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1) C. Favilli – “Il Trattato di Lisbona e la politica dell’Unione europea in materia di visti, asilo e
immigrazione”, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, XII, 2-2010
2) G. Morgese – “La riforma del sistema europeo comune di asilo e i suoi principali riflessi
nell’ordinamento italiano”, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, XV, 4-2013
3) A. Del Guercio – estratto da “Il principio di non-refoulement e altre forme di protezione dei
richiedenti asilo nell’ordinamento internazionale e in quello europeo”, Napoli, Editoriale Scientifica,
2016
4) F. L. Gatta – “La politica migratoria dell’Unione europea nel periodo 2014-2019: analisi e
bilancio della gestione della crisi dei rifugiati” in Ius in itinere, 1-2019
5) ASGI – “La protezione temporanea per le persone in fuga dall’Ucraina”, aggiornata al 7-3-2022
6) E. Roman – “L’Accordo UE-Turchia: le criticità di un accordo a tutti i costi”, in SIDI blog, marzo
2016
7) A. Liguori – “Violazioni conseguenti all’attuazione della Dichiarazione UE-Turchia e
giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sugli hotspots greci: la sentenza Kaak”, in
Diritti Umani e Diritto Internazionale, vol. 14, 2020 n.1
8) G. Pascale – “Esternalizzazione delle frontiere in chiave antimigratoria e responsabilità
internazionale dell’Italia e dell’UE per complicità nelle gross violations dei diritti umani commesse
in Libia”, in Studi sull’integrazione europea, XIII, 2018
9) A. Fazzini – “Recenti sviluppi in materia di giurisdizione extraterritoriale a margine delle
decisioni del Comitato ONU per i diritti umani, A.S. e al. c. Malta e A.S. e al. c. Italia: quale
prospettiva per la Corte di Strasburgo?, ADiM Blog, Analisi & Opinioni, luglio 2021
10) C. Favilli – “Il Patto europeo sulla migrazione e l’asilo: c’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico”,
in Questione Giustizia, ottobre 2020
11) A. Liguori – “Alcune riflessioni su diritti umani e Global Compact for Safe, Orderly and Regular
Migration”, in G. Cataldi, I Diritti umani a settant’anni dalla Dichiarazione universale delle Nazioni
Unite, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019
12) A. De Petris – “Il Decreto Immigrazione e Sicurezza: luci e ombre per il nuovo sistema di
accoglienza e integrazione”, in ADiM Blog, ottobre 2020
1. Il Trattato di Lisbona e la politica dell’Unione Europea in materia di visti, asilo e
immigrazione
Tra le modifiche più rilevanti al quadro giuridico designato negli anni ’50, abbiamo il Trattato
sull’Unione Europea, chiamato anche Trattato di Maastricht, firmato nel 1992 ed entrato in vigore
nel 1993. Con questo trattato la CEE perde la connotazione “economica” e si parla dunque di
Comunità Europea (CE). Questo trattato istituisce i 3 pilastri:
1. Competenze delle tre comunità europee (CE);
2. Politica estera e sicurezza comune (PESC);
3. Giustizia e affari interni (GAI)
Con il Trattato di Lisbona le modifiche sono numerose e riguardano sia la composizione delle
istituzioni sia le competenze dell’Unione Europea:
Il Trattato sulla Comunità economica europea del 1957, poi più volte modificato, sarà
denominato Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE): consta di 358 articoli;
Il Trattato sull’Unione Europea (TUE) viene modificato nei suoi contenuti: consta di 55
articoli contenenti le disposizioni comuni, i principi democratici, le regole relative alle
istituzioni, le disposizioni sulle cooperazioni rafforzate, le disposizioni sulla politica estera e
di sicurezza e difesa comuni, le disposizioni finali.
Questi due trattati hanno pari valore giuridico e costituiscono le basi del diritto del sistema politico
dell’Unione Europea.
Sempre l’Art. 67, par. 2 TFUE e Art. 80 TFUE qualificano la politica come fondata sulla solidarietà
tra gli Stati membri, nell’accezione di ripartire tra tutti gli Stati membri gli oneri della gestione delle
politiche comuni in questo settore per non sovraccaricare determinati Stati.
Riguardo gli atti legislativi, il potere di iniziativa legislativa è di competenza della Commissione
Europea1, però per le proposte di cooperazione di polizia o cooperazione giudiziaria in materia
penale, il potere di iniziativa legislativa è attribuito anche ad un quarto degli Stati membri. Gli atti
sono poi adottati sulla base della procedura legislativa ordinaria, ovvero in base alla codecisione dove
il Parlamento Europeo2 è codecisore ed il Consiglio dell’Unione Europea3 delibera a maggioranza
qualificata.
1
Organo promotore del processo legislativo. È formata da delegati, uno per ogni Stato dell’Unione Europea, indipendenti
rispetto ai propri governi.
2
Organo legislativo dell’Unione Europea, formato da 705 deputati direttamente eletti dai cittadini dell’Unione Europea.
3
Organo legislativo dell’Unione Europea, rappresentato dai ministri dei 27 Paesi dell’Unione Europea che si presentano
a seconda della materia oggetto di trattazione.
Principio di proporzionalità: impone che il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione
Europea non vadano mai al di là di quanto necessario per conseguire l’obiettivo.
La Commissione Europea accompagna gran parte delle proposte con valutazioni di impatto normativo
con riguardo sull’effettiva necessità della misura alla luce dei principi di sussidiarietà e
proporzionalità. Sussidiarietà che può essere esaminata sia dai Parlamenti nazionali che poi dalla
Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE).
Frontiere e visti
In relazione alle frontiere, l’Art. 77, par. 1 TFUE afferma che l’Unione Europea sviluppa una
politica volta a eliminare i controlli alle frontiere interne e a garantire i controlli alle frontiere esterne.
Per i controlli alle frontiere si avvale dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera -
Frontex.
Tutto ciò che concerne la gestione della politica delle frontiere e delle guardie di frontiera rimane di
competenza degli Stati membri che agiscono nell’ambito del quadro normativo dell’Unione Europea.
Asilo
Nell’Art. 78 TFUE, la politica di asilo è qualificata come comune e sono richiamati come limiti
vincolanti:
Il principio di non respingimento;
La Convenzione di Ginevra del 1951, il Protocollo del 1967 e altri Trattati pertinenti.
È codificato il concetto di protezione internazionale, articolato nelle 3 componenti:
1. Asilo europeo;
2. Protezione sussidiaria;
3. Protezione temporanea
L’Art 78, par. 2 TFUE afferma che l’Unione Europea include queste come misure per un sistema
comune di asilo:
a) Status uniforme in materia di asilo valido in tutta l’Unione Europea;
b) Status uniforme in materia di protezione sussidiaria per chi non beneficia dell’asilo europeo
ma necessita di protezione internazionale;
c) Protezione temporanea degli sfollati in caso di afflusso massiccio;
d) Procedure comuni per l’ottenimento e la perdita della protezione internazionale;
e) Criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una
domanda di asilo o di protezione sussidiaria;
f) Norme sulle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo o protezione sussidiaria;
g) Forme di partenariato e cooperazione con i Paesi terzi per gestire i flussi dei richiedenti
protezione internazionale.
Immigrazione e integrazione
L’Art. 79 TFUE sottolinea che l’Unione Europea sviluppa una politica comune dell’immigrazione
intesa ad assicurare, in ogni fase, la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei
cittadini dei Paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la prevenzione e il contrasto
dell’immigrazione illegale e della tratta.
L’Unione Europea può adottare, dunque, misure relativamente ai seguenti settori:
Condizioni di ingresso e soggiorno e norme sul rilascio da parte degli Stati membri di visti e
di titoli di soggiorno di lunga durata;
Definizione dei diritti dei cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato
membro, comprese le condizioni che disciplinano la libertà di circolazione e di soggiorno
negli altri Stati membri;
Immigrazione clandestina e soggiorno irregolare, compresi l’allontanamento e il rimpatrio;
Lotta contro la tratta degli esseri umani.
Rimane tuttavia un diritto degli Stati determinare il numero di ingressi di lavoratori provenienti da
Paesi terzi.
Un altro ambito nel quale gli Stati conservano molta della loro autonomia è quello delle politiche di
integrazione.
Relazioni esterne
L’Art. 79, par. 3 TFUE attribuisce all’Unione Europea la competenza a concludere con i Paesi terzi
accordi ai fini della riammissione di cittadini nei Paesi terzi che non soddisfano le condizioni per
l’ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio di uno degli Stati membri.
In materia di asilo, l’Art. 78, par. 2 lett. g) TFUE include nel Sistema europeo di asilo comune il
partenariato e la cooperazione con i Paesi terzi per gestire i flussi di richiedenti asilo o protezione
sussidiaria o temporanea.
La salvaguardia della competenza dei singoli Stati membri riguardo la conclusione degli accordi
internazionali è assicurata nel Protocollo n. 23 sulle relazioni esterne degli Stati membri in materia
di attraversamento delle frontiere esterne, in base al quale le misure che l’Unione Europea può
adottare, in materia di controlli ai quali sono sottoposte le persone che attraversano le frontiere
esterne, non pregiudicano la competenza degli Stati membri a concludere accordi con Paesi terzi a
condizione che rispettino il diritto dell’Unione Europea.
Cittadinanza
L’Unione Europea non acquisisce alcuna competenza in materia di attribuzione della cittadinanza ai
cittadini di Paesi terzi. È il possesso della cittadinanza di uno Stato membro, veicolo per
l’acquisizione della cittadinanza dell’Unione Europea.
I diritti fondamentali
In base all’Art. 67, par. 1 TFUE, “l’Unione Europea realizza uno spazio di libertà, sicurezza e
giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse
tradizioni giuridiche degli Stati membri”.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea - Carta di Nizza (2000) è vincolante per
l’Unione Europea ai sensi dell’Art. 6 TUE, elevandola a fonte di rango primario. I diritti
fondamentali continuano anche ad essere considerati parti dei principi generali, potendo dunque
essere ancora elaborati in via giurisprudenziale dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Il Trattato di Lisbona apporta delle modifiche, aggiungendo 2 paragrafi all’Art. 6 TUE:
1. Relativo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza): la Carta di
Nizza contiene articoli mutuati dalla CEDU, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, e dei diritti innovativi (in particolare sociali – come il diritto di asilo)
2. Relativo all’adesione alla CEDU: l’Art. 6, par. 2 TFUE si limita ad attribuire la competenza
all’Unione Europea per aderire alla CEDU. Il Protocollo n. 8 si limita a prevedere che
l’adesione consenta l’adeguata partecipazione dell’Unione Europea agli organi di controllo
della CEDU, che i ricorsi siano correttamente presentati contro gli Stati o contro l’Unione
Europea. Si può prevedere che vi sarà la possibilità di ricorrere alla Corte EDU per far valere
una violazione dei diritti sanciti nella CEDU a causa di atti adottati dall’Unione Europea.
L’adesione consentirà dunque di avere uno strumento giurisdizionale in più di fronte agli atti
dell’Unione Europea o agli atti nazionali esecutivi di atti dell’Unione Europea.
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Un giudice nazionale può rivolgersi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per sollevare una questione
interpretativa su un atto dell’Unione Europea. Se si tratta di un giudice nazionale di ultima istanza, la facoltà di rinvio
pregiudiziale diviene un obbligo, per non far passare un’interpretazione erronea.
2. La riforma del sistema europeo comune di asilo e i suoi principali riflessi
nell’ordinamento italiano
Introduzione
Dopo una prima fase nella quale sono stati adottati dei regolamenti e direttive per il sistema di asilo,
è nella seconda fase di riforma del Sistema Europeo Comune di Asilo (SECA), a seguito dell’entrata
in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009, che l’Art. 67 TFUE sottolinea che la realizzazione dello
spazio di libertà, sicurezza e giustizia deve avvenire sviluppando tra l’altro una politica comune in
materia di asilo (non più norme minime): vengono dunque adottati nuovi atti normativi, di cui quelli
della prima fase costituiscono atti di rifusione5.
La seconda fase del processo di riforma ha visto l’approvazione della:
Direttiva 2011/95/UE (nuova “qualifiche”);
Regolamento 603/2013 (nuovo “Eurodac”);
Regolamento 604/2013 (“Dublino III”)
Direttiva 2013/32/UE (nuova “procedure”);
Direttiva 2013/33/UE (nuova “accoglienza”).
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La rifusione consiste nell’adozione di un nuovo atto normativo, che integra in un unico testo le modificazioni sostanziali
introdotte e le disposizioni non cambiate rispetto al precedente.
anche la clausola di sovranità, per cui ogni Stato può esaminare una domanda anche se non
competente.
Tra le novità del Regolamento Dublino III c’è l’Art 3, par. 2, comma 2 – clausola greca – per il
quale non si può trasferire un richiedente verso lo Stato competente quando si hanno “fondati motivi
di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di
accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro, che implichino il rischio di un trattamento inumano
o degradante ai sensi dell’Art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”.
Disposizione innovativa è anche quella dell’Art. 33 che introduce un sistema di allarme rapido che
consta di una “fase preventiva” e una “fase di azione”, ciò nel caso in cui ci siano rischi di pressione
oppure problemi nel funzionamento, riguardo il sistema di asilo di uno Stato. Altre novità del
Regolamento Dublino III riguardano:
le nozioni di “minore non accompagnato” e di “parenti” (Art. 2, lett. g) e h));
l’obbligo per gli Stati di fornire ai richiedenti informazioni sul procedimento (Art. 4);
garantire ai richiedenti il colloquio personale (Art. 5) ed altre ancora.
Il Regolamento Eurodac completa il sistema Dublino: si tratta della raccolta e confronto delle
impronte digitali, in particolare dei richiedenti asilo, al fine di individuare lo Stato competente al loro
esame e scongiurare eventuali domande plurime. Una delle novità rilevanti riguarda il fatto che le
autorità nazionali e l’Europol avranno la possibilità di consultare la banca dati anche per finalità di
prevenzione, accertamento e indagine di reati di terrorismo o di altri reati gravi.
Una delle novità più rilevanti della Direttiva 2013/33/UE riguarda il trattenimento dei richiedenti
(Artt. 8, 9, 10 e 11):
si afferma l’impossibilità di trattenere una persona per il solo fatto di essere richiedente
protezione; solo in base ad una valutazione individuale, per determinati motivi (verificare
l’identità o la cittadinanza; quando la persona deve essere rimpatriata; per motivi di
sicurezza nazionale e ordine pubblico) e per mancanza di misure alternative, viene disposto
un trattenimento (Art. 8);
sono specificate inoltre le garanzie minime per i trattenuti (obbligo di trattenere i richiedenti
per il periodo di tempo più breve possibile e solo finché ne perdurano i motivi; di svolgere gli
adempimenti amministrativi senza ritardi; informare il richiedente – per iscritto o in una
lingua a lui comprensibile – delle ragioni del trattenimento, delle procedure di impugnazione
previste dal diritto nazionale e della possibilità di accesso gratuito all’assistenza legale) (Art.
9);
sono specificate le condizioni del trattenimento (Art. 10);
sono specificate le disposizioni con riguardo alle persone vulnerabili e/o con esigenze di
accoglienza particolari (Art. 11).
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In Italia sono state individuate come autorità le Commissioni Territoriali.
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Qualora la domanda sia oggetto della procedura stabilita dal Regolamento Dublino III il termine dei 6 mesi inizia a
decorrere dal momento in cui si è determinato lo Stato membro competente per l’esame della domanda.
dell’effetto sospensivo dell’impugnazione, essendoci l’obbligo a carico degli Stati di assicurare la
permanenza del ricorrente sul territorio nazionale in attesa dell’esito del ricorso, fatti salvi alcuni casi
in deroga.
3. Il principio di non-refoulement e altre forme di protezione dei richiedenti asilo
nell’ordinamento internazionale e in quello europeo
2. Protezione sussidiaria prevista dall’Art. 78, par. 2, lett. b) TFUE e disciplinata ai sensi della
Direttiva 2011/95/UE: la protezione sussidiaria (Art. 2, lett. f) della Direttiva) è
riconosciuta al cittadino di un Paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere
riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se
tornasse nel Paese di origine o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese dove aveva la
dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito
dall’Art. 15 della Direttiva e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi
della protezione di detto Paese.
Secondo l’Art. 15 della Direttiva sono gravi danni:
a) la condanna o l’esecuzione della pena di morte;
b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del
richiedente nel suo Paese di origine;
c) la minaccia grave e individuale alla persona derivante dalla violenza indiscriminata
in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Per riconoscere lo status, però, non devono applicarsi le clausole di esclusione di cui all’Art.
17, ovvero se ci sono fondati motivi per ritenere che:
a) abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro
l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;
b) abbia commesso un reato grave;
c) si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite;
d) rappresenti un pericolo per la comunità o la sicurezza dello Stato in cui si trova.
3. Protezione temporanea prevista dall’Art. 78, par. 2, lett. c) TFUE e disciplinata ai sensi della
Direttiva 2001/55/CE: è una forma di protezione collettiva, attivabile in caso di esodi di
massa.
Ci sono anche altre Direttive importanti, che riguardano il tema della tratta degli esseri umani, come:
Direttiva 2004/81/CE: prevede il rilascio di un permesso di soggiorno alle vittime della tratta
degli esseri umani che cooperino con le autorità nazionali;
Direttiva 2011/36/UE (Direttiva anti-tratta): destinata alla prevenzione e repressione della
tratta, nonché alla protezione delle vittime.
Nel TFUE la tratta di esseri umani è contemplata ai sensi dell’Art. 79 dedicato alla politica
dell’immigrazione e non all’Art. 78 dedicato alla politica di asilo.
Ricordiamo che la tratta di esseri umani è oggetto di un espresso divieto sancito all’Art. 5, par. 3,
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Secondo l’Art. 4, par. 1, gli Stati possono stabilire che il richiedente sia tenuto a presentare quanto
prima tutti gli elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale.
Quanto prima: tale previsione è stata interpretata in modo vario dagli Stati membri: alcuni
hanno fissato un termine entro il quale è possibile presentare la domanda; altri prevedono che
la richiesta debba essere inoltrata subito dopo l’ingresso nel territorio.
Elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale: sono indicati
nell’Art. 4, par. 2: accanto alle dichiarazioni del ricorrente, si fa riferimento alla
documentazione relativa alla sua età, estrazione, identità, cittadinanza, Paesi e luoghi in cui
ha soggiornato in precedenza, documenti di viaggio, motivi della domanda di protezione
internazionale.
L’esame della domanda deve essere effettuato su base individuale (Art. 4, par. 3) e deve prendere in
considerazione sia la situazione particolare del richiedente (età, estrazione, sesso, l’aver subito
persecuzione o danni gravi in passato – che rappresenta un serio indizio di fondatezza del timore
lamentato), sia i fatti che riguardano il Paese di origine al momento dell’adozione della decisione in
merito alla domanda.
Lo status di rifugiato
Oltre alla Direttiva 2011/95/UE a venire in rilievo per definire lo status di rifugiato ci sono anche i
Considerando della Direttiva. Il Considerando 4 ribadisce che “La Convenzione di Ginevra e il
relativo Protocollo costituiscono la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa
alla protezione dei rifugiati”; il Considerando 22 invita gli Stati membri a tenere in considerazione
le “preziose” indicazioni dell’UNHCR.
L’Art. 2, lett. e) pone l’accento sul ruolo delle autorità statali nel riconoscimento dello status di
rifugiato; tuttavia, a tal riguardo va rammentato che detto riconoscimento costituisce un atto
ricognitivo – e non costitutivo – di una condizione già sussistente, come sottolineato dal
Considerando 21.
La nozione di persecuzione
Come la Convenzione di Ginevra, anche la Direttiva qualifiche non offre una definizione di
“persecuzione”. Nel regime internazionale tale termine è stato interpretato nel senso di minaccia alla
vita o alla libertà della persona o, più in generale, di grave violazione dei diritti umani.
L’Art. 9, par. 1, della Direttiva offre alcune indicazioni. Esso afferma che costituiscono persecuzione
gli atti che:
a) per loro natura o frequenza, sono sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave
dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa, a
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Con Paese di primo asilo si intende un Paese che abbia riconosciuto al richiedente lo status di rifugiato, oppure un Paese
che offra al richiedente una protezione sufficiente, tra cui il beneficio del principio di non-refoulement.
norma dell’Art. 15, paragrafo 2, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo e delle libertà fondamentali;
oppure
b) costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto
sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui al
punto di sopra) (alcuni atti di persecuzione: atti di violenza fisica o psichica, compresa la
violenza sessuale; provvedimenti legislativi, amministrativi di polizia o giudiziari,
discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; azioni giudiziarie o
sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici
e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; azioni giudiziarie o sanzioni penali
in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe
comportare la commissione di crimini internazionali; atti specificamente diretti contro un
genere sessuale o contro l’infanzia).
Gli elementi che vengono in rilievo sono la violazione dei diritti umani e la soglia di intensità della
violazione, che deve raggiungere un determinato livello di gravità.
La protezione sussidiaria
Accanto allo status di rifugiato, è introdotta la “protezione sussidiaria”. Le autorità statali sono
chiamate a verificare innanzitutto se il richiedente protezione internazionale rispetta i requisiti per il
riconoscimento dello status di rifugiato; solo quando tali requisiti non siano soddisfatti, si passa a
valutare se lo steso possa beneficiare della protezione sussidiaria.
Nell’ambito di applicazione della protezione sussidiaria (Art. 15 Direttiva qualifiche) ricadono
solamente i richiedenti a rischio di subire la pena capitale; tortura, trattamenti e pene inumani e
degradanti; gravi e indiscriminate violazioni dei diritti umani collegate ad una situazione di guerra.
Non si può ampliare l’ambito di applicazione dell’Art. 15, però gli Stati membri sono liberi di
prevedere ulteriori forme di protezione.
Per il riconoscimento dello status di protezione sussidiaria a venire in rilievo è l’elemento oggettivo,
ovvero i “motivi fondati di rischio reale”. Ai sensi dell’Art. 15 della Direttiva qualifiche sono
considerati dunque danni gravi ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria:
a) La condanna o l’esecuzione della pena di morte;
b) La tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente
nel suo Paese di origine;
c) La minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza
indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
La lett. a) si rifà all’Art. 2 CEDU (Diritto alla vita);
La lett. b) trae ispirazione dall’Art. 3 CEDU (Divieto di tortura o trattamenti inumani o degradanti)
e deve essere interpretata alla luce della giurisprudenza della Corte EDU. Tuttavia, va evidenziato
che, a differenza della protezione offerta sulla base dell’Art. 3 CEDU, della quale è riconosciuto il
carattere assoluto e inderogabile, l’applicazione dell’Art. 15 della Direttiva qualifiche è soggetta alle
clausole di esclusione di cui all’Art. 17. Resta applicabile, e senza limitazioni, il principio di non-
refoulement di cui all’Art. 21. Tale disposizione sì vieta l’allontanamento, però non comporta il
rilascio di un’autorizzazione al soggiorno.
Sempre con riguardo alla lett. b), la protezione sussidiaria può essere riconosciuta solo laddove il
richiedente sia esposto al rischio di subire tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o
degradante in seguito all’allontanamento verso il Paese di origine, non verso qualsiasi Stato terzo. Si
tratta di una significativa limitazione geografica rispetto all’ambito di applicazione dell’Art. 3 CEDU:
la giurisprudenza della Corte EDU sulla base di detta disposizione si sofferma sul risultato
dell’allontanamento, indipendentemente dalla circostanza che tale rischio si presenti nel Paese di
origine o in qualsiasi altro Paese terzo nel quale il richiedente venga rinviato.
La lett. c) dell’Art. 15: la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile
derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale
Particolarmente controversa si è rivelata l’interpretazione della lett. c). L’UNHCR ha evidenziato che
a dover essere “individuale” è la valutazione delle domande di protezione (Art. 4 Direttiva
qualifiche), invece l’eleggibilità per la protezione sussidiaria sulla base dell’Art. 15, lett. c) dovrebbe
riguardare i rischi di grave danno che minacciano interi gruppi di persone.
L’incongruenza del testo della Direttiva ha prodotto delle prassi statali fortemente divergenti.
Tuttavia, il testo dell’Art. non ha subito modifiche nella fase di rifusione della Direttiva (da
2004/83/UE a 2011/95/UE). La Commissione ha ritenuto che fossero esaustive le indicazioni fornite
dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, intervenuta ad interpretare l’Art. 15, lett. c) con le
sentenze Elgafaji e Diakité.
Alla luce della giurisprudenza summenzionata, gli elementi che emergono sono:
1) La minaccia alla vita o alla persona di un
2) Civile e
3) La situazione generale di violenza indiscriminata collegata ad un
4) Conflitto armato interno o internazionale
Riguardo il termine “minaccia”, questo non è casuale: non è necessario che la persona sia a rischio
di; ad essere richiesto è un rischio reale di subire una minaccia.
La minaccia deve riguardare un civile, nozione da definirsi sulla base del suo significato abituale nel
linguaggio comune. Dunque anche se si tratta di un militare, la persona va considerata come civile,
ciò alla luce della natura e dello scopo umanitario della Direttiva, ovvero tutelare coloro che corrano
effettivamente il rischio di subire un grave danno.
Riguardo la situazione generale di violenza indiscriminata, nella sentenza Elgafaji la Corte di
Lussemburgo ha chiarito che il termine “indiscriminata” implica che la violenza possa estendersi a
prescindere dalla situazione personale. Al fine di precisare l’ambito di applicazione della norma,
viene utilizzato il cosiddetto sliding-scale concept, in base al quale “tanto più il richiedente è
eventualmente in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico grazie agli elementi della
sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto
affinché egli possa beneficiare della protezione sussidiaria”. Tuttavia, non vengono offerte
indicazioni concrete in merito alla verifica di tale situazione.
La Corte di Lussemburgo indica poi quali sono gli elementi di cui le autorità competenti devono tener
conto nell’ambito dell’esame della domanda, su base individuale:
L’estensione geografica della situazione di violenza indiscriminata;
L’effettiva destinazione del richiedente;
L’esistenza di un serio indizio di un rischio effettivo
Riguardo il conflitto armato, nella sentenza Diakité è stato precisato che deve essere definito sulla
base del linguaggio corrente. Dunque va inteso come “una situazione nella quale le forze governative
di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati o nella quale due o più gruppi armati si
scontrano tra di loro”. Ciò che le autorità statali devono valutare è se gli scontri generano un livello
elevato di violenza indiscriminata.
D’altronde si genera un’incongruenza nel sistema europeo d’asilo, poiché la disposizione della
protezione temporanea può essere riconosciuta alle persone che hanno dovuto lasciare in massa il
Paese di origine a causa di un conflitto armato, della violenza endemica o del rischio di gravi
violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani; mentre invece la protezione sussidiaria è
limitata alla sola ipotesi i cui la violenza indiscriminata sia collegata ad un conflitto armato.
L’intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea non è riuscito a fare luce sugli elementi più
problematici e contraddittori dell’Art. 15, lett. c): non sono state fornite indicazioni precise in merito
alla definizione di “rischio effettivo di serio danno”; non è stato chiarito quale sia il livello di violenza
generalizzato richiesto perché il richiedente non debba provare di essere a rischio.
Di fatto, viene lasciato un ampio margine di apprezzamento alle autorità statali nel valutare il livello
di gravità della situazione e la minaccia cui va incontro il richiedente in caso di allontanamento.
4. La politica migratoria dell’Unione Europea nel periodo 2014-2019: analisi e bilancio
della gestione della “crisi dei rifugiati”
Introduzione
L’intensa pressione migratoria sulle frontiere esterne dell’Unione Europea, avente il suo apice nel
biennio 2014-2015, ha posto gli Stati membri e le istituzioni europee di fronte all’esigenza di
predisporre contromisure per la gestione dei flussi migratori. L’Unione Europea si è vista costretta a
elaborare e porre in essere azioni sul
piano interno: sostegno a favore degli Stati membri geograficamente più esposti (come Italia
e Grecia). Queste misure hanno incontrato la forte opposizione di alcuni Stati membri,
contrari all’ingerenza da parte dell’Unione Europea nelle proprie prerogative sovrane in
termini di autonomia e controllo nelle questioni legate alla migrazione;
piano esterno: cooperazione con Paesi terzi nell’ottica di esternalizzare la responsabilità del
controllo dei flussi migratori.
Premessa: l’assetto “ibrido” delle competenze in materia di asilo, immigrazione e controllo delle
frontiere esterne
L’Unione Europea e gli Stati membri presentano un “assetto ibrido” in termini di attribuzione di
competenze per la gestione della migrazione. Le materie dell’asilo, dell’immigrazione e del controllo
delle frontiere esterne sono affidate ad una gestione impostata in termini di competenza concorrente
dell’Unione Europea con quella degli Stati membri. L’Art. 4, par. 2, lett. j) TFUE – “Spazio di
libertà, sicurezza e giustizia” rientra tra le competenze concorrenti.
La cooperazione degli Stati su ambiti legati alla migrazione presenta un’origine internazionale:
Convenzione di Dublino in materia di asilo del 1990;
Accordo di Schengen in materia di gestione dei controlli di frontiera del 1985.
L’iniziale impostazione intergovernativa delle materie migratorie si è progressivamente evoluta
tramite la graduale “incorporazione” della relativa normativa nel diritto dell’Unione Europea. A
seguito dell’attribuzione della competenza concorrente all’Unione Europea, questa ha svolto un ruolo
crescente a livello normativo, puntando sull’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia
di asilo e gestione dei richiedenti protezione internazionale. Da un lato sono state adottate normative
comuni volte a disciplinare accoglienza, procedure, qualifiche; dall’altro sono nati organismi
dell’Unione Europea come l’Agenzia per la cooperazione delle frontiere esterne – Frontex – e
l’Ufficio europeo per il sostegno dell’asilo.
Nonostante la crescente produzione normativa nei settori della migrazione, nel processo di
armonizzazione e ravvicinamento delle legislazioni nazionali, il sistema ha spesso sofferto delle
prassi operative proprie agli Stati membri riguardo le politiche migratorie. Gli Stati, pur gelosi delle
proprie prerogative sovrane in merito alla gestione dei flussi, non sono in grado, da soli, di governarli
completamente; gli stessi Stati sono consapevoli della necessità di un approccio condiviso e comune
alla migrazione, dipendendo quindi dall’Unione Europea e dalle sue capacità regolatorie, le quali,
tuttavia, risultano insufficienti poiché la competenza concorrente le limita.
Riguardo il sistema di competenze in riferimento al rispetto degli obblighi internazionali di tutela dei
diritti fondamentali, le politiche comuni in materia di asilo, immigrazione e controlli di frontiera
devono essere condotte nel pieno rispetto dei diritti fondamentali. Ai sensi dell’Art. 78 TFUE, la
politica comune in materia di asilo deve essere conforme alla Convenzione di Ginevra del 1951 e del
Protocollo del 1967 e al rispetto del principio di non respingimento. Ciò comporta che anche le
istituzioni europee sono tenute a rispettare gli obblighi internazionali.
Oltre all’Italia, il consistente aumento negli arrivi di migranti nel corso del 2014 sottoponeva la Grecia
(già in crisi economica) ad una situazione insostenibile riguardo il recepimento e l’accoglienza dei
richiedenti protezione internazionale. In particolare, il sistema greco d’asilo veniva portato al
collasso, come riconosciuto anche dalla Corte EDU nel 2011 che, con sentenza M.S.S. contro Belgio
e Grecia, dichiarava la violazione dell’Art. 3 CEDU relativamente al trasferimento, in ottemperanza
alla normativa Dublino, di un richiedente asilo afghano dal Belgio alla Grecia, proprio a causa della
situazione di “défaillance systémique” delle condizioni di accoglienza. Con la propria pronuncia, la
Corte EDU smentiva la cosiddetta presunzione di sicurezza, su cui era fondato il sistema Dublino,
circa il rispetto degli standard dei diritti umani da parte degli Stati membri. Per la Corte, le norme
Dublino non possono applicarsi in maniera autonoma e meccanica, senza verificare che le condizioni
di accoglienza del richiedente asilo nello Stato membro di destinazione siano compatibili con i diritti
umani. Da quel momento e fino all’accordo UE-Turchia del 2016 furono sospesi i trasferimenti
Dublino verso la Grecia.
Di questa misura, ci fu un atteggiamento di aperta ostilità da parte del Gruppo di Visegrád: Ungheria,
Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca. Oltre che verso la stessa ricollocazione con sistema di quote
obbligatorie, questi Stati sono particolarmente avversi alle politiche migratorie dell’Unione Europea,
percepite come indebita ingerenza nella sovranità statale. La frontale opposizione degli Stati di
Visegrád al sistema di ricollocazione è stata resa palese quindi dalla condotta di inadempimento agli
obblighi di diritto dell’Unione Europea.
Nel giugno 2017 la Commissione Europea non ha potuto far altro che aprire la procedura di infrazione
ai sensi dell’Art. 258 TFUE nei confronti di Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia, per poi procedere
con il deferimento degli stessi Stati alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Ungheria e
Slovacchia avevano agito con la presentazione nel dicembre 2015 di due ricorsi ai sensi dell’Art. 263
TFUE9 per l’annullamento della seconda Decisione del Consiglio istitutiva del meccanismo di
ricollocazione. Secondo l’Ungheria e la Slovacchia la Decisione del Consiglio istitutiva della
ricollocazione:
non rispettava diversi requisiti giuridici: Ungheria e Slovacchia criticavano le modalità
applicative dell’Art. 78, par. 3, TFUE utilizzato dal Consiglio come base legale per
l’istituzione del meccanismo di ricollocazione. Secondo le ricorrenti non c’erano le condizioni
richieste dalla norma per attivare questa misura:
1. Nei casi di Italia e Grecia non si poteva riscontrare una “situazione di emergenza”,
presupposto richiesto dall’Art. 78, par. 3, TFUE, dal momento che le statistiche
indicavano chiaramente un aumento continuo e regolare degli sbarchi negli anni
precedenti al 2015.
9
Secondo l’Art. 263 TFUE, La Corte di Giustizia dell’Unione Europea esercita un controllo di legittimità sugli atti
legislativi […] destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi.
2. L’afflusso dei migranti non si sarebbe potuto qualificare come “improvviso” – termine
sempre indicato nell’Art. 78, par. 3, TFUE – alla luce del fatto che quello degli sbarchi
poteva considerarsi come un fenomeno regolare.
non era un provvedimento necessario, ma era eccessivamente invasivo delle prerogative
statali: secondo le ricorrenti un’eventuale situazione di emergenze non si sarebbe dovuta
ricollegare al massiccio afflusso dei migranti, bensì alle carenze strutturali dei sistemi di asilo
di Grecia e Italia.
Tali argomentazioni non saranno condivise dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale si
pronuncerà invece per la legittimità ed opportunità del meccanismo di ricollocazione istituito in
favore di Italia e Grecia quale misura emergenziale di solidarietà in ambito migratorio.
Dimensione esterna: vengono avviate iniziative di cooperazione con Paesi terzi considerati
strategici da un punto di vista della gestione e del contenimento dei flussi migratori, in
particolare vi è la Turchia con cui si è adottata la Dichiarazione UE-Turchia nel 2016. Tale
“accordo” delinea una partnership volta a una gestione condivisa e coordinata della crescente
spinta migratoria legata alle conseguenze del conflitto in Siria. Da un lato la Turchia si
impegna a rafforzare i controlli di frontiera, alla lotta all’immigrazione irregolare verso la
Grecia, alla “ripresa” dei migranti irregolari entrati nell’Unione Europea attraverso le
frontiere greche; dall’altro lato, l’Unione Europea fornisce risorse economiche e sostegno
logistico per la gestione dei profughi siriani.
È stato inoltre istituito un meccanismo volto a reinsediare cittadini siriani dalla Turchia
all’Unione Europea: secondo tale meccanismo, i migranti intercettati nell’attraversare
irregolarmente i confini tra Turchia e Grecia venivano rimpatriati in Turchia e, per ogni siriano
rimpatriato in Turchia dalla Grecia, un altro siriano era reinsediato dalla Turchia nell’Unione
Europea. Questa iniziativa è stata fortemente criticata, in particolare per il divieto di
respingimento.
Altrettante perplessità sono state espresse in merito all’”accordo” tra Unione Europea e
Turchia con riferimento alla natura giuridica dell’atto, nonché alle modalità procedurali con
cui lo stesso è stato negoziato ed adottato, senza dunque osservare quanto contenuto nell’Art.
218 TFUE e nell’Art. 78, par. 2, lett g) TFUE secondo cui per adottare misure relative al
partenariato e alla cooperazione con Paesi terzi per gestire i flussi di richiedenti asilo o
protezione sussidiaria o temporanea occorra seguire la procedura legislativa ordinaria
coinvolgendo gli organi del Parlamento e del Consiglio.
Tale questione del possibile carattere obbligatorio del rilascio di un visto umanitario di cui all’Art.
25, par. 1, lett. a) del Codice dei visti è stata affrontata e decisa dalla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea in occasione del caso X e X contro Belgio. Il caso riguardava dei cittadini siriani in fuga dalla
guerra i quali, una volta raggiunta l’ambasciata del Belgio in Libano, avevano avanzato richiesta di
un visto VTL per motivi umanitari. In questo modo essi intendevano raggiungere il Belgio in modo
legale per poi avanzare domanda di asilo.
Le autorità belghe respingevano la richiesta, ritenendo non sussistente alcun obbligo per lo Stato.
Dalla vicenda derivava un rinvio pregiudiziale, con il quale si interrogava la Corte di Giustizia
dell’Unione Europea circa la portata dell’Art. 25, par. 1, lett a) del Codice dei visti e il presunto
obbligo di rilasciare un visto umanitario alla luce degli obblighi di tutela dei diritti umani gravanti
sugli Stati membri in forza del diritto dell’Unione Europea (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea) e del diritto internazionale (CEDU).
La Corte di Giustizia conclude che le richieste di visto umanitario avanzate ai fini di formulare
domanda di asilo non rientrano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione Europea, con la
conseguenza che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non si applica e la decisione
circa il rilascio o meno di un visto umanitario anche in caso di rischio per i diritti fondamentali è
lasciata alle autorità nazionali. La sentenza è stata ampiamente criticata in quanto, essenzialmente,
nel bilanciamento tra protezione dei diritti umani e difesa della sovranità statale, la Corte ha fatto
prevalere quest’ultima, lasciando agli Stati membri la facoltà di decidere circa l’ammissione o meno
sul proprio territorio di un soggetto in cerca di protezione internazionale.
Considerazioni conclusive
L’intensa pressione migratoria che ha interessato l’Europa a partire dal 2014 ha posto l’Unione
Europea di fronte a sfide complesse e delicate, innescando una crisi non solo operativa ma anche di
natura esistenziale e costituzionale.
Le politiche migratorie hanno segnato un progressivo ritorno alla logica intergovernativa, in quanto
gli Stati membri intendono ricoprire un ruolo di primo piano andando dalla difesa delle proprie
prerogative sovrane alle esigenze di natura elettorale. Il moltiplicarsi di summit, incontri tra ministri
e capi di Stato dimostra la tendenza a sviluppare forme di intesa e cooperazione di tipo
intergovernativo. Tale approccio è riscontrabile anche nel contesto delle politiche di esternalizzazione
della gestione dei flussi migratori: gli Stati membri cercano la collaborazione di Paesi terzi
geograficamente strategici.
Per il futuro, l’Unione Europea necessita di politiche migratorie comuni, impostate sul rispetto dei
principi fondamentali stabiliti dai trattati, su tutti quello di solidarietà ed equa ripartizione delle
responsabilità.
5. La protezione temporanea per le persone in fuga dall’Ucraina
A seguito della proposta della Commissione, il 4 marzo 2022 il Consiglio dell’Unione Europea, con
la Decisione 2022/382, ha deciso di attivare la Direttiva 2011/55/CE sulla protezione temporanea,
stabilendo l’esistenza di un afflusso massiccio di sfollati che hanno lasciato l’Ucraina a seguito di
conflitto armato.
Tuttavia, ci si potrebbe chiedere come mai tale meccanismo non è stato instaurato nel caso della crisi
siriana oppure della crisi afghana.
Nel caso di specie, la Decisione 2022/382 con l’Art. 1 ha stabilito che la protezione temporanea si
applica alle seguenti categorie:
a) Cittadini ucraini residenti in Ucraina prima del 24 febbraio 2022;
b) Cittadini di Stati terzi o apolidi che beneficiavano della protezione internazionale o di
protezione equivalente in Ucraina prima del 24 febbraio 2022;
c) Familiari delle persone indicate alla lett. a) e lett. b); per “familiare”, secondo l’Art. 4 si
intende:
Coniuge;
Partner stabile, qualora la legislazione o la prassi dello Stato membro interessato
assimila coppie di fatto e coppie sposate nel quadro della legge sugli stranieri;
Figli minori (legittimi, naturali o adottati) di persone di cui all’Art. 1, lett. a) o b);
oppure del coniuge10;
Parenti stretti che vivevano insieme come parte del nucleo familiare nel periodo in cui
gli eventi hanno determinato l’afflusso massiccio e che erano totalmente o
parzialmente dipendenti dal richiedente in tale periodo.
La Decisione 2022/382 con l’Art. 2 si applica altresì:
Ai cittadini di Paesi terzi o apolidi che soggiornavano legalmente in Ucraina prima del 24
febbraio 2022 sulla base di un permesso di soggiorno permanente valido rilasciato
conformemente al diritto ucraino e che non possono ritornare in condizioni sicure e stabili nel
proprio Paese o regione di origine. 11
Distanziandosi dalla proposta formulata dalla Commissione, il Consiglio dell’Unione Europea ha
deciso, con l’Art. 3, di non includere tra i destinatari della protezione temporanea i cittadini di Stati
terzi che vivevano regolarmente in Ucraina sulla base di un permesso di soggiorno non permanente.
Chiaramente, come detto poc’anzi, gli Stati membri hanno la possibilità di applicare la protezione
temporanea anche a ulteriori persone rispetto a quelle incluse nella Decisione 2022/382, sempre nel
rispetto dei criteri di cui sopra (il Considerando 13 indica che le persone che si trovavano in Ucraina
per un breve periodo per motivi di lavoro o per motivi di studio. Tali persone dovrebbero comunque
essere ammesse nell’Unione Europea per motivi umanitari).
10
Dunque parrebbe che non si comprendano i figli del partner stabile.
11
Dunque parrebbe che i familiari degli stranieri di cui all’Art. 2 sono esclusi dalla protezione temporanea.
La durata della protezione temporanea
La durata della protezione temporanea è fissata al massimo ad 1 anno dal giorno in cui viene attivata
dal Consiglio dell’Unione Europea12. Tale termine può essere ridotto, ma anche prorogato. La
proroga può avvenire:
In via ordinaria: di 1 anno ulteriore (diviso in due tranches da 6 mesi l’una);
e poi
In via straordinaria: di ancora 1 anno ulteriore, su richiesta della Commissione Europea.
La cessazione è subordinata ad una valutazione da parte del Consiglio dell’Unione Europea, in base
alla presenza nel Paese di origine di una situazione che consenta un rimpatrio sicuro e stabile delle
persone cui è stata concessa la protezione temporanea, nel rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, nonché degli obblighi in materia di non respingimento.
Il ricongiungimento familiare
La Direttiva 2001/55/CE prevede la possibilità per il titolare di protezione temporanea di accedere al
ricongiungimento familiare, sia esso intra-UE (con familiari soggiornanti in altri Stati membri), sia
esso extra-UE (con familiari soggiornanti in Paesi terzi).
12
Nel caso di specie dovrebbe essere dunque dal 4 marzo 2022; tuttavia il Consiglio dell’Unione Europea nella Decisione
2022/382 ha stabilito che la protezione temporanea sia attiva retroattivamente, ovvero a partire dal 24 febbraio 2022.
Ai fini del ricongiungimento familiare, la Direttiva considera facenti parte di una famiglia le seguenti
persone:
Coniuge;
Partner stabile, qualora la legislazione o la prassi dello Stato membro interessato assimila
coppie di fatto e coppie sposate nel quadro della legge sugli stranieri;
Figli minori non sposati (legittimi, naturali o adottati);
Parenti stretti che vivevano insieme come parte del nucleo familiare nel periodo in cui gli
eventi hanno determinato l’afflusso massiccio e che erano totalmente o parzialmente
dipendenti dal richiedente in tale periodo.
Tutti i migranti che giungono irregolarmente sulle isole greche vengano ricondotti in Turchia;
Per ogni siriano riammesso in Turchia, un altro siriano verrà reinsediato dalla Turchia ad uno
Stato membro dell’Unione Europea.
La dichiarazione UE-Turchia del 18 marzo ha riconfermato i due principi introdotti il 7 marzo.
In base a ciò, può dunque la Turchia essere considerata un Paese terzo sicuro?
Con riguardo alla lettera e), innanzitutto la Turchia ha ratificato la Convenzione di Ginevra
nel 1951 e il suo Protocollo del 1967, ma mantiene una limitazione geografica per i
richiedenti non europei, in base alla quale riconosce lo status di rifugiato come definito dalla
Convenzione solo a chi proviene da un Paese membro del Consiglio d’Europa. Sebbene la
legge sugli stranieri e sulla protezione internazionale adottata nel 2013 preveda la
possibilità di riconoscere lo status di “rifugiato condizionato” a chi proviene da un Paese non
europeo, questo status permette di risiedere solo temporaneamente in Turchia, e garantisce
una serie limitata di diritti. I siriani sono soggetti ad un regime speciale di protezione
temporanea che evita loro di dover passare attraverso la procedura regolare; tuttavia, anche i
loro diritti sono limitati. Pertanto, nessun richiedente protezione proveniente da un Paese non
europeo può richiedere e vedersi riconosciuto in Turchia lo status di rifugiato così come
definito dalla Convenzione di Ginevra.
Con riguardo alla lettera c), sono molteplici gli episodi di respingimenti che sono stati
documentati.
Con riguardo alla lettera b), in Turchia i migranti e richiedenti si trovano ad affrontare una
serie di ostacoli che aumentano il rischio di danno grave, in ragione del mancato rispetto del
divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti nei centri di detenzione.
Introduzione
Con la sentenza Kaak del 3 ottobre 2019 la Corte EDU torna ad esaminare le condizioni di
accoglienza dei richiedenti asilo negli hotspots greci, in particolare nel centro di Vial, sull’isola di
Chio. Ricordiamo che le condizioni di accoglienza in Grecia già erano critiche prima della
Dichiarazione UE-Turchia del 2016, in particolare la sentenza M.S.S. contro Belgio e Grecia del 2011
della Corte EDU portò alla sospensione dei trasferimenti Dublino proprio fino all’accordo tra Unione
Europea e Turchia. Tuttavia, la Dichiarazione UE-Turchia ha peggiorato la situazione. Ciò che
colpisce e suscita perplessità nella sentenza in esame, è che la Corte sia giunta a negare la violazione
dell’Art. 3 CEDU nei confronti dei minori non accompagnati presenti nel centro di Vial, con ciò
contraddicendo la sua stessa giurisprudenza che fino a quel momento aveva piuttosto mostrato un
orientamento di favore nei confronti di bambini e adolescenti posti in stato di trattenimento perché
migranti.
La Dichiarazione UE-Turchia
Il 18 marzo 2016 viene pubblicata la Dichiarazione UE-Turchia, la cui natura giuridica è
controversa. Una delle cose che colpiscono è il fatto che, per la prima volta, l’espressione “migranti
irregolari” include anche i richiedenti asilo, compresi i cittadini siriani. L’accordo prevede che:
tutti i “migranti irregolari” che partono dalla Turchia per raggiungere le isole greche a
decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rinviati in Turchia; i migranti che giungeranno sulle
isole greche saranno debitamente registrati e qualsiasi domanda d’asilo sarà trattata
individualmente dalle autorità greche conformemente alla Direttiva sulle procedure d’asilo;
i migranti che non faranno domanda d’asilo o la cui domanda d’asilo sia ritenuta infondata o
non ammissibile saranno rinviati in Turchia;
meccanismo uno per uno: per ogni siriano rinviato in Turchia dalle isole greche, un altro
siriano sarà reinsediato dalla Turchia verso l’Unione Europea.
Tale accordo segna una pericolosa accelerazione dell’Unione Europea verso pratiche di
esternalizzazione delle frontiere. L’idea di esternalizzare i controlli alle frontiere non era nuova nel
dibattito europeo, ma la novità è il ricorso sistematico a questa pratica mediante accordi con Paesi
terzi non sicuri (come la Turchia), esponendo migranti e richiedenti asilo a gravi violazioni dei diritti
umani.
L’accordo UE-Turchia era stato tuttavia presentato come strategico per risolvere la “crisi
migratoria”. Questa crisi, però, è esplosa non tanto a causa del numero di persone che hanno
raggiunto l’Europa, ma quanto a causa dell’incapacità dell’Unione Europea di affrontarla in modo
efficace e solidale.
Con specifico riferimento all’accordo UE-Turchia, questo è stato oggetto di numerose critiche,
basate:
sia su profili inerenti il diritto costituzionale europeo: la Dichiarazione è stata criticata per
essere stata conclusa senza rispettare i requisiti stabiliti dal TFUE: non si rispettano l’Art. 218
TFUE e l’Art. 78, par. 2, lett. g) TFUE;
sia su profili inerenti i diritti umani: la Dichiarazione presuppone che la Turchia possa essere
considerata un Paese terzo sicuro.
Entrambi questi profili sono stati oggetto dinanzi al Tribunale dell’Unione Europea di tre ricorsi
sollevati rispettivamente da due cittadini pakistani e un cittadino afghano, che dalla Turchia avevano
raggiunto la Grecia ed avevano qui richiesto protezione internazionale. Poiché rischiavano di essere
rimpatriati in Turchia in virtù della Dichiarazione, hanno deciso di rivolgersi al Tribunale dell’Unione
Europea al fine di contestarne la legittimità.
Partendo dal presupposto che la Dichiarazione costituisse un accordo internazionale tra l’Unione
Europea e la Turchia, hanno fatto ricorso ai sensi dell’Art. 263 TFUE, sia con riguardo alle questioni
costituzionali (inosservanza dell’Art. 218 TFUE), sia riguardo il mancato rispetto della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea (invocando in particolare gli Artt. 1 (dignità), 18 (diritto
d’asilo), 19 (divieto di refoulement e di espulsioni collettive).
Tuttavia, la Corte di Lussemburgo ha scelto un ragionamento formalistico: ha infatti negato il
coinvolgimento dell’Unione Europea, escludendo la propria giurisdizione perché l’espressione
“membri del Consiglio Europeo” e il termine “UE”, presenti nella Dichiarazione UE-Turchia devono
intendersi come riferimenti ai capi di Stato o di Governo dell’Unione Europea. Il Tribunale ha evitato
di esaminare il merito perché, se avesse esaminato la compatibilità della Dichiarazione UE-Turchia
con il diritto europeo e internazionale in materia di asilo e rifugiati, sarebbe giunto o a una conclusione
di non conformità oppure avrebbe dovuto optare per un’interpretazione restrittiva del diritto di asilo
e dei rifugiati. La seguente impugnazione poi dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha
visto il respingimento dell’appello per inammissibilità, senza esaminarlo nel merito.
La conseguenza è che i ricorrenti non hanno ricevuto nessuna decisione nel merito della questione
fondamentale, cioè:
se nel loro caso individuale la Turchia potesse essere effettivamente considerata un Paese
terzo sicuro
o
se il rimpatrio in tale Paese costituisse violazione del principio di non refoulement.
13
Rapporto di Human Rights Watch; Risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa; Rapporto del
Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa (CPT) ed altri ancora.
esamina innanzitutto se nel caso dei ricorrenti si sia trattato di “privazione” e non di mera
“restrizione” di libertà, e perviene ad una conclusione positiva soltanto in relazione
all’hotspot di Vial, e solo per il periodo antecedente la data del 21 aprile 2016, ovvero quando
il centro viene trasformato in una struttura semi-aperta. In realtà la situazione all’interno degli
hotspots rimane problematica anche dopo tale data, alla luce della cosiddetta restrizione
geografica, ossia della circostanza per cui le persone possono uscire dall’hotspot ma non
possono uscire dall’isola greca. Tale limitazione geografica potrebbe secondo alcuni essere
configurata come una detenzione de facto.
Tuttavia, la Corte EDU si limita solo a dichiarare ricevibile la doglianza relativa all’Art. 5
esclusivamente nei confronti dei ricorrenti trattenuti nell’hotspot e soltanto per il periodo fino
al 21 aprile 2016; nel merito, però, nega il carattere arbitrario della detenzione richiamando
la sentenza J.R. e al. contro Grecia, in particolare il fatto che la detenzione non è arbitraria se
strettamente legata allo scopo perseguito. Nel caso dei ricorrenti, la detenzione avrebbe avuto
lo scopo di impedire loro di soggiornare irregolarmente sul territorio greco e di rispondere ai
contenuti della Dichiarazione UE-Turchia.
B) Art. 5, comma 4 CEDU: la Corte EDU nota in primo luogo che il decreto che disponeva
l’ordine di espulsione e il trattenimento erano scritti in greco; inoltre, tenuto conto
dell’opuscolo informativo dato dalle autorità greche ai ricorrenti al tempo dei fatti, questo
faceva riferimento a un Tribunale amministrativo senza specificare quale (nonostante non
esistesse alcun Tribunale amministrativo sull’isola di Chio).
La Corte EDU conclude che nelle circostanze specifiche i ricorrenti non hanno avuto
concretamente accesso ai rimedi interni per contestare la decisione delle autorità greche circa
il trattenimento nei centri. Dunque, riconosce la violazione dell’Art. 5, comma 4.
Con riferimento alla doglianza relativa all’Art. 5, nel caso Kaak la Corte EDU non aggiunge
nessun riferimento alla condizione particolare dei minori non accompagnati, nonostante la
Corte stessa sia stata molto attenta in passato alla situazione di questa categoria di persone.
La Corte EDU ha innanzitutto ricordato il principio (espresso sia nella sentenza M.S.S. c.
Belgio e Grecia e nella sentenza Hirsi e al. c. Italia) in base al quale il carattere assoluto
dell’Art. 3 CEDU non consente deroghe per gli Stati nemmeno in caso di afflussi straordinari.
Tuttavia, la Corte EDU, come già nel caso Khlaifia, aggiunge delle osservazioni relative alla
situazione di emergenza umanitaria che lo Stato convenuto stava affrontando per giungere
alla conclusione che, anche alla luce del Rapporto del CPT (vedi la nota 13 nella pagina
precedente) e della brevità della detenzione, nel caso di specie la soglia di gravità necessaria
per parlare di trattamento inumano e degradante non sia stata raggiunta.
La Corte di Strasburgo nel sottolineare la situazione cui ha dovuto far fronte la Grecia non fa
altro che introdurre nella struttura motivazionale della propria valutazione sul rispetto
dell’Art. 3 CEDU un nuovo ed autonomo “fattore rilevante” costituito dal contesto generale,
che di fatto comporta un affievolimento del carattere assoluto ed inderogabile del divieto
sancito dall’Art. 3 CEDU e una conferma di un preoccupante revirement rispetto a quanto
aveva invece affermato nel caso Hirsi.
Nella sentenza in oggetto occorre inoltre sottolineare un ulteriore aspetto critico, ovvero l’uso
selettivo dei numerosi Rapporti di istituzioni internazionali e ONG. La Corte EDU cita a sostegno
della propria conclusione di non violazione dell’Art. 3 CEDU il solo Rapporto del CPT, a suo dire
“non particolarmente critico”, contestualmente contestando allo stesso CPT e alle ONG intervenute
di non aver fornito informazioni sufficienti sul sovraffollamento all’interno dell’hotspot perché non
avrebbero indicato il numero di metri quadrati nello spazio occupato dai ricorrenti. Tale rilievo
risulta comunque contraddetto dagli stessi dati già in possesso della Corte EDU, ma che non sono
stati riprodotti nella decisione in esame, ovvero quelli contenuti nella sentenza J.R. e al. contro
Grecia.
Introduzione. Gli obiettivi dell’Italia e dell’UE di controllare e di ridurre i flussi migratori nel
Mediterraneo e i risultati recentemente raggiunti
Da ormai diversi anni, il controllo e la riduzione dei flussi migratori provenienti dall’Africa e dal
Medio Oriente costituiscono degli obiettivi prioritari per gli Stati membri dell’Unione Europea. Gli
Stati che gestiscono le frontiere esterne dell’Unione Europea, configurandosi come Paesi di primo
approdo dei richiedenti asilo, sopportano i più pesanti oneri derivanti dalla crisi migratoria.
In Italia, da più parti si invocano azioni di forte contrasto ai flussi migratori che attraversano il
Mediterraneo. Allora, di concerto con l’Unione Europea, il Governo italiano ha optato per una
strategia antimigratoria che consiste nell’esternalizzazione delle proprie frontiere in Libia, Paese in
cui notoriamente convergono quasi tutte le ondate migratorie provenienti dall’Africa sub-sahariana e
talvolta anche dal Nord Africa e dal Medio Oriente prima di attraversare il Mediterraneo. L’Italia ha
ottenuto che la Libia (in realtà diversi attori del territorio libico, essendo caratterizzato da instabilità
politica) blocchi i migranti entro i suoi confini, impedendo loro di arrivare in Europa. È stato così
ripreso e sviluppato il Trattato del 2008 con lo scopo principale di arginare le migrazioni nel
Mediterraneo.
La commissione di gross violations dei diritti umani a danno dei migranti trattenuti sul
territorio libico e la responsabilità internazionale della Libia
È ormai innegabile che i migranti trattenuti in Libia siano vittime di gravi e sistematiche violazioni
dei diritti umani. Le gross violations dei diritti dei migranti sono dimostrate nei numerosi documenti
pubblicati da diverse ONG, da fonti giornalistiche, da rapporti di organizzazioni internazionali come
l’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i diritti umani, l’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i
rifugiati, l’OIM, l’UNICEF.
Le gross violations dei diritti umani implicano la responsabilità internazionale della Libia:
per il mancato rispetto della norma di diritto internazionale che ne pone il divieto
(Dichiarazione e Programma d’azione di Vienna del 1993 con la Conferenza mondiale sui
diritti umani);
per il mancato rispetto di diritti tutelati da specifiche norme internazionali generalmente
considerate consuetudinarie (diritto a non essere ridotti in schiavitù; divieto di tortura);
per il mancato rispetto di diritti umani sanciti in strumenti convenzionali che la Libia ha
ratificato e da cui è vincolata (Convenzione contro la schiavitù – 1926; Patto ONU sui diritti
civili e politici – 1966; Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli,
inumani e degradanti – 1984; Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli – 1981).
Molte gross violations dei diritti dei migranti sono imputabili alla Libia poiché poste effettuate in
aree poste effettivamente sotto il controllo del Governo di Serraj (interventi della guardia costiera e
della guardia di confine; intervento dei dipendenti del Dipartimento per il contrasto all’immigrazione
clandestina). Appare problematica soltanto l’imputabilità alla Libia delle violazioni perpetrate dalle
guardie che controllano i confini meridionali, visto che tali guardie non rispondono né al Governo di
Serraj, né al Governo ribelle della Cirenaica di Haftar. Non è chiaro se le guardie che presidiano le
frontiere meridionali agiscano o
14
La Legge 15/2023 da parte dello Stato italiano riguardo le ONG, reca ulteriori restrizioni sul soccorso in mare: le navi
umanitarie possono compiere una sola operazione di salvataggio in mare (per ogni missione), venendo meno agli obblighi
di salvataggio sanciti dal diritto internazionale, specie nel caso in cui avvistino, a seguito di un primo salvataggio, altre
situazioni di pericolo che richiederebbero il loro intervento; le navi devono essere in possesso delle certificazioni e
documenti rilasciati dallo Stato di bandiera; le persone soccorse devono essere subito informate della possibilità di
chiedere la protezione internazionale e i soccorritori dovrebbero già raccogliere i loro dati; deve essere subito richiesto il
porto di sbarco nell’immediatezza del salvataggio; fissa nuove sanzioni amministrative fino al sequestro delle navi;
comporta l’assegnazione di porti sempre più lontani.
nel contesto di veri e propri movimenti insurrezionali: in questa ipotesi, la condotta illecita
delle guardie non sarebbe imputabile alla Libia
oppure
nel quadro dell’autonomia “regionale” storicamente assicurata al Fezzan: troverebbe forse
applicazione l’Art. 9 del Progetto del 2001, che permetterebbe di imputare anche la condotta
illecita di tali guardie alla Libia. Infatti, secondo l’Art. 9, il comportamento di una persona o
di un gruppo di persone è considerato come atto di uno Stato se quella persona o quel gruppo
di persone di fatto svolge delle prerogative di governo in assenza delle autorità ufficiali e in
circostanze tali da richiedere l’esercizio di quelle prerogative (nel caso di specie, queste
guardie presidiano i confini nazionali in assenza del governo).
La responsabilità internazionale dell’Italia e dell’UE per complicità nelle gross violations dei
diritti umani dei migranti compiute in Libia
La politica di esternalizzazione delle frontiere potrebbe essere considerata lecita ai sensi del diritto
internazionale. Tuttavia, nel caso di specie dell’Italia, tale politica configura la sua responsabilità per
complicità nelle gross violations dei diritti umani che la Libia compie a danno dei migranti. Infatti,
ricorrono tutti i requisiti e i caratteri individuati nell’Art. 16 del Progetto di Articoli del 2001.
Innanzitutto, la condotta in sé lecita dell’Italia è posta in connessione con la condotta illecita della
Libia. Con il suo aiuto e la sua assistenza, l’Italia facilita gli organi statali libici che compiono le gravi
e sistematiche violazioni dei diritti dei migranti.
Anche l’elemento della consapevolezza risulta soddisfatto. Le autorità libiche violano i diritti dei
migranti in maniera notoriamente generalizzata e sistematica. È da ritenere che l’Italia sia a
conoscenza di tutto ciò da tempo, e comunque almeno all’epoca della sentenza Hirsi. Pertanto, l’Italia
non può non avere anche la consapevolezza del fatto che l’aiuto e l’assistenza offerti alla Libia
facilitano gli organi statali libici nella commissione di gross violations dei diritti dei migranti.
Quanto alla cosiddetta opposability, gli illeciti commessi dalla Libia consistono nella violazione non
solo di norme consuetudinarie (divieto di praticare la schiavitù; divieto di tortura), ma anche di
norme convenzionali (entrambi gli Stati sono parti della Convenzione del 1926 contro la schiavitù;
del Patto del 1966 sui diritti civili e politici; della Convenzione del 1984 contro la tortura e altre
pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti; del Protocollo del 2000 per la prevenzione, la
repressione e la punizione del traffico di esseri umani).
Infine, non è necessaria alcuna dimostrazione dell’intenzionalità dell’Italia al fine di provarne la
responsabilità nel caso di specie.
In alcuni documenti ci si riferisce anche all’Unione Europea, la cui condotta è associata a quella
dell’Italia per ciò che concerne l’assistenza prestata alla Libia. L’Unione Europea, d’altronde,
sostiene pubblicamente la politica migratoria italiana. Peraltro, con la missione navale EUNAVFOR
MED Operazione Sophia e poi l’Operazione Irini, l’Unione Europea addestra la guardia costiera
libica.
Non sembra dunque difficile provare che anche l’Unione Europea è responsabile per complicità nelle
gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani subite dai migranti bloccati in Libia.
Le forme di assistenza in ambito migratorio prestate alla Libia dall’Unione Europea sono meno
evidenti di quelle assicurate dall’Italia. Si tratta perlopiù di contributi finanziari, spesso inviati
contestualmente ad altri Stati africani e intesi a promuovere esternamente i valori democratici, ad
agevolare la ripresa economica, ad incentivare lo sviluppo, tra i cui obiettivi rientra la gestione dei
flussi migratori. Altre risorse giungono in Libia invece per via indiretta, ovvero attraverso gli Stati
membri (come l’Italia che con il Memorandum italo-libico del 2 febbraio 2017 prevedeva che la
copertura finanziaria fosse al 50% a carico del bilancio italiano e l’altro 50% tramite i finanziamenti
ricevute dall’Unione Europea).
9. Recenti sviluppi in materia di giurisdizione extraterritoriale a margine delle decisioni
del Comitato ONU per i diritti umani, A.S. e al. c. Malta e A.S. e al. c. Italia: quale
prospettiva per la Corte di Strasburgo?
Introduzione
Nelle due comunicazioni del 27 gennaio 2021, A.S. e al. c. Malta e A.S. e al. c. Italia, Il Comitato
ONU per i diritti umani si è confrontato con la responsabilità dello Stato maltese e italiano per la
violazione degli obblighi derivanti dal diritto alla vita, in relazione al mancato svolgimento delle
operazioni di soccorso in un naufragio avvenuto nel Mediterraneo nel 2013, che ha visto più di 200
migranti perdere la vita in mare.
Le due decisioni segnano uno sviluppo significativo del diritto internazionale dei diritti umani,
specialmente in relazione alla sua applicabilità nei contesti di ricerca e soccorso in mare.
Il Comitato ONU per i diritti umani ha adottato un’interpretazione innovativa della nozione
“funzionale” di giurisdizione extraterritoriale ai sensi dell’Art. 2, par. 1 del Patto sui diritti civili e
politici, ritenendo sussistente sia la giurisdizione maltese che quella italiana. Risolta la questione della
giurisdizione, ha affermato la responsabilità italiana per la violazione degli obblighi positivi di
protezione del diritto alla vita ai sensi dell’Art. 6, par. 1 del Patto e, in combinato disposto con l’Art.
2, par. 3, ha affermato la violazione di tale articolo per non aver adempiuto al proprio dovere di
condurre un’indagine tempestiva sulle accuse relative all’incidente. Il ricorso contro Malta è stato
invece dichiarato inammissibile per il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.
Dall’Agenda per la migrazione del 2015 al Patto sulla migrazione e l’asilo del 2020
La Commissione Juncker aveva presentato nel maggio 2015 l’Agenda per la migrazione, alla quale
aveva fatto seguito, nel 2016, un pacchetto di proposte di riforma del Sistema europeo comune di
asilo, in parte non approvate.
Il 1° dicembre 2019 il testimone passa alla Commissione Von Der Leyen che predispone un nuovo
Patto sulla migrazione e l’asilo del 23 settembre 2020. Si tratta di un documento programmatico con
un orizzonte di legislatura. Si riapre così il cammino delle riforme. In alcuni casi, come ad esempio
quello della proposta di regolamento sostitutivo della cosiddetta Direttiva procedure, la Commissione
presenta emendamenti alla proposta già avanzata; in altri, come la modifica del cosiddetto
Regolamento Dublino sono presentate proposte nuove.
L’auspicio della Commissione Europea è che grazie ad una maggiore capacità di programmazione e
all’innovativo strumento della sponsorship sul rimpatrio, si stemperino le tensioni sul sistema
Dublino, senza più attriti tra gli Stati. Tuttavia, probabilmente se vi è una possibilità che le tensioni
tra gli Stati si attenuino è perché vi sarà nel prossimo futuro una riduzione drastica degli arrivi grazie
alle misure di contenimento dei flussi.
11. Alcune riflessioni su diritti umani e “Global Compact for Safe, Orderly and Regular
Migration”
Introduzione
Il 10 dicembre 2018 a Marrakech è stato adottato il Global Compact for Safe, Orderly and Regular
Migration (chiamato anche Global Compact on Migration), il quale, nel contesto di ribadire la
necessità di rispettare i diritti umani delle persone in movimento, riafferma l’essenza della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Il Global Compact on Migration è uno dei due documenti frutto del processo di negoziazione cui ha
dato avvio la Dichiarazione di New York per i Rifugiati e i Migranti adottata il 19 settembre 2016
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Tale Dichiarazione di New York aveva 2 Allegati:
1. Attribuiva all’UNHCR il compito di redigere un “Global Compact on Refugees” da
presentare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Tale documento è stato approvato il
17 dicembre 2018 con 181 voti favorevoli.
2. Istituiva un negoziato intergovernativo coordinato dall’OIM per redigere un “Global
Compact for Safe, Orderly and Regular Migration” destinato a creare un quadro di
cooperazione internazionale sui migranti e la mobilità umana, riguardante dunque tutti gli
aspetti delle migrazioni internazionali. Tale documento è stato approvato dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite il 19 dicembre 2019 con 152 voti favorevoli.
Il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration: genesi e contenuto
Il processo di elaborazione del Global Compact on Migration è stato guidato, in qualità di co-
facilitatori, da Messico e Svizzera.
Nel 2017 gli Stati Uniti hanno comunicato che avrebbero abbandonato il negoziato sul Global
Compact on Migration, perché l’approccio globale nella Dichiarazione di New York non
sarebbe compatibile con la propria sovranità. In seguito a tale abbandono, l’Unione Europea
ha assunto un ruolo di primo piano, anche se poi vi sono state ulteriori defezioni anche tra
gli stessi suoi Paesi membri.
Nel 2018 si è tirata indietro l’Australia. Successivamente l’Ungheria e gli altri Paesi del
gruppo di Visegrád. L’Italia fino al 21 novembre 2018 aveva pubblicamente dichiarato di
appoggiare il Patto, ma è venuta successivamente meno. Infatti, il 27 novembre 2018 il
Ministro dell’Interno Matteo Salvini ha dichiarato di essere contrario al Global Compact on
Migration e il 28 novembre 2018 il Premier Giuseppe Conte ha dichiarato che il Governo non
avrebbe partecipato al Vertice di Marrakech riservandosi di aderire o meno al documento
solo quando il Parlamento si sarà pronunciato.
Nel febbraio 2019 il Parlamento italiano ha deliberato di non sottoscrivere il Global Compact
on Migration.
Il Global Compact on Migration è stato adottato il 10 dicembre 2018 come documento finale della
Conferenza intergovernativa tenutasi a Marrakech. Successivamente, è stato approvato
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 19 dicembre 2018, con 152 voti favorevoli, 5 contrari,
12 astenuti (tra cui dunque l’Italia), e 24 membri delle Nazioni Unite non erano presenti per
partecipare al voto.
Il Global Compact on Migration instaura un quadro cooperativo non giuridicamente vincolante che
intende affrontare la migrazione in tutte le sue dimensioni. Esso si compone di:
Preambolo: in cui si dichiara che le migrazioni costituiscono una “fonte di prosperità,
innovazione e sviluppo sostenibile all’interno del mondo globalizzato”. Si afferma anche che
“nessun Paese può affrontare da solo le sfide e le opportunità di questo fenomeno globale”.
10 Principi Guida ispiratori;
23 Obiettivi: tra essi ricordiamo in particolare l’Obiettivo n° 2 – “Ridurre al minimo i fattori
che costringono le persone a lasciare il loro Paese d’origine”; l’Obiettivo n° 8 – “Salvare
vite umane e stabilire sforzi internazionali coordinati sui migranti dispersi”; l’Obiettivo n°
13 – “Usare la detenzione dei migranti solo come misura ultima”.
2 Sezioni: di cui 1 dedicata all’attuazione; la 2 dedicata al follow-up, che dovrà effettuarsi
all’interno del Forum internazionale di revisione delle migrazioni in cui gli Stati membri delle
Nazioni Unite, a partire dal 2022, e ogni 4 anni, potranno discutere i risultati conseguiti.
L’Unione Europea ha, come detto prima, acquisito un ruolo di primo piano dopo che gli Stati Uniti
hanno dichiarato che non avrebbero più partecipato ai negoziati, ed ha esercitato una notevole
influenza, sia dal punto di vista formale, sia dal punto di vista sostanziale.
Punto di vista formale: il Global Compact on Migration mostra analogie con gli strumenti
adottati dall’Unione Europea in attuazione dell’Agenda europea sulla migrazione. In
particolare, il partenariato istituito dalla Comunicazione della Commissione Europea del
2016 prevede la conclusione di Compacts e si inserisce in una tendenza a fare ricorso a
strumenti più snelli rispetto ai Trattati.
Punto di vista sostanziale: l’Unione Europea ha mirato a sottolineare la differenza tra
migranti e rifugiati; tra migranti regolari e migranti irregolari; e, in generale, si è mostrata
molto più interessata al controllo delle frontiere e ad affermare obblighi di riammissione a
carico degli Stati di origine piuttosto che a riconoscere diritti ai migranti.
Il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration e la tutela dei diritti umani
Il Global Compact on Migration formalmente riserva un grande rilievo ai diritti umani. Al par. 4 del
Preambolo, viene ripresa l’affermazione già contenuta nella Dichiarazione di New York, secondo la
quale “i rifugiati e i migranti hanno gli stessi diritti umani universali e le stesse libertà
fondamentali”, ulteriormente rafforzata dal richiamo ad un “obbligo generale di rispettare,
proteggere e soddisfare i diritti umani di tutti i migranti, indipendentemente dal loro status”. In
aggiunta, al par. 2 del Preambolo sono espressamente richiamati la Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, il Patto internazionale sui diritti
economici, sociali e culturali e gli altri trattati internazionali fondamentali sui diritti umani.
Soffermandosi sull’Obiettivo n° 8 – “Salvare vite umane e stabilire sforzi internazionali coordinati
sui migranti dispersi” è importante affermare quanto ciò prevede: “Ci impegniamo a cooperare a
livello internazionale per salvare vite e prevenire morti e feriti tra i migranti attraverso operazioni
individuali o congiunte di ricerca e salvataggio […] assumendo la responsabilità collettiva di
salvaguardare la vita di tutti i migranti, in accordo con il diritto internazionale.
Sembra particolarmente importante aver dedicato un esplicito obiettivo a questo tema, considerata la
prassi degli ultimi tempi ad opera di alcuni Stati europei, con il colpevole silenzio, se non addirittura
l’esplicito appoggio, della stessa Unione Europea. Ricordiamo ad esempio:
che dall’operazione italiana di Mare Nostrum si è passati all’operazione Triton nell’ambito
dell’Unione Europea, che riduceva il campo di azione e tralasciava la componente umanitaria
per focalizzarsi sulla sorveglianza delle frontiere;
come nel febbraio 2017 l’Italia ha concluso il Memorandum con la Libia, incaricata ad
intercettare i migranti in mare e riportarli indietro, nonostante il rischio di torture e abusi nei
centri di detenzione libici;
come si è assistito ad una crescente ostilità nei confronti delle ONG (adozione del codice di
condotta);
la chiusura dei porti.
Alla luce di ciò, sembra dunque particolarmente importante quanto indicato nel Global Compact on
Migration, che individua tra le azioni necessarie per rispondere all’Obiettivo n° 8:
lett. a): sviluppare procedure ed accordi con l’obiettivo primario di tutelare il diritto alla vita
dei migranti, che confermano il divieto di proibire le espulsioni collettive.
Sarebbe stato opportuno un esplicito riferimento anche al divieto di refoulement (come tra
l’altro era nella precedente versione del Patto, ma l’eliminazione nel testo finale sembra essere
stata dovuta alla posizione di alcuni Stati). Il divieto di refoulement, d’altronde, oltre alla
Convenzione di Ginevra, è esplicitamente previsto anche in Trattati sui diritti umani ed è
ripreso in via giurisprudenziale dalla Corte EDU e dal Comitato ONU per i diritti dell’uomo;
infine, secondo la dottrina dominante tale principio ha acquisito rango di diritto
consuetudinario.
lett. b): rivedere l’impatto delle politiche e delle leggi in materia di migrazione per assicurare
che non aumentino o generino il rischio di scomparsa dei migranti, anche identificando le
rotte pericolose di transito utilizzate dai migranti.
Soffermandosi invece sull’Obiettivo n° 13 – “Usare la detenzione dei migranti solo come misura
ultima”, che riguarda per l’appunto la detenzione dei migranti, esso prevede quanto segue: “Ci
impegniamo a garantire che qualsiasi detenzione nel contesto della migrazione segua un giusto
processo, che non sia arbitraria, che si basi sulla legge, sulla necessità, sulla proporzionalità e sulle
valutazioni individuali, e che sia per il periodo più breve possibile. […] Ci impegniamo inoltre a
dare priorità alternative diverse dalla detenzione.”
Se si effettua un confronto tra l’iniziale previsione del testo e quella contenuta poi nel testo finale del
Patto, risultano alcuni miglioramenti:
lett. a): necessità che il monitoraggio della detenzione per immigrazione sia condotto da un
organismo indipendente;
lett. d): sancisce il diritto ad un riesame regolare della misura privativa della libertà
personale.
Tuttavia, rispetto all’iniziale previsione del testo, vi è una sorta di indietreggiamento rispetto alla
questione della detenzione dei minori. Se inizialmente si prevedeva di “porre fine alla pratica della
detenzione dei minori nel contesto della migrazione internazionale”, nel testo finale ci si propone di
“lavorare per porre fine alla pratica della detenzione dei minori nel contesto della migrazione
internazionale.”
Osservazioni conclusive
Nel complesso, il Global Compact on Migration si limita essenzialmente a fare una ricognizione di
diritti già esistenti, e l’opposizione che ha incontrato si giustifica più per ragioni di propaganda
politica che per motivi squisitamente giuridici.
Alcuni punti importanti sono stati eliminati (divieto della detenzione dei minori); tuttavia, nonostante
tali criticità si tratta di un documento importante. Merita, infatti, di essere sottolineato che in tale
documento gli Stati esplicitamente dichiarino: “Ci proponiamo di facilitare una sicura, ordinata e
regolare migrazione”.
Il reale successo di tale strumento dipenderà tuttavia dalla concreta volontà degli Stati di passare dalle
parole ai fatti.
12. Il Decreto Immigrazione e Sicurezza: luci e ombre per il nuovo sistema di accoglienza
e integrazione
Il 21 ottobre 2020 viene pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il D.L. n. 130 (Decreto Immigrazione)15.
Tale Decreto introduce sostanziali modifiche alla previgente disciplina in tema di immigrazione e
sicurezza, intervenendo in particolare sul Decreto Sicurezza (2018) e Decreto Sicurezza bis (2019).
Vediamo per punti tematici per vedere quali sono state le modifiche trattate.
15
Chiamato spesso “Decreto Lamorgese” (nome dell’allora Ministra degli Interni).
16
Si fa riferimento al Governo Conte I.
17
Con il Decreto Cutro, il permesso di soggiorno per protezione speciale non può essere convertito in un permesso di
soggiorno per motivi di lavoro.
18
Con il Decreto Cutro il permesso di soggiorno per calamità è limitato alle situazioni “contingenti ed eccezionali” nel
Paese di origine, e non più alla situazione generale di “grave calamità”. Inoltre non può essere convertito in un permesso
di soggiorno per motivi di lavoro.
19
Con il Decreto Cutro il permesso di soggiorno per cure mediche si può ottenere nel caso in cui vi siano “condizioni di
salute derivanti da patologie di particolare gravità, non adeguatamente curabili nel Paese di origine”, mentre prima
occorrevano “gravi condizioni psicofisiche o derivanti da gravi patologie”. Inoltre, anche questo, non può essere
convertito in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
destinatario del provvedimento. Con il D.L. 130, il comma 1.1. dell’Art. 19 viene modificato,
prevedendo un novero più ampio di fattispecie a cui si applica il divieto di respingimento, espulsione
o estradizione, ovvero:
nel caso in cui sussistano fondati motivi per ritenere che la persona a rischio di espulsione
corra il pericolo di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti qualora
ricorrano obblighi costituzionali o internazionali (precisando che nella valutazione della
sussistenza di tali rischi debba essere accertato se nello Stato di provenienza ricorrano
violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani);
nel caso in cui esistano fondati motivi per ritenere che l’allontanamento dal territorio
nazionale determini una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e
familiare, tenendo dunque in conto dei vincoli familiari della persona interessata, il suo
effettivo inserimento sociale in Italia. L’espulsione in questo caso si rende necessaria solo per
ragioni di sicurezza nazionale 20. Ciò riprende l’Art. 8 CEDU e Art. 10, comma 3
Costituzione.
In questi casi, si prevede il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale. In generale, ci
sono due modalità per ottenerlo:
1. nel caso in cui un migrante si vede respingere la domanda di protezione internazionale, se
ricorrono i requisiti sopra menzionati, la Commissione Territoriale competente deve
trasmettere gli atti dell’istanza al Questore, il quale rilascia al migrante un permesso di
soggiorno per protezione speciale;
2. nel caso in cui un migrante presenti domanda direttamente al Questore, che può rilasciare il
permesso di soggiorno per protezione speciale, previa acquisizione del parere della
Commissione Territoriale sull’esistenza dei requisiti21.
20
Con il Decreto Cutro questa intera casistica del rispetto della vita privata e familiare viene meno. Pertanto è stata
eliminata. Tuttavia, in ragione degli obblighi costituzionali e internazionali la protezione speciale dovrebbe essere
accordata ugualmente in quanto l’interesse alla vita privata e familiare è protetto sia dall’Art. 8 CEDU che dall’Art. 10,
comma 3 della Costituzione.
21
Con il Decreto Cutro questa seconda modalità è stata eliminata.
22
Con il Decreto Cutro viene introdotta la possibilità di trattenere richiedenti asilo per cui esiste il pericolo di fuga, ma
anche i richiedenti asilo durante la procedura accelerata di esame della domanda di asilo presentata alla frontiera.
23
Con il Decreto Cutro la proroga passa a 45 giorni.
Transito e sosta nel mare territoriale
Con l’Art. 1, comma 2 D.L. 130/2020 viene statuita, in presenza di ragioni di ordine e sicurezza
pubblica, la facoltà per il Ministro dell’Interno, e previa informazione al Presidente del Consiglio dei
Ministri, di limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di
naviglio militare o di navi in servizio governativo. Tali limitazioni e divieti non si applicano nel caso
in cui si stiano svolgendo operazioni di soccorso.
Vengono abrogate le disposizioni riguardanti le sanzioni per il comandante che non abbia rispettato
il divieto o la limitazione di transito nel mare territoriale e la misura della confisca della nave.
24
Con il Decreto Cutro è stata rimossa l’assistenza psicologica, la somministrazione di corsi di lingua italiana e i servizi
di orientamento legale e al territorio.
25
Con il Decreto Cutro sono nuovamente esclusi i richiedenti asilo dal Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI) e
dovranno essere accolti nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). È prevista una deroga solo per i richiedenti che
entrano in Italia in attuazione di protocolli sui corridoi umanitari e per le categorie vulnerabili.
26
Con il Decreto Cutro si amplia l’applicazione considerando anche i reati commessi nei centri di prima accoglienza, nei
centri temporanei di accoglienza oppure nelle strutture afferenti al sistema di accoglienza e integrazione.
Una valutazione di insieme
Il D.L. 130/2020 introduce numerosi elementi di novità in materia di immigrazione, anche positivi
come:
L’estensione delle fattispecie di permesso di soggiorno convertibile in permesso per motivi di
lavoro;
L’obbligo di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo nel luogo di residenza, che consente
ai soggetti interessati dal provvedimento di tornare ad usufruire di servizi dai quali restavano
finora esclusi;
Il divieto di rimpatrio per chi abbia ormai conseguito un livello di vita stabile in Italia, fatte
salve le eccezioni legate alla sicurezza nazionale;
La revisione del sistema di accoglienza, che prevede una serie complementare di servizi a
favore delle categorie di migranti interessati.
Più problematica è la disciplina di acquisizione della cittadinanza che non torna alla normativa
precedente dei Decreti Sicurezza; inoltre, manca tuttavia una visione complessiva del processo di
accoglienza che preveda una continuità di servizi per i soggetti che ne abbiano diritto dal momento
del primo ingresso sul territorio nazionale fino ad una effettiva integrazione nel Paese.