei diversi Stati
membri in cui il lavoratore è occupato, instaurando così quella che si può definire la libera
circolazione delle prestazioni sociali.

2. I beneficiari

Inizialmente la libera circolazione non spettava a tutti i cittadini degli Stati membri.

Potevano usufruirne soltanto coloro che erano coinvolti in un'attività economicamente rilevante: i
lavoratori e coloro che esercitavano il diritto di stabilimento o libera prestazione di servizi.
Tale requisito è venuto meno con l'introduzione della cittadinanza dell'Unione. Gli atti legislativi
hanno poi esteso alcuni diritti anche ai familiari dei soggetti che beneficiano della libera circolazione.

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Pertanto tali diritti sono attribuiti alle seguenti categorie:

- i lavoratori;

- gli esercenti di un'attività autonoma o di libera prestazione, i lavoratori autonomi;

- i cittadini;

- i familiari dei soggetti di cui sopra.

A queste categorie potrebbe aggiungersi anche quella dei destinatari dei servizi, intesi come
soggetti che circolano nel territorio degli Stati membri per poter beneficiare di una prestazione di
servizi da parte di soggetti stabiliti in uno Stato membro diverso da quello d'origine del destinatario
del servizio.

Ma la portata dei diritti non è identica per tutte le categorie indicate. In particolare le differenze
riguardano il diritto di soggiorno e il principio di non-discriminazione o di parità di trattamento a
seconda che si tratti di un semplice cittadino o di un soggetto economicamente attivo.

Secondo la giurisprudenza, la nozione di lavoratore va interpretata in maniera autonoma e


indipendente dalle definizioni contenute nei vari diritti nazionali e comunque in maniera non
restrittiva. Occorre che il soggetto in questione svolga un'attività per un certo periodo di tempo, a
favore di un'altra persona e sotto la direzione di quest'ultima, ricevendo come contropartita una
retribuzione.
Devono pertanto sussistere le seguenti caratteristiche:

- vincolo di subordinazione. (La natura subordinata non è esclusa solo perchè il lavoratore è il
coniuge del datore di lavoro);

- durata prolungata. (quanto alla durata, la Corte ha incluso il lavoratore stagionale e ipotesi di
prestazioni lavorative di durata molto breve);

- una remunerazione. (circa il carattere retributivo dell'attività lavorativa, la Corte ha dichiarato che
vanno considerati lavoratori anche coloro che svolgono o che intendono svolgere un'attività
subordinata a orario ridotto e che percepiscono o percepirebbero per questo motivo solo una
retribuzione inferiore a quella minima garantita).

La libera circolazione può essere invocata anche da un ex lavoratore.

Infatti, una volta acquisita la qualità di lavoratore ai sensi dell'art. 45, non si perde se l'attività
lavorativa viene interrotta. (beneficia infatti di tale diritto anche colui che intraprende studi universitari
in uno Stato membro diverso dal suo, dopo avervi svolto un'attività lavorativa.)

Anche un soggetto in cerca di occupazione rientra nel campo di coloro che possono usufruire del
diritto di circolazione. La Corte infatti ha stabilito che ai cittadini degli Stati membri spetta anche "il
diritto di circolare liberamente sul territorio degli Stati membri e di prendervi dimora al fine di cercarci
un lavoro".

Tra i beneficiari della libera circolazione delle persone figurano anche i familiari dei soggetti che, in
quanto lavoratori subordinati o autonomi o anche in quanto semplici cittadini che si spostano dal
proprio Stato membro, godono di tale libertà. Quelli che spettano ai familiari pertanto sono diritti
derivati o secondari rispetto al diritto principale di circolazione che spetta alla persona con cui il
familiare ha il rapporto di parentela. Essi sono conferiti per rendere più agevole e completa la libera
circolazione del titolare del diritto principale. I diritti derivati non sorgono se manca il diritto
principale.

Rientrano nella nozione di familiare soltanto i seguenti soggetti:

- il coniuge;

- il partner che abbia contratto con il cittadino dell'Unione un'unione registrata sulla base della
legislazione di uno Stato membro;

- i discendenti diretti di età inferiore ai 21 anni o a carico e quelli del coniuge;

Il conferimento dei diritti di libera circolazione ai familiari vale sia che si tratti di cittadini di Stati
membri sia che si tratti di cittadini di Stati terzi.

Perchè tali diritti possano essere invocati da una persona, occorre che essa non si trovi in una
situazione puramente interna.
Infatti, le disposizioni relative non si applicano qualora tutti gli elementi della fattispecie siano
confinati all'interno di un solo e unico Stato membro. Il principio vale anche nel caso dei diritti dei
familiari.

Nel tempo si sono moltiplicati i casi in cui la giurisprudenza ha riconosciuto il diritto di invocare le
disposizioni sulla libera circolazione delle persone nei confronti del proprio Stato membro nazionale
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da parte di cittadini in uscita, cioè soggetti che tendono ad utilizzare la libera circolazione per andare
a lavorare in un altro Stato membro o beneficiarne di servizi o ancora per trasferirvi la propria
residenza.

3. Il diritto di soggiorno

Sono previsti tre tipo di diritti di soggiorno che un cittadino può esercitare in uno Stato membro
diverso dal proprio:

- diritto di soggiorno fino a 3 mesi;

- diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi;

- diritto di soggiorno permanente.

Il diritto di soggiorno sino a tre mesi spetta ai cittadini dell'Unione senza alcuna specificazione,
nonché ai loro familiari non aventi la cittadinanza di uno stato membro che accompagnino o
raggiungano il cittadino dell'Unione. Anche il suo esercizio é praticamente libero: non é richiesta
alcuna condizione o formalità, salvo il possesso di un passaporto in corso di validità. Per i familiari
non aventi la cittadinanza di uno Stato membro basta il possesso del passaporto in corso di validità.

La portata del diritto di soggiorno sino a tre mesi é tuttavia limitata dall'art. 14, il quale sembra
introdurre anche in questi casi, come per i casi di soggiorno per periodi superiori, una condizione
relativa alla disponibilità di risorse economiche o meglio a non necessità di ricorrere eccessivamente
al sistema di assistenza sociale.

Il diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi spetta anch'esso a tutti i cittadini
dell'Unione ma le condizioni cui tale diritto é sottoposto dipendono dalla situazione personale
dell'interessato e prevede quattro categorie di persone:

- coloro che sono lavoratori subordinati o autonomi nello Stato membro ospitante: per costoro non
é prevista alcuna condizione;

- coloro che sono iscritti presso un istituto pubblico o privato, riconosciuto o finanziato dallo Stato
membro ospitante in base alla sua legislazione o prassi amministrativa per perseguirvi un titolo di
studio o una formazione professionale.

Per costoro sono richieste due condizioni:

• devono disporre di un'assicurazione malattia che copre tutti i rischi nello Stato membro ospitante
(assicurazione malattia);

• devono assicurare all'autorità nazionale competente, con una dichiarazione o altro mezzo
equivalente, di disporre per se stesso e per i propri familiari di risorse economiche sufficienti,
affinché non divenga onere a carico dell'assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il
suo periodo di soggiorno. (risorse economiche sufficienti).

- coloro che non rientrano in alcune delle categorie precedenti (semplici cittadini). Per costoro sono
richieste le stesse condizioni per gli studenti (assicurazione malattia e risorse economiche
sufficienti). Tuttavia tali condizioni in questo caso sono più rigorose;

- i familiari che accompagnano o raggiungono coloro che rientrano nelle categorie precedenti. Tale
diritto é esteso anche ai familiari che non siano cittadini di uno Stato membro.

Una delle novità di maggiore rilievo introdotte è la possibilità per il cittadino di un diritto di
soggiorno permanente.

Le condizioni per l'acquisizione di tale diritto sono puramente condizioni temporali: è necessario
che il cittadino abbia soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque anni nello Stato
membro ospitante. Non sono richieste condizioni differenziate.

Tale diritto spetta anche ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che abbiano
soggiornato legalmente o in via continuativa per cinque anni assieme al cittadino dell'Unione nello
Stato membro ospitante.

4. La parità di trattamento

Le norme del TFUE in materia di libertà di circolazione delle persone, utilizzano il divieto di
discriminazione in base alla nazionalità, come uno degli strumenti per garantire tale libertà. Le norme
vietano infatti qualunque trattamento discriminatorio ai danni dei cittadini degli altri Stati membri,
ovvero impone che tali cittadini siano sottoposti allo stesso trattamento riservato ai cittadini
nazionali. (principio di trattamento nazionale).

Con l'introduzione della cittadinanza dell'Unione, il divieto di discriminazione ha assunto un ruolo


centrale.

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La Corte ha infatti affermato che "lo status di cittadino dell'Unione è destinato ad essere lo status
fondamentale dei cittadini degli Stati membri e che questo status consente a chi si trova nella
medesima situazione di ottenere, indipendentemente dalla cittadinanza, il medesimo trattamento
giuridico".

Le discriminazioni possono essere dirette o indirette.


Le prime sono sempre stato oggetto di una disciplina particolarmente articolata per quel che
riguarda i lavoratori. Una prima articolazione stabilisce che "è vietato discriminare i lavoratori degli
altri Stati membri per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le condizioni di lavoro". Il divieto di
discriminazione si applica anche se la fonte di discriminazione è costituita da una clausola contenuta
in un contratto di lavoro individuale o collettivo.

Le discriminazioni in base alla nazionalità sono vietate anche in materia di diritto di stabilimento,
di libera prestazione di servizi e in materia di meri cittadini.

Vi sono poi le discriminazioni indirette, anch'esse vietate nel campo della libera circolazione delle
persone. Si tratta di quelle normative che, benchè non prescrivano la nazionalità come condizione
per l'attribuzione di un certo diritto, impongono condizioni che, pur essendo applicabili a tutti, sono
difficilmente soddisfatte dai cittadini di altri stati membri.

La giurisprudenza ha applicato con molta ampiezza la nozione di discriminazione indiretta in base


alla nazionalità, sia che si trattasse di casi rientranti nella libera circolazione dei lavoratori, sia in quelli
nel diritto di stabilimento, sia che si trattasse di semplici cittadini che esercitano la libertà di
circolazione e soggiorno. Tra le condizione indirettamente discriminatorie rientrano quelle attinenti
alla residenza del territorio nazionale.

Es. la condizione della residenza nel territorio nazionale per poter iscriversi ai corsi universitari di
medicina senza dover sottostare ad un sistema di ammissione con sorteggio riservato ai non
residenti.

Accanto alle discriminazioni dirette e indirette ci sono quelle a danno dei cittadini in uscita.
Trattasi dei soggetti, i quali esercitano i diritti di libera circolazione e proprio per questo vengono
assoggettati dal loro Stato membro nazionale ad un trattamento deteriore rispetto a quello riservato
ai cittadini che non utilizzano tali diritti. Spesso la discriminazione dei cittadini in uscita consiste in
una condizione di residenza sul territorio nazionale che tali cittadini non possono soddisfare.

Le discriminazioni basate sui criteri vietati dai trattati non sono sempre a loro volta vietate, per cui
una discriminazione può essere giustificata e sfuggire al divieto.

Occorre però che la giustificazione risponda a due condizioni: che sia basata su condizioni
oggettive e che rispetti il principio di proporzionalità.

La possibilità di addurre giustificazioni trova frequente applicazione nel campo della libera
circolazione delle persone, ma e' stata ammessa anche in campo delle discriminazioni per i cittadini
in uscita.

Alcune delle discriminazioni ammesse poiché giustificate, sono state trasformate in vere e proprie
eccezioni legislative al principio della parità di trattamento. Esse riguardano persone in cerca di
occupazione e studenti. Per quanto riguarda le prime, tali soggetti godono del diritto di soggiorno
fino a tre mesi. La giurisprudenza si era posta il problema del se le persone che godono della
posizione descritta, possano godere della parità di trattamento anche per quanto riguarda il diritto di
ottenere dallo Stato ospitante le stesse prestazioni sociali riservate ai lavoratori nazionali. In un primo
momento la Corte aveva risposto negativamente sostenendo che lo Stato ospitante non è tenuto ad
attribuire il diritto a prestazioni d'assistenza sociale durante i primi tre mesi di soggiorno o durante il
periodo piu’ lungo previsto. Tuttavia ad oggi, lo Stato membro ospitante non può negare la
prestazione, ma valutare se concederla o meno.

Analogo problema si pone per la categoria studenti: lo Stato non è tenuto a concedere prima

dell'acquisizione del soggiorno permanente, aiuti di mantenimento agli studi, compresa la


formazione professionale, comprendenti borse di studio o prestiti per studenti. Lo studente ha
pertanto il diritto di ottenere dallo Stato ospite le stesse borse di studio e gli stessi prestiti previsti
per gli studenti nazionali nel caso in cui abbia lo status di lavoratore subordinato o autonomo, o nel
caso in cui abbia acquisito il soggiorno permanente. Gli Stati membri dunque non potrebbero negare
a priori il diritto di borse allo studio o altre prestazioni se non per giustificazioni oggettive e non
discriminatorie.

Un'eccezione prevista alla parità di trattamento consiste nella conoscenza della lingua nazionale che
molte volte viene richiesta dallo Stato membro ospitante.

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5. Le deroghe alla libera circolazione delle persone

Il TFUE prevede due tipi di deroghe in materia di libera circolazione dei lavoratori: la deroga che fa
salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica e la
deroga ai sensi dell'art. 45 le cui disposizioni non sono applicabili negli impieghi della pubblica
amministrazione.

Le deroghe consentono agli Stati alcune restrizioni sulla libertà di circolazione dei lavoratori, siano
essi subordinati o autonomi, per ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e sanità pubblica.
Mirano a consentire agli Stati membri di riservare ai propri cittadini, dunque escludendone gli altri,
quelle attività più delicate nella pubblica amministrazione e nei pubblici poteri.

In materia di libera circolazione dei cittadini invece non è espressa alcuna deroga.

Cominciando dall'esame della deroga per ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e salute
pubblica, onde evitare discrepanze nella sua applicazione da parte dei vari stati, sono stati emanati
alcuni importanti atti legislativi per il coordinamento dei provvedimenti speciali riguardanti il
trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi d'ordine pubblico, pubblica sicurezza
e sanità pubblica. Tale deroga può essere invocata per fini economici.

Dei tre tipi di motivi invocabili per giustificare le restrizioni alla libera circolazione quelli legati
all'ordine pubblico e alla pubblica sicurezza sono senz'altro i più importanti. Quanto ai motivi di
sanità pubblica, le sole malattie che possono limitare la circolazione delle persone, sono quelle con
potenziale epidemico, infettive, parassitarie e contagiose. Occorre inoltre che la malattia si sia
manifestata al momento dell'ingresso o in un periodo non superiore ai tre mesi da questo momento.
L'insorgere di malattie in un periodo successivo ai tre mesi, non può causare l'allontanamento.

I provvedimenti basati su motivi di ordine pubblico o pubblica sicurezza devono: rispettare il


principio di proporzionalità ed essere adottati esclusivamente in relazione al comportamento
personale della persona nei riguardi della quale sono applicati. La condizione secondo cui i
provvedimenti restrittivi vanno adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale
esclude del tutto la possibilità che provvedimenti del genere riguardino interi gruppi o espulsioni
collettive.

Sotto il profilo della necessità di adeguare il provvedimento al grado di integrazione della persona,
nell'adottare un provvedimento del genere, lo Stato membro ospitante tiene conto di elementi quali
la durata del soggiorno dell'interessato nel suo territorio, la sua età, il suo stato di salute, la sua
situazione familiare ed economica, la sua integrazione sociale e culturale nello stato membro
ospitante e importanza dei suoi legami con il suo paese d'origine.

Infine un provvedimento ed allontanamento può essere adottato soltanto per motivi imperativi di
pubblica sicurezza definiti dallo stato membro. All'aumentare della durata del soggiorno corrisponde
una parallela restrizione dei motivi che possono giustificare l'espulsione. Secondo la Corte occorre
tener conto, da un lato dell'esigenza che provvedimenti del genere rispettino i diritti fondamentali che
fanno parte dei principi generali del diritto dell'Unione Europea.

Un'altra deroga è prevista per la libertà di circolazione dei lavoratori con riguardo alla pubblica
amministrazione. In particolare è stato ritenuto che vi rientrano solo i posti che implicano la
partecipazione, diretta o indiretta, all'esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad
oggetto la tutela degli interessi generali dello stato e delle altre collettività pubbliche.

CAPITOLO IV: IL DIRITTO DI STABILIMENTO E LA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI


1. Quadro normativo

I gruppi di disposizioni dei due diritti: il diritto di stabilimento (artt. 49 a 55 TFUE) e la libera
prestazione dei servizi (artt. 56 a 62) presentano dei contenuti per molti versi simili e stabiliscono il
divieto per le restrizioni alle due libertà.

2. I beneficiari

I soggetti che rientrano nel campo d'applicazione di tali articoli sono quelli che prestano un'attività
autonoma, ovvero esercitata senza vincolo di subordinazione rispetto al destinatario della
prestazione.

Deve infatti trattarsi di un'attività economica, nel senso che deve consistere in prestazioni in cambio
delle quali viene percepita una retribuzione.

L'oggetto dell'attività può essere il più diverso e non si presta ad essere definito con certezza. Ci si
deve accontentare dell'elencazione contenuta nell'art.57, secondo cui i servizi comprendono in
particolare le attività di carattere industriale o commerciale, artigiane o le libere professioni.

Tra i beneficiari dei due diritti rientrano anche le società: "le società commerciali costituite
conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l'amministrazione
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centrale o il centro di attività principale all'interno dell'Unione sono equiparate alle persone fisiche
aventi la cittadinanza di uno Stato membro".

Tale assimilazione amplia notevolmente la portata delle due libertà.

La Corte ha ritenuto che, allo stato attuale della normativa dell'Unione, le società godono solo del
diritto di stabilimento secondario, potendo esse aprire agenzie, succursali o filiali in uno Stato
diverso da quello della sede, ma non potendo trasferire la propria sede legale o reale da uno Stato
membro all'altro, se non quando ciò viene ammesso dalle legislazioni di entrambi gli Stati interessati.

Possono considerarsi beneficiari della libera prestazione anche i destinatari dei servizi.

La Corte infatti ha affermato che la libera prestazione dei servizi comprende anche la libertà da parte
dei destinatari dei servizi, di recarsi in un altro Stato membro per fruire ivi di un servizio, senza essere
impediti da alcun tipo di restrizioni. Non può essere considerato invece destinatario di servizi, e
dunque beneficiare della libera prestazione di servizi, il cittadino di uno Stato membro che stabilisce
la sua residenza principale in un territorio di uno Stato membro per beneficiarvi di prestazioni di
servizi per una durata indeterminata.

3. La distinzione tra stabilimento e prestazione di servizi

In estrema sintesi, può dirsi che, col diritto di stabilimento, il TFUE prende in considerazione il caso
del soggetto che intende stabilirsi, cioè esercitare stabilmente un'attività autonoma di carattere
economico in uno Stato membro nel quale egli non era stabilito precedentemente.

Con la libera prestazione di servizi, invece, il TFUE si riferisce alla possibilità che il soggetto presti la
propria attività in uno Stato membro diverso da quello ove è stabilito, senza stabilirsi nello Stato della
prestazione. La ragione di questa specificazione di profili risiede nella constatazione che, con lo
sviluppo delle moderne tecniche di comunicazione e di trasporto, la prestazione di attività autonome
può sempre più spesso essere effettuata senza necessità che il prestatore si stabilisca nello Stato
ove la prestazione avviene.

Sebbene le disposizioni che disciplinano i due diritti in questione sembrino coincidere in larga
misura, le differenze che intercorrono tra il contenuto dell'uno e dell'altro diritto sono molto marcate.

In particolare, lo Stato membro sul cui territorio si stabilisce un soggetto, dispone di ampi poteri nei
confronti di quest'ultimo e può imporgli condizioni di accesso e d'esercizio che, invece, non
potrebbero essere imposte nel caso in cui un soggetto, in quello stesso Stato, agisca a titolo di
libera prestazione di servizi. Infatti, l'attività effettuata in regime di stabilimento è assoggettata alla
legge dello Stato membro dello stabilimento, mentre quella esercitata in regime di libera prestazione
è assoggettata alla legge dello Stato membro d'origine (home country) e non a quella dello Stato
membro ospitante (host country). Da qui la preferenza per i soggetti a qualificare la propria attività
come semplice prestazione di servizi.

Si è ampiamente discusso sulla nozione di diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi e
al criterio distintivo. Per quanto riguarda il primo, l'art. 49 dispone che esso "comporta l'accesso
alle attività non salariate e al loro esercizio, nonchè la costituzione e la gestione di imprese e in
particolare di società, alle condizioni stabilite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti
dei propri cittadini". Per quanto riguarda la prestazione di servizi, "il prestatore può, per l'esecuzione
della sua prestazione, esercitare, a titolo temporaneo, la sua attività nello Stato membro ove la
prestazione è fornita, alle stesse condizioni imposte da tale Stato ai propri cittadini".

La differenza tra le due libertà risiede dunque non nel contenuto dell'attività, quanto nel carattere
stabile o temporaneo. Più precisamente il diritto di stabilimento "implica la possibilità, per un
cittadino comunitario, di partecipare in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno
Stato membro diverso dal proprio e di trarne vantaggio". La libera prestazione di servizi invece
riguarda il caso in cui "il prestatore di servizi si sposti in un altro Stato membro e vi eserciti la propria
attività in via temporanea".

Il carattere stabile o temporaneo dell'attività è a sua volta difficile da determinare. Secondo la Corte,
per decidere, non possono essere applicati rigidi criteri qualitativi. In altri termini un prestatore
potrebbe mantenere la propria qualità di libero prestatore e non essere quindi soggetto all'obbligo di
stabilirsi.

In alcuni casi, la giurisprudenza ha invece utilizzato il criterio della prevalenza: qualora l'attività
svolta nello Stato ospite sia prevalente rispetto a quella svolta nello Stato membro d'origine, ciò è
considerato sufficiente per escludere che l'attività possa essere svolta in regime di libera
prestazione.

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Non possono essere utilizzati come criteri invece quelli circa la durata di un'attività o la frequenza
della presenza di un prestatore nello Stato membro della prestazione. Secondo la Corte rientrano nel
campo di applicazione della libera prestazione anche i servizi la cui prestazione si estende per un
periodo di tempo di tempo prolungato, anche anni, come ad es avviene per i servizi forniti
nell'ambito della costruzione di un edificio. Non essendo possibile determinare, in maniera astratta,
la durata o la frequenza di un servizio, non può essere considerato questo una prestazione di servizio
ai sensi del Trattato. Tali criteri sembrano invece rilevanti se riferiti ad un numero ampio e non
predefinito di prestazioni. Ad es., se un prestatore si trattiene a lungo nello Stato membro ospite ed
ivi accetta di svolgere numerose prestazioni di servizi, la sua posizione cadrà nel campo
d'applicazione dell'art. 49.

Questione delicata è se la disponibilità da parte di un prestatore di una sede di attività nello Stato
membro ospite implichi di per sè che lo stesso sia da considerarsi stabilito.

In conclusione, sembrerebbe che la prova del carattere non temporaneo di una determinata attività
autonoma dipenda dal tipo di sede o infrastruttura di cui si dota il prestaore.

4. Il diritto di stabilimento

L'art. 49 prevede che le restrizioni alla libertà di stabilimento siano vietate e tale divieto si estende
anche alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursale o filiali da parte di cittadini di uno
Stato membro in un altro Stato membro.

Forme di stabilimento:

- il diritto di stabilimento vero e proprio che si realizza quando un soggetto stabilisce in uno Stato
membro diverso dal proprio ( o quello in cui si era in precedenza stabilito) il proprio centro di
attività. Stabilimento primario;

- il diritto di aprire agenzie, succursali o filiali, che si realizza quando un soggetto, che è già stabilito
in uno Stato membro, crea un ulteriore centro di attività in un altro Stato membro.

5. Il diritto di stabilimento secondario

Per comprendere la portata del diritto di stabilimento primario, bisogna tener presente che essa
conferisce, in primo luogo, ai cittadini di uno Stato membro il diritto di accesso e di esercizio delle
attività autonome nel territorio di un altro Stato membro, contemplando anche la possibilità che ciò
avvenga attraverso la costruzione e gestione di imprese o società di cui il soggetto interessato
detenga il controllo.

In secondo luogo la norma vieta allo Stato membro dello stabilimento di imporre ai cittadini di altri
Stati membri che intendono stabilirsi nel proprio territorio condizioni diverse da quelle applicate ai
propri cittadini. (principio del trattamento nazionale).

Sotto il primo profilo, diritto di accesso e di esercizio, l'art.49 vieta qualsiasi normativa che
impedisca ai cittadini di altri Stati membri di svolgere determinate attività autonome che sono invece
consentite ai soli cittadini nazionali (clausole di nazionalità).

Sotto il secondo profilo, principio di trattamento nazionale, l'art. 49 prescrive che i cittadini di altri
Stati membri siano ammessi a svolgere un'attività autonoma alle stesse condizioni applicabili ai
cittadini dello Stato dello stabilimento. Vi è violazione del principio del trattamento nazionale in
presenza di disposizioni che, pur consentendo lo svolgimento di attività autonome da parte di
cittadini di altri Stati, assoggettano costoro a condizioni diverse e meno favorevoli dei cittadini
nazionali. In tal caso si parla di discriminazione diretta o palese.

È violato anche qualora la normativa di uno Stato membro, pur applicandosi in base a criteri
indipendenti dalla nazionalità, tuttavia discrimini di fatto i cittadini di altri Stati membri, in quanto per
questi risulta più difficile soddisfare i criteri d'applicazione della norma che non per i cittadini
nazionali.

Si parla di discriminazione indiretta o occulta. Un es. di questo tipo è dato dalle normative
nazionali che subordinano la possibilità di esercitare talune attività a requisiti di residenza nel
territorio nazionale.

La Corte ha giudicato che possono stabilire degli ostacoli al diritto di stabilimento o di prestazione di
servizi anche normative nazionali indistintamente applicabili.

Con nozioni come quelle di "agenzie, succursali o filiali", sembrerebbe alludere a centri di attività
subalterni rispetto ad un centro principale situato in un altro Stato membro. Tuttavia secondo la
Corte, non sempre l'esistenza di uno stabilimento primario, costituisce il presupposto necessario per
l'esercizio del diritto di stabilimento secondario in un altro Stato membro.

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Anche rispetto al diritto di stabilimento secondario può parlarsi di un doppio contenuto. In primo
luogo, l'art. 49 garantisce ai soggetti già stabiliti in uno Stato membro ove esercitano la propria
attività autonoma, il diritto di aprire, in un altro Stato membro, un'agenzia, una succursale, una filiale
o un altro centro stabile di attività (diritto di apertura di una filiale).

In secondo luogo, l'art. 49 impone il principio del trattamento nazionale.

In questo caso, ai soggetti che si limitano ad aprire una filiale nello Stato membro in questione, deve
essere esteso il trattamento che la legislazione locale prevede e riserva ai soggetti che nel territorio
nazionale hanno lo stabilimento principale.

Numerosi esempi di ostacoli al diritto di apertura di una filiale sono stati rinvenuti nel settore delle
libere professioni (es. condizioni di residenza).

6. La libera prestazione di servizi

Per definire il contenuto della libera prestazione di servizi, bisogna rifarsi agli artt. 56 e 57. Anche
questo diritto ha un duplice contenuto: da un lato, attribuisce al prestatore stabilito in uno Stato
membro (home country) il diritto di esercizio temporaneo della propria attività in uno Stato membro
ospite (host country).

Dall'altro, si definiscono le condizioni alle quali lo Stato della prestazione può subordinare l'esercizio
di tale diritto facendo riferimento al principio di trattamento nazionale.

Le condizioni imposte devono infatti essere quelle imposte dallo Stato membro della prestazione ai
propri cittadini.

Sotto il primo profilo, diritto di esercizio temporaneo, gli articoli citati comportano il divieto non
soltanto delle clausole di nazionalità, ma soprattutto di quelle disposizioni presenti nelle legislazioni
nazionali, le quali riservano l'esercizio di una determinata attività ai soggetti residenti o stabiliti sul
territorio dello Stato in questione e escludono dalla stessa attività i soggetti stabiliti all'estero (c.d.
clausole di residenza o di stabilimento). Alle clausole di residenza possono essere assimilate
quelle che impongono anche ai soggetti liberi prestatori l'obbligo di iscrizione ad un albo
professionale, in quanto spesso presuppongono un obbligo di residenza.

Siffatte disposizioni sono da considerarsi senz'altro incompatibili con gli artt. 56 e 57. Secondo la
Corte, l'esigere lo stabilimento nel territorio nazionale per lo svolgimento di una determinata attività
costituisce la negazione stessa della libera prestazione di servizi. Secondo la Corte, uno Stato puo’
continuare a richiedere per lo svolgimento nel proprio territorio di una determinata attività il possesso
di uno stabilimento, ma solo qualora sia provato ch'esso costituisce condizione indispensabile per il
raggiungimento di uno scopo di interesse generale.

Sotto il secondo profilo, principio del trattamento nazionale, occorre ricordare preliminarmente
che gli artt. 56 e seguenti non impediscono ad uno Stato membro di disciplinare l'esercizio nel
proprio territorio delle attività autonome, sottoponendolo a determinate condizioni e restrizioni, quali
ad es. il possesso da parte del prestatore di una particolare qualifica professionale. L'art. 57
stabilisce soltanto che le condizioni d'esercizio applicabili al prestatore stabilito in uno Stato diverso
da quello della prestazione devono essere le stesse di quelle applicabili nei confronti dei cittadini di
quest'ultimo Stato.

Tuttavia, nel campo dei servizi, l'applicazione del principio del trattamento nazionale e del
consequenziale divieto di discriminazione sulla base della nazionalità ha conosciuto sviluppi
notevoli. Ci si è ben presto resi conto che anche nell'ambito della libera prestazione, il divieto di
discriminazione deve essere esteso alle discriminazioni indirette.

In giurisprudenza, sono rari i casi in cui la Corte si è trovata a sanzionare veri e propri casi di
discriminazione diretta in base alla nazionalità.

Molto più frequenti sono le pronunce in cui sono stati esaminati casi di discriminazioni indirette,
che pur non utilizzando il criterio della nazionalità, hanno l'effetto di svantaggiare le attività svolte in
regime di libera prestazione. Vengono in rilievo anzitutto le discriminazioni in base al luogo di
stabilimento del prestatore. Si tratta di normative nazionali che prevedono un trattamento diverso e
meno favorevole per i liberi prestatori rispetto a quello applicabile ai soggetti stabiliti. Sono inoltre
presenti numerosi casi di normative nazionali che contengono una discriminazione in base al luogo
in cui è effettuata la prestazione.

Si tratta di norme che subordinano la concessione di un determinato trattamento di favore alla


condizione che la prestazione di servizi sia avvenuta nello stato membro che concede il trattamento
e non in stati membri diversi. Che si tratti o meno di discriminazioni indirette in base alla nazionalità,
le discriminazioni sopra citate, non sono vietate se è possibile invocare una giustificazione basata
su considerazioni obiettive estranee alla nazionalità e se viene rispettato un criterio di
proporzionalità.

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7. Ostacoli non discriminatori al diritto di stabilimento e alla libera prestazione di servizi

Da alcuni anni la Corte ha ammesso che una restrizione al diritto di stabilimento o alla libera
prestazione di servizi può derivare anche da normative nazionali applicabili, senza alcuna
discriminazione, a tutti coloro che svolgono una determinata attività autonoma (normative
indistintamente applicabili).

Inoltre la Corte ha preso in considerazione che una normativa applicabile tanto ai prestatori stabiliti
quanto a quelli in regime di libera prestazione, può comportare, in quanto applicata ai secondi, una
restrizione alla libera prestazione dei servizi, vietata dall'art. 56.

La Corte sancisce che "la libera circolazione dei servizi, in quanto principio fondamentale sancito dal
Trattato, può venire limitata solo da norme giustificate dal pubblico interesse e obbligatorie nei
confronti di tutte le persone e le imprese che esercitano la propria attività sul territorio di tale Stato,
nella misura in cui tale interesse non risulti garantito dalle norme alle quali il prestatore di servizi è
soggetto nello Stato membro in cui è stabilito". Il pensiero della Corte è espresso nella sentenza
Webb ed è pertanto il seguente:

- anche la normativa che disciplina uno Stato membro l'accesso a l'esercizio di una determinata
attività e si applica indistintamente a tutti coloro che intendono svolgere tale attività può costituire
un ostacolo alla libera prestazione di servizi;

- un ostacolo del genere sfugge tuttavia al divieto di cui all'art. 56 se è giustificato dal pubblico
interesse;

- occorre inoltre verificare che il pubblico interesse non sia soddisfatto dalla normativa cui è
soggetto il prestatore dello Stato d'origine.

Il descritto orientamento è stato poi confermato da una giurisprudenza ormai consolidata. La Corte
rileva che l'art. 56 prescrive non solo "l'eliminazione di qualsiasi discriminazione nei confronti del
prestatore di servizi a causa della sua nazionalità, ma anche la soppressione di qualsiasi restrizione,
anche qualora essa si applichi indistintamente ai prestatori nazionali ed a quelli degli altri stati
membri, allorchè essa sia tale da vietare o da ostacolare in altro modo le attività del prestatore
stabilito in un altro Stato membro ove fornisce legittimamente servizi analoghi". Riprendendo il
concetto già esposto nella sentenza di Webb, la Corte ricorda poi che "uno Stato membro non può
subordinare l'esecuzione della prestazione di servizi sul suo territorio all'osservanza di tutte le
condizioni prescritte per lo stabilimento, perchè altrimenti priverebbe di qualsiasi effetto utile le
norme del Trattato dirette a garantire appunto la libera prestazione di servizi".

La corte constata che la normativa tedesca Webb costituisce una restrizione alla libera prestazione
delle attività considerate perché "impedisce al tempo stesso ad un'impresa con sede all'estero di
fornire sul territorio nazionale prestazioni di servizi ai titolari di brevetti e agli stessi titolari di scegliere
liberamente le modalità di sorveglianza dei loro brevetti".

La Corte si chiede tuttavia se la normativa in questione possa essere considerata come giustificata
da motivi imperativi di pubblico interesse. Pur ammettendo che la normativa tedesca mira
effettivamente a tutelare un interesse generale, la Corte conclude tuttavia che esorbita da quanto è
necessario per garantire la tutela di questo interesse.

La Corte è andata via via articolando un vero e proprio test (Test Webb) a cui sottoporre le normative
nazionali indistintamente applicabili. Il test prevede quattro diverse condizioni perchè la normativa in
esame possa essere estesa ai prestatori non stabiliti senza creare una restrizione alla libera
prestazione.

La normativa:

- deve applicarsi in modo non discriminatorio;

- deve essere giustificata da motivi imperativi di interesse pubblico;

- deve essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito;

- non deve andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo.

Inoltre occorre verificare se l'interesse generale in questione "non sia stato tutelato dalle norme cui il
prestatore è soggetto nello Stato membro in cui è stabilito"

Nel tempo la Corte ha esteso l'orientamento descritto anche al diritto di stabilimento.

Essa è pertanto pervenuta a considerare che anche tale libertà può considerarsi ostacolata
dall'applicazione ai soggetti che intendono stabilirsi in uno Stato membro di norme indistintamente
applicabili a tutti coloro che esercitano una determinata attività in tale Stato membro. Per accertare
se ciò si verificasse nella specie, la Corte ha fatto ricorso a un test (Test Gebhard) del tutto simile a
quello applicato in materia di libera prestazione dei servizi. In talune sentenze la Corte sembra
15
chiedere una condizione aggiuntiva rispetto al test. In particolare, la Corte ha talvolta giudicato che,
perchè si possa parlare di restrizione al diritto di stabilimento ai sensi dell'art.49, la normativa
indistintamente applicabile deve pregiudicare l'accesso al mercato per gli operatori economici di
altri Stati membri.

Entrambi i test sono sostanzialmente identici. Essi presentano delle analogie con il test applicato
dalla Corte per valutare se normative indistintamente applicabili tanto alle merci nazionali quanto a
quelle importate, costituiscano misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative. Il test verrà
applicato anche in campo di libera circolazione di capitali. Si può pertanto parlare di approccio
globale utilizzabile per qualificare come ostacoli alle libertà di circolazione in generale, quelli
derivanti da normative indistintamente applicabili.

8. La “direttiva servizi”

La direttiva servizi è la dr. 2006/123/CE del Parlamento europeo e del COnsiglio relativa ai servizi nel
mercato interno.
Trattandosi di un testo complesso, non è possibile procedere ad un suo studio completo, ma è
interessante verificare se e in che misura la disciplina contenuta nella direttiva consente di
raggiungere un grado di liberalizzazione maggiore rispetto ai risultati conseguiti dalla giurisprudenza
in tema di diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi.

Di seguito un esame sulle disposizioni che riguardano più direttamente il diritto di stabilimento (Capo
III) e la libera prestazione dei servizi (Capo IV).

Il Capo III è dedicato alla libertà di stabilimento dei prestatori ed è rivolto a facilitare l’esercizio del
diritto di stabilimento.
Le norme contenute nel Capo III si occupano di due profili:

- i regimi di autorizzazione, intesi come qualsiasi procedura che obbliga un prestatore o un


destinatario a rivolgersi ad un’autorità competente allo scopo di ottenere una decisione formale o
una decisione implicita relativa all’accesso ad un’attività di servizio o al suo esercizio;

- i requisiti, intesi come qualsiasi obbligo, divieto o condizione, imposto da qualsiasi fonte a
chiunque voglia accedere o esercitare una determinata attività di servizi.

La direttiva pone dei limiti al potere degli Stati membri di prevedere regimi o imporre requisiti del
genere. Per valutarne l’importanza occorre distinguere tra:

- prestatori che intendono stabilirsi in uno Stato membro diverso dal proprio, esercitando così la
libertà prevista dall’art. 49;

- prestatori che intendono accedere e esercitare un’attività di servizi nel proprio Stato membro
d’origine.

Per la prima categoria di soggetti il valore della direttiva consiste nell’aver tradotto in norme scritte e
nell’aver dettagliato principi che difettavano di conoscibilità e di sistematicità.

L’importanza delle norme del Capo III è maggiore per i soggetti che siano già stabiliti nello Stato
membro in causa e che, secondo l’impostazione seguita dalla Corte, non esercitando il diritto di
stabilimento ai sensi dell’art. 49, ma ricadono in situazioni puramente interne.

Per la portata generale delle due norme in materia di diritto di stabilimento potrebbe dirsi che la
direttiva ha un effetto di forte liberalizzazione nel settore dei servizi.

Il Capo IV è dedicato alla libera prestazione di servizi e deroghe relative.

A differenza della maggior parte delle disposizioni del Capo III sul diritto di stabilimento, gli artt
concernenti la libera prestazione di servizi non hanno per loro stessa natura portata generale ma si
riferiscono solo a situazioni transfrontaliere in cui il prestatore o il destinatario sono stabiliti in uno
Stato membro diverso da quello della prestazione.

Da tali norme non discende un effetto di liberalizzazione del settore dei servizi in generale ma solo
limitatamente alle situazioni che implicano un movimento del prestatore o del destinatario del
servizio.

In questo ambito, la direttiva contiene disposizioni che hanno un rilevante contenuto innovativo
rispetto ai risultati finora raggiunti dalla giurisprudenza.

In particolare, l’art. 16 par 1 costituisce una norma chiave nell’economia dell’intera direttiva: i primi
due commi ribadiscono obblighi a carico degli Stati membri già contenuti nell’art. 56 TFUE: l’obbligo
di rispettare il diritto dei soggetti stabiliti in un altro Stato membro di esercitare sul proprio territorio
attività di servizi e l’obbligo di permettere il libero accesso e esercizio a tali attività sul proprio da
parte di tali soggetti.

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Un grande passo in avanti è contenuto nel terzo comma dell’art. 16.

La norma ammette che gli Stati membri possono subordinare l’accesso e l’esercizio di un’attività di
servizi a requisiti purchè siano rispettate le seguenti condizioni:

a) non discriminazioni;

b) necessità;

c) proporzionalità.

La novità è nella seconda condizione: i requisiti devono essere giustificati da ragioni di ordine
pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o di tutela di salute pubblica.
I destinatari di servizi beneficiano della libera prestazione dei servizi

9. Il riconoscimento delle qualifiche professionali

L'art.53 prevede che le istituzioni adottino direttive aventi per oggetto il reciproco riconoscimento dei
diplomi, certificati ed altri titoli.

La Corte si interroga se il riconoscimento delle qualifiche professionali non costituisca l'oggetto di un


obbligo derivante direttamente dal TFUE.

Una prima risposta affermativa alla questione se esista un obbligo di riconoscimento in mancanza
di direttive applicabili è venuta da alcune sentenze alquanto risalenti nel tempo. Secondo queste
prime pronunce, gli Stati membri, pur in mancanza di direttive ai sensi dell'art. 53, sono tenuti a
concedere ai cittadini di altri Stati membri, che intendono esercitare ad es. il diritto di stabilimento, il
riconoscimento di diplomi acquisiti in altri Stati membri, tutte le volte che ciò risulti possibile in
applicazione di norme nazionali: le norme nazionali in materia di riconoscimento di diplomi stranieri,
infatti, dovevano essere interpretate ed applicate dalle autorità nazionali in conformità con gli
obiettivi del TFUE. La portata di questa prima risposta fornita dalla Corte era tuttavia incerta, dal
momento che essa sembrava far dipendere l'esistenza in capo agli Stati membri di un obbligo di
riconoscimento della presenza di norme nazionali che consentano tale risultato. Successivamente la
Corte ha assunto una posizione meno cauta e ha chiarito l'obbligo di riconoscimento in mancanza di
direttive discende direttamente dal TFUE. In particolare si afferma che uno Stato membro, il quale
subordini l'accesso ad una determinata attività al possesso di un diploma o una qualifica
professionale, è tenuto a "prendere in considerazione i diplomi, certificati e gli altri titoli che
l'interessato ha acquisito ai fini dell'esercizio della medesima professione in un altro Stato membro,
procedendo ad un raffronto tra le competenze attestate da questi diplomi e le conoscenze qualificate
richieste dalle norme nazionali.

Nel corso degli anni sono state emanate numerose direttive per il riconoscimento.

Vi è una direttiva nota come direttiva qualifiche professionali.

Essa distingue i casi in cui la persona in possesso di una qualifica professionale ottenuta in uno
Stato membro intenda avvalersi di tale qualifica per operare in un altro Stato membro in regime di
libera prestazione di servizi, da quelli in cui tale persona intenda stabilirsi in un altro Stato.

In caso di semplice libera prestazione di servizi la direttiva non richiede più un vero e proprio
riconoscimento. La regola generale infatti è che "gli Stati membri non possono limitare, per ragioni
attinenti alle qualifiche professionali, la libera prestazione di servizi in un altro Stato, se il prestatore è
legalmente stabilito in uno Stato membro per esercitare la stessa professione". Il libero prestatore
deve tuttavia inviare alle autorità competenti dello Stato membro in cui intende esercitare, una
dichiarazione preventiva, con allegati i documenti che comprovano il suo diritto.

Per il caso in cui la persona interessata intenda invece esercitare la libertà di stabilimento in un
altro Stato membro come lavoratore subordinato o autonomo, la direttiva prevede tre diversi regimi
di riconoscimento:

- il regime generale;

- il riconoscimento dell'esperienza professionale;

- il riconoscimento in base al coordinamento delle condizioni minime di formazione.

Come dice il termine, il primo regime, il regime generale di riconoscimento, ha portata generale in
quanto si applica a tutti i diplomi per i quali non sia applicabile un altro sistema di riconoscimento
disciplinato dalla direttiva.

L'idea su cui il regime generale si fonda, è che laddove non siano ancora intervenute direttive
d'armonizzazione specifiche, il livello e la durata della formazione alla quale è subordinato l'accesso
alle professioni e il loro esercizio sono sostanzialmente equivalenti nei vari Stati membri. Di
conseguenza, lo Stato membro che subordini l'accesso ad una determinata professione al possesso
di determinate qualifiche professionali (professione regolamentata): deve permettere l'accesso e
l'esercizio di tale professione al cittadino di un altro Stato membro, quando questi sia titolare
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dell'attestato di competenza o del titolo di formazione prescritto da un altro Stato per accedere alla
medesima professione o per esercitarla sul suo territorio. Si tratta di casi di un riconoscimento non
automatico, in quanto subordinato ad una verifica da parte delle autorità dello Stato ospitante.

Il regime di riconoscimento dell'esperienza professionale riguarda le attività di carattere per lo


più industriale, commerciale e artigianale. Si tratta di attività il cui accesso o esercizio è subordinato,
in uno Stato membro, al possesso di conoscenze e competenze generali, commerciali o
professionali. In questi casi lo Stato membro riconosce come prova sufficiente di tali conoscenze e
competenze, l'aver esercitato l'attività considerata in un altro Stato membro. Il regime di
riconoscimento in base al coordinamento delle condizioni minime di formazione, è applicabile
ad un numero ristretto di professioni, prevalentemente di natura sanitaria: medici, infermieri, sanitari,
dentisti, ecc..

Ogni Stato membro riconosce i titoli di formazione che danno accesso alle professioni di cui sopra e
si assicura che siano conformi alle condizioni minime di formazione, specificate negli artt. e
attribuisce loro, ai fini dell'accesso alle attività professionali, e del loro esercizio, gli stessi effetti sul
suo territorio che hanno i titoli di formazione che esso rilascia. Avviene in questo caso un
riconoscimento automatico poiché non si richiede la verifica della corrispondenza dei titoli e delle
qualifiche.

Qualunque sia il regime di riconoscimento, la persona interessata, dunque, deve sottoporsi ad una
procedura di riconoscimento delle qualità professionali.

CAPITOLO VI: LE REGOLE DI CONCORRENZA APPLICABILI ALLE IMPRESE

1. Quadro normativo

Il TFUE definisce le regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno. Le


disposizioni che si occupano di questo aspetto sono gli artt. da 101 a 109, divisi in due sezioni.

La prima, composta dagli artt. da 101 a 106 dedicata alle regole applicabili alle imprese e contiene
disposizioni che impongono dei divieti di comportamento. La seconda invece si occupa degli aiuti
statali alle imprese.

I divieti previsti mirano ad abolire gli ostacoli all'unificazione dei mercati nazionali e sono volti ad
impedire che tale unificazione sia vanificata da comportamenti delle imprese aventi come oggetto o
come effetto di isolare i singoli mercati nazionali. In questa prospettiva, le regole di concorrenza
applicabili alle imprese contribuiscono a raggiungere l'obiettivo del mercato unico. Le regole di
concorrenza in esame costituiscono di per se un importante fattore di progresso economico. In un
regime di concorrenza leale e non falsata, le imprese hanno infatti interesse a lavorare in maniera
efficiente, offrendo prodotti o servizi migliori a prezzi più bassi e producendo così maggiore
ricchezza. In particolare, si è andato diffondendo il convincimento che un regime di concorrenza
libera rappresenta uno strumento a vantaggio dei consumatori.

Oltre alle citate fonti di primo grado, vi è un buon numero di fonti derivate. La materia è dunque
disciplinata da regolamenti di secondo grado adottati dalla commissione previa consultazione del
Parlamento Europeo. Tale istituzione, inoltre, pubblica con grande frequenza atti non obbligatori
rientranti nel genere delle comunicazioni ma rispondenti a denominazioni diverse: orientamenti, linee
guida, disciplina, e altro ancora. Pur non assumendo valore normativo, detti atti rivestono comunque
grande importanza in quanto creano negli interessati la legittima aspettativa che la commissione
stessa li rispetterà. Per completare il quadro delle fonti si fa riferimento anche alla prassi.

I divieti sono dotati di efficacia diretta e sono suscettibili, pertanto, di essere applicati dai giudici
nazionali nell'ambito dei giudizi di loro competenza.

2. Regole applicabili alle imprese e obblighi degli Stati membri

I citati articoli sono diretti soprattutto alle imprese e a queste impongono dei divieti. Tuttavia da tali
disposizioni discendono anche degli obblighi a capo degli Stati membri. Secondo la
giurisprudenza, l'obbligo di astensione a carico degli Stati membri può risultare violato in due casi.

Un primo caso si verifica quando le misure statali provocano un rafforzamento degli effetti di
un'intesa contraria all'art.101; un secondo caso si realizza nell'ipotesi di delega da parte dei poteri
pubblici di proprie competenze ad operatori privati. Casi del genere si realizzano quando
l'autorità pubblica prevede che, nel procedimento per l'assunzione di determinate decisioni in
materia economica sia richiesto l'intervento di un organo cui partecipano rappresentanti delle
categorie economiche interessate e che tale intervento sia strutturato in maniera tale che la
componente rappresentativa degli interessi privati sia in grado di determinare il contenuto delle
decisioni. Nel caso di misure nazionali che impongano la conclusione di intese vietate dall'art.101, si
pone il problema di stabilire se l'esistenza di tali misure escluda la responsabilità delle imprese
18
coinvolte o se queste possano comunque subire le sanzioni previste per la violazione di tale articolo.
Secondo la giurisprudenza in questi casi occorre domandarsi se le misure nazionali lascino
sopravvivere un certo grado di concorrenza. In caso di risposta affermativa, le imprese sarebbero
responsabili di aver concluso un'intesa che, utilizzando il margine di manovra concesso dalla
manovra statale, elimina ogni residuo di margine di concorrenza. Qualora invece sia dimostrato che
la normativa nazionale non lascia alle imprese alcun potere discrezionale ed elimina ogni forma di
concorrenza, le imprese non possono essere considerate responsabili di alcuna violazione
dell'arti.101.

3. Portata delle regole applicabili alle imprese

Ci riferiamo agli artt.101 e 102. Le regole in esame non riguardano che alcuni aspetti della disciplina
della concorrenza e, in particolare, la repressione di quei comportamenti delle imprese che siano
suscettibili di pregiudicare il commercio tra gli Stati membri. La competenza dell'Unione in materia
non può dirsi esclusiva e lascia intatta la competenza degli Stati membri in riferimento a quei
comportamenti delle imprese che abbiano effetti anticoncorrenziali sul piano meramente nazionale.
Può capitare che il comportamento di un'impresa sia rilevante tanto per gli artt.101 e 102 quanto per
la disciplina nazionale della concorrenza.

Si pone pertanto il problema dell'applicazione parallela del diritto della concorrenza dell'Unione
e nazionale ad una medesima fattispecie. In teoria, esistono due soluzioni al problema.

Una prima, detta della doppia barriera, consiste nel considerare applicabili tanto il diritto dell'Unione
quanto quello nazionale.

Una seconda soluzione, detta della barriera unica, postula invece che le fattispecie che ricadono
nel campo d'applicazione del diritto dell'Unione siano sottratte all'applicazione del diritto nazionale.

La Corte ha preferito la prima soluzione e ha ammesso la possibilità di un'applicazione parallela di


entrambi i diritti alla medesima fattispecie, ma ha imposto che ciò avvenisse nel rispetto del
principio del primato del diritto del'Unione su quello nazionale.

Un problema analogo è dato dall'applicazione extraterritoriale delle norme dell'Unione sulla


concorrenza, cioè dalla possibilità di farle valere nei confronti di imprese appartenenti a Stati terzi. Si
tratta di stabilire in quali casi una tale applicazione sia ammissibile. Si discute se come criterio di
collegamento tra l'ordinamento dell'Unione e la fattispecie sia sufficiente che gli effetti
anticoncorrenziali del comportamento delle imprese con sede al di fuori dell'Unione si facciano
sentire nel mercato interno (teoria degli effetti) o se sia altresì necessaria una certa "localizzazione"
del comportamento stesso nel territorio dell'Unione (teoria della territorialità). Laddove era
possibile provare che il comportamento era stato posto in essere, sia pur parzialmente, all'interno
del territorio dell'Unione, anche attraverso filiali o agenti delle imprese interessate, la Corte ha fatto
riferimento a questa circostanza per legittimare l'intervento della Commissione. Successivamente la
Corte ha dato maggiore risalto al fatto che l'intesa, benché conclusa, al di fuori del territorio
dell'Unione, da imprese stabilite in Stati terzi, avesse tuttavia prodotto effetti restrittivi alla
concorrenza sul mercato unico.

La Corte definisce impresa "qualsiasi entità che esercita un'attività economica".

Tale è qualsiasi attività che consiste nell'offerta di beni e servizi sul mercato. Qualora l'attività svolta
abbia natura economica, anche un ente pubblico può essere considerato impresa. Può darsi che un
ente pubblico eserciti contemporaneamente attività in quanto pubblica autorità e in quanto attività
economiche. In questo caso, l'assoggettamento agli articoli riguarderà solo le attività del secondo
tipo, sempre che siano separabili dalle prime. Anche i liberi professionisti sono da considerarsi
imprese. Inoltre non è possibile esentare dall'applicazione delle regole di concorrenza le entità che
svolgano un'attività qualificabile come economica ma che non perseguono un fine di lucro. Non
costituiscono invece attività economiche quelle che assolvono una funzione di carattere
esclusivamente sociale.

4. Divieto di intese

L'art.101 stabilisce: "sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese,
tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possono pregiudicare
il commercio tra gli Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o
falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato interno".

Nozione d'intesa: presuppone l'esistenza di almeno due soggetti che tra di loro la pongono in
essere. Fa infatti sempre riferimento ad una pluralità d'imprese.

Tale pluralità manca qualora a dar vita a un comportamento definibile intesa sono due o più imprese
indipendenti da un punto di vista giuridico, ma strettamente collegate tra di loro da un punto di vista
19
economico, così che si possa parlare di un'unica impresa (principio dell'unità economica). Il caso
tipico è quello di una società madre che controlla una o più società figlie. Perché casi del genere non
rientrino nel campo d'applicazione dell'articolo, non basta un mero rapporto di dipendenza ma
occorre che il controllo di una società sull'altra o sulle altre sia completo ed effettivo, in modo tale
che la società controllata non sia autonoma del proprio comportamento sul mercato. Il criterio di
unità economica viene applicato anche nel caso di rapporti tra fornitore e distributore quando
quest'ultimo, pur essendo giuridicamente indipendente rispetto al primo, non sopporta in proprio
alcun rischio per l'attività economica di cui trattasi.

Secondo la giurisprudenza, esistono tre forme di intesa:

> L'accordo presuppone l'esistenza di un vero e proprio incontro di volontà tra le parti.

È sufficiente che le parti abbiano espresso la loro comune volontà di comportarsi sul mercato in un
determinato modo e abbiano concluso un gentlemen's agreement che rappresenta la fedele
espressione della comune volontà dei membri circa il loro comportamento sul mercato comune. Non
è necessario che l'accordo sia giuridicamente vincolante e valido ai sensi del diritto nazionale, né
che sia redatto in forma scritta e nemmeno che la sua accettazione risulti per iscritto, potendo
bastare anche un comportamento tacito della parte che è stata invitata a comportarsi in un
determinato modo.

Nel contesto dei rapporti contrattuali tra produttori/fornitori e distributori/rivenditori, risulta


talvolta particolarmente difficile stabilire se si sia in presenza di un accordo restrittivo della
concorrenza voluto dal produttore ma tacitamente accettato dal distributore, ovvero se si tratti di una
decisione unilaterale.

> La pratica concordata non richiede una manifestazione di volontà reciproca tra le parti. Secondo
la giurisprudenza, corrisponde ad una forma di coordinamento delle imprese che, senza essere stata
spinta fino all'attuazione di un vero e proprio accordo, costituisca una consapevole collaborazione
tra le imprese stesse a danno della concorrenza.

Quando si riscontra che le imprese operanti sul mercato agiscono in maniera identica o simile
(parallelismo di comportamenti), occorre dunque provare che tale fenomeno non è il frutto
dell'autonoma scelta di ciascuna impresa, ma il risultato di una concertazione.

Una prova difficilmente confutabile che il comportamento delle imprese appartenenti allo stesso
mercato ha alle spalle una concertazione è che queste hanno tenuto tra di loro riunioni periodiche
ovvero hanno dato vita a un periodico scambio di informazioni che normalmente dovrebbero
essere riservate.

> Le decisioni di associazioni di imprese. Per associazione d'impresa s'intende qualunque


organizzazione che riunisca le imprese operanti in un certo mercato. Il termine decisione copre tanto
il caso di una raccomandazione adottata da un'associazione che sia obbligatoria per tutti gli
associati, quanto il caso di una raccomandazione che sia stata accettata da un gran numero di
associati.

Perché un'intesa ricada nel divieto dell'art.101, devono essere soddisfatte due condizioni:

a) L'intesa deve essere in grado di provocare, anche solo potenzialmente, un pregiudizio al


commercio tra gli Stati membri.

b) Essa deve avere per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della
concorrenza all'interno del mercato interno (pregiudizio alla concorrenza).

In mancanza della prova che l'intesa abbia già pregiudicato gli scambi intracomunitari o la
concorrenza, sono sufficienti gli effetti potenziali che un'intesa è in grado di produrre.

Cominciando dal requisito del pregiudizio alla concorrenza, è sufficiente che la restrizione alla
concorrenza costituisca oggetto o effetto dell'intesa.
Tra le intese che comportano restrizioni per oggetto, si segnalano per la loro gravità (hard-core
restrictions) quelle che prevedono la fissazione dei prezzi e la ripartizione del mercato.

Le restrizioni alla concorrenza possono derivare sia da intese concluse da imprese che operano allo
stesso livello del ciclo produttivo (intese orizzontali) e che siano dunque in concorrenza diretta tra di
loro, sia da intese concluse da imprese operanti a livelli differenti (intese verticali). Esempi tipici di
intese orizzontali sono costituiti dagli accordi tra produttori di un medesimo tipo di prodotto o
servizio avente lo scopo di ripartirsi tra loro i mercati.

Possono costituire intese verticali gli accordi di distribuzione, come anche gli accordi di acquisto o di
fornitura. In genere, tuttavia, tali accordi sono presi in considerazione non nella loro individualità ma

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per l'effetto cumulativo che una rete di accordi dello stesso tipo può produrre sul gioco della
concorrenza.

Gli accordi di distribuzione non sono vietati dall'art.101 in se, ma solo se presentano contenuti tali
da restringere la concorrenza sul mercato interno.

Sono senz'altro vietati gli accordi di distribuzione esclusiva.


Con maggiore favore sono considerati invece gli accordi di distribuzione selettiva, nell'ambito dei
quali i distributori vengono scelti in base a criteri di qualità e professionalità. Quanto agli accordi di
acquisto fornitura, essi possono essere considerati contrari all'art.101 nella misura in cui si
configurano come accordi di acquisto esclusivo e si inseriscono in una rete di accordi analoghi tali
da rendere difficile l'accesso al mercato da parte di nuovi concorrenti.

Un pregiudizio alla concorrenza può aversi sia se ad essere ristretta è la concorrenza tra imprese che
operano con prodotti di un'unica marca (concorrenza intrabrand), sia se l'intesa restringe la
concorrenza tra imprese che operano con prodotti di marche diverse (concorrenza interbrand).
Quanto al pregiudizio al commercio tra gli Stati membri, la giurisprudenza ritiene che si possa
parlare di esso in presenza di qualunque intesa che incide sulla libertà del commercio fra Stati
membri, in un senso che possa nuocere alla realizzazione degli scopi di un mercato unico fra gli
Stati, isolando i mercati nazionali o modificando la struttura della concorrenza nel mercato comune.

L'aspetto più interessante affrontato dalla giurisprudenza riguarda un pregiudizio agli scambi tra Stati
membri nel caso di intese nazionali, cioè intese concluse tra imprese appartenenti ad uno stesso e
unico Stato membro e destinate ad operare solo in quel mercato nazionale. In generale intese del
genere sfuggono al campo d'applicazione dell'art. 101, ma esse comunque, abbracciando l'intero
territorio nazionale, per natura tendono a rinforzare le barriere nazionali, ostacolando ciò che il
trattato prevede, ossia la compenetrazione economica.

Perchè un'intesa rientri nel campo d'applicazione dell'art 101, essa deve essere in grado di produrre
un pregiudizio al commercio e una restrizione della concorrenza di una certa rilevanza (pregiudizio
sensibile).

Esiste pertanto una soglia al di sotto della quale le eventuali restrizioni al commercio tra Stati membri
o alla concorrenza non fanno scattare il divieto in esame. (c.d. de minimis).

La seconda parte dell'art 101 contiene un elenco dei possibili contenuti che puo' presentare
un'intesa anticoncorrenziale :

- fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o vendita ovvero altre condizioni di


transazione;

- limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti;

- ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;

- applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni diverse per prestazioni
equivalenti, cosi da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza;

Il divieto di intese non é assoluto. L'art. prevede di inapplicare il divieto ad un'intera categoria di
intese. La possibilità di concedere una dichiarazione di inapplicabilità (detta anche esenzione) è
subordinata a quattro condizioni cumulative, di cui due positive e due negative.

In particolare occorro che le intese:

- contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il


progresso tecnico ed economico. Deve tradursi in un miglioramento oggettivo;

- riservino agli utilizzatori, intesi come i consumatori (vantaggio per i consumatori), una

congrua parte dell'utile dell'accordo.

Le intese, invece, non devono:

- imporre alle imprese necessarie restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali
obiettivi. Impone dunque l'eventuale dimostrazione della indispensabilità della restrizione alla
concorrenza. Anche in questo campo viene introdotta una valutazione da effettuare secondo il
principio di proporzionalità;

- dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte di prodotti di cui trattasi.
Esige un mantenimento della concorrenza in una parte sostanziale dei prodotti in questione.

L'art. 101, infine, prevede anche una sanzione per il caso di non rispetto del divieto: la nullità. Essa
riguarda solo due delle tre categorie di intese: gli accordi e le decisioni di associazione di imprese.
Può essere assoluta (l'accordo pertanto è privo di effetti nei rapporti tra i contraenti), o parziale, nel
senso che riguarda non l'accordo nel suo complesso, ma solo alcune clausole vietate dall'art.

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5. Il divieto di abuso di posizione dominante
L'art. 102 stabilisce che è incompatibile col mercato interno e vietato lo sfruttamento abusivo, da
parte di una o più imprese, di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte
sostanziale di esso, qualora tale comportamento possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati
membri.

Oggetto del divieto previsto dalla norma non è dunque la detenzione o acquisizione di una
posizione dominante da parte di un'impresa, ma soltanto lo sfruttamento abusivo.

Il TFUE infatti non contiene norme che impediscano l'acquisizione o il mantenimento di posizioni
monopolistiche o oligopolistiche.

Spesso l'art. 102 trova applicazione in ipotesi in cui lo sfruttamento della posizione dominante è
attribuibile ad un'unica impresa (posizione dominante individuale).

Nell'ambito del diritto dell'Unione, la nozione di impresa va considerata come unità in senso
economico e dunque comprensiva anche di eventuali imprese affiliate; per questo motivo, si
parlerebbe di posizione dominante di gruppo.

Il testo inoltre prevede anche l'ipotesi di una posizione dominante tenuta da più imprese; si parla di
posizione dominante collettiva. Tale situazione si verifica in presenza di più imprese tra loro
indipendenti, ma tuttavia unite da vincoli economici e per tale motivo, esse detengono insieme una
posizione dominante rispetto ad altri.

La Corte ha affermato che, per poter stabilire se si tratti o meno di un tale tipo di posizione
dominante (collettiva), è necessario esaminare se le imprese interessate costituiscano insieme
un'entità collettiva nei confronti dei concorrenti. Solo se questa prima condizione risulta soddisfatta
si può passare ad esaminare se le imprese interessate detengono in questo mercato posizioni
dominanti e se vi è sfruttamento abusivo.

Per stabilire se l'art. 102 è violato, di solito si procede attraverso un'indagine articolata in tre fasi:

- in primo luogo si individua il mercato rilevante (relevant market), cioè il mercato sul quale si
presume che l'impresa oggetto di indagine potrebbe detenere la posizione dominante. Questo va
definito in termini sia geografici, che di prodotti o servizi. Si parla di mercato geografico nel
primo caso e si prende in considerazione l'intero mercato interno di un paese o, in alternativa,
un'area più ristretta purchè si tratti comunque di una parte sostanziale di mercato interno; Si
deve inoltre prendere in considerazione il mercato dei prodotti, non solo quelli identici a quelli
dell'impresa in questione, ma anche quelli che presentano rispetto a questi un certo grado di
intercambiabilità o sostituibilità reciproca.

- in secondo luogo si stabilisce se all'interno del mercato rilevante, la posizione dell'impresa può
essere definita come dominante. La nozione di posizione dominante fornita dalla
giurisprudenza è quella secondo la quale un'impresa che la detiene è in grado di ostacolare la
persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato in questione ed ha la possibilità di tenere
comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti e dei consumatori.
Per stabilire quando una sussiste una tale posizione, numerosi sono i fattori da prendere in
considerazione. la valutazione della sola quota di mercato detenuta da un'impresa non basta,
benchè estremamente importante. Gli altri fattori si riferiscono alla struttura dell'impresa, il
numero e la forza dei concorrenti in rapporto all'impresa dominante e l'esistenza o meno di
barriere all'ingresso sul mercato da parte di nuovi concorrenti.

- si esamina se il comportamento in posizione dominante presenta un abuso. Può accadere che


non vi sia coincidenza tra il mercato rilevante, sul quale domina l'impresa, e il mercato sul quale si
verifica l'abuso. L'es. tipico é quello di un'impresa dominante sul mercato di una materia prima
che sfrutta la sua posizione sul mercato dei prodotti derivati da tale materia. La nozione di
sfruttamento abusivo, secondo la Corte, riguarda un comportamento oggettivo di posizione
dominante di un'impresa, atto ad influire sulla struttura di un mercato già indebolita, in cui il grado
di concorrenza viene sminuito. Ciò comporta una particolare responsabilità a carico
dell'impresa dominante, la quale non deve compromettere col suo comportamento lo
svolgimento di una concorrenza non falsata nel mercato comune. Essa è dunque soggetta a dei
limiti d'azione più gravosi rispetto ad un'impresa non dominante.

Le pratiche abusive possono essere distinte secondo i loro effetti sulla concorrenza in:

- abusi di sfruttamento (explotative abuses). L'impresa tende a massimizzare il profitto che può
trarre dalla sua posizione sul mercato, imponendo condizioni che non le sarebbe consentito di
applicare in un mercato concorrenziale.

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- abusi di esclusione (exclusionary abuses). Mirano a proteggere o incrementare la posizione
dell'impresa dominante, espellendo dal mercato attuali concorrenti o impedendo a concorrenti
potenziali di entrarvi.

Gli abusi possono essere distinti inoltre in base al loro contenuto:

- prezzi eccessivi o non equi. L'abuso si verifica quando l'impresa dominante pratica prezzi privi di
ogni ragionevole rapporto con il valore economico della prestazione fornita.

- prezzi discriminatori. Un'impresa dominante, considerata la sua posizione di forza sul mercato,
non è libera di decidere di praticare prezzi differenti per prestazioni equivalenti, a meno che non
siano oggettivamente giustificati ad esempio da diversità nelle spese di trasporto.

- prezzi predatori. Costituisce abuso praticare prezzi troppo bassi.

- sconti sui prezzi. Anche una politica di sconti, se praticata da un'impresa in posizione dominante,
può costituire abuso. In particolare gli sconti fedeltà, i quali sono legati all'impegno di rifornirsi
esclusivamente dall'impresa dominante.

- tying and building agreements. Tale pratica abusiva consiste nel subordinare la conclusione dei
contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro
natura, non abbiano alcun nesso con l'oggetto del trattato stesso.

- rifiuto di vendere. Rifiuto da parte di un'impresa dominante di vendere i propri prodotti o servizi
ad un'impresa che ne faccia richiesta. L'abuso é particolarmente grave se l'impresa richiedente
era un abituale cliente dell'impresa dominante.

- rifiuto di accesso a essential facilities. Si tratta di un orientamento tendente a considerare le


imprese in una posizione dominante come soggette all'obbligo di consentire ai concorrenti
l'accesso a proprie strutture o servizi quando si tratti di essential facilities, cioè di strutture o
servizi in mancanza dei quali l'attività in questione non potrebbe essere svolta.

Perché l'abuso di una posizione dominante sia vietato, è necessario che produca un pregiudizio al
commercio tra Stati membri.

Il divieto è assoluto e non è possibile alcuna condizione di inapplicabilità.

6. Le procedure per l’applicazione degli artt. 101 e 102

Il compito di applicare le regole, é affidato:

- alla Commissione;

- alle autorità degli Stati membri competenti in materia (autorità nazionali o ANC);

- ai giudici nazionali;

Il primo regolamento d'applicazione degli articoli, aveva riservato alla Commissione un ruolo
primario. La sua competenza prevaleva su quella delle ANC.

Queste potevano esse stesse applicare gli artt. 101 e 102 seguendo la legislazione del proprio Stato,
ma il loro potere veniva meno nel momento in cui la Commissione dava inizio alla procedura per
adottare una decisione.

Quanto ai giudici nazionali, questi erano in grado di applicare autonomamente gli artt. nei giudizi di
propria competenza, trattandosi di norme di efficacia diretta. Tuttavia i giudici erano tenuti a
rispettare le eventuali decisioni già adottate dalla Commissione a proposito della medesima
fattispecie, ma diversamente dalle autorità nazionali, i giudici nazionali non perdevano la loro
competenza nell'applicare gli artt. Erano comunque invitati dalla Commissione a sospendere il
proprio giudizio.

Tutto ciò mostra come il ruolo della Commissione fosse dominante.

Essa, soprattutto, era l'unica a potere adottare a favore di un'intesa una decisione di inapplicabilità
del divieto. Questo limite, rendeva monco il potere delle autorità nazionali e spingeva le imprese
interessate a preferire il coinvolgimento della Commissione. L'esperienza in materia, da essa
accumulata, garantiva un intervento senz'altro più efficace di quello che potevano assicurare i giudici
nazionali o le autorità nazionali.

Questa situazione aveva prodotto degli inconvenienti. Il carico di lavoro della Commissione, col
tempo, era divenuto insopportabile. I tentativi che consentissero a questa istituzione di rifiutarsi di
prendere posizione su quei casi che presentassero meno carattere comunitario, avevano dato il via
ad un difficile contenzioso.

Il sistema precedente è stato perciò modificato nel senso di una maggiore decentralizzazione.

La chiave di volta del nuovo sistema consiste nell'abolizione del potere esclusivo della
Commissione di concedere esenzioni individuali e nel riconoscimento che le autorità nazionali,
quando applicano l'art.101, lo applicano nella sua interezza. Essi perciò non possono soltanto
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accertare che si è in presenza di un'intesa contraria agli artt., ma devono anche verificare se sono
soddisfatte le condizioni previste. Si è passato così da un regime di autorizzazione (riservata alla
Commissione) ad un regime di eccezione direttamente applicabile da parte di tutti gli organi
competenti.

Anche in questo mutato contesto, la Commissione conserva un ruolo centrale, anche se meno
operativo.

Essa dispone infatti di un amplissimo potere di decisione che può esprimersi in diverse forme:

- decisione di mera contestazione di infrazione. Qualora l'infrazione sia già cessata ma la


Commissione abbia un legittimo interesse a constatarla.

- decisione inibitoria. Avendo constatato l'esistenza di un'infrazione ancora in atto, la


Commissione obbliga le imprese o le associazioni di imprese interessate a porre fine all'infrazione,
imponendo rimedi (comportamentali o strutturali) che debbono essere attuati a questo fine.

- decisione comminatoria di ammende. Generalmente la decisione inibitoria contiene anche


l'obbligo a carico delle imprese interessate di pagare un'ammenda di valore che non deve
superare il 10% del fatturato totale realizzato durante l'esercizio sociale precedente.

- decisione di accettazione di impegni. In alternativa ad una decisione inibitoria, la Commissione


rende obbligatori per le imprese gli impegni offerti dalle imprese interessate per rispondere alle
loro preoccupazioni. L'intervento della Commissione non è più giustificato fintanto che gli impegni
sono rispettati.

- decisione di irrogazione di penalità mora. Una penalità di mora, il cui importo può giungere fino
al 5% del fatturato medio giornaliero realizzato durante l'esercizio sociale precedente, può essere
irrogata per costringere le imprese interessate a porre fine ad un'infrazione, rispettare le misure
cautelari disposte, rispettare gli impegni accettati.

- decisione di constatazione di inapplicabilità. Nonostante il nuovo sistema basato sul principio


dell'eccezione, la Commissione per ragioni di interesse pubblico e comunitario e d'ufficio può
procedere ad una constatazione di inapplicabilità dell'art. 101 ad una specifica intesa.

- decisione che adotta misure cautelari.


- decisione di rigetto di una denuncia. Possibilità per la Commissione di respingere una denuncia
relativa ad un'intesa o a una pratica già esaminata o trattata da autorità nazionale della
concorrenza.

- decisioni di revoca. La Commissione può revocare, in casi specifici il beneficio di un regolamento


di esenzione per categoria.

In conclusione, la Commissione dispone di un potere decisionale ampio ed articolata. Tuttavia,


rispetto al passato ne fa un uso più raro.

Anche nel nuovo sistema resta affidato alla Commissione il potere normativo di adottare regolamenti
che dichiarano l'inapplicabilità del divieto di cui l'art. 101 ad intere categoria di intese (esenzioni per
categoria). La competenza a prevedere esenzioni per categoria spetta in realtà al Consiglio, il quale
però si è finora limitato ad adottare dei regolamenti di primo grado nei quali si indica le categorie di
intese esentabili e, si affida poi, alla Commissione, il compito di stabilire con i propri regolamenti di
secondo grado se, e a quali condizioni l'esenzione entrerà in vigore. Tale potere normativo è
completato da un potere di revoca in casi specifici, del beneficio dell'esenzione per categoria,
qualora si constati che un accordo, una decisione o una pratica concordata cui si applica il
regolamento dell'esenzione, ha effetti incompatibili con l'art 101.

Dopo aver precisato che le autorità nazionali della concorrenza sono competenti ad applicare gli artt.
101 e 102 in casi individuali, stabilisce che a tal fine, esse possono adottare le seguenti decisioni:

- ordinare la cessazione di un'infrazione (decisioni inibitorie);

- disporre misure cautelari (decisioni cautelari);

- accettare impegni (decisioni di accettazione di impegni);

- comminare ammende, penalità di mora o qualunque altra sanzione prevista dal diritto nazionale
(decisioni sanzionatorie)

- decidere di non aver motivo di intervenire qualora in base alle informazioni di cui dispongono, non
sussistono le condizioni per un divieto.

Dispongono dunque di poteri del tutto analoghi a quelli della Commissione. Rispetto ad esse,
tuttavia, non si trovano in una posizione di eguaglianza, ma sono sottoposte al potere di
coordinamento della Commissione che si esprime nelle seguenti forme:

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- obbligo di informazione. le autorità nazionali devono informare la Commissione di tutti i casi che
intendono istruire ai sensi degli artt. 101 e 102, con un preavviso di almeno 30 giorni delle
decisioni che intendono adottare in proposito (cooperazione verticale);

- effetto preclusivo. L'avvio di un procedimento da parte della Commissione priva le autorità


nazionali del potere di procedere a loro volta in merito alla stessa fattispecie.

- obbligo di applicazione uniforme. Quando le autorità nazionali si pronunciano su accordi,


decisioni o pratiche che sono già oggetto della Commissione, non possono prendere decisioni
che siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione.

Anche tra le varie autorità nazionali viene instaurata una cooperazione orizzontale.

Tra la Commissione e le autorità si è pertanto creata una vera e propria rete (European Competition
Network - ECN) per agevolare la cooperazione e la distribuzione ottimale dei casi a favore
dell'autorità più idonea. Una lacuna che però viene messa in evidenza, è il fatto che nell'ambito
dell'ECN non sono previste vere e proprie norme che ripartiscano, in base a criteri predeterminati, la
competenza tra la Commissione e le ANC e tra queste. Eventuali conflitti vengono risolti a favore
della Commissione.

Quanto ai giudici nazionali, ora il potere è più pieno anche se nel momento in cui la Commissione
adotta una decisione, i giudici nazionali non possono adottarne un'altra che sia difforme.

In conclusione, vi è la posizione dei denuncianti, cioè di coloro che si rivolgono alla Commissione
chiedendone l'intervento per reprimere un comportamento contrario all'artt. 101 e

102. È previsto che detti soggetti interessati a denunciare il caso, presentino una denuncia alla
Commissione. Nel nuovo regime i denuncianti non hanno la stessa posizione giuridica che avevano
in passato. Ciò dipende dal fatto che, nel nuovo regime, le autorità nazionali e i giudici nazionali
dispongono ormai di poteri idonei a tutelare i soggetti aventi legittimo interesse di reprimere dei
comportamenti vietati dagli artt. Gli interventi della Commissione sono pertanto diretti a tutelare gli
interessi generali dell'Unione, piuttosto che a proteggere interessi dei singoli.

7. Le imprese pubbliche e le imprese incaricate della gestione


di servizi di interesse economico generale

Il TFUE non impedisce agli Stati membri di conservare o creare delle imprese pubbliche.
Indipendentemente dalla loro natura pubblica o privata, le imprese sono soggette, nella stessa
misura, alle regole previste dal TFUE, in particolare a quelle in materia di concorrenza degli artt. 101
e 102.

Deve intendersi per impresa pubblica ogni impresa nei confronti della quale i poteri pubblici
possono esercitare, direttamente o indirettamente, influenza dominante per ragioni di proprietà o di
partecipazione finanziaria. Alle imprese pubbliche sono assimilate le imprese titolari di diritti
speciali o esclusivi, cioè di imprese anche private cui lo Stato attribuisce diritto esclusivo di
esercitare una certa attività.

Lo scopo dell'art. 106, non è di stabilire un regime speciale in favore delle imprese pubbliche o di
quelle titolari di diritti speciali o esclusivi. Esso è mirato a porre un obbligo speciale a carico degli
Stati membri, solo ai quali, la norma è rivolta, ossia quello di non emanare, nè mantenere in vigore
alcuna misura contraria alle norme del TFUE e in particolare agli artt. 101 e 102 nei confronti delle
imprese oggetto della norma stessa.

La portata di tale obbligo si venuta gradualmente delineando. In primo luogo, non costituisce la
violazione dell'artt. 102 e 106 la mera attribuzione di un diritto esclusivo di esercitare un'attività.

L'art. 106 è rivolto direttamente ad un tipo particolare di imprese: le imprese incaricate della
gestione di servizi di interesse economico generale. Lo scopo della norma è di limitare la
sottoposizione di tali imprese alle regole dei trattati, consentendola soltanto qualora ciò non
impedisca l'espletamento della missione di interesse economico generale a loro affidata.

L'art. pertanto consente una deroga alle norme dei trattati. In quanto tale, deve essere oggetto di
un'interpretazione restrittiva ogni sua componente.

La prima questione che occorre porsi riguarda la definizione della nozione di servizi di interesse
economico generale (SIEG). Secondo la Commissione questi sono quei servizi di natura
economica che, in virtù del criterio di interesse generale, gli Stati membri o la Comunità
assoggettano a specifici obblighi di servizio pubblico. Es. il servizio televisivo; costruzione e esercizio
della rete pubblica di telecomunicazione nazionale; il servizio postale, il trasporto e la distribuzione
della corrispondenza, fornitura elettrica; ecc.

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Molto spesso la gestione di questi servizi è effettuata mediante la concessione di un diritto di
esclusiva ad un'unica impresa.

A volte il gestore del servizio ha l'obbligo di fornire un servizio universale.

Per ricadere nel campo d'applicazione dell'art. 106, l'impresa deve essere stata incaricata dai
pubblici poteri di svolgere il servizio in questione. Per incarico si intende un atto della pubblica
autorità.

La misura derogatoria più frequentemente applicata, consiste nel riconoscere all'impresa il diritto
esclusivo di svolgere il servizio in questione, impedendo così ogni concorrenza e derogando tutte le
norme del TFUE.

In linea di massima, la giurisprudenza non solleva obiezioni al riguardo quando si tratta di un servizio
universale, ammettendo che il diritto esclusivo ha lo scopo, in questi casi, di garantire l'equilibrio
finanziario e la redditività economica dell'impresa che assicura il servizio.

La Corte ha invece sollevato riserve riguardo l'estensione del diritto esclusivo, in particolare quando
all'impresa concessionaria viene garantito il monopolio anche per servizi non rientranti nel servizio
universale. Problemi può sollevare anche la maniera in cui viene assicurato il finanziamento di un
servizio universale. Un servizio di tale natura infatti comporta costi notevoli, che gli introiti percepiti
dagli utenti non permettono di coprire. La giurisprudenza ha esaminato due modi per risolvere il
problema. Il primo consiste nel far partecipare ai costi di servizio universale anche le imprese che
operano nei mercati attigui. Il secondo consiste nell'attribuire all'impresa incaricata del servizio degli
aiuti pubblici.

8. Il controllo delle concentrazioni

Nozione. Si ha una concentrazione a seguito della fusione di due o più imprese precedentemente
indipendenti o parti di imprese, oppure, dall'acquisizione, da parte di una o più persone che già
detengono il controllo di almeno un'altra impresa, sia tramite acquisto, sia tramite contratto o
qualsiasi altro mezzo, il controllo diretto o indiretto dell'insieme o di parti di una o più altre imprese.

Il controllo di un'impresa su un'altra prevede una procedura che si applica solo alle concentrazioni
che presentano una dimensione comunitaria. Il controllo delle concentrazioni che si pongono al di
sotto della soglia di rilevanza comunitaria spetta alle autorità nazionali garanti della concorrenza, in
applicazione delle rispettive legislazioni in materia. In applicazione del principio della barriera unica,
gli Stati membri non possono applicare la propria legislazione nazionale in materia di concorrenza
delle concentrazioni di dimensione comunitaria.

I parametri per definire quando una concentrazione abbia dimensione comunitaria fanno riferimento
al fatturato delle imprese coinvolte. I parametri stati abbassati nel tempo. Ciò ha comportato
un'estensione del campo d'applicazione della disciplina dell'Unione. Una concentrazione è di
dimensione comunitaria quando:

- il fatturato realizzato a livello mondiale dall'insieme delle imprese interessate è superiore a 5


miliardi di euro;

- il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno due imprese interessate è
superiore a 250 milioni di euro.

Una concentrazione che non supera le soglie stabilite è tuttavia di dimensione comunitaria quando:

- il fatturato totale realizzato a livello mondiale dall'insieme delle imprese interessate è superiore a
2,5 miliardi di euro;

- in ciascuno di almeno tre Stati membri, il fatturato totale realizzato individualmente da almeno due
delle imprese interessate è superiore ai 25 milioni di euro;

- il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno due delle imprese
interessate è superiore a 100 milioni di euro.

Le operazioni di concentrazione non sono ammesse se non sono compatibili con il mercato comune
(compatibilità con il mercato comune).

Il punto focale non è più la nozione di posizione dominante ma quella di ostacolo significativo alla
concorrenza.

La procedura di controllo è affidato alla Commissione. Le operazioni di concentrazione vanno


notificate preventivamente alla Commissione e questa, in un primo tempo, procede a un esame
informale della concentrazione.

Deve decidere entro il termine dei 25 giorni lavorativi dalla notifica se la concentrazione stessa sia
compatibile o meno con il mercato comune. Decorso invano questo termine, la concentrazione è
ritenuta compatibile col mercato comune.

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Le operazioni di concentrazione sono soggette a un obbligo di sospensione: esse non possono
essere realizzate prima di essere notificate alla Commissione, né prima di essere state dichiarate
compatibili con il mercato comune. Qualora l'obbligo di sospensione non sia stato rispettato e la
concentrazione sia stata realizzata, la Commissione può ordinare la separazione delle imprese.
Inoltre la Commissione dispone di misure provvisorie e ha anche il potere di comminare ammende e
penalità di mora.

CAPITOLO VII: LA DISCIPLINA DEGLI AIUTI PUBBLICI ALLE IMPRESE

1. Quadro normativo

Accanto alle regole applicabili alle imprese, il TFUE prevede anche alcune norme in materia di
concorrenza dirette più specificatamente agli Stati membri: si tratta degli artt. da 107 a 109, che si
occupano degli aiuti pubblici alle imprese.

L'art. 107 pone il principio di incompatibilità con il mercato interno degli aiuti pubblici alle imprese,
prevedendo una serie di casi in cui tale principio non si applica o può non applicarsi (deroghe o
esenzioni).

L'art. 108 invece, disciplina la procedura di controllo attraverso cui il principio di incompatibilità o
le deroghe allo stesso vanno applicati. La procedura è affidata alla Commissione. L'art. 109 infine,
attribuisce al Consiglio il potere di stabilire tutti i regolamenti utili ai fini dell'applicazione degli artt.
107 e 108 e fissare, in particolare, le categorie di aiuti che sono dispensate da tale procedura.

Fino a qualche anno fa il Consiglio non aveva utilizzato il potere riconosciutogli dall'art. 109, ma da
alcuni anni è stato in grado di approvare importanti regolamenti in forza di tale articolo. Il primo
sull'applicazione degli artt. 107 e 108 a determinate categorie di aiuti di Stato orizzontali, con il quale
si abilita la Commissione ad adottare regolamenti di secondo grado che specificano le condizioni in
cui tali aiuti sono considerati compatibili con il mercato interno e non debbono pertanto essere
previamente autorizzati dalla Commissione. In forza di tale delega, la Commissione ha adottato nel
tempo numerosi regolamenti di esenzione per categoria.

2. La nozione di aiuto

Secondo le disposizioni dell'art. 107, la giurisprudenza qualifica una misura come aiuto ai sensi del
Trattato, presupponendo che esso sia soddisfatto da ognuno dei quattro criteri cumulativi, quali:

- deve trattarsi di un intervento dello Stato ovvero effettuato mediante risorse statali.
(finanziamento di origine pubblica). Secondo la Corte rientrano nella nozione di aiuto non solo
gli aiuti direttamente concessi dagli Stati, ma anche quelli concessi da enti pubblici o privati
designati o istituiti dagli Stati. Tale è anche l'aiuto che viene erogato da un'autorità pubblica non
statale, come ad es. gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici economici o le società controllate
dallo Stato. L'aiuto è considerato concesso mediante risorse statali se le risorse utilizzate per
erogarlo provengono da contributi obbligatori o da tasse riscosse da un ente pubblico a carico
delle imprese di un certo settore e utilizzate a favore di queste.

- tale intervento deve poter incidere sugli scambi tra gli Stati membri (conferimento di un
vantaggio ai beneficiari). L'aiuto può assumere le forme più diverse. Sono distinti tra quelli che
comportano prestazioni positive a carico dell'ente erogatore e quelli che consistono in una
rinuncia ad introiti. L'es. tipico di aiuto sotto forma di prestazioni positive è quello che consiste in
un trasferimento materiale di risorse finanziarie dal bilancio dell'ente pubblico erogatore a quello
dell'impresa beneficiaria (sovvenzioni).

Possono consistere anche nella rinuncia ad un introito da parte delle autorità pubbliche. In
quest'ottica, sono comprese le agevolazioni fiscali, sottoforma di esoneri o riduzioni di imposte,
tasse o contributi concessi a determinate imprese nazionali. Altri es. sono la fissazione di prezzi di
favore per determinati beni pubblici (es fornitura di combustibili di proprietà statale a prezzo inferiori
rispetto a quelli praticati da altri utenti).

- deve concedere un vantaggio al suo beneficiario. Perchè ciò avvenga, si deve accertare che l'aiuto
presenti un carattere di selettività. L'art. 107 considera incompatibili con il mercato interno gli
aiuti che favoriscono alcune imprese o alcune produzioni. Al contrario, non sono vietate le misure
che favoriscono lo sviluppo delle attività economiche in generale (misure di carattere generale),
quale una riduzione generalizzata delle tasse o dei contributi sociali, aiuti alla ricerca o
all'occupazione, purchè si tratti di aiuti di cui beneficiano tutte le imprese, indipendentemente dal
settore in cui operano.

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Una questione particolarmente delicata si pone qualora si tratti di aiuti concessi da autorità
regionali o locali di uno Stato membro. Ci si domanda se in casi del genere la selettività dell'aiuto
debba essere valutata anch'essa con riferimento alle sole imprese aventi sede nel territorio di
pertinenza dell'ente erogatore o se invece il confronto vada esteso a tutte le imprese dello Stato
membro. La Corte ha affermato che il contesto di riferimento deve essere il territorio nel quale
esercita la sua competenza l'entità infrastatale che ha adottato il provvedimento, e non il territorio
nazionale nella sua totalità. La Corte ha tuttavia subordinato tale possibilità alla dimostrazione che il
provvedimento sia stato adottato da tale entità nell'esercizio di poteri autonomi rispetto al governo
centrale. (requisito dell'autonomia). Qualora il requisito sia soddisfatto, per verificare se la misura
ha carattere selettivo, occorrerà esaminare se il regime previsto per le imprese con sede nel territorio
dell'ente in questione sia di applicazione generale o si applichi soltanto a talune imprese.

Molto spesso gli Stati membri non si limitano ad accordare un aiuto ad una singola impresa, ma
istituiscono strumenti di carattere generale erogati a più imprese. Gli aiuti individuali sono quelli
concessi alle singole imprese che vengono individuate nello stesso atto istitutivo dell'aiuto.

I regimi di aiuto sono invece riconosciuti da atti di portata generale che autorizzano la successiva
adozione di provvedimenti individuali di erogazione, ovvero consentono alle imprese interessate di
avvalersi dei provvedimenti di favore.

Non tutti gli aiuti concessi dagli Stati membri alle imprese sono vietati. Ai sensi dell'art. 107, sono
incompatibili con i trattati, solo gli aiuti che incidono sugli scambi tra gli Stati e falsano, o minacciano
di falsare, la concorrenza. Occorre dunque che siano soddisfatte le condizioni di pregiudizio al
commercio tra Stati membri e pregiudizio alla concorrenza.

Basta dunque dimostrare che:

- l'aiuto provochi il rafforzamento della posizione dell'impresa beneficiaria rispetto ai suoi


concorrenti;

- l'impresa operi in un mercato aperto agli scambi tra Stati membri, nel senso che in tale mercato
sono presenti imprese di più Stati.

Secondo al giurisprudenza, per ritenere che queste condizioni siano soddisfatte, non basta
sostenere che l'aiuto è rivolto ad un’impresa operante nel mercato nazionale e non è nemmeno
sufficiente sostenere che l'aiuto sia destinato ad un'impresa operante soprattutto nel mercato con
Paesi Terzi, dal momento che non si può escludere che un aiuto del genere possa alterare la
concorrenza intracomunitaria.

Anche nel settore degli aiuti pubblici delle imprese è richiesto che il pregiudizio alla concorrenza e
agli scambi sia sensibile. Ciò non si verifica in aiuti di importanza minore.

3. Il principio di incompatibilità e le sue deroghe

L'art.107 prevede numerose categorie di aiuti per le quali il principio dell'incompatibilità non vale e
non può valere. Si può parlare dunque di un divieto di istituire aiuti non autorizzati dalla
Commissione ovvero che non soddisfano le condizioni previste dal regolamento.

L'art. prevede anche alcune categorie d'aiuti autonomamente compatibili:

- aiuti a carattere sociale concessi ai consumatori a condizione che siano accordati senza
discriminazioni determinate dall'origine dei prodotti;

- gli aiuti destinati ad ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali o da altri eventi eccezionali.

- gli aiuti connessi all'economia di determinate regioni della Repubblica federale di Germania, nella
misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici derivanti da tale divisione

Spetta alla Commissione decidere se il singolo aiuto vada o meno autorizzato.

Gli aiuti esentabili sono:

- aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni in cui il tenore di vita è basso o vi è
una grave forma di sottoccupazione;

- gli aiuti destinati alla realizzazione di un progetto comune europeo, oppure per la risoluzione di un
grave stato di turbamento dell'economia di uno Stato membro.

- gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o talune regioni, purchè non alterino le
condizioni degli scambi tra gli Stati membri.

- aiuti destinati a promuovere cultura e conservazione del patrimonio.

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- altre categorie di aiuti determinate con decisione del Consiglio che delibera a maggioranza
qualificata su proposta della Commissione.

La Commissione ha dunque delineato delle categorie di aiuti:

- aiuti a finalità regionale, volti ad aiutare le regioni in difficoltà;

- aiuti settoriali, destinati a favorire lo sviluppo di settori di attività bisognosi di sostegno per
superare difficoltà di tipo strutturale

- aiuti orizzontali, volti a favorire lo sviluppo di interessi dell'Unione.

4. La procedura di controllo degli aiuti

Il compito di adottare la disciplina in merito degli aiuti alle imprese spetta in primo luogo alla
Commissione e, in maniera minore, ai giudici nazionali.

Si prevede anche l'intervento del Consiglio, il quale, su richiesta di uno Stato, può decidere
all'unanimità che un aiuto sia considerato compatibile col mercato comune.

L'art. 108 in realtà prevede due procedure a seconda che si tratti di aiuti esistenti o di aiuti nuovi.
Per aiuti esistenti, si intende principalmente gli aiuti individuali o regimi di aiuti ai quali è stata data
esecuzione prima dell'entrata in vigore del trattato e che sono ancora applicabili dopo tale entrata in
vigore. Per tali aiuti, l'art. prevede che siano sottoposti ad un "esame permanente" ad opera della
Commissione qualora in esito a tale esame, la Commissione si convinca che l'aiuto non è
compatibile col mercato interno, apre la procedura d'indagine formale che prevede il seguente
schema:

a) intimazione agli interessati di presentare le loro osservazioni;

b) adozione di una decisione con la quale la Commissione ordina allo Stato membro interessato di
sopprimere o modificare l'aiuto, entro i termini di tempo da essa stabiliti.

c) qualora lo Stato membro non si conformi alla decisione entro il termine fissato, si fa ricorso
diretto alla Corte di giustizia.

Per gli aiuti nuovi, l'art. stabilisce che gli Stati membri non possono adottare aiuti nuovi prima che la
Commissione abbia adottato una decisione finale.

A tal fine essi devono comunicare tutti i progetti di modifica o istituzione degli aiuti alla Commissione
in tempo utile perchè questa possa presentare le sue osservazioni. Qualora la Commissione ritenga
che il progetto sia compatibile col mercato interno, viene avviata senza indugio la procedura prevista
e applicabile agli aiuti esistenti (procedura d'indagine formale).

Non viene precisato nell'art. 108 il termine per l'apertura del procedimento di indagine formale,
pur indicando che la Commissione deve agire "senza indugio".

Durante la fase di esame preliminare, all'aiuto non può esser data esecuzione e vale l'obbligo di
standstill.

La Corte ha stabilito però che l'apertura del procedimento deve avvenire entro due mesi dalla
notifica. Decorso questo termine, lo Stato interessato, dopo aver informato la Commissione della sua
intenzione può applicare l'aiuto progettato.

Qualora la Commissione decida di aprire il procedimento di indagine formale, lo Stato membro


interessato e tutti gli altri Stati coinvolti sono chiamati ad esprimere le proprie osservazioni entro un
termine che non è superiore ad un mese. L'informazione degli altri interessati avviene attraverso un
avviso sulla GU.

Il procedimento dovrebbe concludersi entro 18 mesi dall'avvio. Scaduto invano tale termine, lo Stato
può chiedere alla Commissione di prendere una decisione in basse alle informazioni in possesso e,
se queste non sono sufficienti, prende una decisione negativa.

Il procedimento può concludersi nei seguenti modi:

- con una decisione che dichiara che la misura notificata non costituisce un aiuto (attestazione
negativa);

- con una decisione che dichiara l'aiuto compatibile col mercato interno (decisione positiva);

- con una decisione che dichiara l'aiuto compatibile col mercato interno, ma subordinato a
determinati obblighi e condizioni (decisione condizionale);

- con una decisione che dichiara che non può esser data esecuzione all'aiuto (condizione negativa).

Le decisioni in materia di aiuti alle imprese e la loro mancata adozione possono essere oggetto del
controllo giurisdizionale da parte della Corte di giustizia o del Tribunale.

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Cominciando dal ricorso all'annullamento, la Corte ha riconosciuto il diritto oltre che agli Stati
destinatari, anche alle imprese beneficiarie, il diritto di presentare ricorso contro una decisione
negativa della Commissione che imponga allo Stato di sopprimere o non istituire l'aiuto in questione.

Anche gli enti territoriali che abbiano istituito l'aiuto oggetto della decisione della Commissione
possono impugnarla.

L'impresa concorrente che abbia dato origine alla procedura d'esame, denunciando alla
Commissione l'esistenza di un aiuto a favore di un' impresa concorrente, può impugnare la decisione
della Commissione con la quale questa si pronunci per la compatibilità e chiuda la procedura. La
giurisprudenza sottopone la ricevibilità del ricorso a due condizioni: che il ricorrente abbia svolto un
ruolo attimo nel procedimento e che la sua posizione sul mercato sia notevolmente lesa dal
provvedimento di aiuto oggetto della decisione.

Qualora lo Stato membro in questione non osservi la decisione della Commissione, questa o un altro
Stato membro possono presentare direttamente un ricorso per infrazione.

I nuovi aiuti non possono essere attuati finchè non autorizzati dalla Commissione (obbligo di
standstill).

Qualora lo Stato membro dia attuazione ad un aiuto senza averlo notificato alla Commissione, siamo
in presenza di un aiuto illegale. Una prima mossa consiste nel potere della Commissione di intimare
allo Stato membro la sospensione immediata dell'applicazione d'aiuto.

In caso di inosservanza può presentare ricorso alla Corte di giustizia. Dopo questa fase provvisoria,
la Commissione deve seguire il procedimento di indagine formale.

Un'altra particolarità della Commissione riguarda il potere di intimare allo Stato membro di
recuperare l'aiuto , decisione di recupero, che deve avvenire senza indugio: pur senza imporre un
termine preciso, il regolamento obbliga lo Stato membro ad agire immediatamente.

Nel caso insorgano particolari difficoltà, lo Stato membro deve chiedere la collaborazione della
Commissione per trovare una soluzione alternativa soddisfacente. Solo nel caso di impossibilità
assoluta, lo Stato membro è esentato dall'obbligo di recupero.

Inoltre la decisione di recupero deve avvenire secondo le procedure previste dalla legge dello Stato
membro interessato, a condizione che esse consentano l'esecuzione immediata ed effettiva della
decisione della Commissione. Si fa dunque rinvio al diritto interno dello Stato membro interessato
(autonomia processuale degli Stati membri).

Le imprese beneficiarie di aiuti illegali NON possono, salvo casi eccezionali, opporsi al recupero.

CAPITOLO VIII: LA POLITICA COMUNE DELL’IMMIGRAZIONE E DELL’ASILO


1. Quadro normativo
Il nuovo nuovo Titolo V del TFUE sullo spazio di libertà sicurezza e giustizia riconosce all'Unione la
competenza a disciplinare le condizioni d'ingresso, soggiorno e circolazione dei cittadini di paesi
terzi sul territorio degli Stati membri. Si tratta di una competenza che attribuisce alla realizzazione
dell'obiettivo fondamentale dell'Unione Europea the creare uno spazio di libertà in cui è assicurata a
tutti la libera circolazione delle persone. L'articolo 67 TFUE dispone infatti l’Unione «garantisce che
non vi siano controlli sulle persone alle frontiere interne e sviluppato una politica comune in materia
via asilo, prima immigrazione e controllo delle frontiere esterna».

Per raggiungere tale obbiettivo gli artt. 77-79 TFUE prevedono la possibilità di sviluppare

politiche comuni riguardanti:

a) il controllo delle frontiere;

b) l’attribuzione di uno status appropriato ai cittadini di Stati terzi che necessitano di potenzino del
quadro del sistema europeo comune di asilo;

c) la disciplina dell’immigrazione c.d. regole e la lotta all’immigrazione illegale e alla tratta degli
esseri umani.

A differenza delle disposizioni dei Trattati relative al mercato interno che lo riconoscono ai cittadini
dell’Unione veri e propri diritti di libera circolazione gli artt. 77-79 TFUE sono basi giuridiche che si
limitano ad attribuire alle istituzioni il potere di adottare atti di diritto derivato. Tali articoli sono
pertanto sprovvisti di efficacia diretta.

2. La sicurezza delle frontiere esterne dell’UE


Scopo primario di politica comune relativa al controllo delle frontiere esterne è «garantire il
controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell’attraversamento delle frontiere estere» nonché
«instaurare progressivamente un sistema integrato» di gestione di dette frontiere.

30
Lo strumento centrale in materia è il regolamento UE n. 2016/399 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 9 marzo 2016, che costituisce un codice Uniondale relativo al regime di
attraversamento delle frontiere da parte delle persone. Esso pone in essere un regime armonizzato di
controlli sulle persone e di sorveglianza alle frontiere esterne dell’Unione.

Il codice frontiere Schengen disciplina le condizione che gli stranieri debbono soddisfare per
l’ingresso Bell spazio di Schengen, le conseguenze in cui incorrono coloro che non soddisfano o non
soddisfano più dette condizioni, nonché i controlli di frontiera e di cooperazione operativa fra gli Stati
membri coordinata dall’agenzia Frontex.

Le frontiere esterne sono definite in via residuale. Sono considerate tali, le frontiere che non sono
«interne», laddove con tale espressione si intendono «le frontiere terrestri comuni, comprese le
frontiere fluviali e lacustri degli Stati membri», nonché gli aeroporti e i porti adibiti a collegamenti
interni.

L'ingresso dei cittadini di Stati terzi nello spazio Schengen è subordinato, ai sensi dell’articolo 6,
part.1, al soddisfacimento di cinque condizione.

I cittadini di paesi terzi devono:

a) disporre di un documento di viaggio valido;

b) essere in possesso di un visto valido per soggiorni di breve durata, se ciò è richiesto dal
regolamento n.539/2001 del Consiglio, del 15 marzo 2001, che adotta l’elenco dei paesi terzi i
cui cittadini devono essere in possesso del visto all’atto dell’attraversamento delle frontiere
estere e l’elenco dei paesi terzi i cui cittadini sono esenti da tale obbligo;

c) giustificare lo scopo e le condizioni del soggiorno e disporre di mezzo di sussistenza


sufficiente, sia per la durata prevista del soggiorno, sia per il ritorno nel paese di origine o per il
transito verso un paese terzo nel quale l’ammissione è garantita;

d) non essere segnalati nel Sistema di informazione Schengen ai fini della non ammissione (in
quel sistema confluiscono i dati degli stranieri che costituiscono una minaccia per l’ordine
pubblico, la sicurezza pubblica o la sicurezza nazionale degli Stati membri o che sono soggetto
di una misura di allontanamento);

e) non essere considerati una minaccia per l’ordine pubblico, la sicurezza interna, la salute
pubblica o le relazioni internazionali di uno degli Stati membri.

Le condizioni indicate hanno carattere cumulativo. Esse sono altresì esaustive, nel senso che gli stati
membri non possono esigere il rispetto di requisiti d’ingresso diversi o ulteriori rispetto a quelli
stabiliti del codice frontiere Schengen.

Se una o più delle condizioni indicate non sono soddisfate, allo straniero deve essere rifiutato
l’ingresso nel territorio degli Stati membri. Lo straniere che permane nel territorio degli Stati membri
dopo la scadenza del titolo di soggiorno può essere ripartiamo, secondo le forme e le procedure
previste dal diritto derivante pertinente. Il rifiuto o il respingimento alla frontiera, come pure il
rimpatrio degli stranieri che non soddisfano uno o più requisiti di durata del soggiorno, comportano
margini di scelta dello Stato membro interessato, il quale può anche decidere di regolarizzare il
soggiorno dello straniero. Il provvedimento, che rifiuta l’ingresso o che dispone il risentimento, deve
essere motivato e deve indicare «le ragioni precise» che lo giustificano. Contro il provvedimento
l’interessato ha diritto di ricorso in conformità al diritto nazionale.

I controlli alle frontiere esterne hanno lo scopo di prevenire le minacce per l’ordine pubblico, la
sicurezza e la salute pubblica degli Stati membri, nonché per le loro relazioni internazionali, come
anche di contribuire alla lotta contro l’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani. Essi
devono essere garantiti dagli Stati membri a «un livello efficace, elevato e uniforme». Gli Stati membri
di frontiera garantiscono la sicurezza delle frontiere nell’interesse di tutti gli Stati membri partecipanti
alla Spazio Schengen. I controlli di frontiera sono articolate nelle verifiche di frontiere e nella
sorveglianza di frontiera, entrambe condotte delle autorità nazionali competenti(guardie di frontiera).

Le verifiche di frontiera consistono nei controlli necessari ad accertare che le persone, i loro mezzi
di trasporto e gli oggetti in loro possesso «possano essere autorizzati al entrare nel territorio degli
Stati membri p autorizzati a lasciarlo». I cittadini degli Stati terzi sono sottoposti, sia in uscita sia in
entrata, a verifiche approfondite che vertono su ciascuno dei requisiti previsti per l’ingresso nello
spazio integrato. I beneficiari delle libertà di circolazione sono sottoposti, invece, di regola, a
verifiche minime, ossia al semplice e rapido accertamento dell’identità attraverso esibizione dei
documenti di viaggio, uniche al controllo della loro validità e di eventuali indizi di falsificazione o di
contraffazione.

31
La sorveglianza di frontiera si svolge ai valichi di frontiera al di fuori degli orari di apertura stabiliti e
tra i diversi valichi «allo scopo di evitare che le persone eludano le verifiche di frontiera» sopra
indicate. La sorveglianza persegue l’obbiettivo di «impedire l’attraversamento non autorizzato della
frontiera, di lottare contro la criminalità transfrontaliera e di adottare misure contro le persone entrate
illegalmente».

I controlli di frontiera comportano l’esercizio di poteri ispettivi e coercitivi suscettibili di incidere sui
diritti fondamentali della persona. In considerazione di ciò, il codice frontiere di Schengen stabilisce
che nello svolgimento delle verifiche di frontiera le autorità nozionali sono vincolate al rispetto della
dignità umana, principio di proporzionalità e del divieto delle discriminazioni «fondate sul sesso, la
razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni, la disabilità l’età o l’orientamento sessuale» art.7.

L’attuazione di controlli di frontiera efficaci esige una cooperazione permanente e mutua assistenza
fra gli Stati membri. Per migliorare la gestione delle frontiere, l’Unione ha istituito l’agenzia Frontex.
Pur non disponendo di potere di gestione autonomi, essa fornisce sostegno agli Stati membri e
coordina le operazioni da questi proposte.

3. L’assenza di controlli alle frontiere interne

Il frontiere Schengen prevede un «regime comunitario relativo all’attraversamento delle frontiere


interne» comprensivo di regole sull’eliminazione del controlli presso queste frontiere, nonché per il
loro ripristini, in via eccezionale, in caso di minacce gravi per l’ordine pubblico o per la pubblica
sicurezza. La soppressione dei controlli alle frontiere interne è «un elemento costitutivo
dell’obbiettivo dell’Unione, enunciato nell’articolo 26 TFUE, diretto ai instaurare uno spazio senza
frontiere interne nel quale sia assicurata la libera circolazione delle persone».

L’articolo 22 TFUE sancisce l’assenza di controlli sulle persone «in qualunque punto» delle frontiere
interne.

Di conseguenza, agli Stati membri è imposto il divieto di effettuare qualsiasi verifica di frontiera
sulle persone, «indipendentemente dalla loro nazionalità». L’art. 22 incorpora gli obbiettivi
programmatici enunciati dal diritto primario.

Sono consentite invece agli Stati membri verifiche all’interno del territorio nelle quattro ipotesi
previste dall’articolo 23. In particolare, gli Stati membri possono effettuare sul loro territorio, secondo
la riserva espressa prevista dall’art. 72 TFUE, controlli di polizia posti a presidio «dell’ordine
pubblico» e per la «sorveglianza della sicurezza interna».

Questo tipo di controlli può avvenire «anche nelle zone di frontiera», ma non deve avere un effetto

«equivalente alle verifiche di frontiera» vietate dal codice frontiere Schengen.

In deroga al principio di libertà nell’attraversamento delle frontiere interne, è prevista la possibilità di


ripristino del controlli «in tutte le parti o in parti specifiche» di Dali frontiere. Il ripristino è rimesso
alla discrezionalità degli Stati membri. Esso deve tuttavia costituire una

«extrema ratio». Inoltre, la sua estensione e durata no devono eccedere «quanto è strettamente
necessario». Sono a tal fine previste tre procedure che implicano un diverso coinvolgimento della
Commissione, del Consiglio e degli altri Stati membri.

1-2. La prima e la seconda procedura sono attivabili unilateralmente da uno o più Stati membri in
caso «minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna di uno Stato membro». Esse
implicano un coinvolgimento preventivo ovvero, in caso di urgenza, successivo degli altri Stati
membri e della Commissione.

La terza procedura prevede il ripristino dei controlli in presenza di una minaccia grave per l’ordine
pubblico o la sicurezza interna imputabile a «carenze gravi r persistenti nel controllo di frontiere
esterne» da parte di uno Stato membro. Il Consiglio, in tal caso, su proposta della Commissione,
eventualmente sollecitata dagli Stati membri, «raccomanda a uno o più Stati membri» di ripristinare il
controllo di frontiera in tutte le rispettive frontiere interne o in parti specifiche delle stesse. Il controllo
di frontiera può in conseguenza essere ripristinato, subordinatamente a valutazioni di necessità e
adeguatezza, per 6 mesi prorogabili fino a un massimo di due anni.

32
4. Gli stranieri beneficiari di protezione internazionale

Il TFUE prevede l’adozione di un sistema comune di protezione a favore dei rifugiati, fondato
sulla condivisione e sull’equa ripartizione delle responsabilità di accoglienza fra tutti gli Stati membri
(artt. 68 e 78 TFUE).

Esso deve garantire, in conformità alla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati e al
suo Protocollo addizionale un livello elevato di protezione.

Allo stesso tempo, detto sistema deve far sì che una domanda di asilo sia esaminata in base a criteri
e procedure comuni, con esiti equivalenti a prescindere dallo Stato membro in cui la richiesta è stata
presentata.

Per realizzare detto obiettivo l’UE ha adottato numerose misure che complessivamente costituiscono
il Sistema europeo comune di asilo (SECA o CEAS).

Gli stranieri esposti nei loro paesi al rischio di minacce di gravi violazioni dei diritti umano possono
accedere a tre forme di protezione internazionale, caratterizzate dalla diversità dei presupposti e
dall’intensità decrescente delle garanzie offerte.

Ai sensi dell’art. 78 par 2 TFUE, si tratta di:

- rifugiato;

- protezione sussidiaria;

- protezione temporanea.

La protezione internazionale assicurata dall’UE spetta ai cittadini di Stati terzi o ai soggetti privi di
cittadinanza (apolidi), mentre non può riguardare i cittadini degli Stati membri.

Il Protocollo n. 24 sull’asilo per i cittadini degli Stati membri dell’UE, allegato ai Trattati stabilisce i
limiti alla fruizione da parte die cittadini degli Stati membri del diritto d’asilo previsto dai singoli
ordinamenti nazionali.

A) IL RIFUGIATO

Lo status di rifugiato è riconosciuto ai cittadini di paesi terzi o agli apolidi a rischio di persecuzione
nello Stato di cittadinanza o (se apolidi) di dimora abituale.

Ai sensi dell’art. 2, lett d, dir 2011/95/UE, tale qualifica spetta lo straniero che “per il timore fondato
di essere perseguitato per motivi di razza religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un
determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza (o la dimora abituale) e
non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese”.

Si tratta di una nozione ripresa dalla Convenzione di Ginevra, rispetto alla quale la direttiva si pone
come uno strumento attuativo.

La direttiva specifica tanto i requisiti quanto le cause di esclusione della qualifica di rifugiato.

La specificazione in via normativa dei presupposti di tale qualifica ha la funzione di circoscrivere la


discrezionalità degli Stati membri nella valutazione delle singole fattispecie.

È pertanto previsto l’obbligo di riconoscimento dello status di rifugiato, a vantaggio dello


straniero che soddisfi le condizioni positive e non incorra nelle cause ostative sancite dal diritto
derivato.

In presenza dei presupposti richiesti, il riconoscimento di detto status è un atto declaratorio.

La Corte è arrivata alla conclusione che l’interessato, in presenza delle condizioni stabilite dalla
direttiva, beneficia sin dal momento della presentazione della domanda, di un diritto soggettivo
ancora prima che sia stata adottata una decisione formale a riguardo (sentenza 2018).

Lo status spetta se ricorrono le seguenti condizioni:

> Lo straniero deve incorrere in un rischio fondato di subire atti di persecuzione a opera di privati
o della pubblica autorità nel paese terzo di cittadinanza o in cui risiede.

Tale condizione è costituita dal timore fondato di persecuzione; non è necessario che la
persecuzione si sia effettivamente compiuta, ma è sufficiente dimostrare, secondo un criterio di
ragionevole possibilità, il pericolo di essere esposti alla persecuzione.

Gli atti di persecuzione sono quelli che “sono, per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da
rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui
qualsiasi deroga è esclusa dall’art. 15 par 2 della CEDU”.

I motivi di persecuzione devono rientrare tra quelli espressamente specificati: razza, religione,
nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica.

33
La giurisprudenza della Corte ha specificato che:

- le persecuzioni per motivi religiosi, devono essere individuati non in funzione dell’elemento della
libertà di religione che viene leso, ma della natura e della repressione esercitata sull’interessato. e
delle conseguenze di questa;

- nella persecuzione motivata dall’appartenenza a un determinato gruppo sociale, rientra anche


l’orientamento omosessuale;

- lo status di rifugiato deve essere riconosciuto anche in caso di persecuzioni che assumono la
forma di azioni o sanzioni penali conseguenti al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto;

> L’ordinamento giuridico del paese terzo non deve essere in grado di proteggere da tali atti la
persona che li subisce.

La carenza o ineffettività della protezione offerta dal paese d’origine contro gli atti persecutori, va
valutata alla luce degli elementi definiti dagli artt. 7 e 9 della dir 2011/95/UE.

In particolare, i soggetti che offrono protezione devono disporre di un sistema giuridico effettivo, che
permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione.

L’effettività deve essere verificata tenendo conto “segnatamente delle disposizioni legislative e
regolamentari del paese d’origine e relative modalità di applicazione, e della misura in cui il rispetto
dei diritti fondamentali dell’uomo è garantito in tale paese alla luce della situazione individuale del
rifugiato”.

Il riconoscimento dello status di rifugiato presuppone poi l’inesistenza di cause di esclusione, in


particolare di situazioni soggettive di indegnità internazionale, che ricorrono qualora il rifugiato
abbia commesso crimini internazionali, reati gravi di diritto comune al di fuori del paese di
accoglienza o atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite, come atti terroristici di
rilevanza nazionale o internazionale.

Altra eventuale causa ostativa, autonoma e ulteriore rispetto a quanto previsto dalla Convenzione di
Ginevra, è rappresentata dalla pericolosità del richiedente per la sicurezza dello Stato membro o
per la comunità di accoglienza.

Essa persegue lo scopo di garantire la sicurezza nazionale dello Stato ospitante e l’incolumità della
sua popolazione; presupposto per la sua applicazione è che il richiedente rifugio costituisca un
pericolo prospettivo per gli interessi essenziali dello Stato ospitante tutelati dalla norma.

B) LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA

La protezione sussidiaria è un’ulteriore forma di protezione internazionale prevista dal diritto UE e


viene riconosciuta ai soggetti che, pur non essendo esposti a persecuzioni, corrodono il rischio di
subire un grave danno nel paese terzo di origine.

L’art. 15 della direttiva indica tre casi in cui ricorre il danno grave:

- la condanna o l’esecuzione della pena di morte;

- la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel
suo paese di origine;

- la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza
indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Il rischio di danno grave ricorre nel caso di straniero che si oppone alla consegna al paese terzo di
origine, dove in passato ha subito tortura, anche se il rischio di tortura in caso di ritorno non è più
attuale.

La protezione sussidiaria costituisce un complemento alla protezione dei rifugiati sancita dalla
convenzione di Ginevra; si tratta di una garanzia alternativa rispetto alla qualifica di rifugiato, che non
può essere con questa cumulata.

C) LA PROTEZIONE TEMPORANEA

La protezione temporanea spetta agli sfollati, vale a dire agli stranieri che hanno dovuto abbandonare
il loro paese o regione d’origine o che sono stati evacuati e il cui ritorno in condizioni sicure e stabili
risulta impossibile a causa della situazione nel paese stesso.
Questa garanzia è di tipo provvisorio e collettivo; l’attivazione è subordinata a una decisione del
Consiglio, assunta a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, che accerti l’esistenza
di un afflusso massiccio di sfollati e che identifichi i soggetti beneficiari.

34
Il diritto dell’UE tutela anche i soggetti che hanno la qualità di richiedenti asilo o di richiedenti
protezione sussidiaria; si tratta degli stranieri che hanno presentato una domanda di protezione
sulla quale non è stata ancora adottata una decisione definitiva e, in particolare, di coloro la cui
domanda non è stata definitivamente respinta.

I diritti attribuiti ai richiedenti asilo o protezione sussidiaria sono strumentali allo scopo di garantire
l’accesso effettivo alla forma di protezione alla quale tali soggetti, se ne ricorrono i presupposti,
hanno diritto.

Infine, godono di talune garanzie, in via derivata, i familiari dei soggetti richiedenti o dei titolari di
protezione internazionale.

Va ricordato che il diritto al ricongiungimento familiare spetta solo ai rifugiati, in particolare se minori
non accompagnati.

Si presume invece che non abbiano necessità di protezione internazionale gli stranieri originari o
provenienti da uno Stato terzo sicuro; la designazione di questo determina una presunzione relativa,
che può essere contestata dal richiedente dimostrando che quel paese terzo non è sicuro nel suo
caso specifico.

Per essere sicuro uno Stato deve:

- rispettare il divieto di non respingimento e deve aver ratificato la Convenzione di Ginevra;

- garantire l’accesso alla qualifica di rifugiato e ai diritti di accoglienza che ne conseguono;

- adottare una disciplina interna attuativa di detti principi comuni;

- essere riconosciuta protezione del diritto di contestare l’applicazione del concetto di paese terzo
sicuro nei confronti del richiedente e di contestare la sussistenza del legame con il paese terzo
individuato.

La Corte ha sancito che queste condizioni sono cumulative, sicchè la mancata o scorretta
trasposizione nel diritto nazionale di una solo tra queste, rende inapplicabile la designazione di Stato
terzo sicuro.

Le forme di garanzia previste dal diritto dell’UE (asilo, protezione sussidiaria e temporanea) non sono
esaustive; è infatti consentito agli Stati membri di concedere una protezione complementare di
origine nazionale, purchè compatibile con il diritto derivato dall’UE.

5. I diritti di non respingimento e di soggiorno


dei beneficiari di protezione internazionale

Durante il soggiorno nello Stato ospite i soggetti riconosciuti come rifugiati godono di numerosi
diritti, modellati sulla disciplina dettata dalla Convenzione di Ginevra; salva diversa indicazione, tali
diritti sono estesi al titolare di protezione sussidiaria.

Particolarmente rilevanti sono il diritto di non respingimento/di non refoulement (=diritto a non
essere rimpatriato verso lo Stato a rischio) e il diritto al rilascio di un titolo di soggiorno.

Ai sensi dell’art. 21 della direttiva del 2011, la protezione dal respingimento deve essere accordata
da uno Stato membro in conformità si propri obblighi internazionali —> il richiamo al diritto
internazionale permette di tener conto del principio di non refoulement, dell’art. 3 CEDU, il quale
vieta di espellere, allontanare o consegnare a uno Stato terzo l’individuo che sia esposto a un rischio
effettivo di subire tortura e trattamenti inumani o degradanti = divieto di respingimento diretto; il
principio include anche il divieto di respingimento indiretto, verso uno Stato intermedio dove
sussiste il rischio effettivo che l’interessato venga espulso o consegnato allo Stato terzo, di
cittadinanza o di residenza abituale, che può rendersi responsabile di persecuzione. Il principio di
non respingimento è codificato anche all’art. 19 par 2 della Carta di Nizza.

Per quanto concerne il diritto di soggiorno è previsto che al titolare dello status di rifugiato gli Stati
membri rilasciano quanto prima un permesso di soggiorno valido per un periodo di almeno tre anni e
rinnovabile; per i suoi familiari è valido per un periodo inferiore a tre anni, mentre al titolare di
protezione sussidiaria e ai suoi familiari la durata è più breve, infatti deve essere valido per almeno
un anno (e in caso di rinnovo per almeno due anni).

Il godimento dei diritti di non respingimento e di soggiorno è soggetto a due eccezioni, disciplinate
dalla Convenzione di Ginevra; il titolare di protezione:

- può essere respinto (può dunque essergli rifiutato o revocato il titolo di soggiorno), qualora
rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato ospite o per la sua comunità;

- egli può vedersi rifiutato il permesso di soggiorno in presenza di imperiosi motivi di sicurezza
nazionale o di ordine pubblico.

35
Inoltre, la direttiva del 2011 contiene un ampio elenco di diritti che devono essere garantiti ai
rifugiati e ai beneficiari di protezione sussidiaria (es: diritto all’informazione in una lingua che
comprendono, diritto al mantenimento dell’unità del nucleo familiare, diritto a ottenere documenti di
viaggio, diritto all’esercizio di un’attività dipendente o autonoma ecc).

Un trattamento particolare nella fruizione di questi diritti garantiti, è previsto per il minore non
accompagnato, ossia lo straniero o l’apolide che giunge nel territorio dello Stato membro senza
essere accompagnato da un adulto che ne sia responsabile e fino a quando non sia effettivamente
affidato a un adulto; lo stesso vale per il minore abbandonato dopo essere entrato nel territorio degli
Stati membri.

Il contenuto dei diritti da accordare è definito con riferimento al principio del trattamento nazionale o
al trattamento riservato agli altri stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio nazionale.

Ai titolari di protezione internazionale è riconosciuto un limitato diritto di circolazione e di


soggiorno nel territorio degli Stati membri per assimilazione agli stranieri soggiornanti di lungo
periodo.

Infine, il diritto al ricongiungimento familiare è attribuito ai rifugiati riconosciuti dagli Stati membri;
il regime di ricongiungimento è ulteriormente ampliato per i rifugiati minori di età non accompagnati.

I richiedenti protezione internazionale godono di alcuni diritti finalizzati a garantire l’accesso


effettivo alla forma di protezione alla quale, ricorrendone i presupposti, hanno diritto.

Il diritto dell’UE accoglie, ai fini dell’accesso alla procedura sul riconoscimento della protezione e ai
collegati diritti di accoglienza, un’ampia concezione alla nozione di richiedente protezione
internazionale.

In particolare, viene riconosciuto loro il diritto di rimanere nello Stato membro durante l’esame della
domanda e fino all’adozione della decisione amministrativa che conclude in primo grado il
procedimento. In caso di decisione negativa il diritto in questione permane fino alla scadenza del
termine per ricorrere o fino all’esito del ricorso.

Il diritto di soggiorno provvisorio è eccezionalmente escluso nel caso di domande reiterate


inammissibili o di esigenze di cooperazione penale europea o internazionale.

Durante il soggiorno il richiedente protezione gode di specifici diritti di accoglienza; si tratta di


diritti modellati su quelli dello straniero titolare di protezione internazionale, sebbene caratterizzati da
minore intensità e da carattere di temporaneità.

In ogni caso gli Stati membri sono tenuti ad operare nel rispetto della dignità umana.

Particolarmente rilevanti sono le norme che limitano la facoltà degli Stati membri di ricorrere a
misure di trattenimento, definito come il confinamento del richiedente in un luogo determinato, che
lo priva della libertà di circolazione —> la giurisprudenza ha stabilito che il trattenimento cui si
riferisce la norma presuppone una privazione e non una mera restrizione della libertà di circolazione.

Per quanto riguarda i presupposti giuridici del trattenimento, la direttiva precisa che nessuno può
essere trattenuto per il solo fatto di chiedere protezione internazionale; inoltre stabilisce un elenco
tassativo dei motivi di trattenimento, i quali devono essere ulteriormente specificati nel diritto
nazionale.

L’applicazione di una misura di trattenimento è soggetta a uno scrutinio stretto di proporzionalità


(=“entro i limiti dello stretto necessario”).

6. L’individuazione dello Stato responsabile


per la domanda di protezione

Il sistema europeo comune di asilo comprende un complesso di regole per determinare con
chiarezza lo Stato membro competente ad esaminare qualsiasi domanda di protezione
internazionale presentata in uno degli Stati membri.a capo la necessità di criteri che permettano di
stabilire a quale Stato membro spetterà la competenza su una richiesta di asilo aveva portato inserire
apposite disposizioni nella CAAS (convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, artt. 28-38)
e soprattutto a stipulare la convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di
una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle comunità europee, firmata a Dublino
nel 1990 da tutti gli allora 12 Stati membri delle comunità europee, ed entrato in vigore nel 1997.

Una domanda di protezione internazionale, ovunque presentata nello spazio senza frontiere interne,
deve essere esaminata da un solo Stato membro, che è quello individuato come competente in base
ai criteri enunciati al capo III (reg. 604/2013).
La concentrazione della competenza in un solo Stato membro presuppone l’esonero degli altri Stati
dall’esercizio delle responsabilità loro incombenti in quanto paesi contraenti della Convenzione di
Ginevra.

36
Il sistema presuppone la fiducia reciproca degli Stati membri circa la capacità di ciascuno di
rispettare le garanzie fondamentali della persona esposta al rischio di persecuzione.

Il sistema Dublino è basato su un sistema di criteri per determinare lo Stato membro competente, la
cui applicazione è rimessa allo Stato membro nel quale la domanda di protezione è presentata per la
prima volta.

Si tratta di criteri obiettivi, che escludono un potere di scelta dei richiedenti protezione internazionale;
i criteri sono fondati sull’idea che la competenza a esaminare una domanda di protezione
internazionale spetta allo Stato membro che appare, per azione o omissione, principalmente
responsabile della presenza del richiedente protezione nello spazio integrato.

I criteri generali assumono come competente:

a) lo Stato membro nel cui territorio soggiorna legalmente un familiare del richiedente, ossia lo
Stato dove può realizzarsi il ricongiungimento del richiedente. Per i minori non accompagnati
che, in assenza di parenti sul territorio UE, abbiano presentato multiple domande di protezione,
la Corte ha stabilito che la competenza deve essere attribuita allo Stato dove il minore si trova,
avendovi presentato la domanda di protezione più recente;

b) lo Stato membro che ha rilasciato al richiedente un titolo di soggiorno o un visto di ingresso;

c) lo Stato membro la cui frontiera il richiedente ha varcato illegalmente per via terrestre, marittima o
aerea, in provenienza da uno Stato terzo, purchè tale attraversamento sia accertato, tramite
elementi di prova o circostanze indiziarie, compreso il confronto delle impronte digitali.

A integrazione dei criteri generali sono previste norme speciali e clausole di deroga attivabili dagli

Stati membri su base discrezionale o per esigenze di carattere umanitario.

In forza della clausola di sovranità è data facoltà a ogni Stato membro di esaminare una domanda di
protezione internazionale, anche se la competenza non gli spetta in base ai criteri generali, e
d’assumere conseguentemente gli obblighi connessi a tale scelta.

In virtù della clausola che fa leva sulle esigenze di carattere umanitario, lo Stato membro competente
può chiedere a un altro Stato membro di procedere al ricongiungimento del richiedente con persone
legate da qualsiasi vincolo di parentela, previo assenso scritto degli interessati.

Particolare rilevanza hanno infine i criteri di competenza residuali o di chiusura previsti per ipotesi
in cui i criteri di competenza generali non abbiano dato risultati.

Il regolamento Dublino prevede anche procedure di presa in carico del richiedente da parte dello
Stato membro competente ai fini dell’esame nel merito della domanda, nonchè del trasferimento
dell’interessato verso lo Stato membro.

È importante sottolineare che le procedure in questione sono soggette a termini imperativi, decorsi i
quali la competenza ad esaminare la domanda si radica sullo Stato membro che ha dato prova di
inerzia, con conseguente attribuzione della responsabilità di esaminare la domanda di protezione
internazionale.

Inizialmente, la giurisprudenza aveva disconosciuto la possibilità di far valere dinanzi al giudice


nazionale l’erronea applicazione dei criteri di competenza previsti dal regolamenti Dublino.

Di seguito la Corte ha tratto spunto dal rafforzamento delle garanzie giurisdizionali operato dal reg
604/2013 per ribaltare la soluzione già tracciata.

Alla luce di questo nuovo e ormai consolidato orientamento i richiedenti protezione possono
invocare la violazione dei criteri di competenza previsti dal reg Dublino.

I criteri di competenza e il meccanismo dei trasferimenti sono stati oggetto di fondate critiche;
l’individuazione della competenza in capo al primo Stato dell’ingresso illegale attribuisce
sistematicamente agli Stati situati alle frontiere esterne dell’UE la responsabilità di protezione e di
accoglienza.

In situazioni di eccezionale pressione migratoria, ciò conduce alla saturazione e al collasso dei
sistemi di accoglienza degli Stati membri periferici, con conseguente rischio di violazione dei diritti
fondamentali dei richiedenti protezione (questo si è effettivamente verificato in Grecia).

A seguito dei tentativi degli Stati membri di bloccare il meccanismo dei trasferimenti, la Corte Edu ha
affermato che gli Stati vincolati dal sistema Dublino devono astenersi dal trasferire verso lo Stato
membro competente un richiedente asilo quando vi sia il rischio fondato che questi subisca
trattamenti contrari all’art. 3 CEDU.

37
Nel 2011 con il caso NS, il richiedente asilo afgano che, entrato nell’UE tramite la Grecia, senza
richiedere protezione, è stato posto in detenzione in Grecia e poi in Turchia (Stato terzo). NS si è poi
recato nel Regno Unito, dove presenta la prima domanda di asilo e il Regno Unito chiede la presa in
carico alla Grecia e, di fronte all’inerzia della Corte Greca, vi trasferisce l’interessato.

La Grecia blocca il trasferimento perchè dichiara che vi sia una situazione di carenza sistemica
quanto al trattamento dei richiedenti asilo, accertata dalla Corte EDU e tale da costituire motivi seri e
comprovati che il richiedente corresse un rischio reale di subire trattamenti vietati dall’art. 4 della
Carta.

La Corte colma le lacune nel 2019, con la sent Jawo, precisando che “quando il giudice investito di
un ricorso avverso una decisione di trasferimento dispone di elementi prodotti dall’interessato per
dimostrare l’esistenza di un tale rischio, il suddetto giudice è tenuto a valutare, sulla base di elementi
oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati e in considerazione del livello di tutela dei
diritti fondamentali garantito dal diritto UE, l’esistenza di carenze sistematiche o generalizzate, che
colpiscono determinati gruppi di persone.

Al fine di scongiurare la saturazione dei sistemi di identificazione e di accoglienza degli Stati membri
posti alle frontiere esterne dell’UE e nella prospettiva di attuare forme di solidarietà fra Stati membri,
ha istituito un meccanismo di allerta rapido, di preparazione e di gestione delle crisi, guidato
dalla Commissione europea con il coinvolgimento delle altre istituzioni, dell’Ufficio europeo di
sostegno per l’asilo, nonchè dello Stato membro interessato.

Detto meccanismo è attivabile qualora il funzionamento del sistema di Dublino può essere
ostacolato da un rischio comprovato di speciale pressione sul sistema di asilo di uno Stato e/o da
problemi nel funzionamento del sistema di asilo di uno Stato membro.

Peraltro, a seguito delle pressioni migratorie verificatesi negli ultimi anni, è stato istituito un ulteriore
meccanismo, di durata limitata nel tempo, detto di ricollocazione.

In base ad esso quote di richiedenti in evidente bisogno di protezione internazionale, vengono


trasferiti da determinati Stati membri, verso altri che diventano competenti per l’esame della
domanda di protezione.

Allo scopo di dimostrare solidarietà nei confronti dei paesi terzi nei quali sono sfollate un gran
numero di persone bisognose di protezione internazionale, di contribuire alle iniziative internazionali
di ammissione umanitaria e alla migliore gestione complessiva della migrazione la Commissione ha
varato programmi europei (facoltativi) di reinsediamento; si tratta del trasferimento di contingenti di
stranieri o apolidi con evidente bisogno di protezione internazionale da un paese terzo in uno Stato
membro consenziente, allo scopo di proteggerli dal respingimento e di riconoscere loro il diritto di
soggiorno e tutti gli altri diritti analoghi a quelli riconosciuti ai beneficiari di protezione internazionale.

7. Gli stranieri regolarmente soggiornanti

Il TFUE riconosce all’UE la competenza a disciplinare l’ingresso e il soggiorno legale degli stranieri
sul territorio di uno Stato membro, per periodi di breve o lunga durata.

L’art. 77 par 2 TFUE prevede che il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la
procedura legislativa ordinaria, adottano misure riguardanti la politica comune dei visti e di altri titoli
di soggiorno di breve durata.

Inoltre, con la stessa procedura possono essere adottate misure relative alle condizioni di ingresso e
soggiorno e norme sul rilascio da parte degli Stati membri di visti e titoli di soggiorno di lunga durata,
compresi quelli rilasciati a scopo di ricongiungimento familiare, nonchè misure dirette alla definizione
dei diritti dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro, comprese le
condizioni che disciplinano la libertà di circolazione e di soggiorno negli altri Stati membri.

Tale competenza è stata utilizzata solo in parte dalle istituzioni dell’Unione; manca infatti una
disciplina completa dell’immigrazione regolare, in particolare per ciò che attiene ai soggiorni che non
siano di breve durata.

La competenza dell’UE non comprende la determinazione dei volumi di ingresso dei cittadini di paesi
terzi per motivi di lavoro.

Il TFUE riserva questa decisione fondamentale ai singoli Stati membri (riserva di sovranità).

Spetta agli Stati membri la fissazione dei criteri per l’acquisto della cittadinanza per neutralizzare da
parte degli stranieri e la decisione di attribuire loro diritti politici, compreso l’elettorato attivo o
passivo per le elezioni del Parlamento europeo.

38
L’ingresso e il soggiorno di breve durata sono disciplinati dal codice frontiere Schengen; all’art. 6
par 1 tale codice fissa le condizioni alle quali lo straniero può accedere allo spazio Schengen per un
soggiorno non superiore a 90 giorni.
Il soggiorno nell’UE può avere una durata fino a 90 giorni su un arco temporale di 180 giorni.

Per verificare il rispetto di tale limite bisogna prendere in considerazione il periodo di 180 giorni che
precede ogni giorno di soggiorno.

In altri termini, il limite massimo è rispettato se per ogni giorno in cui si trova nel territorio di uno
Stato membro l’interessato, nei 180 giorni precedenti, non è mai andato oltre i 90 giorni di presenza
nell’UE. Il periodo di 90 giorni può essere anche non continuativo e risultare dal cumulo di più
soggiorni di durata inferiore.

Il soggiorno di durata superiore a 90 giorni è disciplinato da una serie di direttive che dettano
disposizioni diversificate, a seconda del tipo di attività che lo straniero esercita o intende esercitare
sul territorio di uno Stato membro.

La disciplina UE risulta parziale e frammentata.

La dir 2011/98/UE si propone di semplificare le procedure, stabilendo che, qualora non sia già
previsto, gli Stati membri devono rilasciare mediante un unico documento il permesso di lavoro e
l’autorizzazione al soggiorno (artt. 4 e 6).

Il permesso unico è rilasciato dall’autorità competente designata da ogni Stato membro, la quale
deve decidere, salvo circostanze eccezionali dovute alla complessità dell’istruttoria, entro quattro
mesi dalla data di presentazione della domanda (art. 5).

I cittadini di paesi terzi, che sono ammessi in uno Stato membro per motivi di lavoro e quelli
ammessi a fini diversi ai quali è consentito lavorare, godono della parità di trattamento rispetto ai
cittadini dello Stato membro di soggiorno, relativamente ai seguenti profili: condizioni di lavoro;
associazione, adesione e partecipazione a organizzazioni sindacali e di categoria; istruzione e
formazione professionale; riconoscimento di diplomi, certificati e altre qualifiche professionali;
sicurezza sociale; agevolazioni fiscali; accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico ed
erogazione degli stessi, incluse per l’ottenimento di un alloggio; infine, servizi di consulenza forniti
dai centri per l’impiego.

Il diritto alla parità di trattamento può essere limitato sulla base delle numerose deroghe previste
dalla direttiva, le quali devono essere interpretate restrittivamente.

Il divieto di discriminazioni, negli ambiti indicati, non pregiudica il potere dello Stato membro di
revocare o rifiutare il rinnovo del permesso di soggiorno (art. 14).

Numerose sono le direttive settoriali che disciplinano l’accesso e il soggiorno di cittadini di paesi
terzi in relazione a specifiche attività lavorative, di studio, di ricerca o di volontariato.

Va ricordato che agli stranieri familiari di cittadini dell’UE si applica la disciplina di accesso e
soggiorno introdotta dalla dir 2004/38/CE.

Regimi speciali possono essere previsti per i cittadini con i quali l’UE abbia concluso accordi di
associazione.

Se il soggiorno dello straniero si prolunga per almeno 5 anni trova applicazione la dir 2003/109/CE
del Consiglio, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo.

Per accedere a tale status, il soggiorno dello straniero deve essere regolare e continuativo; le
assenza per periodi non superiori a sei mesi (e che in totale non superano i 10 mesi nei 5 anni) non
assumono rilievo, nel senso che sono comunque considerati periodi di soggiorno e devono essere
computate nel calcolo del termine di 5 anni.

L’interessato inoltre deve dimostrare di disporre per sè e i familiari a carico, di risorse stabili e
regolari, sufficienti al loro sostentamento e di avere un’assicurazione malattia.

La Corte ha stabilito che non è decisiva la provenienza delle risorse, ma lo è il carattere duraturo e
sufficiente, tenuto conto della situazione individuale dell’interessato.

Ne consegue che risorse provenienti da un terzo o da un familiare, attestate da un impiego di presa


in carico giuridicamente vincolante, devono essere prese in considerazione dagli Stati membri.

Gli Stati membri possono subordinare il riconoscimento dello status di soggiornante di lungo periodo
al soddisfacimento di condizioni di integrazione definite dalla legislazione nazionale, come la
partecipazione a corsi e il superamento di esami volti ad acquisire e a dimostrare la conoscenza
della lingua e della società dello Stato membro ospitante; un’ulteriore condizione che is può imporre
è il possesso di un alloggio adeguato.

39
Oltre che per l’assenza dei requisiti richiesti, gli Stati membri possono negare tale status per ragioni
di ordine pubblico o di pubblica sicurezza; la Corte ha tuttavia precisato che le misure giustificate da
questi motivi possono essere adottate solo se dopo una valutazione caso per caso da parte delle
autorità competenti, si stabilisce che il comportamento individuale dell’interessato rappresenta
attualmente un pericolo reale e sufficientemente grave per un interesse fondamentale della società.
La semplice esistenza di precedenti penali non consente di negare lo status, ma si devono valutare e
bilanciare una serie di fattori, in particolare la gravità o la natura del reato commesso dall'interessato
e il pericolo che egli rappresenta per l’ordine e la sicurezza pubblica, ma anche la durata del suo
soggiorno nello Stato membro ospitante e gli eventuali legami con esso.

Il riconoscimento dello status di soggiornante comporta il diritto al rilascio di un apposito permesso


di soggiorno, valido per almeno 5 anni e automaticamente rinnovabile dietro semplice richiesta
dell’interessato.

Il rilascio del permesso per soggiornanti di lungo periodo non può essere subordinato al pagamento
di contributi sproporzionati.

L’importo versato dai cittadini per ottenere i documenti di identità può costituire un utile elemento di
raffronto per valutare l’adeguatezza dei contributi richiesti agli stranieri per il rilascio di detto
permesso.

La giurisprudenza ha riconosciuto agli Stati membri il potere di imporre agli stranieri misure di
integrazione, quali corsi di lingua e di educazione civica, anche successivamente al riconoscimento
dello status di soggiornanti di lungo periodo.

A differenza delle condizioni di integrazione già indicate in precedenza, misure del genere non
possono condizionare l’ottenimento o la conservazione dello status; inoltre devono essere
compatibili con l’obiettivo della dir. 2003/109/CE di favorire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi
stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri.

I costi e le modalità organizzative dei corsi e degli esami imposti agli stranieri titolari di un permesso
per soggiornanti di lungo periodo, come l’importo delle sanzioni eventualmente previste in caso di
mancato superamento delle prove, non devono essere sproporzionati rispetto a questo obiettivo.

La scadenza del permesso non fa venire meno lo status di soggiornante di lungo periodo, il quale è
riferito alla persona e ha carattere permanente, mentre la perdita o la revoca dello status può
avvenire solo in caso di una sua acquisizione fraudolenta, in caso di adozione nei confronti dello
straniero di una misura di allontanamento e, infine, quando l’interessato si assenta per un periodo di
dodici mesi dal territorio UE o di sei anni dallo Stato membro di soggiorno.

L’allontanamento di un soggiornante di lungo periodo può essere deciso solo se l’interessato


costituisce una minaccia effettiva e sufficientemente grave per l’ordine pubblico o la pubblica
sicurezza; prima di adottare la decisione di allontanamento, le competenti autorità statali devono
svolgere una valutazione caso per caso, che tenga conto di elementi, quali la durata del soggiorno
nel territorio dello Stato membro ospitante, l’età dell’interessato, le conseguenze di un
allontanamento per quest’ultimo e per i suoi familiari.

I beneficiari dello status di soggiornante hanno diritto alla parità di trattamento rispetto ai cittadini
nazionali per quanto riguarda gli stessi profili del permesso unico, con aggiunta del libero accesso a
tutto il territorio dello Stato membro di residenza (art. 11 par 1).

La direttiva prevede delle deroghe alla parità di trattamento, che gli Stati membri possono
introdurre nella loro legislazione e che devono essere interpretate restrittivamente e possono essere
invocate solo se lo Stato membro interessato ha chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle
stesse in sede di recepimento della direttiva.

Dopo aver ottenuto lo status di soggiornante di lungo periodo in un primo Stato membro, lo straniero
può trasferirsi e soggiornare, a certe condizioni, in un altro Stato membro.

Lo straniero giunto in uno Stato membro, lasciando i familiari nel paese terzo di provenienza, può
ricostituire l’unità familiare esercitando il diritto al ricongiungimento familiare, le cui condizioni
sono stabilite dalla dir. 2003/86/CE, la quale si applica anche quando il soggiornante è un rifugiato
riconosciuto dallo Stato membro ospitante. Non si applica invece quando il soggiornante è uno
straniero o un apolide che richiede lo status di rifugiato, o quando l’interessato è autorizzato a
soggiornare in uno Stato membro in virtù di forme sussidiarie di protezione o in virtù di una
protezione temporanea.

Non si applica neppure agli stranieri familiari di cittadini UE, in quanto la loro posizione ricade nel
regime di libera circolazione previsto in favore di questi soggetti dalla dir. 2004/38/CE.

40
La direttiva consente agli Stati membri di applicare deroghe e di fissare condizioni aggiuntive per il
ricongiungimento. Le facoltà di deroga in favore degli Stati membri devono essere interpretate
restrittivamente.

Inoltre, quando si avvalgono del margine di discrezionalità riconosciuto dalla direttiva, gli Stati
membri devono osservare i diritti fondamentali, in particolare il diritto al rispetto della vita privata e
familiare, il quale risulta dall’art. 8 CEDU e dall’art. 7 della Corta.

In via di principio, il diritto al ricongiungimento spetta al cittadino di un paese terzo che sia in
possesso di un permesso di soggiorno di durata almeno annuale e che abbia una fondata
prospettiva di ottenere il diritto di soggiornare in modo stabile.

L’accertamento di tale prospettiva spetta alle autorità nazionali competenti, le quali godono a tal fine
di un margine di discrezionalità elevato, limitato dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali.

Inoltre, ciascuno Stato membro può imporre ulteriori requisiti, quali:

- la disponibilità di un alloggio considerato normale per una famiglia analoga nella stessa regione e
che corrisponda alle norme generali di sicurezza e di salubrità in vigore nello Stato membro
interessato;

- Un’assicurazione contro la malattia;

- La disponibilità di risorse stabili e regolari sufficienti per mantenere se stesso e i familiari senza
ricorrere al sistema di assistenza sociale dello Stato membro.

Con riguardo al requisito della stabilità, regolarità e sufficienza delle risorse, la COrte ha precisato
che gli Stati membri possono fissare una soglia minima di reddito per valutare l’autorizzazione al
ricongiungimento —> l’importo predeterminato può essere solo indicativo, non può costituire la sola
base per un provvedimento di diniego; deve esservi un’analisi caso per caso.

Al fine di valutare la stabilità, regolarità e sufficienza delle risorse gli Stati membri possono verificare
la disponibilità di un certo reddito al momento della richiesta del ricongiungimento, ma anche
considerare la prospettiva di mantenimento del reddito per un ragionevole periodo di tempo.

Inoltre, gli Stati membri possono richiedere ai cittadini di paesi terzi misure di integrazione, quali
l’obbligo di superare un esame di lingua e di educazione civica di livello elementare; questo tipo di
misura può essere imposto anche prima di autorizzare l’ingresso e il soggiorno dei familiari.

La direttiva del 2003 consente di apporre ulteriori vincoli.

La durata del soggiorno dell’interessato, prima che questi possa farsi raggiungere dai familiari
(periodo di attesa) può essere prolungata fino a due o a tre anni.

L’ingresso del familiare può comunque essere negato qualora questi costituisca un pericolo per
l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza e per ragioni di sanità pubblica.

La direttiva individua due gruppi di familiari il cui ingresso e soggiorno deve o può essere
autorizzato:

> è imposto agli Stati di consentire il ricongiungimento del coniuge e dei figli minori non coniugati;

> è lasciata alla facoltà degli Stati l’autorizzazione al ricongiungimento con gli ascendenti diretti di
primo grado a carico e dei figli adulti non coniugati. Inoltre gli Stati possono autorizzare l’ingresso
e il soggiorno del convivente stabile e del partner di una relazione formalmente registrata.

I diritti dei familiari che hanno raggiunto il soggiornante sono indicati nella direttiva del 2003; essi
possono accedere all’istruzione, ad un’attività lavorativa, all’orientamento, alla formazione, al
perfezionamento e all’aggiornamento professionale.

I trattati non riconoscono agli stranieri il diritto di circolare liberamente all’interno dell’UE e di
soggiornare in un altro Stato membro; essi si limitano ad attribuire al Parlamento europeo e al
Consiglio il potere di adottare misure che fissano le condizioni alle quali questo può avvenire.

La circolazione per periodi di breve durata (libertà di viaggio) è riconosciuta a:

- stranieri titolari di un visto uniforme, per tutta la durata del visto;

- Stranieri non soggetti all’obbligo di visto, per una durata massima di 90 giorni su un periodo di
180 giorni;

- Stranieri in possesso di un titolo di soggiorno o di un visto di soggiorno di lunga durata rilasciato


da uno Stato membro, sempre per una durata massima di 90 giorni su un periodo di 180 giorni.

La circolazione all’interno dell’UE per periodi superiori a 90 giorni non è oggetto di una disciplina
organica, essendo regolamentata da singole direttive in relazione a specifiche categorie di stranieri.

Un particolare regime è previsto a favore dei soggiornanti di lungo periodo: dopo aver ottenuto in
un primo Stato membro il relativo status, questi possono spostarsi e risiedere in un altro Stato
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membro, al fine di svolgervi un’attività lavorativa, di seguire un corso di studi o formazione
professionale ecc.

Tuttavia, qualora la legislazione interna preveda limitazioni all’ammissione di cittadini di paesi terzi, gli
Stati possono fissare delle quote, limitando così il numero totale di persone che possono rivendicare
il diritto di soggiorno.

Inoltre, gli Stati possono riservare una priorità per l’accesso al lavoro in favore dei cittadini dell’UE,
dei cittadini di paesi terzi che nello Stato membro interessato risiedono legalmente e ricevono sussidi
di disoccupazione, o di altre categorie di stranieri quando ciò sia previsto dal diritto UE.

8. Gli stranieri in condizioni di soggiorno irregolare

L’art. 79 par 2 lett d TFUE attribuisce all’UE la competenza ad adottare misure nel settore
dell’immigrazione clandestina e del soggiorno irregolare, compresi l’allontanamento e il rimpatrio
delle persone in soggiorno irregolare.

Il principale atto adottato in materia è la dir. 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
recante norme e procedure comuni applicabili negli stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi
il cui soggiorno è irregolare.

La direttiva costituisce un atto di armonizzazione minima; definisce la procedura di espulsione nelle


sue tappe essenziali, demandando alle misure interne di trasposizione la disciplina di dettaglio del
rimpatrio.

Nell’attuazione della direttiva, gli Stati membri dispongono sotto vari aspetti, di un margine di
discrezionalità, in considerazione delle peculiarità del diritto nazionale.

I poteri discrezionali riservati agli Stati membri devono comunque essere esercitati osservando i
diritti fondamentali, in particolare il principio di non refoulement.

Inoltre, gli Stati membri devono tenere nella debita considerazione la vita familiare e le condizioni di
salute dello straniero, nonchè l’interesse superiore dei bambini eventualmente coinvolti nel
procedimento di espulsione

La direttiva si applica ai cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare = ogni cittadino di un
paese terzo che si trovi sul territorio di uno Stato membro senza rispettare i requisiti stabiliti ai fini
dell’ingresso, del soggiorno o della residenza.

Le modalità di ingresso o soggiorno illegale sono indifferenti ai fini dell’applicabilità della direttiva.

Particolare è la posizione dei cittadini di Paesi terzi che hanno presentato una domanda di
protezione internazionale; a prescindere delle modalità di ingresso nell’area Schengen, i richiedenti
asilo o protezione sussidiaria non possono essere considerati in condizioni di soggiorno irregolare.

La sentenza Gnandi del 2018 ha stabilito che il soggiorno dell’interessato diviene irregolare a partire
da quando le autorità competenti hanno adottate una decisione negativa.
Inoltre precisa che gli Stati membri devono garantire la piena efficacia del ricorso contro la decisione
di rigetto della domanda di protezione internazionale, con la conseguenza che, nelle more del ricorso,
la procedura di rimpatrio deve essere sospesa.

In definitiva, la direttiva si applica ai richiedenti protezione dal momento dell’adozione della decisione
negativa, ma tutti gli effetti giuridici del provvedimento di espulsione sono sospesi fino alla pronuncia
definitiva sul ricorso eventualmente proposto dagli interessati.

Alcune categorie di cittadini sono escluse dall’ambito di applicazione della direttiva del 2008; l’art. 2
par 3 stabilisce che non si applica ai beneficiari del diritto comunitario alla libera circolazione.

Tale espressione si riferisce anzitutto agli stranieri familiari di cittadini dell’UE, i quali non sono
soggetti alla direttiva; sono esclusi anche i cittadini di Paesi terzi che appartengono all’area
Schengen, come i rispettivi familiari.

Altre due categorie escluse sono i soggetti sottoposti a respingimento alla frontiera (casi frontalieri) e
i soggetti sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale,
in conformità della legislazione nazionale o sottoposti a procedure di estradizione (casi di diritto
penale e di estradizione).

La direttiva predispone un meccanismo di espulsione a intensità graduale crescente, che offre allo
straniero la possibilità di rimpatrio volontario, ma permette poi agli Stati membri di eseguire
l’allontanamento in modo coattivo, con strumenti più restrittivi della libertà personale.

La procedura prende avvio con l’accertamento dell’ingresso o del soggiorno irregolare da parte delle
autorità nazionali competenti; a seguito di tale accertamento, uno Stato membro ha l’obbligo di
adottare una decisione di rimpatrio, la quale consiste in una decisione o in un atto amministrativo o

42
giudiziario, che attesti l’irregolarità del soggiorno di un cittadino di paesi terzi e imponga o attesti
l’obbligo di rimpatrio.

La decisione deve individuare il Paese terzo nel quale lo straniero deve fare ritorno, che può
consistere nel proprio paese di origine, in un paese di transito o in un altro paese terzo in cui decide
volontariamente di tornare e in cui sarà accettato.

Nonostante non sia previsto dalla direttiva, lo straniero in condizione di soggiorno irregolare ha il
diritto di essere ascoltato prima dell’adozione della decisione di rimpatrio.

Da parte sua, l’interessato ha un obbligo di leale cooperazione con l’autorità competente; lo straniero
deve cooperare al fine di fornire alla stessa tutte le informazioni pertinenti relative alla propria
situazione personale e familiare e, in particolare, quelle che possono giustificare la non adozione di
una decisione di rimpatrio.

Il diritto dello straniero di essere sentito non può essere strumentalizzato per riaprire o prorogare
indefinitamente il procedimento amministrativo.

La decisione di rimpatrio deve concedere allo straniero un termine congruo, compreso tra i 7 e i 30
giorni, per la partenza volontaria dal territorio dello Stato.

Ove necessario il termine può essere prorogato dagli Stati membri.

Il termine per la partenza volontaria può essere negato o abbreviato solo se sussiste il pericolo di
fuga, ordine pubblico e pubblica sicurezza.

Quando il periodo per la partenza volontaria non sia stato concesso o quando l’obbligo di rimpatrio
non sia stato ottemperato, la decisione deve essere corredata da un divieto di ingresso nell’UE
prima che sia trascorso un certo periodo di tempo; è uno strumento diretto ad aumentare l’efficacia
della politica UE in materia di rimpatrio.

La durata del divieto di ingresso è determinata tenendo conto delle circostanze del caso di specie.

Non può superare i 5 anni; una durata maggiore può essere prevista solo nei casi in cui lo straniero
costituisca una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale.

Il dies a quo dal quale decorre il termine per il calcolo della durata del divieto di ingresso coincide
con il momento in cui l’interessato ha effettivamente lasciato il territorio degli Stati membri.

Laddove l’obbligo di rimpatrio non sia stato adempiuto spontaneamente, gli Stati membri devono
procedere all’allontanamento in maniera coattiva, prendendo tutte le misure necessarie, comprese,
all’occorrenza, le misure coercitive; la direttiva lascia agli Stati membri l’esatta determinazione dei
provvedimenti concreti per raggiungere tale risultato e nelle operazioni di rimpatrio possono ottenere
il supporto di Frontex = guardia di frontiera e costiera europea.

Le misure coercitive possono includere anche una privazione della libertà personale, nella forma del
trattenimento = misura coercitiva che priva lo straniero della sua libertà di circolazione e lo isola dal
resto della popolazione, impedendogli di soggiornare in modo permanente in un perimetro
circoscritto e ristretto.

Questo tipo di detenzione può essere disposta qualora interventi meno invasivi non siano possibili,
se l’interessato ostacola le operazioni di rimpatrio o se sussiste il pericolo di fuga.

Il trattenimento ha una durata quanto più breve possibile; il termine massimo previsto p di 6 mesi
che può essere prorogato fino a 12 mesi.

Il trattenimento deve avvenire in appositi centri di permanenza temporanea; qualora questo non sia
possibile, gli Stati membri sono eccezionalmente autorizzati a collocare lo straniero in un istituto
penitenziario, tenendoli separati dai detenuti ordinari —> garanzia di rispetto dei diritti
espressamente riconosciuti dal legislatore UE.

Lo straniero può fare ricorso, chiedendo anche la sospensione cautelare.

A pronunciarsi sul ricorso deve essere un’autorità giudiziaria o amministrativa, o un organo


competente composto da membri imparziali che offrono garanzie di indipendenza, ma deve esservi
poi la possibilità di ricorrere davanti a un’autorità giurisdizionale indipendente.

La direttiva del 2008 impone un doppio grado di giudizio.

Il diritto al ricorso implica la possibilità di chiedere la sospensione in via cautelare dell’esecuzione


delle decisioni connesse al rimpatrio; la direttiva non impone che la proposizione del ricorso
determini automaticamente la sospensione di queste decisioni, è quindi sufficiente che la
legislazione interna riconosca al giudice nazionale il potere di concedere provvedimenti cautelari a
seguito della proposizione della relativa istanza da parte dell’interessato.

Nonostante non sia previsto dalla direttiva, in casi eccezionali, gli Stati membri devono prevedere un
effetto sospensivo automatico derivante dalla mera introduzione del ricorso contro il provvedimento
di espulsione; questa garanzia deve essere riconosciuta riconosciuta nelle ipotesi caratterizzate

43
dall’eccezionale gravità e irreparabilità del pregiudizio che potrebbe derivare al migrante
dall’allontanamento.

La posizione dello straniero nei cui confronti non sia stato possibile eseguire una decisione di
rimpatrio non è disciplinata dalla direttiva, ma dal considerando n 12, emerge che gli Stati membri
debbano rilasciare a quanti non possono ancora essere soggetti ad allontanamento una conferma
scritta della loro situazione; sul modello di tale attestazione essi godono di un’ampia discrezionalità.

Es: nel 2011 la Corte ha dichiarato l’incompatibilità con la direttiva del 2008 di norme interne che
puniscono l’ingresso o il soggiorno irregolare con pene detentive da applicare quando la procedura
di rimpatrio è in corso.

La Sentenza El Dridi riguardava la legislazione italiana che puniva, con reclusione, la violazione da
parte dello straniero di un ordine di allontanamento del territorio nazionale —> la Corte ha stabilito
che gli Stati membri non possono introdurre una pena detentiva solo perchè un cittadino di un paese
terzo permane in maniera irregolare dopo la notifica dell’ordine di lasciare il territorio; gli Stati membri
devono continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a
produrre i suoi effetti.

La direttiva del 2008 si inserisce nel quadro di una più ampia strategia di contrasto all’immigrazione
illegale predisposta dall’UE.

Le istituzioni dell’UE hanno adottate diverse misure dirette a reprimere il traffico dei migranti e la
tratta di esseri umani, a tutelare le vittime di tali fenomeni e a punire i datori di lavoro che impiegano
stranieri in condizione di soggiorno irregolare.

9. La dimensione esterna della politica di immigrazione e d’asilo dell’UE

L’UE e gli Stati membri stanno sviluppando un impianto di relazioni con i Paesi terzi di origine e di
transito dei flussi migratori e con le organizzazioni internazionali attive nel settore dell’asilo e
dell’immigrazione.

Questa azione esterna è condotta attraverso numerosi strumenti, molto diversi tra loro per natura ed
efficacia giuridica.

In alcuni casi, l’UE dispone della competenza di concludere veri e propri accordi internazionali; può
stipulare accordi di riammissione, ossia convenzioni internazionali con le quali un paese terzo si
impegna a riammettere sul proprio territorio le persone che soggiornano illegalmente in uno Stato
membro.

Dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la conclusione degli accordi di riammissione ha una
espressa base giuridica, costituita dall’art. 79 par 3 TFUE.

Si può ricorrere alla procedura di riammissione prevista da un accordo del genere solo dopo che una
decisione di rimpatrio sia stata adottata, conformemente alle garanzie procedurali del diritto UE e nel
rispetto dei diritti fondamentali, in particolare del principio di non refoulement e del divieto di
espulsioni collettive.

Singole clausole di riammissione possono essere inserite all’interno di accordi internazionali di più
ampio contenuto, come gli accordi di associazione e di cooperazione.

A trarre vantaggio dagli accordi di riammissione è l’UE; l’interesse dei Paesi di origine è limitato,
ancora minore, se non nullo è l’interesse dei Paesi di transito che riammettono cittadini di altri Stati.

Per promuovere la stipula di questi accordi, l’UE fa leva sulla prospettiva di concedere alle
controparti incentivi di varia natura; in quest’ottica la conclusione di accordi di riammissione è stata
spesso accompagnata da negoziati per la stipula di accordi di facilitazione del rilascio dei visti;
questi mirano a semplificare le procedure per ottenere visti per soggiorni di breve durata nello spazio
Schengen.

Gli accordi definiscono le categorie di persone che godono di agevolazioni nell’ambito della
procedura di rilascio del visto e precisano i vantaggi di cui esse possono beneficiare.

Un’altra tipologia di accordi internazionali è costituita dagli accordi sullo status, che l’UE conclude
con un paese terzo confinante quando la gestione delle frontiere esterne richiede l’invio di squadre
attinte dal corpo permanente di Frontex, i cui membri eserciteranno poteri esecutivi.

L’accordo definisce tutti gli aspetti necessari all’esecuzione delle attività delle squadre, e deve
garantire il pieno rispetto dei diritti fondamentali nel corso delle operazioni, oltre che prevedere un
meccanismo di denuncia.

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Sempre più numerose sono le intese operative che organi dell’UE stringono con organizzazioni e
organismi internazionali o con le autorità di paesi terzi incaricati della gestione dei flussi migratori.

Esse non impegnano l’UE sul piano internazionale e valgono finchè sussiste la volontà politica dei
soggetti coinvolti di rispettarle.

Un esempio di queste intese sono gli accordi di lavoro di Frontex; intese stipulate direttamente
dall’Agenzia con organizzazioni internazionali o con autorità di paesi terzi competenti nel controllo
delle frontiere e nel contrasto dell’immigrazione irregolare.

Gli accordi di lavoro con organizzazioni internazionali sono oggetto di approvazione preliminare della
Commissione; l’agenzia informa il Parlamento europeo e il Consiglio in merito a tali accordi.

Anche gli accordi di lavoro con autorità di paesi terzi richiedono l’autorizzazione preventiva della
Commissione; il Parlamento deve ricevere informazioni dettagliate riguardo alle parti dell’accordo di
lavoro e al contenuto previsto.

Anche l’EASO (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) ha il potere di concludere accordi operativi
con le autorità di Paesi terzi.

Il reg 439/2010 gli riconosce il potere di cooperare con le autorità su aspetti tecnici dei settori
disciplinati dal regolamento stesso, conformemente alle disposizioni del TFUE.

Un’altra tipologia di atti, che possono essere ricondotti alla categoria delle intese operative, è
costituita dai programmi di sviluppo e protezione regionale (PSPR); si tratta di progetti volti ad
aiutare i paesi terzi presso i quali vi è una grande presenza di rifugiati e di richiedenti asilo.

Questi programmi mirano a sostenere la capacità di protezione di queste persone da parte dei paesi
terzi in cui si trovano, nonchè a supportare lo sviluppo sociale ed economico delle comunità locali
ospitanti.

I progetti sono finanziati da UE, Stati membri e paesi terzi associati a Schengen.

In genere vengono realizzati sotto la direzione di un unico Stato membro che guida un consorzio di
soggetti donatori. Ad oggi i PSPR non sono disciplinati da appositi vincolanti dell’UE (vi è un
riferimento nel reg 439/2010).

È notevole il ricorso a forme di dialogo politico, variamente denominate, dirette alla creazione di un
contesto di fiducia con i paesi terzi coinvolti e all’elaborazione di strategie comuni e piano d’azione
condivisi, sostenuti con risorse finanziarie messe a disposizione dell’UE e degli Stati membri e, in
alcuni casi, da paesi terzi associati a Schengen.

CAPITOLO X: L’UNIONE ECONOMICA MONETARIA

1. Cenni storici e quadro normativo

Nella versione originale del TCE vi era già l’idea di un graduale ravvicinamento delle politiche
economiche degli Stati membri e anche dell’instaurazione di un mercato comune.

Il secondo progetto ha assorbito gran parte delle energie delle istituzioni delle Comunità per lunghi
anni, complice anche la mancanza nel diritto primario delle origini di uno strumentario adeguato per
il conseguimento di un’integrazione delle politiche economiche.

Progetti in direzione id un coordinamento delle politiche economiche e monetarie cominciano a


vedere la luce negli anni ‘70, in risposta agli shock petroliferi che avevano causato non poche
turbolenze e difficoltà, come la crisi del sistema monetario internazionale che si era affermato alla
fine della Seconda guerra mondiale.

Muovendosi al di fuori della cornice formale dei Trattati comunitari, gli Stati membri mettono in atto
due tentativi di cooperazione in campo monetario: il serpente monetario e il Sistema Monetario
Europeo (SME).

La spinta decisiva per l’instaurazione di una vera e propria Unione economica monetaria (UEM)
sarebbe arrivata solo alla fine degli anni ‘80, in concomitanza con i mutamenti che in quell’epoca si
stavano verificando grazie ad un fattore interno all’allora CE, e cioè la realizzazione definitiva della
completa libera circolazione dei capitali.

La creazione di un mercato libero per i capitali faceva avvertire in modo più sensibile l’utilità di
adottare condizioni monetarie uniformi, che liberassero gli operatori economici dai rischi legati alle
variazioni dei cambi tra le valute nazionali.

Il legame con il funzionamento e lo sviluppo del mercato unico dei capitali è riemerso recentemente,
col progetto di costruire un’Unione dei mercati dei capitali.

Il Consiglio europeo di Hannover del 1988, affida all’allora presidente della Commissione, il compito
di predisporre un progetto (rapporto Delors) per la realizzazione dell’UEM; questo ha costituito la

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base su cui si è lavorato per l’elaborazione delle disposizioni che poi sono confluite nel TUE
(Maastricht, 1992).

Per la realizzazione dell’UEM erano previste 3 fasi:

> 1a fase, dedicata al raggiungimento della piena operatività di meccanismi già presenti;

> 2a fase, contrassegnata dalla nascita di una nuova autorità monetaria che avrebbe preso il nome di
Istituto Monetario Europeo (IME) e sarebbe stato il precursore dell’attuale BCE;

> 3a fase, definitivo conferimento a livello comunitario e, in particolare, alla BCE dei poteri sovrani in
materia monetaria, con l’introduzione di una moneta unica, l’euro, e la definizione di apposite
procedure che assicurassero uno stretto coordinamento delle politiche economiche nazionali.

L’1 gennaio 1999 è la data che segna l’avvio di questa ultima fase; l’euro inizia ad essere utilizzato
per gli scambi elettronici e l’1 gennaio 2002 i nuovi segni monetari iniziano a circolare e ad essere
scambiati.

Il Titolo VIII della parte II del TFUE, intitolato “Politica economica e monetaria”, contiene una
disciplina estremamente complessa; oltre a questa complessità, il quadro normativo presenta
un’altra caratteristica propria di questa parte del TFUE: una porzione sostanziale della disciplina in
materia di politica economica e monetaria trova applicazione solo agli Stati membri la cui moneta è
l’euro. Negli altri Stati, detti Stati membri con deroga, non valgono gli articoli della parte II.

Le norme del TFUE in materia di politica economica e monetaria stabiliscono basi giuridiche che
permettono alle istituzioni di adottare atti di diritto derivato.

Il quadro normativo relativo alla politica economica e monetaria non sarebbe completo se non si
menzionasse che gli Stati membri hanno adottato nel tempo, al di fuori dello schema istituzionale
dell’UE, alcuni atti importanti che hanno diretta attinenza con gli sviluppo dell’UEM; si allude in
particolare al Trattato MES = meccanismo europeo di stabilità del 2012 e al Trattato sulla stabilità,
sul coordinamento e sulla governance (fiscal compact) sottoscritto nel 2012.

Nel contesto poi dell’unione bancaria, si è aggiunto nel 2014 l’accordo sul trasferimento e la
messa in comune dei contributi al Fondo di risoluzione unico.

L’UEM è fondata su due rami: la politica economica e la politica monetaria.

L’art. 119 TFUE individua i principi e gli obiettivi dell’UEM; esso può essere letto come una sorta di
manifesto dell’UEM.

Per quanto riguarda la politica economica, l’art. 119 par 1 ci dice che l’azione in questo campo:

- È tanto degli Stati membri quanto dell’UE;

- Si fonda su: coordinamento stretto delle politiche economiche degli Stati membri, il mercato
interno e la definizione di obiettivi comuni;

- Deve essere conforme al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza;

Per quanto riguarda la politica monetaria, l’art. 119 par 2, ci dice che l’azione in tale campo:

- Comprende la moneta unica (euro) e la definizione di una politica monetaria e di una politica del
cambio “uniche”;

- Mira all’obiettivo principale del mantenimento della stabilità dei prezzi e, subordinatamente a tale
obiettivo principale, all’obiettivo di sostenere le politiche economiche generali dell’UE;

- Deve essere svolta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera


concorrenza.

Infine, secondo l’art. 119 par 3, entrambe le politiche implicano il rispetto dei seguenti principi
direttivi:

- Prezzi stabiliti;

- Finanze pubbliche e condizioni monetarie sane;

- Bilancia dei pagamenti sostenibile.

Sul piano delle competenze attribuite all’UE nell’ambito dell’UEM, il quadro normativo appare
sbilanciato in favore della politica monetaria rispetto alla politica economica.

Per quanto riguarda la politica economica, l’art. 2 par 3 TFUE prevede che “gli Stati membri
coordinano le loro politiche economiche e occupazionali secondo le modalità previste dal presente
trattato, la definizione delle quali è di competenza dell’UE”.
Va sottolineato che:

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- soggetto della frase sono gli Stati membri che coordinano le loro politiche economiche; già solo
questo elemento di carattere testuale porta a concludere che gli Stati membri mantengono la loro
competenza nel campo della politica economica (v anche art. 119 par 1);

- inoltre, l’UE gode in questo campo solo di una competenza di portata limitata: la definizione delle
modalità di coordinamento delle politiche nazionali. In questo senso, all’UE spetta una
competenza sui generis, non assimilabile ai tre tipi definiti in termini generali dall’art. 2.

Il coordinamento delle politiche economiche è essenzialmente affidato a strumenti di soft law.


Per quanto riguarda la politica monetaria, invece l’art. 3 par 1 lett c, TFUE; include la politica
monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro tra i settori in cui l’UE è titolare di una
competenza esclusiva.

2. La politica economica

La politica economica è disciplinata dal Capo I del Titolo VIII (artt. da 120 a 126) del TFUE.

Nel suo nucleo originario, tale politica è fondata su:

- Un coordinamento delle politiche economiche degli Stati, affidato principalmente a strumenti di


soft law (art, 121 TFUE);

- L’impostazione di rigidi limiti esterni, cioè di parametri di limitazione della spesa pubblica;

- Altre norme volte a rafforzare e rendere credibili quei limiti (artt. 123-125 TFUE).

Il coordinamento delle politiche economiche avviene attraverso lo strumento degli indirizzi di


massima per le politiche economiche degli Stati membri e dell’UE.

Gli indirizzi di massima son approvati in esito ad una procedura macchinosa, che prende le mosse
da una raccomandazione della Commissione, prosegue con una relazione del Consiglio, un dibattito
in Consiglio europeo e infine una raccomandazione del Consiglio che incorpora gli indirizzi di
massima.

Sulla base di tali indirizzi viene seguita la una procedura di sorveglianza multilaterale (art. 121 par
3 TFUE), in cui viene controllata la congruenza delle politiche economiche di ciascuno Stato con gli
indirizzi.

Una rilevata incongruenza non dà luogo a sanzioni, ma alla pubblicità delle raccomandazioni del
Consiglio nei confronti di quello Stato.

Recentemente, gli indirizzi di massima vengono approvati insieme agli orientamenti per il
coordinamento delle politiche occupazionali previsti dall’art. 148 TFUE (che stabilisce una procedura
di approvazione simile a quella degli indirizzi di massima).

Entrambi sono contenuti in un unico atto, denominato orientamenti integrati.

Oggi la sorveglianza multilaterale è di fatto integrata in numerose procedure introdotte nel corso
della crisi scoppiata nel 2008 per il controllo delle situazioni di bilancio nazionali.

Tra queste, particolarmente rilevante è il Semestre europeo che, con una commistione di atti di hard
law e soft law, realizza una sorta di agenda comune per le decisioni di bilancio nazionali.

I parametri di limitazione della spesa pubblica riguardano il deficit e il debito pubblico (art. 126
TFUE).

Per entrambi l’art. 1 del Protocollo n 12 sulla procedura per i disavanzi pubblici eccessivi stabilisce i
seguenti parametri massimi:

- rapporto disavanzo pubblico/PIL —> deficit < 3% del PIL;

- rapporto debito pubblico/PIL —> debito pubblico < 60% del PIL.

Questi parametri vengono spesso nominati parametri di Maastricht, poichè sono fissati dal
Trattato.

Gli stessi parametri sono usati dall’art. 140 TFUE ai fini della procedura di ammissione alla terza fase
dell’UEM degli Stati membri con deroga (=Stati che non hanno ancora come moneta l’euro).

Tale procedura si svolge ogni due anni generalmente, utilizza anche altri indici, riguardanti
segnatamente il tasso di inflazione, la fluttuazione del tasso di cambio e i tassi di interesse a lungo
termine.

Inoltre viene controllata la compatibilità della legislazione nazionale con lo Statuto SEBC e BCE,
incluse le norme che garantiscono l’indipendenza degli organi decisionali della BCE e delle BCN.

Per accertare ed eventualmente sanzionare il mancato rispetto da parte degli Stati membri dei
parametri indicati è prevista un’apposita procedura per i disavanzi pubblici eccessivi (art. 126,
par 2 ss).

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Tale procedura è particolarmente complessa e prevede numerose fasi; il momento centrale è
costituito dalla decisione del Consiglio che, su proposta della Commissione e sentite le osservazioni
dello Stato membro interessato, stabilisce che esiste un disavanzo eccessivo (par. 6) e adotta, su
raccomandazione della Commissione, le raccomandazioni allo Stato membro in questione al fine di
far cessare tale decisione entro un determinato periodo (par. 7).

Decorso invano il periodo accordato, il Consiglio può decidere di intimare allo Stato membro di
prendere, entro un termine stabilito, le misure volte alla riduzione del disavanzo che il Consiglio ritiene
necessarie per correggere la situazione e può chiedere allo Stato membro di presentare relazioni al
fine di esaminare gli sforzi compiuti da detto Stato per rimediare alla situazione (par. 9).

Le sanzioni previste nel caso in cui lo Stato non ottemperi a tali obblighi sono indicati dal par. 11.

L’inefficacia di tale procedura è emersa drammaticamente in occasione della sentenza del 2004,
causa C-27 Commissione c. Consiglio —> da questa emerge che, nell’ambito della procedura per
disavanzi eccessivi, non vi è alcun automatismo nel passaggio da una fase alla successiva.

Di conseguenza anche il potere del Consiglio di comminare, con decisione, le sanzioni di cui al par
11 (unico atto di hard law previsto nell’intera procedura) è rimesso alla volontà politica del Consiglio
stesso.

Già da prima dell’introduzione dell’euro, le istituzioni e gli stessi Stati membri si erano resi conto
della debolezza tanto della procedura per la sorveglianza multilaterale (art. 121), quanto di quella per
i disavanzi eccessivi (art. 126).

Tale situazione rischiava di mettere in pericolo il coordinamento delle politiche economiche degli
Stati membri e, di conseguenza, la stabilità della stessa moneta comune.

Per evitare il rischio di possibili crisi una volta avviata la terza fase dell’UEM, si è dato vita al Patto di
stabilità e crescita (PSC).

La prima versione si del PSC è costituita dalla risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam del 17
giugno 1997 e da due regolamenti: n. 1466/97 per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni
di bilancio nonchè della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche; e il n.
1467/97, per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i
disavanzi eccessivi.

Tali regolamenti sono stati emendati più volte.

Le vicende legate alla sent. 2004 portano ad una prima riforma del PSC, nel senso di accelerare
nuovamente le procedure e, in particolare, di conferire ad essere maggior certezza.

Al tempo stesso, si vuole introdurre una maggiore flessibilità nella valutazione delle posizioni di
bilancio statali, con riferimento in particolare alla considerazione della spesa in investimenti pubblici
nel contesto della valutazione del rispetto del parametro del deficit.

Il PSC è stato rivisto nuovamente a seguito della crisi del 2008, la quale ha fatto emergere due
esigenze:

- da un lato, l’esigenza di irrigidire la disciplina fiscale del PSC, in particolare per i Paesi
dell’eurozona, per aumentare la credibilità dell’UE e dei suoi Stati membri sui mercati
internazionali;

- dall’altro lato, si deve introdurre una certa flessibilità per far fronte alle necessità di finanziamento
delle macchine statali e degli investimenti pubblici.

Quindi, il PSC è stato rivisto nuovamente nell’ambito del Six Pack; la disciplina di bilancio, specie
per i Paesi dell’eurozona, è stata rafforzata e ne è stato migliorato il coordinamento con la procedura
di sorveglianza multilaterale, di cui all’art. 121 TFUE.

Con l’ultima riforma sono stati introdotti alcuni meccanismi di controllo finalizzati ad accompagnare
le varie fasi in cui vengono prese le decisioni nazionali in materia di bilancio, nonchè una nuova
procedura di sorveglianza volta alla tempestiva individuazione di rischi di squilibri macroeconomici.

Un’altra delle novità introdotte con l’ultima riforma è stata la previsione di una clausola di
salvaguardia generale, che il Consiglio ha attivato nel marzo 2020 a causa delle difficoltà
economiche legate alla pandemia da COVID-19.

Non si tratta di una sospensione del PSC, le cui regole continuano ad essere pienamente vigenti; la
misura in questione consente una temporanea deviazione dei percorsi di aggiustamento prestabiliti e
monitorati nell’ambito del Semestre europeo in caso di grave crisi che colpisca uno Stato membro o
l’UE.

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La riforma del PSC è stata accompagnata dalla conclusione del Trattato di stabilità, sul
coordinamento e sulla governance (c.d. Fiscal Compact), sottoscritto a Bruxelles nel 2012, da 25
Stati membri, compresi quelli dalla zona euro.

Il Fiscal compact è stato concluso per migliorare e rendere più vincolanti le regole di politica
economica previste dal TFUE; è uno strumento complementare rispetto ai trattati, che dovrebbe
facilitare il raggiungimento degli obiettivi dell’UE.

Il Fiscal compact consta di tre parti principali:

> il patto di bilancio (titolo III, artt. 3-8), prescrive a carico degli Stati membri della zona euro degli
obblighi aggiuntivi in materia di politica economica rispetto a quelli previsti dal TFUE:

- il principio del pareggio di bilancio (golden rule): la posizione di bilancio della pa di una parte
contraente è in pareggio o in avanzo (art. 3 par 1 lett a), con l’obbligo per gli Stati contraenti di
recepire la golden rule e le altre specificazioni tramite disposizioni vincolanti e di natura
permanente (preferibilmente costituzionale) o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente
garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio.

- l’obbligo di riduzione del disavanzo eccessivo che superi il 60% del PIL in ragione di un
ventesimo all’anno: quando il rapporto tra il debito pubblico e il PIL di una parte contraente supera
il valore di riferimento del 60% di cui all’art.1 del protocollo sulla procedura per i disavanzi
eccessivi, allegato ai trattati dell’UE, tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di
un ventesimo all’anno (art. 4).

> il coordinamento delle politiche economiche e convergenza (titolo IV, artt. 9-11): gli Stati
contraenti, nel ribadire impegni già risultanti dal TFUE e nel dichiarare la loro volontà di adoperarsi
congiuntamente per una politica economica che favorisca il buon funzionamento dell’unione
economica e monetaria e la crescita economica (art. 9), alludono alla possibilità di ricorrere a una
cooperazione rafforzata ai sensi dell’art.20 TFUE e degli artt. 326-334 TFUE, nelle materie
essenziali al buon funzionamento della zona euro, senza recare pregiudizio al mercato interno (art.10).

> la governance della zona Euro (titolo V, artt. 12-13): le novità più importanti in materia di
governance economica riguardano l’istituzionalizzazione del Vertice euro, noto come euro summit
(art. 12).

Lo stesso Fiscal compact prevedeva all’art.16 che, entro 5 anni dalla sua entrata in vigore, sarebbero
state adottate sulla base dei Trattai istituitivi dell’UE le misure necessarie per incorporare il contenuto
del presente trattato nell’og dell’UE.

Tra le altre norme volte a rafforzare e rendere credibili i descritti parametri di limitazione della spesa,
particolarmente rilevanti sono le norme contenute negli artt. Da 123 a 125 TFUE.

L’art. 123 proibisce che agli Stati membri e alle amministrazioni statali, regionali o locali o agli enti
pubblici o di diritto pubblico, nonchè alle istituzioni, agli organi e agli organismi dell’UE siano
concessi scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia da parte della BCE e delle
banche centrali nazionali.

L’art. 124 vieta che gli stessi soggetti godano di un accesso privilegiato alle istituzioni finanziarie.

L’ultima di tali disposizioni, l’art. 125, contiene il divieto di bail-out, ossia il divieto per l’UE e gli altri
Stati membri di assumere le responsabilità per impegni finanziari di un altro Stato membro.

Questa disciplina è destinata ad essere applicata in modo rigido solo agli Stati membri che hanno
adottato l’euro.

Per gli Stati membri che hanno mantenuto la propria moneta nazionale, l’art. 143 TFUE prevede che
in caso di difficoltà o di grave minaccia di difficoltà nella bilancia dei pagamenti, senza che le misure
raccomandate dalla Commissione allo Stato membro in questione siano risultate utili per il
superamento di tali difficoltà, sia possibile per il Consiglio accordare allo Stato con deroga un
concorso reciproco, che può assumere anche la forma di un aiuto finanziario.

La ratio degli artt. 123/124/125 è di lasciare a ciascuno Stato membro la piena e individuale
responsabilità del mantenimento in equilibrio delle proprie finanze pubbliche.

Senza i divieti imposti dagli artt 123-125, gli Stati membri della zona euro non sarebbero incentivati a
mantenere alta la guardia sui propri conti pubblici.

Per superare possibili contestazioni circa la legittimità di azioni di sostegno finanziario a favore di
Stati membri della zona euro in difficoltà, nel 2011 si è deciso di modificare il TFUE, inserendo nel
titolo VIII, parte III, un’esplicita clausola che permettesse azioni del genere, in particolare, attraverso
un meccanismo di natura permanente.

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All’art. 136 disposizioni specifiche agli Stati membri la cui moneta è l’euro, è stato aggiunto il par 3:
gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove
indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme, la concessione di
qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa
condizionalità.

In concomitanza a questa modifica, è stato concluso a Bruxelles tra gli Stati dell’Eurozona il Trattato
che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità (MES) —> modificato poi nel 2012, ultima
versione.

Il MES è un’organizzazione finanziaria internazionale simile al Fondo Monetario Internazionale (FMI);


ha sede a Lussemburgo e deve reperire i fondi per fornire assistenza finanziaria agli Stati che
conoscano o siano minacciati da gravi difficoltà finanziarie, se indispensabile per garantire la stabilità
finanziaria dell’insieme della zona euro e dei suoi Stati membri.

È dotato di organi autonomi (consiglio dei governatori, consiglio di amministrazione e direttore


generale), ma al suo funzionamento partecipano le istituzioni dell’UE, in particolare la Commissione e
la BCE.

La legittimità dell’istituzione del MES è stata constatata da più parti.

Il 23 aprile 2021 si è concluso un nuovo accordo che emenda il Trattato MES; le modifiche introdotte
sono volte a rafforzare le capacità di intervento del Meccanismo e a renderle conoscibili e prevedibili
nei riguardi di Stati con sani fondamenti economici, nonchè ad affidare all’Organizzazione,
nell’ambito dell’unione bancaria, il ruolo di prestatore sussidiario nel caso le risorse del fondo di
risoluzione unico per le imprese creditizie insolventi non siano sufficienti.

Quindi, il MES resta un’organizzazione esterna al quadro giuridico dell’UE e vede rafforzato il suo
ruolo di cassaforte dell’Eurozona, ora a favore anche delle banche, quindi del settore privato, con
conseguente rafforzamento delle garanzie per la stabilità finanziaria.

Risulta accresciuto il ruolo del MES, anche nella gestione delle crisi statali, grazie ad un
memorandum di intesa e ad una posizione comune, che si è sostanziata in un comunicato
congiunto, adottati nel 2018 con la Commissione europea su nuove modalità di cooperazione in tale
ambito.

Queste riforme si inseriscono nel dibattito per la costruzione di un’Unione fiscale: l’eurozona sta
iniziando a sviluppare capacità di intervento, sia dal punto di vista della dotazione finanziaria che
degli strumenti utilizzabili, per contrastare tempestivamente ed efficacemente l’insorgere di crisi
finanziarie.

Si è invece scelta una via diversa dall’emendamento del Trattato istitutivo per rendere disponibili le
risorse del MES per finanziare spese in campo sanitario che si rendano necessarie per il contrasto
alla pandemia da COVID-19.

Tale risultato è stato conseguito in seguito dell’accordo politico raggiunto definitivamente a maggio
2020 con l’istituzione, per decisione del Comitato dei governatori del MES, di una specifica linea di
credito denominata European Stability Mechanism Pandemic Crisis Support.

Risulta difficile per le persone fisiche o giuridiche interessate, tentare di contestare in giudizio le
misure adottate nel contesto di un programma di assistenza finanziaria.

Direttamente o indirettamente, misure del genere apportano conseguenze negative in capo alle
persone fisiche o giuridiche che operano nello Stato membro beneficiario dell’assistenza finanziaria e
tenuto ad adottare determinate misure restrittive.

Si presenta un problema di tutela giurisdizionale effettiva, che costituisce un diritto riconosciuto


dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

Risulta utile dar onto di due sviluppi che hanno avuto origine dalle azioni delle istituzioni dell’UE
nell’ambito delle reazioni alla pandemia da COVID-19:

> in primo luogo, vi è stato un nuovo ricorso all’art. 122 TFUE; mentre le azioni legate alla prima crisi
erano state imperniate sul par 2, la lotta alla pandemia ha permesso di riscoprire anche il par. 1, che
consente al Consiglio in uno spirito di solidarietà, di adottare misure adeguate alla situazione
economica —> nozione abbastanza ampia da poter ricomprendere diverse azioni.

Così, con un atto basato su entrambi i paragrafi dell’art, si è dato vita a uno strumento (SURE) volto
a fornire sostegno ai sistemi nazionali di assicurazione contro la disoccupazione, che sono stati
costretti all’erogazione di forti risorse nel corso della pandemia.

> in secondo luogo, le istituzioni IUE hanno lanciato un ampio programma di investimenti: il recovery
plan, il cui strumento principale è il next generation EU.

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Si tratta di un piano molto complesso e articolato, che si basa su una varietà di atti: anche in questo
ambito si è fatto ricorso, accanto ad altre basi giuridiche, di nuovo all’art. 122 TFUE.

Oltre alla valorizzazione di questa base giuridica, l’insieme degli strumenti doterà il bilancio UE di
un’ampia capacità di intervento autonoma, anche se per tempi ed obiettivi definiti, la quale sembra
porre le basi di un’effettiva politica economica UE.

3. La politica monetaria

La politica monetaria è disciplinata dal Capo 2 del Titolo VIII.

Responsabili della conduzione di tale politica sono la BCE e il Sistema europeo di banche centrali
(SEBC), costituito da tutte le banche centrali degli Stati membri.

La BCE e le banche centrali degli Stati dell’Eurozona costituiscono l’Eurosistema (art. 282 par 1
TFUE).

Gli organi principali della BCE sono il comitato esecutivo e il consiglio direttivo.

Il comitato esecutivo è composto da 6 soggetti: presidente, vicepresidente e 4 componenti —>


nominati tra i cittadini degli Stati membri di riconosciuta levatura ed esperienza professionale nel
settore bancario o monetario.

Ciascuno dei sei membri resta in carica 8 anni e il suo mandato non è rinnovabile.

il consiglio direttivo è formato di membri del comitato esecutivo e dai governatori delle BCN degli
Stati dell’Eurozona.

In via transitoria, finchè vi saranno ancora Stati che non adottano l’euro, è previsto un ulteriore
organo, il Consiglio generale, composto da presidente, vicepresidente e da tutti i governatori delle
BCN.

Il TFUE non fornisce una definizione di politica monetaria; indicazioni a proposito possono essere
ricavate dagli obiettivi della politica che vengono precisati negli artt. 119 par 2 e 127 par 1, nonchè
dai compiti e poteri che vengono assegnati alla BCE.

Per quanto riguarda gli obiettivi, l’obiettivo principale della politica monetaria consiste nel
mantenimento della stabilità dei prezzi.

Gli artt. 119 par e 127 par 1, ammettono che una volta assicurata la stabilità dei prezzi, il SEBC e la
BCE debbano perseguire anche altri obiettivi che permettano di sostenere le politiche
economiche generali dell’UE.

L’art. 127 par 2 elenca i compiti della BCE da assolvere tramite il SEBC, che sono:

- definire e attuare la politica monetaria dell’UE;


- svolgere le operazioni sui cambi;
- detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri;
- promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento.

A questi si aggiunge il potere consultivo della BCE, par 4.

La consultazione avviene:
- in merito a qualsiasi proposta di atto dell’UE che rientri nelle sue competenze;
- dalle autorità nazionali, sui progetti di disposizioni legislative che rientrino nelle sue competenze,
ma entro i limiti e alle condizioni stabiliti dal Consiglio;
La BCE può formulare pareri da sottoporre alle istituzioni, agli organi o agli organismi dell’UE
competenti o alle autorità nazionali su questioni che rientrano nelle sue competenze.

Per l’adempimento dei propri compiti, alla BCE è conferito un potere normativo, ed in particolare
quello di adottare regolamenti, decisioni e formulare raccomandazioni o pareri (art. 132 par 1 TFUE).
Si tratta di atti assimilabili alle conosciute tipologie previste dall’art. 288 TFUE.

L’istituto di emissione è dotato anche di un potere sanzionatorio, potendo infliggere ammende (art.
132 par 3 TFUE) per la violazione di obblighi imposti dalla stessa Banca con altro atto.

La BCE dispone di un potere di indirizzo, potendo inviare alle BCN indirizzi e istruzioni (art. 14 par 3
Statuto SEBC e BCE).

Infine, la BCE gode del diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote in euro (art. 128
par 1 e 282 par 3 TFUE).

Il conio delle monete può essere effettuato dagli Stati con l’approvazione della BCE per quanto
riguarda il volume del conio (art. 128 par 2 TFUE) —> ne consegue che non è possibile per gli Stati
membri adottare norme che stabiliscono il regime giuridico del corso legale delle banconote in euro,
mentre è ammissibile che, a certe condizioni (tra cui l’esistenza di un interesse pubblico) essi
51
stabiliscano che per determinati pagamenti debbano essere utilizzati taluni mezzi con esclusione ad
es dei contanti.

Come tutte le istituzioni dell’UE, anche la BCE è sottoposta per la propria attività al controllo
giurisdizionale della Corte di giustizia nelle forme ordinarie previste dal TFUE.

Il TFUE stabilisce ampie garanzie di indipendenza per la BCE; in particolare l’art. 130 impone a BCE
e BCN di non sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’UE,
dai governi degli Stati membri, nè da qualsiasi altro organismo.

Gli stessi soggetti sono vincolati a rispettare tale indipendenza.

L’introduzione di tali garanzie è dovuta alla convinzione della dottrina economica, supportata da
evidenze empiriche, della necessità, di mantenere gli istituti di emissione al riparo da pressioni di
carattere politico.

Viste le garanzie che le sono riservate, la BCE può liberamente assumere, insieme al SEBC, le
proprie determinazioni riguardanti la conduzione della politica monetaria e ad essa dare seguito con i
mezzi che le sono messi a disposizione.

È oggetto di dibattito l’effettiva misura della discrezionalità che le debba essere riconosciuta nello
svolgimento di tali attività, sia con riferimento ai potenziali effetti sulla politica economica, sia con
riguardo al divieto di finanziamento monetario stabilito dall’art. 123 TFUE, che essa potrebbe
rischiare di violare con talune misure di politica monetaria.

(I limiti della competenza della BCE per quanto riguarda le misure da adottare sono stati esaminati
dalla Corte in due pronunce: causa C-62/14 Gauweiler del 2015 relativa alla legittimità del
programma OMT, e la sentenza C-493/17 Weiss, avente ad oggetto il PSPP.

Quest’ultima ha dato origine a un conflitto senza precedenti tra la Corte di Lussemburgo e il


Tribunale federale costituzionale tedesco.)

4. La nuova UEM all’indomani della crisi economico-finanziaria


e della pandemia da COVID-19

Lo scoppio della crisi economico-finanziaria del 2008 e i suoi lunghi e pesanti strascichi hanno
portato a profonde trasformazioni nell’ambito dell’UEM.

Questa prima crisi ha reso possibile che, nonostante le procedure di coordinamento e di


sorveglianza previste dagli artt. 121 e 126, uno o più Stati della zona euro potessero rischiare di
doveri dichiarare il proprio default.

In una situazione del genere, che non era stata presa in considerazione con Maastricht, se lo Stato in
difficoltà dovesse restare unico responsabile delle proprie finanze pubbliche e dovesse essere
lasciato solo a “pagare” le conseguenze della propria situazione fino ad arrivare a dover dichiarare
default, ciò inevitabilmente metterebbe in pericolo la stabilità dell’intera area —> di questo rischio gli
Stati membri della zona euro hanno cominciato a prendere coscienza di fonte alla crisi del debito
pubblico greco, seguita da quella dell’Irlanda, del Portogallo e della Spagna.

Si è fatta largo un’altra finalità dell’UEM che, pur non essendo esplicitamente prevista nel TFUE,
doveva essere tenuta presente: la salvaguardia della stabilità finanziaria dell’Eurozona nel suo
insieme.

L’espressione salvaguardia della stabilità finanziaria dell’Eurozona nel suo insieme ha cominciato ad
essere richiamata nei documenti ufficiali degli organi intergovernativi, almeno a partire dal 2010.

Ripetutamente tali organi hanno manifestato il proprio impegno per la salvaguardia della stabilità
finanziaria dell’Eurozona; la finalità è stata poi testualmente ripresa nella decisione 199/2011 del
Consiglio europeo, e nel nuovo par 3 dell’art. 136 TFUE, dove a proposito della possibilità di
attivare un meccanismo di stabilità, si precisa che l’istituzione di un tale meccanismo deve essere
indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme.

Così si è finito per ammettere che, senza subentrare direttamente nelle responsabilità finanziarie
dello Stato in difficoltà (il che sarebbe in contrasto con l’art. 125), l’UE e gli altri Stati membri
possono intervenire offrendo a quello Stato un sostegno finanziario a fronte di una rigorosa
condizionalità, sostegno che costituirà per esso la contrazione di un nuovo debito.

Una delle altre dimensioni della stabilità finanziaria la cui importanza si è di recente resa evidente è
quella legata al funzionamento del mercato di capitali.

Nell’iniziativa della costruzione di un’Unione dei mercati dei capitali si rivela in modo evidente come
un mercato dei capitali ben integrato e governato sia un presupposto indifettibile per un sistema
finanziario sano.

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La pandemia da COVID-19 ha poi mostrato nuove potenzialità, ma anche nuovi limiti dell’azione
dell’UE; in particolare nell’ambito della politica economica.

Le grandi risorse che l’UE sta riuscendo a mettere in capo restano segnate da limiti importanti posti
alla loro raccolta e ai tempi del loro utilizzo, che devono restare legati alla necessità di fronteggiare
l’emergenza.

Ciononodimeno, la prospettiva di un politica economica dell’Unione più autonoma da quelli statali


sembra affacciarsi.

Non è difficile notare come anche le azioni messe in campo dalla BCE per rispondere alla crisi,
convergano verso il perseguimento del medesimo obiettivo.

Come la Corte ricorda nella sent Gauweiler, l’obiettivo primario delle misure rientranti nella politica
monetaria è la stabilità dei prezzi, ma la BCE è chiamata ad agire per sostenere le politiche
economiche generali dell’UE, ivi compresa la politica economica, nei cui obiettivi orami rientra la
salvaguardia della stabilità dell’intera zona euro.

Notevoli difficoltà sorgono quando si vuole tentare di definire il campo rispettivo della politica
economica, o quello della politica monetaria.

Tale punto ha offerto, come si è visto, l’occasione per uno scontro tra la Corte di giustizia e il
Tribunale federale costituzionale tedesco i cui effetti a lungo termine dovranno ancora essere
adeguatamente valutati.

È allo stesso modo difficile stabilire quando la stabilità finanziaria dell’intera zona euro debba
considerarsi in pericolo.

Tutto ciò che si può dire è che tali nozioni sono necessariamente contrassegnate da una certa
elasticità che lascia un doveroso spazio di apprezzamento all’interprete, agli organi tecnici e, in
ultima analisi, agli organi politici.

La fiducia e la leale cooperazione reciproca tra autorità statali ed europee sembrano ingredienti non
sostituibili per il corretto funzionamento dell’UEM.

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