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RIASSUNTO DISPENSA - PARTE II

TUTELA INTERNAZIONALE DEI MIGRANTI


PROF.SSA ANNA LIGUORI
A.A. 2021/2022
INDICE DISPENSA PARTE 2

1) C. Favilli – “Il Trattato di Lisbona e la politica dell’Unione europea in materia di visti, asilo e
immigrazione”, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, XII, 2-2010
2) G. Morgese – “La riforma del sistema europeo comune di asilo e i suoi principali riflessi
nell’ordinamento italiano”, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, XV, 4-2013
3) A. Del Guercio – estratto da “Il principio di non-refoulement e altre forme di protezione dei
richiedenti asilo nell’ordinamento internazionale e in quello europeo”, Napoli, Editoriale Scientifica,
2016
4) F. L. Gatta – “La politica migratoria dell’Unione europea nel periodo 2014-2019: analisi e
bilancio della gestione della crisi dei rifugiati” in Ius in itinere, 1-2019
5) ASGI – “La protezione temporanea per le persone in fuga dall’Ucraina”, aggiornata al 7-3-2022
6) E. Roman – “L’Accordo UE-Turchia: le criticità di un accordo a tutti i costi”, in SIDI blog, marzo
2016
7) A. Liguori – “Violazioni conseguenti all’attuazione della Dichiarazione UE-Turchia e
giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sugli hotspots greci: la sentenza Kaak”, in
Diritti Umani e Diritto Internazionale, vol. 14, 2020 n.1
8) G. Pascale – “Esternalizzazione delle frontiere in chiave antimigratoria e responsabilità
internazionale dell’Italia e dell’UE per complicità nelle gross violations dei diritti umani commesse
in Libia”, in Studi sull’integrazione europea, XIII, 2018
9) A. Fazzini – “Recenti sviluppi in materia di giurisdizione extraterritoriale a margine delle
decisioni del Comitato ONU per i diritti umani, A.S. e al. c. Malta e A.S. e al. c. Italia: quale
prospettiva per la Corte di Strasburgo?, ADiM Blog, Analisi & Opinioni, luglio 2021
10) C. Favilli – “Il Patto europeo sulla migrazione e l’asilo: c’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico”,
in Questione Giustizia, ottobre 2020
11) A. Liguori – “Alcune riflessioni su diritti umani e Global Compact for Safe, Orderly and Regular
Migration”, in G. Cataldi, I Diritti umani a settant’anni dalla Dichiarazione universale delle Nazioni
Unite, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019
12) A. De Petris – “Il Decreto Immigrazione e Sicurezza: luci e ombre per il nuovo sistema di
accoglienza e integrazione”, in ADiM Blog, ottobre 2020
1. Il Trattato di Lisbona e la politica dell’Unione Europea in materia di visti, asilo e
immigrazione

Le modifiche ai Trattati istitutivi


L’Unione Europea è un soggetto di diritto internazionale qualificabile come organizzazione
internazionale governativa. Il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009, è un trattato
internazionale modificativo dei trattati internazionali che sono alla base dell’Unione Europea. È
l’ultimo di una serie di trattati adottati ad intervalli periodici.
Nel 1951 ci fu la nascita della Comunità economica del carbone e dell’acciaio (CECA), estinta poi
nel 2002.
Nel 1957 ci furono i Trattati di Roma con la nascita della Comunità economica europea (CEE) e
della Comunità europea dell’energia atomica (EURATOM).

Tra le modifiche più rilevanti al quadro giuridico designato negli anni ’50, abbiamo il Trattato
sull’Unione Europea, chiamato anche Trattato di Maastricht, firmato nel 1992 ed entrato in vigore
nel 1993. Con questo trattato la CEE perde la connotazione “economica” e si parla dunque di
Comunità Europea (CE). Questo trattato istituisce i 3 pilastri:
1. Competenze delle tre comunità europee (CE);
2. Politica estera e sicurezza comune (PESC);
3. Giustizia e affari interni (GAI)

Con il Trattato di Lisbona le modifiche sono numerose e riguardano sia la composizione delle
istituzioni sia le competenze dell’Unione Europea:
 Il Trattato sulla Comunità economica europea del 1957, poi più volte modificato, sarà
denominato Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE): consta di 358 articoli;
 Il Trattato sull’Unione Europea (TUE) viene modificato nei suoi contenuti: consta di 55
articoli contenenti le disposizioni comuni, i principi democratici, le regole relative alle
istituzioni, le disposizioni sulle cooperazioni rafforzate, le disposizioni sulla politica estera e
di sicurezza e difesa comuni, le disposizioni finali.
Questi due trattati hanno pari valore giuridico e costituiscono le basi del diritto del sistema politico
dell’Unione Europea.

Il “nuovo” spazio di libertà, sicurezza e giustizia


Con il Trattato di Lisbona, una delle modifiche più evidenti è la scomparsa della struttura a 3
pilastri creata con il Trattato di Maastricht, il quale aveva consentito di inserire la competenza in
materia di visti, asilo e immigrazione al 3° pilastro. Con il Trattato di Amsterdam (1997, ma entrato
in vigore nel 1999) le materie di asilo e immigrazione sono spostate al 1° pilastro.
Con il Trattato di Lisbona, dunque, la competenza è stata collocata sul Titolo V del TFUE, rubricato
Spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
In base all’Art. 67, par. 2 TFUE, l’Unione Europea sviluppa una politica comune in materia di
frontiere, visti, immigrazione e asilo. Ciò è stato un radicale cambiamento rispetto a quanto era
disposto in precedenza dall’Art. 63 del TCE dove l’Unione Europea poteva adottare solo norme
minime che lasciavano ampia discrezionalità agli Stati. Adesso, invece, con gli atti legislativi
dell’Unione Europea quali
 Decisioni;
 Direttive: direttamente applicabile solo se chiara, precisa e incondizionata;
 Regolamenti: direttamente applicabili e ricadono sul diritto interno.
si garantisce una maggiore armonizzazione vincolando gli Stati in tutti i loro elementi.
Tuttavia, l’Art. 70 TFUE evidenzia una riserva di competenza in materia di mantenimento
dell’ordine pubblico e di salvaguardia della sicurezza interna che autorizza gli Stati ad adottare atti
anche laddove ci siano normative dell’Unione Europea, derogando queste ultime, ferme restando che
le nozioni di ordine pubblico e di sicurezza interna devono essere intese come nozioni di diritto
dell’Unione Europea.

Sempre l’Art. 67, par. 2 TFUE e Art. 80 TFUE qualificano la politica come fondata sulla solidarietà
tra gli Stati membri, nell’accezione di ripartire tra tutti gli Stati membri gli oneri della gestione delle
politiche comuni in questo settore per non sovraccaricare determinati Stati.

Riguardo gli atti legislativi, il potere di iniziativa legislativa è di competenza della Commissione
Europea1, però per le proposte di cooperazione di polizia o cooperazione giudiziaria in materia
penale, il potere di iniziativa legislativa è attribuito anche ad un quarto degli Stati membri. Gli atti
sono poi adottati sulla base della procedura legislativa ordinaria, ovvero in base alla codecisione dove
il Parlamento Europeo2 è codecisore ed il Consiglio dell’Unione Europea3 delibera a maggioranza
qualificata.

Natura ed esercizio della competenza dell’Unione in materia di visti, asilo e immigrazione


La competenza in materia di visti, asilo e immigrazione è di natura concorrente: la titolarità è sia
degli Stati sia dell’Unione Europea (Art. 4, par. 2, lett. j) TFUE). Gli Stati possono legiferare
liberamente fino a quando l’Unione Europea non sia intervenuta.
L’esercizio delle competenze di natura concorrente è limitato dai principi di sussidiarietà e
proporzionalità:
 Principio di sussidiarietà: per le sue competenze non esclusive, l’Unione Europea interviene
adottando un atto solo se l’obiettivo perseguito non sia realizzabile autonomamente dagli Stati
e se l’Unione Europea sia in grado di realizzarlo in modo migliore;

1
Organo promotore del processo legislativo. È formata da delegati, uno per ogni Stato dell’Unione Europea, indipendenti
rispetto ai propri governi.
2
Organo legislativo dell’Unione Europea, formato da 705 deputati direttamente eletti dai cittadini dell’Unione Europea.
3
Organo legislativo dell’Unione Europea, rappresentato dai ministri dei 27 Paesi dell’Unione Europea che si presentano
a seconda della materia oggetto di trattazione.
 Principio di proporzionalità: impone che il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione
Europea non vadano mai al di là di quanto necessario per conseguire l’obiettivo.
La Commissione Europea accompagna gran parte delle proposte con valutazioni di impatto normativo
con riguardo sull’effettiva necessità della misura alla luce dei principi di sussidiarietà e
proporzionalità. Sussidiarietà che può essere esaminata sia dai Parlamenti nazionali che poi dalla
Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE).

La conferma dell’applicazione differenziata a Regno Unito, Irlanda e Danimarca


Il Trattato di Lisbona conferma l’applicazione differenziata delle politiche a Regno Unito, Irlanda e
Danimarca le cui posizioni sono regolate da appositi Protocolli allegati ai Trattati.

Le specifiche basi giuridiche


Gli Artt. 77-79 TFUE illustrano nel dettaglio la competenza dell’Unione Europea articolata in 4
settori:
1. Frontiere;
2. Visti;
3. Asilo;
4. Immigrazione.

Frontiere e visti
In relazione alle frontiere, l’Art. 77, par. 1 TFUE afferma che l’Unione Europea sviluppa una
politica volta a eliminare i controlli alle frontiere interne e a garantire i controlli alle frontiere esterne.
Per i controlli alle frontiere si avvale dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera -
Frontex.
Tutto ciò che concerne la gestione della politica delle frontiere e delle guardie di frontiera rimane di
competenza degli Stati membri che agiscono nell’ambito del quadro normativo dell’Unione Europea.

La politica dei visti è disciplinata dall’Art. 77, par. 2 TFUE.

Asilo
Nell’Art. 78 TFUE, la politica di asilo è qualificata come comune e sono richiamati come limiti
vincolanti:
 Il principio di non respingimento;
 La Convenzione di Ginevra del 1951, il Protocollo del 1967 e altri Trattati pertinenti.
È codificato il concetto di protezione internazionale, articolato nelle 3 componenti:
1. Asilo europeo;
2. Protezione sussidiaria;
3. Protezione temporanea

L’Art 78, par. 2 TFUE afferma che l’Unione Europea include queste come misure per un sistema
comune di asilo:
a) Status uniforme in materia di asilo valido in tutta l’Unione Europea;
b) Status uniforme in materia di protezione sussidiaria per chi non beneficia dell’asilo europeo
ma necessita di protezione internazionale;
c) Protezione temporanea degli sfollati in caso di afflusso massiccio;
d) Procedure comuni per l’ottenimento e la perdita della protezione internazionale;
e) Criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una
domanda di asilo o di protezione sussidiaria;
f) Norme sulle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo o protezione sussidiaria;
g) Forme di partenariato e cooperazione con i Paesi terzi per gestire i flussi dei richiedenti
protezione internazionale.

Immigrazione e integrazione
L’Art. 79 TFUE sottolinea che l’Unione Europea sviluppa una politica comune dell’immigrazione
intesa ad assicurare, in ogni fase, la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei
cittadini dei Paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la prevenzione e il contrasto
dell’immigrazione illegale e della tratta.
L’Unione Europea può adottare, dunque, misure relativamente ai seguenti settori:
 Condizioni di ingresso e soggiorno e norme sul rilascio da parte degli Stati membri di visti e
di titoli di soggiorno di lunga durata;
 Definizione dei diritti dei cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato
membro, comprese le condizioni che disciplinano la libertà di circolazione e di soggiorno
negli altri Stati membri;
 Immigrazione clandestina e soggiorno irregolare, compresi l’allontanamento e il rimpatrio;
 Lotta contro la tratta degli esseri umani.
Rimane tuttavia un diritto degli Stati determinare il numero di ingressi di lavoratori provenienti da
Paesi terzi.
Un altro ambito nel quale gli Stati conservano molta della loro autonomia è quello delle politiche di
integrazione.

Relazioni esterne
L’Art. 79, par. 3 TFUE attribuisce all’Unione Europea la competenza a concludere con i Paesi terzi
accordi ai fini della riammissione di cittadini nei Paesi terzi che non soddisfano le condizioni per
l’ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio di uno degli Stati membri.
In materia di asilo, l’Art. 78, par. 2 lett. g) TFUE include nel Sistema europeo di asilo comune il
partenariato e la cooperazione con i Paesi terzi per gestire i flussi di richiedenti asilo o protezione
sussidiaria o temporanea.
La salvaguardia della competenza dei singoli Stati membri riguardo la conclusione degli accordi
internazionali è assicurata nel Protocollo n. 23 sulle relazioni esterne degli Stati membri in materia
di attraversamento delle frontiere esterne, in base al quale le misure che l’Unione Europea può
adottare, in materia di controlli ai quali sono sottoposte le persone che attraversano le frontiere
esterne, non pregiudicano la competenza degli Stati membri a concludere accordi con Paesi terzi a
condizione che rispettino il diritto dell’Unione Europea.

Cittadinanza
L’Unione Europea non acquisisce alcuna competenza in materia di attribuzione della cittadinanza ai
cittadini di Paesi terzi. È il possesso della cittadinanza di uno Stato membro, veicolo per
l’acquisizione della cittadinanza dell’Unione Europea.

I diritti fondamentali
In base all’Art. 67, par. 1 TFUE, “l’Unione Europea realizza uno spazio di libertà, sicurezza e
giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse
tradizioni giuridiche degli Stati membri”.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea - Carta di Nizza (2000) è vincolante per
l’Unione Europea ai sensi dell’Art. 6 TUE, elevandola a fonte di rango primario. I diritti
fondamentali continuano anche ad essere considerati parti dei principi generali, potendo dunque
essere ancora elaborati in via giurisprudenziale dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Il Trattato di Lisbona apporta delle modifiche, aggiungendo 2 paragrafi all’Art. 6 TUE:
1. Relativo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza): la Carta di
Nizza contiene articoli mutuati dalla CEDU, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, e dei diritti innovativi (in particolare sociali – come il diritto di asilo)
2. Relativo all’adesione alla CEDU: l’Art. 6, par. 2 TFUE si limita ad attribuire la competenza
all’Unione Europea per aderire alla CEDU. Il Protocollo n. 8 si limita a prevedere che
l’adesione consenta l’adeguata partecipazione dell’Unione Europea agli organi di controllo
della CEDU, che i ricorsi siano correttamente presentati contro gli Stati o contro l’Unione
Europea. Si può prevedere che vi sarà la possibilità di ricorrere alla Corte EDU per far valere
una violazione dei diritti sanciti nella CEDU a causa di atti adottati dall’Unione Europea.
L’adesione consentirà dunque di avere uno strumento giurisdizionale in più di fronte agli atti
dell’Unione Europea o agli atti nazionali esecutivi di atti dell’Unione Europea.

La competenza della Corte di giustizia


Il sistema giurisdizionale europeo è costituito da:
 Corte di Giustizia;
 Tribunale
Per quanto riguarda visti, asilo e immigrazione, l’ampliamento di competenza della Corte riguarda il
rinvio pregiudiziale4: la Corte può dunque conoscere dei ricorsi in via pregiudiziale presentati da
qualsiasi giurisdizione, sia di prima, sia di seconda, sia di ultima istanza, sulla base dell’Art. 267
TFUE. Nella prima fase del Trattato di Amsterdam, l’accesso al rinvio pregiudiziale era precluso ai
giudici di prima istanza, ma solo coloro di ultima istanza potevano farlo.
Qualsiasi giurisdizione nazionale che si troverà ad applicare una norma dell’Unione Europea o una
norma nazionale di attuazione di una norma europea o, ancora, una norma nazionale che comunque
si situi nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione Europea, potrà rivolgersi alla Corte di
Giustizia sollevando un rinvio pregiudiziale.
 Il ricorso per annullamento (Art. 263, par. 1 TFUE) prevede la possibilità di impugnare gli
atti anche del Consiglio Europeo che siano produttivi di effetti giuridici nei confronti di terzi;
 Il ricordo per infrazione (Art. 260, par 3 TFUE) dispone che quando il ricorso sia avviato per
mancata comunicazione da parte di uno Stato dell’attuazione di una direttiva, la Commissione
Europea può richiedere alla Corte di Giustizia la condanna dello Stato al pagamento di una
sanzione pecuniaria.

4
Un giudice nazionale può rivolgersi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per sollevare una questione
interpretativa su un atto dell’Unione Europea. Se si tratta di un giudice nazionale di ultima istanza, la facoltà di rinvio
pregiudiziale diviene un obbligo, per non far passare un’interpretazione erronea.
2. La riforma del sistema europeo comune di asilo e i suoi principali riflessi
nell’ordinamento italiano

Introduzione
Dopo una prima fase nella quale sono stati adottati dei regolamenti e direttive per il sistema di asilo,
è nella seconda fase di riforma del Sistema Europeo Comune di Asilo (SECA), a seguito dell’entrata
in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009, che l’Art. 67 TFUE sottolinea che la realizzazione dello
spazio di libertà, sicurezza e giustizia deve avvenire sviluppando tra l’altro una politica comune in
materia di asilo (non più norme minime): vengono dunque adottati nuovi atti normativi, di cui quelli
della prima fase costituiscono atti di rifusione5.
La seconda fase del processo di riforma ha visto l’approvazione della:
 Direttiva 2011/95/UE (nuova “qualifiche”);
 Regolamento 603/2013 (nuovo “Eurodac”);
 Regolamento 604/2013 (“Dublino III”)
 Direttiva 2013/32/UE (nuova “procedure”);
 Direttiva 2013/33/UE (nuova “accoglienza”).

I Regolamenti “Dublino III” e nuovo “Eurodac”


Il Regolamento Dublino III (atto di rifusione del Regolamento Dublino II) stabilisce i criteri e i
meccanismi di determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di protezione
presentata in uno degli Stati partecipanti al sistema da un cittadino di Paese terzo o un apolide.
Il nuovo Regolamento si estende non solo ai richiedenti rifugio ma anche ai richiedenti protezione
sussidiaria. Nel rispetto del sistema ginevrino (specie del principio di non-refoulement) e della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, gli Stati si dichiarano come “sicuri” ai fini della
presentazione delle domande in ciascuno di essi.

In mancanza di situazioni concernenti minori e ricongiunzioni familiari, per il Regolamento Dublino


III la regola generale è quella della competenza dello Stato “di primo ingresso” regolare o irregolare,
salvo l’esercizio di specifiche clausole.
 Minori e ricongiunzioni familiari: in deroga alla regola generale, secondo l’Art. 8 è anzitutto
competente lo Stato in cui si trova legalmente un familiare del minore non accompagnato,
purché nell’interesse superiore del minore. Poi, l’Art. 9 afferma che è competente lo Stato
dove si trova un familiare del richiedente che abbia già ottenuto la protezione internazionale,
purché sia fatta richiesta scritta della persona interessata. L’Art. 10 afferma che la competenza
ricade sullo Stato nel quale è presente un familiare del richiedente che abbia precedentemente
richiesto la protezione internazionale, ma che non abbia ancora ricevuto risposta nel merito,
sempre previa richiesta scritta della persona interessata.
 Clausole: vi è ad esempio la clausola umanitaria per la quale ogni Stato è tenuto a esaminare
una domanda per ragioni umanitarie fondate in particolare su motivi familiari o culturali; vi è

5
La rifusione consiste nell’adozione di un nuovo atto normativo, che integra in un unico testo le modificazioni sostanziali
introdotte e le disposizioni non cambiate rispetto al precedente.
anche la clausola di sovranità, per cui ogni Stato può esaminare una domanda anche se non
competente.

Tra le novità del Regolamento Dublino III c’è l’Art 3, par. 2, comma 2 – clausola greca – per il
quale non si può trasferire un richiedente verso lo Stato competente quando si hanno “fondati motivi
di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di
accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro, che implichino il rischio di un trattamento inumano
o degradante ai sensi dell’Art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”.
Disposizione innovativa è anche quella dell’Art. 33 che introduce un sistema di allarme rapido che
consta di una “fase preventiva” e una “fase di azione”, ciò nel caso in cui ci siano rischi di pressione
oppure problemi nel funzionamento, riguardo il sistema di asilo di uno Stato. Altre novità del
Regolamento Dublino III riguardano:
 le nozioni di “minore non accompagnato” e di “parenti” (Art. 2, lett. g) e h));
 l’obbligo per gli Stati di fornire ai richiedenti informazioni sul procedimento (Art. 4);
 garantire ai richiedenti il colloquio personale (Art. 5) ed altre ancora.

Il Regolamento Eurodac completa il sistema Dublino: si tratta della raccolta e confronto delle
impronte digitali, in particolare dei richiedenti asilo, al fine di individuare lo Stato competente al loro
esame e scongiurare eventuali domande plurime. Una delle novità rilevanti riguarda il fatto che le
autorità nazionali e l’Europol avranno la possibilità di consultare la banca dati anche per finalità di
prevenzione, accertamento e indagine di reati di terrorismo o di altri reati gravi.

La nuova Direttiva accoglienza


La Direttiva 2013/33/UE reca le norme sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale
(asilo e protezione sussidiaria). Le sue norme non sono più minime, l’obiettivo è ridurre le difformità
riscontrate negli Stati membri e di migliorare i diritti dei richiedenti.
Gli Stati devono garantire:
 ai richiedenti e ai loro familiari: informazioni su benefici e obblighi dell’accoglienza entro
15 giorni dalla domanda (Art. 5);
 il diritto di circolazione sul territorio dello Stato richiesto (Art. 7);
 accesso al mercato del lavoro con termine di 9 mesi (Art. 15);
 condizioni materiali di accoglienza (Artt. 17 e 18);
 assistenza sanitaria (Art. 19);
 assistenza legale (Art. 26).

Una delle novità più rilevanti della Direttiva 2013/33/UE riguarda il trattenimento dei richiedenti
(Artt. 8, 9, 10 e 11):
 si afferma l’impossibilità di trattenere una persona per il solo fatto di essere richiedente
protezione; solo in base ad una valutazione individuale, per determinati motivi (verificare
l’identità o la cittadinanza; quando la persona deve essere rimpatriata; per motivi di
sicurezza nazionale e ordine pubblico) e per mancanza di misure alternative, viene disposto
un trattenimento (Art. 8);
 sono specificate inoltre le garanzie minime per i trattenuti (obbligo di trattenere i richiedenti
per il periodo di tempo più breve possibile e solo finché ne perdurano i motivi; di svolgere gli
adempimenti amministrativi senza ritardi; informare il richiedente – per iscritto o in una
lingua a lui comprensibile – delle ragioni del trattenimento, delle procedure di impugnazione
previste dal diritto nazionale e della possibilità di accesso gratuito all’assistenza legale) (Art.
9);
 sono specificate le condizioni del trattenimento (Art. 10);
 sono specificate le disposizioni con riguardo alle persone vulnerabili e/o con esigenze di
accoglienza particolari (Art. 11).

La nuova Direttiva qualifiche


La Direttiva 2011/95/UE, detta “qualifiche” – recepita in Italia con il D. Lgs. 18/2014 – è anch’essa
un atto di rifusione poiché modifica la precedente Direttiva 2004/83/UE, quest’ultima attuata ancora
in Italia con il D. Lgs. 251/2007.
La nuova Direttiva qualifiche stabilisce norme (non più “minime”)
 sull’attribuzione della qualifica di beneficiario di protezione internazionale;
 su uno status per i rifugiati e su uno status per i beneficiari di protezione sussidiaria;
 sul contenuto della protezione riconosciuta.
Tra le cose rilevanti rispetto alla vecchia Direttiva vi è l’obbligo di prendere in considerazione
l’orientamento sessuale e l’identità di genere del richiedente ai fini della sua appartenenza ad un
determinato gruppo sociale (Art. 10, par. 1, lett. d)). Si ribadisce la possibilità per gli Stati di disporre
che il richiedente produca ogni elemento necessario a motivare la sua domanda nonché l’obbligo
della valutazione su base individuale del fondato motivo di persecuzione (per i richiedenti asilo
politico) e di rischio effettivo di danno grave (per i richiedenti protezione sussidiaria) alla luce di
elementi soggettivi e oggettivi (Art. 4); viene chiarito l’ambito dei soggetti che offrono protezione
(Art. 7) sottolineando che partiti o organizzazioni (anche internazionali) che controllano lo Stato o
una parte consistente del suo territorio possono offrire protezione a condizione che abbiano la volontà
e la capacità di offrirla in maniera effettiva e non temporanea.
Le maggiori novità si registrano tuttavia sul ravvicinamento dei due status (asilo politico e protezione
sussidiaria). Rispetto alla Direttiva del 2004 i due status sono equiparati con riguardo all’accesso
all’occupazione (Art. 26), all’assistenza sanitaria (Art. 30) e agli strumenti di integrazione (Art. 34).
Resta il regime differenziato tra gli status in merito al rilascio dei permessi di soggiorno (Art. 24):
 per lo status di asilo politico il permesso è di almeno 3 anni, rinnovabile;
 per lo status di protezione sussidiaria il permesso è di almeno 1 anno, rinnovabile per 2 anni.
Tuttavia, già il D. Lgs. 251/2007 elevava i permessi di soggiorno per asilo politico a 5 anni e per la
protezione sussidiaria a 3 anni. Con il D. Lgs. 18/2014 anche la protezione sussidiaria è elevata a 5
anni. È l’Art. 3 della Direttiva a consentire di introdurre o mantenere in vigore disposizioni nazionali
più favorevoli.
La nuova Direttiva procedure
La Direttiva 2013/32/UE, detta “procedure” contiene le procedure comuni ai fini del riconoscimento
e della revoca dello status di protezione internazionale. Essa si pone lo scopo di migliorare
l’armonizzazione delle procedure.
Sugli Stati grava l’obbligo di individuare le autorità competenti per l’esame delle domande6. Si
dispone l’obbligo di garantire (ma solo se “vi siano indicazioni” in tal senso) ai cittadini di Paesi terzi
trattenuti in appositi Centri oppure ai valichi di frontiera, informazioni sulla possibilità di chiedere
protezione nonché di permettere l’accesso a tali luoghi a organizzazioni o persone che prestano
consulenza in materia di asilo (Art. 8).
Le domande non possono essere respinte o non esaminate solo in base alla loro tardiva presentazione,
dovendo accertare prima i requisiti del rifugio e poi, in caso contrario, quelli della protezione
sussidiaria (Art. 10).
Le decisioni devono essere comunicate per iscritto, e quella di diniego è necessario che sia corredata
delle motivazioni di fatto e di diritto, oltre all’indicazione dei mezzi di impugnazione (Art. 11).
Quanto al colloquio personale, i richiedenti possono sostenerlo prima che le autorità assumano la
decisione (la mancanza del colloquio non osta alla decisione finale) (Art. 14).
2 novità riguardano:
1. le visite mediche per rilevare i segni di persecuzioni o danni gravi subiti (Art. 18);
2. l’obbligo di fornire gratuitamente ai richiedenti, su loro richiesta e a determinate condizioni,
alcune informazioni in merito alle procedure di primo grado (Art. 19).
Si ribadisce il divieto di trattenere una persona per il solo fatto di essere un richiedente (Art. 26).

Altre novità significative riguardano:


 l’introduzione di tempi stringenti per la conclusione della procedura (entro 6 mesi dalla
presentazione della domanda7, salvo altri 9 mesi in ragione di alcune circostanze come
questioni complesse in fatto e/o in diritto; afflusso massiccio di richiedenti; ulteriori 3 mesi
in casi eccezionali debitamente motivati;
 oltre a quella normale, vengono ben distinte le due ulteriori procedure: la procedura in via
prioritaria riguarda le domande verosimilmente fondate o che siano state presentate da un
richiedente vulnerabile ai sensi dell’Art. 22 e che vengono esaminate prima delle altre; la
procedura accelerata riguarda le domande per cui il richiedente solleva questioni non
pertinenti alla domanda di protezione; se proviene da un Paese di origine sicuro; se presenta
informazioni o documenti falsi; se rilascia dichiarazioni palesemente incoerenti o
contraddittorie; se rappresenta un pericolo per l’ordine pubblico o per la sicurezza dello Stato;
in questi, ed anche altri casi, l’adozione di tempi più brevi rispetto a quella normale.
Tra le novità in tema di impugnazione, ricordiamo che il diritto ad un ricorso effettivo (Art. 46)
implica l’obbligo di introdurre termini che siano ragionevoli e che non rendano impossibile o
eccessivamente difficile l’accesso al ricorso da parte dei richiedenti. C’è anche l’introduzione

6
In Italia sono state individuate come autorità le Commissioni Territoriali.
7
Qualora la domanda sia oggetto della procedura stabilita dal Regolamento Dublino III il termine dei 6 mesi inizia a
decorrere dal momento in cui si è determinato lo Stato membro competente per l’esame della domanda.
dell’effetto sospensivo dell’impugnazione, essendoci l’obbligo a carico degli Stati di assicurare la
permanenza del ricorrente sul territorio nazionale in attesa dell’esito del ricorso, fatti salvi alcuni casi
in deroga.
3. Il principio di non-refoulement e altre forme di protezione dei richiedenti asilo
nell’ordinamento internazionale e in quello europeo

Le forme di protezione riconosciute nell’ordinamento dell’Unione Europea


L’ordinamento dell’Unione Europea contempla 3 forme di protezione internazionale:
1. Status di rifugiato (asilo politico) previsto dall’Art. 78, par. 2, lett. a) TFUE e disciplinato ai
sensi della Direttiva 2011/95/UE: Lo status di rifugiato (Art. 2, lett. d) della Direttiva) può
essere riconosciuto al cittadino di un Paese terzo che, per il timore fondato di essere
perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad
un determinato gruppo sociale, si trova al di fuori dal Paese di cui ha la cittadinanza e non
può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese, oppure
apolide che si trova fuori dal Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le
stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno; per
riconoscere lo status non devono applicarsi le clausole di esclusione di cui all’Art. 12, ovvero
se ci sono fondati motivi per ritenere che:
a) abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro
l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;
b) abbia commesso al di fuori dal Paese di accoglienza un reato grave di diritto comune
prima di essere ammesso come rifugiato, oppure se abbia commesso atti
particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico;
c) si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite.

2. Protezione sussidiaria prevista dall’Art. 78, par. 2, lett. b) TFUE e disciplinata ai sensi della
Direttiva 2011/95/UE: la protezione sussidiaria (Art. 2, lett. f) della Direttiva) è
riconosciuta al cittadino di un Paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere
riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se
tornasse nel Paese di origine o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese dove aveva la
dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito
dall’Art. 15 della Direttiva e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi
della protezione di detto Paese.
Secondo l’Art. 15 della Direttiva sono gravi danni:
a) la condanna o l’esecuzione della pena di morte;
b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del
richiedente nel suo Paese di origine;
c) la minaccia grave e individuale alla persona derivante dalla violenza indiscriminata
in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Per riconoscere lo status, però, non devono applicarsi le clausole di esclusione di cui all’Art.
17, ovvero se ci sono fondati motivi per ritenere che:
a) abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro
l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;
b) abbia commesso un reato grave;
c) si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite;
d) rappresenti un pericolo per la comunità o la sicurezza dello Stato in cui si trova.
3. Protezione temporanea prevista dall’Art. 78, par. 2, lett. c) TFUE e disciplinata ai sensi della
Direttiva 2001/55/CE: è una forma di protezione collettiva, attivabile in caso di esodi di
massa.
Ci sono anche altre Direttive importanti, che riguardano il tema della tratta degli esseri umani, come:
 Direttiva 2004/81/CE: prevede il rilascio di un permesso di soggiorno alle vittime della tratta
degli esseri umani che cooperino con le autorità nazionali;
 Direttiva 2011/36/UE (Direttiva anti-tratta): destinata alla prevenzione e repressione della
tratta, nonché alla protezione delle vittime.
Nel TFUE la tratta di esseri umani è contemplata ai sensi dell’Art. 79 dedicato alla politica
dell’immigrazione e non all’Art. 78 dedicato alla politica di asilo.
Ricordiamo che la tratta di esseri umani è oggetto di un espresso divieto sancito all’Art. 5, par. 3,
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

La protezione internazionale: la direttiva qualifiche


La Direttiva 2011/95/UE rappresenta il primo strumento sovranazionale dotato di portata giuridica
obbligatoria ad aver regolamentato un regime di protezione complementare. La Direttiva ha ampliato
il novero di coloro che possono ottenere una forma di protezione non circoscritta al divieto di
respingimento; tuttavia vi sono limitazioni a causa delle clausole di esclusione.
L’Art. 3 della Direttiva consente di introdurre o mantenere in vigore disposizioni nazionali più
favorevoli in ordine alla determinazione delle persone che possono beneficiare dello status di rifugiato
o della protezione sussidiaria, nonché in ordine alla definizione degli elementi sostanziali della
protezione internazionale, purché compatibili con le disposizioni della stessa Direttiva. L’atto
normativo non preclude, inoltre, la possibilità per gli Stati membri di garantire al richiedente asilo
una forma di protezione nazionale (ad esempio in Italia con la protezione speciale).

L’esame dei fatti e delle circostanze


L’esame dei fatti e delle circostanze (Art. 4) ha luogo in 2 fasi distinte:
1. Riguarda l’accertamento delle circostanze di fatto che possono costituire elementi di prova a
sostegno della domanda;
2. Riguarda la valutazione giuridica di tali elementi, che consiste nel decidere se siano soddisfatti
i requisiti per il riconoscimento di una forma di protezione internazionale.

Secondo l’Art. 4, par. 1, gli Stati possono stabilire che il richiedente sia tenuto a presentare quanto
prima tutti gli elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale.
 Quanto prima: tale previsione è stata interpretata in modo vario dagli Stati membri: alcuni
hanno fissato un termine entro il quale è possibile presentare la domanda; altri prevedono che
la richiesta debba essere inoltrata subito dopo l’ingresso nel territorio.
 Elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale: sono indicati
nell’Art. 4, par. 2: accanto alle dichiarazioni del ricorrente, si fa riferimento alla
documentazione relativa alla sua età, estrazione, identità, cittadinanza, Paesi e luoghi in cui
ha soggiornato in precedenza, documenti di viaggio, motivi della domanda di protezione
internazionale.
L’esame della domanda deve essere effettuato su base individuale (Art. 4, par. 3) e deve prendere in
considerazione sia la situazione particolare del richiedente (età, estrazione, sesso, l’aver subito
persecuzione o danni gravi in passato – che rappresenta un serio indizio di fondatezza del timore
lamentato), sia i fatti che riguardano il Paese di origine al momento dell’adozione della decisione in
merito alla domanda.

Le garanzie procedurali relative all’esame della domanda di protezione internazionale


contenute nella Direttiva 2013/32/UE
La Direttiva procedure 2013/32/UE stabilisce che gli Stati membri sono tenuti a designare l’autorità
competente all’esame.
La Direttiva fissa dei termini precisi per lo svolgimento delle procedure di asilo: la registrazione della
domanda deve essere effettuata entro 3 giorni lavorativi; che possono diventare 6 se viene ricevuta
da organi diversi da quello competente; in caso di afflusso massiccio di persone, si può arrivare a 10
giorni lavorativi.
Il richiedente deve avere un’effettiva possibilità di inoltrare la domanda quanto prima. L’Art. 8
segnala che l’obbligo di informazione e di consulenza e assistenza vige anche ai valichi di frontiera,
comprese le zone di transito, e nei centri di trattenimento. Limitazioni possono essere previste solo
per motivi di sicurezza, di ordine pubblico e di gestione dei valichi interessati.
Una volta presentata la domanda di protezione internazionale, la persona ha diritto di rimanere nel
territorio dello Stato fino alla conclusione della procedura di primo grado (Art. 9, par. 1) salvo che:
 La domanda sia reiterata ai sensi dell’Art. 41;
 Vi sia una richiesta di estradizione per mandato di arresto europeo;
 Vi sia una richiesta di consegna ad uno Stato terzo o presso un giudice o un tribunale penale
internazionale.
Ciò tuttavia nel pieno rispetto del principio di non-refoulement.
Ai sensi dell’Art. 46, par. 5, le autorità statali hanno l’obbligo di autorizzare la permanenza del
richiedente nel territorio fino alla scadenza del termine entro il quale lo stesso può esercitare il diritto
a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato, in attesa dell’esito del ricorso. La
Direttiva prevede che, in caso di ricorso avverso la decisione, il richiedente possa non essere
autorizzato a rimanere nel territorio qualora la domanda sia:
 Manifestamente infondata o inammissibile;
oppure
 Se il richiedente proviene da un Paese terzo europeo sicuro, ovvero da un Paese che, ai sensi
dell’Art. 39, abbia:
a) Ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951;
b) Ratificato la CEDU;
c) Abbia una procedura nazionale d’asilo.
Qualora sussistano dette circostanze è comunque il giudice a decidere sul diritto di rimanere nel
territorio.
La Direttiva impone agli Stati membri di istituire una procedura unica per l’esame delle domande,
volta a verificare innanzitutto se al richiedente possa essere riconosciuta la qualifica di rifugiato e, in
subordine, se sussistono le condizioni per la protezione sussidiaria.
Nel corso delle procedure di impugnazione devono essere concesse, su richiesta, assistenza e
rappresentanza legale gratuite; se si tratta delle procedure di primo grado viene lasciata discrezionalità
agli Stati (Art. 20). Garanzie procedurali particolari devono essere accordate alle vittime di tortura,
stupri ed altre gravi forme di violenza psicologica, fisica e sessuale (Art. 24) e ai minori non
accompagnati, che devono essere assistiti da un rappresentante da nominarsi non appena possibile
(Art. 25). Tuttavia, non è necessario procedere con la nomina del rappresentante se il minore diverrà
maggiorenne precedentemente alla decisione di primo grado (Art. 25, par. 2).

La domanda viene dichiarata inammissibile (Art. 33, par. 2) quando:


a) Un altro Stato membro ha concesso la protezione internazionale;
b) Un Paese che non è uno Stato membro è considerato Paese di primo asilo8 del richiedente;
c) Un Paese che non è uno Stato membro è considerato Paese terzo sicuro per il richiedente;
d) La domanda sia stata reiterata;
e) La domanda sia stata presentata da una persona a carico del richiedente.

Lo status di rifugiato
Oltre alla Direttiva 2011/95/UE a venire in rilievo per definire lo status di rifugiato ci sono anche i
Considerando della Direttiva. Il Considerando 4 ribadisce che “La Convenzione di Ginevra e il
relativo Protocollo costituiscono la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa
alla protezione dei rifugiati”; il Considerando 22 invita gli Stati membri a tenere in considerazione
le “preziose” indicazioni dell’UNHCR.
L’Art. 2, lett. e) pone l’accento sul ruolo delle autorità statali nel riconoscimento dello status di
rifugiato; tuttavia, a tal riguardo va rammentato che detto riconoscimento costituisce un atto
ricognitivo – e non costitutivo – di una condizione già sussistente, come sottolineato dal
Considerando 21.

La nozione di persecuzione
Come la Convenzione di Ginevra, anche la Direttiva qualifiche non offre una definizione di
“persecuzione”. Nel regime internazionale tale termine è stato interpretato nel senso di minaccia alla
vita o alla libertà della persona o, più in generale, di grave violazione dei diritti umani.
L’Art. 9, par. 1, della Direttiva offre alcune indicazioni. Esso afferma che costituiscono persecuzione
gli atti che:
a) per loro natura o frequenza, sono sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave
dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa, a

8
Con Paese di primo asilo si intende un Paese che abbia riconosciuto al richiedente lo status di rifugiato, oppure un Paese
che offra al richiedente una protezione sufficiente, tra cui il beneficio del principio di non-refoulement.
norma dell’Art. 15, paragrafo 2, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo e delle libertà fondamentali;

oppure

b) costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto
sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui al
punto di sopra)  (alcuni atti di persecuzione: atti di violenza fisica o psichica, compresa la
violenza sessuale; provvedimenti legislativi, amministrativi di polizia o giudiziari,
discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; azioni giudiziarie o
sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici
e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; azioni giudiziarie o sanzioni penali
in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe
comportare la commissione di crimini internazionali; atti specificamente diretti contro un
genere sessuale o contro l’infanzia).
Gli elementi che vengono in rilievo sono la violazione dei diritti umani e la soglia di intensità della
violazione, che deve raggiungere un determinato livello di gravità.

I motivi della persecuzione


Il timore fondato di persecuzione deve essere collegato alla razza, alla religione, alla nazionalità, alle
opinioni politiche, all’appartenenza ad un determinato gruppo sociale.
A differenza della Convenzione di Ginevra, la Direttiva qualifiche indica gli elementi ai quali fare
riferimento:
a) Con il termine “razza” si vuole dare considerazione al colore della pelle, alla discendenza o
all’appartenenza a un determinato gruppo etnico;
b) Il termine “religione” è definito in modo più ampio: convinzioni teiste, non teiste e ateiste,
partecipazione o meno ai riti di culto in privato o in pubblico, singolarmente o collettivamente,
e forme di comportamento fondate su un credo religioso;
c) Il termine “nazionalità” va oltre il significato di cittadinanza per ricomprendere
l’appartenenza a un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, comuni
origini geografiche o politiche;
d) Con “opinione politica” si fa riferimento alla professione di un’opinione, un pensiero o una
convinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori e alle loro politiche o metodi;
e) Con “appartenenza a un determinato gruppo sociale”, per la Direttiva un gruppo deve
rispettare 2 requisiti ritenuti complementari e non alternativi (l’UNHCR indicava invece che
dovessero essere alternativi):
1. I membri del gruppo devono condividere una caratteristica innata o una storia
comune che non può essere mutata, oppure una caratteristica o una fede che è così
fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere
costretta a rinunciarvi;
e
2. Il gruppo deve possedere un’identità distinta nel Paese di cui trattasi, perché vi è
percepito come diverso dalla società circostante.
L’Art. 10, par. 1, lett. d) include come gruppo sociale un gruppo fondato sulla caratteristica comune
dell’orientamento sessuale, tenendo conto dell’identità di genere.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia sull’interpretazione della nozione di “persecuzione”


La sentenza Y. e Z. del 2012 è quella con la quale il giudice della Corte di Giustizia dell’Unione
Europea ha fornito per la prima volta delle indicazioni in merito alla nozione di “atti persecutori” ai
sensi dell’Art. 9, par. 1, lettera a) della Direttiva qualifiche, ma nell’ambito dell’esercizio della
libertà di religione.
La pronuncia trae origine dal rinvio pregiudiziale del giudice tedesco. La vicenda vede coinvolti due
cittadini pakistani appartenenti alla comunità musulmana Ahmadiyya che motivavano la loro richiesta
di asilo in ragione dei maltrattamenti e delle violenze collegati al loro credo religioso. Ai sensi del
codice penale pakistano, infatti, i membri di detta comunità sono passibili di reclusione. La Corte di
Lussemburgo si è allineata al regime internazionale di protezione dei diritti umani, e in particolare
alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e ha statuito che “la libertà di religione costituisce un
diritto umano fondamentale”.
Seppure la libertà di credo non sia annoverata tra i diritti inderogabili di cui all’Art. 15 CEDU, può
costituire legittimamente la base per il riconoscimento dello status di rifugiato, almeno quando la
violazione di tale diritto sia grave. Resta, ad ogni modo, la difficoltà di definire quale sia la soglia di
gravità necessaria per poter ritenere sussistente un rischio reale di persecuzione. Tale valutazione
viene rimessa alle autorità statali.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia sull’interpretazione dell’appartenenza ad un


“determinato gruppo sociale”
Nel 2013 il giudice di Lussemburgo si è pronunciato in merito alla causa X, Y e Z, sulla base del
rinvio pregiudiziale del Raad van State belga.
C’erano stati i ricorsi di tre richiedenti asilo, provenienti dalla Sierra Leone, Uganda e Senegal, che
affermavano di essere stati oggetto di reazioni violente da parte delle loro famiglie, dei loro ambienti
sociali, e di atti di repressione da parte delle autorità statali dei Paesi d’origine, perché gay.
Sebbene il Ministero belga per l’immigrazione e l’asilo avesse accertato che le relazioni tra persone
dello stesso sesso sono punite severamente nei Paesi d’origine (pena detentiva e ergastolo), ai
ricorrenti era stato negato il permesso di soggiorno in quanto non avevano provato sufficientemente
i fatti e le circostanze invocate. I ricorrenti avevano dunque impugnato le decisioni di diniego e i casi
erano giunti all’attenzione del Raad van State, il quale aveva posto alla Corte di Lussemburgo i
seguenti quesiti:
1) Se le persone omosessuali costituiscono un determinato gruppo sociale ai sensi dell’Art. 10,
lett. d;
2) Qualora la risposta fosse affermativa, quali atti di persecuzione possono giustificare il
riconoscimento dello status di rifugiato e se si possa esigere dalle persone omosessuali di
mantenere un atteggiamento riservato al fine di evitare la persecuzione;
3) Se il mero fatto di qualificare come reato le relazioni tra persone dello stesso sesso e di
sanzionarle con la detenzione possa di per sé costituire persecuzione e giustificare il
riconoscimento dello status di rifugiato.
Rispetto al primo quesito, il giudice di Lussemburgo dà una risposta positiva, riconoscendo che
l’esistenza di una legislazione penale, come quella in vigore nei Paesi di origine dei ricorrenti, che
sanzioni le relazioni tra persone dello stesso sesso, consente di affermare che tali persone
costituiscono un determinato gruppo sociale. Tuttavia, nella sentenza si legge che “un gruppo è
considerato un determinato gruppo sociale qualora siano soddisfatte le due condizioni cumulative”.
Ciò si pone in contrasto con la definizione fornita dall’UNHCR, cui spetta di fornire l’interpretazione
autentica della Convenzione di Ginevra. Ad ogni modo, ad avviso della Corte, nel caso di specie
entrambe le condizioni sono soddisfatte.
Rispetto al terzo quesito, la Corte giunge alla conclusione che “la mera esistenza di una legislazione
che qualifica come reato gli atti omosessuali non può essere ritenuta un atto che incide sul
richiedente in maniera così rilevante da raggiungere il livello di gravità necessario per ritenere che
detta qualificazione penale costituisca persecuzione”. Ad avviso della Corte, può essere invece
considerata persecuzione, la pena detentiva comminata da una disposizione legislativa che sanziona
le relazioni tra persone dello stesso sesso “purché essa trovi effettivamente applicazione nel Paese
di origine del richiedente asilo”. Tali passaggi appaino problematici: il compito delle autorità statali
dovrebbe essere quello di verificare non che la norma o la sanzione siano concretamente attuate, ma
che tenuto conto della situazione personale del ricorrente e di quella generale del Paese, non ci si
trovi di fronte ad atti di persecuzione. Inoltre, in base all’Art. 9 vediamo che vengono in rilievo, quali
atti di persecuzione, i “provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari,
discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio”. Insomma, anche la mera
previsione, nell’ordinamento del Paese di invio, di norme criminalizzatrici dell’omosessualità può
portare al riconoscimento dello status di rifugiato. Ancora, la Corte, ha posto l’accento sulla
circostanza che i diritti fondamentali chiamati in causa nei procedimenti dinanzi al giudice nazionale
sono il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione, ovvero diritti
che non figurano tra quelli inderogabili. Si potrebbe obiettare che, nei casi in cui la persona possa
essere sottoposta a sanzioni penali come la detenzione, le pene corporali e la pena capitale, a venire
in rilievo sono quei valori fondamentali del rispetto della dignità umana e del divieto di subire tortura
e trattamenti inumani e degradanti, oltre che il diritto alla vita, tutelati sia dalla CEDU, sia dalla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Rispetto al secondo quesito, la Corte di Lussemburgo ha escluso che al richiedente asilo possa
chiedersi di nascondere il proprio orientamento sessuale per evitare la persecuzione (alcuni Stati
membri invece applicano il requisito della riservatezza, però ciò va in contrasto con le indicazioni
fornite dall’UNHCR).

La protezione sussidiaria
Accanto allo status di rifugiato, è introdotta la “protezione sussidiaria”. Le autorità statali sono
chiamate a verificare innanzitutto se il richiedente protezione internazionale rispetta i requisiti per il
riconoscimento dello status di rifugiato; solo quando tali requisiti non siano soddisfatti, si passa a
valutare se lo steso possa beneficiare della protezione sussidiaria.
Nell’ambito di applicazione della protezione sussidiaria (Art. 15 Direttiva qualifiche) ricadono
solamente i richiedenti a rischio di subire la pena capitale; tortura, trattamenti e pene inumani e
degradanti; gravi e indiscriminate violazioni dei diritti umani collegate ad una situazione di guerra.
Non si può ampliare l’ambito di applicazione dell’Art. 15, però gli Stati membri sono liberi di
prevedere ulteriori forme di protezione.

Per il riconoscimento dello status di protezione sussidiaria a venire in rilievo è l’elemento oggettivo,
ovvero i “motivi fondati di rischio reale”. Ai sensi dell’Art. 15 della Direttiva qualifiche sono
considerati dunque danni gravi ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria:
a) La condanna o l’esecuzione della pena di morte;
b) La tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente
nel suo Paese di origine;
c) La minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza
indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
La lett. a) si rifà all’Art. 2 CEDU (Diritto alla vita);
La lett. b) trae ispirazione dall’Art. 3 CEDU (Divieto di tortura o trattamenti inumani o degradanti)
e deve essere interpretata alla luce della giurisprudenza della Corte EDU. Tuttavia, va evidenziato
che, a differenza della protezione offerta sulla base dell’Art. 3 CEDU, della quale è riconosciuto il
carattere assoluto e inderogabile, l’applicazione dell’Art. 15 della Direttiva qualifiche è soggetta alle
clausole di esclusione di cui all’Art. 17. Resta applicabile, e senza limitazioni, il principio di non-
refoulement di cui all’Art. 21. Tale disposizione sì vieta l’allontanamento, però non comporta il
rilascio di un’autorizzazione al soggiorno.
Sempre con riguardo alla lett. b), la protezione sussidiaria può essere riconosciuta solo laddove il
richiedente sia esposto al rischio di subire tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o
degradante in seguito all’allontanamento verso il Paese di origine, non verso qualsiasi Stato terzo. Si
tratta di una significativa limitazione geografica rispetto all’ambito di applicazione dell’Art. 3 CEDU:
la giurisprudenza della Corte EDU sulla base di detta disposizione si sofferma sul risultato
dell’allontanamento, indipendentemente dalla circostanza che tale rischio si presenti nel Paese di
origine o in qualsiasi altro Paese terzo nel quale il richiedente venga rinviato.

La lett. c) dell’Art. 15: la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile
derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale
Particolarmente controversa si è rivelata l’interpretazione della lett. c). L’UNHCR ha evidenziato che
a dover essere “individuale” è la valutazione delle domande di protezione (Art. 4 Direttiva
qualifiche), invece l’eleggibilità per la protezione sussidiaria sulla base dell’Art. 15, lett. c) dovrebbe
riguardare i rischi di grave danno che minacciano interi gruppi di persone.
L’incongruenza del testo della Direttiva ha prodotto delle prassi statali fortemente divergenti.
Tuttavia, il testo dell’Art. non ha subito modifiche nella fase di rifusione della Direttiva (da
2004/83/UE a 2011/95/UE). La Commissione ha ritenuto che fossero esaustive le indicazioni fornite
dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, intervenuta ad interpretare l’Art. 15, lett. c) con le
sentenze Elgafaji e Diakité.
Alla luce della giurisprudenza summenzionata, gli elementi che emergono sono:
1) La minaccia alla vita o alla persona di un
2) Civile e
3) La situazione generale di violenza indiscriminata collegata ad un
4) Conflitto armato interno o internazionale
Riguardo il termine “minaccia”, questo non è casuale: non è necessario che la persona sia a rischio
di; ad essere richiesto è un rischio reale di subire una minaccia.
La minaccia deve riguardare un civile, nozione da definirsi sulla base del suo significato abituale nel
linguaggio comune. Dunque anche se si tratta di un militare, la persona va considerata come civile,
ciò alla luce della natura e dello scopo umanitario della Direttiva, ovvero tutelare coloro che corrano
effettivamente il rischio di subire un grave danno.
Riguardo la situazione generale di violenza indiscriminata, nella sentenza Elgafaji la Corte di
Lussemburgo ha chiarito che il termine “indiscriminata” implica che la violenza possa estendersi a
prescindere dalla situazione personale. Al fine di precisare l’ambito di applicazione della norma,
viene utilizzato il cosiddetto sliding-scale concept, in base al quale “tanto più il richiedente è
eventualmente in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico grazie agli elementi della
sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto
affinché egli possa beneficiare della protezione sussidiaria”. Tuttavia, non vengono offerte
indicazioni concrete in merito alla verifica di tale situazione.
La Corte di Lussemburgo indica poi quali sono gli elementi di cui le autorità competenti devono tener
conto nell’ambito dell’esame della domanda, su base individuale:
 L’estensione geografica della situazione di violenza indiscriminata;
 L’effettiva destinazione del richiedente;
 L’esistenza di un serio indizio di un rischio effettivo
Riguardo il conflitto armato, nella sentenza Diakité è stato precisato che deve essere definito sulla
base del linguaggio corrente. Dunque va inteso come “una situazione nella quale le forze governative
di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati o nella quale due o più gruppi armati si
scontrano tra di loro”. Ciò che le autorità statali devono valutare è se gli scontri generano un livello
elevato di violenza indiscriminata.
D’altronde si genera un’incongruenza nel sistema europeo d’asilo, poiché la disposizione della
protezione temporanea può essere riconosciuta alle persone che hanno dovuto lasciare in massa il
Paese di origine a causa di un conflitto armato, della violenza endemica o del rischio di gravi
violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani; mentre invece la protezione sussidiaria è
limitata alla sola ipotesi i cui la violenza indiscriminata sia collegata ad un conflitto armato.

L’intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea non è riuscito a fare luce sugli elementi più
problematici e contraddittori dell’Art. 15, lett. c): non sono state fornite indicazioni precise in merito
alla definizione di “rischio effettivo di serio danno”; non è stato chiarito quale sia il livello di violenza
generalizzato richiesto perché il richiedente non debba provare di essere a rischio.
Di fatto, viene lasciato un ampio margine di apprezzamento alle autorità statali nel valutare il livello
di gravità della situazione e la minaccia cui va incontro il richiedente in caso di allontanamento.
4. La politica migratoria dell’Unione Europea nel periodo 2014-2019: analisi e bilancio
della gestione della “crisi dei rifugiati”
Introduzione
L’intensa pressione migratoria sulle frontiere esterne dell’Unione Europea, avente il suo apice nel
biennio 2014-2015, ha posto gli Stati membri e le istituzioni europee di fronte all’esigenza di
predisporre contromisure per la gestione dei flussi migratori. L’Unione Europea si è vista costretta a
elaborare e porre in essere azioni sul

 piano interno: sostegno a favore degli Stati membri geograficamente più esposti (come Italia
e Grecia). Queste misure hanno incontrato la forte opposizione di alcuni Stati membri,
contrari all’ingerenza da parte dell’Unione Europea nelle proprie prerogative sovrane in
termini di autonomia e controllo nelle questioni legate alla migrazione;
 piano esterno: cooperazione con Paesi terzi nell’ottica di esternalizzare la responsabilità del
controllo dei flussi migratori.

Premessa: l’assetto “ibrido” delle competenze in materia di asilo, immigrazione e controllo delle
frontiere esterne
L’Unione Europea e gli Stati membri presentano un “assetto ibrido” in termini di attribuzione di
competenze per la gestione della migrazione. Le materie dell’asilo, dell’immigrazione e del controllo
delle frontiere esterne sono affidate ad una gestione impostata in termini di competenza concorrente
dell’Unione Europea con quella degli Stati membri. L’Art. 4, par. 2, lett. j) TFUE – “Spazio di
libertà, sicurezza e giustizia” rientra tra le competenze concorrenti.
La cooperazione degli Stati su ambiti legati alla migrazione presenta un’origine internazionale:
 Convenzione di Dublino in materia di asilo del 1990;
 Accordo di Schengen in materia di gestione dei controlli di frontiera del 1985.
L’iniziale impostazione intergovernativa delle materie migratorie si è progressivamente evoluta
tramite la graduale “incorporazione” della relativa normativa nel diritto dell’Unione Europea. A
seguito dell’attribuzione della competenza concorrente all’Unione Europea, questa ha svolto un ruolo
crescente a livello normativo, puntando sull’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia
di asilo e gestione dei richiedenti protezione internazionale. Da un lato sono state adottate normative
comuni volte a disciplinare accoglienza, procedure, qualifiche; dall’altro sono nati organismi
dell’Unione Europea come l’Agenzia per la cooperazione delle frontiere esterne – Frontex – e
l’Ufficio europeo per il sostegno dell’asilo.
Nonostante la crescente produzione normativa nei settori della migrazione, nel processo di
armonizzazione e ravvicinamento delle legislazioni nazionali, il sistema ha spesso sofferto delle
prassi operative proprie agli Stati membri riguardo le politiche migratorie. Gli Stati, pur gelosi delle
proprie prerogative sovrane in merito alla gestione dei flussi, non sono in grado, da soli, di governarli
completamente; gli stessi Stati sono consapevoli della necessità di un approccio condiviso e comune
alla migrazione, dipendendo quindi dall’Unione Europea e dalle sue capacità regolatorie, le quali,
tuttavia, risultano insufficienti poiché la competenza concorrente le limita.
Riguardo il sistema di competenze in riferimento al rispetto degli obblighi internazionali di tutela dei
diritti fondamentali, le politiche comuni in materia di asilo, immigrazione e controlli di frontiera
devono essere condotte nel pieno rispetto dei diritti fondamentali. Ai sensi dell’Art. 78 TFUE, la
politica comune in materia di asilo deve essere conforme alla Convenzione di Ginevra del 1951 e del
Protocollo del 1967 e al rispetto del principio di non respingimento. Ciò comporta che anche le
istituzioni europee sono tenute a rispettare gli obblighi internazionali.

Contesto e background della crisi migratoria


L’origine dell’intensa pressione migratoria sulle frontiere dell’Unione Europea è da ricercarsi in
rilevanti avvenimenti internazionali come le Primavere Arabe e lo scoppio della guerra in Siria.
Questi eventi hanno determinato una consistente spinta migratoria verso le zone del Mediterraneo
centrale (Italia, isole greche del Mar Egeo e Balcani).
In risposta all’intensa pressione migratoria, gli Stati membri frontalieri hanno reagito impostando le
proprie politiche di contrasto all’immigrazione irregolare seguendo un approccio respingente e
repressivo, basandosi su azioni quali:

 Un rafforzato pattugliamento delle frontiere marittime;


 Operazioni di push-back e respingimento;
 Intercettazione dei migranti in alto mare e conseguente rimpatrio immediato verso Paesi terzi.
Simili pratiche, connotate da gravi profili di inosservanza di obblighi internazionali di rispetto dei
diritti umani, sono state oggetto di censura da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Le
repressive politiche di controllo di frontiera non hanno tuttavia scoraggiato le partenze dalle coste
africane. Nel 2013 si verificò la “tragedia di Lampedusa”, che suscitò grande scalpore e attenzione
mediatica, in seguito al naufragio di un’imbarcazione, avvenuto nella notte del 3 ottobre, a largo delle
coste dell’isola italiana. In risposta, il Governo italiano metteva in atto l’operazione Mare Nostrum.
Tale operazione, finanziata solo dal Governo italiano, risultava caratterizzata da una duplice
componente:
1) Militare: sorveglianza e pattugliamento delle frontiere;
2) Umanitaria: ricerca e soccorso.
Il campo di azione di Mare Nostrum era particolarmente esteso, poiché ci si spingeva fino in
prossimità delle coste libiche. Questa iniziativa recava con sé anche l’obiettivo di sensibilizzare
l’Unione Europea e gli Stati membri sul problema dei flussi presso le frontiere meridionali, nel
rispetto e nello spirito del principio di solidarietà (Art. 67, par. 2 TFUE).
Nel 2014 prese avvio poi l’operazione Triton, guidata questa volta dall’Agenzia Europea Frontex.
Questa operazione presentava però portata e obiettivi meno ampi ed ambiziosi rispetto a Mare
Nostrum: oltre alle differenze in termini operativi (minore campo d’azione, circoscritto a 30 miglia
marine dalle coste italiane e minor budget), tralasciava la componente umanitaria per dedicarsi
prettamente alla sorveglianza delle frontiere.

Oltre all’Italia, il consistente aumento negli arrivi di migranti nel corso del 2014 sottoponeva la Grecia
(già in crisi economica) ad una situazione insostenibile riguardo il recepimento e l’accoglienza dei
richiedenti protezione internazionale. In particolare, il sistema greco d’asilo veniva portato al
collasso, come riconosciuto anche dalla Corte EDU nel 2011 che, con sentenza M.S.S. contro Belgio
e Grecia, dichiarava la violazione dell’Art. 3 CEDU relativamente al trasferimento, in ottemperanza
alla normativa Dublino, di un richiedente asilo afghano dal Belgio alla Grecia, proprio a causa della
situazione di “défaillance systémique” delle condizioni di accoglienza. Con la propria pronuncia, la
Corte EDU smentiva la cosiddetta presunzione di sicurezza, su cui era fondato il sistema Dublino,
circa il rispetto degli standard dei diritti umani da parte degli Stati membri. Per la Corte, le norme
Dublino non possono applicarsi in maniera autonoma e meccanica, senza verificare che le condizioni
di accoglienza del richiedente asilo nello Stato membro di destinazione siano compatibili con i diritti
umani. Da quel momento e fino all’accordo UE-Turchia del 2016 furono sospesi i trasferimenti
Dublino verso la Grecia.

L’insediamento della Commissione Juncker, gli orientamenti politici in ambito migratorio e la


successiva Agenda Europea sulla Migrazione del maggio 2015
Nel luglio 2014, Jean-Claude Juncker (Presidente della Commissione Europea dal novembre 2014
al 2019), nell’esporre i propri orientamenti politici e strategici, individuava dieci settori prioritari cui
intervenire, tra i quali figurava quello relativo a “una nuova politica della migrazione”. L’azione in
tale settore doveva essere condotta all’insegna della parola d’ordine della solidarietà. Tale principio
verrà regolarmente richiamato dalle istituzioni europee tanto con riferimento ad una sua applicazione
verso l’interno, auspicando una maggiore solidarietà tra il Nord e il Sud dell’Europa, quanto verso
l’esterno, al fine di promuovere una proficua cooperazione con i Paesi terzi sulle questioni migratorie.
Inoltre, emergeva la volontà di puntare con decisione sulla lotta contro l’immigrazione irregolare e
su un netto rafforzamento dei controlli di frontiera.
Nel 2015 la Commissione Europea presentava l’Agenda europea sulla migrazione, un documento
sulla strategia europea in ambito migratorio. L’Agenda individuava 4 pilastri:
1) Affrontare le cause dell’immigrazione irregolare puntando sulla cooperazione con i Paesi
terzi di origine e di transito dei flussi: gli obiettivi erano diversi, tra i quali rientravano:
combattere le reti criminali di trafficanti, rinforzare i controlli di frontiera, limitare le partenze;
2) Esternalizzazione delle frontiere;
3) Nuova politica comune europea d’asilo forte: si insisteva soprattutto sulla necessità di una
corretta ed uniforme applicazione della normativa Dublino. Come misure da porre in essere,
la Commissione indicava: l’assegnazione di un ruolo maggiormente incisivo all’ufficio EASO
(European Asylum Support Office), la predisposizione di centri hotspot presso gli Stati
membri di frontiera;
4) Politica di migrazione legale: l’obiettivo era rendere più efficace i canali di accesso legale.

Il 2015 e il picco della crisi: l’approccio hotspot e la ricollocazione


Il 2015 rappresenta l’anno chiave della crisi migratoria in Europa. Oltre 1.000.000 di migranti,
secondo i dati di Frontex, entrano nell’Unione Europea nel 2015, di cui oltre 800.000 attraverso la
Grecia. La cosiddetta rotta balcanica, infatti, diviene un canale migratorio centrale. Cresce la
preoccupazione per la pressione migratoria in tale area, come testimoniano gli sgomberi attuati nei
campi profughi di Idomeni, al confine greco con la Macedonia, così come le agitazioni in Serbia,
presso le frontiere ungheresi dove l’Ungheria ha eretto delle mura lungo il confine. Di fronte alla
crescente pressione migratoria gli Stati membri reagiscono in modo diverso: da un lato la Germania
annuncia la volontà di aprire all’accoglienza dei richiedenti asilo e, dall’altro, gli Stati della frontiera
europea orientale manifestano ostilità verso i migranti e dissenso nei confronti delle politiche
dell’Unione Europea.
Parallelamente si diffondono allarmanti sentimenti estremisti e xenofobi. Anche i media assumono
un ruolo crescente nel contesto della crisi migratoria e della conseguente “intossicazione” del
dibattito. In particolare, viene a crearsi una diffusa confusione semantica nella narrazione della crisi,
in cui termini come “migrante” o “rifugiato” vengono utilizzati indifferentemente, senza alcuna
considerazione delle diverse categorie giuridiche.

Il sistema dei punti di crisi o “approccio hotspot”


La situazione di ingente pressione migratoria verso l’Italia e la Grecia ha determinato estreme
difficoltà nella gestione del recepimento dei migranti e un effetto di permeabilità delle frontiere,
generando movimento secondari dei migranti che, “in risalita” dai Paesi meridionali d’ingresso,
puntavano al raggiungimento degli Stati membri del Centro-Nord Europa. Alcuni di questi Paesi
hanno proceduto alla sospensione degli accordi di Schengen, re-introducendo temporaneamente i
controlli di frontiera.
In questo scenario, l’Unione Europea nel 2015 ha inaugurato il sistema basato sui punti di crisi
(approccio hotspot) volto teoricamente a garantire una più efficace e ordinata gestione delle
operazioni di identificazione, registrazione, rilevamento delle impronte digitali e indirizzamento dei
migranti verso le successive procedure di asilo. Tale misura era pensata allo scopo di sostenere l’Italia
e la Grecia nelle operazioni di recepimento dei migranti.
L’approccio hotspot configura specifiche strutture dedicate alle operazioni di recepimento e
identificazione dei migranti, gestite dalle autorità nazionali con il supporto di mezzi e personale
dell’Unione Europea.
Tale approccio è stato da più parti criticato per 2 aspetti in particolare:
1) È stata messa in discussione la base giuridica che ha condotto alla messa in atto dei punti di
crisi: questa misura non è stata formalizzata in alcun atto specifico e vincolante dell’Unione
Europea. Alla luce di tale vuoto normativo, gli hotspot potrebbero essere considerati come
strettamente collegati:
 sia alla Decisione 2015/1523 del Consiglio sul meccanismo di ricollocazione, che
individua e disciplina le attività di supporto che le agenzie dell’Unione Europea sono
chiamate a svolgere presso i “punti di crisi”;
 sia al Regolamento 2016/1624 che istituisce la nuova Agenzia di frontiera e di guardia
costiera e che reca alcuni riferimenti all’approccio hotspot.
2) È stato messa in discussione e denunciato, specialmente da enti e organizzazioni internazionali
operanti nella tutela dei diritti umani, l’effettivo rispetto dei diritti umani dei migranti e il
trattamento loro riservato durante la permanenza presso le strutture italiane e greche. Tra gli
aspetti maggiormente critici figurano il sovraffollamento, le condizioni di accoglienza
insoddisfacenti, la prolungata detenzione nei centri hotspot, la vulnerabilità dei minori non
accompagnati.
La ricollocazione in favore di Italia e Grecia: tra opposizione politica, inadempimento e ricorsi
alla Corte di Giustizia
Di fronte all’intensificarsi dei flussi e alla conseguente pressione migratoria sugli Stati membri
geograficamente più esposti, l’Unione Europea ha adottato una serie di misure improntate a dare
attuazione al principio di solidarietà (Artt. 67, par 2 e 80 del TFUE). Pertanto veniva attivato un
sistema di ricollocazione consistente nella redistribuzione interna all’Unione Europea, attraverso un
sistema di quote obbligatorie, di un dato quantitativo di soggetti in evidente necessità di protezione
internazionale, in deroga alle norme del sistema Dublino.
Tale meccanismo di ricollocazione veniva istituito nel 2015 con 2 Decisioni del Consiglio in base
all’Art. 78, par. 3 TFUE che configura la possibilità di adottare misure speciali e temporanee per far
fronte a situazioni di emergenza legate alla migrazione, senza passare per la procedura legislativa
ordinaria esplicitata al par. 2:
1) Decisione 2015/1523;
2) Decisione 2015/1601.
Fu in questa occasione, in favore di Italia e Grecia, la prima volta che si fece uso della disposizione
del sistema di ricollocazione. Il sistema era configurato per una durata di due anni, avendo come
oggetto il trasferimento complessivo di 160.000 persone in evidente bisogno di protezione
internazionale dalla Grecia e dall’Italia verso gli altri Stati membri, secondo un sistema di quote
obbligatorie.

Di questa misura, ci fu un atteggiamento di aperta ostilità da parte del Gruppo di Visegrád: Ungheria,
Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca. Oltre che verso la stessa ricollocazione con sistema di quote
obbligatorie, questi Stati sono particolarmente avversi alle politiche migratorie dell’Unione Europea,
percepite come indebita ingerenza nella sovranità statale. La frontale opposizione degli Stati di
Visegrád al sistema di ricollocazione è stata resa palese quindi dalla condotta di inadempimento agli
obblighi di diritto dell’Unione Europea.
Nel giugno 2017 la Commissione Europea non ha potuto far altro che aprire la procedura di infrazione
ai sensi dell’Art. 258 TFUE nei confronti di Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia, per poi procedere
con il deferimento degli stessi Stati alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Ungheria e
Slovacchia avevano agito con la presentazione nel dicembre 2015 di due ricorsi ai sensi dell’Art. 263
TFUE9 per l’annullamento della seconda Decisione del Consiglio istitutiva del meccanismo di
ricollocazione. Secondo l’Ungheria e la Slovacchia la Decisione del Consiglio istitutiva della
ricollocazione:
 non rispettava diversi requisiti giuridici: Ungheria e Slovacchia criticavano le modalità
applicative dell’Art. 78, par. 3, TFUE utilizzato dal Consiglio come base legale per
l’istituzione del meccanismo di ricollocazione. Secondo le ricorrenti non c’erano le condizioni
richieste dalla norma per attivare questa misura:
1. Nei casi di Italia e Grecia non si poteva riscontrare una “situazione di emergenza”,
presupposto richiesto dall’Art. 78, par. 3, TFUE, dal momento che le statistiche
indicavano chiaramente un aumento continuo e regolare degli sbarchi negli anni
precedenti al 2015.

9
Secondo l’Art. 263 TFUE, La Corte di Giustizia dell’Unione Europea esercita un controllo di legittimità sugli atti
legislativi […] destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi.
2. L’afflusso dei migranti non si sarebbe potuto qualificare come “improvviso” – termine
sempre indicato nell’Art. 78, par. 3, TFUE – alla luce del fatto che quello degli sbarchi
poteva considerarsi come un fenomeno regolare.
 non era un provvedimento necessario, ma era eccessivamente invasivo delle prerogative
statali: secondo le ricorrenti un’eventuale situazione di emergenze non si sarebbe dovuta
ricollegare al massiccio afflusso dei migranti, bensì alle carenze strutturali dei sistemi di asilo
di Grecia e Italia.
Tali argomentazioni non saranno condivise dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale si
pronuncerà invece per la legittimità ed opportunità del meccanismo di ricollocazione istituito in
favore di Italia e Grecia quale misura emergenziale di solidarietà in ambito migratorio.

Il 2016: proposte di riforma (riuscite e mancate) e l’”accordo” con la Turchia


Il 2016 risulta caratterizzato da una serie di iniziative dell’Unione Europea nell’ambito delle politiche
migratorie, tanto con riferimento alla dimensione interna, quanto alla dimensione esterna:

 Dimensione interna: la Commissione Europea presenta un pacchetto di riforme riguardo il


tema delle migrazioni. Tra le varie proposte avanzate dalla Commissione assume rilievo:
1. Quella del maggio 2016, presentata sulla base dell’Art. 78, par. 2, lett. e), TFUE
relativa ai criteri e meccanismi del sistema Dublino. La proposta prevedeva la messa
in atto di un “meccanismo correttivo di assegnazione” per una più equilibrata
distribuzione delle domande di asilo tra gli Stati membri, con la finalità di dare
attuazione al principio di solidarietà. Il Parlamento delineava così la creazione di un
sistema permanente di redistribuzione dei richiedenti protezione internazionale
secondo un sistema di quote obbligatorie per i vari Stati membri; prevedeva inoltre
l’applicazione di “sanzioni” nei confronti degli Stati membri che si rifiutassero di
partecipare alla ricollocazione obbligatoria. Il Consiglio, tuttavia, non ha dato
sostegno alla proposta della Commissione;
2. Riforma di Frontex (Regolamento 2016/1624). La nuova Agenzia è stata dotata di
maggiori competenze come la raccolta dati e elaborazioni di statistiche, assistenza
operativa agli Stati sia in fase di controllo delle frontiere, sia in fase di recepimento
dei migranti con procedure di identificazione e registrazione delle impronte digitali,
supporto nell’esecuzione dei rimpatri.

A differenza di altre proposte avanzate dalla Commissione e poi arenatesi su binari


morti, quella relativa al potenziamento e rinnovamento di Frontex è stata portata a
termine in tempi estremamente brevi. Queste tempistiche ben testimoniano la volontà
di intervenire con decisione sul contrasto ai flussi migratori irregolari e la crescente
concentrazione di energie politiche ed economiche messe in campo in tal senso.

 Dimensione esterna: vengono avviate iniziative di cooperazione con Paesi terzi considerati
strategici da un punto di vista della gestione e del contenimento dei flussi migratori, in
particolare vi è la Turchia con cui si è adottata la Dichiarazione UE-Turchia nel 2016. Tale
“accordo” delinea una partnership volta a una gestione condivisa e coordinata della crescente
spinta migratoria legata alle conseguenze del conflitto in Siria. Da un lato la Turchia si
impegna a rafforzare i controlli di frontiera, alla lotta all’immigrazione irregolare verso la
Grecia, alla “ripresa” dei migranti irregolari entrati nell’Unione Europea attraverso le
frontiere greche; dall’altro lato, l’Unione Europea fornisce risorse economiche e sostegno
logistico per la gestione dei profughi siriani.
È stato inoltre istituito un meccanismo volto a reinsediare cittadini siriani dalla Turchia
all’Unione Europea: secondo tale meccanismo, i migranti intercettati nell’attraversare
irregolarmente i confini tra Turchia e Grecia venivano rimpatriati in Turchia e, per ogni siriano
rimpatriato in Turchia dalla Grecia, un altro siriano era reinsediato dalla Turchia nell’Unione
Europea. Questa iniziativa è stata fortemente criticata, in particolare per il divieto di
respingimento.
Altrettante perplessità sono state espresse in merito all’”accordo” tra Unione Europea e
Turchia con riferimento alla natura giuridica dell’atto, nonché alle modalità procedurali con
cui lo stesso è stato negoziato ed adottato, senza dunque osservare quanto contenuto nell’Art.
218 TFUE e nell’Art. 78, par. 2, lett g) TFUE secondo cui per adottare misure relative al
partenariato e alla cooperazione con Paesi terzi per gestire i flussi di richiedenti asilo o
protezione sussidiaria o temporanea occorra seguire la procedura legislativa ordinaria
coinvolgendo gli organi del Parlamento e del Consiglio.

Il 2017: tra solidarietà e sovranità


Il 2017 vede la pronuncia da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea di 2 sentenze in
particolare:
1. Marzo 2017: ha chiuso la porta alla possibilità di dare un rilievo europeo all’istituto del
cosiddetto visto umanitario a finalità di protezione internazionale, il cui rilascio è prerogativa
del diritto nazionale degli Stati membri;
2. Settembre 2017: ha respinto i ricorsi presentati da Ungheria e Slovacchia contro il
meccanismo di ricollocazione del 2015.

La ricollocazione e la solidarietà (meramente) emergenziale


Con la sentenza del settembre 2017, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea afferma la piena
sussistenza delle condizioni necessarie per istituire la ricollocazione e la doverosità di tale intervento
solidale alla luce della “catastrofica situazione umanitaria” cui nel 2015 risultavano sottoposti i
sistemi di asilo di Grecia e Italia.
La sentenza chiarisce così la rilevanza dei doveri di solidarietà in ambito migratorio, sottolineando
che quelli di ricollocazione costituiscono veri e propri obblighi aventi carattere giuridico vincolante.
Ciò che la Corte di Giustizia manca di fare – principale limite della sentenza – è riconoscere
esplicitamente la solidarietà quale valore fondamentale dell’Unione Europea e principio cardine del
suo funzionamento. Il limite giuridico, dunque, risiede nell’aver ancorato il principio di solidarietà a
“un’obbligatorietà emergenziale” e non anche ad un’obbligatorietà di natura generale e strutturale.

I visti umanitari e la sovranità


La sentenza del marzo 2017, da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso X e X c.
Belgio, si inserisce nell’ambito dell’apertura di canali legali di accesso alla protezione internazionale
nell’Unione Europea. Le discussioni si sono incentrate intorno alla questione se gli Stati membri, in
base al diritto dell’Unione Europea, abbiano un obbligo oppure una mera facoltà di rilasciare un visto
per motivi umanitari in favore di un richiedente asilo qualora i suoi diritti fondamentali siano posti
seriamente in pericolo.
Il Codice comunitario dei visti consente agli Stati membri di derogare ai requisiti generali di rilascio
di un visto uniforme e di fare ricorso a particolari visti a validità territoriale limitata (VTL). L’Art.
19 del Codice prevede la possibilità di rilasciare visti VTL per motivi umanitari o per ragioni
d’interesse nazionale; l’Art. 25, par. 1, lett. a) prevede inoltre la possibilità di rilasciare
“eccezionalmente” un visto VTL quando, per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di
obblighi internazionali, lo Stato membro interessato lo ritiene necessario.

Tale questione del possibile carattere obbligatorio del rilascio di un visto umanitario di cui all’Art.
25, par. 1, lett. a) del Codice dei visti è stata affrontata e decisa dalla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea in occasione del caso X e X contro Belgio. Il caso riguardava dei cittadini siriani in fuga dalla
guerra i quali, una volta raggiunta l’ambasciata del Belgio in Libano, avevano avanzato richiesta di
un visto VTL per motivi umanitari. In questo modo essi intendevano raggiungere il Belgio in modo
legale per poi avanzare domanda di asilo.
Le autorità belghe respingevano la richiesta, ritenendo non sussistente alcun obbligo per lo Stato.
Dalla vicenda derivava un rinvio pregiudiziale, con il quale si interrogava la Corte di Giustizia
dell’Unione Europea circa la portata dell’Art. 25, par. 1, lett a) del Codice dei visti e il presunto
obbligo di rilasciare un visto umanitario alla luce degli obblighi di tutela dei diritti umani gravanti
sugli Stati membri in forza del diritto dell’Unione Europea (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea) e del diritto internazionale (CEDU).
La Corte di Giustizia conclude che le richieste di visto umanitario avanzate ai fini di formulare
domanda di asilo non rientrano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione Europea, con la
conseguenza che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non si applica e la decisione
circa il rilascio o meno di un visto umanitario anche in caso di rischio per i diritti fondamentali è
lasciata alle autorità nazionali. La sentenza è stata ampiamente criticata in quanto, essenzialmente,
nel bilanciamento tra protezione dei diritti umani e difesa della sovranità statale, la Corte ha fatto
prevalere quest’ultima, lasciando agli Stati membri la facoltà di decidere circa l’ammissione o meno
sul proprio territorio di un soggetto in cerca di protezione internazionale.

Il 2018: esternalizzazione e rafforzamento dei controlli di frontiera


Il 2018 segna un netto calo degli arrivi di migranti presso le frontiere meridionali dell’Unione
Europea. Ciò è dovuto in particolare alle politiche di esternalizzazione delle frontiere.
Il 2018 si caratterizza per le vicende legate alla questione delle cosiddette navi umanitarie e del porto
di sbarco dei migranti recuperati in mare. L’episodio della nave Aquarius è emblematico in questo
senso e contribuisce ad innescare discussioni e polemiche.
Il Consiglio Europeo, riunitosi il 28 e 29 giugno 2018, ha adottato le proprie Conclusioni in tema
migrazione nell’ottica di definire le linee della futura azione dell’Unione Europea in materia: si
prevede l’attivazione di meccanismi di ricollocazione volti alla distribuzione dei richiedenti asilo
presso gli Stati membri in un’ottica di attuazione del principio di solidarietà, precisando, tuttavia,
come la stessa dovrebbe essere attuata solo “su base volontaria”. Da questo punto di vista vi è la
conferma di come la solidarietà in ambito migratorio rimanga esclusivamente legata ad un contesto e
ad una logica di emergenza. In generale, nel 2018, la politica migratoria dell’Unione Europea si
conferma focalizzata sull’esternalizzazione della gestione dei flussi e sul rafforzamento dei controlli
di frontiera.

Il 2019: bilancio e prospettive


Nel 2019 la Commissione Europea ha diffuso una Comunicazione in cui propone un bilancio delle
proprie politiche migratorie attuate nel periodo 2015-2019.
Quanto al quadro dei flussi all’inizio del 2019, la Commissione prende in esame le principali aree
geografiche relative alle frontiere marittime meridionali dell’Unione Europea:
 Con riferimento alla rotta del Mediterraneo occidentale, la Spagna rappresenta il principale
canale d’ingresso irregolare nell’Unione Europea. La Commissione individua la soluzione
tramite la cooperazione con il Marocco e l’incremento del sostegno economico e tecnico-
operativo in suo favore;
 Con riferimento alla rotta del Mediterraneo centrale, il netto calo degli sbarchi consente alla
Commissione di concentrare l’attenzione sul nodo della Libia e delle drammatiche condizioni
dei migranti trattenuti nei centri di detenzione. Per la Commissione la situazione va affrontata
seguendo una duplice direttiva: da un lato, puntando a una cooperazione internazionale
allargata, tale da coinvolgere l’UNHCR, L’OIM, l’Unione Africana, e dall’altro, fornendo un
consistente sostegno economico per l’assistenza umanitaria e il supporto delle comunità
locali;
 Con riferimento alla rotta del Mediterraneo orientale, la Commissione prende atto del fatto
che nel 2019 la pressione migratoria sulle isole greche non accenna a diminuire.
Per le future strategie la Commissione individuava 4 pilastri su cui concentrarsi, riprendendo ed
aggiornando essenzialmente quelli dell’Agenda del 2015.

Considerazioni conclusive
L’intensa pressione migratoria che ha interessato l’Europa a partire dal 2014 ha posto l’Unione
Europea di fronte a sfide complesse e delicate, innescando una crisi non solo operativa ma anche di
natura esistenziale e costituzionale.
Le politiche migratorie hanno segnato un progressivo ritorno alla logica intergovernativa, in quanto
gli Stati membri intendono ricoprire un ruolo di primo piano andando dalla difesa delle proprie
prerogative sovrane alle esigenze di natura elettorale. Il moltiplicarsi di summit, incontri tra ministri
e capi di Stato dimostra la tendenza a sviluppare forme di intesa e cooperazione di tipo
intergovernativo. Tale approccio è riscontrabile anche nel contesto delle politiche di esternalizzazione
della gestione dei flussi migratori: gli Stati membri cercano la collaborazione di Paesi terzi
geograficamente strategici.
Per il futuro, l’Unione Europea necessita di politiche migratorie comuni, impostate sul rispetto dei
principi fondamentali stabiliti dai trattati, su tutti quello di solidarietà ed equa ripartizione delle
responsabilità.
5. La protezione temporanea per le persone in fuga dall’Ucraina
A seguito della proposta della Commissione, il 4 marzo 2022 il Consiglio dell’Unione Europea, con
la Decisione 2022/382, ha deciso di attivare la Direttiva 2011/55/CE sulla protezione temporanea,
stabilendo l’esistenza di un afflusso massiccio di sfollati che hanno lasciato l’Ucraina a seguito di
conflitto armato.
Tuttavia, ci si potrebbe chiedere come mai tale meccanismo non è stato instaurato nel caso della crisi
siriana oppure della crisi afghana.

Come nasce l’istituto della protezione temporanea


Nel 2001, memore dei conflitti in ex Jugoslavia e in Kosovo, la Comunità Europea ha adottato la
Direttiva 2011/55/CE allo scopo di gestire rapidamente arrivi molto numerosi e ravvicinati di migranti
forzati, garantendo l’equilibrio degli sforzi da parte degli Stati membri che ricevono tali persone.

Cosa si intende per protezione temporanea


La protezione temporanea, se attivata, garantisce “nei casi di afflusso massiccio o di imminente
afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi terzi che non possono rientrare nel loro Paese
d’origine, una tutela immediata e temporanea alle persone sfollate, in particolare qualora vi sia
anche il rischio che il sistema d’asilo non possa far fronte a tale afflusso senza effetti pregiudizievoli
per il suo corretto funzionamento”.

Come si attiva la protezione temporanea


L’attivazione della protezione temporanea avviene su proposta della Commissione, poi previo
accertamento dell’esistenza di un flusso massiccio di sfollati con Decisione del Consiglio dell’Unione
Europea, da adottarsi a maggioranza qualificata (Art. 5, comma 1 Direttiva 2001/55/CE). La
Decisione determina l’attivazione della protezione temporanea in tutti gli Stati membri (Art. 5,
comma 3 Direttiva 2001/55/CE): si tratta quindi di uno strumento di solidarietà europea che ha
effetti erga omnes, ovvero vincolanti per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, a prescindere
che questi ultimi abbiano approvato o meno all’unanimità l’attivazione dello strumento previsto dalla
Direttiva.
Nel caso di specie, la Decisione 2022/382 non si applica però alla Danimarca.

A chi si rivolge la protezione temporanea


La protezione temporanea viene attivata nei confronti di cittadini di Paesi terzi o apolidi che abbiano
dovuto abbandonare il loro Paese o “regione” di origine ed il cui rimpatrio in condizioni sicure e
stabili risulti impossibile a causa della situazione nel Paese stesso. La Direttiva specifica che questa
protezione si applica in particolare:
 Alle persone fuggite da zone di conflitto armato o di violenza endemica;
 Alle persone che siano soggette a rischio grave di violazioni sistematiche o generalizzate dei
diritti umani o siano state vittime di siffatte violazioni.
Inoltre, purché siano rispettati i criteri di cui sopra, si applica anche:
 Ai richiedenti asilo e rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra;
 Alle persone protette ai sensi di altre normative nazionali o internazionali.
Le categorie di persone alle quali si applica la protezione temporanea vengono esplicitamente
specificate nella Decisione del Consiglio dell’Unione Europea. Tuttavia, la Direttiva permette altresì
agli Stati membri di decidere di ammettere alla protezione temporanea categorie di sfollati ulteriori
rispetto a quelle indicate nella Decisione, purché siano sempre rispettati i criteri di cui sopra.
Le clausole di esclusione sono le stesse di quelle previste per la protezione internazionale a livello
europeo.

Nel caso di specie, la Decisione 2022/382 con l’Art. 1 ha stabilito che la protezione temporanea si
applica alle seguenti categorie:
a) Cittadini ucraini residenti in Ucraina prima del 24 febbraio 2022;
b) Cittadini di Stati terzi o apolidi che beneficiavano della protezione internazionale o di
protezione equivalente in Ucraina prima del 24 febbraio 2022;
c) Familiari delle persone indicate alla lett. a) e lett. b); per “familiare”, secondo l’Art. 4 si
intende:
 Coniuge;
 Partner stabile, qualora la legislazione o la prassi dello Stato membro interessato
assimila coppie di fatto e coppie sposate nel quadro della legge sugli stranieri;
 Figli minori (legittimi, naturali o adottati) di persone di cui all’Art. 1, lett. a) o b);
oppure del coniuge10;
 Parenti stretti che vivevano insieme come parte del nucleo familiare nel periodo in cui
gli eventi hanno determinato l’afflusso massiccio e che erano totalmente o
parzialmente dipendenti dal richiedente in tale periodo.
La Decisione 2022/382 con l’Art. 2 si applica altresì:
 Ai cittadini di Paesi terzi o apolidi che soggiornavano legalmente in Ucraina prima del 24
febbraio 2022 sulla base di un permesso di soggiorno permanente valido rilasciato
conformemente al diritto ucraino e che non possono ritornare in condizioni sicure e stabili nel
proprio Paese o regione di origine. 11
Distanziandosi dalla proposta formulata dalla Commissione, il Consiglio dell’Unione Europea ha
deciso, con l’Art. 3, di non includere tra i destinatari della protezione temporanea i cittadini di Stati
terzi che vivevano regolarmente in Ucraina sulla base di un permesso di soggiorno non permanente.
Chiaramente, come detto poc’anzi, gli Stati membri hanno la possibilità di applicare la protezione
temporanea anche a ulteriori persone rispetto a quelle incluse nella Decisione 2022/382, sempre nel
rispetto dei criteri di cui sopra (il Considerando 13 indica che le persone che si trovavano in Ucraina
per un breve periodo per motivi di lavoro o per motivi di studio. Tali persone dovrebbero comunque
essere ammesse nell’Unione Europea per motivi umanitari).

10
Dunque parrebbe che non si comprendano i figli del partner stabile.
11
Dunque parrebbe che i familiari degli stranieri di cui all’Art. 2 sono esclusi dalla protezione temporanea.
La durata della protezione temporanea
La durata della protezione temporanea è fissata al massimo ad 1 anno dal giorno in cui viene attivata
dal Consiglio dell’Unione Europea12. Tale termine può essere ridotto, ma anche prorogato. La
proroga può avvenire:
 In via ordinaria: di 1 anno ulteriore (diviso in due tranches da 6 mesi l’una);
e poi
 In via straordinaria: di ancora 1 anno ulteriore, su richiesta della Commissione Europea.
La cessazione è subordinata ad una valutazione da parte del Consiglio dell’Unione Europea, in base
alla presenza nel Paese di origine di una situazione che consenta un rimpatrio sicuro e stabile delle
persone cui è stata concessa la protezione temporanea, nel rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, nonché degli obblighi in materia di non respingimento.

Natura e contenuto della protezione temporanea


La titolarità della protezione temporanea e i diritti ad essa connessi sono da intendersi come “benefici
concessi” per un tempo definito. Secondo la Direttiva 2001/55/CE al titolare è riconosciuto:
 Un titolo di soggiorno per la durata della protezione stessa;
 Il diritto di esercitare attività di lavoro e partecipare ad attività di formazione professionale;
 Il diritto all’alloggio, o di ricevere i mezzi per ottenere un’abitazione;
 L’aiuto necessario in termini di assistenza sociale e di cure mediche; gli Stati membri devono
fornire assistenza socio-sanitaria alle persone che presentano esigenze particolari (minori non
accompagnati, persone che hanno subito torture, stupri, gravi forme di violenza psicologica,
fisica o sessuale);
 Il diritto al minore di accedere al sistema educativo.
Quelle appena indicate sono norme minime e gli Stati membri hanno la facoltà di stabilire e attuare
condizioni più favorevoli.

Qual è lo Stato membro competente a riconoscere la protezione


La Decisione 2022/382 fa riferimento al fatto che i cittadini ucraini possono fare ingresso nel
territorio dell’Unione Europea e circolare liberamente per un periodo massimo di 90 giorni in base al
Regolamento 2018/1806. Ciò comporta implicitamente il diritto dei cittadini ucraini di scegliere lo
Stato membro nel quale recarsi per poi chiedere la protezione temporanea (dunque non possono farlo
i cittadini di cui all’Art. 1, lett. b) né i familiari di cittadini ucraini provenienti da Paesi terzi).

Il ricongiungimento familiare
La Direttiva 2001/55/CE prevede la possibilità per il titolare di protezione temporanea di accedere al
ricongiungimento familiare, sia esso intra-UE (con familiari soggiornanti in altri Stati membri), sia
esso extra-UE (con familiari soggiornanti in Paesi terzi).

12
Nel caso di specie dovrebbe essere dunque dal 4 marzo 2022; tuttavia il Consiglio dell’Unione Europea nella Decisione
2022/382 ha stabilito che la protezione temporanea sia attiva retroattivamente, ovvero a partire dal 24 febbraio 2022.
Ai fini del ricongiungimento familiare, la Direttiva considera facenti parte di una famiglia le seguenti
persone:

 Coniuge;
 Partner stabile, qualora la legislazione o la prassi dello Stato membro interessato assimila
coppie di fatto e coppie sposate nel quadro della legge sugli stranieri;
 Figli minori non sposati (legittimi, naturali o adottati);
 Parenti stretti che vivevano insieme come parte del nucleo familiare nel periodo in cui gli
eventi hanno determinato l’afflusso massiccio e che erano totalmente o parzialmente
dipendenti dal richiedente in tale periodo.

Minori stranieri non accompagnati


La Direttiva 2001/55/CE prevede che i minori non accompagnati a cui è concessa la protezione
temporanea siano rappresentati mediante tutela legale o, se necessario, mediante rappresentanza
assunta da organizzazioni incaricate dell’assistenza e del benessere dei minori o mediante qualsiasi
altra forma adeguata di rappresentanza.
Lo Stato membro responsabile provvede a fornire al minore una collocazione:
a) Presso componenti adulti della famiglia del minore;
b) Presso una famiglia ospitante;
c) Presso centri d’accoglienza per minori;
d) Presso la persona che si è presa cura del minore durante la fuga.

Protezione temporanea e protezione internazionale


Ai sensi della Direttiva 2001/55/CE, al titolare di protezione temporanea deve essere consentito di
presentare una richiesta di asilo in qualunque momento. Alle richieste di asilo proposte da titolari di
protezione temporanea si applica il Regolamento Dublino.
In tema di compatibilità tra protezione, è infine previsto che gli Stati membri possano disporre che
una persona non possa essere contemporaneamente titolare di protezione temporanea e richiedente
protezione internazionale.

Diritto di movimento intra-UE


La Direttiva 2001/55/CE non prevede che i cittadini di Paesi terzi titolari di protezione temporanea
godano in quanto tali di libertà di movimento all’interno del territorio dell’Unione Europea. Quanto
detto però non significa che non possano mai muoversi all’interno di questo territorio, fintanto però
che egli si sposti nel rispetto delle disposizioni valide per i cittadini del suo Paese di cittadinanza.
Invece, in caso di ingresso e/o soggiorno irregolare in un altro Stato membro da parte di un titolare
di protezione temporanea, lo Stato membro che ha concesso la protezione deve riammetterlo del
proprio territorio, salvo che, in deroga a questa disposizione, gli Stati membri decidano diversamente
tramite accordo bilaterale.
La Decisione 2022/382 conferma che la persona – cittadina ucraina – che gode della protezione
temporanea, pur avendo il diritto di viaggiare nell’Unione Europea per 90 giorni nell’arco di un
periodo di 180 giorni, dovrebbe poter avvalersi dei diritti derivanti dalla protezione temporanea solo
nello Stato membro che ha rilasciato il titolo di soggiorno. Una volta scelto, liberamente, lo Stato
membro presso il quale chiedere il titolo di soggiorno, il beneficiario della protezione temporanea
non ha il diritto di stabilirsi in un altro Stato membro oltre il periodo di 90 giorni ogni 180 giorni.

Come dimostrare il possesso dei requisiti richiesti


Secondo la Decisione 2022/382 coloro che chiedono la protezione temporanea devono dimostrare di
soddisfare i relativi criteri di ammissibilità “presentando i documenti pertinenti alle autorità
competenti dello Stato membro”.
6. L’accordo UE-Turchia: le criticità di un accordo a tutti i costi
L’accordo di cooperazione in ambito migratorio tra Unione Europea e Turchia, definito nei suoi
principi il 7 marzo 2016, è stato confermato dal Consiglio europeo del 17-18 marzo 2016. Tale
cooperazione è finalizzata essenzialmente al controllo dell’immigrazione irregolare verso l’Europa e
al supporto nella gestione della crisi siriana in Turchia fornendole ingenti finanziamenti. Però risulta
per molti versi controversa, sia dal punto di vista della sua conformità con il quadro giuridico
internazionale ed europeo, sia relativamente alla sua praticabilità ed efficacia.
L’accordo del 7 marzo ha stabilito che:

 Tutti i migranti che giungono irregolarmente sulle isole greche vengano ricondotti in Turchia;
 Per ogni siriano riammesso in Turchia, un altro siriano verrà reinsediato dalla Turchia ad uno
Stato membro dell’Unione Europea.
La dichiarazione UE-Turchia del 18 marzo ha riconfermato i due principi introdotti il 7 marzo.

Espulsioni collettive e refoulement


L’accordo del 7 marzo prevedeva di “far rientrare tutti i nuovi migranti irregolari che hanno
compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche”. Ciò ha fatto insorgere ONG, organizzazioni
internazionali e numerosi accademici, che hanno rilevato come dietro ad una formulazione così vaga
si nascondesse:
1. Il rischio di espulsioni collettive, proibite dall’Art. 4, Protocollo 4 CEDU: la giurisprudenza
della Corte EDU ha stabilito che l’espulsione di un gruppo di stranieri possa avvenire solo
dopo una valutazione ragionevole e oggettiva del caso individuale di ciascun straniero del
gruppo.
2. Il rischio di una violazione del principio di non-refoulement: il principio di non-refoulement
prevede che nessuno possa essere espulso verso uno Stato dove rischia di essere perseguitato
o di essere sottoposto a tortura o trattamenti inumani o degradanti. Solo se la Turchia può
essere considerata come un Paese terzo sicuro non si ha violazione del principio di non-
refoulement.

Principio dell’”uno per uno”


Un aspetto molto controverso del piano è il principio in base al quale per ogni siriano riammesso in
Turchia, un altro siriano sarà reinsediato in Europa. Chiaramente questo meccanismo va in contrasto
con i principi del diritto d’asilo e della tutela dei diritti umani; manca, inoltre, un riferimento alla
necessità di considerare le specifiche vulnerabilità dei migranti che approdano sulle isole greche
(bambini non accompagnati, neonati, anziani, vittime di violenza ecc.).
Si crea così un meccanismo secondo cui un siriano che cerca di raggiungere l’Europa irregolarmente
viene riammesso in Turchia, mentre un siriano che non ha fatto il tentativo può essere premiato con
la ricollocazione presso uno Stato membro dell’Unione Europea. Alla fin fine, un rifugiato non può
essere criminalizzato per ingresso irregolare nel Paese in cui cerca rifugio anche perché il suo diritto
alla protezione internazionale non può essere subordinato alle modalità (legali o non) con cui entra in
un Paese.
L’accordo prevede che tutti i migranti che entrano irregolarmente nelle isole greche vengano
riammessi in Turchia, ma che solo i siriani possano essere reinsediati in Europa. La questione è
particolarmente grave se consideriamo che una parte dei migranti che sbarcano in Grecia sono afghani
ed iracheni: tali persone, dunque, oltre a non rientrare nel meccanismo “uno per uno”, non potranno
neanche beneficiare dell’assistenza finanziaria promessa dall’Unione Europea, che è mirata a progetti
per i siriani.

Il concetto di Paese terzo sicuro


La Direttiva Procedure 2013/32/UE, all’Art. 38, par. 1 elenca una serie di criteri che il Paese deve
rispettare per essere considerato Paese terzo sicuro:
a) Non sussistono minacce alla vita e alla libertà del richiedente per ragioni di razza, religione,
nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;
b) Non sussiste il rischio di danno grave (definito dall’Art. 15 della Direttiva Qualifiche
2011/95/UE);
c) Il principio di non-refoulement è rispettato conformemente alla Convenzione di Ginevra;
d) È osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né
trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale;
e) Esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e di ottenere protezione in conformità con
la Convenzione di Ginevra.
Secondo l’Art. 38, par. 2, lett. b) la sicurezza di un Paese terzo va sempre esaminata caso per caso
per verificare se il concetto è applicabile alle circostanze individuali del richiedente in questione.

In base a ciò, può dunque la Turchia essere considerata un Paese terzo sicuro?
 Con riguardo alla lettera e), innanzitutto la Turchia ha ratificato la Convenzione di Ginevra
nel 1951 e il suo Protocollo del 1967, ma mantiene una limitazione geografica per i
richiedenti non europei, in base alla quale riconosce lo status di rifugiato come definito dalla
Convenzione solo a chi proviene da un Paese membro del Consiglio d’Europa. Sebbene la
legge sugli stranieri e sulla protezione internazionale adottata nel 2013 preveda la
possibilità di riconoscere lo status di “rifugiato condizionato” a chi proviene da un Paese non
europeo, questo status permette di risiedere solo temporaneamente in Turchia, e garantisce
una serie limitata di diritti. I siriani sono soggetti ad un regime speciale di protezione
temporanea che evita loro di dover passare attraverso la procedura regolare; tuttavia, anche i
loro diritti sono limitati. Pertanto, nessun richiedente protezione proveniente da un Paese non
europeo può richiedere e vedersi riconosciuto in Turchia lo status di rifugiato così come
definito dalla Convenzione di Ginevra.

Inoltre, i richiedenti asilo in Turchia affrontano i problemi di un sistema d’asilo ancora


inadeguato, in cui mancano le strutture di accoglienza e le garanzie procedurali minime.

 Con riguardo alla lettera c), sono molteplici gli episodi di respingimenti che sono stati
documentati.
 Con riguardo alla lettera b), in Turchia i migranti e richiedenti si trovano ad affrontare una
serie di ostacoli che aumentano il rischio di danno grave, in ragione del mancato rispetto del
divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti nei centri di detenzione.

Problemi procedurali e di applicazione pratica dell’accordo


Il sistema di asilo greco è un sistema debole che presenta gravi carenze strutturali, le quali limitano
la possibilità dei richiedenti di avere accesso alla procedura di asilo e a strutture di accoglienza
adeguate. È un piano che, dal punto di vista procedurale, è complesso nelle sue diverse fasi:
identificazione/registrazione, esame della domanda, accoglienza/detenzione, ricorso, rimpatrio.
L’Unione Europea ha comunque affermato più volte che la Grecia non verrà lasciata sola in questo
sforzo.

La ratio e i numeri dell’accordo


Il piano dell’accordo UE-Turchia ha 2 evidenti contraddizioni:
1. Riguardo il meccanismo uno per uno vi è la contraddizione tra lo scopo dichiarato
dell’accordo UE-Turchia, ovvero fermare l’immigrazione irregolare e rendere proprio
l’immigrazione irregolare condizione necessaria al reinsediamento dei siriani.
2. La seconda contraddizione riguarda i numeri del piano. Per il 2016 è stato fissato un numero
massimo di 72.000 posti disponibili per il reinsediamento; tuttavia, in base ai dati
dell’UNHCR di febbraio 2016, circa 1.000 siriani arrivavano ogni giorno sulle isole greche.
Se dunque per ognuno di loro, un siriano verrà reinsediato in Europa, i 72.000 posti messi a
disposizione basteranno solo per 72 giorni.
7. Immigrazione e asilo – Violazioni conseguenti all’attuazione della Dichiarazione UE-
Turchia e giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sugli hotspots greci: la
sentenza Kaak

Introduzione
Con la sentenza Kaak del 3 ottobre 2019 la Corte EDU torna ad esaminare le condizioni di
accoglienza dei richiedenti asilo negli hotspots greci, in particolare nel centro di Vial, sull’isola di
Chio. Ricordiamo che le condizioni di accoglienza in Grecia già erano critiche prima della
Dichiarazione UE-Turchia del 2016, in particolare la sentenza M.S.S. contro Belgio e Grecia del 2011
della Corte EDU portò alla sospensione dei trasferimenti Dublino proprio fino all’accordo tra Unione
Europea e Turchia. Tuttavia, la Dichiarazione UE-Turchia ha peggiorato la situazione. Ciò che
colpisce e suscita perplessità nella sentenza in esame, è che la Corte sia giunta a negare la violazione
dell’Art. 3 CEDU nei confronti dei minori non accompagnati presenti nel centro di Vial, con ciò
contraddicendo la sua stessa giurisprudenza che fino a quel momento aveva piuttosto mostrato un
orientamento di favore nei confronti di bambini e adolescenti posti in stato di trattenimento perché
migranti.

La Dichiarazione UE-Turchia
Il 18 marzo 2016 viene pubblicata la Dichiarazione UE-Turchia, la cui natura giuridica è
controversa. Una delle cose che colpiscono è il fatto che, per la prima volta, l’espressione “migranti
irregolari” include anche i richiedenti asilo, compresi i cittadini siriani. L’accordo prevede che:
 tutti i “migranti irregolari” che partono dalla Turchia per raggiungere le isole greche a
decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rinviati in Turchia; i migranti che giungeranno sulle
isole greche saranno debitamente registrati e qualsiasi domanda d’asilo sarà trattata
individualmente dalle autorità greche conformemente alla Direttiva sulle procedure d’asilo;
 i migranti che non faranno domanda d’asilo o la cui domanda d’asilo sia ritenuta infondata o
non ammissibile saranno rinviati in Turchia;
 meccanismo uno per uno: per ogni siriano rinviato in Turchia dalle isole greche, un altro
siriano sarà reinsediato dalla Turchia verso l’Unione Europea.
Tale accordo segna una pericolosa accelerazione dell’Unione Europea verso pratiche di
esternalizzazione delle frontiere. L’idea di esternalizzare i controlli alle frontiere non era nuova nel
dibattito europeo, ma la novità è il ricorso sistematico a questa pratica mediante accordi con Paesi
terzi non sicuri (come la Turchia), esponendo migranti e richiedenti asilo a gravi violazioni dei diritti
umani.
L’accordo UE-Turchia era stato tuttavia presentato come strategico per risolvere la “crisi
migratoria”. Questa crisi, però, è esplosa non tanto a causa del numero di persone che hanno
raggiunto l’Europa, ma quanto a causa dell’incapacità dell’Unione Europea di affrontarla in modo
efficace e solidale.

Con specifico riferimento all’accordo UE-Turchia, questo è stato oggetto di numerose critiche,
basate:
 sia su profili inerenti il diritto costituzionale europeo: la Dichiarazione è stata criticata per
essere stata conclusa senza rispettare i requisiti stabiliti dal TFUE: non si rispettano l’Art. 218
TFUE e l’Art. 78, par. 2, lett. g) TFUE;
 sia su profili inerenti i diritti umani: la Dichiarazione presuppone che la Turchia possa essere
considerata un Paese terzo sicuro.
Entrambi questi profili sono stati oggetto dinanzi al Tribunale dell’Unione Europea di tre ricorsi
sollevati rispettivamente da due cittadini pakistani e un cittadino afghano, che dalla Turchia avevano
raggiunto la Grecia ed avevano qui richiesto protezione internazionale. Poiché rischiavano di essere
rimpatriati in Turchia in virtù della Dichiarazione, hanno deciso di rivolgersi al Tribunale dell’Unione
Europea al fine di contestarne la legittimità.
Partendo dal presupposto che la Dichiarazione costituisse un accordo internazionale tra l’Unione
Europea e la Turchia, hanno fatto ricorso ai sensi dell’Art. 263 TFUE, sia con riguardo alle questioni
costituzionali (inosservanza dell’Art. 218 TFUE), sia riguardo il mancato rispetto della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea (invocando in particolare gli Artt. 1 (dignità), 18 (diritto
d’asilo), 19 (divieto di refoulement e di espulsioni collettive).
Tuttavia, la Corte di Lussemburgo ha scelto un ragionamento formalistico: ha infatti negato il
coinvolgimento dell’Unione Europea, escludendo la propria giurisdizione perché l’espressione
“membri del Consiglio Europeo” e il termine “UE”, presenti nella Dichiarazione UE-Turchia devono
intendersi come riferimenti ai capi di Stato o di Governo dell’Unione Europea. Il Tribunale ha evitato
di esaminare il merito perché, se avesse esaminato la compatibilità della Dichiarazione UE-Turchia
con il diritto europeo e internazionale in materia di asilo e rifugiati, sarebbe giunto o a una conclusione
di non conformità oppure avrebbe dovuto optare per un’interpretazione restrittiva del diritto di asilo
e dei rifugiati. La seguente impugnazione poi dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha
visto il respingimento dell’appello per inammissibilità, senza esaminarlo nel merito.
La conseguenza è che i ricorrenti non hanno ricevuto nessuna decisione nel merito della questione
fondamentale, cioè:
 se nel loro caso individuale la Turchia potesse essere effettivamente considerata un Paese
terzo sicuro
o
 se il rimpatrio in tale Paese costituisse violazione del principio di non refoulement.

Gli hotspots greci


Il cosiddetto approccio hotspot è stato previsto nell’Agenza europea sulla migrazione. In tale
documento viene annunciata l’intenzione di creare dei “punti di crisi” (“hotspot”), al fine di
intervenire rapidamente nei Paesi di frontiera in caso di afflussi eccezionali. Per tale ragione viene
previsto di affiancare alle autorità nazionali impegnate nei Paesi di primo ingresso come Grecia ed
Italia, personale appartenente alle Agenzie europee per condurre con rapidità le operazioni di
identificazione, registrazione e rilevamento delle impronte digitali dei migranti in arrivo.
Sin dall’enunciazione contenuta nell’Agenda europea sulla migrazione, l’approccio hotspot è stato
oggetto di numerose critiche:
 sia relative all’effettiva capacità di affrontare la cosiddetta crisi migratoria;
 sia per la mancanza di una base legale per la privazione di libertà in tali centri (nel nuovo
Regolamento UE 2019/1896 relativo alla guardia di frontiera e costiera europea, viene
inserita un’esplicita definizione di hotspot;
 sia sotto il profilo del rispetto dei diritti umani, in particolare per quanto riguarda le condizioni
di accoglienza / detenzione dei migranti.
I primi segnali che con la Dichiarazione UE-Turchia la situazione sarebbe solo potuta peggiorare si
sono avuti dopo appena pochi giorni dall’entrata in vigore di tale accordo, poiché i 5 hotspots creati
in Grecia nelle isole dell’Egeo di Lesbo, Chio, Samos, Leros e Kos, erano stati inizialmente concepiti
come strutture aperte; tuttavia, nella pratica, tutti i richiedenti asilo appena arrivati sono stati
sottoposti ad una misura dell’Art. 14 della Legge greca 375/2016, adottata per attuare l’accordo UE-
Turchia, recante una “restrizione della libertà” per un massimo di 25 giorni. Nei fatti, quella che la
Legge greca definiva “restrizione della libertà”, almeno per il periodo iniziale è stata una vera e
propria detenzione.
Le stesse condizioni di accoglienza, con riferimento al periodo dei mesi immediatamente successivi
all’entrata in vigore dell’accordo UE-Turchia, i rapporti adottati da organizzazioni governative e non
governative13 concordano nel parlare di sovraffollamento, penose condizioni di vita a causa di cibo
insufficiente, mancanza di acqua, carenze igieniche, assenza di adeguata assistenza medica.

Il caso Kaak e altri contro Grecia


La sentenza del caso Kaak e altri contro Grecia è stata pronunciata il 3 ottobre 2019, ovvero dopo
più di 3 anni dalla presentazione del ricorso, avvenuto in data 16 giugno 2016. Il ricorso è stato
presentato da 51 ricorrenti di nazionalità siriana, afghana e palestinese, tra cui figuravano 6 minori
non accompagnati.
Arrivati via mare tra il 20 marzo 2016 e il 15 aprile 2016, i ricorrenti sono stati arrestati dalla polizia
greca e poi trasferiti nel campo di Souda (struttura aperta) o nell’hotspot di Vial (struttura de facto
chiusa). Nei confronti di quasi tutti i ricorrenti fu emesso un ordine di espulsione e disposto il
trattenimento in vista del rimpatrio in Turchia in virtù della Dichiarazione UE-Turchia. Gli ordini
indicavano in lingua greca la possibilità di introdurre un ricorso dinanzi al Direttore generale della
polizia della regione dell’Egeo e di presentare opposizione alla decisione dinanzi al Tribunale
amministrativo. Alcuni ricorrenti hanno poi presentato domanda di protezione internazionale e di
conseguenza il provvedimento di espulsione emesso nei loro confronti è stato revocato, ma non il
trattenimento nell’hotspot di Vial.
La decisione sui ricorsi riprenderà in gran parte quanto affermato nella sentenza J.R. e al. contro
Grecia del 2018, ovvero il primo dei casi relativi al trattamento negli hotspot greci esaminato dalla
Corte EDU.
Nel nostro caso di specie, il ricorso riguarda sia:
 Art. 5, comma 1 e 4 CEDU (diritto alla libertà personale)
A) Art. 5, comma 1 CEDU: i ricorrenti lamentavano che la loro detenzione fosse arbitraria,
nonché di non aver ricevuto alcuna informazione sulle ragioni della detenzione e di non aver
avuto accesso ad alcun rimedio effettivo per farne valutare la legittimità. La Corte EDU

13
Rapporto di Human Rights Watch; Risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa; Rapporto del
Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa (CPT) ed altri ancora.
esamina innanzitutto se nel caso dei ricorrenti si sia trattato di “privazione” e non di mera
“restrizione” di libertà, e perviene ad una conclusione positiva soltanto in relazione
all’hotspot di Vial, e solo per il periodo antecedente la data del 21 aprile 2016, ovvero quando
il centro viene trasformato in una struttura semi-aperta. In realtà la situazione all’interno degli
hotspots rimane problematica anche dopo tale data, alla luce della cosiddetta restrizione
geografica, ossia della circostanza per cui le persone possono uscire dall’hotspot ma non
possono uscire dall’isola greca. Tale limitazione geografica potrebbe secondo alcuni essere
configurata come una detenzione de facto.

 Tuttavia, la Corte EDU si limita solo a dichiarare ricevibile la doglianza relativa all’Art. 5
esclusivamente nei confronti dei ricorrenti trattenuti nell’hotspot e soltanto per il periodo fino
al 21 aprile 2016; nel merito, però, nega il carattere arbitrario della detenzione richiamando
la sentenza J.R. e al. contro Grecia, in particolare il fatto che la detenzione non è arbitraria se
strettamente legata allo scopo perseguito. Nel caso dei ricorrenti, la detenzione avrebbe avuto
lo scopo di impedire loro di soggiornare irregolarmente sul territorio greco e di rispondere ai
contenuti della Dichiarazione UE-Turchia.

B) Art. 5, comma 4 CEDU: la Corte EDU nota in primo luogo che il decreto che disponeva
l’ordine di espulsione e il trattenimento erano scritti in greco; inoltre, tenuto conto
dell’opuscolo informativo dato dalle autorità greche ai ricorrenti al tempo dei fatti, questo
faceva riferimento a un Tribunale amministrativo senza specificare quale (nonostante non
esistesse alcun Tribunale amministrativo sull’isola di Chio).

 La Corte EDU conclude che nelle circostanze specifiche i ricorrenti non hanno avuto
concretamente accesso ai rimedi interni per contestare la decisione delle autorità greche circa
il trattenimento nei centri. Dunque, riconosce la violazione dell’Art. 5, comma 4.

Con riferimento alla doglianza relativa all’Art. 5, nel caso Kaak la Corte EDU non aggiunge
nessun riferimento alla condizione particolare dei minori non accompagnati, nonostante la
Corte stessa sia stata molto attenta in passato alla situazione di questa categoria di persone.

 Art. 3 CEDU (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti)


I ricorrenti hanno affermato che le condizioni materiali nell’hotspot di Vial e nel centro di
Souda integrassero trattamenti inumani e degradanti, a causa del sovraffollamento, delle
carenze igieniche, della scarsità e cattiva qualità del cibo, del mancato accesso a cure
mediche e del trattamento riservato ai minori non accompagnati.

 La Corte EDU ha innanzitutto ricordato il principio (espresso sia nella sentenza M.S.S. c.
Belgio e Grecia e nella sentenza Hirsi e al. c. Italia) in base al quale il carattere assoluto
dell’Art. 3 CEDU non consente deroghe per gli Stati nemmeno in caso di afflussi straordinari.
Tuttavia, la Corte EDU, come già nel caso Khlaifia, aggiunge delle osservazioni relative alla
situazione di emergenza umanitaria che lo Stato convenuto stava affrontando per giungere
alla conclusione che, anche alla luce del Rapporto del CPT (vedi la nota 13 nella pagina
precedente) e della brevità della detenzione, nel caso di specie la soglia di gravità necessaria
per parlare di trattamento inumano e degradante non sia stata raggiunta.
La Corte di Strasburgo nel sottolineare la situazione cui ha dovuto far fronte la Grecia non fa
altro che introdurre nella struttura motivazionale della propria valutazione sul rispetto
dell’Art. 3 CEDU un nuovo ed autonomo “fattore rilevante” costituito dal contesto generale,
che di fatto comporta un affievolimento del carattere assoluto ed inderogabile del divieto
sancito dall’Art. 3 CEDU e una conferma di un preoccupante revirement rispetto a quanto
aveva invece affermato nel caso Hirsi.

Nella sentenza in oggetto occorre inoltre sottolineare un ulteriore aspetto critico, ovvero l’uso
selettivo dei numerosi Rapporti di istituzioni internazionali e ONG. La Corte EDU cita a sostegno
della propria conclusione di non violazione dell’Art. 3 CEDU il solo Rapporto del CPT, a suo dire
“non particolarmente critico”, contestualmente contestando allo stesso CPT e alle ONG intervenute
di non aver fornito informazioni sufficienti sul sovraffollamento all’interno dell’hotspot perché non
avrebbero indicato il numero di metri quadrati nello spazio occupato dai ricorrenti. Tale rilievo
risulta comunque contraddetto dagli stessi dati già in possesso della Corte EDU, ma che non sono
stati riprodotti nella decisione in esame, ovvero quelli contenuti nella sentenza J.R. e al. contro
Grecia.

Segue: Il trattamento dei minori non accompagnati


I 6 minori non accompagnati entrati in un periodo compreso tra il 20 marzo 2016 e il 27 marzo 2016,
erano stati trasferiti nell’hotspot di Vial dove sono rimasti diversi mesi, senza essere separati dagli
adulti, senza che fosse nominato alcun tutore, senza alcuna attività formativa e ricreativa. Tutto ciò
in aggiunta alle doglianze comuni a tutti i migranti presenti nell’hotspot, ma particolarmente gravi
trattandosi in questo caso di soggetti doppiamente vulnerabili, in quanto minori non accompagnati e
in quanto persone bisognose di protezione internazionale.
Anche in questo caso il Rapporto del CPT ha dettagliatamente descritto la situazione.
Dal resoconto della Corte EDU risulta che il Direttore del centro di Vial soltanto dopo 2 mesi di
permanenza nell’hotspot di Vial si è rivolto al Centro nazionale di difesa sociale per sollecitare
l’indicazione di una struttura adeguata alle esigenze dei minori ospitati; risposte arrivarono solo a
luglio 2016 e agosto 2016. Ciononostante la Corte EDU, dopo aver dichiarato che in un periodo non
ben precisato erano stati collocati nella safe zone dell’hotspot di Vial, conclude che non è convinta
che le autorità non abbiano fatto tutto quello che ci si poteva aspettare da loro per aiutare i minori non
accompagnati.
Tuttavia, tenuto conto del fatto che quanto affermato dalla Corte, ovvero che il fatto che i minori si
trovassero in una safe zone separata dagli adulti, risulta non vero almeno fino al mese di luglio 2016,
e tenuto conto delle condizioni materiali descritte sopra, la conclusione cui giunge la Corte EDU
risulta difficilmente condivisibile, alla luce dell’interesse superiore del minore ed anche alla luce
della stessa giurisprudenza della Corte, che in passato non aveva mancato di riconoscere la violazione
dell’Art. 3 CEDU in diversi casi riguardanti minori non accompagnati, anche in casi di detenzioni
durate pochi giorni.
Considerazioni conclusive
In conclusione sembrerebbe che per la Corte EDU vada tutto bene negli hotspot greci, nonostante i
rapporti redatti in relazione al periodo preso in considerazione nel caso Kaak siano pienamente
concordi nel denunciare gravi violazioni di diritti umani.
Il richiamo alla situazione di emergenza migratoria come giustificazione per affievolire il carattere
assoluto e inderogabile dell’Art. 3 CEDU sembra ancora più inaccettabile nel caso in esame, non
solo perché invocata nei confronti di minori non accompagnati, ma anche perché non deriva da una
causa di forza maggiore, bensì da un accordo UE-Turchia. Sembra dunque veramente paradossale da
parte della Corte di Strasburgo effettuare un bilanciamento tra un diritto assoluto (Art. 3 CEDU) da
un lato e circostanze (sovraffollamento e caos) dall’altro, in parte preesistenti e ineluttabilmente
destinate a peggiorare con l’entrata in vigore dell’accordo UE-Turchia.
La posizione espressa nel caso Kaak segna un grave passo indietro nella tutela dei diritti dei migranti
e dei richiedenti asilo.
8. Esternalizzazione delle frontiere in chiave antimigratoria e responsabilità
internazionale dell’Italia e dell’UE per complicità nelle gross violations dei diritti umani
commesse in Libia

Introduzione. Gli obiettivi dell’Italia e dell’UE di controllare e di ridurre i flussi migratori nel
Mediterraneo e i risultati recentemente raggiunti
Da ormai diversi anni, il controllo e la riduzione dei flussi migratori provenienti dall’Africa e dal
Medio Oriente costituiscono degli obiettivi prioritari per gli Stati membri dell’Unione Europea. Gli
Stati che gestiscono le frontiere esterne dell’Unione Europea, configurandosi come Paesi di primo
approdo dei richiedenti asilo, sopportano i più pesanti oneri derivanti dalla crisi migratoria.
In Italia, da più parti si invocano azioni di forte contrasto ai flussi migratori che attraversano il
Mediterraneo. Allora, di concerto con l’Unione Europea, il Governo italiano ha optato per una
strategia antimigratoria che consiste nell’esternalizzazione delle proprie frontiere in Libia, Paese in
cui notoriamente convergono quasi tutte le ondate migratorie provenienti dall’Africa sub-sahariana e
talvolta anche dal Nord Africa e dal Medio Oriente prima di attraversare il Mediterraneo. L’Italia ha
ottenuto che la Libia (in realtà diversi attori del territorio libico, essendo caratterizzato da instabilità
politica) blocchi i migranti entro i suoi confini, impedendo loro di arrivare in Europa. È stato così
ripreso e sviluppato il Trattato del 2008 con lo scopo principale di arginare le migrazioni nel
Mediterraneo.

La politica migratoria di esternalizzazione delle frontiere attuata dall’Italia con il sostegno


dell’UE e il trattenimento in Libia dei migranti provenienti da Stati terzi
Nel diritto internazionale delle migrazioni, il modello dell’esternalizzazione ha ispirato la prassi del
trasferimento del controllo e della gestione dei flussi migratori dagli Stati di destinazione a quelli di
transito. In sostanza, i primi stipulano accordi o raggiungono delle intese con i secondi, i quali
accettano di trattenere entro i propri confini i migranti. In cambio, ricevono dagli Stati di destinazione
dei finanziamenti, mezzi tecnologici, supporti logistici e attività di formazione della loro guardia di
costiera.
Lo strumento principale della politica di esternalizzazione delle frontiere italiane in Libia è il
Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione
illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle
frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica italiana. Si tratta di un accordo internazionale
bilaterale, la cui firma è avvenuta il 2 febbraio 2017 e la cui durata è di tre anni con rinnovo tacito
alla scadenza per altri tre anni. Il Memorandum è stato sottoscritto dal Presidente del Consiglio dei
Ministri italiano Gentiloni, e dal Capo del Governo di riconciliazione nazionale libico, Serraj.
Il Memorandum prevede un maggior impegno della Libia nel controllo dei suoi confini e l’obbligo
dell’Italia di fornire supporto a tal fine con le misure scritte sopra. Inoltre, il 2 agosto 2017, in risposta
a una richiesta del Governo di Tripoli, l’Italia ha approvato l’invio di una missione di sostegno alla
guardia costiera libica. Nello specifico, ha autorizzato il distaccamento di unità navali italiane nel
mare territoriale e nelle acque interne della Libia per lo svolgimento di azioni di contrasto ai flussi
migratori irregolari e al traffico di esseri umani.
Nello stesso periodo, l’Italia ha adottato il Codice di condotta per le organizzazioni non governative
impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare (documento che non ha valore di
legge). Questo documento impedisce alle ONG di interferire nel processo di esternalizzazione delle
frontiere italiane in Libia. Infatti, restringe notevolmente il raggio d’azione di questi attori non statali,
poiché prevede il divieto di ingresso nei mari libici, salvo in situazioni di grave e imminente pericolo,
purché non si intralcino le attività della guardia costiera libica. 14
Nella dichiarazione del Consiglio Europeo al termine del Vertice a La Valletta il 3 febbraio 2017
(cioè il giorno dopo la firma del Memorandum italo-libico), si legge che l’Unione Europea accoglie
con favore il Memorandum d’intesa firmato il 2 febbraio 2017. D’altronde, l’Unione Europea ha già
dettato una propria politica migratoria assimilabile a quella italiana, ovvero con l’accordo UE-
Turchia.

La commissione di gross violations dei diritti umani a danno dei migranti trattenuti sul
territorio libico e la responsabilità internazionale della Libia
È ormai innegabile che i migranti trattenuti in Libia siano vittime di gravi e sistematiche violazioni
dei diritti umani. Le gross violations dei diritti dei migranti sono dimostrate nei numerosi documenti
pubblicati da diverse ONG, da fonti giornalistiche, da rapporti di organizzazioni internazionali come
l’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i diritti umani, l’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i
rifugiati, l’OIM, l’UNICEF.
Le gross violations dei diritti umani implicano la responsabilità internazionale della Libia:
 per il mancato rispetto della norma di diritto internazionale che ne pone il divieto
(Dichiarazione e Programma d’azione di Vienna del 1993 con la Conferenza mondiale sui
diritti umani);
 per il mancato rispetto di diritti tutelati da specifiche norme internazionali generalmente
considerate consuetudinarie (diritto a non essere ridotti in schiavitù; divieto di tortura);
 per il mancato rispetto di diritti umani sanciti in strumenti convenzionali che la Libia ha
ratificato e da cui è vincolata (Convenzione contro la schiavitù – 1926; Patto ONU sui diritti
civili e politici – 1966; Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli,
inumani e degradanti – 1984; Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli – 1981).
Molte gross violations dei diritti dei migranti sono imputabili alla Libia poiché poste effettuate in
aree poste effettivamente sotto il controllo del Governo di Serraj (interventi della guardia costiera e
della guardia di confine; intervento dei dipendenti del Dipartimento per il contrasto all’immigrazione
clandestina). Appare problematica soltanto l’imputabilità alla Libia delle violazioni perpetrate dalle
guardie che controllano i confini meridionali, visto che tali guardie non rispondono né al Governo di
Serraj, né al Governo ribelle della Cirenaica di Haftar. Non è chiaro se le guardie che presidiano le
frontiere meridionali agiscano o

14
La Legge 15/2023 da parte dello Stato italiano riguardo le ONG, reca ulteriori restrizioni sul soccorso in mare: le navi
umanitarie possono compiere una sola operazione di salvataggio in mare (per ogni missione), venendo meno agli obblighi
di salvataggio sanciti dal diritto internazionale, specie nel caso in cui avvistino, a seguito di un primo salvataggio, altre
situazioni di pericolo che richiederebbero il loro intervento; le navi devono essere in possesso delle certificazioni e
documenti rilasciati dallo Stato di bandiera; le persone soccorse devono essere subito informate della possibilità di
chiedere la protezione internazionale e i soccorritori dovrebbero già raccogliere i loro dati; deve essere subito richiesto il
porto di sbarco nell’immediatezza del salvataggio; fissa nuove sanzioni amministrative fino al sequestro delle navi;
comporta l’assegnazione di porti sempre più lontani.
 nel contesto di veri e propri movimenti insurrezionali: in questa ipotesi, la condotta illecita
delle guardie non sarebbe imputabile alla Libia
oppure
 nel quadro dell’autonomia “regionale” storicamente assicurata al Fezzan: troverebbe forse
applicazione l’Art. 9 del Progetto del 2001, che permetterebbe di imputare anche la condotta
illecita di tali guardie alla Libia. Infatti, secondo l’Art. 9, il comportamento di una persona o
di un gruppo di persone è considerato come atto di uno Stato se quella persona o quel gruppo
di persone di fatto svolge delle prerogative di governo in assenza delle autorità ufficiali e in
circostanze tali da richiedere l’esercizio di quelle prerogative (nel caso di specie, queste
guardie presidiano i confini nazionali in assenza del governo).

La possibilità di configurare una forma di responsabilità internazionale dell’Italia e dell’UE


connessa alla responsabilità internazionale della Libia precedentemente delineata
L’Italia declina ogni addebito di responsabilità internazionale per le gross violations dei diritti umani
subite dai migranti bloccati entro i confini libici e quindi fuori dalla giurisdizione italiana. Con
riferimento all’esternalizzazione delle proprie frontiere in Libia, l’Italia nega di agevolare le autorità
libiche nel compimento di gravi e sistematiche violazioni dei diritti dei migranti. Anzi, alcuni
esponenti del Governo italiano ritengono che il Memorandum contribuisca ad una maggiore tutela
dei diritti dei migranti che si trovano in Libia, giacché l’Art. 5 impegna le due Parti contraenti a
interpretare e applicare il Memorandum nel rispetto degli obblighi internazionali e degli accordi sui
diritti umani di cui i due Paesi siano parte.
Tuttavia, diverse critiche sono state mosse:
 Lettera inviata da parte del Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani al
Ministro degli Interni italiano Minniti: esprime perplessità a proposito degli esiti di tale
politica, mostrando preoccupazione specialmente per le condizioni in cui versano i migranti
che vengono bloccati in Libia;
 Dichiarazioni dell’Alto Commissario ONU per i diritti umani: ha qualificato come
“inumana” la politica italiana di “assistenza” prestata agli organi statali libici impegnati a
intercettare i migranti e a condurli nei centri di accoglienza situati in Libia;
 Documenti diffusi da alcune ONG.
I documenti hanno uno scopo di denuncia soprattutto politica. Sul piano del diritto internazionale
sembra rilevante anche l’assistenza assicurata dall’Italia e dall’Unione Europea alla Libia in
esecuzione della politica di esternalizzazione delle frontiere. Nell’ottica dello Stato di destinazione,
tale politica non appare in sé contraria al diritto internazionale, almeno quando è attuata in
cooperazione con uno Paese terzo sicuro; tuttavia, senza dubbio la Libia non si può considerare come
Paese terzo sicuro. Ricordiamo infatti che l’ordinamento libico non riconosce il diritto di asilo e la
Libia non aderisce alla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati. D’altronde, già
nella sentenza Hirsi, la Corte di Strasburgo aveva qualificato la Libia come uno Stato non sicuro.

Le norme sulla responsabilità internazionale per complicità


Nei Progetti di Articoli del 2001 (Art. 16) sulla responsabilità internazionale dello Stato e del
2011 (Artt. 14 e 58) sulla responsabilità internazionale delle organizzazioni internazionali, la
ratio della complicità è posta alla base della responsabilità di uno Stato o di un’organizzazione
internazionale per gli atti di aiuto o assistenza che, pur essendo leciti, agevolano la realizzazione di
un illecito da parte di un altro Stato o di un’altra organizzazione.
Le norme sulla responsabilità internazionale dello Stato per complicità sono inserite nel cap. IV del
Progetto di Articoli del 2001 (Artt. 16-19): l’Art. 16 dice per l’appunto che uno Stato che aiuti o
assista un altro Stato per la commissione di un atto internazionalmente illecito da parte di
quest’ultimo. è internazionalmente responsabile facendo ciò:
 Se lo fa essendo a conoscenza delle circostanze dell’atto illecito
e
 Se l’atto fosse internazionalmente illecito anche se commesso dallo stesso Stato che ha aiutato
o assistito.
Al posto del termine “complicità” si preferì utilizzare l’espressione “aiuto” o “assistenza”.
Secondo il Commentario della Commissione del Diritto Internazionale (CDI), l’Art. 16 potrebbe
applicarsi al caso in cui uno Stato mettesse le proprie basi militari a disposizione di un altro Stato che
compie raid aerei contro uno Stato terzo in violazione del diritto internazionale. Allo stesso modo,
l’Art. 16 dovrebbe venire in rilievo nel caso della pratica delle extraordinary renditions. Dal punto di
vista materiale, si può supporre che la responsabilità internazionale per complicità sorga per qualsiasi
tipo di assistenza: commerciale, finanziaria, logistica, militare, politica.

Segue: i requisiti e i caratteri della responsabilità internazionale per complicità


Tra i requisiti e i caratteri che qualificano la responsabilità internazionale per complicità:
 vi è innazitutto la connessione tra l’atto lecito dello Stato assistente e l’atto illecito dello Stato
assistito. Tale connessione deve essere intesa nel senso di una “agevolazione”.
 Art. 16, lett. a) – requisito della consapevolezza: è responsabile lo Stato che fornisce
assistenza a un altro Stato nella consapevolezza di agevolarne il comportamento illecito.
L’interpretazione del requisito della consapevolezza non è chiara, non essendo definito il
livello di specificità richiesta. Tuttavia, in alcune situazioni potrebbe apparire corretto il
riscontro del requisito della consapevolezza anche quando lo Stato assistente avrebbe dovuto
essere ragionevolmente consapevole di facilitare con la sua assistenza la condotta illecita dello
Stato assistito. Ciò si può verificare tenendo conto della notorietà della propensione dello
Stato assistito a compiere illeciti; tenendo conto dell’esistenza di documenti riguardanti la
pregressa commissione di illeciti da parte dello Stato assistito;
 Art. 16, lett. b) requisito dell’opposability: la responsabilità internazionale per complicità
può sorgere soltanto in relazione a condotte illecite che riguardano la violazione di norme
internazionali vincolanti sia lo Stato assistito sia lo Stato assistente. Alcuni autori ritengono
che tale requisito sia superfluo e reputano inoltre che l’inclusione della opposability nell’Art.
16 finisca con l’offrire perlopiù una clausola di salvaguardia, favorevole in molte circostanze
allo Stato complice;
 Commentario della CDI: requisito dell’intenzionalità: ai fini dell’applicabilità dell’Art. 16,
per il Commentario della CDI, l’aiuto o l’assistenza deve essere fornita nell’intento di
facilitare la commissione dell’atto illecito. Secondo alcuni non esiste differenza tra
intenzionalità e consapevolezza. Gli stessi Stati sono poco propensi a favore dell’inclusione
dell’intenzionalità tra i requisiti della responsabilità internazionale per complicità. Infine, vi
è una sorta di contraddizione all’interno dello stesso Commentario, dove, rispetto all’Art. 2
del Progetto di Articoli del 2001 si legge che “è solo l’atto di uno Stato che importa,
indipendentemente da ogni intenzione”.
La norma sulla responsabilità internazionale degli Stati per complicità, così come codificata nell’Art.
16 del Progetto di Articoli del 2001, può ritenersi conforme al diritto internazionale generale
(consuetudine). Riguardo l’elemento dell’intenzionalità, nel quadro della ricostruzione della norma
consuetudinaria sulla responsabilità internazionale per complicità, non se ne tiene particolarmente
conto.

La responsabilità internazionale dell’Italia e dell’UE per complicità nelle gross violations dei
diritti umani dei migranti compiute in Libia
La politica di esternalizzazione delle frontiere potrebbe essere considerata lecita ai sensi del diritto
internazionale. Tuttavia, nel caso di specie dell’Italia, tale politica configura la sua responsabilità per
complicità nelle gross violations dei diritti umani che la Libia compie a danno dei migranti. Infatti,
ricorrono tutti i requisiti e i caratteri individuati nell’Art. 16 del Progetto di Articoli del 2001.
Innanzitutto, la condotta in sé lecita dell’Italia è posta in connessione con la condotta illecita della
Libia. Con il suo aiuto e la sua assistenza, l’Italia facilita gli organi statali libici che compiono le gravi
e sistematiche violazioni dei diritti dei migranti.
Anche l’elemento della consapevolezza risulta soddisfatto. Le autorità libiche violano i diritti dei
migranti in maniera notoriamente generalizzata e sistematica. È da ritenere che l’Italia sia a
conoscenza di tutto ciò da tempo, e comunque almeno all’epoca della sentenza Hirsi. Pertanto, l’Italia
non può non avere anche la consapevolezza del fatto che l’aiuto e l’assistenza offerti alla Libia
facilitano gli organi statali libici nella commissione di gross violations dei diritti dei migranti.
Quanto alla cosiddetta opposability, gli illeciti commessi dalla Libia consistono nella violazione non
solo di norme consuetudinarie (divieto di praticare la schiavitù; divieto di tortura), ma anche di
norme convenzionali (entrambi gli Stati sono parti della Convenzione del 1926 contro la schiavitù;
del Patto del 1966 sui diritti civili e politici; della Convenzione del 1984 contro la tortura e altre
pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti; del Protocollo del 2000 per la prevenzione, la
repressione e la punizione del traffico di esseri umani).
Infine, non è necessaria alcuna dimostrazione dell’intenzionalità dell’Italia al fine di provarne la
responsabilità nel caso di specie.

In alcuni documenti ci si riferisce anche all’Unione Europea, la cui condotta è associata a quella
dell’Italia per ciò che concerne l’assistenza prestata alla Libia. L’Unione Europea, d’altronde,
sostiene pubblicamente la politica migratoria italiana. Peraltro, con la missione navale EUNAVFOR
MED Operazione Sophia e poi l’Operazione Irini, l’Unione Europea addestra la guardia costiera
libica.
Non sembra dunque difficile provare che anche l’Unione Europea è responsabile per complicità nelle
gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani subite dai migranti bloccati in Libia.

Le forme di assistenza in ambito migratorio prestate alla Libia dall’Unione Europea sono meno
evidenti di quelle assicurate dall’Italia. Si tratta perlopiù di contributi finanziari, spesso inviati
contestualmente ad altri Stati africani e intesi a promuovere esternamente i valori democratici, ad
agevolare la ripresa economica, ad incentivare lo sviluppo, tra i cui obiettivi rientra la gestione dei
flussi migratori. Altre risorse giungono in Libia invece per via indiretta, ovvero attraverso gli Stati
membri (come l’Italia che con il Memorandum italo-libico del 2 febbraio 2017 prevedeva che la
copertura finanziaria fosse al 50% a carico del bilancio italiano e l’altro 50% tramite i finanziamenti
ricevute dall’Unione Europea).
9. Recenti sviluppi in materia di giurisdizione extraterritoriale a margine delle decisioni
del Comitato ONU per i diritti umani, A.S. e al. c. Malta e A.S. e al. c. Italia: quale
prospettiva per la Corte di Strasburgo?

Introduzione
Nelle due comunicazioni del 27 gennaio 2021, A.S. e al. c. Malta e A.S. e al. c. Italia, Il Comitato
ONU per i diritti umani si è confrontato con la responsabilità dello Stato maltese e italiano per la
violazione degli obblighi derivanti dal diritto alla vita, in relazione al mancato svolgimento delle
operazioni di soccorso in un naufragio avvenuto nel Mediterraneo nel 2013, che ha visto più di 200
migranti perdere la vita in mare.
Le due decisioni segnano uno sviluppo significativo del diritto internazionale dei diritti umani,
specialmente in relazione alla sua applicabilità nei contesti di ricerca e soccorso in mare.
Il Comitato ONU per i diritti umani ha adottato un’interpretazione innovativa della nozione
“funzionale” di giurisdizione extraterritoriale ai sensi dell’Art. 2, par. 1 del Patto sui diritti civili e
politici, ritenendo sussistente sia la giurisdizione maltese che quella italiana. Risolta la questione della
giurisdizione, ha affermato la responsabilità italiana per la violazione degli obblighi positivi di
protezione del diritto alla vita ai sensi dell’Art. 6, par. 1 del Patto e, in combinato disposto con l’Art.
2, par. 3, ha affermato la violazione di tale articolo per non aver adempiuto al proprio dovere di
condurre un’indagine tempestiva sulle accuse relative all’incidente. Il ricorso contro Malta è stato
invece dichiarato inammissibile per il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.

Le decisioni del Comitato per i diritti umani e la nozione “funzionale” di giurisdizione


Nelle decisioni in oggetto, il Comitato coglie la sua prima occasione per applicare l’innovativa
nozione di giurisdizione, introdotta nel General Comment n. 36 del 2018 sul diritto alla vita. Lo
applica nel contesto dell’applicabilità extraterritoriale degli obblighi positivi di prevenzione e
protezione.
Il Commento Generale fa propria una concezione “funzionale” della nozione di giurisdizione, che di
discosta dai tradizionali paradigmi spaziale e personale di giurisdizione extraterritoriale (a cui si
riconducono le situazioni in cui viene esercitato un controllo effettivo sul territorio o sugli individui)
e si inserisce nell’ottica della capacità effettiva dello Stato di incidere sul godimento dei diritti
umani.
Nel caso di specie, il legame giurisdizionale che lega le autorità di entrambi gli Stati alle vittime
dell’incidente, tale da riconoscere la capacità effettiva dei primi di incidere in maniera diretta e
ragionevolmente prevedibile sul diritto alla vita dei secondi, è riconosciuto sulla base di un insieme
di elementi di tipo fattuale e giuridico. Innanzitutto, in merito alla decisione contro l’Italia, il
Comitato rileva specifiche circostanze sulla cui base si era instaurata una relazione speciale di
dipendenza tra le autorità italiane e le persone in pericolo.
 Elementi di tipo fattuale:
1. le autorità italiane avevano risposto inizialmente alla richiesta di soccorso;
2. la nave della Marina Militare italiana si trovava a circa 1 ora di navigazione dalla
nave in distress;
3. le autorità maltesi, che avevano assunto formalmente il coordinamento, avevano
chiesto più volte alle autorità italiane di intervenire.

 Elementi di tipo giuridico:


figurano gli obblighi assunti dall’Italia ai sensi del diritto internazionale del mare:
1. Regolamento SOLAS: doveri di rispondere alle richieste di soccorso;
2. Convenzione SAR: dovere di cooperazione con gli altri Stati nelle operazioni di
ricerca e soccorso.
Per alcuni appare nebuloso il costrutto del “legame speciale di dipendenza” riconosciuto tra le
autorità italiane e le persone in pericolo, il quale non permetterebbe di comprendere chiaramente
quando sussista la giurisdizione in questi casi. In base ad una concezione funzionale, da un lato ci si
chiedeva se dovrebbe sussistere la giurisdizione ogniqualvolta uno Stato abbia la possibilità concreta
di intervenire per salvare le vite in mare; oppure se è necessario accertare gli ulteriori elementi (di
tipo fattuale e giuridico) che consolidino tale legame.
Ad ogni modo, in un contesto complesso, quale quello delle attività di ricerca e soccorso in mare, in
cui ai problemi di intervento collettivo da parte degli Stati si intrecciano le continue violazioni dei
diritti umani, la soluzione proposta dal Comitato consente di far fronte ad alcuni “maritime legal
black holes” ed apre alla possibilità di applicare il Patto anche in analoghi scenari, caratterizzati
dall’esercizio di un controllo statale “senza contatto” sui migranti.

La Corte di Strasburgo al bivio: verso una frammentazione della giurisprudenza


“internazionale” dei diritti umani?
Il parere del Comitato, sebbene non abbia effetti vincolanti per gli Stati contraenti, costituisce
senz’altro un precedente autorevole, a cui altri organi di controllo dei diritti umani potrebbero
allinearsi.
L’approccio innovativo del Comitato non costituisce un unicum. Infatti, la Corte interamericana dei
diritti dell’uomo nel 2017, in tema di protezione ambientale, ha riconosciuto un nuovo link
giurisdizionale, che sussiste quando lo Stato di origine esercita un controllo effettivo sulle attività
svolte che hanno causato il danno e la conseguente violazione dei diritti umani, anche se quest’ultima
si verifica al di fuori dei confini territoriali (dunque senza che vi sia un controllo fisico sul territorio
o sulle persone). Vi sono anche obblighi positivi (dettati dal Patto di San José) per gli Stati parte di
adottare le misure di prevenzione necessarie ad impedire danni ambientali significativi che potrebbero
prodursi anche al di fuori del territorio dello Stato.
Non mancano inoltre sviluppi anche all’interno degli ordinamenti nazionali, come testimonia una
sentenza della Corte Costituzionale tedesca nel 2020 che ha dichiarato che la sorveglianza operata
dai servizi segreti su persone non tedesche al di fuori dei confini nazionali è incostituzionale. La Corte
tedesca afferma che le azioni dei servizi segreti, di ascolto, raccolta e condivisione di dati su individui
all’estero determinano l’esercizio di un “controllo sui diritti delle persone”.
La questione della giurisdizione extraterritoriale nel quadro fornito dalla giurisprudenza della Corte
EDU è spinosa. A costituire un precedente controverso, che negherebbe tra l’altro un’evoluzione della
nozione in senso “funzionale”, è il caso Bankovic, in cui la Corte ha negato che l’accertamento della
giurisdizione potesse dipendere da un nesso causa-effetto. Ciononostante, vi sono alcuni casi in cui
la Corte EDU sembra aver adottato un approccio maggiormente funzionale, come il caso PAD e al.
c. Turchia, riguardante l’uccisione da parte di un elicottero turco di alcuni cittadini iraniani, in cui la
Corte EDU ha affermato la giurisdizione statale, ritenendo che non era necessario stabilire dove
fossero avvenute le uccisioni (se in territorio turco o iraniano).
Ad ogni modo la Corte EDU continua a “resistere” all’espansione dell’applicazione extraterritoriale
della CEDU. Ne sono un esempio la decisione M.N. e al. c. Belgio, in cui non è stata riconosciuta la
giurisdizione extraterritoriale dello Stato convenuto in merito al diniego del visto presso le ambasciate
all’estero, fuori dal territorio europeo (in Libano); oltre che la causa interstatale Georgia c. Russia,
relativa al conflitto armato avvenuto nel 2004. Nella sentenza, la Corte EDU opera una discutibile
distinzione tra:
 il periodo relativo alle ostilità, in cui non ha rilevato la giurisdizione dello Stato convenuto a
causa dell’impossibilità di accertare l’esercizio di un controllo effettivo sul territorio in un
“contesto di caos”;
e
 quello immediatamente successivo al “cessate il fuoco”, in cui, in virtù dell’occupazione
russa, il test giurisdizionale è stato soddisfatto.
La Corte EDU ammette che, in alcuni casi, ha riscontrato la giurisdizione statale in presenza di
violazioni del diritto alla vita causate dall’apertura del fuoco di autorità statali, ma che questi si
differenziano dal caso di specie perché si tratta di situazioni in cui erano implicati atti isolati e
specifici che avevano un elemento di prossimità. Ma si intende la prossimità fisica della vittima
all’origine dello sparo, non considerata sufficiente in un bombardamento terrestre? Oppure si intende
l’occasionalità dello sparo a fronte della continuità determinata da un bombardamento prolungato?
Tuttavia, un aspetto interessante della sentenza è rappresentato dal riconoscimento dell’applicabilità
extraterritoriale degli obblighi positivi di indagine ai sensi dell’Art. 2 CEDU, anche in relazione al
periodo delle ostilità, in base all’approccio delle circostanze speciali. Tuttavia, tale approccio
sembrerebbe applicarsi soltanto agli obblighi procedurali di indagine e non anche a quelli sostanziali
derivanti dal diritto alla vita.
10. Il Patto europeo sulla migrazione e l’asilo: “c’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico”

Dall’Agenda per la migrazione del 2015 al Patto sulla migrazione e l’asilo del 2020
La Commissione Juncker aveva presentato nel maggio 2015 l’Agenda per la migrazione, alla quale
aveva fatto seguito, nel 2016, un pacchetto di proposte di riforma del Sistema europeo comune di
asilo, in parte non approvate.
Il 1° dicembre 2019 il testimone passa alla Commissione Von Der Leyen che predispone un nuovo
Patto sulla migrazione e l’asilo del 23 settembre 2020. Si tratta di un documento programmatico con
un orizzonte di legislatura. Si riapre così il cammino delle riforme. In alcuni casi, come ad esempio
quello della proposta di regolamento sostitutivo della cosiddetta Direttiva procedure, la Commissione
presenta emendamenti alla proposta già avanzata; in altri, come la modifica del cosiddetto
Regolamento Dublino sono presentate proposte nuove.

La politica europea di immigrazione e asilo di ieri, oggi e domani


La Commissione parte dal presupposto che ogni anno arriva nell’Unione Europea, in modo
irregolare, un numero variabile di persone. Una parte di queste persone presenta domanda di
protezione internazionale ma soltanto 1/3 di coloro ai quali la domanda è stata respinta vengono
effettivamente allontanati.
Gli strumenti individuati sono solo in minima parte innovativi poiché vi sono: cooperazione con i
Paesi terzi di origine e di transito per il contenimento delle partenze; rafforzamento della gestione
delle frontiere esterne; intensificazione dell’azione sui rimpatri.

La futuribile politica sulla migrazione legale


Il nuovo Patto conferma la grave lacuna in materia di migrazione legale. Il massimo che si è riusciti
a partorire è la promozione di una consultazione pubblica a seguito della quale valutare possibili
proposte normative. L’assenza di una disciplina dell’Unione Europea in materia di migrazione
economica è tra le principali cause della migrazione irregolare.
Le istituzioni europee hanno invocato l’esigenza di una diversa politica europea di immigrazione,
senza tuttavia che il Consiglio Europeo e il Consiglio dell’Unione Europea abbiano mai voluto
assecondare tali richieste. L’incapacità dell’Unione Europea di produrre una politica credibile per la
gestione del fenomeno migratorio probabilmente è diretta responsabilità dei Governi degli Stati
membri, capaci di condizionare l’orientamento della Commissione.
Sul reinsediamento e l’ammissione umanitaria, le questioni più rilevanti connesse a tali canali di
ingresso sono 2:
1. i numeri: essendo scarse le disponibilità offerte dagli Stati membri;
2. gli effetti: visto che, soprattutto il reinsediamento, non ha nessuna connessione con i flussi
migratori, essendo una misura di solidarietà a favore degli Stati che più di tutti hanno l’onere
dell’accoglienza di sfollati e rifugiati.
Contenimento delle partenze, limitazione dell’ingresso nel territorio e rimpatri
La conferma piena c’è per la politica del contenimento dei flussi attraverso la cooperazione con i
Paesi di origine e di transito. La medesima cooperazione è necessaria anche per garantire l’esecuzione
dei rimpatri, dato che, senza accordi di riammissione nessun provvedimento di allontanamento potrà
essere eseguito.
Diviene strategico, nell’ottica della Commissione, impedire che le persone raggiungano il territorio
degli Stati membri, a meno che non siano autenticamente richiedenti asilo. Per questo è prevista
l’introduzione di un
 meccanismo di pre-ingresso: tutte le persone che arrivano o sono intercettate nel territorio
dell’Unione Europea in posizione irregolare, devono essere trattenute nelle zone di frontiera
per un periodo massimo di dieci giorni, al fine di essere identificate e incanalate nel binario
dei richiedenti protezione o delle persone in situazione irregolare, senza diritto di accedere
al territorio.
È quanto già vigente e applicato in Italia in attuazione dell’approccio hotspot.
 Estensione della procedura accelerata di frontiera: vede la riduzione drastica delle garanzie
procedurali e giurisdizionali.
Due aspetti della procedura di frontiera risaltano all’occhio:
1. La procedura sarà applicata a tutti coloro che provengono da Paesi il cui tasso di
riconoscimento della protezione è inferiore al 20% (si supera dunque il concetto di Paese
sicuro?)
2. In caso di diniego a seguito della procedura di frontiera, gli Stati devono limitarsi ad assicurare
un ricorso giurisdizionale che si esaurisca in un solo grado di giudizio.
Altra rilevante modifica è contenuta nella proposta del “nuovo regolamento procedure”, dalle
notevoli implicazioni per l’ordinamento italiano:
 La contestualità dei provvedimenti di diniego di protezione e di allontanamento: per cui,
anche l’oggetto del ricorso giurisdizionale sarà duplice: un unico ricorso per contestare sia il
diniego di protezione, sia l’allontanamento.

Dublino o non Dublino?


Quando a Dublino, l’intento della Commissione Europea è di chiudere il capitolo e di riaprirne un
altro su nuovi presupposti. Tuttavia, il sistema Dublino rimane nella sostanza. Le regole sulla
determinazione dello Stato competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale saranno
mantenute e contenute nel nuovo regolamento sulla gestione della migrazione e dell’asilo.
Sono 3 le innovazioni rilevanti, 2 delle quali già contenute nella proposta del 2016:
1. Valorizzazione dei legami familiari: ovvero la presenza in uno Stato membro dei fratelli del
richiedente protezione internazionale;
2. Costituzione di legami familiari sorti lungo il viaggio:
3. Valorizzazione dei legami sociali: ovvero il criterio della titolarità di un diploma conseguito
in un Paese membro.
Altre modifiche sono volte a:
 Velocizzare l’esecuzione dei trasferimenti;
 Rafforzare gli obblighi dei richiedenti protezione internazionale;
 Eliminare le cause di trasferimento della competenza in deroga al “criterio base”;
 Ridurre gli spazi di discrezionalità lasciati agli Stati membri (clausola di sovranità da
esercitarsi solo per motivi familiari).

Verso una maggiore libertà di circolazione


Una nota positiva contenuta nel Patto riguarda la possibile estensione della libertà di circolazione dei
cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo (Direttiva 2003/109/CE), inclusi poi,
a partire dal 2011, i beneficiari di protezione internazionale.
La mancanza di un diritto di soggiorno in altri Stati membri fa sì che il Regolamento Dublino non
determini solo lo Stato membro competente per esaminare una domanda di protezione internazionale,
che risulta essere anche quello nel quale la persona deve soggiornare, in quanto Stato responsabile
della protezione accordata. Questo perché ai beneficiari di protezione internazionale non è stata
riconosciuta la libertà di soggiorno in altri Stati membri.
Con il Patto si ha un avanzamento con la riduzione da 5 a 3 anni necessari al fine di ottenere lo status
di soggiornante di lungo periodo per i beneficiari di protezione internazionale.

L’attuazione del principio di solidarietà


Vi sono disposizioni specifiche per coloro che entrano nel territorio di uno Stato membro a seguito
di operazioni di ricerca e soccorso in mare.
Qualsiasi attraversamento di frontiera senza un visto o autorizzazione d’ingresso è qualificato come
irregolare e dunque soggetto all’applicazione del criterio che vede competente lo Stato di primo
arrivo. In base alla proposta, chi entra a seguito di operazioni di ricerca e soccorso in mare viene
sottoposto al meccanismo di pre-ingresso, all’esito del quale la persona:
 È considerata irregolare e deve dunque essere rimpatriata
oppure
 È ammessa nel territorio ed è soggetta al meccanismo di ricollocazione.
L’alternativa proposta è la ricollocazione volontaria in altri Stati membri attraverso l’introduzione di
alcuni correttivi per superare la riluttanza di alcuni Stati membri.
Il sistema dovrebbe poter funzionare grazie alla redazione da parte della Commissione Europea di un
documento di previsione annuale, in modo da stabilire orientativamente quante persone arriveranno
nelle coste meridionali dell’Europa in un determinato anno. Il proposito è quello di attivare gli Stati
membri chiedendo loro la disponibilità ad accogliere una parte delle persone che arriveranno. La
novità riguarda l’offrire agli Stati che non vogliono ammettere alcun richiedente protezione
internazionale, l’alternativa di collaborare come sponsor dei rimpatri. In altre parole:
 Si ammette un richiedente protezione internazionale
oppure
 Si collabora al rimpatrio di una persona irregolare (con diverse modalità alternative: un
contributo finanziario; facendo da interlocutore privilegiato con le autorità dei Paesi terzi
dove le persone devono essere rimpatriate, ciò perché ogni Stato membro, avendo proprie
aree di influenza, ha i propri accordi di riammissione bilaterali). Nel frattempo, la persona
rimane nello Stato di sbarco e se dopo 8 mesi il rimpatrio non è avvenuto, allora vi sarà il
trasferimento del migrante nello Stato membro che fa da sponsor per il rimpatrio. Su questo,
gli Stati generalmente riluttanti si oppongono poiché ritengono tale misura come una
ricollocazione obbligatoria mascherata.

L’auspicio della Commissione Europea è che grazie ad una maggiore capacità di programmazione e
all’innovativo strumento della sponsorship sul rimpatrio, si stemperino le tensioni sul sistema
Dublino, senza più attriti tra gli Stati. Tuttavia, probabilmente se vi è una possibilità che le tensioni
tra gli Stati si attenuino è perché vi sarà nel prossimo futuro una riduzione drastica degli arrivi grazie
alle misure di contenimento dei flussi.
11. Alcune riflessioni su diritti umani e “Global Compact for Safe, Orderly and Regular
Migration”

Introduzione
Il 10 dicembre 2018 a Marrakech è stato adottato il Global Compact for Safe, Orderly and Regular
Migration (chiamato anche Global Compact on Migration), il quale, nel contesto di ribadire la
necessità di rispettare i diritti umani delle persone in movimento, riafferma l’essenza della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Il Global Compact on Migration è uno dei due documenti frutto del processo di negoziazione cui ha
dato avvio la Dichiarazione di New York per i Rifugiati e i Migranti adottata il 19 settembre 2016
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Tale Dichiarazione di New York aveva 2 Allegati:
1. Attribuiva all’UNHCR il compito di redigere un “Global Compact on Refugees” da
presentare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Tale documento è stato approvato il
17 dicembre 2018 con 181 voti favorevoli.
2. Istituiva un negoziato intergovernativo coordinato dall’OIM per redigere un “Global
Compact for Safe, Orderly and Regular Migration” destinato a creare un quadro di
cooperazione internazionale sui migranti e la mobilità umana, riguardante dunque tutti gli
aspetti delle migrazioni internazionali. Tale documento è stato approvato dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite il 19 dicembre 2019 con 152 voti favorevoli.

Il preambolo della Dichiarazione di New York conteneva un’importante affermazione: “i rifugiati e


i migranti hanno gli stessi diritti umani universali e le stesse libertà fondamentali, che devono essere
rispettati, protetti e adempiuti in ogni momento”.

Il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration: genesi e contenuto
Il processo di elaborazione del Global Compact on Migration è stato guidato, in qualità di co-
facilitatori, da Messico e Svizzera.
 Nel 2017 gli Stati Uniti hanno comunicato che avrebbero abbandonato il negoziato sul Global
Compact on Migration, perché l’approccio globale nella Dichiarazione di New York non
sarebbe compatibile con la propria sovranità. In seguito a tale abbandono, l’Unione Europea
ha assunto un ruolo di primo piano, anche se poi vi sono state ulteriori defezioni anche tra
gli stessi suoi Paesi membri.
 Nel 2018 si è tirata indietro l’Australia. Successivamente l’Ungheria e gli altri Paesi del
gruppo di Visegrád. L’Italia fino al 21 novembre 2018 aveva pubblicamente dichiarato di
appoggiare il Patto, ma è venuta successivamente meno. Infatti, il 27 novembre 2018 il
Ministro dell’Interno Matteo Salvini ha dichiarato di essere contrario al Global Compact on
Migration e il 28 novembre 2018 il Premier Giuseppe Conte ha dichiarato che il Governo non
avrebbe partecipato al Vertice di Marrakech riservandosi di aderire o meno al documento
solo quando il Parlamento si sarà pronunciato.
 Nel febbraio 2019 il Parlamento italiano ha deliberato di non sottoscrivere il Global Compact
on Migration.
Il Global Compact on Migration è stato adottato il 10 dicembre 2018 come documento finale della
Conferenza intergovernativa tenutasi a Marrakech. Successivamente, è stato approvato
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 19 dicembre 2018, con 152 voti favorevoli, 5 contrari,
12 astenuti (tra cui dunque l’Italia), e 24 membri delle Nazioni Unite non erano presenti per
partecipare al voto.

Il Global Compact on Migration instaura un quadro cooperativo non giuridicamente vincolante che
intende affrontare la migrazione in tutte le sue dimensioni. Esso si compone di:
 Preambolo: in cui si dichiara che le migrazioni costituiscono una “fonte di prosperità,
innovazione e sviluppo sostenibile all’interno del mondo globalizzato”. Si afferma anche che
“nessun Paese può affrontare da solo le sfide e le opportunità di questo fenomeno globale”.
 10 Principi Guida ispiratori;
 23 Obiettivi: tra essi ricordiamo in particolare l’Obiettivo n° 2 – “Ridurre al minimo i fattori
che costringono le persone a lasciare il loro Paese d’origine”; l’Obiettivo n° 8 – “Salvare
vite umane e stabilire sforzi internazionali coordinati sui migranti dispersi”; l’Obiettivo n°
13 – “Usare la detenzione dei migranti solo come misura ultima”.
 2 Sezioni: di cui 1 dedicata all’attuazione; la 2 dedicata al follow-up, che dovrà effettuarsi
all’interno del Forum internazionale di revisione delle migrazioni in cui gli Stati membri delle
Nazioni Unite, a partire dal 2022, e ogni 4 anni, potranno discutere i risultati conseguiti.

L’Unione Europea ha, come detto prima, acquisito un ruolo di primo piano dopo che gli Stati Uniti
hanno dichiarato che non avrebbero più partecipato ai negoziati, ed ha esercitato una notevole
influenza, sia dal punto di vista formale, sia dal punto di vista sostanziale.
 Punto di vista formale: il Global Compact on Migration mostra analogie con gli strumenti
adottati dall’Unione Europea in attuazione dell’Agenda europea sulla migrazione. In
particolare, il partenariato istituito dalla Comunicazione della Commissione Europea del
2016 prevede la conclusione di Compacts e si inserisce in una tendenza a fare ricorso a
strumenti più snelli rispetto ai Trattati.
 Punto di vista sostanziale: l’Unione Europea ha mirato a sottolineare la differenza tra
migranti e rifugiati; tra migranti regolari e migranti irregolari; e, in generale, si è mostrata
molto più interessata al controllo delle frontiere e ad affermare obblighi di riammissione a
carico degli Stati di origine piuttosto che a riconoscere diritti ai migranti.

Il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration e la tutela dei diritti umani
Il Global Compact on Migration formalmente riserva un grande rilievo ai diritti umani. Al par. 4 del
Preambolo, viene ripresa l’affermazione già contenuta nella Dichiarazione di New York, secondo la
quale “i rifugiati e i migranti hanno gli stessi diritti umani universali e le stesse libertà
fondamentali”, ulteriormente rafforzata dal richiamo ad un “obbligo generale di rispettare,
proteggere e soddisfare i diritti umani di tutti i migranti, indipendentemente dal loro status”. In
aggiunta, al par. 2 del Preambolo sono espressamente richiamati la Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, il Patto internazionale sui diritti
economici, sociali e culturali e gli altri trattati internazionali fondamentali sui diritti umani.
Soffermandosi sull’Obiettivo n° 8 – “Salvare vite umane e stabilire sforzi internazionali coordinati
sui migranti dispersi” è importante affermare quanto ciò prevede: “Ci impegniamo a cooperare a
livello internazionale per salvare vite e prevenire morti e feriti tra i migranti attraverso operazioni
individuali o congiunte di ricerca e salvataggio […] assumendo la responsabilità collettiva di
salvaguardare la vita di tutti i migranti, in accordo con il diritto internazionale.
Sembra particolarmente importante aver dedicato un esplicito obiettivo a questo tema, considerata la
prassi degli ultimi tempi ad opera di alcuni Stati europei, con il colpevole silenzio, se non addirittura
l’esplicito appoggio, della stessa Unione Europea. Ricordiamo ad esempio:
 che dall’operazione italiana di Mare Nostrum si è passati all’operazione Triton nell’ambito
dell’Unione Europea, che riduceva il campo di azione e tralasciava la componente umanitaria
per focalizzarsi sulla sorveglianza delle frontiere;
 come nel febbraio 2017 l’Italia ha concluso il Memorandum con la Libia, incaricata ad
intercettare i migranti in mare e riportarli indietro, nonostante il rischio di torture e abusi nei
centri di detenzione libici;
 come si è assistito ad una crescente ostilità nei confronti delle ONG (adozione del codice di
condotta);
 la chiusura dei porti.
Alla luce di ciò, sembra dunque particolarmente importante quanto indicato nel Global Compact on
Migration, che individua tra le azioni necessarie per rispondere all’Obiettivo n° 8:
 lett. a): sviluppare procedure ed accordi con l’obiettivo primario di tutelare il diritto alla vita
dei migranti, che confermano il divieto di proibire le espulsioni collettive.

Sarebbe stato opportuno un esplicito riferimento anche al divieto di refoulement (come tra
l’altro era nella precedente versione del Patto, ma l’eliminazione nel testo finale sembra essere
stata dovuta alla posizione di alcuni Stati). Il divieto di refoulement, d’altronde, oltre alla
Convenzione di Ginevra, è esplicitamente previsto anche in Trattati sui diritti umani ed è
ripreso in via giurisprudenziale dalla Corte EDU e dal Comitato ONU per i diritti dell’uomo;
infine, secondo la dottrina dominante tale principio ha acquisito rango di diritto
consuetudinario.

 lett. b): rivedere l’impatto delle politiche e delle leggi in materia di migrazione per assicurare
che non aumentino o generino il rischio di scomparsa dei migranti, anche identificando le
rotte pericolose di transito utilizzate dai migranti.

Un’interpretazione “human-rights oriented” di tale disposizione porterebbe al


riconoscimento dell’illegittimità:
 sia delle pratiche di criminalizzazione nei confronti delle ONG;
 sia delle pratiche dei pullbacks, dovuti all’esternalizzazione delle frontiere.

Soffermandosi invece sull’Obiettivo n° 13 – “Usare la detenzione dei migranti solo come misura
ultima”, che riguarda per l’appunto la detenzione dei migranti, esso prevede quanto segue: “Ci
impegniamo a garantire che qualsiasi detenzione nel contesto della migrazione segua un giusto
processo, che non sia arbitraria, che si basi sulla legge, sulla necessità, sulla proporzionalità e sulle
valutazioni individuali, e che sia per il periodo più breve possibile. […] Ci impegniamo inoltre a
dare priorità alternative diverse dalla detenzione.”
Se si effettua un confronto tra l’iniziale previsione del testo e quella contenuta poi nel testo finale del
Patto, risultano alcuni miglioramenti:
 lett. a): necessità che il monitoraggio della detenzione per immigrazione sia condotto da un
organismo indipendente;
 lett. d): sancisce il diritto ad un riesame regolare della misura privativa della libertà
personale.
Tuttavia, rispetto all’iniziale previsione del testo, vi è una sorta di indietreggiamento rispetto alla
questione della detenzione dei minori. Se inizialmente si prevedeva di “porre fine alla pratica della
detenzione dei minori nel contesto della migrazione internazionale”, nel testo finale ci si propone di
“lavorare per porre fine alla pratica della detenzione dei minori nel contesto della migrazione
internazionale.”

Osservazioni conclusive
Nel complesso, il Global Compact on Migration si limita essenzialmente a fare una ricognizione di
diritti già esistenti, e l’opposizione che ha incontrato si giustifica più per ragioni di propaganda
politica che per motivi squisitamente giuridici.
Alcuni punti importanti sono stati eliminati (divieto della detenzione dei minori); tuttavia, nonostante
tali criticità si tratta di un documento importante. Merita, infatti, di essere sottolineato che in tale
documento gli Stati esplicitamente dichiarino: “Ci proponiamo di facilitare una sicura, ordinata e
regolare migrazione”.
Il reale successo di tale strumento dipenderà tuttavia dalla concreta volontà degli Stati di passare dalle
parole ai fatti.
12. Il Decreto Immigrazione e Sicurezza: luci e ombre per il nuovo sistema di accoglienza
e integrazione
Il 21 ottobre 2020 viene pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il D.L. n. 130 (Decreto Immigrazione)15.
Tale Decreto introduce sostanziali modifiche alla previgente disciplina in tema di immigrazione e
sicurezza, intervenendo in particolare sul Decreto Sicurezza (2018) e Decreto Sicurezza bis (2019).
Vediamo per punti tematici per vedere quali sono state le modifiche trattate.

Protezione speciale e convertibilità dei permessi di soggiorno


La scelta del precedente Governo 16 di abolire di fatto la protezione umanitaria, viene superata dal
nuovo Decreto che ne ripristina una forma simile denominata protezione speciale.
Il permesso di soggiorno connesso a questa forma di protezione dura 2 anni. Si prevede inoltre
un’ampia casistica di permessi che, a differenza del passato, possono essere convertiti in permessi di
soggiorno per motivi di lavoro.
Le tipologie di permesso interessate da questa possibilità sono:
 permesso di soggiorno per protezione speciale17;
 permesso di soggiorno per calamità18;
 permesso di soggiorno per cure mediche19;
 permesso di soggiorno per residenza elettiva;
 permesso di soggiorno per acquisizione della cittadinanza o dello stato di apolide;
 permesso di soggiorno per attività sportiva;
 permesso di soggiorno per lavoro di tipo artistico;
 permesso di soggiorno per motivi religiosi;
 permesso di soggiorno per assistenza minori.

Divieto di respingimento in caso di rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti


Il Decreto modifica l’Art. 19 del D. Lgs. n. 286/1998, dal titolo “Divieti di espulsione e di
respingimento. Disposizioni in materia di categorie vulnerabili”.
Nella versione precedente si vietava l’espulsione o il respingimento – oltre nel caso in cui lo straniero
poteva essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, orientamento sessuale, di
religione, di identità di genere, di lingua, di cittadinanza, di opinioni politiche, di condizioni personali
e sociali – solo nel caso in cui il ritorno in patria comportasse il rischio di subire torture per il

15
Chiamato spesso “Decreto Lamorgese” (nome dell’allora Ministra degli Interni).
16
Si fa riferimento al Governo Conte I.
17
Con il Decreto Cutro, il permesso di soggiorno per protezione speciale non può essere convertito in un permesso di
soggiorno per motivi di lavoro.
18
Con il Decreto Cutro il permesso di soggiorno per calamità è limitato alle situazioni “contingenti ed eccezionali” nel
Paese di origine, e non più alla situazione generale di “grave calamità”. Inoltre non può essere convertito in un permesso
di soggiorno per motivi di lavoro.
19
Con il Decreto Cutro il permesso di soggiorno per cure mediche si può ottenere nel caso in cui vi siano “condizioni di
salute derivanti da patologie di particolare gravità, non adeguatamente curabili nel Paese di origine”, mentre prima
occorrevano “gravi condizioni psicofisiche o derivanti da gravi patologie”. Inoltre, anche questo, non può essere
convertito in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
destinatario del provvedimento. Con il D.L. 130, il comma 1.1. dell’Art. 19 viene modificato,
prevedendo un novero più ampio di fattispecie a cui si applica il divieto di respingimento, espulsione
o estradizione, ovvero:
 nel caso in cui sussistano fondati motivi per ritenere che la persona a rischio di espulsione
corra il pericolo di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti qualora
ricorrano obblighi costituzionali o internazionali (precisando che nella valutazione della
sussistenza di tali rischi debba essere accertato se nello Stato di provenienza ricorrano
violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani);
 nel caso in cui esistano fondati motivi per ritenere che l’allontanamento dal territorio
nazionale determini una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e
familiare, tenendo dunque in conto dei vincoli familiari della persona interessata, il suo
effettivo inserimento sociale in Italia. L’espulsione in questo caso si rende necessaria solo per
ragioni di sicurezza nazionale 20. Ciò riprende l’Art. 8 CEDU e Art. 10, comma 3
Costituzione.
In questi casi, si prevede il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale. In generale, ci
sono due modalità per ottenerlo:
1. nel caso in cui un migrante si vede respingere la domanda di protezione internazionale, se
ricorrono i requisiti sopra menzionati, la Commissione Territoriale competente deve
trasmettere gli atti dell’istanza al Questore, il quale rilascia al migrante un permesso di
soggiorno per protezione speciale;
2. nel caso in cui un migrante presenti domanda direttamente al Questore, che può rilasciare il
permesso di soggiorno per protezione speciale, previa acquisizione del parere della
Commissione Territoriale sull’esistenza dei requisiti21.

Disposizioni in materia di trattenimento


Con il D.L. 130/2020 vengono modificate le disposizioni in materia di trattenimento:
 per l’identificazione dei cittadini stranieri irregolarmente presenti sul territorio nazionale;
 per coloro che sono soccorsi nell’ambito di operazioni di salvataggio in mare;
 ai fini dell’esecuzione delle misure di espulsione.22
Il trattenimento dello straniero di cui non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione o il
respingimento alla frontiera è disposto con priorità per coloro che siano considerati una minaccia
per l’ordine e la sicurezza pubblica. Il periodo massimo di trattenimento dello straniero all’interno
di un Centro di Permanenza per Rimpatrio (CPR) non può superare i 90 giorni (prima erano 180
giorni), prorogabili però di 30 giorni nel caso in cui lo straniero sia cittadino di uno Stato con il quale
l’Italia abbia firmato un accordo di riammissione 23.

20
Con il Decreto Cutro questa intera casistica del rispetto della vita privata e familiare viene meno. Pertanto è stata
eliminata. Tuttavia, in ragione degli obblighi costituzionali e internazionali la protezione speciale dovrebbe essere
accordata ugualmente in quanto l’interesse alla vita privata e familiare è protetto sia dall’Art. 8 CEDU che dall’Art. 10,
comma 3 della Costituzione.
21
Con il Decreto Cutro questa seconda modalità è stata eliminata.
22
Con il Decreto Cutro viene introdotta la possibilità di trattenere richiedenti asilo per cui esiste il pericolo di fuga, ma
anche i richiedenti asilo durante la procedura accelerata di esame della domanda di asilo presentata alla frontiera.
23
Con il Decreto Cutro la proroga passa a 45 giorni.
Transito e sosta nel mare territoriale
Con l’Art. 1, comma 2 D.L. 130/2020 viene statuita, in presenza di ragioni di ordine e sicurezza
pubblica, la facoltà per il Ministro dell’Interno, e previa informazione al Presidente del Consiglio dei
Ministri, di limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di
naviglio militare o di navi in servizio governativo. Tali limitazioni e divieti non si applicano nel caso
in cui si stiano svolgendo operazioni di soccorso.
Vengono abrogate le disposizioni riguardanti le sanzioni per il comandante che non abbia rispettato
il divieto o la limitazione di transito nel mare territoriale e la misura della confisca della nave.

Revisione della procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato


Con l’Art. 2 D.L. viene modificato il D. Lgs. 25/2008, attuativo della Direttiva 2005/85/CE
contenente “norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento
e della revoca dello status di rifugiato”. Nello specifico, vengono modificate le norme relative
 all’esame prioritario della domanda dello status di rifugiato: si mira a rendere più rapido e
snello l’esame dell’istanza con particolare fondatezza e possibilità di essere accolta, o che
proviene da soggetti vulnerabili;
 alle procedure accelerate di valutazione della domanda: introdotta per le domande che si
ritengono presentate per scopi strumentali. Rientrano anche le domande presentate da
richiedenti provenienti da Paesi di origine sicuri, o ancora da soggetti sottoposti a
procedimento penale o condannati per uno dei reati che costituiscono causa di rifiuto dello
status di rifugiato o della protezione sussidiaria.

Iscrizione anagrafica per richiedenti asilo


La disposizione reagisce alla sentenza della Corte Costituzionale del 2020 che aveva decretato
l’illegittimità costituzionale del divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo prevista dal
Decreto Sicurezza del 2018. Ora la disposizione prevede che lo straniero, quando sia titolare di
permesso di soggiorno a seguito di richiesta di asilo o detenga una ricevuta che attesti la presentazione
di una richiesta di protezione internazionale, debba essere iscritto all’anagrafe della popolazione
residente. Al richiedente asilo iscritto all’anagrafe viene inoltre rilasciata una carta di identità valida
per tre anni soltanto nel territorio nazionale.

Riforma del sistema di accoglienza e integrazione


Il D.L. 130/2020 introduce una profonda riforma del sistema di accoglienza ed integrazione per i
richiedenti protezione internazionale, riorganizzandola su un assetto a due livelli:
 Primo livello di accoglienza: è destinato ai richiedenti protezione internazionale, e si svolge
su centri governativi (strutture hotspot), che comprende i servizi di accoglienza materiale,
assistenza sanitaria, assistenza sociale e psicologica, mediazione linguistico-culturale, i corsi
di lingua italiana ed i servizi di orientamento legale e al territorio 24. Il primo livello di
accoglienza è finalizzato alle procedure di identificazione e riconoscimento dei migranti.
 Secondo livello di accoglienza: è destinato ai soggetti vulnerabili, beneficiari di protezione
internazionale ed anche ai richiedenti asilo (che prima con i Decreti Sicurezza ne erano
esclusi)25. Tuttavia, questo secondo livello è finalizzato all’integrazione soltanto per i già
beneficiari di protezione internazionale, ed è costituito da servizi di orientamento al lavoro e
formazione professionale. L’introduzione del cosiddetto SAI (Sistema di Accoglienza e
Integrazione) recupera l’approccio del Sistema SPRAR e SIPROIMI, basato sul
coinvolgimento volontario dei Comuni tramite bandi dove l’accoglienza di secondo livello
viene gestita da enti gestori come le cooperative.
Il nuovo D.L. 130/2020 impone che nelle strutture di accoglienza, sia di primo che di secondo livello,
siano assicurati standard adeguati sul piano igienico-sanitario ed abitativo, nel rispetto della Legge.
Il nuovo sistema deve inoltre assicurare ai destinatari il rispetto della loro sfera privata (differenze di
genere, di età, l’unità dei nuclei familiari).
I destinatari al termine del periodo di accoglienza devono essere inseriti in ulteriori programmi di
integrazione, gestiti dalle amministrazioni locali competenti.

Reati commessi nei centri di permanenza per i rimpatri


Il D.L. 130/2020 rivede la regolamentazione dei delitti che vengono commessi nei CPR26, sancendo
che “nei casi di delitti commessi con violenza alle persone o alle cose in occasione o a causa del
trattenimento in uno dei centri di cui al presente Art. o durante la permanenza in una delle strutture
di cui all’Art. 10-ter […] si considera in stato di flagranza ai sensi dell’Art. 382 del codice di
procedura penale colui il quale […] risulta essere autore del fatto e l’arresto è consentito entro 48
ore dal fatto.
Per i reati citati si procede con giudizio direttissimo, ovvero senza udienza preliminare e fase
predibattimentale.

Acquisizione della cittadinanza


Il D.L. 130/2020 interviene sulle modalità di acquisizione della cittadinanza da parte di uno straniero
naturalizzato in Italia, con tempi ridotti da 4 a 3 anni (anche se prima del Decreto Sicurezza era di 2
anni).

24
Con il Decreto Cutro è stata rimossa l’assistenza psicologica, la somministrazione di corsi di lingua italiana e i servizi
di orientamento legale e al territorio.
25
Con il Decreto Cutro sono nuovamente esclusi i richiedenti asilo dal Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI) e
dovranno essere accolti nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). È prevista una deroga solo per i richiedenti che
entrano in Italia in attuazione di protocolli sui corridoi umanitari e per le categorie vulnerabili.
26
Con il Decreto Cutro si amplia l’applicazione considerando anche i reati commessi nei centri di prima accoglienza, nei
centri temporanei di accoglienza oppure nelle strutture afferenti al sistema di accoglienza e integrazione.
Una valutazione di insieme
Il D.L. 130/2020 introduce numerosi elementi di novità in materia di immigrazione, anche positivi
come:
 L’estensione delle fattispecie di permesso di soggiorno convertibile in permesso per motivi di
lavoro;
 L’obbligo di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo nel luogo di residenza, che consente
ai soggetti interessati dal provvedimento di tornare ad usufruire di servizi dai quali restavano
finora esclusi;
 Il divieto di rimpatrio per chi abbia ormai conseguito un livello di vita stabile in Italia, fatte
salve le eccezioni legate alla sicurezza nazionale;
 La revisione del sistema di accoglienza, che prevede una serie complementare di servizi a
favore delle categorie di migranti interessati.
Più problematica è la disciplina di acquisizione della cittadinanza che non torna alla normativa
precedente dei Decreti Sicurezza; inoltre, manca tuttavia una visione complessiva del processo di
accoglienza che preveda una continuità di servizi per i soggetti che ne abbiano diritto dal momento
del primo ingresso sul territorio nazionale fino ad una effettiva integrazione nel Paese.

Ulteriori novità del Decreto Cutro


In materia di espulsione e ricorsi, con l’Art. 9, comma 3 del Decreto Cutro è stato abrogato il
comma 2 dell’Art. 12 DPR 394/1999 che prevedeva che, nel caso in cui le autorità avessero rifiutato
la domanda di permesso di soggiorno, il Questore concedeva allo straniero un termine di massimo 15
giorni lavorativi per presentarsi al posto di polizia della frontiera e lasciare volontariamente il
territorio dello Stato e, in mancanza di ciò, si sarebbe proceduto all’espulsione. Adesso, invece, gli
stranieri sono destinatari direttamente di un provvedimento di espulsione. Con tale abrogazione si
viola il diritto dello straniero a far valere in giudizio le ragioni che si oppongono all’espulsione prima
della sua esecuzione (Art. 1 Protocollo n. 7 CEDU). Infatti, con la normativa previgente,
nell’intervallo dei 15 giorni lavorativi, lo straniero poteva fare ricorso al TAR o alla sezione
specializzata e presentare la domanda di sospensiva.
In materia di programmazione dei flussi, in luogo della programmazione dei flussi attraverso il
documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio
dello Stato e del Decreto Flussi, il Decreto Cutro prevede l’adozione di un unico decreto per il
triennio 2023-2025 con cui si definiscono sia i criteri per la regolazione dei flussi che le quote di
ingresso. Viene consentito l’ingresso e il soggiorno legale, al di fuori delle quote, a favore:
 degli stranieri che partecipano a programmi di istruzione e formazione professionale e civico-
linguistica nei Paesi di origine;
 dei cittadini di Paesi con i quali l’Italia ha sottoscritto intese o accordi in materia di rimpatrio;
 degli stranieri titolari di un permesso di soggiorno per motivi di studio e formazione che
chiedono la conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

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