DIRITTI UMANI
a cura di
Luca Mezzetti e Caterina Drigo
In copertina: Cueva de las Manos, Parco Nazionale Perito Moreno, Provincia di Santa Cruz, Argentina
ISBN 978-88-3379-xxx-x
Realizzazione editoriale
Via A. Gherardesca
56121 Pisa
Responsabile di redazione
Gloria Giacomelli
Fotolito e Stampa
Industrie Grafiche Pacini
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume /fascicolo di periodico dietro paga-
mento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.
INDICE
1
DIGNITÀ
Biodiritto...................................................................................................................... » 31
di Anna Camilla Visconti
1. Introduzione............................................................................................................ » 31
2. L’inizio della vita e l’interruzione della gravidanza................................ » 32
3. La procreazione medicalmente assistita nel prisma
della giurisprudenza.................................................................................................. » 34
4. Maternità surrogata.............................................................................................. » 40
5. Fine vita.................................................................................................................... » 44
6. Il transessualismo: dall’identità personale all’identità di genere....... » 49
7. Cenni conclusivi.................................................................................................... » 55
2
LIBERTÀ
3
GIUSTIZIA
4
UGUAGLIANZA E SOLIDARIETÀ
Salute............................................................................................................................. » 603
di Anna Camilla Visconti
1. Premessa................................................................................................................... » 603
2. Sistema convenzionale di tutela e diritto alla salute................................ » 607
2.1. Consenso informato..................................................................» 607
2.2. Riservatezza dei dati personali relativi alla salute....................» 609
2.3. Accesso a trattamenti sperimentali...........................................» 613
2.4. Salute mentale e il c.d. test Osman...........................................» 616
2.5. Diritto alla salute dei detenuti...................................................» 617
2.5.1. Detenzione e salute mentale..................................................» 619
2.6. Salute e stranieri: discriminazioni per ragioni di salute............» 623
2.7. Tutela alla salute come limite al potere di espulsione...............» 624
3. La mobilità sanitaria nello spazio giuridico europeo.............................. » 627
5
LAVORO E PROPRIETÀ
Lavoro............................................................................................................................ » 715
di Cinzia Carta e Giulio Centamore
1. Diritto del lavoro e protezione dei diritti umani....................................... » 715
2. Il diritto al lavoro.................................................................................................. » 718
3. Il diritto del lavoratore al rispetto della vita privata e familiare......... » 722
3.1. La tutela della riservatezza nell’ambito lavorativo........................ » 722
XX Diritti Umani
6
CITTADINANZA
Sommario: 1. Il diritto alla vita quale valore apicale degli ordinamenti giuridici. – 2. L’architet-
tura dell’art. 2 CEDU. – 3. Il divieto della pena di morte. – 3.1. Il divieto di estradizione ed espulsione
in presenza di pericolo di morte. – 4. Gli obblighi negativi. – 4.1. L’uso legittimo della forza letale. –
4.1.1. a) la difesa di ogni persona contro la violenza illegale. – 4.1.2. b) lo scopo di eseguire un arresto
o di impedire l’evasione di una persona legittimamente detenuta. – 4.1.3. c) la repressione legale di una
sommossa o di una insurrezione. – 5. Gli obblighi postivi. – 5.1. Gli obblighi positivi di carattere ma-
teriale. – 5.1.1. Le misure di carattere generale. – 5.1.2. Le misure di prevenzione nella pianificazione,
organizzazione e conduzione delle operazioni di polizia. – 5.1.3. Le misure di protezione di persone
potenzialmente soggette ad aggressione. – 5.1.4. Le misure di prevenzione di morti accidentali in am-
bito ambientale o industriale. – 5.1.5. Le misure di prevenzione di morti accidentali in ambito sanitario.
– 5.2. Gli obblighi positivi di carattere procedurale. – 5.2.1. Il requisito dell’indipendenza. – 5.2.2. Il
requisito dell’adeguatezza. – 5.2.3. Il requisito del ragionevole grado di celerità. – 5.2.4. Il requisito
della trasparenza e della pubblicità. – 5.2.5. Gli obblighi procedurali sui decessi colposi. – 6. I confini
della vita umana: inizio e fine vita (rinvio).
mento giuridico interno, deve essere intesa alla luce del particolare contesto storico nel quale
è sorta la Convezione, quando molti Stati avevano ritenuto compatibile tale pena con gli stan-
dard internazionali dell’epoca. Tale eccezione mirava infatti a circoscrivere l’uso legittimo
del potere statale di comminare legalmente la morte.
La disposizione in esame è stata tuttavia oggetto di un’interpretazione evolutiva, che
ne ha modificato sostanzialmente la portata, rendendo oggi la pena di morte vietata in qualsi-
asi circostanza. L’esegesi dell’art. 2, par. 1, CEDU deve infatti essere condotta in combinato
disposto con l’art. 1 del Protocollo addizionale n. 6, adottato dagli Stati nel 1983, che vieta
il ricorso alla pena di morte in tempo di pace, e con l’art. 1 del Protocollo addizionale n. 13,
sottoscritto dagli Stati nel 2002, che estende tale divieto anche in tempo di guerra.
La Corte di Strasburgo è venuta per la prima volta a pronunciarsi sulla pena capitale
nella sentenza Soering c. Regno Unito del 1989, in cui ha statuito, seppur sulla base dell’art. 3
della Convenzione, che l’estradizione di un cittadino tedesco accusato di omicidio verso gli Sta-
ti Uniti, paese nel quale avrebbe rischiato di essere sottoposto ad una condanna a morte, costitu-
isce violazione del divieto di tortura, visto il lungo periodo che solitamente i condannati devono
trascorrere nel braccio della morte prima dell’esecuzione. In questo caso la Corte non considera
la pena di morte vietata in sé e per sé, ma solo perché integrante una forma di tortura, stante la
c.d. sindrome del corridoio della morte, in grado di generare condizioni di angosce e di crescen-
te tensione nei confronti del condannato (C. EDU, Soering c. Regno Unito, del 7.07.1989, par.
103 e 111; conforme C. EDU, Kaboulov c. Ucraina, del 19.11.2009, par. 103-115).
È tuttavia nel caso Öcalan c. Turchia del 2003 che la Corte EDU si trova a dover
valutare la legittimità della pena capitale con riferimento ad uno Stato membro del Consiglio
d’Europa. Anche in questa ipotesi i giudici di Strasburgo, con un escamotage processuale,
fanno discendere l’illegittimità della pena di morte, giacché inflitta da un tribunale non indi-
pendente ed imparziale. L’accertata violazione dell’art. 6 della Convenzione conduce così la
Corte a ritenere violato anche l’art. 3, in quanto l’applicazione della pena capitale attraverso
una sentenza illegittima si traduce in un trattamento inumano e degradante per colui che la
subisce (C. EDU, Öcalan c. Turchia, del 12.03.2003, par. 169, 207 e 213; in senso conforme
C. EDU, GC, Öcalan c. Turchia, del 12.05.2005, par. 164).
Il vero leading case, nel quale è però possibile rintracciare da parte della Corte di
Strasburgo il convincimento circa l’intervenuto emendamento dell’art. 2 della Convenzione,
è rappresentato dalla sentenza Al-Saadoon e Mufdhi c. Regno Unito del 2010, nella quale
si afferma:
It can be seen, therefore, that the Grand Chamber in Öcalan did not exclude that Ar-
ticle 2 had already been amended so as to remove the exception permitting the death
penalty. Moreover, as noted above, the position has evolved since then. All but two
of the member States have now signed Protocol No. 13 and all but three of the States
which have signed it have ratified it. These figures, together with consistent State
practice in observing the moratorium on capital punishment, are strongly indicative
that Article 2 has been amended so as to prohibit the death penalty in all circumstan-
ces. Against this background, the Court does not consider that the wording of the
second sentence of Article 2 § 1 continues to act as a bar to its interpreting the words
“inhuman or degrading treatment or punishment” in Article 3 as including the death
penalty (compare Soering, cited above, §§ 102-04) (C. EDU, Al-Saadoon e Mufdhi c.
Regno Unito, del 2.3.2010, par. 120).
6 Luca Fanotto
Con tale pronuncia la Corte ha statuito come il combinato disposto dell’art. 2 CEDU e
dell’art. 1 Protocollo addizionale n. 13 CEDU abbia definitivamente sancito la illiceità della
pena di morte in qualsiasi circostanza.
L’art. 2, par. 2, CDFUE ha recepito quanto raggiunto a livello convenzionale, impo-
nendo così alle Istituzioni e agli Stati membri dell’UE l’osservanza di due diversi obblighi:
a) quello di non comminare o eseguire la pena capitale (obbligo negativo) e b) quello di
sanzionare penalmente l’uccisione volontaria di qualsiasi persona (obbligo positivo). L’art.
2 CEDU con i suoi protocolli addizionali e l’art. 2 CDFUE risultano perfettamente allineati
e conformi alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri dell’Unione europea, che
hanno proceduto all’integrale abolizione della pena di morte nei rispettivi ordinamenti.
nienti da soggetti diversi dallo Stato, senza che il Paese di destinazione sia in grado di offrire
un’adeguata protezione (C. EDU, Ahmed c. Austria, del 27.11.1996, par. 43).
La Corte, in pendenza di un procedimento e in considerazione di un rischio irrepara-
bile al diritto alla vita, ha talvolta dato indicazione dell’applicazione di misure cautelari nei
confronti dello Stato convenuto, sostanziatesi nella richiesta di non procedere all’espulsione
o all’estradizione della persona (C. EDU, Mamatkulov e Askarov c. Turchia, del 4.2.2005,
par. 103-105; C. EDU, Ben Khemais c. Italia, del 24.2.2009, par. 80-83; C. EDU, Trabelsi c.
Italia, del 13.4.2010, par. 63-66).
Questa giurisprudenza risulta incorporata nella previsione di cui all’art. 19, par. 2,
CDFUE, secondo il quale è stabilito che «Nessuno può essere allontanato, espulso o estra-
dato verso uno Stato in cui esiste il rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla
tortura o ad altre pene o trattamenti inumani e degradanti».
In primo luogo, l’elenco delle eccezioni, previste dall’art. 2, par. 2, CEDU, deve es-
sere considerato tassativo e di stretta interpretazione (C. EDU, GC, McCann e altri c. Regno
Unito, del 27.9.1995, par. 149; C. EDU, Andronicou e Constantinou c. Cipro, del 9.10.1997,
par. 171; C. EDU, Salman c. Turchia, del 27.6.2000, par. 97; C. EDU, McKerr c. Regno Uni-
to, del 4.5.2001, par. 108; C. EDU, GC, Nachova e altri c. Bulgaria, del 6.7.2005, par. 94).
In secondo luogo, la «necessità» deve essere interpretata in termini assoluti e ancor
più rigorosi rispetto alla «necessità di una società democratica», che legittima la compres-
sione dei diritti di cui al par. 2 degli articoli da 8 a 11 CEDU (C. EDU, GC, Ramshai e altri
c. Paesi Bassi, del 15.05.2007, par. 287; C. EDU, Cangöz e altri c. Turchia, del 26.4.2016,
par. 113). La presenza di altri mezzi per il raggiungimento del risultato esclude come l’uso
della forza possa qualificarsi come necessario (C. EDU, GC, Nachova e altri c. Bulgaria,
del 6.7.2005, par. 107). Nel caso in cui gli Stati siano chiamati, in situazioni di carattere
eccezionale, a fare delle valutazioni di opportunità strategica in un ristrettissimo margine di
tempo, come ad esempio in un’operazione antiterrorismo, il requisito dell’assoluta necessità
è tuttavia derogabile (C. EDU, Finogenov c. Russia, del 20.12.2011, par. 211-216).
In terzo luogo, accanto al limite della stretta necessità deve essere aggiunto quello
della proporzionalità tra l’uso della forza e l’importanza dei beni da difendere (C. EDU, GC,
Giuliani e Gaggio c. Italia, del 24.3.2011, par. 214). Il test di proporzionalità deve essere
condotto ex ante, sulla base di quanto ragionevolmente prevedibile al momento della realiz-
zazione dell’azione (C. EDU, GC, McCann e altri c. Regno Unito, del 27.9.1995, par. 200;
C. EDU, Bubbins c. Regno Unito, del 17.06.2005, par. 139).
altri (C. EDU, Bubbins c. Regno Unito, del 17.06.2005, par. 139; C. EDU, Huohvanainen c.
Finlandia, del 24.09.2007, par. 97). Nel caso Giuliano e Gaggio c. Italia del 2011, la Corte,
ritenendo legittima la condotta del carabiniere che ha sparato contro un giovane manifestan-
te, ha affermato come:
L’uso della forza da parte di agenti dello Stato per raggiungere uno degli obiettivi
enunciati nel paragrafo 2 dell’art. 2 della Convenzione può essere giustificato ai sen-
si di detta disposizione quando sia fondato su un convincimento onesto e ritenuto, a
giusto titolo, valido all’epoca dei fatti, ma rilevatosi erroneo in seguito (C. EDU, GC,
Giuliani e Gaggio c. Italia, del 24.03.2011, par. 178).
Qualora non sia possibile una verifica sulla sussistenza di dati concreti, fondanti il con-
vincimento della necessità dell’uso della forza da parte dell’autorità, e ricorrano invece gli
estremi della scriminate putativa, risulterà fondamentale la valutazione sulla proporzionalità
della reazione dell’agente rispetto al pericolo che erroneamente ha ritenuto di dover fronteggia-
re (C. EDU, Everim Öktem c. Turchia, del 4.11.2008, par. 49; C. EDU, Juozaitiene e Bikulčius
c. Lituania, del 24.4.2008, par. 82; C. EDU, Dalakov c. Russia, del 16.2.2016, par. 61-63).
È da osservare come lo scrutinio della Corte sui presupposti soggettivi e oggettivi
dell’esimente risulti molto rigoroso (C. EDU, Aydan c. Turchia, del 12.3.2013, par. 81-83) e
si estenda oltre la condotta dell’agente in sé considerata, per andare anche a valutare, come
si vedrà con riferimento agli obblighi positivi, la pianificazione, l’organizzazione e il con-
trollo dell’operazione statale (C. EDU, GC, McCann e altri c. Regno Unito, del 27.9.1995,
par. 194; C. EDU, Ergi c. Turchia, del 28.7.1998, par. 79-81; C. EDU, Finogenov c. Russia,
del 20.12.2011, par. 209) e la chiarezza del quadro giuridico normativo ed amministrativo
nazionale che definisce le circostanze dell’uso della forza e delle armi (C. EDU, GC, Nacho-
va e altri c. Bulgaria, del 6.7.2005, par. 96; C. EDU, Bakan c. Turchia, del 12.6.2007, par.
49), come nel caso delle operazioni militari, settore di applicazione della norma in esame (C.
EDU, Issaieva c. Russia, del 24.2.2005, par. 189-191).
secondo paragrafo dell’art. 2 CEDU, l’uso della forza deve essere l’unica modalità per poter
effettuare l’arresto o impedire la fuga della persona (requisito della assoluta necessità) e deve
sussistere un reale pericolo per la vita degli agenti (requisito della proporzionalità) (C. EDU,
Wasilewska e Kalucka c. Polonia, del 23.2.2010, par. 53; C. EDU, Guerdner e altri c. Francia,
del 17.04.2014, par. 63).
Sul versante degli obblighi positivi, la Corte di Strasburgo verifica, da un lato, la
compatibilità tra il diritto alla vita e le norme nazionali che disciplinano l’uso della forza
letale allo scopo di effettuare arresti o impedire evasioni (C. EDU, Putintseva c. Russia, del
10.05.2012, par. 64-67) e, dall’altro, se la pianificazione e la conduzione dell’arresto siano
state condotte con attribuzione di priorità alla tutela della vita umana (C. EDU, GC, Nachova
e altri c. Bulgaria, del 6.7.2005, par. 103-105).
The applicant complained in addition that the respondent State’s failure to warn and
advise her parents or monitor her health prior to her diagnosis with leukaemia in
October 1970 had given rise to a violation of Article 2 of the Convention.
In this connection, the Court considers that the first sentence of Article 2 § 1 enjoins
the State not only to refrain from the intentional and unlawful taking of life, but also
to take appropriate steps to safeguard the lives of those within its jurisdiction (cf. the
Court’s reasoning in respect of Article 8 in the Guerra and Others v. Italy judgment of
19 February 1998, Reports 1998-I, p. 227, § 58, and see also the decision of the Com-
mission on the admissibility of application no. 7154/75 of 12 July 1978, Decisions and
Reports 14, p. 31). It has not been suggested that the respondent State intentionally
sought to deprive the applicant of her life. The Court’s task is, therefore, to determine
whether, given the circumstances of the case, the State did all that could have been
required of it to prevent the applicant’s life from being avoidably put at risk (C. EDU,
L.C.B. c. Regno Unito, del 9.6.1998, par. 36)
Tali prescrizioni hanno una natura alquanto articolata e possono essenzialmente essere
classificate in due categorie: a) gli obblighi positivi di carattere materiale, che impongo di adot-
tare tutte le misure atte a prevenire ed evitare un pericolo per la vita; b) gli obblighi positivi di
carattere procedurale, che riguardano gli atti di accertamento delle responsabilità individuali
che uno Stato deve intraprendere nel caso di constatazione di una lesione al diritto alla vita.
Kaya c. Turchia, del 19.2.1998, par. 8; C. EDU, GC, Ogur c. Turchia, del 29.5.1999, par.
73), ma anche quelle in cui l’autore sia un privato (C. EDU, Osman c. Regno Unito, del
28.10.1998, par. 115; C. EDU, Paul e Audrey Edwards c. Regno Unito, del 14.5.2002, par.
57; C. EDU, Talpis c. Italia, del 2.3.2017, par. 109-110) o un soggetto non identificato (C.
EDU, Ergi c. Turchia, del 28.7.1998, par. 78; C. EDU, Yasa c. Turchia, del 2.9.1998, par. 97;
C. EDU, Akkoc c. Turchia, del 10.10.2000, par. 79).
La previsione di misure meramente risarcitorie è stata invece giudicata non sufficiente
ai fini della tutela del diritto alla vita, nel caso in cui lo stesso sia leso da una condotta dolosa
(C. EDU, Fadime e Turan Karabulut c. Turchia, del 25.5.2010, par. 39), mentre la codifica-
zione di esimenti è stata ritenuta compatibile, purché la loro efficacia circoscriva l’uso della
forza letale al rispetto delle condizioni dell’assoluta necessità e della stretta proporzionalità
(C. EDU, Beyazgül c. Turchia, del 22.9.2009, par. 50-58; C. EDU, Karandja c. Bulgaria, del
7.10.2010, par. 56-60). La Corte ha censurato, infatti, norme statali atte ad impedire l’identi-
ficabilità o l’impunità degli agenti (C. EDU, Ataykaya c. Turchia, del 22.7.2014, par. 52-54).
Con riferimento alle condotte colpose, la Corte di Strasburgo, al contrario, ha statuito
che non sussista necessariamente un obbligo di incriminazione, risultando sufficiente, come
nel caso della responsabilità medica, un adeguato strumentario civilistico o disciplinare ed
un efficace sistema giurisdizionale in grado di accertare la colpa e condannare al risarcimento
del danno (C. EDU, GC, Calvelli e Ciglio c. Italia, del 17.1.2002, par. 51; C. EDU, Lazza-
rini e Ghiacci c. Italia, del 7.11.2002, par. 1; C. EDU, GC, Vo c. Francia, del 8.7.2004, par.
90-91; C. EDU, G.N. e Altri c. Italia, del 1.12.2009, par. 82; C. EDU, Oyal c. Turchia, del
23.3.2010, par. 70-72; C. EDU, Gray c. Germania, del 22.5.2014, par. 94).
Nelle ipotesi di colpa grave e cosciente, la Corte ha invece valutato più adeguato il
ricorso alla sanzione penale, al fine di prevenire la materializzazione di rischi incombenti
sulla tutela della vita, soprattutto con riferimento a quelle situazioni di pericolo, come ad
esempio nelle attività industriali o militari, soggette al controllo delle autorità pubbliche (C.
EDU, GC, Öneryildiz c. Turchia, del 20.11.2004, par. 93-96; C. EDU, Budayeva e altri c.
Russia, del 28.3.2008, par. 140-142; C. EDU, Kolyadenko e altri c. Russia, del 28.2.2012,
par. 190-191; C. EDU, Iliya Petrov c. Bulgaria, del 24.4.2012, par. 72; C. EDU, Mikhno c.
Ucraina, del 1.9.2016, par. 145).
Turchia, del 25.2.2014, par. 106-113; C. EDU, Cangöz e altri c. Turchia, del 26.4.2016, par.
107-124; C. EDU, Abdurashidova c. Russia, del 8.4.2010, par. 79-82).
Agli agenti devono essere fornite istruzioni sufficientemente chiare (C. EDU, Leo-
nidis c. Grecia, del 8.1.2009, par. 65; C. EDU, Ölmez c. Turchia, del 9.11.2010, par. 70),
che impongano l’uso delle armi come extrema ratio (C. EDU, Juozaitienė Bikulčius, del
24.4.2008, par. 82-83; C. EDU, Golubeva c. Russia, del 17.12.2009, par. 99-103), anche
alla luce dei rilevanti standard internazionali quali gli UN Basic Principles on the Use of
Force and Firearms by Law Enforcement Officials (C. EDU, GC, Makaratzis c. Grecia, del
20.12.2004, par. 59; C. EDU, Tagayeva e altri c. Russia, del 13.4.2017, par. 592-599). La
Corte ha chiarito, ad esempio, che l’apertura del fuoco debba essere preceduta, se possibile,
da spari di avvertimento in aria e dall’intimazione ad arrendersi (C. EDU, Kallis e Androulla
Panayi c. Turchia, del 27.9.2009, par. 62), e ha affermato che a tali risultati si possa pervenire
anche per via esegetica, attraverso un adeguamento delle norme nazionali a principi e valori
a cui è ispirata la Convenzione (C. EDU, Bakan c. Turchia, del 12.6.2007, par. 51; C. EDU,
Putintseva c. Russia, del 10.5.2012, par. 66).
L’art. 2 della Convenzione possa, in talune circostanze ben definite, porre a carico
dell’autorità l’obbligo positivo di adottare preventivamente misure di ordine pratico
per proteggere l’individuo la cui vita sia minacciata da comportamenti criminosi di
altri (C. EDU, GC, Osman c. Regno Unito, del 28.10.1998, par. 115).
Tale obbligo non è tuttavia imposto in modo incondizionato ed irragionevole nei con-
fronti delle autorità statali, ma si configura in «circostanze ben definite» (C. EDU, Osman c.
Regno Unito, del 28.10.1998, par. 115). La Corte osserva come esso non debba necessaria-
mente diventare per lo Stato un «fardello insopportabile» (C. EDU, Choreftakis e Choreftaki
c. Grecia, del 17.1.2012, par. 46), ma debba al contrario essere circostanziato tenendo conto:
a) della prevedibilità degli atti lesivi a danno del singolo (C. EDU, O’Keeffe c. Irlanda, del
24.1.2014, par. 161-162); b) della evitabilità dell’evento (C. EDU, Bljakaj e altri c. Croazia,
del 18.9.2014, par. 124); c) della ragionevolezza delle misure da adottare per impedire il
verificarsi del rischio (C. EDU, Kontrovà c. Slovacchia, del 13.5.2007, par. 52-55; C. EDU,
Maiorano e altri c. Italia, del 15.12.2009, par. 105); d) della verifica di compatibilità delle
misure impeditive con la limitazione dei poteri coercitivi dello Stato (C. EDU, Opuz c. Tur-
chia, del 9.6.2009, par. 144).
La giurisprudenza di Strasburgo nella valutazione delle misure da parte delle autorità
statali considera sia quelle adottate ad hoc (allontanamento del marito violento C. EDU,
Kurt c. Austria, del 4.7.2019, par. 76; cure mediche e ritiro dell’arma durante il servizio
militare C. EDU, Yabansu altri c. Turchia, del 12.11.2012, par. 92-99; rintraccio di persona
rapita C. EDU, Turluyeva c. Russia, del 20.6.2013, par. 97, C. EDU, Olewnik-Cieplińska e
Olewnik c. Polonia, del 5.9.2019, par. 131; protezione in zone di conflitto C. EDU, Mahmut
Kaya c. Turchia, del 28.3.2000, par. 88; protezione dei detenuti in carcere: da aggressioni
14 Luca Fanotto
di altri detenuti C. EDU, Paul e Audrey Edwards c. Regno Unito, del 14.3.2002, par. 56,
dal suicidio C. EDU, Keenan c. Regno Unito, del 3.4.2001, par. 99, con prestazione di cure
mediche adeguate C. EDU, Tarariyeva c. Russia, del 14.12.2006, par. 88; protezione dei
testimoni in procedimenti penali C. EDU, Van Colle c. Regno Unito, del 12.11.2012, par. 88)
sia quelle di carattere generale riferite agli obblighi di incriminazione e all’efficacia preven-
tiva del sistema penale complessivamente considerato (omicidio commesso da detenuti in
congedo carcerario C. EDU, GC, Mastromatteo c. Italia, del 24.10.2002, par. 69; omicidio
da parte dell’ufficiale di polizia fuori servizio C. EDU, Gorovenky e Bugara c. Ucraina, del
12.1.2012, par. 39; omicidio dell’avvocato da parte del marito mentalmente disturbato della
cliente C. EDU, Bljakaj e altri c. Croazia, del 18.9.2014, par. 121).
The Court considers that this obligation must be construed as applying in the context
of any activity, whether public or not, in which the right to life may be at stake, and a
fortiori in the case of industrial activities, which by their very nature are dangerous,
such as the operation of waste-collection sites (C. EDU, GC, Öneryildiz c. Turchia,
del 30.11.2004, par. 71).
positivi derivanti dall’art. 2 CEDU, nel caso in cui questo abbia comunque provveduto a ga-
rantire elevati standard professionali tra gli operatori della salute e per la protezione della vita
delle persone (C. EDU, Powell c. Regno Unito, del 4.5.2000, par. 1; C. EDU, Byrzykowski
c. Polonia, del 27.6.2006, par. 104; C. EDU, Dodov c. Bulgaria, del 17.1.2008, par. 82; C.
EDU, Kudra c. Croazia, del 18.12.2012, par. 102).
La responsabilità dello Stato emerge nel caso in cui si dimostri la negazione dell’as-
sistenza sanitaria messa a disposizione della popolazione in generale (C. EDU, GC, Cipro c.
Turchia, del 10.5.2001, par. 219; C. EDU, Nitecki c. Polonia, del 21.3.2002, par. 1; C. EDU,
Hristozov e altri c. Bulgaria, del 13.11.2012, par. 106), o il rifiuto di prestazione di cure sal-
vavita in situazioni di emergenza (C. EDU, Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk contro Turchia,
del 9.4.2013, par. 96-97) o, ancora, la disfunzione sistemica o strutturale nei servizi ospeda-
lieri (C. EDU, Asiye Genç c. Turchia, del 27.1.2015, par. 80; C. EDU, Aydoğdu v. Turchia,
del 30.8.2016, par. 88).
Affinché la Corte possa accertare la sussistenza di un rifiuto di accesso alla prestazio-
ne in emergenza di cure salvavita, devono essere soddisfatti complessivamente alcuni fattori
(C. EDU, GC, Lopes de Sousa Fernandes c. Portogallo, del 19.12.2017, par. 191-196): a) gli
atti e le omissioni del personale sanitario devono andare oltre il semplice errore o la negli-
genza medica in quanto, in violazione dei loro obblighi professionali, hanno negato un tratta-
mento medico nella consapevolezza che sarebbe stato fondamentale per la salvaguardia della
vita della persona; b) la disfunzione contestata deve essere obiettivamente e autenticamente
identificabile come sistemica o strutturale; c) deve sussistere un legame tra la disfunzione
contestata e il danno subito; d) la disfunzione deve derivare dall’incapacità dello Stato di
adempiere al proprio obbligo positivo di fornire un quadro normativo in senso lato.
La Corte ha sottolineato come l’art. 2 CEDU non contempli il diritto ad ottenere deter-
minati trattamenti medici (C. EDU, Hristozov e altri c. Bulgaria, del 13.11.2012, par. 108),
ma ha anche previsto per particolari soggetti, come nel caso dei detenuti (C. EDU, Tekin e
Arslan c. Belgio, del 5.9.2017, par. 83; C. EDU, Aktaş c. Turchia, del 24 aprile 2003, par.
294) e delle persone vulnerabili (C. EDU, Renolde c. Francia, del 16.10.2008, par. 84; C.
EDU, Hiller c. Austria, del 22.11.2016, par. 48), delle specifiche attenzioni, avendo lo Stato
in tali circostanze la responsabilità diretta del loro benessere (C. EDU, Slimani c. Francia,
del 27.7.2004, par. 27; C. EDU, Kats e altri c. Ucraina, del 18.12.2008, par. 104; C. EDU,
GC, Centro per le risorse legali per conto di Valentin Câmpeanu c. Romania, del 17.7.2014,
par. 131 e 143-144). Tuttavia, è stato altresì affermato come non possa essere tratto dalla
Convenzione un obbligo generale di rilascio dei detenuti per motivi di salute (C. EDU, Dzie-
ciak c. Polonia, del 9.12.2008, par. 91).
to ensure that the rights guaranteed under the Convention are not thoretical or illuso-
ry but pratical and effective (C. EDU, İlhan c. Turchia, del 27.6.2000, par. 91).
Originariamente, tali obblighi erano stati congegnati in relazione all’uso della forza
letale da parte di agenti statali, ritenendo il divieto generale di uccisioni arbitrarie privo di
efficacia se non sorretto da una procedura atta a rivedere la liceità dell’uso della forza, nella
forma di una indagine ufficiale (C. EDU, McCann e altri c. Regno Unito, del 27.9.1995, par.
161; C. EDU, Kaya c. Turchia, del 19.2.1998, par. 86).
Successivamente, questo obbligo è stato esteso ad una varietà di situazioni (violenza
tra detenuti C. EDU, Paul e Audrey Edwards c. Regno Unito, del 14.3.2002, par. 69; violenza
domestica C. EDU, Opuz c. Turchia, del 9.6.2009, par. 150; omicidio di persona che godeva
del beneficio della liberazione anticipata C. EDU, Maiorano e altri c. Italia, del 15.12.2009,
par. 123), in cui un individuo abbia subito lesioni potenzialmente letali, o sia morto o scom-
parso in circostanze violente o sospette (C. EDU, GC, Tashin Acar c. Turchia, del 8.4.2004,
par. 226; C. EDU, Iorga c. Moldavia, del 23.3.2010, par. 26; C. EDU, Merkulova c. Ucraina,
del 3.3.2011, par. 49), indipendentemente dal fatto che i presunti responsabili siano agenti
statali o privati o sconosciuti (C. EDU, Tanrikulu c. Turchia, del 8.7.1999, par. 103; C. EDU,
Denis Vasilyev c. Russia, del 17.12.2009, par. 99; C. EDU, GC, Mustafa Tunç and Fecire
Tunç c. Turchia, del 14.4.2015, par. 171).
La Corte ha precisato come l’art. 2 CEDU debba essere considerato la fonte in base
alla quale lo Stato debba disporre di un efficace ed indipendente sistema giudiziario, in grado
di accertare i fatti, individuare i responsabili e fornire un adeguato risarcimento del danno
alla vittima (C. EDU, GC, Gäfgen c. Germania, del 1.6.2010, par. 117; C. EDU, Ciechońska
c. Polonia, del 14.6.2011, par. 66; C. EDU, Sinim c. Turchia, del 6.6.2017, par. 59).
Lo scopo dell’indagine è quello di garantire l’effettiva attuazione delle leggi nazio-
nali, poste a tutela del diritto fondamentale alla vita e assicurare i colpevoli alla giustizia (C.
EDU, Hugh Jordan c. Regno Unito, del 4.5.2011, par. 105; C. EDU, GC, Al-Skeini e altri c.
Regno Unito, del 7.7.2011, par. 163). È richiesto inoltre che le autorità procedano d’ufficio
una volta che la questione sia giunta alla loro attenzione (C. EDU, Timus and Tarus c. Mol-
davia, del 15.10.2013, par. 48), in quanto la giurisprudenza della Corte ha chiarito che, ai fini
dell’osservanza dell’obbligo scaturente dall’art. 2 CEDU, non sia sufficiente la sola iniziativa
dei parenti prossimi della vittima (C. EDU, Kelly e altri c. Regno Unito, del 4.5.2001, par.
94) così come il mero risarcimento dei danni (C. EDU, Bazorkina c. Russia, del 27.7.2006,
par. 117).
Gli obblighi positivi di carattere procedurale di cui all’art. 2 CEDU non determina-
no un diritto ad ottenere un processo o una eventuale condanna (C. EDU, GC, Giuliani e
Gaggio c. Italia, del 24.3.2011, par. 306), ma se l’indagine ha condotto all’instaurazione di
un procedimento penale in un tribunale nazionale l’obbligo di proteggere il diritto alla vita
si estende anche a tale fase (C. EDU, GC, Öneryildiz c. Turchia, del 30.11.2004, par. 95).
Conseguentemente, il giudizio della Corte si svilupperà sull’intera vicenda, non limitandosi
al solo momento delle indagini. Tuttavia, la Corte non si sostituirà alle valutazioni operate
dai giudici interni, ma si atterrà con particolare rigore all’esame delle fattispecie concrete (C.
EDU, Esat Bayram c. Turchia, del 26.5.2009, par. 46).
I giudici di Strasburgo, con riferimento a questi profili, hanno avuto modo di sottoli-
neare come gli obblighi procedurali, derivanti dagli artt. 2 e 3 CEDU, difficilmente possano
essere considerati soddisfatti, nel caso in cui un’indagine venga chiusa mediante una limi-
tazione legale della responsabilità penale, derivante da una inattività dell’autorità (C. EDU,
Associazione “21 dicembre 1989” e altri c. Romania, del 24.5.2011, par. 144). Il controllo
copre anche la fase dell’esecuzione delle sentenze emesse dai giudizi nazionali (C. EDU,
Enukidze e Girgvliani c. Georgia, del 26.4.2011, par. 269 e 275), dove in alcune ipotesi si
sono constatate violazioni degli obblighi procedurali previsti dall’art. 2 CEDU per ritardi
18 Luca Fanotto
nell’esecuzione della pena detentiva (C. EDU, Kitanovska Stanojkovic e altri c. ex Repub-
blica jugoslava di Macedonia, del 13.10.2016, par. 33) o per la concessione dell’amnistia
in relazione all’uccisione o al maltrattamento di civili (C. EDU, GC, Marguš c. Croatia, del
27.5.2014, par. 127) o, ancora, per l’applicazione della grazia (C. EDU, Okkali c. Turchia, del
17.10.2006, par. 76; C. EDU, Nasr e Ghali c. Italia, del 23.2.2016, par. 271-272).
La Corte ha avuto altresì modo di affermare come lo Stato sia chiamato al rispetto
dell’obbligo procedurale per tutto il periodo nel quale si possa ragionevolmente presumere
che le autorità adottino le misure volte a chiarire le circostanze dell’incidente e ad assumerne
la responsabilità (C. EDU, GC, Šilih c. Slovenia, del 9.4.2009, par. 157). In presenza di una
accusa credibile e di informazioni o prove rilevanti (C. EDU, Cerf c. Turchia, del 3.5.2016,
par. 65; C; C. EDU, Gurtekin e altri c. Cipro, del 11.3.2014, par. 21), ai fini dell’identificazio-
ne o della punizione del responsabile, ancorché emerse in un momento successivo, le autorità
hanno il dovere di adottare ulteriori misure investigative (C. EDU, Brecknell c. Regno Unito,
del 27.11.2007, par. 71; C. EDU, Harrison e altri c. Regno Unito, del 25.3.2014, par. 51).
In contesti transfrontalieri, l’obbligo procedurale di indagine spetta generalmente allo
Stato della giurisdizione della vittima al momento del decesso (C. EDU, Semral Emin e altri
c. Cipro, Grecia e Regno Unito, del 3.6.2010), salvo casi eccezionali (C. EDU, Rantsev c.
Cipro e Russia, del 7.1.2010, par. 241-242; C. EDU, GC, Güzelyurtlu e altri c. Cipro e Tur-
chia, del 29.1.2019, par. 190).
La Corte di Strasburgo ha avuto modo di pronunciarsi plurime volte anche sugli stan-
dard che l’inchiesta deve possedere, affinché l’obbligo procedurale sia garantito da parte
dello Stato, stabilendo come la stessa debba risultare: a) indipendente; b) adeguata; c) tem-
pestiva e ragionevolmente celere; d) sottoposta a controllo pubblico e con la partecipazione
dei parenti stretti.
sia, del 16.4.2015, par. 75). La Corte ha rilevato la violazione di tale obbligo, ad esempio, nel
momento in cui le autorità giudiziarie hanno tentato di trattenere i documenti di indagine (C.
EDU, Benzer e altri c. Turchia, del 12.11.2013, par. 193) o quando la famiglia della vittima
non è stata informata sugli sviluppi significativi dell’indagine (C. EDU, Betayev and Betaye-
va c. Russia, del 28.5.2008, par. 88).
Il diritto alla vita quale valore fondante le società democratiche che formano il Consiglio d’Europa
C. EDU, McCann e altri c. Regno Unito, del 27.9.1995, par. 147
C. EDU, Luluyev c. Russia, del 9.11.2006, par. 76
C. EDU, Sašo Gorgiev c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia, del 19.4.2012, par. 39
C. EDU, GC, Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania, del 25.6.2019, par. 134
L’ambito di applicazione anche a persone non decedute o in caso di rischio non materializzato
22 Luca Fanotto
L’indipendenza dell’indagine
C. EDU, Kaya c. Turchia, del 19.2.1998, par. 89
C. EDU, GC, Oğur c. Turchia, del 20.5.1999, par. 90-91
C. EDU, Orhan c. Turchia, del 18.6.2002, par. 342
C. EDU, Barbu Anghelescu c. Romania, del 5.10.2004, par. 67
C. EDU, Sergey Shevchenko c. Ucraina, del 4.4.2006, par. 72-73
C. EDU, GC, Ramsahai e altri c. Olanda, del 15.5.2007, par. 404
C. EDU, Şandru e altri c. Romania, del 8.12.2009, par. 74
C. EDU, Bektaş e Özalp c. Turchia, del 20.4.2010, par. 66
C. EDU, Premininy c. Russia, del 10.2.2011, par. 109
C. EDU, Enukidze e Girgvliani c. Georgia, del 26.4.2011, par. 247
C. EDU, Putintseva c. Russia, del 10.5.2012, par. 52
C. EDU, Aslakhanova e altri c. Russia, del 18.12.2012, par. 235
C. EDU, Emars c. Lettonia, del 18.11.2014, par. 85
C. EDU, GC, Jaloud c. Paesi Bassi, del 20.11.2014, par. 189
C. EDU, GC, Mustafa Tunç e Fecire Tunç c. Turchia, del 14.4.2015, par. 222 e 254
C. EDU, GC, Armani Da Silva c. Regno Unito, del 30.3.2016, par. 232
C. EDU, Fountas c. Grecia, del 3.10.2019, par. 75-76
28 Luca Fanotto
L’adeguatezza dell’indagine
C. EDU, Menson c. Regno Unito, del 6.5.2003
C. EDU, Tepe c. Turchia, del 9.5.2003, par. 177
C. EDU, Özalp e altri c. Turchia, del 8.4.2004, par. 45
C. EDU, GC, Tahsin Acar c. Turchia, del 8.4.2004, par. 223
C. EDU, İkincisoy c. Turchia, del 27.7.2004, par. 78
C. EDU, Khashiyev e Akayeva c. Russia, del 24.2.2005, par. 120-121
C. EDU, GC, Ramsahai e altri c. Paesi Bassi, del 15.5.2007, par. 324
C. EDU, Stoica c. Romania, del 4.3.2008, par. 119-120
C. EDU, GC, Giuliani e Gaggio c. Italia, del 24.3.2011, par. 309
C. EDU, Enukidze e Girgvliani c. Georgia, del 26.4.2011, par. 277
C. EDU, GC, Al-Skeini e altri c. Regno Unito, del 7.7.2011, par. 166
C. EDU, Bopayeva e altri c. Russia, del 7.11.2013, par. 81
C. EDU, Benzer e altri c. Turchia, del 12.11.2013, par. 196
C. EDU, GC, Jaloud c. Paesi Bassi, del 20.11.2014, par. 186
C. EDU, GC, Mustafa Tunç e Fecire Tunç c. Turchia, del 14.5.2015, par. 175
C. EDU, GC, Armani Da Silva c. Regno Unito, del 30.3.2016, par. 233
C. EDU, Gjikondi e altri c. Grecia, del 21.12.2017, par. 118
C. EDU, Mazepa e altri c. Russia, del 17.7.2018, par. 73
C. EDU, Solska e Rybicka c. Polonia, del 20.9.2018, par. 120-121
C. EDU, Olewnik-Cieplińska e Olewnik c. Polonia, del 5.9.2019, par. 138-146
C. EDU, Baysultanova e altri c. Russia, del 24.9.2019, par. 219-222
C. EDU, Fountas c. Grecia, del 3.10.2019, par. 77-96
C. EDU, Nicolaou c. Cipro, del 28.1.2020, par. 151-153
C. EDU, Zinatullin c. Russia, del 28.1.2020, par. 38-47
C. EDU, Fabris e Parziale c. Italia, del 19.3.2020, par. 99-100
C. EDU, Vovk e Bogdanov c. Russia, del 11.2.2020, par. 70-77
C. EDU, Jabłońska c. Polonia, del 14.5.2020, par. 63-73
C. EDU, Aftanache c. Romania, del 26.8.2020, par. 65-72
Gli obblighi negativi e positivi dello Stato che permettano di condurre una vita “degna”
C. IDH, Velàsquez Rodríguez c. Honduras, del 29.7.1988, par. 154 ss.
C. IDH, Godínez Cruz c. Honduras, del 20.1.1989, par. 162 ss.
C. IDH, Bámaca Velásquez c. Guatemala, del 22.2.2002, par. 81
C. IDH, C. IDH, “Instituto de Reeducación del Menor” c. Paraguay, del 2.9.2004, par. 149
C. IDH, Yakye Axa Indigenous Community c. Paraguay, del 17.6.2005, par. 160 ss.
C. IDH, Comunidad indígena Sawhoyamaxa c. Paraguay, del 29.3.2006, par. 155
C. IDH, Ximenes-Lopes c. Brasile, del 4.7.2006, par. 137-140
C. IDH, Retén de Catia c. Venezuela, del 5.11.2006, par. 63-87
C. IDH, Penal Miguel Castro Castro c. Perù, del 25.11.2006, par. 321
C. IDH, Comunidad Indígena Xákmok Kásek. c. Paraguay, del 24.8.2010, par. 194 ss.
30 Luca Fanotto
C. IDH, Pueblo Indígena Kichwa de Sarayaku c. Ecuador, del 27.6.2012, par. 249
Ulteriori decisioni
C. IDH, Bámaca Velásquez c. Guatemala, del 25.11.2000 [sparizione forzata, diritto alla vita, diritto alla vita secon-
do i propri modelli tradizionali]
C. IDH, “Masacre de Mapiripán” c. Colombia, del 15.09.2005 [diritto alla vita, responsabilità internazionale di
uno Stato deriva da azioni od omissioni di qualsiasi potere od organo dello Stato, indipendentemente della loro
gerarchia, standards minimi dell’obbligo di effettuare indagini e di investigare i casi di esecuzioni extragiudiziali,
sommarie o arbitrarie]
C. IDH, Baldeón García c. Perú, del 06.04.2006 [diritto alla vita propedeutico e funzionale
C. IDH, Masacres de Ituango c. Colombia, del 01.07.2006 [esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, obbli-
go di indagine in modo rapido ed efficace, sfollamento forzato]
C. IDH, Montero Aranguren y otros (Retén de Catia) c. Venezuela, del 05.07.2006 [detenuti in carcere, diritto alla
vita, integrità fisica, esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, obbligo di indagine in modo rapido ed effi-
cace]
C. IDH, González y otras (“Campo Algodonero”) c. México, del 16.11.2009 [diritto alla vita, feminicidio, integrità
fisica]
C. IDH, Radilla Pacheco c. México, del 23.11.2009 [diritto alla vita, sparizione forzata, morte presunta]
C. IDH, Gelman c. Uruguay, del 24.02.2011 [diritto alla vita, integrità personale, sparizione forzata, morte presunta]
C. IDH, González Medina y familiares c. República Dominicana, del 27.02.2012 [elementi costitutivi della spari-
zione forzata]
C. IDH, Artavia Murillo y otro c. Costa Rica, del 28.11.2012 [protezione della vita, inizio della vita, autodetermi-
nazione, salute riproduttiva]
C. IDH, Coc Max y otros (Masacre de Xamán) c. Guatemala, del 22.08.2018 [diritto alla vita, integrità fisica, mi-
nori, esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, obbligo di indagine in modo rapido ed efficace, sfollamento
forzato]
C. IDH, Terrones Silva y otros c. Perú, del 2.09.2018 [esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, obbligo di
indagine in modo rapido ed efficace, terrorismo]
C. IDH, Mota Abarullo y otros c. Venezuela, del 18.11.2020 [carceri minorili, diritto alla vita, integrità personale,
obbligo di effettuare indagini, ricorso effettivo]
C. IDH, Omeara Carrascal y otros c. Colombia, del 21.11.2018 [esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie,
obbligo di indagine in modo rapido ed efficace, sfollamento forzato]
C. IDH, Alvarado Espinoza y otros c. México, del 28.11.2018 [sparizione forzata, diritto alla vita, obblighi positivi
dello Stato di valutazione della vulnerabilità e del rischio, obbligo di effettuare indagini]
1. Introduzione
Il biodiritto rappresenta una macro-categoria di riferimento, atta a ricomprendere le
svariate tematiche attinenti alla vita in tutte le sue fasi, dall’inizio alla conclusione della
stessa, involgendo una moltitudine di questioni (anche) giuridiche che spaziano dall’aborto,
alla procreazione medicalmente assistita, alla maternità surrogata, all’eutanasia e, finanche,
al mutamento di genere.
L’onnicomprensività della categoria si spiega in ragione tanto della sua riconducibilità
alle molteplici questioni connesse alla vita umana (bios), quanto della sua potenziale perdu-
rante espansione, per essere la stessa intimamente connessa ai progressi della scienza e della
medicina, oltreché della coscienza sociale.
Ne deriva il non agevole inquadramento dal punto di vista normativo, non essendo
possibile individuare nelle varie Carte dei diritti (definibili materialmente costituzionali) sin-
gole disposizioni ad hoc. A ben vedere, infatti, gli ambiti del biodiritto sono riconducibili a
tutte quelle disposizioni che variamente sanciscono la centralità della persona umana e della
sua dignità, specie se in riferimento all’arte medico-scientifica.
A livello internazionale, il riferimento va alla Convenzione europea dei diritti dell’uo-
mo e delle libertà fondamentali (CEDU), i cui articoli 2 e 8 riconoscono e garantiscono, ri-
spettivamente, il «diritto alla vita» ed il «diritto al rispetto alla vita privata e familiare». Vi si
aggiunge la Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la biomedicina (c.d. Convenzione di Ovie-
do), la quale ha rappresentato il primo trattato internazionale a tutela dei diritti dell’uomo e
della dignità umana in relazione ai progressi della medicina e della biomedicina.
A livello europeo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE)
dedica il suo Titolo I alla «dignità», riconoscendo agli articoli 1, 2 e 3 il diritto alla «dignità
umana», il «diritto alla vita» ed il «diritto all’integrità della persona». Il riconoscimento della
dignità umana in apertura della Carta è di indubbio rilievo laddove ne sancisce l’immanenza
rispetto a tutti i diritti fondamentali ivi riconosciuti, contribuendo a delineare le coordinate
della materia.
L’art. 3 CDFUE, in particolare, dopo aver stabilito che «ogni persona ha diritto alla
propria integrità fisica e psichica», specifica taluni fondamentali principi che debbono essere
rispettati nell’ambito della medicina e della biologia, quali «il consenso libero e informato
della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge»; «il divieto delle pratiche
eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone»; «il divie-
to di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro» e, da ultimo, «il
divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani».
Le tematiche centrali proprie del biodiritto si prestano, necessariamente, ad una nutrita
giurisprudenza interna, internazionale ed europea, chiamata a pronunciarsi su questioni eti-
camente, oltreché giuridicamente, sensibili, intorno al “macro-tema” dato dalla tensione tra
32 A n na Ca m i l l a Vi s c o n t i
“inviolabilità” e “qualità” della vita ed alle sue declinazioni: status del concepito e dell’em-
brione, aborto e procreazione medicalmente assistita; pratiche eutanasiche; transessualismo.
EDU, Evans c. Regno Unito, del 10.04.2007, par. 73). Nel caso di specie, la Corte ha conclu-
so che il diritto al rispetto della volontà della donna di diventare genitore in senso genetico
non dovesse ritenersi prevalente rispetto al diritto dell’ex compagno a vedere rispettata la
propria decisione di non diventare genitore e che, dunque, lo Stato convenuto avesse operato
un giusto bilanciamento tra i contrapposti interessi coinvolti (C. EDU, Evans c. Regno Unito,
del 10.04.2007, par. 92).
Il caso Dickson c. Regno Unito si differenzia dal precedente in quanto relativo al
bilanciamento non tra gli interessi di due privati, bensì tra l’interesse individuale alla geni-
torialità e l’interesse pubblico all’afflittività della pena. Il caso concerne, infatti, il divieto
opposto a un detenuto condannato all’ergastolo ed alla compagna di ricorrere alla procre-
azione medicalmente assistita per concepire un figlio che altrimenti non avrebbero potuto
concepire stante il divieto di visite coniugali previsto dal sistema penitenziario nazionale. Sul
punto, la Corte sottolinea che più della metà degli Stati contraenti autorizzano (con maggiori
o minori restrizioni) le visite coniugali e che, purtuttavia, non esiste nel sistema convenzio-
nale di tutela dei diritti un obbligo per gli Stati di ammettere tali visite (C. EDU, Dickson c.
Regno Unito, del 04.12.2007, par. 81). Ciò implica il riconoscimento di un ampio margine
di apprezzamento agli Stati, purché venga effettuata una reale ponderazione degli interessi
pubblici e privati rilevanti e purché venga valutata la proporzionalità delle restrizioni imposte
con riferimento al caso concreto (C. EDU, Dickson c. Regno Unito, del 04.12.2007, par. 82).
Conseguentemente, la Corte ritiene che la mancanza di qualsivoglia valutazione con riguar-
do ad un aspetto tanto delicato e importante per i ricorrenti deve essere considerata come
eccedente il margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato convenuto, con conseguente
violazione dell’art. 8 CEDU (C. EDU, Dickson c. Regno Unito, del 04.12.2007, parr. 65-85).
In tema di procreazione medicalmente assistita, di indubbio rilievo è il caso S.H. e
altri c. Austria oggetto di due diverse pronunce, della Prima Sezione, datata 1° aprile 2010 e
della Grande Camera, datata 3 novembre 2011. Le due pronunce rese, a ben vedere, a breve
distanza l’una dall’altra, segnano un significativo revirement della Corte EDU in tema di fe-
condazione eterologa, per avere la Grande Camera adottato un approccio di self restraint nel
valutare la legislazione austriaca in materia.
Nella pronuncia della Prima Sezione (successivamente ribaltata dalla Grande Came-
ra), la Corte aveva censurato l’irragionevolezza della disciplina austriaca nella parte in cui
ammetteva la fecondazione omologa in vitro e la fecondazione eterologa in vivo, vietando
d’altra parte tecniche di fecondazione eterologa quali la fecondazione eterologa in vitro e la
donazione di ovuli. Nella successiva sentenza della Grande Camera, la Corte – come antici-
pato – ribalta il proprio precedente pronunciamento, statuendo che la scelta del legislatore
austriaco di limitare talune tecniche di fecondazione eterologa non abbia ecceduto il margine
di apprezzamento, in considerazione sia della mancanza di un consensus europeo in materia,
sia della possibilità per gli interessati di ricorrere a tali tecniche in Paese esteri ove fossero
consentite (C. EDU, S.H. e altri c. Austria, del 03.11.2011, parr. 97 e 114). Sotto il profilo del
margine di apprezzamento, la Corte richiama i criteri e i principi in base ai quali determinare
l’ampiezza del margine di apprezzamento rimesso agli Stati, affermando che nei casi in cui
sia in gioco un aspetto particolarmente importante dell’esistenza o dell’identità di un indi-
viduo il margine di apprezzamento concesso agli Stati contraenti deve considerarsi limitato
(cfr., in tal senso, Evans c. Regno Unito, del 10.04.2007, par. 77); il margine di apprezzamen-
to tende, tuttavia, ad ampliarsi laddove non vi sia consenso a livello europeo né sull’impor-
tanza da accordare all’interesse in gioco né sulle modalità più adeguate alla sua protezione,
specie ove trattasi di questioni moralmente e/o eticamente sensibili. In particolare, nei casi
in cui si renda necessario un bilanciamento tra interessi pubblici e privati concorrenti, il
36 A n na Ca m i l l a Vi s c o n t i
più ampio margine di apprezzamento concesso agli Stati si spiega alla luce del fatto che lo
Stato si trova nella posizione migliore, in virtù del principio di prossimità, per individuare
le modalità di contemperamento dei contrapposti interessi ed esigenze di tutela coinvolte in
considerazione del senso morale emergente nella società (v. C. EDU, S.H. e altri c. Austria,
del 03.11.2011, par. 94, e giurisprudenza ivi citata).
Con riferimento al caso di specie, la Grande Camera non rinviene un consenso a li-
vello europeo tale da limitare il margine di apprezzamento dello Stato convenuto, ritenendo
che la tendenza emergente negli Stati contraenti a consentire forme di fecondazione etero-
loga non sia frutto di principi consolidati, riflettendo piuttosto una fase di sviluppo in un
campo del diritto particolarmente soggetto ai rapidi progressi della medicina (C. EDU, S.H.
e altri c. Austria, del 03.11.2011, par. 96). Proprio tale particolare passaggio argomentativo
della Corte è stato, del pari, oggetto delle critiche espresse nella Joint dissenting opinion dei
giudici Tulkens, Hirvelä, Lazarova Ttrajkovska e Tsotsoria, secondo cui la Grande Camera
avrebbe fatto un uso “blando” dei criteri determinativi del margine di apprezzamento, il che
costituirebbe una “pericolosa deviazione” dalla giurisprudenza di Strasburgo, specie in con-
siderazione del fatto che uno degli obiettivi e dei compiti della Corte EDU è proprio quello
di garantire standard uniformi di tutela dei diritti riconosciuti dalla Convenzione (cfr. Joint
dissenting opinion, p.ti 8 e 10)
Nel solco della giurisprudenza di Strasburgo si colloca la sentenza n. 162/2014, con
cui la Corte costituzionale italiana ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto del
ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in presenza di
patologie a causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili stabilito dall’art. 4, comma
3 della L. n. 40/2004 recante «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita»,
nonché delle connesse norme recanti sanzioni per i medici che le avessero praticate. Più in
dettaglio, la declaratoria di illegittimità costituzionale si appunta sull’assolutezza del divieto
posto dal Legislatore, in contrasto – ad avviso della Corte costituzionale – con gli artt. 2, 3,
29, 31 e 32 Cost. congiuntamente considerati; nell’opinione della Corte, infatti, le limitazioni
(specie se poste in termini assoluti) del diritto alla procreazione ed alla genitorialità, quali
espressione della fondamentale libertà di autodeterminazione, «devono essere ragionevol-
mente e congruamente giustificate dall’impossibilità di tutelare altrimenti interessi di pari
rango (sentenza n. 332 del 2000)», in quanto «la determinazione di avere o meno un figlio,
anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intan-
gibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori
costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo
alla tecnica di PMA di tipo eterologo, perché anch’essa attiene a questa sfera» (C. cost., sent.
n. 162/2014, p.to 6 cons. in dir.). Dall’iter argomentativo della Corte costituzionale emerge
come il Giudice delle leggi si sia concentrato su parametri costituzionali prettamente interni,
lasciando in ombra l’ulteriore parametro (pur invocato) dell’art. 117, co. 1, Cost., in relazione
agli artt. 8 e 14 CEDU. Purtuttavia, nella sentenza si distingue, in certa misura, l’eco della
pronuncia di Strasburgo, nella parte in cui censura l’irragionevolezza della scelta del Legi-
slatore di porre un divieto assoluto in contraddizione, tra l’altro, con l’intentio legis risultante
dall’art. 1, co. 1, della Legge, a norma del quale la finalità della PMA è quella «di favorire
la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana»; sul-
la scorta di tali considerazioni, la Corte conclude nel senso che «la preclusione assoluta di
accesso alla PMA di tipo eterologo introduce un evidente elemento di irrazionalità, poiché
la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità, alla formazione della famiglia
con figli, con incidenza sul diritto alla salute, nei termini sopra esposti, è stabilita in danno
Biodiritto 37
delle coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis» (C. cost., sent. n.
162/2014, p.to 13 cons. in dir.).
Nel caso Costa e Pavan c. Italia, del 28 agosto 2012, la Corte EDU torna nuova-
mente a pronunciarsi in tema di procreazione medicalmente assistita sotto l’ulteriore profilo
dell’accesso alla diagnosi genetica preimpianto. All’origine della causa vi è il ricorso presen-
tato da due cittadini italiani, portatori sani di una malattia geneticamente trasmissibile, che,
invocando gli artt. 8 e 14 CEDU, lamentavano di non poter accedere alla diagnosi genetica
preimpianto per selezionare un embrione sano, con la conseguenza di essere esposti alla (do-
lorosa) alternativa tra l’avere un figlio malato e il procedere all’interruzione della gravidanza
nel caso in cui dalla diagnosi prenatale risulti che il feto è malato. La legislazione italiana,
infatti, stabilisce una preclusione soggettiva di accesso alla PMA per le coppie che – come
quella dei ricorrenti – non siano affette da sterilità o infertilità (art. 4, co. 1, L. n. 40/2004) o
in cui l’uomo non sia portatore di malattie sessualmente trasmissibili (decreto del Ministero
della Salute n. 31639 dell’11 aprile 2008) ed una preclusione assoluta di accesso alla diagnosi
genetica preimpianto. La Corte EDU accoglie le doglianze sollevate con riferimento all’art.
8 CEDU, rilevando l’incoerenza del quadro legislativo italiano nella misura in cui, da un
lato, «vieta l’impianto limitato ai soli embrioni non affetti dalla malattia di cui i ricorrenti
sono portatori sani; dall’altro, autorizza i ricorrenti ad abortire un feto affetto da quella stessa
patologia» (C. EDU, Costa e Pavan c. Italia, del 28.08.2012, par. 64). Ad avviso della Corte
EDU, «le conseguenze di un tale sistema sul diritto al rispetto della vita privata e familiare
dei ricorrenti sono evidenti», in quanto «per tutelare il loro diritto a mettere al mondo un fi-
glio non affetto dalla malattia di cui sono portatori sani, l’unica possibilità offerta ai ricorrenti
è iniziare una gravidanza secondo natura e procedere a interruzioni mediche della gravidanza
qualora l’esame prenatale dovesse rivelare che il feto è malato» (C. EDU, Costa e Pavan
c. Italia, del 28.08.2012, par. 65). Nel caso di specie, la Corte, pur riconoscendo le delicate
questioni di ordine etico e morale coinvolte, conclude nel senso della violazione dell’art. 8
CEDU, per essere l’ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e fa-
miliare sproporzionata (C. EDU, Costa e Pavan c. Italia, del 28.08.2012, parr. 60-71).
Anche sotto tale specifico profilo, la giurisprudenza di Strasburgo ha, in qualche misu-
ra, influenzato la giurisprudenza interna, come chiaramente emerge dalla sentenza n. 96/2015
con cui la Corte costituzionale italiana ha espunto il profilo di incoerenza (interna ed esterna)
della L. n. 40/2004 già rilevato dai Giudici di Strasburgo e derivante dal congiunto operare
della L. n. 40/2004 in materia di PMA e della L. n. 194/1978 sull’interruzione volontaria
della gravidanza. La questione di legittimità costituzionale verte su un caso analogo a quello
all’origine del caso Costa e Pavan, in quanto relativo a due coppie di coniugi fertili, ma
affetti da patologie geneticamente trasmissibili, che chiedevano di essere in via di urgenza
ammesse alla PMA, con diagnosi genetica preimpianto, al fine di individuare l’embrione non
affetto da quella specifica patologia. Con la sentenza in esame, la Corte ha, da un lato, am-
pliato i requisiti soggettivi di accesso alla procreazione medicalmente assistita e ha, dall’al-
tro, dichiarato la liceità della diagnosi genetica preimpianto. Nel caso di specie, la Corte
incentra il proprio pronunciamento sui profili di censura sollevati con riferimento agli artt. 3
e 32 Cost., dichiarando assorbito il profilo di illegittimità costituzionale ex art. 117, co. 1, in
riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU. Purtuttavia, l’argomentare della Corte lascia chiaramente
trasparire la sintonia tra Corti (interna e sovranazionale), laddove afferma che «sussiste, in
primo luogo, un insuperabile aspetto di irragionevolezza dell’indiscriminato divieto, che le
denunciate disposizioni oppongono, all’accesso alla PMA, con diagnosi preimpianto, da par-
te di coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi patologie genetiche ereditarie,
suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o
38 A n na Ca m i l l a Vi s c o n t i
malformazioni», in quanto «con palese antinomia normativa (sottolineata anche dalla Corte
di Strasburgo nella richiamata sentenza Costa e Pavan c. Italia), il nostro ordinamento con-
sente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla
specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più trauma-
tica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali» (C. cost.,
sent. n. 96/2015, p.to 9 cons. in dir.). Ad avviso del Giudice delle leggi, il sistema normativo
lede lo stesso diritto alla salute della donna, senza che tale vulnus sia controbilanciato dall’e-
sigenza di tutela del nascituro che sarebbe, ad ogni modo, esposto all’aborto.
Tale ultima sentenza costituzionale si inserisce, del pari, nel solco di un trend giuri-
sprudenziale, avviato a far data dalla sentenza n. 151/2009, di vera e propria riscrittura della
disciplina contenuta nella L. n. 40/2004, con cui si è progressivamente ampliato il perime-
tro dei soggetti beneficiari delle tecniche di procreazione assistita (cfr., C. cost., sentt. n.
151/2009, n. 162/2014, n. 96/2015, n. 229/2015). In linea di sostanziale discontinuità si pone
la sentenza n. 84/2016, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questio-
ni di legittimità del divieto assoluto di sperimentazione sugli embrioni (art. 13), nonché del
divieto di revoca del consenso alla PMA dopo l’avvenuta fecondazione dell’ovulo (art. 6,
comma 3). Senza pretendere di scendere nel dettaglio della pronuncia, basti qui sottolineare
che la sentenza si impone all’attenzione nella misura in cui richiama la concezione di “em-
brione” fatta propria dalla Corte EDU nella sentenza della Grande Camera Parrillo c. Italia,
del 27 agosto 2015. In tale prospettiva, la concezione di “embrione” non inerisce il diritto alla
genitorialità, ma solleva il diverso e connesso profilo della utilizzabilità degli embrioni e, in
specie, degli embrioni non impiantati a fini di ricerca scientifica. La questione portata all’at-
tenzione della Corte costituzionale italiana e, prima ancora, della Corte EDU concerne il bi-
lanciamento tra il diritto della (e l’interesse alla) ricerca scientifica e il diritto dell’embrione;
in tal senso, «la questione, così sollevata, rimanda al conflitto, gravido di implicazioni etiche
oltreché giuridiche, tra il diritto della scienza (e i vantaggi della ricerca ad esso collegati) e il
diritto dell’embrione, per il profilo della tutela (debole o forte) ad esso dovuta in ragione e in
misura del (più o meno ampio) grado di soggettività e di dignità antropologica che gli venga
riconosciuto» (C. Cost., sent. n. 84/2016, p.to 8.1 cons. in dir.).
Al riguardo, la Corte costituzionale italiana adotta un approccio di self restraint, di-
chiarando inammissibili le questioni di legittimità sollevate con riferimento all’art. 13 della
L. n. 40/2004, nella parte in cui pone il «divieto assoluto di qualsiasi ricerca clinica o speri-
mentale che non sia finalizzata alla cura dell’embrione stesso» e rimettendo al legislatore il
compito di contemperare i valori fondamentali in conflitto e, in specie, la tutela dell’embrione
e l’interesse alla ricerca scientifica finalizzata alla tutela della salute individuale e collettiva.
Nel giungere alla dichiarazione di inammissibilità, la Corte richiama sia la propria
precedente giurisprudenza in tema di PMA e, in special modo, la sentenza n. 229/2015, per
la quale «la dignità dell’embrione, quale entità che ha in sé il principio della vita (ancorché
in uno stadio di sviluppo non predefinito dal legislatore e tuttora non univocamente indivi-
duato dalla scienza), costituisce, comunque, un valore di rilievo costituzionale “riconducibile
al precetto generale dell’art. 2 Cost.”», sia la sentenza Parrillo c. Italia, con cui la Corte
EDU ha escluso che il divieto di sperimentazione previsto dalla legislazione italiana violasse
l’art. 8 CEDU. Nella pronuncia Parrillo c. Italia del 2015, la Corte EDU ha, per un verso,
dichiarato irricevibile il ricorso con riferimento all’art. 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla
CEDU, posto a tutela del diritto al rispetto dei propri beni e, per l’altro, ha escluso la prospet-
tata violazione dell’art. 8 CEDU. Sotto il primo profilo, la Corte ha evitato di pronunciarsi
sulla delicata questione dell’inizio vita ex art. 2 CEDU, limitandosi ad affermare che «human
Biodiritto 39
embryos cannot be reduced to “possessions” within the meaning of that provision» (C. EDU,
Parrillo c. Italia, del 27.08.2015, par. 215).
Sotto il secondo profilo, la Corte EDU è stata per la prima volta chiamata a pronun-
ciarsi sull’applicabilità del diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 CEDU a un caso
di donazione e utilizzazione a fini di ricerca scientifica degli embrioni ottenuti per mezzo
della fecondazione in vitro. Sul punto, la Corte ha escluso che il diritto invocato dalla ricor-
rente a donare gli embrioni alla ricerca rientrasse tra i «core rights attracting the protection of
Article 8», in ragione del fatto che tale diritto non costituisce «a particularly important aspect
of the applicant’s existence and identity» (C. EDU, Parrillo c. Italia, del 27.08.2015, par.
174). Con riferimento al margine di apprezzamento rimesso allo Stato convenuto, la Grande
Camera ha osservato la delicatezza da un punto di vista etico e morale della questione relativa
alla donazione degli embrioni non destinati ad impianto, sottolineando, del pari, l’assenza
di un consenso europeo in materia (C. EDU, Parrillo c. Italia, del 27.08.2015, par. 176); in
tal senso la Corte ha posto in luce come solo diciassette Paesi, dei quaranta Stati membri, si
fossero dotati di legislazioni permissive in tale specifico campo, mentre alcuni Paesi avevano
adottato legislazioni ostative a qualunque forma di ricerca su cellule embrionali e, ancora,
altri ammettevano tali forme di ricerca scientifica al sussistere, però, di condizioni rigorose
e stringenti (C. EDU, Parrillo c. Italia, del 27.08.2015, parr. 177-178). Ne deriva che il caso
italiano non rappresenta un unicum nel panorama europeo, non essendo l’unico Stato mem-
bro del Consiglio d’Europa a vietare la donazione di embrioni umani alla ricerca scientifica
(C. EDU, Parrillo c. Italia, del 27.08.2015, par. 179). Sulla scorta di tali considerazioni,
la Corte EDU ha escluso che lo Stato italiano avesse ecceduto l’ampio margine di apprez-
zamento ad esso riconosciuto, avendo ritenuto che il divieto assoluto di sperimentazione
scientifica sugli embrioni posto dalla L. n. 40/2004 rientrasse nelle misure necessarie in una
società democratica, conformemente a quanto statuito dall’art. 8, par. 2 CEDU (C. EDU,
Parrillo c. Italia, del 27.08.2015, parr. 180-198).
La L. n. 40/2004 è stata, da ultimo, oggetto della sentenza n. 221/2019, avente ad
oggetto la censurata illegittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della
medesima, nella parte in cui, rispettivamente, limitano l’accesso alle tecniche di PMA alle
sole coppie di sesso diverso e, conseguentemente, sanzionano chiunque applichi tali tecniche
a coppie composte da soggetti di sesso diverso. La questione di legittimità costituzionale si
inserisce nel solco tracciato dalle precedenti sentenze n. 162/2014 e n. 96/2015, invocate dal-
le parti rimettenti a sostegno dell’invocato intervento ampliativo della Corte costituzionale.
Purtuttavia, la Corte ha dichiarato la questione non fondata, rimarcando le differenze tra gli
interventi ampliativi posti in essere con le sentenze testé citate ed un eventuale intervento
ampliativo diretto ad estendere la PMA alle coppie omosessuali. Diversamente dai prece-
denti citati, infatti, «l’ammissione alla PMA delle coppie omosessuali, conseguente al loro
accoglimento, esigerebbe (…) la diretta sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di
entrambe le idee guida sottese al sistema delineato dal legislatore del 2004» (C. Cost., sent.
n. 221/2019, p.to 12 cons. in dir.), ovverosia la funzione della PMA quale rimedio a problemi
di sterilità o infertilità e la concezione del nucleo familiare come fondato sull’unione di due
persone di sesso diverso (cfr. C. cost., sent. n. 221/2019, cons. in dir. p.to 10). Le condizioni
poste dalla legge in parola non eccedono il margine di discrezionalità rimesso al Legislatore
in quanto «l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due
genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in
linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere
considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale» (C. cost., sent. n. 221/2019, p.to
13.1 cons. in dir.). A fondamento del proprio iter argomentativo, la Corte richiama l’orien-
40 A n na Ca m i l l a Vi s c o n t i
tamento della Corte EDU per il quale una legislazione nazionale che riservi l’inseminazione
artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere
considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omo-
sessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU (C. EDU, Gas e Dubois c. Francia, del
15.03.2012, parr. 61-73). Tali conclusioni – specifica la Corte costituzionale italiana – non
possono essere private di fondamento neppure dai recenti orientamenti in tema di adozione di
minori da parte di coppie omosessuali e di riconoscimento in Italia di atti formati all’estero,
dichiarativi del rapporto di filiazione rispetto a genitori dello stesso sesso (su cui, infra, § 4).
4. Maternità surrogata
Il tema della maternità surrogata si presenta denso di questioni eticamente e moral-
mente sensibili come sovente accade ove si tratti di biodiritto e, in specie, di tecniche di
procreazione medicalmente assistita. La maternità surrogata, in particolare, rappresenta una
specifica modalità di PMA necessitante il corpo di una donna che accetti, su commissione, di
iniziare e portare a termine una gravidanza per conto altrui. Trattasi di una pratica vietata in
molti ordinamenti (tra cui quello italiano), ma che, proprio in ragione di ciò, è stata interes-
sata dal fenomeno del c.d. turismo procreativo, che vede molti cittadini recarsi in Paesi con
legislazioni più permissive al fine di sottoporsi a tale specifica pratica. Il fenomeno determina
il problema giuridico del riconoscimento dello status filiationis del minore nato attraverso
surrogazione di maternità realizzata all’estero; problema, questi, che pone la trascrizione de-
gli atti di nascita formati all’estero all’epicentro della “spinosa” dialettica tra ordine pubblico
e migliore interesse del minore. Senonché, come riconosciuto dalla stessa Corte di cassa-
zione italiana nella sentenza n. 19599/2016, l’ispirazione originariamente “statualista” che
ha caratterizzato l’ordine pubblico quale limite all’ingresso di norme straniere confliggenti
con l’assetto valoriale (morale e politico) dello Stato nazionale è andata progressivamente
attenuandosi in favore di una concezione «di maggiore apertura verso gli ordinamenti esterni
e più aderente agli artt. 10, 11 e 117, primo comma, della Costituzione e alla corrispondente
attuale posizione dell’ordinamento italiano in ambito internazionale» (C. cass., sez. I civ., n.
19599/2016, del 30.09.2016, p.to 7). In tale contesto di maggiore apertura ai valori interna-
zionali, il criterio dei «best interests of the child» parrebbe imporsi come prevalente, alla luce
del framework internazionale ed europeo di tutela dei diritti dei minori.
Orientano in tal senso la Convenzione sui diritti del fanciullo, conclusa a New York
il 20 novembre 1989, secondo il cui art. 3, par. 1 «in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di
competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle
autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve es-
sere una considerazione preminente»; ancora la Convenzione europea sull’esercizio dei dirit-
ti dei fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa il 25 gennaio 1996; nonché le Linee guida del
Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate il
17 novembre 2010. Da ultimo, rilevano – in maniera esplicita ed implicita – la Carta dei dirit-
ti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e la Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Analogamente alla Convenzione
sui diritti del fanciullo, l’art. 24, co. 2 della CDFUE, infatti, sancisce il principio per il quale
«in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni
private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente»; diversamen-
te, la preminenza dei diritti del minore non trova esplicita enunciazione nella CEDU, ma si
radica (implicitamente) negli artt. 8 e 14, per come interpretati dalla Corte EDU, in specie,
nelle sentenze Mennesson c. Francia e Labassee c. Francia, del 26 giugno 2014, con cui i
Biodiritto 41
Giudici di Strasburgo, nel valutare il rifiuto di trascrizione degli atti di nascita nei registri
dello stato civile francese, hanno affermato che il rispetto dei «best interests of the child»
deve fungere da criterio e principio guida in ogni decisione relativa ai minori. Tali pronunce
– unitamente alle sentenze Paradiso e Campanelli c. Italia, del 2015 e 2017 – scandiscono,
a ben vedere, un percorso giurisprudenziale che ha, da ultimo, condotto alla formulazione
del primo parere consultivo della Corte EDU ai sensi del Protocollo addizionale n. 16, su
richiesta della Cour de Cassation francese (su cui, infra).
Nella sentenza Mennesson c. Francia, la Corte EDU si è pronunciata su di un caso
di surrogazione di maternità in relazione al mancato riconoscimento da parte delle autorità
francesi dello status filiationis dei minori (due gemelle) nate da surrogazione praticata negli
Stati Uniti. La Corte svolge, dapprima, alcune importanti considerazioni preliminari circa il
margine di apprezzamento da accordarsi, in tale specifico ambito, agli Stati contraenti, sot-
tolineando a tal fine la mancanza di un consensus europeo in materia di maternità surrogata.
Nell’opinione della Corte, tale mancanza di consenso legittimerebbe – in linea di principio
– il riconoscimento di un ampio margine di apprezzamento in ordine sia alla decisione di
autorizzare o meno tale pratica di procreazione assistita, sia al successivo riconoscimento
o mancato riconoscimento di una relazione parentale tra i figli nati all’estero e i genitori
intenzionali/committenti; purtuttavia, tale ampio margine dovrebbe essere ridotto in consi-
derazione della centralità che il riconoscimento del rapporto “genitore-figlio” riveste ai fini
dell’identità personale, specie del minore (C. EDU, Mennesson c. Francia, del 26.06.2014,
parr. 75-86). Sulla scorta di questa ultima notazione, la Corte ritiene di differenziare i profili
di illegittimità sollevati ex art. 8 CEDU con riguardo al diritto alla vita familiare (vantato
dai genitori) ed al diritto al rispetto della vita privata dei figli, giungendo a conclusioni op-
poste nell’uno e nell’altro caso (C. EDU, Mennesson c. Francia, del 26.06.2014, parr. 86 e
102). Sotto il primo versante, la Corte, pur ammettendo che la mancanza di riconoscimento
nell’ordinamento francese della relazione “genitore-figlio” abbia influito sulla loro vita fa-
miliare, sottolinea che le difficoltà pratiche che i genitori hanno incontrato per effetto del
mancato riconoscimento non erano state insormontabili, avendo potuto vivere con i propri
figli in condizioni sostanzialmente analoghe a quelle di altre famiglie (C. EDU, Mennesson c.
Francia, del 26.06.2014, parr. 87-94). Diverso il caso del diritto al rispetto della vita privata
dei minori, con riferimento al quale la Corte rileva la violazione dell’art. 8 CEDU, per es-
sere la relazione “genitore-figlio” una componente essenziale per la definizione dell’identità
personale del minore (C. EDU, Mennesson c. Francia, del 26.06.2014, parr. 96-101). Nel
merito, i Giudici di Strasburgo, pur dimostrando di comprendere le ragioni sottese al rifiuto
di riconoscere lo status filiationis, quale strumento deterrente del fenomeno del c.d. turismo
procreativo, non mancano di porre in luce gli effetti di un simile disconoscimento sui figli. La
Corte, pur ammettendo l’obiettivo dell’ordinamento francese di dissuadere i propri cittadini
dal recarsi all’estero per sottoporsi a una pratica di procreazione assistita vietata nel proprio
Paese, afferma che il mancato riconoscimento giuridico della relazione parentale tra genitori
intenzionali e minori nati all’estero mediante la surrogazione di maternità non “grava” unica-
mente sui genitori che hanno deciso di sottoporsi alla pratica vietata nel proprio Paese, bensì
anche sui figli, il cui diritto al rispetto della vita privata viene ad essere “incolpevolmente” li-
mitato. Sulla scorta di tali argomentazioni, ispirate al perseguimento dei migliori interessi del
minore, la Corte EDU conclude nel senso che lo Stato convenuto abbia ecceduto il proprio
margine di apprezzamento, in contrasto con l’art. 8 CEDU (C. EDU, Mennesson c. Francia,
del 26.06.2014, parr. 99-101).
Un ulteriore caso a venire in rilievo in materia di surrogazione di maternità è il caso
Paradiso e Campanelli c. Italia, oggetto di due diverse pronunce, rese a distanza di due anni,
42 A n na Ca m i l l a Vi s c o n t i
dalla Seconda Sezione della Corte EDU, il 27 gennaio 2015, e dalla Grande Camera, il 24
gennaio 2017. La sentenza della Grande Camera, in specie, ribalta l’esito precedentemente
raggiunto dalla Seconda Sezione, ritenendo che la decisione del giudice italiano di allonta-
nare il minore nato in Russia da maternità surrogata dalla coppia di genitori intenzionali non
violi la Convenzione. Il caso di specie presenta taluni profili di differenziazione rispetto ai
casi Mennesson c. Francia e Labassee c. Francia, in quanto relativo a una coppia di cittadini
italiani (i ricorrenti) che, agendo al di fuori di ogni regolare procedura di adozione, avevano
portato in Italia dall’estero un minore che non aveva alcun legame biologico con nessuno
dei due genitori e che era stato concepito attraverso tecniche di procreazione assistita illegali
nell’ordinamento italiano. Come osservato dalla Corte EDU, infatti, il minore era nato in
Russia da donatori sconosciuti con l’ausilio di una donna che aveva rinunciato ai diritti su di
lui. Il primo elemento di differenziazione si rinviene, pertanto, nella mancanza di legami bio-
logici tra i genitori committenti e il minore, diversamente dai casi del 2014 suddetti, in cui era
stata dimostrata l’esistenza di un legame biologico tra il padre e i figli. Ulteriore profilo atto
a differenziare i casi esaminati è la questione posta al centro della causa, riguardante nell’un
caso il mancato riconoscimento dello status filiationis dei minori nati all’estero, sotto il pro-
filo della violazione del diritto al rispetto della vita familiare dei genitori e della vita privata
dei minori e, nell’altro, la legittimità delle misure adottate dalle Autorità italiane che avevano
condotto alla separazione definitiva del minore dai ricorrenti (C. EDU, Paradiso e Campa-
nelli c. Italia, del 24.01.2017, parr. 131-133). La questione al centro della causa è, pertanto,
se sia applicabile l’art. 8 CEDU e, in caso affermativo, se le misure urgenti di allontanamento
del minore costituiscano un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita familiare e/o privata ai
sensi dell’art. 8, par. 1 e, in tal caso, se l’ingerenza sia consentita dall’art. 8, par. 2 CEDU.
In merito all’applicabilità dell’art. 8 CEDU, la Corte opera un distinguo tra “vita fa-
miliare” e “vita privata”, ritenendo che non vi fosse stata vita familiare tra i ricorrenti ed il
minore, ma che le misure adottate dalle autorità italiane abbiano rappresentato un’interferen-
za nella loro privata, sotto il profilo del diritto al rispetto della decisione di diventare genitori
(C. EDU, Paradiso e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017, par. 165). Sotto il primo versante,
la Corte valuta la riconducibilità della relazione esistente tra i ricorrenti e il minore nella no-
zione di “vita familiare” de facto, ricordando che, sulla base della propria consolidata giuri-
sprudenza, il concetto di “famiglia” di cui all’art. 8 CEDU non è limitato in via esclusiva alla
famiglia basata sul matrimonio, potendo anzi includere legami interpersonali e affettivi tali
da poter essere considerati, appunto, legami familiari de facto; ne consegue che anche un rap-
porto tra adulti e minori può potenzialmente rientrare nella nozione di “vita familiare” anche
in assenza di un legame biologico o di un legame giuridicamente riconosciuto, a condizione
(si intende) che vi siano legami personali effettivi (C. EDU, Paradiso e Campanelli c. Italia,
del 24.01.2017, parr. 140-156 e giurisprudenza ivi citata). Purtuttavia, considerata «l’assenza
di legami biologici tra il minore e gli aspiranti genitori, la breve durata della relazione con
il minore e l’incertezza dei legami dal punto di vista giuridico e malgrado l’esistenza di un
progetto genitoriale e la qualità dei legami affettivi», la Corte esclude che, nel caso di specie,
sussista una vita familiare, quantunque nella veste di vita familiare de facto (C. EDU, Para-
diso e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017, parr. 157, 158).
Sotto il secondo versante, la Corte valorizza la nozione ampia di “vita privata” com-
prensiva dell’integrità psico-fisica, dell’identità fisica e sociale, oltreché del diritto di in-
staurare e sviluppare rapporti con altri esseri umani, del diritto alla realizzazione personale
ed all’autodeterminazione, incluso il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore
(cfr. C. EDU, Evans c. Regno Unito, del 10.04.2007, par. 71; Dickson c. Regno Unito, del
04.12.2007, par. 66; A., B. e C. c. Irlanda, del 16.12.2010, par. 212). Nel caso di specie, la
Biodiritto 43
Corte osserva che la maggior parte della vita dei ricorrenti «è stata concentrata sulla realiz-
zazione del loro progetto di diventare genitori, per amare e crescere un figlio», con la conse-
guenza che «l’argomento in questione è il diritto al rispetto della decisione dei ricorrenti di
diventare genitori (S.H. e altri c. Austria, sopra citata, par. 82), e la realizzazione personale
degli interessati attraverso il ruolo di genitori che era loro desiderio assumere nei confronti
del minore» (C. EDU, Paradiso e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017, parr. 163 e 164).
Evidente come la rilevata insussistenza di una “vita familiare” da tutelare ai sensi dell’art.
8 CEDU abbia rivestito un ruolo di primo momento nella decisione in esame, nella quale la
valutazione del bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco viene parametrata non sul
diritto a preservare l’unità familiare, anche se de facto, bensì, sul semplice diritto al rispetto
della vita privata, nella sua declinazione di diritto alla realizzazione personale mediante la
concretizzazione di un progetto di genitorialità. Si aggiunge, del pari, il minor peso attribuito
agli interessi del minore nella parte in cui la Grande Camera, pur riconoscendone la rilevan-
za, sottolinea che il minore non è parte del giudizio e che non è parte della famiglia dei ri-
correnti ai sensi dell’art. 8 CEDU (C. EDU, Paradiso e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017,
parr. 86, 135, 208).
Di talché, una volta accertata l’applicabilità dell’art. 8 CEDU, la Corte esamina le mi-
sure di allontanamento adottate dalle autorità italiane al fine di valutarne la legittimità ai sensi
dell’art. 8, par. 2 CEDU, sì da concludere nel senso della violazione o mancata violazione
della disposizione convenzionale, la quale – giova ricordarlo – ammette l’ingerenza nella vita
privata che sia «prevista dalla legge», preordinata al raggiungimento degli scopi legittimi ivi
previsti e «necessaria in una società democratica». Ad avviso della Corte, le misure adottate
dal Governo italiano erano preordinate al raggiungimento di scopi legittimi, in quanto dirette
alla difesa dell’ordine ed alla protezione dei diritti e delle libertà altrui (C. EDU, Paradiso
e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017, parr. 177-178) e necessarie in una società democra-
tica, nella misura in cui risultavano essere fondate su motivi «pertinenti» e «sufficienti» al
raggiungimento dello scopo legittimo della difesa dell’ordine e della tutela del minore (C.
EDU, Paradiso e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017, parr. 196-199). Da ultimo, la Corte
considera le misure in questione «proporzionate», in quanto frutto di un ragionevole bilancia-
mento tra gli interessi pubblici e privati coinvolti. Rileva, infatti, la Corte EDU che «i giudici
interni non fossero tenuti a dare la priorità al mantenimento della relazione tra i ricorrenti e
il minore, e si trovassero piuttosto di fronte a una scelta delicata: permettere ai ricorrenti di
continuare la loro relazione con il minore, e in tal modo legalizzare la situazione che questi
avevano imposto come un fatto compiuto, o adottare misure volte a dare al minore una fami-
glia conformemente alla legge sull’adozione» (C. EDU, Paradiso e Campanelli c. Italia, del
24.01.2017, par. 209). In tale prospettiva, la Corte EDU conclude nel senso della legittimità,
ai sensi dell’art. 8 CEDU, delle misure disposte dal Governo italiano, in quanto, nonostante
l’impatto “emotivo” subito dai ricorrenti per effetto della separazione immediata e irrever-
sibile dal minore, «l’interesse generale in gioco ha un grande peso sul piatto della bilancia
mentre, in confronto, si deve accordare una importanza minore all’interesse dei ricorrenti ad
assicurare il proprio sviluppo personale proseguendo la loro relazione con il minore». Con-
clusivamente, la Corte statuisce che «i giudici italiani, avendo concluso che il minore non
avrebbe subito un pregiudizio grave o irreparabile a causa della separazione, hanno garantito
un giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco, rimanendo nei limiti dell’ampio margine
di apprezzamento di cui disponevano nel caso di specie», in conformità con l’art. 8 CEDU
(C. EDU, Paradiso e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017, parr. 215-216).
Come anticipato, i casi citati hanno tracciato un percorso giurisprudenziale conclusosi
con il primo parere consultivo formulato dalla Corte EDU ai sensi del Protocollo n. 16 su
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richiesta della Cour de cassation con l’arrêt del 5 ottobre 2018. A seguito della citata pro-
nuncia Menneson, infatti, i coniugi avevano chiesto il riesame della sentenza di annullamento
della trascrizione dell’atto di nascita per contrasto con la decisione della Corte EDU; la Cour
de réexamen, accolta la richiesta, ha rinviato la decisione alla Cour de cassation che, prima
di statuire sulla questione, ha trasmesso – con la decisione interlocutoria n. 638 – richiesta
di parere preventivo alla Corte EDU, chiedendo se lo Stato eccedesse il proprio margine di
apprezzamento rifiutando di registrare l’atto di nascita estero nella parte in cui attribuisce la
maternità alla madre intenzionale e se l’adozione del figlio biologico del coniuge potesse rap-
presentare una valida alternativa alla trascrizione. L’attivazione, per la prima volta, della pro-
cedura prevista dal Protocollo n. 16 costituisce un inedito esempio di dialogo interpretativo
tra Corti e ha, del pari, rappresentato la via attraverso cui (tentare di) conciliare il margine di
apprezzamento rimesso agli Stati ed il perseguimento del best interest of the child. In partico-
lare, secondo l’Advisory opinion resa in data 10 aprile 2019, il superiore interesse del minore
impone agli Stati di riconoscere il rapporto di filiazione tra la madre non biologica e il figlio
nato tramite maternità surrogata, accertato nel certificato di nascita legalmente ottenuto all’e-
stero, essendo l’assoluta impossibilità di stabilire il legame di filiazione con la madre inten-
zionale incompatibile con il superiore interesse del minore (C. EDU, Paradiso e Campanelli
c. Italia, del 24.01.2017, parr. 35-42); al contempo, il rispetto del margine di apprezzamento
rimesso agli Stati richiede che detto riconoscimento non debba obbligatoriamente avvenire
per mezzo della registrazione dell’atto di nascita, ma possa parimenti ottenersi mediante la
procedura di adozione, purché offra una protezione tempestiva ed efficace dell’interesse del
minore (C. EDU, Paradiso e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017, parr. 53 e 54).
L’attività pretoria qui brevemente analizzata, come da ultimo arricchitasi del parere
consultivo della Grande Camera della Corte EDU, ha, a ben vedere, attenuato l’assolutezza
del divieto della maternità surrogata, aprendo la via alla legalizzazione ex post di una pratica
legislativamente non consentita. In tal senso orienta la decisione conclusivamente adottata
dall’alta giurisdizione francese il 4 ottobre 2019, la quale ha ritenuto di non poter ricorrere
all’istituto – pur astrattamente ammesso da Strasburgo – dell’adozione in quanto inidoneo
al perseguimento effettivo, tempestivo e concreto dell’interesse del minore. Abbandonando
la vicenda concreta del caso Menneson, l’eco dell’Advisory opinion della Corte EDU arriva
anche in Italia, ove le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno formulato il principio di
diritto per il quale «il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale stra-
niero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante
il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italia-
na trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità previsto dall’art. 12, comma sesto,
della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a
tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione»,
con la specificazione per quale «la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti pre-
valenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal
legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro
la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale mediante il ricorso ad altri strumenti
giuridici, quali l’adozione in casi particolare, prevista dall’art. 44, comma primo, lett. d),
della legge n. 184 del 1983» (Cass., S.U., sent. n. 12193/2019, del 08.05.2019, p.to 13.4).
5. Fine vita
Un ambito del biodiritto particolarmente influenzato dal progresso della scienza me-
dica è rappresentato dal c.d. fine-vita, in cui rientrano i temi delle pratiche eutanasiche e del
Biodiritto 45
suicidio assistito. La scienza ha, a ben vedere, ampliato le aspettative di vita e, al contempo,
lasciato insorgere nuove problematiche etico-giuridiche relative alle fasi terminali dell’esi-
stenza. In tale prospettiva acquista rilievo il diritto alla salute come dinamicamente interpre-
tato quale stato di benessere globale (anche psichico e sociale) dell’individuo, nel prisma del
principio personalista, del valore della dignità umana e, finanche, del diritto all’autodetermi-
nazione.
La Corte EDU si è in più occasioni pronunciata in materia di eutanasia e suicidio
assistito, a partire dalla sentenza Pretty c. Regno Unito, in cui la Corte ha significativamente
affermato che l’art. 2 CEDU non può essere interpretato nel senso di attribuire il diritto di
morire, né per mano di una terza persona, né con l’assistenza della pubblica autorità (C.
EDU, Pretty c. Regno Unito, del 29.04.2002, parr. 37-42). La giurisprudenza di Strasburgo
ha, del pari, riconosciuto la compatibilità con la Convenzione delle legislazioni nazionali che
ammettono forme di suicidio assistito a condizione che la persona sia in grado di formare ed
esprimere la propria volontà di rifiutare le cure, anche salva vita, in modo libero e consape-
vole (C. EDU, Haas c. Svizzera, del 20.01.2011, par. 54) o che sia prevista una rigorosa pro-
cedura di accertamento medico ed assicurato il ricorso all’autorità giudiziaria (C. EDU, Lam-
bert e altri c. Francia, del 05.06.2015, parr. 117-181). La regolamentazione dell’assistenza
al suicidio presuppone, infatti, un delicato bilanciamento tra l’obbligo positivo discendente
dall’art. 8 CEDU di adottare le misure necessarie per garantire che il suicidio avvenga in
modo più sicuro e meno doloroso possibile, nel rispetto del principio di autodeterminazione,
e l’obbligo positivo di cui all’art. 2 CEDU di assicurare che la decisione di porre termine alla
propria vita venga presa in piena coscienza. Evidente, dunque, come le decisioni relative al
fine vita involgano, ad un tempo, il diritto alla vita ed il diritto al rispetto della vita privata
nella sua declinazione di diritto alla autodeterminazione terapeutica, alla luce del meta-valore
della dignità umana.
La Corte EDU ha esaminato la questione del suicidio assistito per la prima volta nella
sentenza Pretty c. Regno Unito, del 29 aprile 2002, con cui la Corte si è pronunciata sul ricor-
so di una donna affetta da una grave malattia degenerativa, la quale lamentava la violazione
degli artt. 2, 3, 8, 9 e 14 CEDU per non avere ricevuto garanzie da parte delle autorità britan-
niche a che il marito non avrebbe avuto a subire un procedimento giudiziario nell’ipotesi in
cui l’avesse aiutata nel suo proposito di suicidarsi.
La Corte EDU ha escluso la violazione dell’art. 8 CEDU, in quanto la qualificazione ai
sensi della legge britannica dell’assistenza al suicidio come reato risultava essere proporzio-
nata rispetto al valore prevalente attribuito al diritto alla vita, all’obiettivo legittimo di evitare
abusi e proteggere una categoria di persone particolarmente vulnerabile, quale quella delle
persone affette da gravi malattie terminali (C. EDU, Pretty c. Regno Unito, del 29.04.2002,
par. 74). Pertanto, alla luce di tale significativa pronuncia, l’impossibilità di ricorrere al suici-
dio per mano altrui, in presenza di una malattia degenerativa incurabile, dovuta alla sanziona-
bilità in sede penale della condotta di assistenza al suicidio configura un’ingerenza nella vita
privata giustificata, ai sensi del paragrafo 2 dell’articolo 8 CEDU, dall’esigenza di proteggere
i diritti – e, in specie, il diritto alla vita – delle persone malate.
Al contempo, come suaccennato, sono conformi a Convenzione quelle legislazioni
maggiormente permissive che subordinano l’esercizio del diritto di porre fine alla propria
vita a condizioni preordinate ad evitare abusi e a garantire il convincimento libero e infor-
mato del paziente. In tal senso acquista rilievo la sentenza Haas c. Svizzera, del 20 gennaio
2011, relativa al caso di una persona affetta da psicopatia cui era stata negata la prescrizione
di un potente barbiturico necessario al suicidio e che aveva, conseguentemente, lamentato la
contrarietà della disciplina svizzera all’art. 8 CEDU. La Corte riconosce che il diritto di de-
46 A n na Ca m i l l a Vi s c o n t i
cidere in che modo e in quale momento morire rientra nel diritto al rispetto della vita privata
e pone in evidenza le differenze tra il caso in oggetto e il precedente Pretty c. Regno Unito,
sottolineando che l’oggetto della questione è se, ai sensi dell’art. 8 CEDU, lo Stato sia gra-
vato dell’obbligo positivo di adottare le misure necessarie a consentire un suicidio dignitoso
(C. EDU, Haas c. Svizzera, del 20.01.2011, parr. 51-53). Con riguardo al bilanciamento tra i
concorrenti interessi coinvolti, i Giudici di Strasburgo non mancano di riconoscere (e com-
prendere) il desiderio del ricorrente di porre fine alla propria vita in modo sicuro e dignitoso,
senza inutili sofferenze; purtuttavia, ritengono che le condizioni stabilite dalla legga svizzera
– ovverosia l’obbligo di ottenere una prescrizione medica – perseguano l’obiettivo legittimo
di evitare decisioni affrettate e di prevenire abusi, assicurando, del pari, che un paziente non
in grado di esprimere la propria volontà con discernimento non ottenga una dose letale di un
potente barbiturico (C. EDU, Haas c. Svizzera, del 20.01.2011, par. 56). Vieppiù, la Corte
EDU sottolinea la stringente necessità di prevedere condizioni e limiti nei Paesi – come
la Svizzera – dotati di legislazioni complessivamente permissive nei confronti del suicidio
e conclude che lo Stato convenuto non abbia ecceduto l’ampio margine di apprezzamento
discendente in questo ambito dall’art. 8 CEDU, avendo, anzi, operato un ragionevole bilan-
ciamento tra i concorrenti interessi coinvolti (C. EDU, Haas c. Svizzera, del 20.01.2011, parr.
57 e 61).
Il caso Koch c. Germania del 19 luglio 2012, concerne le fondamentali questioni
di “fine-vita” relative al desiderio di un paziente di porre fine autonomamente alla propria
vita; nel caso di specie, infatti, era stato negato alla moglie del ricorrente l’autorizzazione ad
acquistare una sostanza letale in Germania al fine di porre fine alla propria “vita biologica”.
In tal senso, il ricorrente lamenta che il rifiuto da parte dei tribunali tedeschi di esaminare
nel merito le proprie doglianze circa la mancata autorizzazione ad acquistare detta sostanza
avrebbe violato il diritto alla vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU. Ad avviso del
ricorrente, infatti, a sua moglie era stato impedito di porre fine alla sua vita nella privacy della
casa familiare, come inizialmente pianificato dalla coppia, con la conseguenza che si erano
visti costretti a recarsi in Svizzera per ricorrere al suicidio assistito (C. EDU, Koch c. Ger-
mania del 19.07.2012, par. 36). Nell’opinione del ricorrente, il diritto alla vita di cui all’art.
2 CEDU non conterrebbe alcun obbligo di vivere fino alla “fine naturale” e la decisione della
moglie di porre fine alla propria “vita biologica” (id est, “artificiale”) non contrasterebbe,
pertanto, con la Convenzione, in quanto l’assunzione del farmaco richiesto le avrebbe sem-
plicemente consentito un suicidio dignitoso ed indolore (C. EDU, Koch c. Germania del
19.07.2012, par. 39).
In applicazione dei principi enucleati dalla propria attività pretoria in materia di scelte
di fine vita – in particolare, i casi Pretty c. Regno Unito e Haas c. Svizzera – la Corte EDU
ha ritenuto che la mancata autorizzazione da parte del Federal Institute ed il rifiuto da parte
dei tribunali amministrativi interni di esaminare nel merito le doglianze del ricorrente confi-
gurasse una indebita ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 CEDU
(par. 54). I Giudici di Strasburgo hanno, in specie, ritenuto che tale ingerenza non fosse
giustificata ai sensi del paragrafo 2 della disposizione convenzionale, in quanto il rifiuto dei
tribunali nazionali di esaminare nel merito le doglianze del ricorrente non aveva persegui-
to alcuno degli obiettivi legittimi previsti dall’art. 8, par. 2 CEDU, in violazione dei diritti
procedurali del ricorrente. Sulla scorta di tali considerazioni, come ulteriormente rafforzate
dall’ampio margine di apprezzamento accordato agli Stati contraenti e dal principio di sussi-
diarietà, la Corte EDU conclude nel senso della violazione dell’art. 8 CEDU (C. EDU, Koch
c. Germania del 19.07.2012, parr. 65-72).
Biodiritto 47
Una sentenza di indubbio rilievo in relazione alle scelte di fine vita è la sentenza della
Grande Camera resa nel caso Lambert e altri c. Francia, del 5 giugno 2015, a seguito del ri-
corso presentato dai genitori e da due fratelli di Vincent Lambert – il quale si trovava in stato
vegetativo con danni cerebrali irreversibili –, ad avviso dei quali l’interruzione dei trattamen-
ti di sostegno vitale avrebbe configurato una violazione degli artt. 2, 3 e 8 della Convenzione.
Il caso involge le questioni mediche, etiche e giuridiche che caratterizzano le situa-
zioni di confine – di vite “artificiali” – che si verifichino ogniqualvolta la scienza medica
determini un prolungamento delle fasi terminali dell’esistenza. Il caso ha, infatti, ad oggetto
le questioni eticamente sensibili dell’accanimento terapeutico e dell’interruzione dei tratta-
menti medici salva-vita nei casi di “ostinazione irragionevole”, secondo quanto stabilito dalla
legislazione francese e, in specie, dal Leonetti Act del 2005 per come interpretato dai giudici
interni. La vicenda giudiziaria origina, in particolare, dal contrasto tra i genitori e due fratelli
di Vincent Lambert, da un lato, e la moglie, gli altri sei fratelli e sorelle e il nipote, dall’altro,
divisi sulla decisione se interrompere o meno i trattamenti. È evidente come gli stessi fatti
all’origine della causa sollevino la questione centrale della concezione della vita (e della
qualità della stessa) tra una concezione “artificiale” ed una “soggettiva”, come, a ben vedere,
traspare dalla pronuncia (richiamata ai paragrafi 29-37 della sentenza della Corte EDU) del
Conseil d’État del 14 febbraio 2014 con cui era stata dichiarata la liceità della decisione dei
medici di sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiali.
Quanto alle doglianze sollevate dai ricorrenti, i Giudici di Strasburgo sottolineano che
il Leonetti Act non autorizza né l’eutanasia né il suicidio assistito, limitandosi a prevedere la
possibilità di interrompere quei trattamenti di sostegno vitale che si rivelino essere ostina-
tamente irragionevoli alla luce del quadro clinico e delle prospettive future del paziente, nel
rispetto di una procedura collegiale che vede coinvolti l’équipe medica, i familiari e le dispo-
sizioni eventualmente rese dal paziente (C. EDU, Lambert e altri c. Francia, del 05.06.2015,
par. 121). Sotto il profilo del diritto alla vita, in specie, la sentenza esclude che la legge
francese, come interpretata dal Conseil d’État violi le disposizioni convenzionali invocate
dai ricorrenti, affermando che i giudici interni hanno enucleato due importanti garanzie, sta-
bilendo, in primo luogo, che la semplice sussistenza di uno stato di incoscienza irreversibile
non è condizione necessaria e sufficiente perché un trattamento configuri una ostinazione ir-
ragionevole e che nel caso in cui i desideri del paziente rimangano oscuri, si deve propendere
per un’interpretazione “pro vita”, con l’effetto che i desideri rimasti inespressi non possono
né debbono essere interpretati quali rifiuto di essere tenuti in vita (C. EDU, Lambert e altri
c. Francia, del 05.06.2015, par. 159). Di talché, le disposizioni del Leonetti Act delineano un
quadro giuridico sufficientemente chiaro sotto il profilo del rispetto degli obblighi derivanti
dall’art. 2 CEDU (C. EDU, Lambert e altri c. Francia, del 05.06.2015, par. 160). Nel caso
di specie, la Corte EDU ritiene che lo Stato convenuto abbia adempiuto ai propri obblighi
positivi ex art. 2 CEDU, ritenendo che tanto il quadro legislativo di riferimento, quanto l’in-
terpretazione fornitane dai giudici interni ed il processo decisionale – condotto in maniera
meticolosa in considerazione delle circostanze del caso concreto e nel rispetto delle comples-
se questioni etiche, mediche e giuridiche sollevate – siano compatibili con la Convenzione
(C. EDU, Lambert e altri c. Francia, del 05.06.2015, par. 181).
La specifica tematica del suicidio assistito è stata, del pari, affrontata dalla Corte costi-
tuzionale italiana con la recente sentenza n. 242/2019, con cui la Corte è intervenuta al fine di
rimuovere il vulnus costituzionale già rilevato nella precedente ordinanza n. 207/2018 relati-
vamente alla fattispecie di reato di cui all’art. 580 del codice penale, nella parte in cui incri-
mina le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al
rafforzamento del proposito di suicidio. Tralasciando la vicenda (ormai nota) all’origine del
48 A n na Ca m i l l a Vi s c o n t i
caso, basti in questa sede rilevare come la sentenza n. 242/2019 si inserisca nel solco dell’or-
dinanza del 2018, in occasione della quale la Corte costituzionale aveva ritenuto di fissare
un’ulteriore udienza a undici mesi di distanza, sì da lasciare al Parlamento la possibilità di
approvare una Legge regolatrice della materia, evitando al contempo che la norma censurata
potesse trovare applicazione, disponendo la sospensione del giudizio a quo.
Spirato il termine concesso al legislatore senza che sia stato colmato il vuoto norma-
tivo in materia, la Corte costituzionale non si è potuta esimere dal pronunciarsi nel merito,
dichiarando l’art. 580 c.p. costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e
32, co. 2, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste
dagli artt. 1 e 2 della L. n. 219/2017, recante «Norme in materia di consenso informato e di
disposizioni anticipate di trattamento», «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, auto-
nomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno
vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che
ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli,
sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura
pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente
competente» (C. cost., sent. n. 242/2019, p.to 8 cons. in dir.). La normativa censurata entra,
difatti, in frizione con i parametri costituzionali evocati, i quali impongono il rispetto della
persona umana e, con essa, del principio di autodeterminazione anche nelle fasi terminali
dell’esistenza, nel rispetto del principio della dignità umana. La trasformazione – ad opera
della scienza medica – dell’“evento morte” in “processo del morire” impone, infatti, nuove
risposte giuridiche (ad altrettanto nuove istanze di tutela), che siano coerenti con l’impianto
personalista proprio della Carta costituzionale. In tal senso, la Corte sottolinea che l’art.
580 c.p. non si attaglia a quelle «situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incri-
minatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scien-
za medica e della tecnologia», nelle quali l’aiuto di soggetti terzi nel compimento dell’atto
estremo assume la connotazione di unica modalità attuativa della scelta del paziente su come
e quando interrompere una vita artificiale non voluta, in linea con il diritto di rifiutare le
cure sancito dall’art. 32, co. 2 Cost. (C. cost., sent. n. 242/2019, p.to 2.3 cons. in dir.) In tal
senso orienta sia il quadro normativo come recentemente completato dalla L. n. 219/2017 in
materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, sia la giurisprudenza
ordinaria nazionale (in particolare i noti casi Welby ed Englaro) e convenzionale sugli artt.
2 e 8 CEDU. Con la sentenza in esame, la Corte costituzionale è, pertanto, intervenuta nelle
more dell’intervento del legislatore a “legalizzare” l’assistenza al suicidio sebbene in casi e
secondo modalità previamente individuate, sì da evitare il rischio di abusi a danno della vita
delle persone in situazioni di vulnerabilità, come si trae dal richiamo alla disciplina contenuta
agli artt. 1 e 2 della più volte citata L. n. 219/2017. Analogamente, il Secondo Senato del
Bundesverfassungsgericht ha recentemente dichiarato incostituzionale il par. 217 del StGB
(codice penale tedesco), che punisce i servizi di suicidio assistito (BVerfG – 2 BvR 2347/15
– 26.02.2020). Ad avviso del BVerfG, il diritto all’autodeterminazione nella morte rientra nel
più generale “diritto al libero sviluppo della propria personalità” (Persönlichkeitsrecht) di
cui all’art. 2, co. 1 GG, alla luce del principio di dignità umana (Menschenwürde) ex art. 1,
co. 1 GG., in relazione al quale il diritto di disporre della propria vita rientra nel più intimo e
personale ambito dell’autodeterminazione.
Biodiritto 49
disposizioni – art. 14 CEDU e art. 21 CDFUE – sebbene analoghe, non sono perfettamente
coincidenti, in quanto l’art. 21 CDFUE prevede talune clausole di non discriminazione ag-
giuntive rispetto a quelle elencate dall’art. 14 CEDU, tra cui, per quanto rileva ai nostri fini,
l’«orientamento sessuale» e «le caratteristiche genetiche»; tale riferimento al dato genetico
riproduce, tra l’altro, la formulazione dell’art. 11 della già citata Convenzione sui Diritti
dell’Uomo e la biomedicina, ai sensi del quale «ogni forma di discriminazione nei confronti
di una persona in ragione del suo patrimonio genetico è vietata».
Come suaccennato, in tema di transessualismo rileva, altresì, il diritto alla «vita pri-
vata» di cui all’art. 8 CEDU, per come estensivamente interpretato dalla Corte EDU (su cui,
infra) ed il «diritto al matrimonio» riconosciuto dall’art. 12 CEDU e dall’art. 9 CDFUE,
disposizione, quest’ultima, significativamente priva di qualsivoglia riferimento a “uomo” e
“donna”.
In aggiunta alle disposizioni contenute nelle c.d. Carte dei diritti, lo status giuridico
dei transessuali è stato largamente interessato e condizionato da numerosi altri atti giuridici
adottati a livello internazionale ed euro-unitario allo scopo di implementare il livello di tutela
accordato alle persone transessuali.
Già nel 1989 l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa adottò una Racco-
mandazione sulla condizione dei transessuali [Raccomandazione 1117(1989)] in cui, in con-
siderazione dei progressi medici in ambito chirurgico e della potenziale esposizione a discri-
minazioni e violazioni della propria sfera privata, veniva segnalata la necessaria introduzione
negli Stati membri di legislazioni che introducessero, in caso di “transessualismo irrever-
sibile”, la rettificazione nei documenti di stato civile delle voci relative al sesso e al nome.
Sotto il profilo della parità di trattamento, basti citare la Direttiva 2006/54/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, «riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della
parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione)»
(c.d. Gender Recast Directive) che significativamente introdusse per la prima volta, sulla
scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia (su cui, infra), un esplicito riferimento alle
discriminazioni fondate sul cambiamento del sesso (cfr. Considerando n. 3).
Ancora, nel 2007 sono stati redatti i Yogyakarta Principles on the Application of Hu-
man Rights Law in Relation to Sexual Orientation and Gender Identity, aggiornati il 10
novembre 2017 (The Yogyakarta Principles Plus 10 – YP + 10) allo scopo di promuovere
standard internazionali di tutela, fornendo un utile strumento di identificazione degli obbli-
ghi gravanti sugli Stati in materia di riconoscimento e tutela dei diritti umani, a prescindere
dall’identità di genere. Ad ulteriore conferma del ruolo centrale rivestito dalla giurisprudenza
EDU nel campo dei diritti fondamentali dei transessuali, la Raccomandazione del Consiglio
dei Ministri del Consiglio d’Europa [CM/Rec(2010)5] ha invitato gli Stati membri ad adotta-
re misure appropriate a garantire il pieno riconoscimento giuridico del cambiamento di sesso
in tutti gli ambiti della vita della persona transessuale, rendendo possibile la rettificazione dei
documenti di stato civile.
Come suaccennato, nel contesto di progressiva implementazione dei diritti legati all’i-
dentità di genere, un ruolo di primo momento è rivestito dalla giurisprudenza.
La stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si è fatta “portavo-
ce” dell’evoluzione intervenuta in ambito sociale e scientifico, arrivando a ricondurre i diritti
delle persone transessuali e/o transgender nell’ambito applicativo dell’art. 8 CEDU, posto a
tutela della «vita privata e familiare». Sul punto, la Corte EDU ha reiteratamente affermato
che il concetto di «vita privata» è ampio e suscettibile di ricomprendere non solo l’integrità
psico-fisica della persona, bensì anche l’identità sociale e di genere. In tal senso, la Corte
ha affermato che la “sfera sessuale”, con riguardo tanto all’orientamento sessuale quanto
Biodiritto 51
all’identità di genere, ricade nell’ambito applicativo dell’art. 8 CEDU, nella parte in cui con-
tribuisce a definire la sfera personale dell’individuo (cfr., ex plurimis, C. EDU, Van Kück c.
Germania, del 12.06.2003, par. 69; K.A. e A.D. c. Belgio, del 17.02.2005, parr. 78-79; e, più
recentemente, Y.Y. c. Turchia, del 10.03.2015, par. 56; A. P. Garçon and Nicot c. Francia, del
06.04.2017, par. 92).
La giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizia in tema di identità di ge-
nere è di indubbio rilievo, in quanto “veicolo” e “risultante” del mutare del contesto culturale
e scientifico in materia. In particolare, se la giurisprudenza della Corte di Giustizia si è con-
centrata principalmente sul profilo dell’estensione alle persone transessuali della legislazione
europea in materia di parità di trattamento e non discriminazione, la giurisprudenza della
Corte EDU ha rivestito (e riveste) un ruolo di primo momento anche con specifico riguardo
alle legislazioni e alle procedure amministrative previste dagli Stati per la rettificazione giu-
diziale del sesso (e del nome) nei documenti di stato civile.
La Corte di Giustizia, in particolare, ha tratteggiato la strada da intraprendere per
includere l’identità di genere nella legislazione europea sull’eguaglianza di genere. A partire
dal decisivo caso P. c. S. e Cornwall County Council (C. Giust. CE, C-13/94, del 30.04.1996),
la Corte si è pronunciata su svariati casi di rettificazione di sesso (ex plurimis, C. Giust. UE,
K. B. c. National Health Service Pensions Agency e Secretary of State for Health, C-117/01,
del 07.01.2004 e Sarah Margaret Richards v. Secretary of State for Work and Pensions,
C-423/04, del 27.04.2006), lasciando, tuttavia, in ombra le esigenze delle persone transgen-
der che non si siano sottoposte a trattamenti chirurgici.
La causa P. c. S. e Cornwall County Council del 30 aprile 1996, avente ad oggetto la
domanda di pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione della Direttiva del Consi-
glio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE «relativa all’attuazione del principio di parità di trattamen-
to tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promo-
zione professionali e le condizioni di lavoro» ha rappresentato una tappa decisiva in questo
campo. La Corte di Giustizia ha statuito che lo scopo della Direttiva 76/207/CEE non potesse
essere limitato ai soli casi di discriminazione tra persone appartenenti a sesso diverso, ma
che, a contrario, includesse anche le forme di discriminazione dovute al mutamento di sesso
di una persona transessuale, sì da concludere nel senso che la Direttiva osta al licenziamento
di una persona transessuale per motivi connessi al mutamento di sesso.
Un’altra decisione di indubbio rilievo è la sentenza K. B. c. National Health Service
Pensions Agency del 7 gennaio 2004, nella quale la Corte di Giustizia ha dichiarato l’incom-
patibilità della legislazione del Regno Unito con l’art. 141 TCE (ora art. 157 TFUE), nella
parte in cui, in violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, impedisce a una coppia (come quella costituita dai ricorrenti) di
soddisfare la condizione del matrimonio, necessaria affinché uno di essi possa godere di un
elemento della retribuzione dell’altro. In tale significativa pronuncia, la CGUE richiama un
precedente della Corte EDU – il caso Christine Goodwin c. Regno Unito – in cui i Giudici
di Strasburgo avevano dichiarato che l’impossibilità per un transessuale di contrarre matri-
monio con una persona del sesso al quale egli apparteneva prima dell’operazione di modifica
del sesso costituisse una violazione del diritto al matrimonio garantito dall’art. 12 CEDU (C.
EDU, Christine Goodwin c. Regno Unito, del 11.07.2002, par. 33).
Nel solco del medesimo filone giurisprudenziale si colloca la sentenza Sarah Mar-
garet Richards v. Secretary of State for Work and Pensions, del 27 aprile 2006, avente ad
oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione di talune dispo-
sizioni della Direttiva del Consiglio del 19 dicembre 1978, 79/7/CE, «relativa alla graduale
attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donna in materia di sicurez-
52 A n na Ca m i l l a Vi s c o n t i
è stato affrontato dalla Corte costituzionale italiana, con sentenza n. 170/2014, con cui la
Corte ha censurato la disciplina del “divorzio imposto” previsto dalla L. n. 164/1982 recante
«Norme in materia di attribuzione di rettificazione di sesso», nella parte in cui la sentenza di
rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del
matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio,
consente, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia
giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i
diritti ed obblighi della coppia medesima.
Rileva, infatti la Corte costituzionale che la normativa italiana censurata risolve il
contrasto tra i contrapposti interessi rilevanti – pubblici e privati – a decisivo favore dell’in-
teresse dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio «restando chiusa
ad ogni qualsiasi, pur possibile, forma di suo bilanciamento con gli interessi della coppia, non
più eterosessuale, ma che, in ragione del pregresso vissuto nel contesto di un regolare ma-
trimonio, reclama di essere, comunque, tutelata come “forma di comunità”, connotata dalla
“stabile convivenza tra due persone”, “idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della
persona nella vita di relazione”» (C. cost., sent. n. 170/2014, p.to 5.6 cons. in dir.).
Con specifico riferimento allo status dei transgender, si impone all’attenzione il caso
A. P. Garçon and Nicot c. Francia del 6 aprile 2017, relativo a tre persone transgender di
nazionalità francese cui era stata negata la rettificazione giudiziale delle voci relative al sesso
e al nome nei documenti di stato civile, in applicazione della legislazione francese del tempo.
Nel presente caso, la Corte ha statuito che il diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU si
applica pienamente all’identità di genere, quale componente essenziale dell’identità persona-
le, in speciale riferimento alla libertà di autodeterminazione, nel cui prisma la disposizione
convenzionale in parola deve essere interpretata (C. EDU, A. P. Garçon and Nicot c. Francia,
del 06.04.2017, parr. 92-93). In tale pronuncia, i Giudici di Strasburgo tornano ad esprimersi
in merito alle procedure degli Stati per il riconoscimento dell’identità di genere, affermando
che la subordinazione del riconoscimento dell’identità di genere delle persone transgender
ad un intervento chirurgico di sterilizzazione o, ad ogni modo, a un trattamento che, per sua
natura ed intensità, comporti un’altissima probabilità di sterilità, configura una violazione
dell’art. 8 CEDU. In merito alla questione centrale della condizione posta dal diritto positivo
francese della “irreversible nature of the change in appearance”, la Corte evidenzia l’ambi-
guità sollevata dal contestuale utilizzo dei termini “apparenza” e “irreversibile”, sottoline-
ando come il concetto di irreversibilità rifletta una trasformazione radicale che, a sua volta,
solleva il concetto di sterilità (C. EDU, A. P. Garçon and Nicot c. Francia, del 06.04.2017,
parr. 116-120). Conseguentemente, la Corte EDU statuisce che subordinare il riconoscimen-
to giuridico dell’identità di genere (mediante rettificazione dei documenti di stato civile) a
un non voluto intervento chirurgico di tale invasività e definitività equivale a subordinare il
pieno esercizio del diritto al rispetto della vita privata alla rinuncia al godimento e all’eser-
cizio del diritto all’integrità fisica tutelato dagli artt. 8 e 3 della Convenzione (C. EDU, A. P.
Garçon and Nicot c. Francia, del 06.04.2017, par. 133). Sulla base di tali argomentazioni,
la Corte EDU dichiara la violazione dell’art. 8 CEDU con riferimento al secondo e al terzo
ricorrente, relativamente all’obbligo della previa sottoposizione ad un trattamento chirurgico
di modifica del sesso, mentre esclude la violazione dell’art. 8 CEDU relativamente all’ob-
bligo imposto al secondo ricorrente di dimostrare di soffrire di un disordine dell’identità di
genere, nonché, con riferimento al primo ricorrente, relativamente alla richiesta da parte delle
autorità di sottoporsi a un esame medico.
Un altro caso meritevole di essere menzionato è il caso S. V. c. Italia dell’11 ottobre
2018. Il caso concerne la mancata autorizzazione da parte delle autorità italiane a cambiare
Biodiritto 55
il nome da maschile a femminile sui documenti di una persona transgender per non avere la
stessa ancora subito il trattamento chirurgico di modifica del sesso. La Corte di Strasburgo
riscontra una violazione dell’art. 8 CEDU, in quanto l’impossibilità per la transgender richie-
dente di ottenere la modifica del nome, in ragione del fatto che il processo di transizione di
genere non era stato completato mediante un intervento di riassegnazione di genere, costitu-
iva un mancato adempimento da parte dello Stato italiano dell’obbligo positivo di garantire
il diritto della richiedente al rispetto della sua vita privata. Ad avviso della Corte, infatti, la
rigida natura della procedura giudiziaria per il riconoscimento dell’identità di genere delle
persone transgender, come in vigore all’epoca, aveva lasciato la ricorrente in una posizione
anomala in grado di generare sentimenti di vulnerabilità, umiliazione e ansia.
Tali ultime pronunce della Corte si lasciano apprezzare con speciale riferimento ai
casi di persone che pur vivendo una discordanza tra “sesso” e “genere”, non intendano sotto-
porsi a trattamenti chirurgici di modificazione del sesso o non abbiano ancora ultimato il pro-
cesso medico di transizione, senza per ciò solo dover rinunciare al diritto alla rettificazione
giudiziale dei documenti di stato civile, atteso e considerato che trattamenti chirurgici com-
portanti la sterilità si rivelano – come affermato dalla giurisprudenza – altamente impattanti
su svariati aspetti dell’integrità individuale, da quella fisica a quella psicologica ed emotiva.
In tale prospettiva, la giurisprudenza della Corte EDU si presenta di indubbia rile-
vanza nell’ottica della implementazione dei diritti fondamentali delle persone transessuali,
anche alla luce dei dati emergenti dal Trans Rights Europe Map. Dal confronto dei dati degli
anni 2016 e 2019, emerge un evidente avanzamento in punto di riconoscimento dei diritti
delle persone transessuali, sotto il profilo del diritto all’adeguamento dei documenti di stato
civile, in risposta alla sentenza A. P. Garçon and Nicot c. Francia sopra esaminata, a seguito
della quale gli Stati membri del Consiglio d’Europa hanno dovuto conformare le proprie
legislazioni al diritto convenzionale come interpretato dalla Corte EDU. In tale prospettiva,
significative sono talune Risoluzioni dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa,
quali la Resolution on Discrimination on the basis of sexual orientation and gender identity
[Resolution 1728(2010)], la Resolution on Discrimination against transgender people in Eu-
rope [Resolution 2048(2015)], la Resolution on Promoting the human rights of and elimina-
ting discrimination against intersex people [Resolution 2191(2017)] e, ancora, la Resolution
on Private and family life: achieving equality regardless of sexual orientation [Resolution
2239(2018)]. Tali Risoluzioni succedutesi dal 2010 in avanti, lasciano, infatti, emergere la
centralità del diritto all’adeguamento dei documenti ufficiali all’identità di genere ai fini del
pieno godimento dei diritti fondamentali e, in specie, dell’inveramento del principio di parità
di trattamento tanto nelle relazioni attinenti alla sfera pubblica, quanto in quelle rientranti
nella sfera privata e familiare.
7. Cenni conclusivi
Le considerazioni che precedono testimoniano le peculiarità ed i profili evolutivi che
interessano l’area del biodiritto. Il progresso della scienza, unitamente all’evoluzione del sen-
tire sociale, ha inevitabilmente aperto il varco a nuove istanze di tutela poste al crocevia tra
scienza, diritto ed etica. L’intersezione di diversi campi del sapere e la velocità del progresso
scientifico e medico ne rendono, del pari, altamente complessa la regolamentazione per via
legislativa, rendendosi sovente necessari interventi pretori che possano, a seconda dei casi,
flessibilizzare e/o adattare la normativa esistente al progresso scientifico e sociale e colmare
eventuali vuoti normativi in materia. Emblematica, in tal senso, la giurisprudenza in materia
di procreazione medicalmente assistita, maternità surrogata, fine vita e, ancora, di identità
56 A n na Ca m i l l a Vi s c o n t i
di genere, nelle cui maglie si intravede lo iato tra contrapposte concezioni del bene “vita” e,
in specie, tra una concezione vitalistica e una concezione soggettiva dello stesso. Parimenti,
nella giurisprudenza analizzata emerge la centralità della persona umana e della sua dignità
relativamente a quelle situazioni “di confine” che l’evoluzione medico-scientifica e della sen-
sibilità sociale ha progressivamente dilatato. È in tale contesto che, in definitiva, si inscrive
quello che si potrebbe definire un vero e proprio “dialogo bioetico tra Corti” attraverso cui
delineare i punti fermi in materia, in virtù di un rapporto osmotico tra livelli ordinamentali.
Sezione 2
Comm. EDU, Brüggemann e Scheuten c. Germania, del 12.07.1977
C. EDU/ECtHR, Boso c. Italia, del 05.09.2002
C. EDU/ECtHR, Vo c. Francia, del 08.07.2004
C. EDU/ECtHR, Tysiąc c. Polonia, del 10.03.2007
C. EDU/ECtHR, A., B. e C. c. Irlanda, del 16.12.2010
C. EDU/ECtHR, P. e S. c. Polonia, del 30.10.2012
C. Giust. CEE/ECJ, Society for the Protection of Unborn Children Ireland / Grogan e a., C-159/90, del 04.10.1991
Sezione 3
C. EDU/ECtHR, Evans c. Regno Unito, del 10.04.2007
C. EDU/ECtHR, Dickson c. Regno Unito, del 04.12.2007
C. EDU/ECtHR (Sez. I), S.H. e altri c. Austria, del 01.04.2010
C. EDU/ECtHR (GC), S.H. e altri c. Austria, del 03.11.2011
C. EDU/ECtHR, Gas e Dubois c. Francia, del 15.03.2012
C. EDU/ECtHR, Costa e Pavan c. Italia, del 28.08.2012
Sezione 4
C. EDU/ECtHR, Mennesson c. Francia, del 26.06.2014
C. EDU/ECtHR, Labassee c. Francia, del 26.06.2014
C. EDU/ECtHR, (Sez. II), Paradiso e Campanelli c. Italia, del 27.01.2015
C. EDU/ECtHR (GC), Paradiso e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017
Sezione 5
C. EDU/ECtHR, Sanles Sanles c. Spagna, del 26.10.2000
C. EDU/ECtHR, Pretty c. Regno Unito, del 29.04.2002
C. EDU/ECtHR, Haas c. Svizzera, del 20.01.2011
C. EDU/ECtHR, Koch c. Germania, del 19.07.2012
C. EDU/ECtHR, Lambert e altri c. Francia, del 05.06.2015
Sezione 6
C. EDU/ECtHR, Rees c. Regno Unito, del 17.10.1986
C. EDU/ECtHR, Cossey c. Regno Unito, del 27.09.1990
C. EDU/ECtHR, B. c. Francia, del 25.03.1992
C. EDU/ECtHR, Sheffield e Horsham c. Regno Unito, del 30.07.1998
C. EDU/ECtHR, Christine Goodwin c. Regno Unito, del 11.07.2002
C. EDU/ECtHR, Van Kück c. Germania, del 12.06.2003
C. EDU/ECtHR, K.A. e A.D. c. Belgio, del 17.02.2005
C. EDU/ECtHR, Grant c. Regno Unito, del 23.05.2006
C. EDU/ECtHR, Parry c. Regno Unito, del 28.11.2006
C. EDU/ECtHR, R. e F. c. Regno Unito, del 28.11.2006
C. EDU/ECtHR, L. c. Lituania, del 11.09.2007
C. EDU/ECtHR, Schlumpf c. Svizzera, del 08.01.2009
C. EDU/ECtHR, Y.Y. c. Turchia, del 10.03.2015
C. EDU/ECtHR, A. P. Garçon and Nicot c. Francia, del 06.04.2017
C. EDU/ECtHR, S. V. c. Italia, del 11.10.2018
C. Giust. CE/ECJ, P. c. S. e Cornwall County Council, C-13/94, del 30.04.1996
C. Giust. CE/ECJ, K. B. c. National Health Service Pensions Agency e Secretary of State for Health, C-117/01, del
07.01.2004
Biodiritto 57
C. Giust. CE/ECJ, Sarah Margaret Richards v. Secretary of State for Work and Pensions, C-423/04, del 27.04.2006
C. Giust. UE/ECJ, Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI, C-507/18, del 23.04.2020
Giurisprudenza italiana
C. cost., sent. n. 161/1985 [transessualismo, identità di genere e rettificazione giudiziale dell’attribuzione di sesso]
C. cost., sent. n. 45/2005 [giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo sulla L. n. 40/2004]
C. cost., sent. n. 46/2005 [giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo sulla L. n. 40/2004]
C. cost., sent. n. 47/2005 [giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo sulla L. n. 40/2004]
C. cost., sent. n. 48/2005 [giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo sulla L. n. 40/2004]
C. cost., sent. n. 49/2005 [giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo sulla L. n. 40/2004]
C. cost., ord. n. 334/2008 [interruzione dei trattamenti di sostegno vitale del paziente incapace]
C. cost., sent. n. 151/2009 [procreazione medicalmente assistita – limiti all’applicazione delle tecniche sugli em-
brioni]
C. cost., sent. n. 115/2012 [sanità pubblica – cure palliative e terapia del dolore]
C. cost., sent. n. 170/2014 [rettificazione di sesso e “divorzio imposto”]
C. cost., sent. n. 162/2014 [procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo]
C. cost., sent. n. 221/2015 [transessualismo e rettificazione giudiziale dell’attribuzione di sesso]
C. cost., sent. n. 96/2015 [procreazione medicalmente assistita e diagnosi preimpianto]
C. cost., sent. n. 229/2015 [procreazione medicalmente assistita, divieto di selezione degli embrioni]
C. cost., sent. n. 84/2016 [procreazione medicalmente assistita e sperimentazione sugli embrioni umani]
C. cost., sent. n. 262/2016 [istituzione del registro regionale per le libere dichiarazioni anticipate di trattamento
sanitario – Regioni Friuli-Venezia Giulia]
C. cost., sent. n. 272/2017 [riconoscimento dei figli naturali]
C. cost., ord. n. 207/2018 [suicidio assistito]
C. cost., sent. n. 144/2019 [dichiarazioni anticipate di trattamento]
C. cost., sent. n. 242/2019 [suicidio assistito]
C. cost., sent. n. 221/2019 [procreazione medicalmente assistita – divieto per le coppie dello stesso sesso]
C. cost., ord. n. 271/2020 [maternità surrogata – inammissibilità della richiesta di intervento della “madre gesta-
zionale”]
C. cost., sent. n. 32/2021 [fecondazione eterologa praticata da due donne all’estero]
C. cost., sent. n. 33/2021 [maternità surrogata – riconoscimento giuridico del legame tra il bambino e la coppia che
se ne prende cura]
Trib. Roma, sent. n. 2049/2007 [interruzione dei trattamenti di sostegno vitale]
C. cass., Sez. I civ., sent. n. 21748/2007 [interruzione dei trattamenti di sostegno vitale del paziente incapace]
C. cass., S.U. civ., sent. n. 27145/2008 [interruzione dei trattamenti di sostegno vitale del paziente incapace]
C. cass., Sez. I civ., sent. n. 19599/2016 [maternità surrogata – trascrizione degli atti di nascita formati all’estero]
C. cass., S.U., sent. n. 12193/2019 [maternità surrogata – trascrizione degli atti di nascita formati all’estero]
Sommario: 1. Il divieto di tortura e di trattamenti e pene inumani e degradanti come norma di ius
cogens. – 2. Il divieto di tortura negli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani. – 3. Il carattere
assoluto e inderogabile del divieto di tortura, componente dei core rights del sistema Cedu. – 4. La
tipizzazione delle condotte vietate dall’art. 3 e la soglia minima di gravità. – 5. L’elemento probatorio.
– 6. Il divieto di tortura nel sistema della Cedu: paradigma della tecnica di tutela par ricochet e della
forza espansiva della giurisprudenza di Strasburgo. – 7. Gli obblighi a carico degli Stati discendenti dal
divieto di tortura: obblighi negativi ed obblighi positivi. L’obbligo di inchiesta. – 8. L’uso della forza
su soggetti in condizione di detenzione. – 9. Le condizioni di detenzione: gli spazi delle celle. – 10.
Le condizioni di detenzione: l’igiene, l’alimentazione e la salute del detenuto. – 11. Pene inumane e
degradanti: ergastolo, ergastolo ostativo e art. 41-bis (“carcere duro”). – 12. La tecnica di tutela par
ricochet: il divieto di refoulement come limite all’estradizione, all’espulsione e al respingimento dello
straniero. – 13. Le assicurazioni diplomatiche. – 14. La responsabilità dello Stato per atti di tortura o
trattamenti inumani e degradanti commessi da privati.
il contenuto di una norma imperativa del diritto internazionale generale». La sentenza, pe-
raltro, ha stabilito che ciò non comporta che l’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile
«non sia più applicabile rispetto ad azioni per la responsabilità civile per atti di tortura». Pur
ammettendo il carattere imperativo del divieto di tortura, la Corte ha negato che dallo stesso
potessero conseguire effetti idonei a determinare una limitazione del principio consuetudinario
dell’immunità.
può essere invocata per giustificare la tortura». Anche il Patto sui diritti civili e politici del
1966, all’art. 4, par. 2, include il diritto a non subire tortura o pene o trattamenti inumani o
degradanti tra i diritti il cui godimento non può essere sospeso neppure in caso di pericolo
eccezionale che minacci l’esistenza della nazione.
Il divieto di tortura assume, dunque, carattere assoluto e inderogabile non solo nel
sistema Cedu, ma anche nel diritto internazionale pattizio. Il divieto di tortura è posto a
presidio di un diritto (dignità umana e integrità fisica e psichica) che rientra in un limitato
gruppo di situazioni giuridiche soggettive che tutti gli accordi sopra citati riconoscono come
inderogabili anche in circostanze eccezionali di emergenza. Nulla, quindi, autorizza lo Stato
a sospendere il diritto a non subire tortura.
Il carattere assoluto del divieto emerge, inoltre, dalla giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, la quale ha riconosciuto ad alcuni articoli della Cedu, tra cui l’art. 3, una «tutela
differenziata e rafforzata rispetto ad altri articoli, in virtù del carattere assoluto ed impe-
rativo dei diritti che essi vanno a garantire» (F. c. Regno Unito, sentenza del 22.6.2004).
Paradigmatico, in questo senso, è tale arresto: «anche nelle circostanze più difficili, quali la
lotta al terrorismo o al crimine organizzato, la Convenzione proibisce in termini assoluti la
tortura e le pene o i trattamenti disumani o degradanti (…). Il divieto di tortura o delle pene
o trattamenti disumani o degradanti è assoluto, quale che sia la condotta della vittima» (La-
bita c. Italia, del 6.4.2000). Come precisato dai giudici di Strasburgo, il divieto di cui all’art.
3 esprime uno dei più alti valori propri delle società democratiche (Selmouni c. Francia, del
28.7.1999; par. 95; Labita c. Italia, del 6.4.2000, par. 119; Gäfgen c. Germania, del 1.6.2010,
par. 87; El-Masri c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia, del 13.12.2012, par. 195; Mo-
canu e altri c. Romania, del 17.9.2014, par. 315) ed è strettamente collegato al rispetto della
dignità umana (Cantaragiu c. Moldavia, del 24.3.2020).
Anche il Comitato contro la tortura, istituito ai sensi della Convenzione Onu contro
la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, ha ribadito, nel suo State-
ment del 22 novembre del 2001 il valore assoluto e l’inderogabilità del divieto di tortura. Il
Comitato, in particolare, ha inteso confermare una delle conquiste più rilevanti del sistema
internazionale di garanzia dei diritti umani, ossia che il necessario bilanciamento tra il diritto
dello Stato di difendere la collettività e la tutela dei diritti fondamentali del singolo non può
avvenire attraverso la negazione di una norma di ius cogens, quale il divieto di tortura. Tale
rilievo assume un’importanza cruciale poiché delegittima in radice ogni tentativo di bilancia-
re il divieto in questione con la contingente necessità di salvaguardare interessi configgenti
nella situazione concreta.
Il valore assoluto e inderogabile del divieto di tortura e di trattamenti e pene inumane
e degradanti codificato nell’art. 3 della Convenzione europea, appare, poi, in piena armonia
con la tesi, che oggi può ritenersi consolidata, che ritiene esistente una norma imperativa di
diritto internazionale generale in materia di tortura.
caso, che tenga conto sia delle circostanze oggettive del fatto, sia delle qualità soggettive
dell’individuo. La posizione della soglia non è, pertanto, determinata in modo fisso, in quanto
dipende dall’insieme dei dati della causa e, in particolare, dalla durata del trattamento, dalle
conseguenze fisiche e/o mentali, dal genere, dall’età e dallo stato di salute della vittima. Da
ciò discende che il divieto contenuto nell’art. 3 della Convenzione non è statico, in quan-
to frutto dell’interpretazione condotta dalla Corte di Strasburgo alla luce delle condizioni
caratterizzanti il singolo caso concreto. Il criterio della valutazione relativa è stato per la
prima volta formulato dalla Corte nel caso Irlanda c. Regno Unito (Irlanda c. Regno Unito,
del 18.1.1978) ed è stato successivamente ripreso in modo sistematico dalla giurisprudenza
successiva (Tekin c Turchia, del 9.6.1998, par. 52; Labita c. Italia, del 6.4.2000, par. 120; Ke-
enan c. Regno Unito, del 3.4.2001, par. 20; Valašinas c. Lituania, del 24.7.2001, par. 120). In
particolare, nel caso V.C. c. Italia, del 1.2.2018, la Corte ha ribadito che «Per rientrare nelle
previsioni dell’articolo 3 della Convenzione, un maltrattamento deve raggiungere un livello
minimo di gravità. La valutazione di tale minimo dipende dall’insieme degli elementi della
causa, in particolare dalla durata del trattamento e dai suoi effetti fisici o psichici nonché, a
volte, dal sesso, dall’età, dallo stato di salute della vittima, ecc. (idem, § 86), fermo restando
che la circostanza che un trattamento non avesse lo scopo di umiliare o denigrare la vittima
non esclude in maniera definitiva una constatazione di violazione dell’articolo 3. Si deve
tenere conto anche del contesto nel quale il trattamento è stato inflitto, come un’atmosfera
di grande tensione e a forte carica emotiva (cfr., ad esempio, Selmouni, sopra citata, § 10; si
veda anche, in particolare, Gäfgen, sopra citata, § 88) e dell’eventuale situazione di vulne-
rabilità nella quale potrebbe versare la vittima (Khlaifia e altri c. Italia [GC], n. 16483/12,
§ 160, CEDU 2016)». (par. 83).
Il carattere mutevole delle tipizzazioni elaborate dai giudici di Strasburgo è in linea
con la qualificazione della Convenzione, da parte della Corte, come «uno strumento vivente,
che deve essere applicato alla luce delle condizioni di vita attuali» (Tyrer c. Regno Unito,
del 25.4.1978). Una condotta che in un dato contesto storico-sociale sia idonea ad essere
qualificata come trattamento degradante, in un mutato e diverso contesto può, pertanto, di-
venire trattamento inumano o tortura oppure, al contrario, può essere ritenuta di contenuto
non equivalente né superiore alla c.d. soglia minima di gravità e dunque divenire condotta
lecita. Sulla base di questa acquisizione, la Corte ha asserito che certi atti o comportamenti,
già qualificati precedentemente come trattamenti inumani o degradanti e non come tortura,
potranno nel futuro ricevere un differente inquadramento. Ciò poiché il livello di esigenza
crescente in materia di protezione dei diritti umani e libertà fondamentali implica, in paral-
lelo, una maggiore fermezza nell’apprezzamento degli attentati ai valori fondamentali delle
società democratiche (Selmouni c. Francia, del 28.7.1999; Dikme c. Turchia, del 11.7.2000;
Henaf c. Francia, del 27.11.2003).
Una significativa applicazione del criterio della soglia minima di gravità si è avuta
nel caso Knox c. Italia, del 24.1.2019, in cui la ricorrente lamentava i maltrattamenti subiti
durante le sue audizioni del 6 novembre 2007, in particolare denunciava due scappellotti rice-
vuti sulla testa e atteggiamenti inappropriati da parte di un agente di polizia. La stessa faceva
presente di essere stata sottoposta, in quella stessa occasione, a una pressione psicologica
estrema e di essere stata obbligata a parlare in un momento in cui si sarebbe trovata in uno
stato di mancanza di discernimento e di volontà. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che le
condotte denunciate avessero raggiunto la soglia minima di gravità e potessero dunque essere
inquadrate nell’ambito di un trattamento degradante.
64 Francesca Polacchini
5. L’elemento probatorio
La questione della definizione dei trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu si intreccia con
quella dello standard probatorio richiesto dal giudice europeo, sulla quale è opportuno for-
mulare qualche considerazione. La Corte ha da tempo introdotto una fondamentale distinzio-
ne a seconda che il ricorso sia presentato da uno Stato o da un privato nel caso in cui oggetto
del giudizio siano i maltrattamenti lamentati da quest’ultimo mentre si trovava lato sensu in
condizioni di detenzione. Mentre nell’ipotesi di ricorso interstatale per violazione dell’art. 3
Cedu l’onere probatorio è ripartito in maniera perfettamente simmetrica tra lo Stato ricorren-
te e lo Stato resistente ed è parametrato allo standard dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”,
quando il ricorso è presentato da un privato il rigore adottato dalla Corte nella valutazione
delle prove si attenua sensibilmente. La giurisprudenza di Strasburgo ha, infatti, introdotto
una “presunzione di responsabilità” in capo alle autorità statali, destinata ad operare ogni-
qualvolta un individuo che si trovava in buone condizioni di salute prima che fosse privato
della libertà personale (a qualunque titolo: fermo di polizia, custodia cautelare, esecuzione
di una pena detentiva, ecc.) lamenti di aver subito lesioni e – almeno secondo alcune pro-
nunce – fornisca referti medici idonei a supportare l’allegazione. In altri termini, nel caso in
cui non sia stato provato pienamente, da parte del ricorrente, il compimento di atti di tortura
o di maltrattamenti, ma vi sia solamente un fumus dell’esistenza di tali atti, è onere dello
Stato provare che le lesioni lamentate non sono riconducibili all’operato dei propri agenti. In
proposito, il leading case è rappresentato dalla sentenza Tomasi c. Francia, del 27.8.1992.
Nel caso di specie il ricorrente ha sostenuto di aver subito, durante il fermo presso il com-
missariato di polizia francese, maltrattamenti incompatibili con l’art. 3 della Convenzione.
Nell’accertamento dei fatti affermati dal ricorrente, la Corte ha preso atto dell’insufficiente
forza probatoria degli elementi presentati da quest’ultimo a sostegno del proprio ricorso,
tuttavia ha attribuito rilievo al fumus boni iuris che sosteneva il ricorso, disponendo di fatto
un’inversione dell’onere della prova. La Corte ha fondato su un principio di “presunzione
di causalità” la sussistenza del nesso causale tra i trattamenti denunciati dal ricorrente e le
lesioni corporali riscontrate, facendo gravare sul Governo francese l’onere di provare che le
lesioni non erano da ricondurre ai trattamenti denunciati dal Signor Tomasi. Secondo questa
decisione, che ha trovato conferma nella giurisprudenza successiva, la condizione della de-
tenzione, qualunque sia la sua causa ed il suo titolo giustificativo (fermo di polizia, custodia
cautelare, esecuzione di una pena detentiva) e l’esistenza di lesioni determinano un’inversio-
ne dell’onere probatorio, nel senso che spetta all’autorità statale fornire la prova che la causa
delle lesioni è da collocare altrove, ossia al di fuori del luogo di detenzione (Tomasi c. Fran-
cia, del 27.8.1992, par. 109; Ribitsch c. Austria, del 4.12.1995, par. 31; Berktay c. Turchia,
del 1.3.2001, par. par. 167; Rivas c. Francia, del 1.4.2004, par. 38; Gäfgen c. Germania, del
30.6.2008, par. 92; Turan Cakir c. Belgio, del 10.3.2009, par. 54; Mete e altri c. Turchia, del
4.10.2011, par. 112; Cantaragiu c. Moldavia, del 24.3.2020, par. 44).
Sempre in tema di elemento probatorio, la Corte sembra aver accolto l’idea secondo
cui tra gli obblighi positivi che gravano sullo Stato ai sensi dell’art. 3 vi sia anche quello
di «adottare le misure ragionevolmente accessibili per favorire la raccolta delle prove» ri-
guardanti le accuse di tortura (Tahsin Acar c. Turchia, del 28.10.2004; Zengin c. Turchia,
del 28.10.2004). Si tratta di un nuovo obbligo positivo di carattere procedurale distinto ed
ulteriore rispetto all’obbligo di condurre le indagini: l’obbligo di prendere le misure idonee a
favorire la raccolta delle prove dell’eventuale violazione. L’obbligo in questione è accessorio
rispetto a quello di condurre le indagini e determina la responsabilità per violazione procedu-
Il divieto di tortura e di pene e trattamenti inumani e degradanti 65
rale dell’art. 3, nella misura in cui lo Stato non abbia adottato la dovuta diligenza nella ricerca
delle prove necessarie.
Giova sottolineare che tale obbligo trova enunciazione nell’art. 12 della Convenzione
delle Nazioni Unite contro la tortura. Tale disposizione stabilisce che: «Ogni Stato parte
provvede affinché le autorità competenti procedano immediatamente a un’inchiesta impar-
ziale ogniqualvolta vi siano ragionevoli motivi di credere che un atto di tortura sia stato
commesso in un territorio sotto la sua giurisdizione».
A partire dalla sentenza Assenov la Corte ha provveduto ad individuare i caratteri che
l’inchiesta deve assumere per essere effettiva. Innanzitutto, essa deve essere condotta da
un’autorità indipendente, ossia non influenzabile dal soggetto accusato in ragione di una su-
bordinazione gerarchica, istituzionale o semplicemente di fatto. L’inchiesta deve, poi, essere
svolta in modo diligente, completo ed approfondito al preciso fine di individuare l’autore
del comportamento incriminato, curando di raccogliere le prove utili alla ricostruzione degli
avvenimenti.
In ogni caso, lo Stato è tenuto ad esercitare un controllo pubblico sullo svolgimento
delle indagini in modo da fugare ogni dubbio circa la sua tolleranza per gli atti di tortura o
i maltrattamenti e deve rendere pubblico il risultato cui sono pervenute le autorità inqui-
renti al termine delle indagini (Orak c. Turchia, del 14.2.2002; Krastanov c. Bulgaria, del
30.9.2004).
Un’ulteriore precisazione della portata dell’obbligo procedurale connesso all’art. 3
riguarda la durata dell’inchiesta. Nel caso Selmouni c. Francia, del 28.7.1999, la Corte, ri-
confermando che il rispetto dell’art. 3 implica anche la necessità di un’inchiesta imparziale
ed efficace volta all’identificazione e punizione dei responsabili, ha aggiunto l’ulteriore re-
quisito della rapidità.
Nelle pronunce rese sui casi Labita c. Italia, del 6.4.2000, e Indelicato c. Italia, del
18.10.2001, la Corte ha precisato che la celerità nello svolgimento delle attività di indagine
costituisce un obbligo autonomo inerente alla protezione procedurale discendente dall’art.
3. Infatti, un’inchiesta che, pur avendo condotto all’incriminazione dei soggetti responsabili
degli atti di tortura, lo abbia fatto con eccessivo ritardo, integra una violazione procedurale
dell’art. 3. In tale ipotesi, infatti, il rimedio apprestato dall’ordinamento è considerato inef-
ficace dalla Corte. Secondo la Corte, la celerità nello svolgimento di un’inchiesta ufficiale è
implicita nella stessa nozione di inchiesta ed è essenziale per preservare la fiducia del pubbli-
co nell’operato delle istituzioni dello Stato al fine di rispettare il principio di legalità e fugare
ogni dubbio circa la possibile tolleranza dello Stato verso i responsabili di atti di tortura o di
maltrattamenti (Indelicato c. Italia, del 18.10.2001; Mc Kerr c. Regno Unito, del 4.5.2001;
Paul e Audrey Edwards c. Regno Unito, del 14.3.2002; Anguelova c. Bulgaria, del 13.6.2002;
Özgür Kiliç c. Turchia, del 24.9.2002).
La Corte, inoltre, ha mostrato di ritenere necessario che, nel caso di fondatezza
dell’accusa, all’inchiesta segua un processo nei confronti degli autori degli atti di tortura,
volto ad accertarne la colpevolezza e a sottoporre gli stessi alle sanzioni previste dalla legge.
In proposito, al fine di assicurare l’effettività del divieto di cui all’art. 3 Cedu, la Corte ha
riconosciuto l’insufficienza della sottoposizione degli accusati ad un processo di natura civile
o amministrativa: è necessario che gli Stati conformino il proprio ordinamento in modo da as-
sicurare la tutela penale in caso di tortura o trattamenti inumani o degradanti (Parlak, Aktürk
e Yai c. Turchia, del 9.1.2001; Krastanov c. Bulgaria, del 30.9.2004; Okkali c. Turchia, del
17.10.2006; Cestaro c. Italia, del 7.4.2015). In altri termini, secondo la Corte, gli Stati con-
traenti, per adempiere agli obblighi positivi scaturenti dall’art. 3, hanno il dovere di struttu-
rare il proprio ordinamento giuridico in modo da assicurare la punizione in sede penale degli
autori delle pratiche di tortura. Nello stesso senso depongono anche i rapporti del Comitato
europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o delle pene inumani o degradanti,
Il divieto di tortura e di pene e trattamenti inumani e degradanti 67
in cui si afferma la necessità che gli Stati prevedano sanzioni penali adeguate alla gravità del-
le violazioni. La specifica ed espressa incriminazione della tortura non solo deve senz’altro
ritenersi imposta dagli obblighi positivi nascenti dall’art. 3 Cedu, ma è altresì oggetto di un
preciso obbligo gravante sugli Stati contraenti ai sensi della Convenzione Onu contro la tor-
tura del 1984, della quale l’Italia è parte e alla quale la stessa Corte di Strasburgo ha più volte
fatto riferimento quale fonte integratrice per la definizione del concetto di tortura.
Nel caso Cestaro c. Italia la Corte, oltre ad avere condannato l’Italia per i maltratta-
menti perpetrati ai manifestanti dagli agenti di polizia all’interno della scuola Diaz-Pertini
in occasione del G8 di Genova, ha affermato che «Affinché un’inchiesta sia effettiva nella
pratica, la condizione preliminare è che lo Stato abbia promulgato delle disposizioni di diritto
penale che puniscono le pratiche contrarie all’articolo (Gäfgen, sopra citata, § 117). In effet-
ti, l’assenza di una legislazione penale sufficiente per prevenire e punire effettivamente gli
autori di atti contrari all’articolo 3 può impedire alle autorità di perseguire le offese a questo
valore fondamentale delle società democratiche, di valutarne la gravità, di pronunciare pene
adeguate e di escludere l’applicazione di qualsiasi misura che possa alleggerire eccessiva-
mente la sanzione, a scapito del suo effetto preventivo e dissuasivo» (par. 209). A tal riguar-
do, occorre segnalare che nell’ordinamento italiano il reato di tortura è stato introdotto solo
nel 2017 (l. 110/2017).
re nella sfera di applicazione dell’art. 3 il grado di umiliazione e di disagio deve andare oltre
quel livello di sofferenza che è connaturato alla condizione di detenzione (Tyrer c. Regno
Unito, del 25.4.1978, par. 30; Soering c. Regno Unito, del 7.7.1989, par. 100).
Tra le sentenze citate, giova soffermare l’attenzione sulla pronuncia della Grande Ca-
mera nel caso Bouyid c. Belgio, che rappresenta una tappa significativa nella giurisprudenza
della Corte europea in punto d’interpretazione dell’articolo 3 Cedu nei casi di police bruta-
lity. I ricorrenti lamentavano di aver ricevuto diversi schiaffi sul volto dalle forze dell’ordine
durante la loro permanenza in un commissariato. In linea generale, la Corte ha richiamato la
propria giurisprudenza secondo cui ogni ricorso all’uso della forza da parte delle autorità di
polizia nei confronti di un individuo, che non si renda strettamente necessario per rispondere
alla sua stessa condotta, svilisce la dignità umana e rappresenta «in via di principio» una vio-
lazione dell’art. 3 Cedu (Ribitsch c. Austria, del 4.12.1995, par. 38; Mete e altri c. Turchia,
del 4.10.2011, par. 106; El-Masri c. Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, del 13.12.2012,
par. 207). Precisamente, la Corte ha qualificato lo schiaffo al volto come un trattamento de-
gradante, che determina quindi una violazione sostanziale dell’art. 3. Lo schiaffo inferto al
volto da parte di un agente nei confronti di un individuo che si trovi completamente soggetto
al suo controllo costituisce un grave attacco alla dignità personale, poiché il viso rappresenta
la parte del corpo che esprime l’individualità della persona, la sua identità sociale e il cen-
tro dei suoi sensi – la vista, la parola e l’udito – utilizzati per la comunicazione con gli altri
(par. 104). In secondo luogo, posto che può essere sufficiente che la vittima avverta un forte
senso di umiliazione affinché sia integrato un trattamento degradante ai sensi dell’articolo
3 Cedu, la Corte ha ritenuto che anche uno schiaffo – per quanto isolato, non premeditato e
privo di effetti gravi o duraturi sul corpo – possa essere percepito come un’umiliazione dalla
persona che lo riceve (parr. 87 e 105). Quando inflitto dagli agenti delle forze dell’ordine
nei confronti delle persone sottoposte al loro controllo, lo schiaffo sottolinea inoltre quella
relazione di superiorità-inferiorità che caratterizza il rapporto tra l’autorità e l’individuo in
custodia. Il fatto che le vittime sappiano che tale atto integra un illecito di tipo deontologico e
professionale da parte degli agenti può altresì suscitare un senso di arbitrarietà, di ingiustizia
e d’impotenza (par. 106). Infine, è stata posta in luce la circostanza che il primo ricorrente
era minorenne al momento dei fatti. La Corte, infatti, ha colto l’occasione per ricordare che,
quando gli agenti di polizia, nell’esercizio delle loro funzioni, entrano in contatto con sogget-
ti minorenni, devono tenere debitamente conto della vulnerabilità intrinseca alla giovane età.
Coerentemente, la Grande Camera ha rilevato come la medesima condotta possa risultare, al
contempo, compatibile con la Cedu se rivolta a soggetti adulti e incompatibile con la stessa
Convenzione qualora abbia come destinatari soggetti non ancora maggiorenni. La Corte ha
sottolineato infatti che, quando vengono in contatto con minori, i funzionari di polizia devo-
no esercitare un auto-controllo rafforzato, poiché il trattamento rischia di avere un impatto
più forte – soprattutto in termini psicologici – sul minore (parr. 109-110).
La violazione dell’art. 3 è stata riconosciuta anche sotto il profilo procedurale: la Cor-
te ha ravvisato una ulteriore violazione dell’art. 3 Cedu nel fatto che l’indagine condotta dalle
autorità belghe, da un lato, non fosse stata sufficientemente scrupolosa, e dall’altro si fosse
protratta troppo a lungo. A tal proposito, i giudici hanno evidenziato che quando le accuse di
ill-treatment coinvolgono le forze dell’ordine è essenziale una pronta risposta da parte delle
autorità investigative, al fine di mantenere la fiducia del pubblico nello stato di diritto e evi-
tare che si diffonda un’immagine di collusione o, comunque, di indebita tolleranza rispetto a
questo tipo di comportamenti illeciti (§ 133).
I principi contenuti nella sentenza Bouyid c. Belgio hanno trovato applicazione nella
sentenza resa sul caso Knox c. Italia, del 24.1.2019, in cui la ricorrente lamentava i maltrat-
Il divieto di tortura e di pene e trattamenti inumani e degradanti 69
tamenti subiti durante le sue audizioni del 6 novembre 2007, in particolare denunciava due
scappellotti ricevuti sulla testa e atteggiamenti inappropriati da parte di un agente di polizia.
Nelle situazioni in cui le precarie condizioni di salute si combinano con un’età avanzata,
la permanenza in carcere può essere considerata incompatibile con il divieto di cui all’art. 3.
Nel caso Contrada c. Italia (n. 2), del 11.2.2014, la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 3
poiché l’istanza di detenzione domiciliare era stata accolta nove mesi dopo la sua presentazio-
ne, nonostante lo stato di salute del ricorrente imponesse una più rapida risposta. Come chiarito,
«La Corte deve tenere conto, in particolare, di tre elementi al fine di esaminare la compatibilità
di uno stato di salute preoccupante con il mantenimento in stato detentivo del ricorrente, vale a
dire: a) la condizione del detenuto, b) la qualità delle cure dispensate e c) l’opportunità di man-
tenere lo stato detentivo alla luce delle condizioni di salute del ricorrente (si vedano Farbtuhs
c. Lettonia, n. 4672/02, § 53, 2 dicembre 2004, e Sakkopoulos c. Grecia, n. 61828/00, § 39, 15
gennaio 2004)» (par. 78).
La sentenza Rooman c. Belgio, del 31.1.2019 contiene una sintesi della giurispruden-
za in tema di trattamenti medici di detenuti malati e vulnerabili. Nel valutare se la detenzione
di un individuo malato sia compatibile con l’art. 3, la Corte prende in considerazione la salute
individuale e gli effetti che le modalità di esecuzione della pena detentiva hanno sulla stessa
(par. 145). Viene confermato il principio per cui le condizioni di detenzione non devono mai
generare sentimenti di paura, angoscia e inferiorità tali da umiliare la persona e spezzare
la sua resistenza fisica e psicologica. A questo proposito, si deve riconoscere che i detenuti
con disordini mentali sono più vulnerabili degli ordinari detenuti e che la vita in carcere
genera significativi rischi per la loro salute mentale, esacerbando la possibilità che gli stessi
provino sentimenti di inferiorità, ansia e stress. In questo contesto, la Corte ha ritenuto che
l’impossibilità di ricevere le cure psichiatriche nella propria lingua madre pregiudichi e infici
l’adeguatezza del trattamento sanitario e psichiatrico, determinando, pertanto, una violazione
dell’art. 3.
Anche il trasporto dei detenuti deve osservare alcune regole, tali da assicurare che lo
stesso avvenga nel rispetto della dignità dell’individuo. In particolare, nel caso Tomov e altri
c. Russia, del 9.4.2019, la Corte ha ritenuto che durante il trasporto debba essere assicurato a
ciascun detenuto almeno mezzo metro quadrato, diversamente scatta una forte presunzione
di violazione dell’art. 3. In caso di viaggio notturno in treno, ciascun detenuto deve avere il
proprio letto in cui dormire. In generale, costituiscono indici sintomatici di incompatibilità con
l’art. 3 la bassa altezza del soffitto, l’accesso limitato ai servizi igienici e all’acqua potabile o al
cibo durante i lunghi viaggi e la privazione del sonno.
16.12.1999, par. 118; Sawoniuk c. Regno Unito, del 29.5.2001). Gli Stati sono parimenti
liberi di determinare i casi in cui irrogare una pena perpetua per gli autori di crimini partico-
larmente gravi, nel rispetto del principio della necessaria proporzionalità tra pena irrogata e
gravità del reato. Ciò che confligge con l’art. 3 è che la pena a vita sia non riducibile, tenendo
presente che «il semplice fatto che una pena della reclusione a vita possa in pratica essere
scontata integralmente non la rende una pena non riducibile. Una pena riducibile de jure
e de facto non solleva alcuna questione dal punto di vista dell’articolo 3» (Kafkaris, sopra
citata, par. 98). Affinché il sistema possa dirsi conforme all’art. 3 Cedu non è necessario
che, in concreto, ogni detenuto a vita acceda alla liberazione; al contrario, è sufficiente che
vi sia in astratto la possibilità di tale cessazione della pena, qualora ne ricorrano i presup-
posti. Pertanto, non emergono profili di incompatibilità con l’art. 3 Cedu se, ad esempio,
un condannato all’ergastolo veda respinta la propria richiesta di liberazione sulla base della
valutazione della sua ancora attuale pericolosità. Le funzioni della pena sono infatti plurime:
oltre al reinserimento del reo, la pena deve altresì assicurare una protezione generale della
società dagli eventuali comportamenti di una persona che sconta una pena detentiva per aver
commesso crimini violenti (Mastromatteo c. Italia, del 24.10.2002, par. 72; Maiorano e altri
c. Italia, del 15.12.2009, par. 108; Choreftakis e Choreftaki c. Grecia, del 17.1.2012, par. 45).
Ciò che la Corte prende in considerazione al fine di valutare se in astratto la pena è
suscettibile di riduzione è la struttura della legislazione nazionale, che deve contemplare
meccanismi che consentano una revisione della pena «al fine di commutarla, sospenderla,
porvi fine o liberare il detenuto con la condizionale» (Kafkaris, sopra citata, par. 98). Ne
consegue che «per rimanere compatibile con l’articolo 3, una pena perpetua deve offrire
sia una possibilità di liberazione che una possibilità di riesame» (Kafkaris, sopra citata, par.
110). In ossequio al principio della dignità umana, che orienta l’essenza stessa del sistema
convenzionale (Pretty c. Regno Unito, del 29.4.2002; V.C. c. Slovacchia, del 8.11.2001) e
tenute presenti le linee evolutive del sistema europeo in materia di pena perpetua, che inco-
raggiano l’obiettivo di reinserimento sociale del detenuto soprattutto verso la fine delle pene
detentive di lunga durata, «laddove il diritto nazionale non prevede la possibilità di un tale
riesame, una pena dell’ergastolo effettivo contravviene alle esigenze derivanti dall’articolo
3 della Convenzione» (par. 121). Con riferimento alle pene perpetue, l’art. 3 deve quindi
essere interpretato «nel senso che esige che esse siano riducibili, ossia sottoposte a un rie-
same che permetta alle autorità nazionali di verificare se, durante l’esecuzione della pena,
il detenuto abbia fatto dei progressi sulla via del riscatto tali che nessun motivo legittimo
relativo alla pena permetta più di giustificare il suo mantenimento in detenzione». Inoltre, il
sistema di riesame deve essere conformato in modo tale da consentire al detenuto di cono-
scere sin dall’inizio dell’esecuzione della pena le condotte che sono suscettibili di incidere in
senso positivo sugli esiti del riesame. Il detenuto «ha il diritto, in particolare, di conoscere
il momento in cui il riesame della sua pena avrà luogo o potrà essere richiesto. Pertanto,
quando il diritto nazionale non prevede alcun meccanismo né alcuna possibilità di riesame
delle pene dell’ergastolo effettivo, la conseguente incompatibilità con l’articolo 3 decorre
dalla data in cui la pena è stata inflitta e non in una fase successiva della detenzione» (Vinter
e altri c. Regno Unito, par. 122).
I principi sopra sintetizzati in tema di pena perpetua sono stati applicati in alcune
pronunce contro l’Italia. In particolare, la Corte ha riconosciuto che la pena dell’ergastolo
è compatibile con l’art. 3 poiché nel nostro ordinamento esiste una disposizione, l’art. 176
c.p., che assicura al condannato una prospettiva di liberazione e di conseguente reinserimento
sociale. Come precisato dalla Corte «Ai sensi di tale disposizione, il condannato all’erga-
stolo che abbia tenuto un comportamento tale da mostrare un sincero ravvedimento, può
Il divieto di tortura e di pene e trattamenti inumani e degradanti 73
essere liberato dopo avere scontato ventisei anni di carcere. Dopo avere scontato ventisei
anni di carcere può anche essere ammesso al regime di semi-libertà (articolo 50 c. 5 della
legge n. 354 del 1975 (...), in Italia le pene perpetue sono (...) de jure e de facto riducibili.
Dunque, non si può dire che il ricorrente non abbia alcuna prospettiva di liberazione né che
il suo mantenimento in carcere, fosse anche per una lunga durata, sia in sé costitutivo di un
trattamento inumano e degradante» (Garagin c. Italia, del 29.4.2008; in senso conforme,
Scoppola c. Italia, del 8.9.2005).
La posizione della Corte nel caso Viola c. Italia, del 7.10.2019, si assesta su posizioni
radicalmente diverse con riferimento all’ergastolo ostativo, ovvero alla pena detentiva la
cui applicazione si fonda sul combinato disposto dell’articolo 22 c.p. con gli articoli 4-bis e
58-ter della legge sull’ordinamento penitenziario. Secondo queste disposizioni, l’assenza di
«collaborazione con il sistema giudiziario» ostacola la concessione della liberazione condi-
zionale e degli altri benefici previsti dal sistema penitenziario. L’articolo 4-bis riguarda, in
particolare, il divieto di accesso ai benefici penitenziari e la verifica della pericolosità sociale
per una determinata categoria di detenuti. Il contenuto della collaborazione con l’autorità
giudiziaria è regolato dall’articolo 58 ter: il condannato deve fornire alle autorità elementi
decisivi che permettano di prevenire le ulteriori conseguenze del reato o agevolare l’accer-
tamento dei fatti e l’identificazione dei responsabili di reati. Il condannato è dispensato da
questo obbligo se tale collaborazione può essere definita «impossibile» o «irrilevante» e se
dimostra la rottura di qualsiasi legame attuale con il gruppo mafioso. A differenza del sistema
legislativo turco, giudicato incompatibile con l’art. 3 in ragione dell’automatico divieto di ri-
esame della pena collegato alla natura del reato ascritto al ricorrente (reato contro la sicurezza
dello Stato) (Öcalan c. Turchia, del 18.3.2014, parr. 200-202), la legislazione italiana non
vieta, in maniera assoluta e con effetto automatico, l’accesso alla liberazione condizionale e
agli altri benefici propri del sistema penitenziario, ma lo subordina alla «collaborazione con
la giustizia». L’adempimento di questa condizione si giustifica sulla base della necessità che
il reo dimostri la propria «dissociazione» dall’ambiente mafioso, la rottura dei forti, solidi e
continuativi legami con la consorteria mafiosa, suscettibili di proseguire anche in costanza di
reclusione, e l’esito positivo del percorso di risocializzazione. La Corte si domanda, quindi,
«se l’equilibrio tra le finalità di politica criminale e la funzione di risocializzazione della
pena non finisca, nella sua applicazione pratica, per limitare eccessivamente la prospettiva
di liberazione dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di chiedere il riesame della
sua pena» (par. 110). La risposta è nel senso della violazione dell’art. 3: «la presunzione in-
confutabile di pericolosità, prevista in materia di ergastolo per i reati di cui all’articolo 4 bis
della legge sull’ordinamento penitenziario, derivante dall’assenza di collaborazione con la
giustizia, rischia di privare i condannati per tali reati di qualsiasi prospettiva di liberazione
e della possibilità di ottenere un riesame della pena» (par. 142). La previsione di una invin-
cibile relazione biunivoca tra mancata collaborazione con la giustizia e pericolosità sociale
priva, quindi, il detenuto della possibilità di dimostrare che non sussiste più alcun motivo
legittimo in ordine alla pena che giustifichi il suo mantenimento in detenzione e sottrae al
giudice la facoltà di esaminare la domanda di liberazione condizionale e di verificare se, du-
rante l’esecuzione della sua condanna, il ricorrente si sia evoluto e abbia fatto progressi nel
cammino della correzione per cui il mantenimento della detenzione non è più giustificato per
motivi inerenti alla pena.
Le condizioni che la pena dell’ergastolo deve rispettare affinché non si ponga in con-
trasto con l’art. 3 sono ben sintetizzate nella pronuncia Murray c. Paesi Bassi, del 26.4.2016:
a) la sanzione dell’ergastolo non deve essere manifestamente sproporzionata rispetto alla
gravità del reato; b) nel corso dell’esecuzione della pena perpetua, è necessario che vi siano
74 Francesca Polacchini
«both a prospect of release and a possibility of review», mediante i quali si possa evitare che
un detenuto a vita possa continuare a restare privato della libertà anche quando non vi siano
più legittime ragioni penologiche che giustifichino la perdurante detenzione; c) il meccani-
smo di revisione deve essere sufficientemente definito da consentire al detenuto di sapere ab
initio ciò che gli viene richiesto per poter porre fine alla sua pena, e da quale momento ciò
divenga possibile; d) seguendo le tendenze provenienti dal diritto internazionale e dalla com-
parazione tra ordinamenti europei, il meccanismo di revisione dovrebbe essere attivato entro
venticinque anni dall’inizio della carcerazione, ed essere poi seguito da periodiche verifiche
del percorso rieducativo del condannato. Su quest’ultimo punto, però, la Corte ha sempre
riconosciuto agli Stati un certo margine di apprezzamento.
Con riguardo al regime carcerario previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento peniten-
ziario (c.d. carcere duro), la Corte si è espressa nel senso della sua compatibilità, nei casi
esaminati, con l’art. 3, anche se protratto per tempi lunghi (Campisi c. Italia, del 11.7.2006;
Enea c. Italia, del 17.9.2009; Paolello c. Italia, del 24 settembre 2015). Nelle cause menzio-
nate, richiamate nella più recente sentenza resa nel caso Provenzano c. Italia, «la Corte ha
ripetutamente ritenuto che, quando si valuta se la proroga dell’applicazione di alcune restri-
zioni ai sensi del regime previsto dall’articolo 41 bis raggiunga la soglia minima di gravità
richiesta per rientrare nel campo di applicazione dell’articolo 3, la durata temporale deve
essere esaminata alla luce delle circostanze di ciascuna causa, il che comporta, inter alia,
la necessità di accertare se il rinnovo o la proroga delle restrizioni contestate fossero giusti-
ficati o meno» (Provenzano c. Italia, del 25.10.2018, par. 147). Rispetto alla causa Proven-
zano, pur escludendo che vi fosse stata una violazione dell’art. 3 con riferimento all’asserita
insufficienza dell’assistenza sanitaria prestata al ricorrente durante il periodo di detenzione,
la Corte ha ritenuto violato l’art. 3 per aver il nostro Paese consentito – in assenza di un’ade-
guata valutazione delle sue condizioni personali di salute – la prosecuzione del regime spe-
ciale detentivo fino alla sua morte, malgrado la malattia invalidante da cui questi era affetto.
internazionale ricavabile dal complesso di tale normativa è, dunque, quello secondo cui nes-
suno può essere respinto verso un luogo in cui i suoi diritti umani rischiano di essere violati.
Nel contesto del sistema Cedu, questo divieto è stato desunto in via interpretativa
dalla Corte di Strasburgo direttamente dal divieto di tortura e di trattamenti inumani o degra-
danti. È il caso Soering c. Regno Unito, del 7.7.1989, a consacrare l’utilizzo di tale sistema
di protezione, che ha permesso alla Corte di ricondurre all’interno del divieto di cui all’art.
3 Cedu l’espulsione dello straniero dal territorio nazionale al ricorrere di alcune condizioni.
La Corte ha affermato che «se la materia dell’estradizione, dell’espulsione e del diritto di
asilo non rientrano tra quelle espressamente previste dalla Convenzione, gli Stati contraenti
hanno nondimeno accettato di restringere i poteri loro conferiti dal diritto internazionale
generale ivi compreso quello di controllare l’ingresso e l’uscita degli stranieri, nella misura
e nel limite degli obblighi che essi hanno assunto in virtù della Convenzione. Allora, l’espul-
sione o l’estradizione di un individuo può, in alcuni casi eccezionali, essere contraria alla
Convenzione ed in particolare all’art. 3, quando ci sono serie ragioni di credere che quello
sarà sottoposto nello Stato di destinazione a trattamenti proibiti da questo articolo. (…).
Uno Stato contraente si comporterebbe in modo incompatibile con i valori sottostanti alla
Convenzione, la quale esprime patrimonio comune di ideali e tradizioni politiche, di rispetto
della libertà e di preminenza del diritto (…), se consegnasse consapevolmente un latitante
– per odioso che possa essere il delitto imputatogli – ad un altro Stato dove esistono seri
motivi di pensare che un pericolo di tortura minacci l’interessato. Nonostante l’assenza di
indicazione esplicita nel testo breve e generico dell’art. 3, tale estradizione contrasterebbe
manifestamente con lo spirito di quest’ultimo». I giudici della Corte hanno riconosciuto,
quindi, la responsabilità degli Stati contraenti per una violazione solo potenziale ed indi-
retta dell’art. 3. Questa decisione presuppone, infatti, la possibilità che un comportamento
non ancora verificatosi possa risultare incompatibile con i dettami convenzionali. La Corte
ha quindi delineato, da un lato, una responsabilità per concorso causale rispetto a prevedi-
bili violazioni del diritto a non subire torture o pene o trattamenti disumani o degradanti,
dall’altro, ha configurato la categoria delle violazioni potenziali della Convenzione, le quali
comportano, al pari delle violazioni attuali, la responsabilità dello Stato contraente. Nel caso
di specie, i giudici hanno stabilito che l’estradizione di un uomo accusato di omicidio verso
gli Stati Uniti, dove era esposto al rischio di una condanna a morte, avrebbe costituito una
violazione del divieto di tortura, in considerazione del lungo periodo di tempo che solitamen-
te i condannati trascorrono nel corridoio della morte, subendo le condizioni di angoscia e di
crescente tensione nell’attesa dell’esecuzione.
La pronuncia Soering ha trovato conferma nella sentenza resa all’unanimità nel caso
Saadi c. Italia, del 28.2.2008. La Corte Edu ha riaffermato il carattere assoluto del divie-
to di cui all’art. 3, sotto il peculiare profilo dell’obbligo di non-refoulement nell’ipotesi in
cui il soggetto sia esposto al rischio reale di subire torture o pene o trattamenti disumani o
degradanti nel Paese di destinazione. La Corte ha ribadito che l’obbligo sussiste anche se
l’individuo che lo Stato intende rinviare costituisce una minaccia per la sicurezza dello Stato.
La tutela apprestata dall’art. 3 Cedu, come interpretato in modo evolutivo dai giudici di Stra-
sburgo, risulta, pertanto, più ampia rispetto a quella garantita da altri strumenti internazionali,
come la Convenzione Onu sui rifugiati del 1951, che attribuisce rilevanza all’eventuale per-
sonalità negativa del richiedente asilo. L’art. 33, par. 2 di tale Convenzione esclude l’obbligo
di non-refoulement per i rifugiati in pericolo di vita o di libertà nel Paese di rinvio, qualora
sussistano ragionevoli motivi di credere che essi rappresentino un pericolo per la sicurezza
dello Stato in cui trovano.
76 Francesca Polacchini
Il caso Saadi rappresentava il test case per indurre la Corte a prendere in considerazio-
ne le esigenze di sicurezza che giustificano l’estradizione o l’espulsione di stranieri ritenuti
implicati in attività di terrorismo internazionale, bilanciandole con le esigenze sottese all’art.
3. La Corte ha ribadito con fermezza il divieto di refoulement e ha negato con decisione la
possibilità di introdurre elementi di apprezzamento ulteriori rispetto al rischio di sottoposi-
zione a tortura nel contesto della valutazione relativa alla liceità dell’espulsione. La condotta
dell’individuo o il tipo di reato che gli viene contestato sono irrilevanti ai fini dell’art. 3 Cedu.
La Corte si rifiuta, così, di procedere a qualsiasi forma di bilanciamento tra l’esposizione al
rischio di tortura e la possibile lesione di altri diritti individuali, seppur fondamentali, sottra-
endosi alla logica del c.d. “ticking-bomb scenario”.
La posizione assunta dalla Corte Edu sembra, quindi, ribadire la centralità della prote-
zione dei diritti assoluti e inderogabili dei singoli anche in momenti di grave emergenza na-
zionale. Con tale sentenza la Corte ha offerto un contributo fondamentale al consolidamento
su scala universale del principio di non-refoulement quale garanzia assoluta e non suscettibile
di affievolimento neppure di fronte alle gravi minacce per la sicurezza nazionale poste dal
terrorismo transnazionale.
Secondo la giurisprudenza di Strasburgo l’art. 3 della Convenzione è violato anche
qualora il respingimento sia attuato verso uno Stato che a sua volta non rispetta il principio di
non-refoulement, ossia che procede ad indiscriminate espulsioni verso altri Stati senza tenere
conto dell’effettivo rispetto, da parte loro, dei diritti umani garantiti dalla Convenzione (Vil-
varajah c. Regno Unito, del 30.10.1991; Cruz Varas c. Svezia, del 20.3.1991; Saadi c. Italia,
del 28.2.2008). Nel caso Ilias e Ahmed c. Ungaria, del 21.11.2019, la Grande Camera ha
chiarito la natura dei doveri che incombono sullo Stato che decida di espellere un richiedente
asilo verso un paese terzo, senza aver prima esaminato nel merito la sua richiesta. In questo
caso, a differenza di ciò che avviene quando il Paese di destinazione sia quello di origine, lo
Stato non può sapere se il richiedente asilo rischi di subire nel proprio Paese trattamenti con-
trari all’art. 3 oppure se sia semplicemente un migrante economico. Pertanto, in questi casi
lo Stato ha il dovere di informarsi sull’adeguatezza delle procedure d’asilo previste nel Paese
terzo di destinazione, in particolare sotto il profilo del non refoulement qualora l’individuo
corra il rischio di essere sottoposto a misure vietate dall’art. 3.
Occorre aggiungere che la Corte ha precisato che il momento nel quale il rischio deve
essere apprezzato è quello in cui lo Stato prende la decisione circa l’estradizione, l’espulsione
o il respingimento o, nel caso in cui sia in atto un ricorso e sia stato richiesto allo Stato di
sospendere il provvedimento di rinvio, il momento in cui si pronuncia l’organo internaziona-
le (Chahal c. Regno Unito, del 15.11.1996; Mamatkulov e Askarov c. Turchia, del 4.2.2005;
Shamayev e altri c. Georgia e Russia, del 12.10.2005).
Anche nel 2012, nel caso Hirsii c. Italia, l’Italia è stata raggiunta da una sentenza di
condanna per violazione del divieto di refoulement, sia diretto che indiretto: le autorità na-
zionali, trasferendo i soggetti in Libia, li avrebbero esposti al rischio sia di essere sottoposti
a trattamenti inumani e degradanti, sia di essere rimandati nel proprio Paese di origine. La
drammatica situazione in cui versano gli immigrati irregolari in Libia era nota e facile da
verificare a partire da molteplici fonti. Pertanto, ad avviso della Corte, al momento di allon-
tanare i ricorrenti, le autorità italiane sapevano o dovevano sapere che i soggetti, in quanto
migranti irregolari, sarebbero stati esposti in Libia a trattamenti contrari alla Convenzione
e non avrebbero potuto accedere ad alcuna forma di tutela in quel paese. Considerazioni
analoghe erano già state espresse nella sentenza di condanna resa nel caso M.S.S. c. Belgio e
Grecia, del 21.1.2011.
Il divieto di tortura e di pene e trattamenti inumani e degradanti 77
In alcuni casi, un’espulsione può rivelarsi incompatibile con l’art. 3 non in ragione di
comportamenti imputabili alle autorità pubbliche o a soggetti privati, ma a causa di situazio-
ni oggettive. Nella sentenza D. c. Regno Unito, del 2.5.1997, la Corte ha ritenuto contraria
all’art. 3 l’espulsione del ricorrente, malato di Aids in fase terminale, verso un’isola delle
Antille in cui non avrebbe potuto ricevere, a causa dei limiti propri delle strutture sanitarie, le
cure che richiedeva il suo stato di salute. Si tratta di una pronuncia che conferisce alla portata
applicativa dell’art. 3 una nuova dimensione.
Il non refoulement è un concetto centrale anche in seno all’ordinamento dell’Unione
europea, che ne assicura il riconoscimento nell’art. 78 del TFUE, negli artt. 18 e 19 della Car-
ta dei diritti fondamentali dell’Ue e nelle fonti di diritto derivato (Direttiva 2011/95/UE) e ne
stabilisce l’applicazione alle frontiere sia terrestri che marittime. Il principio sotteso a tutti gli
strumenti internazionali e sovranazionali menzionati risiede nella responsabilizzazione degli
Stati anche rispetto alle violazioni soltanto potenziali dei diritti umani alle quali possa andare
incontro il soggetto allontanato dal territorio nazionale.
tunisine siano sufficienti a scongiurare tale rischio. Questa valutazione può rivelarsi autonoma
e, dunque, non solo aggiungersi, ma eventualmente anche contraddire quella riguardante lo
standard di trattamento praticato dallo Stato di destinazione. Da ciò si ricava che, nel caso in cui
le assicurazioni diplomatiche siano state richieste e prestate, l’esistenza di ragioni sostanziali
per ritenere sussistente il pericolo concreto di maltrattamenti, con conseguente divieto assoluto
di refoulement, diviene oggetto di un accertamento articolato in almeno due fasi. In un primo
momento, incombe sul ricorrente l’onere di provare che nel Paese di destinazione sussiste una
pratica diffusa o sistematica di condotte vietate dall’art. 3 Cedu e che vi sono ragioni sostanziali
per ritenere che l’esposizione a tale rischio possa riguardarlo personalmente una volta allonta-
nato. Adempiuto tale onere probatorio, spetta allo Stato convenuto fornire elementi negativi al
riguardo.
A questa prima fase segue la seconda, che ha ad oggetto la sufficienza delle assicu-
razioni diplomatiche eventualmente offerte dal Paese di destinazione ed allegate in giudizio
dallo Stato convenuto. Tali assicurazioni possono assumere il valore di circostanza estintiva
del rischio o riduttiva della sua reale portata e, quindi, inibire la tutela.
Ferma restando, dunque, la piena legittimità del ricorso alle assicurazioni diplomati-
che sotto il profilo dell’art. 3 Cedu, la Corte si riserva di verificarne, caso per caso, la validi-
tà, la credibilità e l’effettività al fine di garantire una efficace protezione dello straniero dal
rischio di subire torture.
In tema di assicurazioni diplomatiche, occorre ricordare la sentenza n. 223/1996 pro-
nunciata nel caso Venezia, con la quale la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità co-
stituzionale dell’art. 698, comma 2, c.p.p. e della legge 225/1984 nella parte in cui dava
esecuzione all’art. IX del Trattato di estradizione tra Italia e Stati Uniti del 1983. Entram-
be le disposizioni consentivano l’estradizione anche per reati punibili con la pena di morte
nell’ordinamento dello Stato richiedente, a condizione che quest’ultimo offrisse garanzie che
la Parte richiesta potesse considerare sufficienti a non far infliggere la pena capitale oppure,
se inflitta, a non farla eseguire. Stante, però, il divieto di pena di morte contenuto nell’art.
27, comma 4, Cost. e la circostanza che “i valori ad esso sottostanti – primo fra tutti il bene
essenziale della vita – impongono una garanzia assoluta”, la formula delle sufficienti assicu-
razioni fu considerata costituzionalmente illegittima.
Lo strumento delle assicurazioni diplomatiche è stato utilizzato anche nei casi di rim-
patrio di migranti gravemente malati, laddove le strutture sanitarie del Paese di origine fosse-
ro di livello inferiore rispetto a quelle disponibili nello Stato parte della Convenzione. Nelle
ipotesi in cui il ritorno in patria conduca a un declino serio, rapido e irreversibile delle con-
dizioni di salute del soggetto interessato, da cui derivi una sofferenza intensa o una riduzione
significativa dell’aspettativa di vita, lo Stato di destinazione deve assicurare la disponibilità
e l’accessibilità delle cure mediche di cui ha bisogno l’individuo (Paposhvili c. Belgio, del
13.12.2016).
Infine, nel caso Tarakhel c. Svizzera, del 4.11.2014, le assicurazioni diplomatiche so-
no state considerate un requisito imprescindibile al fine di evitare che il trasferimento di una
famiglia di richiedenti asilo verso l’Italia, da attuarsi in conformità alle disposizioni del cd.
“sistema Dublino”, si sostanziasse in una violazione dell’art. 3 Cedu. La Corte ha dichiarato
che la Svizzera sarebbe incorsa nella violazione dell’art. 3 qualora avesse proceduto all’e-
spulsione dei ricorrenti verso l’Italia senza prima ottenere dalle autorità italiane le necessarie
assicurazioni che, una volta arrivati, i componenti della famiglia sarebbero stati sistemati in
strutture adatte all’età dei bambini e che il nucleo familiare non sarebbe stato separato.
Il divieto di tortura e di pene e trattamenti inumani e degradanti 79
Il divieto di tortura come uno dei più alti valori propri delle società democratiche, strettamente collegato al
rispetto della dignità umana
C.EDU/ECtHR, Selmouni c. Francia, del 28.7.1999
C.EDU/ECtHR, Labita c. Italia, del 6.4.2000
C.EDU/ECtHR, Gäfgen c. Germania, del 1.6.2010
C.EDU/ECtHR, El-Masri c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia, del 13.12.2012
C.EDU/ECtHR, Mocanu e altri c. Romania, del 17.9.2014
80 Francesca Polacchini
Le fattispecie di tortura
C.EDU/ECtHR, Aksoy c. Turchia, del 18.12.1996
C.EDU/ECtHR, Aydin c. Turchia, del 25.9.1997
C.EDU/ECtHR, Selmouni c. Francia, del 28.7.1999
C.EDU/ECtHR, Salman c. Turchia, del 27.6.2000
C.EDU/ECtHR, Dikme c. Turchia, del 11.7.2000
C.EDU/ECtHR, Akkoç c. Turchia, del 10.10.2000
C.EDU/ECtHR, Polonskiy c. Russia, del 19 marzo 2009
C.EDU/ECtHR, Cestaro c. Italia, del 7.4.2015
C.EDU/ECtHR, Mammadov c. Azerbaijan, del 29.5.2019
L’onere probatorio in tema di maltrattamenti subiti da un individuo in condizione lato sensu di detenzione
C.EDU/ECtHR, Tomasi c. Francia, del 27.8.1992
C.EDU/ECtHR, Ribitsch c. Austria, del 4.12.1995
C.EDU/ECtHR, Berktay c. Turchia, del 1.3.2001
C.EDU/ECtHR, Rivas c. Francia, del 1.4.2004
C.EDU/ECtHR, Tahsin Acar c. Turchia, del 28.10.2004
C.EDU/ECtHR, Zengin c. Turchia, del 28.10.2004
C.EDU/ECtHR, Gäfgen c. Germania, del 30.6.2008
C.EDU/ECtHR, Turan Cakir c. Belgio, del 10.3.2009
C.EDU/ECtHR, Mete e altri c. Turchia, del 4.10.2011
C.EDU/ECtHR, Cantaragiu c. Moldavia, del 24.3.2020
Pene inumane o degradanti: ergastolo ed ergastolo ostativo e art. 41 bis (“carcere duro”)
C.EDU/ECtHR, T. c. Regno Unito, del 16.12.1999
C.EDU/ECtHR, V. c. Regno Unito, del 16.12.1999
C.EDU/ECtHR, Sawoniuk c. Regno Unito, del 29.5.2001
C.EDU/ECtHR, Mastromatteo c. Italia, del 24.10.2002
C.EDU/ECtHR, Scoppola c. Italia, del 8.9.2005
C.EDU/ECtHR, Campisi c. Italia, del 11.7.2006
C.EDU/ECtHR, Garagin c. Italia, del 29.4.2008
C.EDU/ECtHR, Kafkaris c. Cipro, del 12.12.2008
C.EDU/ECtHR, Enea c. Italia, del 17.9.2009
C.EDU/ECtHR, Maiorano e altri c. Italia, del 15.12.2009
C.EDU/ECtHR, Choreftakis e Choreftaki c. Grecia, del 17.1.2012
C.EDU/ECtHR, Vinter e a. c. Regno Unito, del 9.7.2013
C.EDU/ECtHR, Öcalan c. Turchia, del 13.10.2014
C.EDU/ECtHR, Paolello c. Italia, del 24 settembre 2015
C.EDU/ECtHR, Murray c. Paesi Bassi, del 26.4.2016
C.EDU/ECtHR, Hutchinson c. Regno Unito, del 17.1.2017
C.EDU/ECtHR, Provenzano c. Italia, del 25.10.2018
C.EDU/ECtHR, Viola c. Italia, del 7.10.2019
Le assicurazioni diplomatiche
C.EDU/ECtHR, Shamayev e altri c. Georgia e Russia, del 12.4.2005
C.EDU/ECtHR, Al-Moayad c. Germania, del 20.2.2007
C.EDU/ECtHR, Ben Khemais c. Italia, del 24.2.2009
C.EDU/ECtHR, Tarakhel c. Svizzera, del 4.11.2014
C.EDU/ECtHR, Paposhvili c. Belgio, del 13.12.2016
La responsabilità dello Stato per atti di tortura o trattamenti inumani e degradanti commessi da privati
C.EDU/ECtHR, H.L.R. c. Francia, del 29.4.1997
C.EDU/ECtHR, A. c. Regno Unito, del 23.9.1998
C.EDU/ECtHR, Z. e altri c. Regno Unito, del 10.5.2001
C.EDU/ECtHR, Boris Ivanov c. Russia, del 6.10.2015
C.EDU/ECtHR, I.E. c. Moldavia, del 26.5.2020
C.EDU/ECtHR, Association Innocence en Danger et Association Enfance et Partage c. Francia, del 4.6.2020
C. IDH, Azul Rojas Marín y otra c. Perú, del 12.03.2020 [tortura, violenza sessuale, dovere di indagine]
C. IDH, Olivares Muñoz c. Venezuela, del 10.11.2020 [tortura, dovere di indagine rapida ed efficace]
Il divieto di schiavitù, servitù e
lavoro forzato
di Francesca Polacchini
idonee a prevenire “the sale of or traffic in children for any purpose or in any form” e dalla
Convenzione interamericana sulla tratta internazionale di minori del 1984, che vieta, oltre
alla tratta a scopo di sfruttamento sessuale, quella finalizzata a qualsiasi altro scopo vietato
nello Stato di reclutamento o in quello di destinazione.
Il divieto della schiavitù e della tratta degli esseri umani risulta, inoltre, sanzionato
dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, dalla Cedu e dal Patto sui diritti
civili e politici delle Nazioni Unite del 1966.
Con riferimento al quadro normativo eurounitario, occorre menzionare l’art. 5 della
Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che proibisce la schiavitù, la servitù, il lavoro forzato
e la tratta di esseri umani. Inoltre, la direttiva 2011/36/UE contiene disposizioni in tema di
prevenzione e repressione della tratta di esseri umani e di protezione delle vittime. Rispetto
alla disciplina precedente, la direttiva provvede a riordinare la materia in maniera organica
proponendo, in particolare, una più ampia definizione di tratta di esseri umani, nella quale
rientrano i seguenti atti dolosi: il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’ac-
coglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell’autorità su queste persone,
con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con
il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con
l’offerta o l’accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una
persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento. La direttiva precisa che per “posi-
zione di vulnerabilità” si intende una situazione in cui la persona non ha altra scelta effettiva
ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima.
Il divieto di schiavitù e servitù, oltre a trovare espresso riconoscimento nell’ampia
profusione pattizia in materia di diritti umani, risulta espressione di una norma di natura
consuetudinaria avente carattere cogente, ovvero di una norma accettata e riconosciuta come
imperativa e assolutamente inderogabile dalla Comunità internazionale nel suo insieme. Ciò
trova conferma nel Commento al Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati del 2001,
nel quale la Commissione di diritto internazionale ha individuato come norme di ius cogens
il diritto all’autodeterminazione dei popoli, le norme fondamentali del diritto internazionale
umanitario e i divieti di aggressione, schiavitù, genocidio, discriminazione razziale, apar-
theid e tortura.
tera a) della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani,
la Corte ha ritenuto che la tratta di esseri umani rientri nella sfera di applicazione dell’articolo
4 della Convenzione (M. e altri c. Italia e Bulgaria, del 31.7.2012, par. 151; S.M. c. Croazia,
del 26.6.2020, par. 54).
assimilabile a quello connesso alla proprietà, tale da ridurla alla condizione di un oggetto.
Pur riconoscendo che la giovane, di fatto, era stata privata della propria libertà personale, la
Corte ha rilevato che nessun elemento concreto suggerisse che fosse stata ridotta in schiavitù,
ovvero ridotta ad oggetto alla mercè della famiglia D.
La Corte ha, invece, ritenuto che la ricorrente fosse stata tenuta in condizione di servi-
tù in quanto, oltre al fatto che doveva svolgere prestazioni domestiche forzate, era una minore
priva di risorse, vulnerabile e isolata, senza mezzi per vivere in un luogo diverso dall’abi-
tazione in cui lavorava alla mercé di quelle persone, dalle quali dipendeva completamente
senza alcuna libertà di movimento né tempo libero (parr. 126, 127).
Il più recente caso C.N. e V. c. Francia (sentenza del 11.10.2012) mostra caratteristi-
che simili a quello sopra analizzato. Due sorelle, provenienti dal Burundi ed entrambe mino-
renni, erano private del passaporto e impiegate come lavoratrici domestiche nella casa della
famiglia M. La sorella più grande, che non frequentava la scuola, era responsabile di tutte le
faccende domestiche a casa dei coniugi M. e doveva prendersi cura del figlio disabile. Lavo-
rava sette giorni su sette, senza alcun giorno di riposo e senza retribuzione, talvolta dovendo
anche alzarsi nel cuore della notte per accudire il figlio disabile del signor e della signora
M. Era, quindi, tenuta in una condizione di totale dipendenza dai coniugi M., senza alcuna
speranza di poter cambiare la sua condizione, posto che non aveva alcun tipo di formazione
scolastica e professionale ed era stata privata del passaporto.
L’altra ragazza, invece, frequentava la scuola e solo dopo aver concluso i compiti a
casa si dedicava alle faccende domestiche per aiutare la sorella. In ogni caso, anch’essa la-
mentava di trovarsi in una condizione di subordinazione rispetto ai coniugi M. e nella totale
impossibilità di cambiare la propria situazione.
La Corte ha ritenuto che solo la prima ricorrente fosse stata tenuta in condizione di
servitù (parr. 92-93). In particolare, i giudici hanno qualificato la servitù come una forma
specifica di lavoro forzato od obbligatorio, in altre parole, come un lavoro forzato od obbli-
gatorio “aggravato”, precisando che la fondamentale caratteristica che distingue la servitù dal
lavoro forzato od obbligatorio risiede nella sensazione delle vittime che la loro condizione
sia permanente e che sia improbabile che la situazione possa cambiare. Tale sensazione deve
essere fondata su criteri oggettivi o causata o mantenuta viva dalle persone responsabili della
situazione (par. 91).
La Corte ha, inoltre, sottolineato che la servitù domestica è uno specifico reato, distin-
to dalla tratta e dallo sfruttamento, che si contraddistingue per un complesso di dinamiche
comprendenti forme di coercizione sia palesi che più sottili, volte a costringere all’obbedien-
za (par. 80).
Rispetto alla possibilità di ricondurre le situazioni concrete all’ipotesi del lavoro for-
zato, i giudici hanno chiarito che non tutto il lavoro richiesto da un individuo sotto la mi-
naccia di una “pena” è inquadrabile come “lavoro forzato o obbligatorio” vietato dall’art. 4,
par. 2. Occorre, in particolare, valutare il tipo e la quantità di prestazioni richieste, criteri che
consentono di distinguere tra “lavoro forzato” e l’aiuto che ci si può ragionevolmente atten-
dere da altri componenti della famiglia o da persone che condividono l’alloggio. In questa
prospettiva, nel caso Van der Mussele c. Belgio (sentenza del 23.11.1983, par. 39), la Corte si
è avvalsa della nozione di “onere sproporzionato” per determinare se un avvocato fosse stato
sottoposto a lavoro obbligatorio durante lo svolgimento del periodo di pratica forense, nel
quale normalmente viene svolta un’attività di difesa di tipo gratuito.
90 Francesca Polacchini
anni di permanenza in Grecia, la donna fu più volte arrestata, detenuta, processata, condan-
nata, assolta e minacciata di espulsione dalle autorità greche senza che nessuno dei funzio-
nari coinvolti avesse mai sospettato o indagato circa la sua situazione di potenziale vittima
di tratta. Per questa ragione, la Corte ha riscontrato una violazione dell’art. 4 sul versante
procedurale.
Infine, occorre volgere l’attenzione al caso S.M. c. Croazia (sentenza del 25.6.2020),
in cui la Corte ha ulteriormente precisato le caratteristiche che contraddistinguono la tratta
di esseri umani. La ricorrente, S.M., è una cittadina croata che, nel 2012, denunciava un ex
ufficiale di polizia, T.M., accusandolo di averle promesso un impiego lavorativo e di averla,
invece, costretta a prostituirsi per diversi mesi nel corso del 2011. In questo arco temporale,
la donna veniva sottoposta a pressioni psicologiche e minacce da T.M., che la ponevano in
una condizione di sottomissione e asservimento, fino a quando riusciva a sottrarsi allo sfrutta-
mento trovando rifugio presso un’amica, con l’aiuto della quale si determinava a denunciare
il suo sfruttatore alle Forze dell’ordine croate.
Nel contesto dell’inquadramento giuridico del fatto, la Corte ha puntualizzato che,
per la configurazione del reato di “tratta di persone”, occorre la compresenza di tre elementi
costitutivi: un’attività iniziale (come il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio
o l’accoglienza di persone), l’utilizzo di mezzi adeguati alla realizzazione della condizione
di asservimento della vittima (inclusa la minaccia dell’uso o l’uso della forza o di altre forme
di coercizione, come il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di autorità o di una posizione
vulnerabile, l’offrire o l’accettare pagamenti o benefici per ottenere il controllo su un’altra
persona) e il perseguimento di un obiettivo criminoso collegato allo sfruttamento della vit-
tima (come lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale).
La Corte, inoltre, ha chiarito che il concetto di “tratta di persone” si riferisce sia alla tratta na-
zionale sia alla tratta transnazionale, con la conseguenza che la sua configurazione prescinde
dal coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato, nazionale o transnazionale, essendo
sufficiente che i fatti si realizzino con le modalità sopra richiamate.
I giudici hanno offerto anche un’indicazione processuale di sicuro interesse: quando
si procede per il reato di tratta di persone per finalità di sfruttamento della prostituzione, oc-
corre tenere conto della particolare vulnerabilità e dei traumi psicologici patiti dalla vittima
dei reati a sfondo sessuale, che impongono l’attivazione di meccanismi di tutela della sua
posizione all’interno del processo. In particolare, i giudici hanno affermato che l’autorità
giudiziaria avrebbe dovuto acquisire le testimonianze dei soggetti con cui la persona offesa
era entrata in contatto, che avrebbero precisato e rafforzato il quadro probatorio, proteggen-
do al contempo la vittima, la cui condizione di sudditanza psicologica nei confronti di T.M.
rendeva vulnerabile la sua posizione testimoniale. Ad avviso della Corte, questa mancanza ha
reso inadeguato l’accertamento giurisdizionale, determinando la violazione dell’art. 4 sotto
il profilo procedurale, stante l’inidoneità del processo ad accertare la reale natura dei rapporti
esistenti tra la ricorrente e T.M. Infine, occorre segnalare la sentenza V.C.L. e A.N. c. Regno
Unito (del 16.2.2021), nella quale per la prima volta la Corte ha considerato il rapporto tra
l’art. 4 Cedu e la perseguibilità in giudizio delle vittime o delle potenziali vittime della trat-
ta. Precisamente, i giudici hanno affermato che l’incriminazione delle (potenziali) vittime
di tratta, per i reati commessi in conseguenza del loro sfruttamento, in certe circostanze,
può essere in contrasto con il dovere dello Stato di adottare misure operative di protezione,
determinando pertanto una violazione dell’art. 4 della Convenzione (parr. 157-161). In par-
ticolare, lo Stato viola l’obbligo positivo di adottare le misure di protezione necessarie in
favore delle vittime di tratta, qualora decida di perseguire penalmente un soggetto nonostante
vi siano fondati motivi per ritenere che sia stato vittima di tratta. In questo caso, le autorità
92 Francesca Polacchini
6. Il lavoro forzato
L’articolo 4, par. 2, Cedu proibisce il lavoro forzato od obbligatorio, ma non ne defini-
sce il significato e nei diversi documenti del Consiglio d’Europa relativi ai lavori preparatori
della Convenzione europea non è rinvenibile alcun orientamento sul punto (Van der Mussele
c. Belgio, del 23.11.1983, par. 32). Nel silenzio della Convenzione, anche il significato da at-
tribuire all’espressione “lavoro forzato od obbligatorio” si deve desumere dal diritto interna-
zionale e, in particolare, dall’art. 2 della Convenzione sul lavoro forzato dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro del 1930, che lo qualifica come «ogni lavoro o servizio estorto a
una persona sotto minaccia di una punizione e per il quale detta persona non si sia offerta
spontaneamente».
La nozione base dettata nella Convenzione OIL è stata chiarita ed estesa dalla Corte
di Strasburgo in plurime direzioni.
Il lemma lavoro deve essere inteso in senso ampio, comprensivo del lavoro sia manua-
le sia intellettuale (Van der Mussele c. Belgio, cit., par. 33). Inoltre, come sottolineato dalla
Corte, non tutto il lavoro estorto a una persona sotto minaccia di una “punizione” costitui-
sce un “lavoro forzato od obbligatorio” proibito dall’art. 4, par. 2. Occorre, infatti, prendere
in considerazione alcuni criteri, ovvero il tipo e la quantità delle prestazioni eseguite, che
consentono di distinguere, ad esempio, tra il “lavoro forzato” e l’aiuto che ci si può ragio-
nevolmente attendere da altri familiari o da persone che condividono un’abitazione (C.N. e
V. c. Francia, del 11.10.2012, par. 74). In questa prospettiva, nella causa Van der Mussele c.
Belgio la Corte ha utilizzato la nozione di “onere sproporzionato” per stabilire se un difensore
fosse stato costretto al lavoro forzato quando gli era stato imposto di svolgere attività gratuita
di difesa dei clienti in qualità di difensore d’ufficio.
Con riferimento agli aggettivi “forzato o obbligatorio”, la Corte ha puntualizzato che
non occorre che la punizione minacciata si spinga sino alla violenza, ben potendo assumere
forme più sottili, di carattere psicologico, come la minaccia di denunciare le vittime che
lavoravano illegalmente alla polizia o alle autorità competenti in materia di immigrazione
(C.N. e V. c. Francia, cit., par. 77). Ad esempio, nella causa Siliadin c. Francia la Corte ha
ritenuto che, sebbene la ricorrente, all’epoca dei fatti minorenne, non fosse stata minacciata
di “punizione”, ciò non escludeva che la stessa si trovasse in una situazione equivalente a una
minaccia in termini di gravità percepita, in quanto si trattava di un’adolescente soggiornante
illegalmente in un paese straniero con il costante timore di essere arrestata dalla polizia (par.
118). Il requisito della minaccia di una punizione è stato ritenuto soddisfatto anche nel caso
Van der Mussele c. Belgio in cui al ricorrente, un praticante avvocato, era stato paventato il
I l d i v i e t o d i s c h i av i t ù , s e r v i t ù e l av o r o f o r z a t o 93
rischio che il Consiglio dell’ordine degli Avvocati cancellasse il suo nominativo dall’albo
dei praticanti o respingesse la sua domanda di iscrizione all’albo degli avvocati qualora non
avesse portato a termine la pratica forense e le attività di gratuito patrocinio alla stessa con-
nesse (par. 35).
Con riferimento all’elemento della mancanza di consenso, la Corte ha precisato che il
consenso prestato originariamente dal lavoratore non è sufficiente ad escludere la qualifica di
lavoro forzato e che, in ogni caso, ha valore relativo e deve essere valutato alla luce di tutte
le circostanze del caso. Questo principio è stato espresso nella sentenza Chowdury e altri c.
Grecia (sentenza del 30.7.2017), originata dal ricorso proposto da quarantadue cittadini del
Bangladesh arrivati in Grecia per essere impiegati nella raccolta di fragole. I ricorrenti veni-
vano reclutati ad Atene e, dopo aver lavorato alcuni mesi senza ricevere i compensi pattuiti,
rivendicavano i pagamenti scatenando la reazione violenta dei datori di lavoro. Il caso in
esame ha consentito alla Corte di applicare per la prima volta il divieto di cui all’art. 4 Cedu
ad un fenomeno assai diffuso in molti Paesi europei, ovvero lo sfruttamento dei lavoratori
(migranti, in particolare) nel settore agricolo.
Come di consueto, la Corte ha individuato gli elementi caratterizzanti il ‘lavoro forza-
to’ facendo riferimento alla Convenzione OIL n. 29 del 1930 (art. 2), che consistono nell’e-
storsione del lavoro «sotto la minaccia di una pena qualsiasi» ovvero nella circostanza che
la vittima non si sia «offerta spontaneamente» per lo svolgimento di tale lavoro. La Corte
ha, però, adottato una nozione estensiva del consenso richiesto da parte del soggetto affinché
non si integri un’ipotesi di lavoro forzato, chiarendo che il consenso originariamente prestato
dal lavoratore non è sufficiente ad escludere la qualifica di lavoro forzato. Elaborando tali
principi, nel caso di specie si è giunti ad affermare che non può ritenersi svolto volontaria-
mente quel servizio che è ottenuto dal datore di lavoro approfittando del suo potere o della
situazione di vulnerabilità dei lavoratori (par. 96). Il riferimento ad una generica condizione
di vulnerabilità appare particolarmente importante e rappresenta un elemento di grande inte-
resse nella sentenza in esame. Il concetto, data la sua ampiezza, si presta ad essere applicato
ad una molteplicità di situazioni che possono coinvolgere anche gli stranieri regolarmente
soggiornanti e persino gli stessi cittadini.
Nella sentenza viene altresì richiamato un ulteriore elemento caratterizzante la nozio-
ne di lavoro forzato, introdotto nella pronuncia sentenza Van der Mussele (par. 39), ovvero
la sussistenza, tenuto conto della natura e dell’entità delle prestazioni lavorative, di un onere
sproporzionato per la vittima, che rappresenta un fattore necessario per considerare lo svolgi-
mento del lavoro sotto minaccia di una pena come lavoro forzato. Applicando questo test al
caso de quo, la Corte ha riscontrato la violazione sostanziale dell’art. 4, poste le condizioni
di lavoro estreme cui erano sottoposti i ricorrenti e, dunque, l’onere eccessivo imposto alle
vittime.
Infine, dopo aver confermato che l’art. 4 Cedu impone agli Stati il rispetto di obblighi
positivi, di natura sostanziale e procedurale, la Corte ha condannato la Grecia per la violazio-
ne dell’art. 4, par. 2 poiché le autorità elleniche, pur disponendo di un quadro normativo ade-
guato, non avevano in concreto adottato misure sufficienti a prevenire le condotte contrarie
al divieto di schiavitù e lavoro forzato e a tutelare le vittime (par. 115). Inoltre, la Grecia non
aveva adempiuto all’obbligo procedurale di condurre un’inchiesta effettiva e di sanzionare i
responsabili della tratta (par. 128).
94 Francesca Polacchini
ritenuto che nel panorama europeo non vi fosse sufficiente consenso sulla questione dell’i-
scrizione dei detenuti lavoratori al sistema delle pensioni di vecchiaia e ha concluso che il
lavoro obbligatorio svolto dal ricorrente durante la detenzione dovesse essere considerato un
“lavoro normalmente richiesto a una persona detenuta” ai sensi dell’articolo 4, par. 3, lett. a).
Con riferimento all’ipotesi contemplata dall’art. 4, par. 3, lett. b), che esclude dal
campo di applicazione del “lavoro forzato od obbligatorio” “il servizio militare o, nel caso
degli obiettori di coscienza nei paesi che riconoscono l’obiezione di coscienza, qualunque
altro servizio sostitutivo di quello militare obbligatorio”, occorre menzionare il caso W., X.,
Y. e Z. c. Regno Unito (sentenza del 19.7.1968) in cui i ricorrenti, arruolati quando erano
ancora minorenni nelle forze armate del Regno Unito, lamentavano che il servizio svolto
rappresentasse un lavoro forzato od obbligatorio. La Commissione ha, invece, ritenuto che
le prestazioni svolte fossero riconducibili all’art. 4, par. 3, lett. b) ed ha respinto il ricorso.
Sebbene l’ipotesi non fosse configurabile nel caso di specie, la Commissione ha precisato che
le nozioni di servitù e di lavoro forzato od obbligatorio devono essere tenute distinte e che,
nonostante spesso appaiano affini, non possono essere considerate equivalenti; pertanto, la
disposizione che esclude espressamente il servizio militare dal campo di applicazione del “la-
voro forzato od obbligatorio” non esclude automaticamente che tale servizio possa integrare,
alla luce delle circostanze concrete, una forma di “schiavitù o servitù”.
Più recentemente, nella causa Chitos c. Grecia (sentenza del 4.6.2015), riguardante i
periodi di servizio obbligatorio per gli ufficiali dell’esercito dopo il compimento degli studi
e l’obbligo imposto agli stessi di versare una cospicua somma di denaro allo Stato in caso di
abbandono dell’esercito prima del termine previsto dal contratto, la Corte ha ritenuto che l’e-
sclusione prevista dall’articolo 4, par. 3 concernesse soltanto il servizio militare obbligatorio
e non si applicasse al personale militare di carriera. In considerazione delle particolari circo-
stanze del caso, la Corte ha concluso nel senso della violazione dell’art. 4, par. 2, in quanto le
autorità avevano imposto al ricorrente un onere sproporzionato.
Con riguardo alle ipotesi di cui all’art. 4, par. 3, lettere c) e d), la Commissione ha ritenuto
che l’obbligo di un titolare di diritti di caccia di partecipare attivamente alla gassazione delle tane
delle volpi per contribuire ad una campagna contro un’epidemia fosse giustificato ai sensi dell’ar-
ticolo 4, par. 3, lettera c), che consente di richiedere servizi in caso di crisi o di calamità che minac-
ciano la vita o il benessere della comunità, o ai sensi dell’articolo 4, par. 3, lettera d), che consente
il servizio facente parte dei normali doveri civici (S. c. Germania, decisione del 4.10.1984).
Con particolare riferimento ai normali doveri civici, richiamati dall’art. 4, par. 3, lettera
d), occorre menzionare il caso Van der Mussele c. Belgio (sentenza del 23.11.1983), originato
dal ricorso proposto da un giovane aspirante avvocato che riteneva di essere stato sottoposto
a lavoro obbligatorio durante il periodo della pratica forense. Il ricorrente sosteneva di essere
stato vittima di lavoro forzato proibito dall’art. 4 par. 2 Cedu, in quanto gli erano state assegnate
mansioni che aveva svolto senza ricevere una giusta retribuzione e sotto la minaccia di sanzioni
ingiuste. Più precisamente, affermava che per diventare avvocato aveva dovuto svolgere un
tirocinio di tre anni durante il quale gli erano stati assegnati cinquanta casi da seguire gratuita-
mente in qualità di difensore d’ufficio. Se si fosse rifiutato, il Consiglio dell’Ordine territoriale
avrebbe potuto prolungare la durata della pratica forense fino a cinque anni e cancellare il suo
nome dall’elenco dei praticanti o, persino, respingere la sua domanda di ammissione all’albo
per inadempimento degli obblighi contemplati dalla legge. La Corte ha rigettato il ricorso, rile-
vando che al ricorrente non era stato imposto un onere lavorativo sproporzionato e che l’attività
di gratuito patrocinio rientra nell’attività ordinariamente richiesta ai praticanti avvocati.
La Commissione e la Corte hanno, inoltre, ritenuto che la formula “qualunque lavoro o
servizio facente parte dei normali doveri civici” comprenda: l’obbligo giuridico posto a carico
96 Francesca Polacchini
delle società in qualità di datori di lavoro di calcolare e trattenere determinati oneri fiscali e
contributi previdenziali dalle retribuzioni e dai salari dei propri dipendenti (Four Companies c.
Austria, del 27.9.1976), il servizio obbligatorio nei Vigili del Fuoco o il contributo finanziario
dovuto in sostituzione del servizio (Karlheinz Schmidt c. Germania, sentenza del 18.7.1994),
l’obbligo per i medici di eseguire visite mediche gratuite (Reitmayr c. Austria, del 28.6.1995),
il servizio obbligatorio in una giuria (Zarb Adami c. Malta, sentenza del 20.9.2006) e l’obbligo
di partecipare al servizio di pronto soccorso (Steindel c. Germania, del 14.9.2010).
mente di fatto. L’inchiesta deve, poi, essere svolta in modo diligente, completo ed approfondito
al preciso fine di individuare l’autore del comportamento incriminato, curando di raccogliere
le prove utili alla ricostruzione degli avvenimenti. La Corte ha puntualizzato che l’obbligo di
indagine non è subordinato alla denuncia della vittima o di un prossimo congiunto, ma deve es-
sere adempiuto in modo autonomo dalle autorità, che devono procedere d’ufficio quando i fatti
giungano alla loro attenzione. Inoltre, ad avviso della Corte, qualora sussista la possibilità di
sottrarre la persona alla situazione pregiudizievole, l’indagine deve essere intrapresa d’urgenza.
In ogni caso, lo Stato è tenuto ad esercitare un controllo pubblico sullo svolgimento
delle indagini in modo da fugare ogni dubbio circa la sua tolleranza per gli atti vietati.
Nel particolare contesto della tratta transfrontaliera di esseri umani, oltre all’obbligo
di condurre indagini interne, gli Stati membri sono altresì tenuti a cooperare efficacemente
con le autorità competenti degli altri Stati interessati alle indagini relative ai fatti verificatisi
al di fuori del proprio territorio.
Oltre agli obblighi procedurali di inchiesta, gli Stati hanno il dovere di adottare tutte
le misure operative necessarie per proteggere le vittime, o le potenziali vittime, di trattamenti
contrari all’art. 4 (Rantsev c. Cipro e Russia, cit., per. 286; C.N. c. Regno Unito, cit. par. 67).
Ricorre la violazione di tale obbligo qualora si dimostri che le autorità erano o avrebbero
dovuto essere a conoscenza delle circostanze che rendevano verosimile il sospetto che una
determinata persona fosse oggetto dei trattamenti vietati dall’art. 4, o corresse il rischio di
esserlo. Nella causa Chowdury e altri c. Grecia (sentenza del 30.6.2017) la Corte ha ritenuto
che la Grecia non avesse adempiuto agli obblighi positivi discendenti dall’art. 4, in quanto le
autorità, pur essendo consapevoli della situazione in cui si trovavano i lavoratori immigrati
molto prima della sparatoria in cui erano stati coinvolti i ricorrenti, non avevano adottato le
misure operative necessarie per impedire la tratta e proteggere i ricorrenti (parr. 111-115).
L’obbligo in esame deve, tuttavia, essere interpretato in modo da non imporre alle
autorità un onere impossibile o sproporzionato, tenuto conto delle risorse e degli strumenti a
disposizione delle istituzioni.
In conclusione, la Corte ha identificato tre categorie di obblighi positivi discendenti
dall’art. 4 Cedu. In primo luogo, l’obbligo di predisporre un adeguato quadro legislativo e
amministrativo per perseguire e punire gli autori delle condotte vietate dall’art. 4. In secondo
luogo, l’obbligo di adottare le misure operative necessarie per proteggere le vittime quando le
autorità statali siano nella condizione di poter acquisire la conoscenza di episodi di schiavitù,
servitù, lavoro forzato o tratta. Infine, l’obbligo di svolgere indagini celeri ed efficaci, che
conducano all’individuazione e alla condanna dei responsabili.
La servitù domestica
C.EDU/ECtHR, Seguin c. Francia, del 7.3.2000
C.EDU/ECtHR, Siliadin c. Francia, del 26.10.2005
La tratta degli esseri umani come fattispecie riconducibile alla sfera di applicazione dell’art. 4
98 Francesca Polacchini
Il lavoro forzato
COMMISSIONE, Wilde, Ooms et Versyp (“Vagabondage”) c. Belgio, del 18.11.1970
COMMISSIONE, Van der Mussele c. Belgio, del 23.11.1983
COMMISSIONE, S. c. Germania, del 4.10.1984
C.EDU/ECtHR, Karlheinz Schmidt c. Germania, del 18.7.1994
C.EDU/ECtHR, Reitmayr c. Austria, del 28.6.1995
C.EDU/ECtHR, Zarb Adami c. Malta, del 20.9.2006
C.EDU/ECtHR, Steindel c. Germania, del 14.9.2010
C.EDU/ECtHR, Stummer c. Austria, del 7.7.2011
C.EDU/ECtHR, C.N. e V. c. Francia, del 11.10.2012
C.EDU/ECtHR, Zhelyazkov c. Bulgaria, del 9.1.2013
C.EDU/ECtHR, Floroiu c. Romania, del 12.3.2013
C.EDU/ECtHR, Chitos c. Grecia, del 4.6.2015
Gli obblighi a carico degli Stati discendenti dal divieto di cui all’art. 4: obblighi negativi ed obblighi positivi
C.EDU/ECtHR, Siliadin c. Francia, del 26.10.2005
C.EDU/ECtHR, Rantsev c. Cipro e Russia, del 7.1.2010
C.EDU/ECtHR, C.N. c. Regno Unito, del 13.2.2013
C.EDU/ECtHR, Chowdury e altri c. Grecia, del 30.7.2017
C.EDU/ECtHR, S.M. c. Croazia, del 25.6.2020
1. Cenni introduttivi
Il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del domicilio e della corri-
spondenza è previsto dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (1950) e dall’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea (2000). Analoghe disposizioni si ritrovano nell’art 7 del Patto internazionale dei di-
ritti civili e politici (1966), nell’art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948)
e, oltreoceano, nell’art. 11 della Convenzione americana sui diritti umani (1969). Nell’ordi-
namento italiano, tale diritto trova fondamento negli artt. 2, 14 e 15 della Costituzione.
L’art. 8 della Convenzione europea è una delle disposizioni su cui la Corte (EDU) ha
elaborato una vastissima giurisprudenza, con successivi adattamenti, sempre più complessi,
alla realtà fattuale. Le definizioni di vita privata e familiare, di domicilio e di corrispondenza,
che rappresentano il fulcro della disposizione, hanno oggi una portata molto diversa da quella
originaria, considerato che la diffusione degli strumenti digitali ha innescato processi di mu-
tamento dello scenario in cui si sviluppa la vita privata. Così il concetto di vita privata, che
tradizionalmente era circoscritto alla persona, nelle sue multiformi espressività, si è esteso
oggi al mondo di Internet e del digitale, sull’onda del processo di dematerializzazione dei
rapporti sociali, che le tecniche di informazione e di comunicazione e le nuove tecnologie
hanno provocato. Significativamente, nell’attuale contesto, il concetto di identità si estende
anche alla sfera del digitale con la c.d. identità digitale, il domicilio diventa domicilio digi-
tale oltre che fisico, e lo scambio di corrispondenza avviene soprattutto nello spazio creato
da Internet.
L’ampia portata della disposizione normativa si presta a sovrapposizioni e interfe-
renze, perché è un «contenitore concettuale» all’interno del quale confluiscono diversità di
diritti e d’interessi, sui quali s’innesta il primario compito della Corte europea, che si articola
dalla qualificazione giuridica dei fatti di causa, all’analisi del merito, all’emanazione della
sentenza.
Lo sforzo interpretativo ed integrativo, realizzato dalla Corte EDU, ha determinato
l’oggettiva estensione del contenuto dell’art. 8 della Convenzione, agevolando così il pro-
cesso di positivizzazione di «nuovi diritti fondamentali» che, pur permanendo nell’alveo
della disposizione, finiscono per assumere la veste di autonomi diritti fondamentali. I casi
che testimoniano questo fenomeno sono numerosi, il più recente e significativo riguarda il
102 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
riconoscimento del diritto alla protezione dei dati personali, cioè al controllo consapevole di
ogni forma di circolazione delle proprie informazioni personali.
Sebbene questo diritto rientri nell’art. 8 della Convenzione EDU, successivamen-
te è stato riconosciuto come diritto autonomo nell’ambito della Convenzione n. 108 del
28.01.1981 (completato con il Protocollo di modifica del 18.05.2018), adottata dal Consiglio
d’Europa che conferisce una nuova dimensione alla tutela della vita privata attraverso la data
protection.
I diritti di cui all’art. 8 della Convenzione europea hanno lo scopo di proteggere l’in-
dividuo da ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri, salvo specifiche deroghe. Al riguardo,
l’ingerenza può essere prevista dalla legge ovvero motivata da una delle esigenze imperative
di carattere generale di cui al comma 2, dell’art. 8. All’impegno di carattere negativo (di
astensione) degli Stati membri, si aggiungono gli obblighi positivi (di fare) di adottare misure
atte a garantire il rispetto effettivo della vita privata e familiare.
Nell’adempiere ad entrambi gli obblighi, lo Stato deve contemperare e trovare un giu-
sto equilibrio tra i concorrenti interessi generali e gli interessi dei singoli, nei limiti del mar-
gine di apprezzamento che gli è conferito. In aggiunta, la procedura decisionale stabilita deve
essere «equa» e funzionale a garantire il dovuto rispetto degli interessi tutelati dall’articolo 8.
Tra le misure di competenza degli Stati si possono ricordare, da una parte, gli obbli-
ghi sostanziali atti ad assicurare i diritti in questione (C. EDU/ECtHR, Iglesias Gil e A. U.
I. I. c. Spagna, del 29.04.2003, par. 51; C. EDU/ECtHR, Ignaccolo-Zenide c. Romania, del
25.01.2000, par. 95; C. EDU/ECtHR, Maire c. Portogallo, del 26.06.2003, par. 72), dall’al-
tra, gli obblighi di prevedere sanzioni penali (o di altra natura) e di effettuare indagini per
l’identificazione/punizione dei responsabili (C. EDU. X e Y c. Paesi Bassi, del 26.03.1985,
par. 30; C. EDU/ECtHR, Bogomolova c. Russia, del 20.06.2017, par. 5), al fine di eliminare
gli ostacoli che si oppongono al pieno sviluppo della personalità (C. EDU/ECtHR, M.C. c.
Bulgaria, del 4.12.2003, par. 148-153 e 185).
Nel comma 2 sono esplicitamente elencate le deroghe, che riguardano: la tutela della
sicurezza nazionale, la sicurezza pubblica, il benessere economico dello Stato, la prevenzio-
ne e repressione del crimine, la protezione della salute o della morale pubblica, la protezione
dei diritti e delle libertà altrui. Al riguardo, le ingerenze sono consentite se sono «previste
dalla legge», «conformi alla legge» o «stabilite dalla legge» e se siano «necessarie in una
società democratica» per la tutela di uno dei suddetti obiettivi (si vedano, tra molte altre, C.
EDU/ECtHR, K. e T. c. Finlandia, del 12.07.2001, par. 151 e C. EDU/ECtHR, Paradiso e
Campanelli c. Italia, del 24.01.2017, par. 179).
Secondo un’interpretazione consolidata della Corte, qualsiasi ingerenza da parte di
un’autorità pubblica nella sfera della vita privata deve essere prevista dalla legge. Tale pre-
visione non richiede soltanto l’osservanza del diritto interno, ma concerne anche la verifica
della conformità della legge ai principi dello Stato di diritto (C. EDU/ECtHR, Halford c.
Regno Unito, del 25.06.1997, par. 49) e l’interpretazione e l’applicazione delle disposizioni
normative fatte dagli organi giurisdizionali. La legislazione nazionale deve essere chiara,
sufficientemente prevedibile e adeguatamente accessibile (C. EDU/ECtHR, Silver e altri c.
Regno Unito, del 25.03.1983, par. 87; C. EDU/ECtHR, Fernández Martínez c. Spagna, del
12.06.2014, par. 117). Prevedibilità non significa necessariamente certezza bensì avere una
ragionevole consapevolezza, acquisibile anche mediante la consulenza di giuristi (C. EDU/
ECtHR, Slivenko c. Lettonia, del 9.10.2003, par. 106-107)
Gli Stati godono di un certo margine di discrezionalità nell’adempimento dei loro
obblighi positivi ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, per determinarne l’ampiezza oc-
corre tener conto di diversi fattori. Qualora sia in gioco un aspetto particolarmente importante
D i r i t t o a l r i s p e t t o d e l l a v i ta p r i vata e f a m i l i a r e , d e l d o m i c i l i o e d e l l a c o r r i s p o n d e n z a 103
dell’esistenza o dell’identità di una persona, il margine concesso allo Stato è più ristretto (cfr.
C. EDU. X e Y c. Paesi Bassi, del 26.03.1985, par. 24-27; C. EDU Christine Goodwin c. Re-
gno Unito, 11.07.2002, par. 90; C. EDU/ECtHR, Pretty c. Regno Unito, del 29.04.2002, par.
71). Tuttavia, in assenza di unanimità tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa in ordine
alla relativa importanza dell’interesse in gioco o ai migliori mezzi per tutelarlo, il margine
concesso è più ampio (cfr. C. EDU/ECtHR, X, Y e Z c. Regno Unito, del 22.04.1997, par. 44;
C. EDU/ECtHR, Fretté c. Francia, del 26.02.2002, par. 41).
La Corte ha inoltre specificato gli obblighi procedurali dello Stato ai sensi dell’arti-
colo 8, che rivestono particolare rilevanza al fine della determinazione del margine di discre-
zionalità concesso allo Stato membro. L’analisi della Corte comprende le seguenti conside-
razioni: ogniqualvolta sia conferita alle autorità nazionali una discrezionalità che comporta
ingerenze nel godimento di un diritto previsto dalla Convenzione, le garanzie procedurali ac-
cessibili alla persona rivestono particolare importanza per determinare se lo Stato convenuto,
nella predisposizione del quadro normativo, sia rimasto entro il margine di discrezionalità
concessogli. Infatti, la costante giurisprudenza della Corte stabilisce che, benché l’articolo
8 non contenga alcun esplicito requisito procedurale, il processo decisionale che conduce a
misure di ingerenza «deve essere equo» e tale da rispettare debitamente gli interessi della
persona tutelati dall’articolo 8 (C. EDU/ECtHR, Buckley c. Regno Unito, del 29.09.1996, par.
76; C. EDU/ECtHR, Tanda-Muzinga c. Francia, del 10.07.2014, par. 68; C. EDU/ECtHR,
M.S. c. Ucraina, del 11.07.2017, par. 70; C. EDU/ECtHR, McMichael c. Regno Unito del
24.02.1995, par. 87). Ciò esige, in particolare, un’adeguata partecipazione del ricorrente a
tale processo (C. EDU/ECtHR, Lazoriva c. Ucraina, del 17.04.2018, par. 63)
Giova ricordare che la Corte europea gode del monopolio della funzione nomofilattica
sulla Convenzione, che esercita elaborando posizioni giurisprudenziali e formulando nozioni
autonome, idonee a risolvere i conflitti insorti con gli Stati, indipendentemente dal sistema
giuridico che disciplina il caso, sia che esso appartenga alla tradizione del civil law o del
common law. In particolare, nel caso C. EDU/ECtHR, Schatschaschwili c. Germania, del
15.12.2015, par. 108, si afferma che la Corte deve applicare lo stesso standard di revisione, ai
sensi dell’art. 6, indipendentemente dal sistema giuridico dello Stato contraente.
2. La vita privata
Il concetto di vita privata è molto ampio e non è riconducibile ad una nozione univoca
ed esaustiva (cfr. C. EDU/ECtHR, Paradiso e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017, par. 159;
C. EDU/ECtHR, Pretty c. Regno Unito, par. 61; C. EDU/ECtHR, Schüth c. Germania, del
23.09.2010, par. 53; C. EDU/ECtHR, Dadouch c. Malta, del 20.07.2010, par. 47-51, C. EDU/
ECtHR, Niemietz c. Germania, del 16.12.1992, par. 29).
La vita privata include infatti molteplici aspetti, tra cui: l’identità personale, il diritto
al nome, la tutela del genere, la tutela dell’orientamento e della vita sessuale, il diritto all’a-
borto, i trattamenti sanitari obbligatori, il fine vita, la riservatezza, la reputazione, l’onore.
Rientra in tale concetto anche il diritto a sviluppare relazioni con i propri simili, nell’ambito
lavorativo, professionale e commerciale.
Corrispondenze e analogie con l’esperienza europea si riscontrano anche nella Conven-
zione interamericana, dove i concetti di vita privata e familiare, di tutela del domicilio e della
corrispondenza, presentano similari fattori fisiognomici, con altrettanto chiari caratteri di interdi-
pendenza. Più volte, infatti, la Corte interamericana ha affermato che il concetto di vita privata è
termine ampio (cfr. C. IDH, Tristán Donoso c. Panamá, del 27.01.2009, par. 55-58), che non può
essere definito in modo esaustivo, perché comprende, tra le altre aree tutelate, la vita sessuale (C.
104 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
IDH, Fernández Ortega y otros c. México, del 30.08.2010, par. 129, e C. IDH, Rosendo Cantú
y otra c. México, del 31.08.2010, par. 119), e il diritto di stabilire e sviluppare relazioni con altri
esseri umani. In questa prospettiva, il domicilio e la vita privata e familiare sono intrinsecamente
legati, in quanto il domicilio diventa lo spazio in cui si può sviluppare liberamente la propria vita
privata e familiare (C. IDH, Escué Zapata c. Colombia, del 4.07.2007, par. 95).
Il variegato quadro della tutela della vita privata in ambito europeo è stato ampliato
anche sotto il profilo estensivo delle tutele riconosciute ai gruppi, in relazione ai rapporti
politico-sociali, come nel caso dell’allontanamento da uno Stato di un gruppo di persone. La
Corte censura le misure di allontanamento non previste dalla legge, prive di scopi legittimi e
non ritenute «necessarie in una società democratica», ai sensi del comma 2, dell’art. 8 della
Convenzione (C. EDU/ECtHR, Slivenko c. Lettonia, del 9.10.2003, par. 93-98).
4. Il diritto al nome
Nel concetto di vita privata rientra anche l’identità personale che trova il principale
e immediato riscontro nel diritto al nome, quale segno che identifica ogni persona e la sua
famiglia, e che permette di riferire ad esso atti, fatti e vicende personali. La Corte EDU ha
stabilito che sebbene l’art. 8 della Convenzione non contenga alcuna disposizione esplicita
sul cognome anche quest’ultimo rientra tra i diritti da tutelare, in quanto mezzo determinante
di identificazione personale (C. EDU/ECtHR, Johansson c. Finlandia, del 6.09.2007, par. 37
e C. EDU/ECtHR, Daróczy c. Ungheria, dell’1.07.2008, par. 26) e di ricongiungimento fami-
liare (C. EDU/ECtHR, Cusan e Fazzo c. Italia, del 7.01.2014, par. 55-56). Questa decisione è
a fondamento della sentenza C. cost., sent. n. 286/2016, pt. 3 cons. in dir., in cui si «dichiara
l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del Codice Ci-
vile italiano; 72, primo comma, del Regio Decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello
stato civile); e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la
semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della
L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non si consente ai coniugi, di comune accordo,
di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno». Similmente C.
EDU/ECtHR, Burghartz c. Svizzera, del 22.02.1994, par. 22-24.
Nella sentenza C. EDU/ECtHR, Ünal Tekeli c. Turchia, del 16.11.2004, par. 44, 67-
68, la Corte ha dichiarato che, non consentire alla donna sposata di mantenere il proprio
cognome da nubile (da solo o in aggiunta) ai fini di dimostrare l’unità della famiglia, non è
compatibile con i principi della Convenzione. La Corte ha inoltre riscontrato una violazione
D i r i t t o a l r i s p e t t o d e l l a v i ta p r i vata e f a m i l i a r e , d e l d o m i c i l i o e d e l l a c o r r i s p o n d e n z a 107
dell’art. 8, da parte delle autorità turche, che avevano rifiutato di consentire il cambiamento
del nome di famiglia, con l’argomento per cui il nuovo nome proposto non era un nome turco,
C. EDU/ECtHR, Aktaş e Aslaniskender c. Turchia, del 26.06.2019, par. 42-46.
La conservazione del proprio nome per ragioni di origine etnica merita tutela; pertan-
to, viola l’art. 8 l’imposizione nei documenti di identità dell’indicazione di un’origine etnica
difforme da quella reale, secondo quanto si legge in: C. EDU/ECtHR, Ciubotaru c. Molda-
via, del 27.04.2010, par. 49. Cfr. C. EDU/ECtHR, Güzel Erdagöz c. Turchia, del 21.10.2008,
par. 47-56. 37.
5. L’integrità morale
Nella causa C. EDU/ECtHR, X e Y c. Paesi Bassi, del 26.03.1985, par. 22, la Corte
ha indicato per la prima volta che il concetto di vita privata comprende anche l’integrità
fisica e morale della persona. Il caso riguardava gli abusi sessuali subiti da una minorenne
ultrasedicenne, affetta da grave disabilità psichica, presso la casa di cura di cui era ospite.
Risultava anche l’assenza di disposizioni di diritto penale per garantire una protezione ef-
fettiva e concreta. Invero, il diritto penale interno non consentiva di perseguire il colpevole,
pure identificato, in quanto il reato di violenza sessuale era punibile a querela di parte, ma la
minorenne non era abilitata a proporre personalmente querela in quanto incapace di intendere
e di volere e, ancora, la querela avrebbe potuto essere proposta dal legale rappresentante sol-
tanto per conto di un minore con meno di sedici anni. La Corte ha ritenuto che tra gli obblighi
positivi degli Stati rientrasse quello di predisporre un adeguato quadro giuridico, ponendo in
essere disposizioni penali efficaci, affiancate da meccanismi di applicazione della legge volti
a prevenire, reprimere e sanzionare le violazioni.
Per integrità morale s’intende la tutela dell’onore, inteso quale valore che il soggetto
avverte di sé e della reputazione sociale che coltiva, o suscita, all’interno della comunità. La
giurisprudenza, sul punto, ha affermato il doveroso bilanciamento con altri diritti conven-
zionali, altrettanto meritevoli di tutela, quali la libertà di espressione e il diritto di cronaca o
critica giornalistica, disposti sia dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Decisione, Trava-
glio c. Italia, del 24.01.2017, par. 25-30; C. EDU/ECtHR, Axel Springer AG c. Germania, del
7.02.2012 par. 83-84) che dal sistema interamericano (Corte IDH, Fontevecchia e D’Amico
Vs. Argentina, del 29.11.2011, par. 17-21,39); che dal sistema africano (ACtHPR, sent. del
5.12.2014, Lohé Issa Konaté c. Burkina Faso, par. 167-171).
Nello specifico la reputazione di un individuo, secondo quanto affermato dalla Corte,
fa parte della sua identità personale e della sua integrità morale (Cfr. C. EDU/ECtHR, Vicent
del Campo c. Spagna, del 6.11.2018, par. 40), anche se tale persona è oggetto di critiche
nell’ambito di un dibattito pubblico (C. EDU/ECtHR, Pfeifer c. Austria, del 15.11.2007, par.
35). Si veda anche C. EDU/ECtHR, Sánchez Cárdenas c. Norvegia, del 4.10.2007, par. 38; e
C. EDU/ECtHR, Schüssel c. Austria, del 21.02.2002, par. 2.
Tuttavia, affinché l’articolo 8 sia applicabile, la lesione della reputazione di una per-
sona deve raggiungere una certa soglia di gravità. Sul particolare: C. EDU/ECtHR, Petrie c.
Italia, del 18.05.2017, par. 41-54; C. EDU/ECtHR, A. c. Norvegia, del 9.04.2009, par. 64;
C. EDU/ECtHR, Delfi AS c. Estonia del 16.06.2015, par. 137; C. EDU/ECtHR, Karakó c.
Ungheria, del 28.04.2009, par. 22-23; C. EDU/ECtHR, Denisov c. Ucraina, del 25.09.18,
par. 111-112 e 115-117.
La lesione può riguardare sia la reputazione sociale che la reputazione professionale-
lavorativa: C. EDU/ECtHR, Medžlis Islamske Zajednice Brčko ed altri c. Bosnia ed Erzego-
vina, del 27.06.2017, par. 76-77 e 105-06; C. EDU/ECtHR, Polanco Torres e Movilla Polan-
108 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
Nella causa C. EDU/ECtHR, Barletta e Farnetano c. Italia, del 26.03.2020, due ricor-
renti (madre e figlio) lamentano le negligenze mediche subite nel corso del ricovero e durante il
parto, avvenuto il 20 dicembre 1994, che avrebbe causato gravi conseguenze fisiche sul figlio.
Inoltre, i ricorrenti lamentano che le autorità nazionali non avevano rispettato il proprio l’obbligo
di condurre un’indagine imparziale e approfondita, rapida e adeguata, allo scopo di individuare
i responsabili degli atti medici che avevano provocato la disabilità. I ricorrenti denunciano in
particolare la lunghezza del procedimento penale, avviato nel 1999 e conclusosi oltre dieci anni
dopo. Ritengono che le autorità interne avrebbero dovuto procedere con maggior celerità, vista
la gravità delle conseguenze che hanno interessato la vita del minore. Invocano a tale proposito
gli articoli 1, 2 e 6 della Convenzione. La Corte rammentando che è libera di qualificare giuridi-
camente i fatti di causa e che non è vincolata dalla qualificazione attribuita ad essi dai ricorrenti
(si vedano, tra altre, C. EDU/ECtHR, Guerra e altri c. Italia, del 19.02.1998, par. 44, C. EDU/
ECtHR, Scoppola c. Italia n. 2, del 17.09.2009, par. 48 e C. EDU/ECtHR, Radomilja e altri c.
Croazia, del 20.03.2018, par. 126), ritiene che sia preferibile esaminare il ricorso dal punto di vista
dell’articolo 8 della Convenzione, che comprende le questioni legate alla protezione dell’integrità
morale e fisica delle persone, nel contesto delle cure mediche somministrate. La Corte ricorda che
gli obblighi che derivano dagli articoli 2 e 8 della Convenzione implicano la realizzazione di un
sistema giudiziario efficace e indipendente, che permetta di stabilire la causa del decesso o delle
lesioni all’integrità fisica. Questo implica, tra l’altro, che il procedimento sia concluso entro un
termine ragionevole (C. EDU/ECtHR, Vasileva c. Bulgaria, del 17.03.2016, par. 65). In conclu-
sione, la Corte ritiene che, di fronte alla doglianza di negligenza medica che ha portato alla grave
disabilità, i procedimenti interni siano stati lacunosi, non avendo l’ordinamento giuridico italiano
risposto in maniera sufficientemente tempestiva. Pertanto, ha dichiarato la violazione dell’ele-
mento procedurale dell’articolo 8 della Convenzione.
Per quanto riguarda l’accesso ai servizi sanitari, la Corte è stata cauta nel dare una
interpretazione estensiva all’articolo 8, al fine di non imporre l’impiego di ingenti risorse
statali, considerato che sono i singoli Stati ad avere la responsabilità di compiere una ragio-
nevole valutazione riguardo alle richieste di intervento sanitario, in base alla peculiarità dei
loro sistemi economico-finanziari, Decisione, Pentiacova e altri c. Moldova, del 4.01.2005.
Un’emblematica rappresentazione si ritrova nella Decisione, Gard c. Regno Unito,
del 27.06.2017, riguardante l’interruzione di cure vitali a favore di un bambino. La Corte
europea ha dichiarato la conformità agli articoli 2 e 8 della Convenzione dell’istanza di so-
spensione dei trattamenti di sostegno vitale proposta dall’ospedale Great Ormond Street Ho-
spital e delle decisioni delle corti britanniche, in relazione al ricovero del minore gravemente
affetto da una rara malattia. Il giudice nazionale aveva accolto, in nome del «miglior interesse
del minore», la richiesta dei medici curanti (par. 123-124), ma aveva rigettato l’istanza inci-
dentale, relativa alla sottoposizione del paziente ad una nuova cura sperimentale negli Stati
Uniti. Secondo l’analisi eseguita dai giudici europei, da un lato non sussiste in capo agli Stati
membri l’obbligo positivo di garantire in tutti i modi ai malati terminali l’accesso a cure
sperimentali; dall’altro, il Regno Unito aveva assolto all’obbligo di formulare una decisione
ponderata in merito all’interruzione delle cure, considerato che era stata presa nel rispetto di
un preciso quadro normativo, ascoltando l’opinione di diversi medici specialisti, dei genitori
e di un tutore nominato ad hoc, garantendo inoltre la possibilità di plurimi ricorsi giurisdi-
zionali. Il comportamento dei giudici nazionali è stato ritenuto conforme al rispetto dei diritti
umani, poiché la normativa interna attribuisce ai medici dell’ospedale il diritto-dovere di
investire la magistratura di una decisione tanto delicata. Gli ulteriori interventi curativi pro-
posti erano stati in più occasioni ritenuti del tutto inutili e privi di effetti positivi (par. 30),
110 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
inoltre «potrebbero causare dolore, sofferenza e angoscia a Charlie». Il ricorso viene pertanto
dichiarato inammissibile perché manifestamente infondato.
La Corte ha anche affrontato le implicazioni dell’articolo 8 nei casi di trattamenti
sanitari obbligatori, casi fortemente caratterizzati dalla necessità di operare un bilanciamento
tra esigenze contrapposte. Da una parte il diritto all’autodeterminazione e salute individuale,
dall’altra la salute pubblica. L’ingerenza in tale diritto da parte dello Stato è lecita se propor-
zionata agli interessi in gioco, come nel caso delle vaccinazioni obbligatorie. In particolare,
la Corte ha ribadito che, sebbene l’esecuzione di una vaccinazione contro la difterite costitu-
isce un’interferenza sulla vita privata, tale interferenza è necessaria e proporzionata, nel caso
concreto, all’obbiettivo di assicurare la tutela della salute pubblica (cfr. Decisione, Acmanne
e altri c. Belgio, del 10.12.1984; Decisione, Boffa e altri c. San Marino, del 15.01.1998;
Decisione, Salvetti c. l’Italia del 9.07.2002; Decisione, X c. l’Austria, del 13.12.1979; Deci-
sione, Peters c. Paesi Bassi, del 6.04.1994).
Per contro, la Corte ha ritenuto che la decisione di un medico di curare un minore, con
grave disabilità, contro l’espressa volontà di un genitore e senza la possibilità di un controllo
giurisdizionale della decisione, violasse l’articolo 8 (Glass c. Regno Unito, cit.). Analoga-
mente, la Corte ha stabilito che i medici che hanno effettuato gli esami del sangue e scattato
fotografie di un bambino che presentava sintomi compatibili con maltrattamenti, senza il
consenso dei genitori, hanno violato il diritto alla vita privata e familiare, in particolare l’in-
tegrità fisica (C. EDU/ECtHR, M. A.K. e R.K. c. Regno Unito, del 23.03.2010, par. 68-74). La
Corte ha riscontrato un’analoga violazione nel caso della decisione dello Stato di sottoporre
una donna, in stato di fermo di polizia, ad una visita ginecologica forzata (C. EDU/ECtHR,
Y. F. c. Turchia, del 22.07.2003, par 41-44).
Di particolare interesse è la sentenza C. EDU/ECtHR, Jehovah’s Witnesses of Moscow
c. Russia, del 10.06.2010, par. 133-142, riguardante il rifiuto di trasfusione di sangue. La
Corte ha affermato che «nel caso in cui il rifiuto di accettare un particolare trattamento possa
portare ad un esito fatale, l’imposizione di un trattamento medico senza il consenso di un pa-
ziente adulto capace di intendere e volere, interferirebbe con il suo diritto all’integrità fisica
e pregiudicherebbe i diritti tutelati dall’articolo 8 della Convenzione».
In base all’art. 8, lo Stato deve assicurare in positivo efficaci garanzie giuridiche per pro-
teggere le donne dalla sterilizzazione non consensuale. Conseguentemente la Corte di Strasburgo
ha assunto la decisione di condannare la Slovacchia in tre diverse occasioni per la pratica di
sterilizzazione forzata in donne appartenenti a un gruppo etnico vulnerabile (rom). Nelle pronun-
ce: C. EDU/ECtHR, V.C. c. Slovacchia, dell’8.11.2011, par. 106; C. EDU/ECtHR, I.G. e altri c.
Slovacchia, del 13.11.2012, par. 143-146; C. EDU/ECtHR, N.B. c. Slovacchia, del 12.06.2012,
par. 74-81, la Corte, dopo un’analisi approfondita sulle cause storiche del fenomeno e dell’iter
giudiziario domestico, ha affermato che la sterilizzazione riguarda una delle funzioni corporee es-
senziali dell’essere umano, e coinvolge molteplici aspetti dell’integrità personale dell’individuo,
compreso il suo benessere fisico e psicologico, la sua vita emotiva, spirituale e familiare. Simili
principi sono stati ripresi dalla Corte nei casi di negligenza medica, nel caso in cui il medico non
effettui i controlli necessari o non ottenga il consenso informato durante una procedura di aborto.
Così in sentenza, C. EDU/ECtHR, Csoma c. Romania, del 15.01.2013, par. 65-68.
Analogamente, la Corte interamericana ha avuto l’opportunità di pronunciarsi su un
caso i cui fatti davano conto di una sterilizzazione senza il consenso della donna: C. IDH, I.V.
c. Bolivia, del 30.11.2016, par. 174,183, 256. Nella pronuncia si riscontra un vero e proprio
dialogo tra Corti. Invero i giudici della Corte Interamericana nell’articolazione della senten-
za, hanno seguito su più punti le considerazioni della Corte europea, citando anche espressa-
mente diversi passaggi (par. 174, 178, 190, 240, 309).
D i r i t t o a l r i s p e t t o d e l l a v i ta p r i vata e f a m i l i a r e , d e l d o m i c i l i o e d e l l a c o r r i s p o n d e n z a 111
Un trattamento medico in via generale non può essere imposto a chi lo rifiuta, nemme-
no quando la sua mancanza o la sua cessazione determinerebbe o accelererebbe la morte; vi
è quindi una connessione con il tema del diritto alla vita e con l’autodeterminazione. Da ciò
deriva la rilevanza delle dichiarazioni anticipate di trattamento di fine vita, che tuttavia non
assicurano l’attualità della volontà espressa, nel caso in cui la persona sia divenuta incapace
di esprimerla. Diverso è il caso in cui la determinazione della persona di terminare la propria
esistenza richieda, per essere portata a compimento, l’intervento di terzi.
Anche il suicidio e l’assistenza al suicidio, secondo le pronunce della Corte europea,
coinvolgono le problematiche relative alla vita privata. Il rifiuto di ammettere il suicidio as-
sistito, da parte di uno Stato, rientra nel perimetro del margine di apprezzamento nazionale e
pertanto si può ritenere proporzionato, in relazione alla protezione generale del diritto alla vita.
Un caso significativo in materia è dato dalla sentenza C. EDU/ECtHR, Pretty c. Regno
Unito, del 29.04.2002. In essa una ricorrente, cittadina inglese, affetta da sclerosi laterale
amiotrofica (SLA), quasi del tutto paralizzata ma capace di intendere e di volere, chiedeva
di concedere l’impunità al marito nel momento in cui l’avesse aiutata a suicidarsi. La Corte
sottolinea che la legge britannica (Suicide Act del 1961), che qualifica come reato l’assisten-
za al suicidio, e sulla base della quale il Director of Public Prosecutions aveva rifiutato di
esonerare il marito dall’imputazione, è legittima, flessibile e proporzionata, per il fatto che
consente di calcolare e stabilire adeguatamente l’entità della sanzione (par. 68-78).
La Corte ha anche esaminato alcuni casi in cui l’ordinamento nazionale ammette il
suicidio assistito. Al riguardo ha sottolineato la legittimità delle procedure seguite, secondo
una logica restrittiva, come nel caso dell’ordinamento svizzero. Un cittadino svizzero, affet-
to da sindrome bipolare da oltre vent’anni, lamentava l’inerzia delle pubbliche autorità nel
precostituire le condizioni giuridiche affinché il suo suicidio fosse dignitoso. Nello specifico,
chiedeva che gli fosse somministrato (prescrizione medica) un farmaco (sodio pentobarbi-
tal) necessario a porre fine a una vita non più dignitosa. Aveva ricorso pertanto alla Corte
europea, ritenendo tale inerzia contrastante con l’art. 8 (par. 53-62). Il nodo del contendere
non era tanto connesso alla sussistenza di un divieto generale di suicidarsi o di assistenza al
suicidio, quanto all’eventuale esistenza di un obbligo positivo in capo allo Stato di porre il
paziente in condizioni di ottenere il sostegno necessario per praticare un suicidio dignitoso.
La Corte mediante sentenza C. EDU/ECtHR, Haas c. Svizzera, del 20.01.2011, ha ritenuto
che le condizioni richieste dalla legislazione svizzera per ottenere il sopranominato farmaco
letale, in particolare una perizia psichiatrica, non fossero sproporzionate. Il ricorso è stato
respinto all’unanimità ritenendo che la Svizzera non violi l’art. 8 della Convenzione.
La Corte si è espressa anche in materia di sospensione di idratazione e alimentazione
artificiale. Nel caso C. EDU/ECtHR, Lambert ed altri c. Francia del 5.06.2015, ha analizzato
la compatibilità con la Convenzione del provvedimento del Conseil d’État, che confermava
la decisione di interrompere la nutrizione e idratazione artificiale del sig. Lambert, in stato
vegetativo permanente a seguito di un grave incidente stradale. Il ricorso era stato presentato
dai genitori e da due dei fratelli (in contrapposizione della moglie e altri fratelli e sorelle)
che lamentavano, in particolare, la violazione degli artt. 2, 3 e 8 della Convenzione (par. 80).
Dopo aver negato che i ricorrenti potessero agire in nome di Vincent Lambert, la Corte rico-
nosceva agli stessi lo status di vittime indirette (par. 115), ma escludeva la sussistenza della
violazione lamentata. Per quanto riguarda i rimedi giurisdizionali a disposizione dei ricor-
renti, la Corte è giunta alla conclusione che i fatti sono stati oggetto di un esame meticoloso
e approfondito, in contraddittorio tra le parti alla luce di una dettagliata perizia medica così
come delle osservazioni generali dei più alti organismi medici ed etici. Inoltre, ha riconosciu-
to che la legislazione francese si fonda su un quadro giuridico sufficientemente chiaro per
112 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
disciplinare con precisione le decisioni prese dai medici ed ha concluso che lo Stato aveva
correttamente adempiuto agli obblighi positivi convenzionali.
Al riguardo, sembra doveroso il riferimento alla recente sentenza della Consulta italia-
na, C. cost., sent. n. 242/2019, pt. 1 cons. in dir., mediante la quale si è ritenuto non punibile, a
determinate condizioni, «chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente
e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e af-
fetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa
intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che
tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del
servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».
scuola statale, affidato ad un sacerdote. Il ricorrente aveva lasciato lo status sacerdotale, era
stato dispensato dal celibato, aveva contratto matrimonio civile e aveva avuto cinque figli, oltre
ad avere pubblicamente aderito al Movimento Pro-Celibato Opcional. Nel giudizio di pondera-
zione e bilanciamento tra il rispetto della vita privata e familiare e la tutela della libertà religiosa
della Chiesa cattolica, ex art. 9 della Convenzione, la Corte ha ritenuto che pur sussistendo una
ingerenza o limitazione del diritto al rispetto della vita privata del ricorrente, essa era prevista
dalla legge e perseguiva la tutela dei diritti e della libertà e autonomia delle organizzazioni
religiose. Ha anche verificato la sussistenza dei presupposti che legittimano una tale ingerenza
consistente nella: previsione di legge, necessarietà in una società democratica e proporzionalità.
La dichiarazione di fallimento comporta nella sfera giuridica dell’imprenditore alcune
modifiche non solo dal punto di vista patrimoniale ma anche personale. Prima della riforma,
diverse disposizioni della legge fallimentare italiana incidevano in modo significativo sui
diritti civili dell’imprenditore. A riguardo merita menzione il caso C. EDU/ECtHR, Albanese
c. Italia, del 23.03.2006, in cui la Corte ha rilevato la violazione dell’articolo 8, in relazione,
tra l’altro, alla diminuzione delle capacità giuridiche derivanti dall’iscrizione nel registro dei
fallimenti dell’imprenditore, tra cui, l’impossibilità di essere nominato tutore (art. 350 del
c.c. italiano), il divieto di essere nominato direttore o amministratore di una società commer-
ciale o cooperativa (artt. 2382, 2399, 2417 e 2516 del c.c. italiano), e divieto di svolgere la
professione di fiduciario (art. 393 del c.c. italiano). In particolare, la Corte ha osservato che
tali menomazioni, incidendo sulla possibilità dell’individuo di sviluppare relazioni, limitano
anche il diritto a sviluppare relazioni di tipo professionale e commerciale. Decisione analoga
si ritrova nella sentenza C. EDU/ECtHR, Vitiello c. Italia, del 23.03.2006, par. 47-48, 62 e C.
EDU/ECtHR, Campagnano c. Italia, del 23.03.2003.
Le criticità rilevate dalla Corte si riferiscono al fatto che le sanzioni comminate, di
natura morale, non sono state stabilite in base a decisione dei giudici, essendo di applicazio-
ne automatica. Le sanzioni cessano con la cancellazione dal registro dopo cinque anni dalla
chiusura del procedimento, a seguito di un giudizio sulla condotta del fallito, senza la previ-
sione della facoltà di chiedere la riabilitazione prima del decorso del tempo.
In proposito va anche ricordata la sentenza della Corte costituzionale italiana n.
39/2008, pt. 5 cons. in dir. che, richiamando diverse pronunce della Corte di Strasburgo, tra
cui quella relativa al caso Vitiello, dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 50 e 142
del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preven-
tivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo
in vigore precedentemente all’entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5
(Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali). Nello specifico la Corte ha
ritenuto le disposizioni della legge fallimentare lesive dei diritti della persona, perché inci-
denti sulla possibilità di sviluppare le relazioni col mondo esteriore, con un’ingerenza «non
necessaria in una società democratica».
pello che avevano fissato le condizioni per l’esercizio di tale diritto. Il ricorrente rimproverava
alle autorità nazionali di non avere reagito tempestivamente e adeguatamente, nei confronti
dei comportamenti ostili della madre, genitore collocatario, delle decisioni giudiziarie e delle
indicazioni dei servizi sociali. Tra l’altro la madre, esercitando un’influenza nefasta e pericolosa
sulla minore, come risultante da perizia, aveva fatto fallire tutti i progetti di riavvicinamento
e quindi generato la «alienazione genitoriale» del ricorrente (par. 35-36). La Corte ha stabilito
che, sebbene gli strumenti giuridici previsti dal diritto italiano siano sufficienti per permettere
allo Stato di garantire il rispetto degli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Conven-
zione, le autorità non avevano intrapreso alcuna azione nei confronti del genitore collocatario,
lasciando che si consolidasse la situazione generata, a causa dall’inosservanza delle decisioni
giudiziarie. Per questi motivi lo Stato italiano è stato condannato.
Per quanto riguarda i provvedimenti temporanei che abbiano causato ritardi nel processo
decisionale relativo all’affidamento ininterrotto di un minore, per oltre dieci anni, la Corte ha di-
chiarato la violazione dell’art. 8 nella causa C. EDU/ECtHR, R.V. e altri c. Italia, del 18.07.2019,
par. 105-108. La Corte considera che i «provvedimenti temporanei», adottati nei casi di «urgente
necessità», «protratti a tempo indeterminato, senza fissare un termine di durata dei provvedimenti
o di riesame giudiziario degli stessi, con ampie deleghe da parte dei Tribunali ai Servizi sociali, e
in definitiva senza che siano determinati i diritti genitoriali», configurano la violazione dell’art. 8.
La Grande Camera, mediante sentenza C. EDU/ECtHR, Strand Lobben e altri c. Nor-
vegia, del 10.09.2019 si è espressa in relazione a una complessa questione in materia di affido
e adozione, a seguito dell’allontanamento del figlio biologico dalla madre. Il caso s’inserisce
in una serie di controversie che vedono protagonista la Norvegia, e il suo sistema di «affida-
mento familiare» e di «adozione forzata» regolato dalla Legge sulla protezione dell’infanzia,
del 17 luglio 1992 (Barnevernloven). I ricorrenti, madre e figlio biologico lamentavano la vio-
lazione dell’art. 8 della Convenzione, in particolar modo per quanto concerne la pronuncia di
decadenza dalla responsabilità genitoriale, dichiarata a seguito dell’accertamento dell’assenza
della capacità genitoriale materna. Il minore era stato adottato, a seguito della decisione emessa
dall’ufficio di assistenza sociale. Le autorità, in merito all’affido, tenendo conto della situazione
di particolare vulnerabilità del minore, avevano ritenuto che non fosse opportuno inserire un
termine per la presa in carico poiché non in linea con l’interesse superiore del minore. La Corte
d’Appello aveva confermato la legittimità della lunga durata dell’affido. Nel 2011, l’ufficio di-
strettuale dell’assistenza sociale aveva autorizzato la famiglia affidataria ad adottare il minore,
in virtù del principio del best interest of the child, decretando così, la decadenza dalla respon-
sabilità genitoriale della madre. La donna, che nel frattempo aveva migliorato le sue condizioni
di vita, aveva proposto ricorso contro tale decisione senza esito positivo, in quanto i giudici di
seconde cure avevano rilevato che la madre biologica era «completamente priva dell’empatia
e della comprensione» che sarebbero state necessarie per il ritorno del minore nella famiglia
d’origine (par. 219). Secondo la Grande Camera il processo decisionale non è stato condotto
in modo tale da operare un giusto bilanciamento tra gli interessi del minore e quelli della sua
famiglia biologica e, pertanto, ha dichiarato la violazione dell’art. 8 della Convenzione (cfr. C.
EDU/ECtHR, E.C. c. Italia, del 30.06.2020, par. 43-45).
par 72) e di esserne i «genitori genetici» (C. EDU/ECtHR, Dickson c. Regno Unito, del
4.12.2007, par. 66). Di conseguenza, il diritto di una coppia di fare uso delle tecniche di pro-
creazione medicalmente assistita rientra nell’ambito dell’articolo 8, come espressione della
vita privata e familiare (C. EDU/ECtHR, S.H. e altri c. Austria, del 3.11.2011, par. 82).
Tuttavia, le disposizioni dell’articolo 8 prese isolatamente non tutelano il semplice de-
siderio di fondare una famiglia, né il diritto di adozione (C. EDU/ECtHR, E. B. c. Francia, del
22.06.2004, par. 41), ma ne presuppongono l’esistenza, o quanto meno la potenziale relazione
tra, ad esempio, un figlio nato fuori dal matrimonio e il padre naturale (Decisione, Nylund c.
Finlandia, del 29.06.1999). L’adozione legittima e autentica, può essere suscettibile di tutela
sotto l’alveo della vita familiare, anche in assenza di convivenza o di reali legami tra il bambino
adottato e i genitori adottivi (C. EDU/ECtHR, Pini e altri c. Romania, del 22.06.2004, par. 143-
148; e C. EDU/ECtHR, Topčić-Rosenberg c. Croazia, del 14.11.2013, par. 38).
Su queste questioni, sensibili dal punto di vista etico e morale, dove non vi è alcun
consenso all’interno degli Stati membri, sia per quanto riguarda l’importanza relativa dell’in-
teresse in gioco, sia per quanto riguarda i migliori mezzi per proteggerli, il margine di apprez-
zamento è più ampio (C. EDU/ECtHR, X, Y e Z c. Regno Unito, del 22.04.1997, par. 44, C.
EDU/ECtHR, Goodwin c. Regno Unito, del 11.07.2002, par. 85, C. EDU/ECtHR, Odièvre c.
Francia, del 13.02.2003, par 28-29).
Tale margine non deve, tuttavia, essere interpretato come la concessione di un potere
arbitrario allo Stato. Il quadro giuridico all’uopo concepito deve essere configurato in modo
coerente e tale da consentire di tenere adeguatamente conto dei diversi interessi in gioco, così
come della rapida evoluzione della scienza e della società (C. EDU/ECtHR, S.H. e altri c.
Austria, del 3.11.2011, par. 117). Le autorità rimangono soggette al controllo da parte della
Corte europea (C. EDU/ECtHR, Fretté c. Francia, del 26.02.2002, par. 41).
Rispetto alla scelta di ricorrere alla fecondazione medicalmente assistita, anche nella
forma eterologa, la Corte costituzionale italiana, con la sentenza Corte cost., n. 162/2014, ha
affermato che la «determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assoluta-
mente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana,
non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali». Richiamando
la sentenza C. EDU/ECtHR, S.H. e altri c. Austria, la stessa Corte costituzionale italiana ha
dichiarato l’illegittimità dell’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 19 febbraio 2004 (norme
in materia di procreazione medicalmente assistita), «nella parte in cui stabilisce il divieto del
ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata
diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili», e
la connessa illegittimità di altre norme della stessa legge.
Con riferimento alla legge 40/2004, la Corte europea, con la sentenza C. EDU/ECtHR,
Costa e Pavan c. Italia, del 28.08.2012, par. 52-71, ha riscontrato la violazione dell’art. 8,
per la previsione del divieto di diagnosi genetica preimpianto, in un caso di coppia fertile,
portatrice di malattia genetica ereditaria.
Successivamente, con riferimento agli artt. 3 e 32 Cost., la Corte costituzionale, con
le sentenze nn. 96/2015 e 229/2015, ha dichiarato incostituzionale il divieto (e la relativa
sanzione penale) di procedere alla PMA con diagnosi preimpianto nel caso di genitori fertili,
ma portatori, anche sani, di gravi patologie genetiche ereditarie. La Consulta ha dichiarato
una «palese antinomia normativa» della legislazione italiana che, da una parte autorizza l’in-
terruzione medica della gravidanza qualora il feto risulti malato e, dall’altra, vieta la diagnosi
pre-impianto al fine di impiantare embrioni sani.
Sulla base del criterio del maggior interesse del minore, nel caso di nascita a seguito
del ricorso a «madre surrogata» all’estero (in uno Stato in cui è ammessa tale procedura), la
D i r i t t o a l r i s p e t t o d e l l a v i ta p r i vata e f a m i l i a r e , d e l d o m i c i l i o e d e l l a c o r r i s p o n d e n z a 117
Corte europea ha ritenuto che sia diritto del nato il riconoscimento della filiazione nel paese
di cittadinanza della coppia (C. EDU/ECtHR, Mennesson c. Francia, cit., par. 96-101; C.
EDU/ECtHR, Foulon e Bouvet c. Francia, del 21.07.2016, par. 55-58).
Al riguardo si rileva il primo parere consultivo (introdotto dal Protocollo addizionale
n. 16) del 10.04.2019, in cui la Corte ha chiarito che: Nella situazione in cui un bambino è
nato all’estero attraverso un accordo di maternità surrogata gestazionale ed è stato concepito
usando i gameti del padre designato e un donatore di terze parti, e dove la relazione legale
genitore-figlio con il padre designato è stata riconosciuta nel diritto nazionale: 1. Il diritto del
bambino al rispetto della vita privata ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione richiede che
la legislazione nazionale preveda la possibilità di riconoscere una relazione genitore-figlio
con la madre designata, indicata nel certificato di nascita legalmente emesso all’estero come
«Madre legale»; 2. il diritto del bambino al rispetto della vita privata ai sensi dell’articolo
8 della Convenzione non richiede che tale riconoscimento assuma la forma necessaria di
iscrizione nel registro delle nascite, matrimoni e decessi dei dati del certificato di nascita
legalmente emesso all’estero. La scelta dei mezzi con cui ottenere il riconoscimento del rap-
porto giuridico tra il bambino e la madre designata rientra nel margine di discrezionalità dello
Stato. Tuttavia, una volta che il rapporto tra il bambino e la madre designata è diventato una
«realtà pratica», la procedura prevista per stabilire il riconoscimento del rapporto nel diritto
nazionale deve poter essere «attuata in modo tempestivo ed efficiente».
Di particolare interesse sono le sentenze della Corte costituzionale italiana che riguar-
dano diversi aspetti della procreazione medicalmente assistita e che vengono trattati approfon-
ditamente nel capitolo riguardante il «Biodiritto»: C. cost., sent. n. 237/2019 (sulla formazione
di atto di nascita in cui vengono riconosciuti come genitori di un minore nato all’estero, due
persone dello stesso sesso); C. cost., sent. n. 272/2017 (sull’impugnazione del riconoscimento
del figlio naturale concepito attraverso la surrogazione di maternità e il migliore interesse del
minore); C. cost., sent. n. 162/2014 (illegittimità del divieto di fecondazione eterologa).
Per quanto riguarda il progetto genitoriale, tramite surrogazione di maternità, nelle
sentenze C. EDU/ECtHR, Mennesson c. Francia, del 26.06.2014, par. 44-47; e C. EDU/
ECtHR, Labassee c. Francia, del 26.06.2014, par. 57, relative alla legittimità del rifiuto,
opposto dalle autorità francesi alla trascrizione nei registri di stato civile degli atti di nascita
di minori nati negli Stati Uniti, tramite gestazione per altri, la Corte ha escluso che il diniego
implichi un’ingerenza sproporzionata nella vita familiare dei genitori intenzionali, pur ravvi-
sando una violazione del diritto al rispetto della vita privata dei minori (par. 5). Al riguardo, la
Corte ha evidenziato come l’assenza di consensus tra gli Stati contraenti, quanto alla legalità
della surrogazione di maternità, giustifichi un ampio margine di apprezzamento degli Stati sia
in relazione all’autorizzazione di detta pratica, sia in relazione al riconoscimento dei rapporti
di filiazione costituiti all’estero.
Nella sentenza della Grande Camera, C. EDU/ECtHR, Paradiso e Campanelli c. Ita-
lia, del 24.01.2017, concernente un minore nato da una madre surrogata in Russia e condotto
in Italia dai genitori intenzionali, con i quali non aveva alcun legame biologico, la Corte ha
affermato che in considerazione dell’assenza di legami biologici tra il minore e gli aspiranti
genitori (intenzionali), tenuto conto della breve durata della relazione con il minore (di soli
sei mesi) e l’incertezza dei legami dal punto di vista giuridico, si doveva ritenere l’inesisten-
za dell’istaurazione di una vita familiare, nonostante il loro progetto genitoriale. La Corte
ha concluso che, nel caso di specie, non sussistono i presupposti della vita familiare (par.
156-165). Ha comunque ritenuto che le misure impugnate riguardassero la vita privata dei
ricorrenti, perché «la Convenzione non sancisce alcun diritto di diventare genitore» e «l’in-
teresse generale in gioco ha un grande peso sul piatto della bilancia mentre, in confronto, si
118 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
deve accordare una importanza minore all’interesse dei ricorrenti ad assicurare il proprio
sviluppo personale proseguendo la loro relazione con il minore». «Accettare di lasciare il
minore con i ricorrenti, forse nella prospettiva che questi diventassero i suoi genitori adottivi,
avrebbe equivalso a legalizzare la situazione da essi creata in violazione di norme importanti
del diritto italiano» (par. 215).
La Corte ritiene che il legislatore italiano, intenzionalmente o per mancanza della necessaria
determinazione, abbia lasciato gli interessati, nonostante le diverse sollecitazioni da parte degli
organi giurisdizionali di vertice, incluso la Corte costituzionale (Corte cost. n. 138/2010), in una
situazione di assoluta incertezza giuridica. Ha poi concluso stabilendo che il Governo italiano
ha ecceduto il suo margine di discrezionalità e non ha ottemperato all’obbligo positivo di garan-
tire un’apposita legislazione che preveda il riconoscimento e la tutela delle unioni omosessuali,
conseguentemente dichiarando la violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
A seguito della riferita sentenza l’Italia ha introdotto l’istituto delle unioni civili tra
persone dello stesso sesso mediante la legge 20 maggio 2016, n. 76.
La Corte ha dichiarato che il rifiuto da parte delle autorità di fornire assistenza abita-
tiva a un individuo affetto da una grave malattia, può costituire il presupposto per sollevare
una controversia alla luce dell’articolo 8, a causa dell’impatto procurato sulla vita privata.
Decisione, O’Rourke c. Regno Unito, del 26.06.2001.
I problemi che incontrano le persone con qualche forma di disabilità sono affrontati in
generale nel quadro dell’art. 8 della Convenzione europea, in ragione dell’esistenza di situazio-
ni che possono impedire il pieno esplicarsi della vita privata e familiare. Nelle pronunce relative
a questa fattispecie, un principio assodato è l’esistenza di obblighi positivi di adottare le misure
di cui la persona con disabilità ha bisogno, sul presupposto che il ricorrente dimostri che le mi-
sure hanno uno specifico e diretto nesso con il pieno esplicarsi della vita privata della persona
con disabilità, Decisione, Zehnalová e Zehnal c. Repubblica Ceca, del 14.05.2002.
Analoghe valutazioni di fondo si riscontrano nella giurisprudenza, relativa a provve-
dimenti di allontanamento di minori dall’abitazione delle rispettive famiglie, per inadegua-
tezza delle condizioni abitative (come la mancanza di energia elettrica o la circostanza di
uno sfratto imminente) senza che sia stato sollevato alcun rimprovero ai genitori riguardo a
carenze educative, affettive, o esposizione a rischi di violenza o abuso. Cfr. C. EDU/ECtHR,
Wallová e Walla c. Repubblica Ceca, del 26.10.2006, par. 71-73 e C. EDU/ECtHR, Havelka
e altri c. Repubblica Ceca, del 21.06.2007, par. 34-35. In tali casi la Corte ha stabilito una
violazione dell’art. 8, giudicando palesemente sproporzionati i provvedimenti di «separazio-
ne totale dalla famiglia».
In riferimento al sistema africano, esemplare è la recente sentenza ACtHPR, sent. del
26.05.2017, Lohé Issa Konaté c. Burkina Faso, par. 167-171 della Corte africana, in cui si
condanna il Kenya per violazione del diritto «alla terra» degli indigeni africani della tribù
Ogiek, da secoli residenti nella foresta di Mau, nella Rift Valley. Secondo i giudici, le autorità
del Kenya non avrebbero dovuto «espellere tale popolazione dalla propria terra natia contro
la loro volontà, senza prima avviare consultazioni e senza rispettare tutte le condizioni» che
un simile atto avrebbe comportato.
Di grande rilevanza e degna di nota è la recente sentenza D. IDH, Comunidades
indigenas miembros della Asociación Lhaka Honhat (Nuestra Tierrra) c. Argentina, del
6.02.2020, nella quale la Corte interamericana stabilisce un nuovo indirizzo giurisprudenzia-
le pronunciandosi sul diritto all’abitazione e alla proprietà comunitaria delle terre ancestrali
in America Latina, nonché sul riconoscimento della violazione del diritto a un ambiente sano,
all’acqua, all’identità culturale e ad un’alimentazione adeguata.
14. La corrispondenza
La violazione dell’art. 8 della Convenzione è stata riscontrata dai giudici di Strasbur-
go con la sentenza C. EDU/ECtHR, Dragos Ioan Rusu c. Romania, del 31.10.2017, par.
36-44, per un caso in cui il ricorrente era stato condannato per traffico di stupefacenti, in
base ad una corrispondenza illegittimamente acquisita. Nello specifico, la Corte europea ha
rilevato che le autorità nazionali, nel procedere al sequestro, avevano seguito una procedura
d’urgenza non applicabile al caso di specie. Per questo l’ingerenza subita dal ricorrente è
stata considerata non conforme alla legge e lesiva del diritto alla tutela della corrispondenza,
della vita privata e familiare.
Il contenuto e la forma della corrispondenza è irrilevante per configurare le possibili
interferenze, C. EDU/ECtHR, A. c. Francia, del 23.11.1993, par. 35-37. Ad esempio, l’a-
pertura e la lettura di un foglio di carta piegato a metà, sul quale un avvocato aveva scritto
un messaggio, consegnato brevi manu al cliente, rientra nella nozione di «corrispondenza».
D i r i t t o a l r i s p e t t o d e l l a v i ta p r i vata e f a m i l i a r e , d e l d o m i c i l i o e d e l l a c o r r i s p o n d e n z a 123
Giurisprudenza rilevante
Sezione 1
1. Cenni introduttivi.
C. EDU/ECtHR, Lazoriva c. Ucraina, del 17.04.2018
C. EDU/ECtHR, M.S. c. Ucraina, dell’11.07.2017
C. EDU/ECtHR, Bogomolova c. Russia, del 20.06.2017
C. EDU/ECtHR, Paradiso e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017
C. EDU/ECtHR, Schatschaschwili c. Germania, del 15.12.2015
C. EDU/ECtHR, Tanda-Muzinga c. Francia, del 10.07.2014
C. EDU/ECtHR, Fernández Martínez c. Spagna, del 12.06.2014
C. EDU/ECtHR, M.C. c. Bulgaria, del 4.12.2003
C. EDU/ECtHR, Maire c. Portogallo, del 26.06.2003
C. EDU/ECtHR, Iglesias Gil e A. U. I. I. c. Spagna, del 29.04.2003
C. EDU/ECtHR, Christine Goodwin c. Regno Unito, 11.07.2002
C. EDU/ECtHR, Pretty c. Regno Unito, del 29.04.2002
C. EDU/ECtHR, Fretté c. Francia, del 26.02.2002
C. EDU/ECtHR, K.e T. c. Finlandia, del 12.07.2001
C. EDU/ECtHR, Ignaccolo-Zenide c. Romania, del 25.01.2000
C. EDU/ECtHR, Halford c. Regno Unito, del 25.06.1997
C. EDU/ECtHR, X, Y e Z c. Regno Unito, del 22.04.1997
C. EDU/ECtHR, Buckley c. Regno Unito, del 29.09.1996
C. EDU/ECtHR, McMichael c. Regno Unito, del 24.02.1995
C. EDU/ECtHR, X e Y c. Paesi Bassi, del 26.03.1985
C. EDU/ECtHR, Silver e altri c. Regno Unito, del 25.03.1983
Sezione 2
2. La vita privata
C. EDU/ECtHR, Paradiso e Campanelli c. Italia, del 24.01.2017
C. EDU/ECtHR, Schüth c. Germania, del 23.09.2010
C. EDU/ECtHR, Dadouch c. Malta, del 20.07.2010
C. EDU/ECtHR, Slivenko c. Lettonia, del 9.10.2003
C. EDU/ECtHR, Pretty c. Regno Unito, del 29.04.2002
C. EDU/ECtHR, Niemietz c. Germania, del 16.12.1992
C. IDH, Rosendo Cantú y otra c. México, del 31.08.2010
C. IDH, Fernández Ortega y otros c. México, del 30.08.2010
C. IDH, Tristán Donoso c. Panamá, del 27.01.2009
C. IDH, Escué Zapata c. Colombia, del 4.07.2007
D i r i t t o a l r i s p e t t o d e l l a v i ta p r i vata e f a m i l i a r e , d e l d o m i c i l i o e d e l l a c o r r i s p o n d e n z a 125
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, Amann c. Svizzera del 16.02.2000
C. EDU/ECtHR, Kopp c. Svizzera, del 25.03.1998
Sezione 3
3. L’identità personale e l’identità di genere
C. EDU/ECtHR, S.V. c. Italia, dell’11.10.2018
C. EDU/ECtHR, A.P. Garçon e Nicot c. Francia, del 6.04.2017
C. EDU/ECtHR, Y. Y. c. Turchia, del 10.03.2015
C. EDU/ECtHR, Godelli c. Italia, del 25.09.2012
C. EDU/ECtHR, L. c. Lituania, dell’11.09.2007
C. EDU/ECtHR, Grant c. Regno Unito, del 23.05.2006
C. EDU/ECtHR, Odièvre c. Francia, del 13.02.2003
C. EDU/ECtHR, Christine Goodwin c. Regno Unito, 11.07.2002
C. EDU/ECtHR, Mikulić c. Croazia, del 7.02.2002
C. EDU/ECtHR, Sheffield e Horsham c. Regno Unito, del 30.07.1998
C. EDU/ECtHR, Cossey c. Regno Unito, del 27.09.1990
C. EDU/ECtHR Rees c. Regno Unito, del 17.10.1986
Tribunal Constitucional peruviano, sent. 06040-2015-PA/TC, del 21.10.2016
Corte Constitucional colombiana sent. T-099/15, del 10.03.2015
Tribunal Constitucional spagnolo, sent. 198/2012, del 28.11.2012
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, B. c. Svizzera, del 20.10.2020
C. EDU/ECtHR, J.D. e c. Regno Unito, del 24.2.2020
C. EDU/ECtHR, Zhdanov e altri c. Russia, del 16.7.2019
C. EDU/ECtHR, Ēcis c. Lettonia, del 10.1.2019
C. EDU/ECtHR, S. V. c. Italia, del 11.10.2018
C. EDU/ECtHR, A. P. Garçon e Nicot c. Francia, del 6.04.2017
C. EDU/ECtHR, Emel Boyraz c. Turchia, del 2.12.2014
C. EDU/ECtHR, Konstantin Markin c. Russia, del 22.3.2012
C. EDU/ECtHR, Andrle c. Repubblica ceca, del 17.2.2011
C. EDU/ECtHR, Schlumpf c. Svizzera, dell’8.01.2009
C. EDU/ECtHR, Parry c. Regno Unito, del 28.11.2006
C. EDU/ECtHR, R. e F. c. Regno Unito, del 28.11.2006
C. EDU/ECtHR, K.A. e A.D. c. Belgio, del 17.02.2005
C. EDU/ECtHR, Ünal Tekeli c. Turchia, del 16.11.2004
C. EDU/ECtHR, Van Kück c. Germania, del 12.06.2003
C. EDU/ECtHR, B. c. Francia, del 25.03.1992
C. Giust. CE/ECJ, K. B. c. National Health Service Pensions Agency e Secretary of State for Health, C-117/01, del 7.01.2004
C. Giust. UE/ECJ, Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI, C-507/18, del 23.04.2020
C. cost., sent. n. 170/2014, dell’11.06.2014
C. cost., sent. n. 221/2015, del 21.10.2015
C. cost., nn. 237/1986; 404/1988; 559/1989; 8/1996; 140/2009; 138/2010; 213/2016; 170/2014
C. cost., sent. n. 161/1985, del 6.05.1985
Sezione 4
4. Il diritto al nome
C. EDU/ECtHR, Aktaş e Aslaniskender c. Turchia, del 26.06.2019
C. cost., sent. n. 286/2016, dell’8.11.2016
C. EDU/ECtHR, Cusan e Fazzo c. Italia, del 7.01.2014
C. EDU/ECtHR, Genovese c. Malta, dell’11.10.2011
C. EDU/ECtHR, Ciubotaru c. Moldavia, del 27.04.2010
C. EDU/ECtHR, Güzel Erdagöz c. Turchia, del 21.10.2008
C. EDU/ECtHR, Daróczy c. Ungheria, dell’1.07.2008
C. EDU/ECtHR, Johansson c. Finlandia, del 6.09.2007
C. EDU/ECtHR, Unal Tekeli c. Turchia, del 16.11.2004
C. EDU/ECtHR, Burghartz c. Svizzera, del 22.02.1994
Ulteriori riferimenti
Decisione, Macalin Moxamed Sed Dahir c. Svizzera, del 15.09.2015
Decisione, Mentzen alias Mencena c. Lettonia, del 7.12.2004
C. EDU/ECtHR, Leventoğlu Abdulkadiroğlu c. Turchia, del 28.05.2013
126 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
Sezione 5
5. L’integrità morale
C. EDU/ECtHR, Vicent del Campo c. Spagna, del 6.11.2018
C. EDU/ECtHR, Denisov c. Ucraina, del 25.09.2018
C. EDU/ECtHR, Petrie c. Italia, del 18.05.2017
C. EDU/ECtHR, Bédat c. Svizzera, del 29.03.2016
C. EDU/ECtHR, Delfi AS c. Estonia, del 16.06.2015
C. EDU/ECtHR, Gilliberg c. Svezia, del 3.04.2012
C. EDU/ECtHR, Axel Springer AG c. Germania, del 7.02.2012
C. EDU/ECtHR, Polanco Torres e Movilla Polanco c. Spagna, del 21.09.2010
C. EDU/ECtHR, Karakó c. Ungheria, del 28.04.2009
C. EDU/ECtHR, A. c. Norvegia, del 9.04.2009
C. EDU/ECtHR, Pfeifer c. Austria, del 15.11.2007
C. EDU/ECtHR, Sánchez Cárdenas c. Norvegia, del 4.10.2007
C. EDU/ECtHR, Schüssel c. Austria, del 21.02.2002
C. EDU/ECtHR, X e Y c. Paesi Bassi, del 26.03.1985
C. EDU/ECtHR, Medžlis Islamske Zajednice Brčko ed altri c. Bosnia ed Erzegovina, del 27.06.2017
Decisione, Travaglio c. Italia, del 24.01.2017
Corte IDH, Fontevecchia e D’Amico Vs. Argentina, del 29.11.2011
ACtHPR, sent. del 5.12.2014, Lohé Issa Konaté c. Burkina Faso
Ulteriori riferimenti
C. Giust. UE/ECJ, College van burgemeester en wethouders van Rotterdam c. M. E. E. Rijkeboer, C-553/07, del
7.05.2009
Sezione 6
6. L’integrità fisica e l’integrità psicologica
C. EDU/ECtHR, Barletta e Farnetano c. Italia, del 26.03.2020
C. EDU/ECtHR, Mehmet Ulusoy e altri c. Turchia, del 25.06.2019
C. EDU/ECtHR, Eryiğit c. Turchia, del 10.04.2018
C. EDU/ECtHR, İbrahim Keskin c. Turchia, del 27.03.2018
C. EDU/ECtHR, Radomilja e altri c. Croazia, del 20.03.2018
C. EDU/ECtHR, Jurica c. Croazia, del 2.05.2017
C. EDU/ECtHR, Vasileva c. Bulgaria, del 17.03.2016
C. EDU/ECtHR, McDonald c. Regno Unito, 20.05.2014
C. EDU/ECtHR, Kudra c. Croazia, del 18.12.2012
C. EDU/ECtHR, Hristozov c. Bulgaria, del 13.11.2012
C. EDU/ECtHR, Spyra e Kranczkowski c. Polonia, del 25.09.2012
C. EDU/ECtHR, Yardımcı c. Turchia, del 5.01.2010
C. EDU/ECtHR, Scoppola c. Italia n. 2, del 17.09.2009
C. EDU/ECtHR, Codarcea c. Romania, del 2.06.2009
C. EDU/ECtHR, Dickson c. Regno Unito, del 4.12.2007
C. EDU/ECtHR, Benderskiy c. Ukraine, del 15.11.2007
C. EDU/ECtHR, Evans c. Regno Unito, del 10.04.2007
C. EDU/ECtHR, Roche c. Regno Unito, del 19.10.2005
C. EDU/ECtHR, Guerra e altri c. Italia, del 19.02.1998
C. EDU/ECtHR, Powell e Rayner c. Regno Unito, del 21.02.1990
C. EDU/ECtHR, Jehovah’s Witnesses of Moscow c. Russia, del 10.06.2010
C. EDU/ECtHR, Lambert ed altri c. Francia del 5.06.2015
C. EDU/ECtHR, Csoma c. Romania, del 15.01.2013
C. EDU/ECtHR, I.G. e altri c. Slovacchia, del 13.11.2012
C. EDU/ECtHR, N.B. c. Slovacchia, del 12.06.2012
C. EDU/ECtHR, V.C. c. Slovacchia, dell’8.11.2011
C. EDU/ECtHR, Haas c. Svizzera, del 20.01.2011
C. EDU/ECtHR, M. A.K. e R.K. c. Regno Unito, del 23.03.2010
C. EDU/ECtHR, Y. F. c. Turchia, del 22.07.2003
C. EDU/ECtHR, Pretty c. Regno Unito, del 29.04.2002
Decisione, Gard c. Regno Unito, del 27.06.2017
Decisione, Pentiacova e altri c. Moldova, del 4.01.2005
Decisione, Sentges c. Paesi Bassi, dell’8.07.2003
D i r i t t o a l r i s p e t t o d e l l a v i ta p r i vata e f a m i l i a r e , d e l d o m i c i l i o e d e l l a c o r r i s p o n d e n z a 127
Sezione 7
7. La vita professionale e lavorativa
C. EDU/ECtHR, Antović e Mirković c. Montenegro, del 28.11.2017
C. EDU/ECtHR, Bărbulescu c. Romania, del 5.09.2017
C. EDU/ECtHR, Fernández Martínez c. Spagna, del 12.06.2014
C. EDU/ECtHR, Fernández Martínez c. Spagna, del 12.06.2014
C. EDU/ECtHR, Oleksandr Volkov c. Ucraina, del 9.01.2013
C. EDU/ECtHR, Bigaeva c. Grecia, del 28.05.2009
C. EDU/ECtHR, Copland c. United Kingdom, del 3.04.2007
C. EDU/ECtHR, Albanese c. Italia, del 23.03.2006
C. EDU/ECtHR, Vitiello c. Italia, del 23.03.2006
C. EDU/ECtHR, Campagnano c. Italia, del 23.03.2003
C. EDU/ECtHR, Niemietz c. Germania, del 16.12.1992
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, López Ribalda e altri c. Spagna, del 17.10.2019
Sezione 8
8. Il rispetto della vita familiare.
C. EDU/ECtHR, E.C. c. Italia, del 30.06.2020
C. EDU/ECtHR, Spano c. Italia, del 24.03.2020
C. EDU/ECtHR, Luzi c. Italia, del 5.12.2019
C. EDU/ECtHR, Strand Lobben e altri c. Norvegia, del 10.09.2019
C. EDU/ECtHR, R.V. e altri c. Italia, del 18.07.2019
C. EDU/ECtHR, Taddeucci e McCall c. Italia, del 30.06.2016
C. EDU/ECtHR, Pajic c. Croazia, del 23.02.2016
C. EDU/ECtHR, Manuello e Nevi c. Italia, del 20.01.2015
C. EDU/ECtHR, Mennesson c. Francia, del 26.06.2014
C. EDU/ECtHR, Schalk e Kopf c. Austria, 24.06.2010
C. EDU/ECtHR, Zavřel c. Repubblica Ceca, del 18.01.2007
C. EDU/ECtHR, Haas c. Paesi Bassi, del 13.01.2004
C. EDU/ECtHR, Karner c. Austria, del 24.07.2003
C. EDU/ECtHR, Sylvester c. Austria, del 24.04.2003
C. EDU/ECtHR, Ignaccolo-Zenide c. Romania, del 25.01.2000
C. EDU/ECtHR, X, Y e Z c. Regno Unito, del 22.04.1997
C. EDU/ECtHR, Keegan c. Irlanda, del 26.05.1994
C. EDU/ECtHR, Berrehab c. Paesi Bassi, del 21.06.1988
C. EDU/ECtHR, Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, del 28.05.1985
C. EDU/ECtHR, Marckx c. Belgio, del 13.06.1979
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, Anayo c. Germania, del 21.12.2010
C. EDU/ECtHR, Kozak c. Polonia, del 2.03.2010
128 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
Sezione 9
9. Il diritto alla genitorialità, la filiazione e la procreazione medicalmente assistita
C. EDU/ECtHR, Paradiso e Campanelli c, Italia, del 24.01.2017
C. EDU/ECtHR, Foulon e Bouvet c. Francia, del 21.07.2016
C. EDU/ECtHR, Mennesson c. Francia, 26.06.2014
C. EDU/ECtHR, Labassee c. Francia, del 26.06. 2014
C. EDU/ECtHR, Topčić-Rosenberg c. Croazia, del 14.11.2013
C. EDU/ECtHR, Costa e Pavan c. Italia, del 28.08.2012
C. EDU/ECtHR, S.H. e altri c. Austria, del 3.11.2011
C. EDU/ECtHR, Dickson c. Regno Unito, del 4.12.2007
C. EDU/ECtHR, Evans c. Regno Unito, del 10.04.2007
C. EDU/ECtHR, E. B. c. Francia, del 22.06.2004
C. EDU/ECtHR, Pini e altri c. Romania, del 22.06.2004
C. EDU/ECtHR, Odièvre c. Francia, del 13.02.2003
C. EDU/ECtHR, Goodwin c. Regno Unito, del 11.07.2002
C. EDU/ECtHR, Fretté c. Francia, del 26.02.2002
C. EDU/ECtHR, X, Y e Z c. Regno Unito, del 22.04.1997
Decisione, Nylund c. Finlandia, del 29.06.1999
C. cost., sent. n. 237/2019
C. cost., sent. n. 272/2017
C. cost., sent. n. 162/2014
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, Trizio c. Svizzera, del 2.02.2016
C. EDU/ECtHR, Sezione II, Paradiso e Campanelli c. Italia, del 27.01.2015
C. EDU/ECtHR, P. e S. c. Polonia, del 30.10.2012
C. EDU/ECtHR, Gas e Dubois c. Francia, del 15.03.2012
C. EDU/ECtHR, Moretti e Benedetti c. Italia, del 27.04.2010
C. EDU/ECtHR, Wagner e J.M.W.L. c. Lussemburgo, del 28.06.2007
C. EDU/ECtHR, Vo c. Francia, dell’8.07.2004
C. Giust. UE/ECJ, Society for the Protection of Unborn Children Ireland / Grogan e a., C-159/90, del 4.10.1991
C. cost., sent. n. 96/2015
C. cost., sent. n. 84/2016
C. cost., sent. n. 272/2017
C. cost., sent. n. 229/2015
C. cost., sent. n. 162/2014
C. cost., sent. n. 151/2009
Conseil d’État, ord. n. 437328, del 24.01.2020
Sezione 10
10. Il matrimonio e le unioni dello stesso sesso
C. IDH, Opinión Consultiva OC-24/17, del 24.11.2017
C. EDU/ECtHR, Oliari e altri c. Italia, del 21.07.2015
C. EDU/ECtHR, Schalk e Kopf c. Austria, del 24.06.2010
Corte cost., n. 138/2010, del 15.04.2010
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, B. c. Svizzera, del 20.10.2020
C. EDU/ECtHR, J.D. e c. Regno Unito, del 24.2.2020
C. EDU/ECtHR, Zhdanov e altri c. Russia, del 16.7.2019
C. EDU/ECtHR, Ēcis c. Lettonia, del 10.1.2019
C. EDU/ECtHR, Emel Boyraz c. Turchia, del 2.12.2014
C. EDU/ECtHR, Konstantin Markin c. Russia, del 22.3.2012
C. EDU/ECtHR, Andrle c. Repubblica ceca, del 17.2.2011
C. EDU/ECtHR, Ünal Tekeli c. Turchia, del 16.11.2004
Sezione 11
11. La protezione del domicilio
C. EDU/ECtHR, Halabi c. Francia, del 16.05.2019
C. EDU/ECtHR, Sagan c. Ucraina, del 23.10.2018
D i r i t t o a l r i s p e t t o d e l l a v i ta p r i vata e f a m i l i a r e , d e l d o m i c i l i o e d e l l a c o r r i s p o n d e n z a 129
C. EDU/ECtHR, Federazione Nazionale delle Associazioni e dei Sindacati Sportivi (FNASS) e altri c. Francia, del
18.01.2018
C. EDU/ECtHR, Yevgeniy Zakharov c. Russia, del 14.03.2017
C. EDU/ECtHR, Vrzić c. Croazia, del 12.07.2016
C. EDU/ECtHR, Chiragov e altri contro Armenia, del 16.06.2015
C. EDU/ECtHR, Sargsyan c. Azerbaijan, del 16.06.2015
C. EDU/ECtHR, Winterstein e altri c. Francia, del 17.10.2013
C. EDU/ECtHR, Brežec c. Croazia, del 18.07.2013
C. EDU/ECtHR, Saint-Paul Luxembourg S.A. c. Lussemburgo, del 18.04.2013
C. EDU/ECtHR, Bjedov c. Croazia, del 29.05.2012
C. EDU/ECtHR, Yordanova e altri c. Bulgaria, del 24.04.2012
C. EDU/ECtHR, Orlić c. Croazia, del 21.06.2011
C. EDU/ECtHR, Kay e altri c. Regno Unito, del 21.09.2010
C. EDU/ECtHR, Paulić c. Croazia, del 22.10.2009
C. EDU/ECtHR, McCann c. Regno Unito, 13.05.2008
C. EDU/ECtHR, Buck c. Germania, del 25.04.2005
C. EDU/ECtHR, Prokopovich c. Russia, del 18.11.2004
C. EDU/ECtHR, Demades c. Turchia, del 13.07.2003
C. EDU/ECtHR, Chapman c. Regno Unito, del 18.01.2001
C. EDU/ECtHR, Menteş e altri c. la Turchia, del 28.11.1997
C. EDU/ECtHR, Niemietz c. Germania, del 16.12.1992
C. EDU/ECtHR, Société Colas Est e altri c. Francia, del 16.04.2002
Decisione, F. J. M. c. Regno Unito, del 6.11.2018
Decisione, Demopoulos e altri c. Turchia, del 1.03.2010
Decisione, McKay-Kopecka c. Polonia, del 19.09.2006
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, Demopoulos e altri c. Turchia, decisione, del 1.03.2010
C. EDU/ECtHR, Stes Colas Est e altri c. Francia, del 16.12.2002
Sezione 12
12. Il domicilio e l’ambiente.
C. EDU/ECtHR, Cordella e altri c. Italia, del 24.01.2019
C. EDU/ECtHR, Dubetska e altri c. Ucraina, del 10.02.2011
C. EDU/ECtHR, Grimkovskaya c. Ucraina, del 21.07.2011
C. EDU/ECtHR, Fadeïeva c. Russia, del 9.06.2005
C. EDU/ECtHR, Guerra e altri c. Italia, del 19.02.1998
C. EDU/ECtHR, Lόpez Ostra c. Spagna, del 9.12.1994
Sezione 13
13. Il diritto all’abitazione
C. EDU/ECtHR, Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria, del 21.04.2016
C. EDU/ECtHR, Yordanova e altri c. Bulgaria, del 24.04.2012
C. EDU/ECtHR, Havelka e altri c. Repubblica Ceca, del 21.06.2007
C. EDU/ECtHR, Wallová e Walla c. Repubblica Ceca, del 26.10.2006
C. EDU/ECtHR, Connors c. Regno Unito, del 27.05.2004
C. EDU/ECtHR, Chapman c. Regno Unito, del 18.01.2001
Decisione, Codona c. Regno Unito, del 7.02.2006
Decisione, Zehnalová e Zehnal c. Repubblica Ceca, del 14.05.2002
Decisione, O’Rourke c. Regno Unito, del 26.06.2001
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, Hutten-Czpska c. Polonia, del 19.06.2006
Sezione 14
14. La corrispondenza
C. EDU/ECtHR, Laurent c. Francia, del 24.05.2018
C. EDU/ECtHR, Dragos Ioan Rusu c. Romania, del 31.10.2017
C. EDU/ECtHR, Copland c. Regno Unito, del 3.04.2007
C. EDU/ECtHR, Narinen c. Finlandia, dell’1.06.2004
130 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
Sezione 15
15. Le perquisizioni domiciliari
C. EDU/ECtHR, Brazzi c. Italia, del 27.09.2018
C. EDU/ECtHR, Andrey Smirnov c. Russia, del 13.02.2018
C. EDU/ECtHR, Hadzhieva c. Bulgaria, dell’1.02.2018
C. EDU/ECtHR, Lebois c. Bulgaria, del 19.10.2017
C. EDU/ECtHR, Modestou c. Grecia, del 16.03.2017
C. EDU/ECtHR, Buck c. Germania, del 25.04.2005,
C. EDU/ECtHR, Ernst e altri c. Belgio, del 15.07.2003
Tribunal Constitucional, sent. n. 107/1988, del 8.06.1988 [titolarità del diritto all’onore]
Sommario: 1. Premessa. – 2. La vita privata e i dati personali. – 3. Il trattamento dei dati per-
sonali e il diritto di accesso. – 4. Le limitazioni al diritto alla protezione dei dati personali e l’autorità
indipendente. – 5. Le immagini. – 6. Le intercettazioni. – 7. La sorveglianza. – 8. I dati finanziari. – 9.
I dati sanitari. – 10 Il diritto all’oblio. – 11. La conservazione e il trasferimento transfrontaliero dei dati
verso Paesi terzi. – 12. La neutralità e il diritto di accesso a Internet.
1. Premessa
La nascita e il percorso evolutivo del diritto alla protezione dei dati personali ha come
caratteristica principale quella di procedere per fasi, in base all’evoluzione sequenziale della
realtà, mutevole in conseguenza dell’avanzamento tecnologico.
L’analisi e l’inquadramento di tale diritto non può che partire dalla figura della privacy
americana, elaborata negli Stati Uniti d’America, a partire dalla fine dell’Ottocento, quando
si sono sviluppate le prime discussioni teoriche da parte di due giuristi americani, Samuel D.
Warren e il giudice Louis D. Brandeis, con il loro celebre saggio «The Right to Privacy». Gli
autori avevano qualificato la privacy come un diritto soggettivo, il diritto a preservare la sfera
privata dall’invadenza dei terzi, anche in relazione al mantenimento delle informazioni nella
sfera privata senza che circolassero all’esterno. Queste teorie trovano riconoscimento alcuni
anni dopo, in due famose sentenze: Olmstead v. United States, 277 U.S. 438 (1928), e Katz v.
United States, 389 U.S. 347 (1967). La dissenting opinion della prima sentenza, redatta dallo
stesso giudice Brandeis, costituisce la pietra miliare della privacy, prevedendo l’esistenza di
un diritto autonomo alla privacy e il valore che esso possiede per il suo titolare; con la secon-
da è stato coniato il concetto di «ragionevole aspettativa di privacy» (reasonable expectation
of privacy), da cui deriva il c.d. «test di Katz» statunitense.
È la figura della privacy elaborata negli Stati Uniti ad avere fornito il presupposto giu-
ridico per la sua elaborazione nel diritto internazionale e per l’applicazione giurisprudenziale
da parte delle corti internazionali ed europee.
La tutela della vita privata dall’ingerenza altrui, in particolare dall’ingerenza dello
Stato, è stata sancita per la prima volta in sede internazionale, nell’ambito dell’articolo 12
della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948, relativo al
rispetto della «vita privata e familiare». Benché la sua formulazione sia stata considerata da
più parti come generica e indeterminata, chiara è stata la volontà di attribuirle il carattere di
diritto fondamentale.
La dichiarazione, pur non avendo carattere vincolante, gode di uno status conside-
revole quale strumento fondamentale del diritto internazionale dei diritti umani ed ha in-
fluenzato lo sviluppo di altri strumenti convenzionali relativi ai diritti umani in Europa. Il
riconoscimento dello stesso diritto con valore precettivo è avvenuto con l’art. 17 del Patto
internazionale sui diritti civili e politici del 1966, entrato in vigore nel 1976.
All’infuori delle Nazioni Unite, nell’ambito dell’Unione Europea, i diritti fondamen-
tali, e tra essi il diritto alla riservatezza, trovano altri livelli di tutela.
134 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
Nell’ambito europeo il Consiglio d’Europa, che prevede alla base del proprio sistema
il catalogo dei diritti contenuti nella Convenzione Europea per la Tutela dei Diritti dell’Uo-
mo e delle Libertà fondamentali (CEDU) del 1950, il diritto fondamentale al rispetto della
vita privata è sancito dall’art. 8. La prima attuazione di tale articolo, come strumento di
protezione del trattamento delle informazioni personali, avviene con la Convenzione n. 108
del 28 gennaio 1981 (completata con il Protocollo di modifica del 18.04.2018), adottata dal
Consiglio d’Europa. Inoltre, introduce una disciplina europea uniforme sul trattamento «au-
tomatizzato» dei dati, reso ormai possibile dallo sviluppo tecnologico. Alla Convenzione
possono aderire anche Stati non facenti parte del Consiglio d’Europa (ad esempio: Argentina
2019, Messico 2018 e Uruguay 2013).
Sul piano sostanziale le norme della Convenzione n. 108 hanno introdotto una serie di
principi: liceità, correttezza della raccolta, sicurezza, aggiornamento, adeguatezza e pertinen-
za del trattamento rispetto alle finalità, garanzie rafforzate per i dati particolari (o sensibili).
Tali principi rappresentano il nucleo duro, «il minimo comune denominatore della protezione
dei dati in Europa», su cui sarà costruita la successiva normazione a livello comunitario.
La disciplina embrionale è stata successivamente integrata dalla Direttiva 95/46/CE
del Parlamento europeo e del Consiglio, c.d. Direttiva madre o Direttiva quadro con la quale
è stata prevista una disciplina uniforme dell’intera materia, dando impulso ad una serie di
altri interventi integrativi su specifici settori.
Il Regolamento (UE) n. 2016/679, «relativo alla protezione delle persone fisiche, con
riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati», ha
abrogato la Direttiva 95/46/CE. Contestualmente l’UE ha adottato una legislazione sul tratta-
mento dei dati personali da parte delle autorità statali, per fini di contrasto alla criminalità. La
Direttiva 2017/680/UE stabilisce norme e principi per fini di prevenzione, indagine, accerta-
mento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali.
Il quadro di riferimento della protezione dei dati personali è sancito anche all’art. 8
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE). Questa disposizione de-
ve essere analizzata congiuntamente all’art. 7 della stessa, che dispone la tutela del rispetto
della propria vita privata e familiare, del domicilio e delle comunicazioni (C. Giust. UE/ECJ,
Volker und Markus Schecke GbR e Hartmut Eifert c. Land Hessen, C-92/09 e C-93/09 del
9.11.2010, par. 47).
Nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE), il diritto alla protezione
dei dati personali trova il proprio fondamento ai sensi dell’art. 16, par. 1.
Il Regolamento (UE) 2018/1725, che abroga il Regolamento (CE) n. 45/2001, disci-
plina la tutela delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali da parte delle
istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione e la libera circolazione di tali dati.
Nell’ordinamento italiano, il diritto alla riservatezza dei dati personali, quale manife-
stazione del diritto fondamentale all’intangibilità della sfera privata, trova riferimento negli
artt. 2, 14 e 15 della Costituzione. La legislazione ordinaria di riferimento si ritrova nel d.lgs.
n. 196 del 30 giugno 2003 che istituisce il Codice in materia di protezione dei dati perso-
nali (Codice Privacy) e nel d.lgs. n. 101 del 10 agosto 2018, adeguamento della normativa
nazionale alle disposizioni del Regolamento UE 2016/679. Precedentemente il fondamento
normativo si rinveniva nella legge n. 675 del 31 dicembre 1996.
garanzia della vita privata. Lo spazio in cui si intraprendono i rapporti sociali, ma anche quel-
li economici e finanziari, tradizionalmente circoscritti al mondo materiale, si trasla altrove,
cioè nel mondo di Internet. L’esigenza di tutela non è più circoscritta alla sola persona fisica,
bensì alla sua proiezione nel mondo digitale, ai suoi dati e quindi alle sue informazioni. Il
processo di adattamento del diritto alla realtà storica, ad opera delle Corti sopra menzionate,
è fondamentale.
La sentenza C. EDU/ECtHR, Leander c. Svezia, del 26.03.1987, riguarda la vicenda
di un cittadino svedese, iscritto nel registro delle persone pericolose per la sicurezza naziona-
le, in ragione delle sue attività sindacali e della sua militanza politica in un partito comunista.
Al ricorrente, per effetto di tale iscrizione, era stata negata la possibilità di accedere a un im-
piego pubblico. La Corte, investita della questione, ha per la prima volta precisato la nozione
di «dossier personale» segreto, affermando che la sola creazione, raccolta o conservazione,
di un registro contenente i dati di una persona, da parte di un’autorità pubblica, costituisce
ingerenza nel diritto alla vita privata e ciò a prescindere dalla concreta utilizzazione delle
informazioni ivi contenute (par. 56-67). I giudici di Strasburgo hanno parimenti fissato come
parametri, per ritenere tali ingerenze legittime, secondo quanto disposto dall’art. 8 della Con-
venzione: a) la previsione di legge preordinata al conseguimento di un superiore interesse
pubblico di sicurezza nazionale, b) l’esistenza di un’adeguata motivazione dell’ingerenza, c)
la sua proporzionalità, in relazione al fine legittimo perseguito.
In questo modo la Corte ha cominciato a configurare una serie di canoni di liceità del
trattamento, collegati alla sussistenza di un ventaglio di interessi pubblici. Parimenti la Corte
ha riconosciuto l’esistenza dei diritti dell’interessato ad un corretto trattamento dei propri
dati. A tal proposito il contemperamento, tra diritti individuali ed interessi collettivi, da parte
degli Stati, è stato qualificato come attività di carattere discrezionale. Per i giudici le autorità
nazionali godono di un margine di discrezionalità la cui ampiezza dipende non solo dalle fi-
nalità, ma anche dal carattere proprio dell’ingerenza (par. 59). Ad oggi i principi e i parametri
stabiliti da questa sentenza costituiscono parte integrante dell’orientamento consolidato della
Corte.
Con la pronuncia C. Giust. UE/ECJ, Deutsche Post AG c. Hauptzollamt Köln, C
496/17 del 16.1.2019, si stabilisce che ogni trattamento dei dati personali deve essere con-
forme ai principi relativi alla qualità dei dati elencati all’articolo 6 della direttiva 95/46/
CE del Parlamento europeo e del Consiglio o all’articolo 5 del Regolamento 2016/679. In
particolare: a) devono essere trattati in modo lecito, corretto e trasparente; b) devono essere
esatti ed aggiornati, adeguati, pertinenti, oltre che limitati a quanto strettamente necessario in
relazione alle finalità, e comunque devono essere trattati in modo da garantirne l’integrità e
un’adeguata sicurezza; c) le finalità devono essere determinate, esplicite e legittime. Inoltre,
devono rispondere ad una delle condizioni legittimanti, enumerate all’articolo 7 di detta di-
rettiva o all’articolo 6 di detto regolamento. Nello specifico: a) l’interessato deve aver espres-
so il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità; b) il
trattamento deve essere necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte
o all’esecuzione di misure precontrattuali adottate su richiesta dello stesso; c) deve essere
necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento; d)
deve essere necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra
persona fisica; e) per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’eserci-
zio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; f) per il perseguimento del
legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano
gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato che richiedono la protezione
dei dati personali, in particolare se l’interessato è un minore. La lettera f) del primo comma
136 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
non si applica al trattamento di dati effettuato dalle autorità pubbliche nell’esecuzione dei
loro compiti. Come sottolineato dalla Commissione, i sei principi di cui all’articolo 7 della
Direttiva 95/46/CE sono di fatto espressione di un principio più ampio, sancito all’articolo 6,
paragrafo 1, lettera a) di detta direttiva, in base al quale i dati personali devono essere trattati
lealmente e lecitamente (par. 19, 32-33).
Nella sentenza C. EDU/ECtHR, Amann c. Svizzera del 16.2.2000, si ravvisa un signi-
ficativo ampliamento della tutela della vita privata, per esplicito richiamo alla Convenzione
108 del Consiglio d’Europa del 1981, che viene assunta come parametro esterno (par. 65).
Invero, la Corte ha stabilito che il termine «vita privata» non deve essere interpretato in modo
restrittivo, perché comprende anche i dati relativi all’attività professionale ed imprenditoria-
le. Secondo la Convenzione del 1981, per «dato» s’intende «ogni informazione relativa ad
un individuo identificato o identificabile», tra cui si ricomprendono i dati anagrafici, le infor-
mazioni sull’infanzia, le attività personali, professionali o politiche, le informazioni bancarie
e fiscali, i dati sanitari, i campioni biologici, le impronte digitali, le fotografie, le videoregi-
strazioni e i campioni sonori.
La Corte ribadisce che la memorizzazione, da parte di un’autorità pubblica, di infor-
mazioni relative alla vita privata costituisce di per sé interferenza ai sensi dell’articolo 8, a
prescindere dall’effettivo utilizzo delle informazioni memorizzate (si veda, mutatis mutan-
dis, C. EDU/ECtHR, Leander c. Svezia, del 26.03.1987, par. 48 e C. EDU/ECtHR, Kopp
c. Svizzera, del 25.03.1998, par. 51-55). È la semplice costatazione che i dati raccolti siano
stati conservati da un’autorità pubblica a costituire interferenza con il diritto del ricorrente al
rispetto della vita privata. Ovviamente, non tutte le ingerenze sono vietate se conformi alla
legge e se perseguono uno degli scoppi legittimi di cui al comma 2 (C. EDU/ECtHR, Amann
c. Svizzera, cit, par. 70).
Il concetto della vita privata continua a evolversi, comprendendo all’interno della sua
architettura anche le molteplici sfumature del web, e nello specifico della posta elettronica. Il
leading case C. EDU/ECtHR, Copland c. Regno Unito, del 3.04.2007, par. 41-42, ne è prova
lampante. Il caso trattato dalla Corte riguarda l’uso del telefono, della posta elettronica e di
Internet, da parte di una dipendente di un college, sottoposti segretamente a monitoraggio, al
fine dell’accertamento del corretto uso degli strumenti elettronici. La Corte ha statuito che sia
le telefonate che l’utilizzo di Internet sul posto di lavoro, ricadono negli ambiti concettuali
protetti della vita privata e della corrispondenza. Pertanto, l’uso delle informazioni relative
alla data, agli orari e alla durata delle conversazioni telefoniche, così come l’analisi dei siti
web visitati, gli orari e le date delle visite ai siti medesimi, nonché la loro durata (par. 9-10),
possono dar luogo ad un’ingerenza ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione EDU, perché
tutte le informazioni costituiscono un «elemento integrante delle comunicazioni effettuate».
Il solo fatto che questi dati siano stati acquisiti, nonostante non siano stati divulgati, configura
ingerenza nei diritti garantiti dall’articolo 8 della Convenzione. Nel caso di specie, la Corte
rileva anche l’assenza di disposizioni normative sulle circostanze nelle quali i datori di lavoro
possono essere autorizzati a controllare l’uso del telefono, della posta elettronica e di Inter-
net dei dipendenti, pertanto l’ingerenza è stata considerata anche non conforme alla legge.
Conclusivamente, la Corte ribadisce che l’articolo 8 non solo obbliga gli Stati ad astenersi da
qualsiasi azione che possa ledere tale diritto, ma impone anche, in talune circostanze, l’ob-
bligo di garantire attivamente l’effettivo rispetto della vita privata, familiare e professionale
(Cfr. C. EDU/ECtHR, Antović e Mirković c. Montenegro, del 28.11.2017 par. 55-60).
Diritto alla protezione dei dati personali 137
informazioni, benché i dati di base vengano conservati molto più a lungo, non può costituire
un giusto equilibrio tra l’interesse e l’obbligo in questione, salvo che si dimostri che conser-
vare tali informazioni più a lungo comporterebbe un onere eccessivo per il responsabile del
trattamento. Spetta tuttavia al giudice nazionale effettuare le necessarie verifiche». (Cfr. C.
Giust. UE/ECJ, Peter Nowak c. Data Protection Commissioner, C-434/16, del 20.12.2017,
par. 49-63).
Nella sentenza C. EDU/ECtHR, K.U. c. Finlandia, del 2.12.2008, par. 35-39, una
persona non identificata aveva pubblicato, su un sito di incontri Internet, un annuncio partico-
lareggiato con le caratteristiche fisiche, l’immagine e il nome di un minorenne a sua insaputa,
specificando che era alla ricerca di una «relazione intima» (par. 7). I familiari del minorenne
si erano rivolti alla polizia per chiedere l’identificazione della persona responsabile della
pubblicazione. Tutti i tentativi volti ad indurre il provider a cooperare per identificare l’autore
dell’annuncio si erano rivelati vani, adducendo il segreto delle telecomunicazioni.
Sia il giudice di primo grado che quello d’appello non accoglievano la richiesta di
ordinare all’Internet service provider di fornire le generalità della persona fisica (cui risul-
tava attribuito l’indirizzo IP utilizzato per la connessione e la pubblicazione dell’annuncio),
fondando il rigetto sull’assenza di una disposizione normativa (par. 40) che, in relazione alla
fattispecie di reato ipotizzata, autorizzasse la rivelazione di dati personali. Un obbligo in tal
senso, infatti, secondo la legislazione finlandese, sussiste solo in presenza di determinati
illeciti.
Dinanzi alla Corte, il ricorrente ha invocato una violazione degli articoli 8 e 13 CE-
DU, non avendo potuto difendersi contro l’ingerenza illecita nella sua vita privata. La Corte
ricorda che l’articolo 8 impone allo Stato anche obblighi positivi, per garantire la tutela della
vita privata nei rapporti tra privati (cfr. C. EDU/ECtHR, Airey c. Irlanda, del 9.10.1979, par.
32,). Sebbene gli Stati dispongano di un determinato margine di apprezzamento, riguardo
alle misure da adottare (par. 43), quando sono in gioco valori fondamentali e aspetti essen-
ziali della vita privata, sono indispensabili norme penali efficaci (cfr. C. EDU/ECtHR, X e Y
c. Paesi Bassi, del 26.03.1985, par. 23-24, 27, 30; C. EDU/ECtHR, Bogomolova c. Russia,
del 20.06.2017, par. 5). Nella fattispecie tale protezione non era stata garantita perché un’in-
dagine efficace non aveva potuto essere avviata e il ricorrente era stato esposto ad approcci
di eventuali pedofili (par. 41-45). Invero, la protezione assoluta del segreto delle telecomu-
nicazioni aveva reso illusori gli strumenti del diritto penale e civile esistenti. La Corte ha
ravvisato una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, e non ha considerato l’eventuale
violazione dell’articolo 13 della stessa.
In una significativa pronuncia, C. EDU/ECtHR, Magyar Helsinki Bizottság c. Unghe-
ria, dell’8.11.2016, par, 162, la Grande Camera della Corte EDU ha osservato che l’interesse
sotteso all’accesso ai dati personali per fini di interesse pubblico non può essere ridotto a
«sete di informazioni». La Corte ha sottolineato che la definizione di ciò che può costituire
argomento di interesse pubblico dipende dalle circostanze di ciascun caso. L’interesse pub-
blico riguarda questioni che incidono sul benessere dei cittadini o sulla vita della comunità.
Ciò vale anche per le questioni che possono suscitare notevoli controversie, che riguardano
un’importante questione sociale o che comportano un problema di cui i cittadini abbiano
interesse ad essere informati. Non può ridursi neanche «al desiderio di sensazionalismo o ad-
dirittura di voyeurismo». Al fine di verificare se una pubblicazione si riferisca a un argomento
di importanza generale, è necessario valutarla nel suo insieme, tenuto conto del contesto in
cui appare.
In materia di trasparenza amministrativa, la Corte di Giustizia ha costantemente statu-
ito che «le istituzioni, prima di divulgare informazioni riguardanti una persona fisica, devono
Diritto alla protezione dei dati personali 139
soppesare l’interesse dell’Unione a garantire la trasparenza delle proprie azioni con la lesione
dei diritti riconosciuti dagli artt. 7 e 8 della Carta» (C. cost., sent. n. 20/2019, pt. 3 cons. in
dir.). Per tale motivo, «non può riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell’obiettivo di
trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali. Il principio di proporzionalità del
trattamento rappresenta il fulcro della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione
europea in materia, pertanto, lo scrutinio intorno al punto di equilibrio individuato dal legi-
slatore sulla questione della pubblicità dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti ammi-
nistrativi, va condotto alla stregua del parametro costituzionale interno evocato dal giudice
a quo, come integrato dai principi di derivazione europea». Essi sanciscono l’obbligo, per la
legislazione nazionale, di rispettare i criteri di necessità, proporzionalità, finalità, pertinenza
e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, pur a fronte dell’esigenza di garantire, fino
al punto tollerabile, la pubblicità dei dati in possesso della pubblica amministrazione.
Si è inoltre affermato che le esigenze di controllo democratico non possono travolgere
il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche, dovendo sempre essere rispetta-
to il principio di proporzionalità, cardine della tutela dei dati personali. Deroghe e limitazioni
alla protezione dei dati personali devono perciò operare nei limiti dello stretto necessario e,
prima di ricorrervi, occorre ipotizzare misure che determinino la minor lesione (C. Giust.
UE/ECJ, College van burgemeester en wethouders van Rotterdam c. M. E. E. Rijkeboer,
C-138/01 e C-139/09, del 20.05.2003, par. 65-66). In aggiunta, la Corte ribadisce che non
può riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla
protezione dei dati personali (Cfr. C. Giust. UE/ECJ, Volker und Markus Schecke GbR e
Hartmut Eifert c. Land Hessen, C-92/09 e C-93/09 del 9.11.2010, par. 85-86).
La pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea C. Giust. UE/ECJ, Con-
stantin Film Verleih GmbH c, Google Inc. e YouTube LLC, C-264/19, 9.07.2020 riguarda il
contenzioso che ha visto coinvolti, da un lato, la società tedesca di distribuzione di film Con-
stantin Film Verleih GmbH e, dall’altro, YouTube LLC e Google Inc (la seconda quale con-
trollante della prima), in merito alla violazione dei diritti di proprietà intellettuale commessi
a danno della prima società da utenti registrati alla piattaforma YouTube. Nello specifico, la
Constantin Film Verleih GmbH, che detiene in Germania i diritti di sfruttamento esclusivi su
alcune opere cinematografiche, tra queste Parker e Scary Movie 5, lamentava che tali film,
nel 2013 e nel 2014, sono stati caricati sulla piattaforma di video YouTube senza il consenso
della Constantin Film Verleih e hanno raggiunto varie decine di migliaia di visualizzazioni.
La Constantin Film Verleih ha intimato a YouTube e Google di fornirle un insieme di infor-
mazioni relative a ciascuno degli utenti che aveva proceduto al caricamento. Le due società
hanno rifiutato di fornire alla Constantin Film Verleih le informazioni relative a detti utenti,
in particolare i loro indirizzi di posta elettronica e numeri di telefono nonché gli indirizzi IP
da loro utilizzati tanto al momento del caricamento dei file interessati quanto al momento
dell’ultimo accesso al loro account Google/YouTube. La controversia principale dipendeva
dalla riconducibilità di simili informazioni alla nozione di «indirizzo», ai sensi della direttiva
2004/48. Tale direttiva prevede che le autorità giudiziarie possano ordinare che siano fornite
informazioni sull’origine e sulle reti di distribuzione delle merci o dei servizi che violano un
diritto di proprietà intellettuale. Tra queste informazioni rientra segnatamente l’«indirizzo»
dei produttori, distributori e fornitori delle merci o dei servizi lesivi di un diritto.
La Corte, rispetto alle questioni avanzate dal giudice del rinvio, ha rilevato, in primo
luogo, che, per quanto riguarda il senso abituale del termine «indirizzo», esso si riferisce
unicamente all’indirizzo postale, vale a dire al luogo di domicilio o di residenza di una de-
terminata persona. Ne consegue che tale termine, se utilizzato senza ulteriori precisazioni,
come nella direttiva 2004/48, non si riferisce all’indirizzo di posta elettronica, al numero di
140 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
telefono o all’indirizzo IP. In secondo luogo, i lavori preparatori che hanno condotto all’ado-
zione della direttiva 2004/48 non contengono alcun indizio tale da suggerire che il termine
«indirizzo» debba intendersi riferito non solo all’indirizzo postale, ma anche all’indirizzo di
posta elettronica, al numero di telefono o all’indirizzo IP delle persone interessate. Inoltre,
dall’esame di altri atti di diritto dell’Unione che fanno riferimento all’indirizzo di posta elet-
tronica o all’indirizzo IP emerge che nessuno di essi utilizza il termine «indirizzo», senza
ulteriori precisazioni, per designare il numero di telefono, l’indirizzo IP o l’indirizzo di posta
elettronica.
Ciò considerato, la Corte ha concluso che la nozione di «indirizzo» espressa nella
direttiva 2004/48 non si riferisce, per quanto riguarda un utente che abbia caricato file lesivi
di un diritto di proprietà intellettuale, al suo indirizzo di posta elettronica, al suo numero di
telefono nonché all’indirizzo IP utilizzato per caricare tali file o all’indirizzo IP utilizzato in
occasione del suo ultimo accesso all’account utente, bensì unicamente all’indirizzo postale.
5. Le immagini
Riguardo alle fotografie e ai video la Corte ha più volte ribadito che l’immagine di
una persona costituisce uno dei principali attributi della sua personalità, in quanto ne rivela
142 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
le peculiari caratteristiche e la distingue dai suoi pari; costituisce dato personale in quanto si
tratta di un dato idoneo a identificare una persona a prescindere dalla sua notorietà.
Il diritto alla protezione dell’immagine presuppone il diritto a controllarne l’uso, com-
preso il diritto di rifiutarne la pubblicazione o la ripubblicazione. Quando interagisce con altri
diritti, sia la Corte europea dei diritti dell’uomo, sia la Corte di giustizia dell’Unione europea
hanno più volte ribadito che, nell’applicazione e nell’interpretazione dell’articolo 8 della
CEDU e dell’articolo 8 della Carta, è necessario effettuare una ponderazione con altri diritti,
in modo da raggiungere un giusto equilibrio (C. Giust. UE/ECJ, Productores de Música de
España (Promusicae) c. Telefónica de España SAU, C-275/06, del 29.01.2008, par. 68; C.
EDU/ECtHR, Flinkkilä e altri c. Finlandia, del 6.04.2010, par. 75).
Nell’annosa vicenda Von Hannover c. Germania, l’immagine entra nella sfera protet-
tiva dell’art 8, sotto il profilo del bilanciamento dei diritti. I ricorrenti, la principessa Caroline
von Hannover e il principe Ernst August von Hannover, tra il 1993 e il 1997 avevano più
volte cercato di tutelare la propria immagine e la propria vita privata, spesso per vie legali,
con azioni inibitorie che tentavano di impedire, secondo il diritto interno, la pubblicazione
e ripubblicazione di immagini che li ritraevano. Esauriti i ricorsi interni, la Corte europea
aveva emesso una prima sentenza C. EDU/ECtHR, Von Hannover c. Germania (n. 1) del
24.06.2004, nella quale concludeva che le decisioni giudiziarie tedesche avevano violato il
diritto al rispetto della vita privata, garantito dall’art. 8 della Convenzione. In seguito, sia la
ricorrente sia il marito avevano attivato nuove procedure, al fine di prevenire ulteriori pubbli-
cazioni di fotografie, uscite sui giornali tedeschi. Le procedure giudiziarie avviate in Germa-
nia si erano concluse con il rigetto delle domande e avevano costituito oggetto della sentenza
C. EDU/ECtHR, Von Hannover c. Germania (n. 2) della G.C. del 7.02.2012, nella quale la
Corte aveva determinato che le decisioni giudiziarie statali non avevano violato il diritto
al rispetto della vita privata, in quanto i giudici interni avevano effettuato la ponderazione
circostanziale del diritto degli editori alla libertà di espressione con il diritto dei ricorrenti
al rispetto della loro vita privata. Pertanto, essi attribuivano un’importanza fondamentale
alla questione se le fotografie, integrate da articoli, contribuivano ad un dibattito di interesse
generale. Hanno inoltre analizzato le circostanze in cui sono state ottenute le istantanee. La
Corte EDU ha ribadito i criteri da considerare, in materia di contemperamento del diritto
alla libertà di espressione, con il diritto al rispetto della vita privata nell’accezione di diritto
della protezione dell’immagine, stabiliti nella propria giurisprudenza (par. 108-113): a) il
fatto pubblicato deve rivestire un interesse generale e contribuire al dibattito pubblico, b) il
livello di fama del soggetto interessato e la sua condotta; c) il metodo con cui le informazio-
ni sono raccolte e divulgate d) l’affidabilità delle informazioni (Cfr. C. EDU/ECtHR, Axel
Springer AG c. Germania, del 7.02.2012, par. 90-91; C. EDU/ECtHR, Sciacca c. Italia, del
11.01.2005, par. 25-29; C. EDU/ECtHR, Verlagsgruppe News GmbH e Bobi c. Austria, del
4.12.2012, par. 88-95, par. 41-42).
Sotto un altro profilo, la Convenzione non impone ai media l’obbligo di avvertire
preventivamente (prenotifica) i singoli sull’intenzione di pubblicare notizie che li riguardano,
in modo da poterne impedire la pubblicazione mediante un’ingiunzione. Questa è la conclu-
sione della Corte nella sentenza C. EDU/ECtHR, Mosley c. Regno Unito, del 10.05.2011, par.
82-83; 130-132.
La pubblicazione di immagini ottenute in luoghi pubblici, in condizioni non normal-
mente prevedibili, può violare l’art. 8 della Convenzione. La sentenza C. EDU/ECtHR, Peck
c. Regno Unito, del 28.01.2003, par. 60-63, riguarda un tentativo di suicidio in strada, com-
piuto da un individuo che si era tagliato i polsi (par. 54-55). Una telecamera a circuito chiuso
(CCTV) aveva filmato la scena. La polizia ne aveva avuto conoscenza diretta, monitorando le
Diritto alla protezione dei dati personali 143
6. Le intercettazioni
Il primo caso a venire in rilievo è rappresentato dal caso C. EDU/ECtHR, Klass e altri
c. Germania, del 6.09.1978 (par. 49-50), avente ad oggetto una legge della Repubblica Fe-
derale di Germania (Gesetz zur Beschränkung des Brief-, Post- und Fernmeldegeheimnisses,
c.d. G10) che, in epoca di Guerra Fredda, imponeva limitazioni alla segretezza della corri-
spondenza e delle telecomunicazioni quale misura di contrasto al terrorismo e allo spionag-
gio. In questo caso i ricorrenti, cinque avvocati tedeschi, si sono lamentati in particolare della
legislazione precitata in quanto autorizzava le autorità a controllare la loro corrispondenza e
le comunicazioni telefoniche senza l’obbligo di informare gli interessati delle misure adottate
nei loro confronti.
La Corte, sebbene abbia considerato non vi fosse stata alcuna violazione dell’articolo
8 della Convenzione (par. 75), ha affermato il principio dell’interpretazione restrittiva del
regime delle eccezioni al divieto di ingerenza previsto dalla disposizione in esame. Secondo
quanto affermato dalla Corte, gli Stati contraenti non dispongono di un margine illimitato di
discrezionalità al fine di assoggettare a misure di sorveglianza segreta le persone sottoposte
alla loro giurisdizione, potendo simili interventi legislativi minare o addirittura distruggere
proprio quel regime democratico che intendono difendere. Invero, il potere di sorvegliare
segretamente i propri cittadini, caratteristico dello Stato di polizia, non è tollerabile ai sensi
della Convenzione se non nei limiti di quanto strettamente necessario alla salvaguardia delle
istituzioni democratiche (par. 49). Sebbene le conversazioni telefoniche non siano tassativa-
mente menzionate nel comma 1 dell’articolo 8, la Corte ritiene che tali conversazioni rientri-
no nelle nozioni di «vita privata» e di «corrispondenza» cui fa riferimento questa disposizio-
ne. L’attività di sorveglianza segreta è ammessa solo nella misura necessaria in una società
democratica; nei casi in cui questa venga ammessa deve offrire determinate garanzie che ne
condizionano la legittimità.
A partire degli anni Ottanta la Corte ha affermato che la registrazione ed il trasferi-
mento di dati personali ad opera di autorità pubbliche avrebbero potuto rappresentare una
violazione del diritto alla vita privata, se realizzate fuori dalle condizioni del comma 2,
dell’art. 8. Al riguardo il caso emblematico di cui alla sentenza C. EDU/ECtHR, Malone c.
Regno Unito, del 2.08.1984, par. 62-67, ove la Corte, già allora, si pronunciava su un caso
relativo alle intercettazioni telefoniche e alla sorveglianza segreta, effettuate dalla polizia – o
per conto della polizia –, nell’ambito di un procedimento penale per ricettazione. Durante
il processo era emersa l’intercettazione di una conversazione telefonica del ricorrente sulla
base di un mandato emesso da una pubblica autorità (par. 24-25). Anche se le modalità di
intercettazione erano conformi al diritto nazionale (par. 69), la Corte EDU ha constatato che
non vi erano norme giuridiche che indicassero con ragionevole chiarezza la portata e le mo-
dalità di esercizio della pertinente discrezionalità esercitata dalle autorità pubbliche in questo
settore. Secondo la Corte, mancava il livello minimo di protezione giuridica, cui hanno diritto
144 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
i cittadini di uno Stato di diritto in una società democratica, statuendo che vi era stata viola-
zione dell’articolo 8 (par. 89).
Nel contesto delle comunicazioni elettroniche, i mezzi di sorveglianza o di intercetta-
zione sono consentiti solo se previsti dalla legge e se costituiscono una misura necessaria, in
una società democratica, nell’interesse: della sicurezza nazionale, della sicurezza pubblica,
degli interessi monetari dello Stato, della repressione dei reati, della protezione dell’interes-
sato o dei diritti e delle libertà altrui.
Nella causa C. EDU/ECtHR, Allan c. Regno Unito, del 5.11.2012, le autorità avevano
registrato, in segreto, le conversazioni private tra un detenuto e un suo amico nella sala visite
del carcere e con un codetenuto in una cella. La Corte EDU ha statuito che l’uso di dispositivi di
audioregistrazione e videoregistrazione, nella cella del ricorrente e nella sala visite del carcere,
costituisce ingerenza nella vita privata. Poiché, nel momento in cui si erano verificati i fatti, non
esisteva un sistema normativo per regolamentare l’uso di dispositivi di registrazione (par. 34-
36) in segreto, da parte della polizia, detta ingerenza è stata ritenuta non conforme alla legge.
La Corte ha concluso asserendo l’esistenza di una violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
In C. EDU/ECtHR, Zakharov c. Russia del 4.12.2015, il ricorrente aveva intentato un
procedimento giudiziario contro tre operatori di reti telefoniche mobili. Sosteneva che il di-
ritto alla riservatezza delle sue comunicazioni era stato violato, perché gli operatori avevano
installato apparecchiature che consentivano al Servizio Federale di Sicurezza di intercettarlo,
senza preventiva autorizzazione giudiziaria. La Corte EDU ha ritenuto che le disposizioni
normative nazionali, che disciplinano le intercettazioni, non offrissero garanzie adeguate ed
efficaci contro l’arbitrarietà e il rischio di abuso (par. 227-233). In particolare, la legislazio-
ne nazionale non prevedeva la cancellazione dei dati memorizzati, una volta perseguite le
finalità preposte. Inoltre, malgrado fosse richiesta un’autorizzazione giudiziaria, il controllo
giurisdizionale era stato considerato inadeguato e insufficiente (par. 302-305).
Nella causa C. EDU/ECtHR, Rotaru c. Romania, del 4.05.2000, il ricorrente lamen-
tava la violazione del diritto al rispetto della vita privata, a causa dell’avvenuta memoriz-
zazione e dell’utilizzo, da parte del servizio di intelligence romeno, di un dossier segreto,
contenente dati personali che lo riguardavano. La Corte, dopo aver richiamato la Conven-
zione del Consiglio d’Europa del 28 gennaio 1981, in tema di protezione nel trattamento
automatizzato dei dati personali (par. 43), sottolinea che, sia la conservazione da parte di
un’Autorità pubblica delle notizie relative alla vita privata, sia il loro utilizzo, così come il
diniego della possibilità di confutarle, costituiscono un’ingerenza nel diritto al rispetto della
vita privata, garantito dall’articolo 8, comma 1 della Convenzione (par. 46). Ha rilevato an-
che che, sebbene la legge nazionale autorizzasse la raccolta, la registrazione e l’archiviazione
di informazioni rilevanti per la sicurezza nazionale, in fascicoli segreti, non stabiliva ade-
guati limiti all’esercizio di tali poteri, che rimanevano a totale discrezione delle autorità. La
«previsione di legge», secondo la Corte, non impone soltanto che la misura contestata abbia
una base giuridica nazionale, ma deve riguardare anche la «qualità della legge» (par. 56),
che deve «essere accessibile alla persona interessata e prevedibile per quanto riguarda i suoi
effetti» (par. 52). Deve cioè enunciare, con ragionevole chiarezza, l’ambito e le modalità di
esercizio della discrezionalità attribuita alle autorità pubbliche, così come l’interessato deve
essere messo in condizione di contestare il carattere falso o diffamatorio delle informazioni
raccolte, anche attraverso procedimenti di carattere giurisdizionale. La Corte ha concluso che
il diritto statale non rispettava il requisito di prevedibilità (par. 42-44). Cfr. C. EDU/ECtHR,
Khan c. Regno Unito, del 12.05.2000, par. 26-28.
Di particolare interesse è la sentenza della Grande Camera C. EDU/ECtHR, Roman
Zakharov c. Russia, del 4.12.2015, nella quale il ricorrente, caporedattore di una casa editrice
Diritto alla protezione dei dati personali 145
e di una rivista che si occupava di aviazione, nonché presidente della sezione di San Pietro-
burgo di una ONG per la difesa della libertà dei media, di espressione e rispetto dei diritti
dei giornalisti, lamentava che gli operatori di rete mobile erano soliti esercitare controlli
telefonici sulla base di decreti ministeriali, che consentivano ai servizi segreti d’installare
apparecchiature di intercettazione senza previa autorizzazione giudiziaria. Per il ricorrente
tale sistema segreto di intercettazioni, violava il diritto al rispetto della vita familiare e alla
corrispondenza, anche a causa della mancata previsione della possibilità di attivare un ricorso
effettivo.
La Corte ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’articolo 8, sul presupposto che le
disposizioni legislative non disciplinano le intercettazioni e non prevedono adeguate ed effi-
caci garanzie contro l’arbitrarietà e il rischio di abusi. A maggior ragione, in un sistema come
quello russo, dove i servizi segreti e la polizia avevano accesso diretto, con mezzi tecnici, a
tutte le comunicazioni di telefonia mobile. In particolare, la Corte ha riscontrato carenze del
quadro giuridico nei seguenti settori: mancata previsione della casistica su cui poter interve-
nire; durata delle misure e previsione dell’eventuale loro sospensione; procedure autorizzati-
ve per la conservazione o la distruzione dei dati intercettati; supervisione dell’intercettazio-
ne. Inoltre, l’efficacia dei mezzi di ricorso disponibili per contestare l’intercettazione delle
comunicazioni era compromessa dal fatto che essi erano disponibili solo per le persone in
grado di presentare la prova dell’avvenuta intercettazione, pur in assenza di qualsiasi sistema
di notifica o di possibilità di accesso alle informazioni (par. 302-305). Cfr. C. EDU/ECtHR,
Akhlyustin c. Russia, del 7.11.2017, par. 24.
Nella causa C. EDU/ECtHR, Taylor-Sabori c. Regno Unito, del 22.10.2002, il ricor-
rente era stato sottoposto a regime di sorveglianza segreta da parte della polizia, utilizzando
un «clone» del cercapersone, appartenente al ricorrente. In questo modo la polizia era stata in
grado d’intercettare i messaggi a lui inviati. Il ricorrente, successivamente, era stato arrestato
e accusato di associazione a delinquere, finalizzata al traffico di stupefacenti. Parte dell’im-
pianto accusatorio era costituito dai messaggi scritti, contestuali, del cercapersone. All’epoca
non vi era alcuna disposizione di legge nazionale che disciplinasse l’intercettazione delle co-
municazioni trasmesse attraverso un sistema di telecomunicazioni privato (par. 17). Pertanto,
l’ingerenza non era intervenuta «conformemente alla legge». La Corte EDU ha concluso che
vi era stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione (par. 19).
7. La sorveglianza
La Grande Camera nella nota sentenza C. EDU/ECtHR, Bărbulescu c. Romania, del
5.09.2017, ha esaminato il ricorso proposto da un lavoratore licenziato, a causa dell’utilizzo,
in violazione del regolamento interno, dell’account Yahoo Messenger, precedentemente cre-
ato su richiesta del proprio datore di lavoro per rispondere alle richieste della clientela. Nel
luglio 2007 il datore di lavoro aveva comunicato che il suo Yahoo Messenger era stato mo-
nitorato e, accedendone al contenuto, le registrazioni evidenziavano un uso improprio dello
stesso, per scopi personali, durante l’orario di lavoro, in violazione dei regolamenti interni.
L’ex dipendente aveva agito in giudizio e successivamente si era rivolto alla Corte EDU, la-
mentando l’avvenuta mancata tutela, da parte dell’ordinamento romeno, del diritto al rispetto
alla vita privata e della corrispondenza, in violazione della normativa sulla privacy, di cui
all’art. 8 della Convenzione. All’uopo aveva invocato i criteri stabiliti a partire dalla sentenza
C. EDU/ECtHR, Copland c. Regno Unito (par. 25) in tema di comunicazioni telefoniche e di
posta elettronica del dipendente sul posto di lavoro.
146 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
privata dei lavoratori. In questo contesto, al fine di assicurare il primario principio di proporzio-
nalità e non eccedenza, così come di necessarietà delle misure di videosorveglianza sul luogo di
lavoro, le corti nazionali, nel momento in cui effettuano una ponderazione dei vari interessi con-
correnti, devono – a giudizio della Grande Camera – tenere in considerazione i seguenti fattori:
(i) se il dipendente sia stato preventivamente informato della possibilità che il datore di lavoro
controlli la corrispondenza e altre comunicazioni e sull’attuazione di tali misure; (ii) quale sia
l’estensione del controllo da parte del datore di lavoro e il grado di intrusione nella privacy del
dipendente, distinguendo in proposito tra il monitoraggio del flusso delle comunicazioni e del
loro contenuto, nonché il carattere totale o parziale dell’accesso ai dati, l’esistenza o l’assenza
di limiti spaziali del monitoraggio; (iii) se il datore di lavoro abbia fornito motivazioni legittime
per giustificare il monitoraggio delle comunicazioni e l’accesso ai loro contenuti effettivi, posto
che il monitoraggio del contenuto delle comunicazioni è per natura un metodo chiaramente più
invasivo e richiede una giustificazione più ampia; (iv) se sia stato possibile istituire un sistema
di monitoraggio basato su metodi e misure meno intrusive, rispetto all’accedere direttamente
al contenuto delle comunicazioni del dipendente, e se dunque l’obiettivo perseguito dal dato-
re di lavoro avesse potuto essere raggiunto senza accedere direttamente all’intero contenuto
delle comunicazioni del dipendente; (v) quali siano le conseguenze del monitoraggio per il
lavoratore subordinato e quale l’uso da parte del datore di lavoro dei risultati dell’operazione
di monitoraggio, in particolare se tale uso sia conforme con lo scopo perseguito e dichiarato,
e se sia necessario in relazione allo stesso; (vi) se siano state predisposte adeguate misure di
salvaguardia in favore del lavoratore, in particolare quando le attività di controllo del datore di
lavoro siano di natura intrusiva.
La Corte ritiene che le corti nazionali non abbiano oltrepassato il margine di apprez-
zamento che compete alle autorità nazionali, nella valutazione della proporzionalità della
misura adottata rispetto al fine concretamente perseguito (vedi, allo stesso modo, la sentenza
C. EDU/ECtHR, Köpke c. Germania, del 5.10.2010). Pertanto, se non è accettabile la posi-
zione secondo cui anche il minimo sospetto di appropriazione illecita possa giustificare l’in-
stallazione di strumenti occulti di videosorveglianza, tuttavia l’esistenza di un ragionevole
sospetto circa la commissione di illeciti, connotati da gravità e la prefigurazione dell’entità
dei danni economici che possano derivarne, così come avvenuto nel caso concreto, può co-
stituire giustificazione legittimante. Ciò vale a maggior ragione nel caso di specie, dove il
corretto funzionamento dell’attività aziendale è posto in pericolo, non dal semplice sospetto
di un illecito commesso da un singolo lavoratore, bensì dal sospetto che si potesse tratta-
re di un’azione concertata coinvolgente una molteplicità di lavoratori (par. 134). La Corte
conclude che le autorità nazionali non hanno violato l’obbligo positivo su di esse gravante,
previsto dall’articolo 8 della Convenzione, ed hanno rispettato il margine di apprezzamento
loro riservato dalla Convenzione. Pertanto, non vi è stata violazione (137).
Nel caso di C. EDU/ECtHR, Uzun c. Germania, del 2.09.2010, il ricorrente, sospet-
tato di essere coinvolto in gravi attentati dinamitardi, effettuati da parte di un movimento
estremista contro diversi esponenti politici e funzionari pubblici tedeschi (par. 74-75), la-
mentava di essere stato sottoposto a video-sorveglianza. Gli ingressi dei suoi appartamenti
erano stati filmati con videocamere e il Dipartimento per la Tutela della Costituzione di North
Rhine-Westfalia, insieme a funzionari dell’Ufficio Federale per le indagini penali, avevano
intercettato anche le telefonate. La posta a lui indirizzata veniva aperta e controllata (par. 75).
Successivamente, l’Ufficio Federale per le indagini penali aveva inserito un disposi-
tivo GPS (Global Positioning System) nella sua auto, sulla base di un ordine emesso dalla
Procura Generale Federale (par. 6-12). Secondo il ricorrente, l’utilizzo dei dati così ottenuti
nel procedimento penale a suo carico aveva violato il suo diritto al rispetto della vita privata.
148 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
La Corte osserva che la sorveglianza tramite GPS non era stata ordinata sin dall’i-
nizio. Le autorità investigative avevano proceduto gradualmente, inizialmente con misure
che interferivano in modo minore sulla sua vita privata, ma gli interventi si erano dimostrati
inefficaci (76). La sorveglianza via GPS era stata effettuata per un periodo di tempo relativa-
mente breve (circa tre mesi) e, come per la video sorveglianza attivata dagli agenti governati-
vi, era rimasta attiva quasi esclusivamente durante i fine settimana, pertanto, non si è trattato
di una sorveglianza continuativa e totale. Inoltre, le indagini per le quali la sorveglianza era
stata posta in essere riguardavano reati molti gravi.
La Corte è giunta alla conclusione che la sorveglianza del ricorrente via GPS, come
realizzata nel caso di specie, è stata proporzionata rispetto ai legittimi scopi perseguiti e, dun-
que, era «necessaria in una società democratica», ai sensi dell’articolo 8, comma 2. Pertanto,
ha dichiarato il ricorso irricevibile e che non vi è stata violazione (82).
Il caso C. EDU/ECtHR, Ben Faiza c. Francia, del 8.02.2018, riguardava le misure di
«surveillance totale» adottate nei confronti del ricorrente in un’indagine penale sul suo coin-
volgimento in reati di traffico di stupefacenti. Il richiedente ha sostenuto che tali misure (l’in-
stallazione di un dispositivo di geolocalizzazione sul suo veicolo e l’ordinanza del tribunale,
emessa nei confronti di un operatore di telefonia mobile per ottenere la registrazione delle sue
telefonate in entrata e in uscita) avevano costituito un’interferenza con il diritto al rispetto della
vita privata. La Corte ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’articolo 8, per quanto riguarda
la geolocalizzazione in tempo reale del veicolo del ricorrente per mezzo di un dispositivo GPS,
constatando che, nell’ambito di tale misura, il diritto francese (né normativo né giurispruden-
ziale) non indicava con sufficiente chiarezza, al momento dei fatti, in quali casi e in che modo
le autorità fossero autorizzate ad esercitare il loro potere discrezionale. Il ricorrente non aveva
quindi goduto della tutela minima offerta dallo Stato di diritto in una società democratica. Di-
versamente, la Corte europea non ha ravvisato violazione, in ordine all’acquisizione dei tabulati
telefonici eseguita sull’utenza del ricorrente e alle operazioni di localizzazione tramite celle
telefoniche, perché previste dalla legge, proporzionate agli scopi legittimamente perseguiti e
necessarie in una società democratica, in quanto finalizzate al perseguimento dei reati e, in
particolare, al contrasto di un traffico di stupefacenti su larga scala.
In riferimento all’uso delle nuove tecnologie, la Corte europea riconosce che la loro
introduzione impone una protezione più puntuale della vita privata: la sentenza C. EDU/
ECtHR, Szabo e Vissy c. Ungheria, del 12.01.2016, riguarda due membri di una ONG, ac-
cusata di svolgere attività ostile al Governo. Nel 2011 in Ungheria era stata promulgata una
legge antiterrorismo, che aveva istituito una Task Force (TEK). In base a questa legislazione
le prerogative della TEK consistevano nella raccolta di informazioni riservate sulla vita dei
cittadini, con possibilità di ricerca e sorveglianza sull’abitazione privata, l’apertura della cor-
rispondenza e il controllo e la registrazione dei contenuti delle comunicazioni elettroniche e
computerizzate. La raccolta dei dati personali era intervenuta senza autorizzazione degli in-
teressati e senza specifico provvedimento da parte della magistratura, in nome della sicurezza
nazionale. La Corte EDU ha accolto soltanto la doglianza relativa all’indicazione delle ragio-
ni a supporto della richiesta nell’ordine delle indagini, per il resto ha rigettato la domanda.
Riconosce la violazione dell’art. 8 da parte dello Stato, poiché la legislazione interna
deve prevedere (pre)garanzie sufficientemente precise, effettive ed esaurienti in ordine alla
disposizione, all’esecuzione e al potenziale risarcimento di misure di sorveglianza (par. 72-
73). Una misura di sorveglianza segreta deve, in generale, essere strettamente necessaria a
salvaguardare le istituzioni democratiche e, in particolare, deve servire ad ottenere informa-
zioni di vitale importanza per una determinata operazione. In caso contrario, si verifica un
«abuso» da parte delle autorità (par. 73). La sorveglianza segreta di una persona può essere
Diritto alla protezione dei dati personali 149
giustificata ai sensi dell’articolo 8 soltanto qualora sia «prevista dalla legge», persegua uno
o più dei «fini legittimi» di cui al comma 2 dell’articolo 8 e sia «necessaria in una società
democratica» (C. EDU/ECtHR, Szabó e Vissy c. Ungheria, del 12.01.2016, par. 54; C. EDU/
ECtHR, Kennedy c. Regno Unito, del 18.05.2010, par. 124-130).
8. I dati finanziari
Nel caso C. EDU/ECtHR, Michaud c. Francia, del 6.12.2012, il ricorrente, un av-
vocato francese, aveva contestato l’obbligo impostogli dalla legge di segnalare eventuali
operazioni sospette riguardo ad attività di riciclaggio di denaro poste in essere dai propri
clienti (par. 47).
La Corte ha osservato che l’obbligo, derivante dal recepimento di direttive europee,
attribuito agli avvocati di segnalare le operazioni sospette, relative ad eventuali attività di
riciclaggio effettuate dai loro clienti, non contrasta con l’art. 8 della Convenzione, che tutela
la riservatezza delle comunicazioni tra avvocato e cliente (par. 90-93). La Corte riconosce
l’importanza del segreto professionale degli avvocati, ma afferma che, nonostante costituisca
un’ingerenza sul loro diritto al rispetto della corrispondenza e della vita privata, persegue lo
scopo legittimo di combattere il riciclaggio di capitali ed i reati connessi (par. 94-99). Tale
obbligo, come attuato dalla legislazione francese, non reca un pregiudizio sproporzionato
al segreto professionale, poiché gli avvocati sono soggetti all’obbligo di comunicare atti-
vità sospette solo in circostanze molto specifiche. Invero, l’obbligo come disciplinato dalla
legislazione francese non è sproporzionato poiché – come è stato chiarito dal Consiglio di
Stato francese – sono tenuti alle segnalazioni antiriciclaggio solo in caso di sostituzione o
supporto del cliente nella gestione di determinate transazioni finanziarie e non nel caso in
cui esercitano compiti di difesa nei procedimenti giudiziari o di consulenza legale. Inoltre,
la legge francese di attuazione ha istituito un filtro a tutela del segreto professionale, preve-
dendo che gli avvocati trasmettano le loro segnalazioni al proprio Ordine professionale e non
direttamente all’amministrazione finanziaria. La Corte ha deciso che non vi è stata alcuna
violazione dell’articolo 8 (Cfr. mutatis mutandi C. EDU/ECtHR, Niemietz c. Germania, del
16.12.1992, par. 27-29; C. EDU/ECtHR, Halford c. Regno Unito, del 25.06.1997, par. 42).
I giudici di Strasburgo, nella sentenza C. EDU/ECtHR, M.N. e altri c. San Marino,
del 7.07.2015, si sono pronunciati su fatti che vedevano protagonisti cittadini italiani, i quali
lamentavano che la confisca da parte delle autorità giudiziarie di San Marino di dati bancari
che li riguardavano, avrebbe violato, tra l’altro, l’art. 8 della Convenzione (par. 49-50). La
decisione era stata presa a seguito di rogatoria internazionale delle autorità inquirenti italiane,
nel quadro di indagini per i reati di riciclaggio, frode fiscale, manipolazione del mercato, che
non interessavano direttamente i ricorrenti, bensì la società fiduciaria con cui avevano rap-
porti. La società era stata oggetto di provvedimenti di perquisizione e sequestro di copie della
documentazione elettronica. Il ricorrente aveva presentato ricorso dinanzi al tribunale di San
Marino, sostenendo che tra lui e i presunti reati non vi era alcun legame. Tuttavia, il giudice
aveva dichiarato il ricorso irricevibile, dal momento che il ricorrente non era una «parte inte-
ressata». La Corte EDU ha ritenuto il ricorrente sensibilmente danneggiato dalla tutela giudi-
ziaria offerta dall’ordinamento sammarinense e ha ritenuto che la perquisizione, l’accesso ai
dati bancari e la loro successiva memorizzazione da parte delle autorità, indipendentemente
dal fatto che contengano o no informazioni sensibili, e a prescindere da chi sia il proprietario
del supporto su cui si trovano le informazioni, costituisce violazione dell’art. 8 (par. 53-55).
Cfr. mutatis mutandis, C. EDU/ECtHR, Lambert c. Francia, del 24.08.1998, par. 20-21 e C.
EDU/ECtHR, Valentino Acatrinei c. Romania, del 25.06.2013, par. 53
150 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
Mesi dopo, la Corte di Strasburgo torna a esprimersi sulla compatibilità con la CEDU
delle procedure accertative fondate sull’utilizzo di informazioni finanziarie, confermando
con richiamo esplicito alla sentenza C. EDU/ECtHR, M.N. e altri c. San Marino, par. 51, che
i dati bancari rientrano nella tutela garantita dall’art. 8. Ciò nonostante, tale protezione può
subire limitazioni, qualora sia in gioco la sopravvivenza di un settore economico vitale per
lo Stato contraente.
Nella causa C. EDU/ECtHR, G.S.B. c. Svizzera, del 22.12.2015, le autorità fiscali statu-
nitensi, nel 2008, avevano scoperto che migliaia di contribuenti americani erano titolari, presso
la banca svizzera «UBS SA», di conti bancari non dichiarati alle autorità nazionali. In base ad
una Convezione di mutua assistenza amministrativa e fiscale tra la Svizzera e gli Stati Uniti
(CDI-US 96), il dossier del ricorrente era stato trasmesso dalla UBS SA all’autorità USA (par.
44). Per la Corte europea l’accordo e la sua attuazione da parte dell’autorità nazionale non
erano incompatibili con l’articolo 8 perché, ai sensi del comma 2, l’ingerenza era prevista dalla
legge; era accessibile a ogni individuo, con adeguate garanzie procedurali ed era giustificata
perché perseguiva uno scopo legittimo, dal momento che il settore bancario è strategico per
l’economia della Svizzera e la trasmissione dei dati si era limitata ai dati finanziari e non ai dati
personali o strettamente legati all’identità (par. 53-88, 98). Cfr. C. EDU/ECtHR, Brito Ferrinho
Bexiga Villa-Nova c. Portugal, dell’1.12.2015, sulla lesione del diritto alla vita privata, alla
protezione dei dati personali e al segreto della corrispondenza di un avvocato a seguito della
consultazione, da parte dell’amministrazione fiscale, dei conti bancari personali.
Gli Stati membri devono conciliare la protezione dei dati personali con il diritto alla
libertà d’espressione e di informazione. Il loro bilanciamento è disciplinato dall’articolo 85
del Regolamento per la Protezione dei Dati Personali (GDPR) ai sensi del quale, esenzioni
e deroghe rispetto a capi specifici del regolamento sono previste a scopi giornalistici o di
espressione accademica, artistica o letteraria, a certe condizioni. Di particolare interesse è
la vicenda trattata dalla C. EDU/ECtHR, Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy c.
Finlandia, del 27.06.2017, che trae origine dal ricorso presentato da due società, che lavo-
ravano in cooperazione, entrambe di proprietà degli stessi azionisti e attive nella gestione e
nella pubblicazione di informazioni fiscali. Informazioni che, secondo la legislazione finlan-
dese, sono da considerarsi pubbliche.
Queste società avevano raccolto/pubblicato dati comprendenti il nome, il cognome,
così come i dati fiscali (i redditi e i patrimoni imponibili) di circa 1,2 milioni di persone. Tali
dati ai sensi dell’art. 2, lett. a), della direttiva 95/46, sono da considerarsi dati personali ogni
volta che si tratta di «informazioni concernenti una persona fisica identificata o identificabi-
le». Le informazioni erano state assunte attingendo alla banca dati accessibile al pubblico,
istituita presso gli uffici delle imposte locali, secondo quanto disposto dalla legge finlandese
ed erano state successivamente pubblicate in una rivista specializzata oppure fornite a terzi,
attraverso un servizio che consentiva di ottenere via SMS le informazioni rilevanti circa un
determinato soggetto, laddove compreso nel riferito database.
I fatti sono anche passati al vaglio della Corte di Giustizia, mediante domanda prelimina-
re C. Giust. UE/ECJ, Tietosuojavaltuutettu c. Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy,
C-73/07, del 16.12.2008 (par. 20-28). Questa ha in primo luogo evidenziato l’importanza del
diritto alla libertà di espressione in tutte le società democratiche, rilevando che i concetti relativi
a detta libertà, quali la nozione di giornalismo, dovrebbero essere interpretati in modo esteso. La
Corte ha poi osservato che, per raggiungere un equilibrio tra i due diritti fondamentali, le deroghe
e le limitazioni al diritto alla protezione dei dati devono applicarsi solo nella misura strettamente
necessaria. In tali circostanze, la Corte ha stabilito che le attività svolte dalle ricorrenti devono
essere considerate come un «trattamento di dati personali» ai sensi dell’art. 3, par. 1, della direttiva
Diritto alla protezione dei dati personali 151
95/46/CE. Inoltre, le suddette attività svolte dalle aziende in questione, relative ai dati provenienti
da documenti che sono di dominio pubblico ai sensi della legislazione nazionale, possono essere
qualificate come «attività giornalistiche» qualora siano dirette a divulgare al pubblico informazio-
ni, opinioni o idee, indipendentemente dal mezzo di trasmissione utilizzato (par. 61-65). Tuttavia,
relativamente al caso di specie, la Corte di Giustizia ha rimesso la questione ai giudici nazionali.
I giudici nazionali hanno stabilito, seguendo i criteri dettati dalla Corte di Lussem-
burgo, che tali pubblicazioni costituivano un trattamento illecito dei dati, perché utilizzate
per fini diversi dall’interesse giornalistico. Pertanto, avevano disposto la sospensione della
pubblicazione di tutte le informazioni fiscali. La Corte EDU, investita successivamente della
stessa questione, ha stabilito che la disposta sospensione della pubblicazione di tutte le in-
formazioni fiscali costituiva un’ingerenza giustificata rispetto alla libertà d’espressione. Ha
confermato questo approccio nel valutare le circostanze sottoposte al suo apprezzamento, e
ha conseguentemente affermato che le autorità nazionali competenti avevano tenuto in debita
considerazione i principi e i criteri stabiliti dalla giurisprudenza, ricercando il giusto equili-
brio tra il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla libertà di espressione. Ha concluso
manifestando che, nonostante vi sia stata un’interferenza nella libertà di espressione delle so-
cietà ricorrenti (par. 139), l’ingerenza era conforme alla legge (par. 147, 154), ha perseguito
uno scopo legittimo (par. 159) ed era necessaria in una società democratica (par. 160-161).
Nell’ambito italiano, la Corte costituzionale, con sentenza C. cost., sent. n. 20/2019,
pt. 5 cons. in dir., ha ritenuto che l’obbligo di pubblicazione di tutti i dati reddituali e patrimo-
niali, di cui all’art. 14, comma 1 bis, d.lgs. 33/2013 (Riordino della disciplina riguardante il
diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni
da parte delle pubbliche amministrazioni) è costituzionalmente illegittimo, perché manife-
stamente «sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla
corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione». Per la Consulta la disposizione nor-
mativa esaminata finisce per risultare in contrasto con il principio per cui, «nelle operazioni
di bilanciamento, non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad
esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango»,
(sentenza n. 143 del 2013). Nel caso in esame, alla compressione – indiscutibile – del diritto
alla protezione dei dati personali non corrisponde, prima facie, un paragonabile incremento
né della tutela del contrapposto diritto dei cittadini ad essere correttamente informati, né
dell’interesse pubblico alla prevenzione e alla repressione dei fenomeni di corruzione».
9. I dati sanitari
Nella sentenza C. EDU/ECtHR, Z. c. Finlandia del 25.02.1997, il fatto concerneva la
rivelazione (e successiva divulgazione) della condizione di sieropositività della ricorrente, in
un procedimento penale contro il marito accusato di omicidio colposo per avere esposto consa-
pevolmente le sue vittime al rischio di infezione da HIV. Il giudice nazionale aveva disposto un
periodo di riservatezza di 10 anni per la pubblicazione della sentenza integrale e dei documenti
relativi alla causa, malgrado la ricorrente avesse chiesto la concessione di un periodo di riserva-
tezza più lungo (par. 33-37). La Corte d’Appello aveva respinto tali richieste con una sentenza
nella quale apparivano i nomi completi della ricorrente e dell’ex marito. La Corte EDU ha
statuito che l’ingerenza non era da ritenersi necessaria in una società democratica, dal momento
che la protezione dei dati sanitari, era di fondamentale importanza per il godimento del diritto
al rispetto della vita privata e professionale, in particolare per quanto riguarda le informazio-
ni sulle infezioni da HIV, data la stigmatizzazione di questa condizione in numerose società.
Inoltre, la Corte ha ritenuto che vi fosse stata una violazione dell’articolo 8 della Convenzione,
152 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
perché la divulgazione dell’identità della ricorrente e dell’infezione da HIV, nel testo della sen-
tenza della Corte d’appello finlandese messo a disposizione della stampa, non era supportata da
alcuna ragione convincente e la pubblicazione delle informazioni in questione aveva dato luogo
ad una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare. La Corte ha osservato
in particolare che il rispetto della riservatezza dei dati sanitari è un principio fondamentale nei
sistemi giuridici di tutte le parti contraenti della Convenzione, ed è fondamentale non solo per
rispettare il senso della privacy di un paziente, ma anche per preservare la sua fiducia nella pro-
fessione medica e nei servizi sanitari in generale (96). Il diritto nazionale deve pertanto offrire
adeguate garanzie, per impedire qualsiasi comunicazione o divulgazione di dati sanitari perso-
nali che possano essere incompatibili con le garanzie di cui all’articolo 8 della Convenzione,
richiamando tassativamente a tale proposito: mutatis mutandis, gli articoli 3 comma 2, 5, 6 e 9
della Convenzione n. 108 del 1981 (par. 95-95). Cfr. sulla riservatezza dei dati sanitari vedere:
C. EDU/ECtHR, Szuluk c. Regno Unito, n. 36936/05, 2 giugno 2009, par. 55; C. EDU/ECtHR,
M.S. c. Svezia, del 27.08.1997, par. 36-44.
Riguardo l’entità (irrisoria) del risarcimento dei danni a seguito della pubblicazione
in prima pagina, da parte di uno dei più importanti quotidiani lituani, della notizia di essere
gravemente affetta da AIDS, peraltro riconosciuta priva di interesse pubblico, e le cui conse-
guenze apparivano aggravate dal fatto che la ricorrente viveva in un piccolo villaggio e che
i medici avevano confermato ai giornalisti la veridicità della notizia, si veda la sentenza: C.
EDU/ECtHR, Biriuk c. Lituania, del 25.11.2008.
10 Il diritto all’oblio
Il diritto all’oblio si inquadra nel più vasto diritto dell’individuo alla conservazione
della propria immagine sociale. Invero, l’identità di una persona non è solo qualcosa di insito
nella stessa, ma il risultato della rappresentazione che la società ne fa. È per questa ragione
che il nuovo Regolamento 679/2016 UE postula il diritto alla cancellazione dei propri dati
personali – senza giustificato ritardo – e il diritto alla rettifica, anche quando tali dati siano
stati legittimamente pubblicati all’epoca dei fatti, ma non più attuali. Le anteriori disposizioni
normative non prevedevano un diritto generale all’oblio, ed era desunto solo in via giurispru-
denziale. Con il Regolamento questo diritto, per la prima volta, viene sancito tassativamente
all’art. 17, con la primaria caratteristica di essere un diritto autonomo.
Con la sentenza C. Giust. UE/ECJ, Google Spain SL e Google Inc. c. Agencia Españo-
la de Protección de Datos (AEPD) e Mario Costeja González, C-131/2012, del 13.05.2014,
avente ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Audiencia Nacio-
nal, la Corte di Giustizia ha aperto la strada ad un vera rivoluzione in materia di protezione
dei dati personali, incidendo sia sul piano delle responsabilità derivate dal loro trattamento
automatizzato, sia nell’attuazione del diritto all’oblio in due casi: a) informazioni ormai ob-
solete e b) quando non vi è alcun interesse per la collettività.
Il ricorrente aveva verificato che, digitando il proprio nome sul motore di ricerca Go-
ogle, tra i risultati compariva un link che rinviava a due pagine del sito web del quotidiano
La Vanguardia, sulle quali figurava l’abbinamento del suo nome relativo alla vendita all’asta
di una sua proprietà, a seguito del pignoramento effettuato per la riscossione di crediti previ-
denziali. Pertanto, presentava reclamo all’AEPD (Agencia Española de Proteccion de Datos)
contro La Vanguardia Ediciones SL oltreché contro Google Inc e Google Spain SL. Nel reclamo
richiedeva, nei confronti del primo, di sopprimere o modificare le suddette pagine affinché i
suoi dati non vi comparissero più. Dall’altro lato, chiedeva fosse ordinato a Google Spain o a
Google Inc. di rimuovere i suoi dati personali in modo che cessassero di comparire tra i risultati
Diritto alla protezione dei dati personali 153
di ricerca e non figurassero più nei link di La Vanguardia. In particolare, il richiedente afferma-
va che il pignoramento effettuato nei suoi confronti, si era concluso da svariati anni e lo stesso
era ormai privo di qualsiasi rilevanza. La Corte di Giustizia ha innanzitutto chiarito che i motori
di ricerca su Internet e i risultati di ricerca che forniscono dati personali possono stabilire un
profilo dettagliato di una persona. In una società sempre più digitalizzata, il requisito dell’esat-
tezza dei dati e il fatto che la loro pubblicazione non debba andare oltre quanto necessario, sono
fondamentali per garantire un livello elevato di protezione dei dati delle persone.
In primo luogo, la Corte ha precisato che il gestore di un motore di ricerca deve essere
considerato il «responsabile» di tale trattamento in quanto svolge delle attività che sono qualifi-
cate in modo esplicito e incondizionato come «trattamento di dati personali» dall’art. 2, lett. b),
della direttiva (par. 27-33, 45). Difatti «esplorando Internet in modo automatizzato, costante e
sistematico alla ricerca delle informazioni ivi pubblicate, il gestore di un motore di ricerca «racco-
glie» dati siffatti, che egli «estrae», «registra» e «organizza» successivamente nell’ambito dei suoi
programmi di indicizzazione, «conserva» nei suoi server e, eventualmente, «comunica» e «mette
a disposizione dei propri utenti sotto forma di elenchi dei risultati delle loro ricerche» (par. 28)
La Corte rileva in proposito che, nella misura in cui l’attività di un motore di ricerca
si aggiunge a quella degli editori di siti web e può incidere significativamente sui diritti fon-
damentali alla vita privata e alla protezione dei dati personali, il gestore del motore di ricerca
«deve assicurare, nell’ambito delle sue responsabilità, delle sue competenze e delle sue pos-
sibilità, che tale trattamento soddisfi le prescrizioni della direttiva». Soltanto in tal modo le
garanzie previste dalla direttiva potranno «sviluppare pienamente i loro effetti» e potrà essere
effettivamente realizzata una tutela efficace e completa delle persone interessate (par. 88, 98).
Quanto all’ambito di applicazione territoriale della direttiva, la Corte osserva che Google
Spain costituisce una filiale di Google Inc. nel territorio spagnolo e, pertanto, uno «stabilimento»
ai sensi della direttiva. La Corte respinge l’argomento secondo cui il trattamento di dati personali
da parte di Google Search non viene effettuato nel contesto delle attività di tale stabilimento in
Spagna. La Corte considera al riguardo che, quando dati siffatti vengono trattati per le esigenze
di un motore di ricerca gestito da un’impresa che, sebbene situata in uno Stato terzo, dispone di
uno stabilimento in uno Stato membro, il trattamento viene effettuato «nel contesto delle attività»
di tale stabilimento, ai sensi della direttiva, qualora quest’ultimo sia destinato ad assicurare, nello
Stato membro in questione, la promozione e la vendita degli spazi pubblicitari proposti sul motore
di ricerca, al fine di rendere redditizio il servizio offerto da quest’ultimo (par. 55)
Per quanto riguarda l’estensione della responsabilità del gestore del motore di ricerca,
la Corte stabilisce che «il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elen-
co di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona,
dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa
persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o si-
multaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando
la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita».
Infine, nell’ipotesi in cui si constati, in seguito a una domanda dell’interessato ai sensi
dell’articolo 12, lettera b), della direttiva 95/46/CE, che l’inclusione nell’elenco di risultati
(che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome) dei link verso pagine
web, legittimamente pubblicate da terzi e contenenti informazioni veritiere relative alla sua
persona, è, allo stato attuale, incompatibile con il citato articolo 6, paragrafo 1, lettere da c) a
e), le informazioni e i link devono essere cancellati (par. 94).
Con sentenza C. Giust. UE/ECJ, Google LLC, succeduta alla Google Inc. c. Commis-
sion nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), C-507/17, del 24.09.2019, la Corte di
Giustizia si pronuncia sulla domanda pregiudiziale che il Conseil d’État le ha sottoposto, ri-
154 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
guardante varie questioni pregiudiziali al fine di stabilire se le norme del diritto dell’Unione,
relative alla protezione dei dati personali, debbano essere interpretate nel senso che, quando
il gestore di un motore di ricerca accoglie una domanda di deindicizzazione «è tenuto ad ef-
fettuare quest’ultima su tutte le versioni del suo motore di ricerca» o se, al contrario, è tenuto
ad effettuarla sulle versioni del suddetto motore corrispondenti a tutti gli Stati membri, oppu-
re solo su quella corrispondente allo Stato membro in cui ha presentato la domanda (par. 43).
La Corte effettua un tassativo richiamo alla sentenza Google Spain, con cui ribadisce
l’obbligo in capo al gestore di un motore di ricerca di sopprimere dall’elenco di risultati che
appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso
pagine Internet pubblicate da terzi, e contenenti informazioni relative a questa persona (par.
44). Inoltre, stabilisce che secondo la normativa vigente «il gestore di un motore di ricerca,
quando accoglie una domanda di deindicizzazione (…) è tenuto ad effettuarla (…) non in tut-
te le versioni del suo motore di ricerca, ma nelle versioni di tale motore corrispondenti a tutti
gli Stati membri» e, per di più, è tenuto ad adottare misure sufficientemente efficaci per ga-
rantire una tutela effettiva dei diritti fondamentali della persona interessata (par. 70). Cfr. C.
Giust. UE/ECJ, GC e altri c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL),
C-136/17, del 24.09.2019, sul bilanciamento tra i diritti fondamentali del richiedente di dein-
dicizzazione e quelli degli utenti di Internet potenzialmente interessati a tali informazioni.
Nella sentenza C. EDU/ECtHR, ML e WW c. Germania, del 28.06.2018, i ricorrenti,
due cittadini tedeschi, lamentavano la violazione dell’art. 8 della Convenzione, perché il giu-
dice nazionale non aveva accolto la loro richiesta di rendere anonimi i reportage rinvenibili
negli archivi on-line di tre testate giornalistiche (par. 68-74), riguardanti un processo penale
al termine del quale erano stati condannati all’ergastolo per l’omicidio di un attore molto
popolare in Germania, avvenuto nel 1991. La Corte EDU, dopo un’accurata analisi degli
interessi confliggenti e l’esplicito richiamo della sentenza della Corte di Giustizia Google
Spain (par. 59-62), ha considerato che il bilanciamento tra la legittima esigenza di tutela dei
dati personali (diritto all’oblio) e la libertà di informazione nell’era digitale (par. 93-96) deve
essere rimesso all’apprezzamento dei giudici nazionali (par. 116), i quali devono tenere conto
dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte EDU (par. 95) e del ruolo fondamentale
svolto dai giornalisti nei confronti dell’opinione pubblica. Afferma inoltre la Corte di Stra-
sburgo che gli archivi on-line di giornali e radio sono un bene da proteggere, perché garan-
tiscono il diritto della collettività a ricevere notizie di interesse generale, che non è attenuato
dal passare del tempo. Di conseguenza, è giusto far prevalere la diffusione di informazioni su
procedimenti penali, anche a distanza di anni, rispetto al diritto all’oblio.
il diritto alla privacy è garantito solo se al titolare dei dati è accordata nello Stato terzo una pro-
tezione sostanzialmente equivalente a quella del Paese di origine, luogo di raccolta dei suoi dati
personali (par. 72). Affermava la Corte che, dall’analisi della decisione 2000/520/CE si evince
che essa rende «possibili ingerenze fondate su esigenze connesse alla sicurezza nazionale e
all’interesse pubblico o alla legislazione interna degli Stati Uniti, nei diritti fondamentali delle
persone i cui dati personali sono o potrebbero essere trasferiti dall’Unione verso gli Stati Uniti»
(par. 87). Invero, le autorità pubbliche degli Stati Uniti potevano, in maniera generalizzata,
trattare i dati provenienti dall’UE senza dover sottostare a limiti predisposti, ingerendo così
nei diritti fondamentali tutelati dagli artt. 7 e 8 della Carta di Nizza, in maniera sproporzionata
e non limitata a quanto strettamente necessario, senza peraltro assicurare un adeguato accesso
a rimedi giurisdizionali (95) al fine di accedere ai dati personali che lo riguardano, oppure di
ottenere la rettifica o la soppressione degli stessi (par. 94, 107).
La sentenza C. Giust. UE/ECJ, Data Protection Commissioner c. Facebook Ireland Lts,
Maximilian Schrems, C-311/18, del 16.07.2020, meglio conosciuta come Schrems II, affronta
di nuovo il regime di trasferimento dei dati tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America, e
dichiara l’invalidità della decisione n. 1250 del 2016 c.d. Privacy Shield, adottata dalla Com-
missione europea, in seguito alla decadenza dell’accordo Safe Harbor e sulla base del mecca-
nismo previsto e disciplinato dall’art. 45 del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati.
Con la domanda pregiudiziale formulata dalla High Court dell’Irlanda, si interrogava la
Corte sulla validità della decisione 2010/87/UE della Commissione del 5.02.2010 «relativa alle
clausole contrattuali tipo per il trasferimento di dati personali a incaricati del trattamento stabili-
ti in paesi terzi»; sull’interpretazione e la validità della decisione 2016/1250 della Commissione
del 12.07.2016 «sull’adeguatezza della protezione offerta dal regime dello scudo UE-USA per
la privacy», c.d. Privacy Shield. La causa principale, promossa dal sig. Schrems, il quale si era
rivolto al Commissario per la protezione dei dati irlandese, chiedeva di sospendere o vietare il
trasferimento dei suoi dati personali effettuato da Facebook Ireland ltd. verso server apparte-
nenti a Facebook Inc., situati nel territorio degli Stati Uniti. La Corte riconosce che «le clauso-
le contrattuali tipo riportate in allegato [alla decisione UE 2016/1250] costituiscono garanzie
sufficienti per la tutela della vita privata e dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone».
Infatti, esse prevedono sia la sospensione che il divieto di trasferimento in caso di violazio-
ne delle clausole stesse. Tuttavia, nello specifico, afferma che l’ottemperanza ai principi dello
«scudo per la privacy» (Privacy Shield) può subire limitazioni a causa di «esigenze di sicurezza
nazionale, interesse pubblico o amministrazione della giustizia». In tali circostanze «le limita-
zioni alla protezione dei dati personali, che derivano dalla normativa interna degli Stati Uniti in
materia di accesso e utilizzo, da parte delle autorità pubbliche statunitensi, di tali dati trasferiti
dall’Unione verso gli Stati Uniti e che la Commissione ha valutato nella decisione “scudo per
la privacy”, non sono inquadrate in modo da corrispondere a requisiti sostanzialmente equiva-
lenti a quelli richiesti, nel diritto dell’Unione, dall’articolo 52, paragrafo 1, seconda frase, della
Carta» (par. 178-185). D’altro canto, la Corte ha verificato anche la mancanza di un «effettivo
controllo indipendente della protezione dei dati» (par. 188). Invero agli interessati dovrebbero
essere riconosciuti diritti effettivi e azionabili e «un mezzo di ricorso effettivo in sede ammi-
nistrativa e giudiziale», assente nella decisione Privacy Shield» (par. 188). La Corte conclude
dichiarando che la decisione di esecuzione «scudo per la privacy» è invalida (par. 201).
La sentenza della C. Giust. UE/ECJ, Digital Rights Ireland Ltd. e Kärntner Landesre-
gierung e a., dell’8/04/2014, c.d. «sentenza Digital Rights», ha origine da due diverse domande
di pronuncia pregiudiziali riunite (C-293/12 e C-594/12), presentate rispettivamente dalla High
Court (Irlanda) e dal Verfassungsgerichtshof (Austria). Le domande vertono sulla validità della
direttiva 2006/24/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15.03.2006 (c.d. direttiva
156 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
«Frattini» o «data retention»), riguardante gli obblighi, per i fornitori di servizi di comunica-
zione elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di comunicazione, relativi alla
conservazione di determinati dati da essi generati o trattati (dati relativi al traffico, all’ubica-
zione delle persone, i dati connessi necessari per identificare l’abbonato o l’utente registrato),
allo scopo di garantirne la disponibilità a fini di indagine, accertamento e perseguimento di reati
gravi, quali definiti da ciascuno Stato membro nella propria legislazione nazionale.
La Corte di giustizia dichiarava la direttiva 2006/24/CE invalida (par. 71), rilevando
che data l’estrema diffusione dei mezzi di comunicazione elettronica, essa interferisce sui «di-
ritti fondamentali della quasi totalità della popolazione europea» (par. 56); riguarda «qualsiasi
persona e qualsiasi mezzo di comunicazione elettronica nonché l’insieme dei dati relativi al
traffico senza alcuna distinzione, limitazione o eccezione a seconda dell’obiettivo di lotta con-
tro i reati gravi» (par. 57); non prevede «alcun criterio oggettivo né le condizioni sostanziali o
procedurali che permettano di delimitare l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati
e il loro uso ulteriore» (par. 60); impone un periodo di conservazione dei dati «non inferiore a
sei mesi e non superiore a due anni dalla data della comunicazione» (par. 16), senza che venga
effettuata alcuna distinzione tra le categorie di dati a seconda della loro eventuale utilità ai fini
dell’obiettivo perseguito o a seconda delle persone interessate (par. 63). Inoltre, secondo la
Corte, sebbene l’accesso e la conservazione di tali dati possono essere giustificati a determinate
condizioni e in ragione di un obiettivo d’interesse generale, la direttiva avrebbe ecceduto i limiti
imposti dal principio di stretta proporzionalità, perché «questi dati, presi nel loro complesso,
possono permettere di trarre conclusioni molto precise riguardo alla vita privata delle persone
i cui dati sono stati conservati, come le abitudini quotidiane, i luoghi di soggiorno permanente
o temporaneo, gli spostamenti giornalieri e non, le attività svolte, le relazioni sociali di queste
persone e gli ambienti sociali da esse frequentati» (par. 27). Infine, la direttiva non garantisce
pienamente il controllo, esplicitamente richiesto dall’articolo 8, comma 3, della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, da parte di un’autorità indipendente. Conseguentemente la
Corte di Lussemburgo ha dichiarato la direttiva invalida (par. 73).
Con la pronuncia C. Giust. UE/ECJ, riguardante le cause riunite C-203/15 e C-698/15 del
21.12.2016 (c.d. Tele2 Sverige), sono state decise le questioni pregiudiziali sollevate in ambito
di due controversie, la prima ha visto Tele2 Sverige AB contrapporsi alla Post- och telestyrelsen
(autorità svedese di sorveglianza delle poste e delle telecomunicazioni), in merito ad un’ingiun-
zione con cui quest’ultima aveva ordinato a Tele2 Sverige AB di procedere alla conservazione dei
dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione dei suoi abbonati ed utenti iscritti (causa
C-203/15). La seconda, oppone i sigg. Tom Watson, Peter Brice e Geoffrey Lewis al Secretary of
State for the Home Department, in merito alla conformità al diritto dell’Unione dell’articolo 1 del
Data Retention and Investigatory Powers Act 2014, ovvero la legge sulla conservazione dei dati e
sui poteri di indagine (causa C-698/15). I giudici di rinvio chiedevano se «l’articolo 15, paragrafo
1, della direttiva 2002/58, letto alla luce degli articoli 7 e 8 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1,
della Carta, dovesse essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, la qua-
le disciplini la protezione e la sicurezza dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione,
e segnatamente l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati, senza limitare tale
accesso alle sole finalità di lotta contro la criminalità grave, senza sottoporre tale accesso ad un
controllo preventivo da parte di un giudice o di un’autorità amministrativa indipendente, e senza
esigere che i dati di cui trattasi siano conservati nel territorio dell’Unione» (par. 114, 125).
Al quesito formulato, la Corte risponde affermativamente, specificando che le misure
nazionali in questione rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva. La Corte constata
anche che, sebbene la citata direttiva consente agli Stati membri di limitare «la portata dell’ob-
bligo di principio di garantire la riservatezza delle comunicazioni e dei dati relativi al traffico
Diritto alla protezione dei dati personali 157
a queste correlati», tale limitazione deve essere interpretata, conformemente alla consolidata
giurisprudenza della Corte [sentenza Digital Rights Ireland e altri., par. 26-70], in «maniera
restrittiva» e giustificata dai motivi enunciati da tale norma, ovvero ogniqualvolta costituisca
«una misura necessaria, opportuna e proporzionata (par. 96) all’interno di una società demo-
cratica per la salvaguardia della sicurezza nazionale (cioè della sicurezza dello Stato), della
difesa, della sicurezza pubblica, e la prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento dei
reati, ovvero dell’uso non autorizzato del sistema di comunicazione elettronica» (par. 89-90).
2, del regolamento 2015/2120, che l’articolo 3, paragrafo 3, fermo restando, conclude la Corte,
che le autorità e i giudici nazionali competenti possono direttamente esaminarli (par. 53-54).
Sezione 1
Premessa
Olmstead v. United States, 277 U.S. 438 (1928)
Katz v. United States, 389 U.S. 347 (1967)
C. Giust. UE/ECJ, Volker und Markus Schecke GbR e Hartmut Eifert c. Land Hessen, C-92/09 e C-93/09 del
9.11.2010
Sezione 2
La vita Privata e i dati Personali
C. EDU/ECtHR, Copland c. Regno Unito, del 3.04.2007
C. EDU/ECtHR, Amann c. Svizzera del 16.02.2000
C. EDU/ECtHR, Kopp c. Svizzera, del 25.03.1998
C. EDU/ECtHR, Leander c. Svezia, del 26.03.1987
C. EDU/ECtHR, Antović e Mirković c. Montenegro, del 28.11.2017
C. Giust. UE/ECJ, Deutsche Post AG c. Hauptzollamt Köln, C 496/17 del 16.01.2019
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, Buturugă c. Romania, del 11.02.2020
C. EDU/ECtHR, Bernh Larsen Holding AS e a. c. Norvegia, del 14.03.2013.
C. EDU/ECtHR, P.G. e J.H. c. Regno Unito, del 25.09.2001
C. Giust. UE/ECJ, Unabhängiges Landeszentrum für Datenschutz Schleswig-Holstein c. Wirtschaftsakademie
Schleswig-Holstein GmbH, C‑210/17, del 5.06.2018
C. Giust. UE/ECJ, Valsts policijas Rīgas reģiona pārvaldes Kārtības policijas pārvalde c. Rīgas pašvaldības SIA
«Rīgas satiksme», C-13/16, del 4.04.2017
Sezione 3
Il trattamento dei dati personali e il diritto di accesso
C. EDU/ECtHR, Bogomolova c. Russia, del 20.06.2017
C. EDU/ECtHR, Magyar Helsinki Bizottság c. Ungheria, dell’8.11.2016
C. EDU/ECtHR, Godelli c. Italia, del 25.09.2012
C. EDU/ECtHR, K.H. e altri c. Slovacchia, del 28.04.2009
C. EDU/ECtHR, K.U. c. Finlandia, del 2.12.2008
C. EDU/ECtHR, Odièvre c. Francia, del 13.02.2003
C. EDU/ECtHR, Mikulić c. Croazia, del 7.02.2002
C. EDU/ECtHR, Gaskin c. Regno Unito, del 7.07.1989
C. EDU/ECtHR, Leander c. Svezia, del 26.03.1987
C. EDU/ECtHR, X e Y c. Paesi Bassi, del 26.03.1985
C. EDU/ECtHR, Airey c. Irlanda, del 9.10.1979
C. Giust. UE/ECJ, Constantin Film Verleih GmbH c, Google Inc. e YouTube LLC, C-264/19, 9.07.2020
C. Giust. UE/ECJ, Peter Nowak c. Data Protection Commissioner, C-434/16, del 20.12.2017
C. Giust. UE/ECJ, Volker und Markus Schecke GbR e Hartmut Eifert c. Land Hessen, C-92/09 e C-93/09 del
9.11.2010
C. Giust. UE/ECJ, College van burgemeester en wethouders van Rotterdam c. M. E. E. Rijkeboer, C-553/07, del
7.05.2009
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, Muhammad e Muhammad c. Romania, del 15.10.2020
C. EDU/ECtHR, Gaughran c. Regno Unito, del 13.02.2020
C. EDU/ECtHR, Bogomolova c. Russia, del 20.06.2017
C. EDU/ECtHR, Coudec e Hachette Filipacchi Associés c. Francia, del 10.11.2015
C. EDU/ECtHR, M.K. c. Francia, del 18.04.2013
C. EDU/ECtHR, Sinan Işık c. Turchia, del 2.02.2010
C. EDU/ECtHR, Vereinigung bildender Künstler c. Austria, del 25.01.2007
C. EDU/ECtHR, Segerstedt-Wiberg e altri c. Svezia, del 6.06.2006
Sezione 4
Le limitazioni al diritto alla protezione dei dati personali e l’autorità indipendente
C. EDU/ECtHR, Amann c. Svizzera, del 16.02.2000
Diritto alla protezione dei dati personali 159
Sezione 5
Le immagini
C. EDU/ECtHR, Von Hannover c. Germania (n. 2) della G.C. del 7.02.2012
C. EDU/ECtHR, Axel Springer AG c. Germania, del 7.02.2012
C. EDU/ECtHR, Flinkkilä e altri c. Finlandia, del 6.04.2010
C. EDU/ECtHR, Sciacca c. Italia, del 11.01.2005
C. EDU/ECtHR, Von Hannover c. Germania (n. 1) del 24.06.2004
C. EDU/ECtHR, Verlagsgruppe News GmbH e Bobi c. Austria, del 4.12.2012
C. EDU/ECtHR, Mosley c. Regno Unito, del 10.05.2011
C. EDU/ECtHR, Peck c. Regno Unito, del 28.01.2003
C. Giust. UE/ECJ, Productores de Música de España (Promusicae) c. Telefónica de España SAU, C-275/06
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, Dupate c. Latvia, del 19.11.2020
C. EDU/ECtHR, Beizaras e Levickas c. Lituania, del 14.01.2020.
C. EDU/ECtHR, Verlagsgruppe News GmbH e Bobi c. Austria, del 4.12.2012
C. Giust. UE/ECJ, Sergejs Buivids c. Datu valsts inspekcija, C-345/17, del 11.12.2014
C. Giust. UE/ECJ, Productores de Música de España (Promusicae) c. Telefónica de España SAU, C-275/06, del
29.01.2008
Sezione 6
Le intercettazioni
C. EDU/ECtHR, Akhlyustin c. Russia, del 7.11.2017
C. EDU/ECtHR, Zakharov c. Russia, del 4.12.2015
C. EDU/ECtHR, Allan c. Regno Unito, del 5.11.2012
C. EDU/ECtHR, Taylor-Sabori c. Regno Unito, del 22.10.2002
C. EDU/ECtHR, Khan c. Regno Unito, del 12.05.2000
C. EDU/ECtHR, Rotaru c. Romania, del 4.05.2000
C. EDU/ECtHR, Malone c. Regno Unito, del 2.08.1984
C. EDU/ECtHR, Klass e altri c. Germania, del 6.09.1978
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, Klaus Müller c. Germania, del 19.11.2020
C. EDU/ECtHR, Big Brother Watch e altri c. Regno Unito, del 13.09.2018
C. EDU/ECtHR, Libert c. Francia, del 22.02.2018
C. EDU/ECtHR, Figueiredo Teixeira c. Andorra, dell’8.11.2016
C. EDU/ECtHR, Pruteanu c. Romania, del 3.02.2015
C. EDU/ECtHR, Khan c. Regno Unito, del 12.05.2000
Sezione 7
La sorveglianza
C. EDU/ECtHR, López Ribalda e altri c. Spagna, del 17.10.2019
C. EDU/ECtHR, Ben Faiza c. Francia, dell’8.02.2018
C. EDU/ECtHR, Bărbulescu c. Romania, del 5.09.2017
C. EDU/ECtHR, Szabo e Vissy c. Ungheria, del 12.01.2016
C. EDU/ECtHR, Roman Zakharov c. Russia, del 4.12.2015
C. EDU/ECtHR, Köpke c. Germania, del 5.10.2010
160 D i a n a M a r i a C a s t a ñ o Va r g a s
Sezione 8
I dati finanziari
C. EDU/ECtHR, G.S.B. c. Svizzera, del 22.12.2015
C. EDU/ECtHR, M.N. e altri c. San Marino, del 07.07.2015
C. EDU/ECtHR, Valentino Acatrinei c. Romania, del 25.06.2013
C. EDU/ECtHR, Michaud c. Francia, del 6.12.2012
C. EDU/ECtHR, Lambert c. Francia, del 24.08.1998
C. EDU/ECtHR, Halford c. Regno Unito, del 25.06.1997
C. EDU/ECtHR, Niemietz c. Germania, del 16.12.1992
C. EDU/ECtHR, Brito Ferrinho Bexiga Villa-Nova c. Portugal, del 1.12.2015
C. EDU/ECtHR, Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy c. Finlandia, del 27.06.2017
C. Giust. UE/ECJ, Tietosuojavaltuutettu c. Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy, C-73/07, del 16.12.2008
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, G.S.B. c. Svizzera, del 22.12.2015
C. EDU/ECtHR, Brito Ferrinho Bexiga Villa-Nova c. Portugal, del 1.12.2015
C. EDU/ECtHR, Valentino Acatrinei c. Romania, del 25.06.2013
C. Giust. UE/ECJ, Safe Interenvíos SA c. Liberbank SA e altri, C-235/14, del 10.03.2016
C. Giust. UE/ECJ, Verein für Konsumenteninformation c. Amazon EU Sàrl, C-191/15, del 28.07.2016
Sezione 9
I dati sanitari
C. EDU/ECtHR, Szuluk c. Regno Unito, n. 36936/05, del 2.6.2009
C. EDU/ECtHR, Biriuk c. Lituania, del 25.11.2008
C. EDU/ECtHR, M.S. c. Svezia, del 27.08.1997
C. EDU/ECtHR, Z. c. Finlandia, del 25.02.1997
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, L.H. c. Lettonia, del 29.04.2014
C. EDU/ECtHR, Avilkina e altri c. Russia, del 6.06.2013
C. EDU/ECtHR, Biriuk c. Lituania, del 25.11.2008
C. EDU/ECtHR, I c. Finlandia, del 17.07.2008
C. EDU/ECtHR, L.L. c. Francia, del 10.10.2006
Sezione 10
Il diritto all’oblio
C. EDU/ECtHR, ML e WW c. Germania, del 28.06.2018
C. Giust. UE/ECJ, Google Spain SL e Google Inc. c. Agencia Española de Protección de Datos (AEPD) e Mario
Costeja González, C-131/2012, del 13.05.2014
C. Giust. UE/ECJ, Google LLC, succeduta alla Google Inc. c. Commission nationale de l’informatique et des liber-
tés (CNIL), C-507/17, del 24.09.2019
C. Giust. UE/ECJ, GC e altri c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), C-136/17, del
24.09.2019
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, M.L. e W.W. c. Germania, del 28.06.2018
C. EDU/ECtHR, Fuchsmann c. Germania, del 19.10.2017
C. EDU/ECtHR, Segerstedt-Wiberg e altri c. Svezia, del 6.06.2006
Diritto alla protezione dei dati personali 161
Sezione 11
La conservazione e il trasferimento transfrontaliero dei dati verso Paesi terzi
C. Giust. UE/ECJ, Data Protection Commissioner c. Facebook Ireland Lts, Maximilian Schrems, C-311/18, del
16.07.2020
C. Giust. UE/ECJ, Tele2 Sverige AB c. Post- och telestyrelsen e Secretary of State for the Home Department c. Tom
Watson et altri, cause riunite C-203/15 e C-698/15 del 21.12.2016 (c.d. Tele2 Sverige)
C. Giust. UE/ECJ, Maximillian Schrems c. Data Protection Commissioner, C-362/14, del 6.10.2015 (c.d. Schrems I)
C. Giust. UE/ECJ, Digital Rights Ireland Ltd. e Kärntner Landesregierung e a., dell’8/04/2014
Ulteriori riferimenti
C. EDU/ECtHR, P.N. c. Germania, del 11.06.2020
C. EDU/ECtHR, Breyer c. Germania, del 30.01.2020
C. EDU/ECtHR, Centrum För Rättvisa c. Svezia, del 19.06.2018
C. Giust. UE/ECJ, Investigatory Powers Tribunal – London, C-623/17 del 6.10.2020
Sezione 12
La neutralità e il diritto di accesso a Internet
C. Giust. UE/ECJ, Telenor Magyarország Zrt. C. Nemzeti Média- és Hírközlési Hatóság Elnöke (cause riunite),
C-807/18 e C-39/19, del 15/09/2020
valori tradizionali riconosciuti dalla comunità» (art. 18, comma 2), oltre ad avere il dovere
di «provvedere alla eliminazione di qualsiasi discriminazione contro la donna e assicurare
la protezione dei diritti della donna e del bambino quali stipulati nelle dichiarazioni e nelle
convenzioni internazionali (art. 18, comma 3).
La Carta araba dei diritti dell’uomo, siccome emendata nel 2004, è caratterizzata,
invece, da una forte matrice religiosa, oltre che culturale. Tale documento enfatizza il ruolo
della famiglia quale cellula essenziale della società e ne individua il fondamento nel «ma-
trimonio tra un uomo e una donna» (art. 33, comma 1). Allo Stato, e alla società, compete,
poi, «la protezione della famiglia, il rafforzamento dei vincoli familiari» e «la protezione dei
suoi membri».
quale base della famiglia» (Rees c. Regno Unito, del 17.10.1986, par. 49; Cossey c. Regno
Unito, del 27.09.1990, par. 43). La disposizione in esame «garantisce il diritto fondamentale
dell’uomo e della donna di sposarsi e fondare una famiglia» comportando, al contempo,
«conseguenze sociali, personali e giuridiche» la cui disciplina è rimessa alla discrezionalità
degli Stati in ragione del «carattere sensibile delle scelte morali in questione». In particolare,
attesa «l’importanza da attribuire […] alla protezione dei minori» e stante «la preoccupa-
zione di promuovere la stabilità della famiglia, la Corte deve fare attenzione a non sostituire
precipitosamente il proprio giudizio alle decisioni delle autorità [nazionali, nda] che si trova-
no nella posizione migliore per valutare e soddisfare le esigenze della società» (Theodorou
et Tsotsorou c. Grecia, del 5.09.2019, par. 26; B. et L. c. Regno Unito, del 13.09.2005, par.
36 – Jaremowicz c. Polonia, del 5.01.2010, parr. 48-50).
Il matrimonio, pertanto, è un istituto che conferisce un particolare “status” a coloro
i quali vi accedono (Taddeucci e McCall c. Italia, del 30.06.2016, par. 72; Burden c. Regno
Unito [GC], del 29.4.2008, par 63; Şerife Yiğit c.Turchia, del 2.11.2010, par. 72; Joanna Sha-
ckell c. Regno Unito, del 27.04.2000) ed è idoneo a configurare l’esistenza di un preciso «in-
teresse pubblico», nonché «diritti ed obbligazioni di natura contrattuale». La sua protezione
«costituisce in via di principio un motivo importante e legittimo per giustificare una disparità
di trattamento tra coppie sposate e coppie non sposate» (Taddeucci e McCall c. Italia, cit.,
par. 72; Burden c. Regno Unito, cit., par. 65; Quintana Zapata c. Spagna, del 4.03.1998).
La formulazione della lettera dell’art. 12 CEDU non contiene alcuna clausola espres-
samente limitativa della discrezionalità statale in sede di disciplina dello stesso. Ciò non si-
gnifica che il diritto al matrimonio abbia valenza assoluta, né che le potestà regolatorie degli
Stati siano prive di limiti. Come recentemente ribadito dai Giudici di Strasburgo, infatti, la li-
bertà degli Stati nel disciplinare il diritto al matrimonio non può spingersi sino a comprimere
eccessivamente tale diritto, finanche vietandolo, e qualunque limite venga introdotto a livello
nazionale non può tradursi in un’ingerenza arbitraria e sproporzionata (Frasik c. Polonia, del
5.01.2010, par. 90; Jaremowicz c. Polonia, cit. par. 49; O’Donoghue et al c. Regno Unito, del
10.12.2010, par. 85) né dovrebbe snaturarne la sostanza, svuotandolo di contento (ex multis:
Theodorou et Tsotsorou c. Grecia, cit., par. 26; V.C. c. Slovacchia, dell’8.11.2011, par. 159;
Schalk e Kopf c. Austria, del 24.06.2010, par. 49; Jaremowicz c. Polonia, cit., parr. 48-50,
Frasik c. Polonia, cit., par. 88; Muñoz Díaz c. Spagna, dell’8.12.2009, par. 78; Parry c. Re-
gno Unito, del 28.11.2006, par. III; Christine Goodwin c. Regno Unito [GC], del 11.07.2002,
par. 29; F. c. Svizzera, del 18.12.1987, par. 32; Rees c. Regno Unito, cit., par. 50).
Al contempo, tuttavia, in ragione della natura pubblicistica del matrimonio e delle
scelte etico-morali che comporta, la Corte europea non può spingersi sino a sostituirsi «alle
autorità che si trovano nella posizione migliore per valutare e rispondere ai bisogni della so-
cietà» (B. et L. c. Regno Unito, cit., par. 36). Sono, quindi, considerate legittime le limitazioni
(non eccessive o arbitrarie) che abbiano natura sia procedurale, sia sostanziale. Possono es-
sere ascritte al primo ordine di limitazioni quelle disposizioni nazionali concernenti il neces-
sario rispetto di particolari forme di pubblicità o di solennità per il matrimonio. Al secondo
ordine di limitazioni, invece, possono essere ascritte le disposizioni inerenti alla capacità dei
nubendi, al consenso o all’esistenza di impedimenti (F. c. Svizzera, cit., par. 32; O’Donoghue
et al c. Regno unito cit., par. 83 – sul punto anche, infra, § 5).
Va inoltre precisato come il diritto al matrimonio includa anche la libertà di non spo-
sarsi (Marckx c. Belgio, del 13.06.1979, par. 67).
In relazione alle connessioni fra art. 12 e art. 8 CEDU, la Corte europea ha ricostruito i
rapporti fra tali disposizioni giungendo a concepire la prima come limitativa degli scopi della
166 Caterina Drigo
seconda, come una «lex specialis per il diritto al matrimonio» (Hämäläinen c. Finlandia
[GC], del 16.07.2014, par. 96).
Peraltro, l’art. 12, anche letto in combinato disposto con gli artt. 8, 14, 2 del primo
Protocollo addizionale alla CEDU o 7 del quinto Protocollo addizionale alla CEDU, non
definisce cosa si intenda per “famiglia”. La CEDU non tutela quindi la famiglia in sè, ma la
vita familiare (art. 8), le relazioni familiari, i legami che derivano dalla famiglia.
Quando viene allegata la violazione sia dell’art. 8, sia dell’art. 12 CEDU, la Corte,
qualora ravvisi che le limitazioni imposte alla vita familiare siano da considerarsi legittime
ex art. 8, comma 2, esclude che ci possa essere una parallela lesione del diritto di cui all’art.
12 (E.L.H. and P.B.H. c. Regno Unito, del 22.10.1997, par. 2; Boso c. Italia, del 5.09.2002,
par. 3.
Inoltre, qualora la Corte riscontri la sussistenza di una violazione dell’art. 8 in punto
di rispetto della vita familiare, la ritiene assorbente rispetto alle censure mosse con riferi-
mento all’art. 12, che, quindi, non vengono nemmeno esaminate nel merito (Lashin c. Rus-
sia, del 22.01.2013, par. 124; V.C. c. Slovacchia, cit., par. 160; Dickson c. Regno Unito, del
4.12.2007, par. 86.).
In sede di esegesi dell’art. 12 la Corte EDU, rifacendosi anche ai lavori preparatori
della Convenzione, per lungo tempo non ha enucleato dalla disposizione due diversi diritti
(il diritto di sposarsi e quello di fondare una famiglia), ma uno solo: il matrimonio come
fondamento della famiglia (Rees c. Regno Unito, cit., par. 49). Successivamente, a partire dal
caso Christine Goodwin c. Regno Unito (cit. supra, par. 98) la Corte EDU, non senza lasciare
alcune ombre interpretative, pare aprire ad una lettura della norma in chiave dualistica, inde-
bolendo il vincolo teleologico fra matrimonio e formazione della famiglia, lasciando spazio,
talvolta, a considerazioni ascrivibili più al soggettivo apprezzamento dei giudici che ad ar-
gomentazioni rigorosamente giuridiche (v. infra, § 5). Le conseguenze di ciò sono piuttosto
rilevanti soprattutto in relazione ai soggetti che possono legittimamente invocare il diritto di
fondare una famiglia ex art. 12 CEDU. Coloro i quali non sono legati da vincolo (formale) di
matrimonio - coppie conviventi, coppie omosessuali, genitori single - non possono invocare
l’applicazione dell’art. 12 e, quindi, il correlativo diritto di fondare una famiglia, dovendo
ricorrere alla base giuridica di cui all’art. 8 CEDU (Marcks c. Belgio, cit., par. 31 e si v. infra,
§ 5).
È opportuno precisare, inoltre, che se il diritto a fondare una famiglia, ex art. 12 CE-
DU, è un precipitato del diritto al matrimonio, quest’ultimo sussiste a prescindere dalla pro-
creazione o dall’intenzione di procreare (Hamer c. Regno Unito, del 13.12.1979, parr. 55 ss.;
Christine Goodwin c. Regno Unito cit., par. 98; I. c. Regno Unito [GC], dell’11.07.2002, par.
78). Il diritto al matrimonio, quindi, non implica il riconoscimento del diritto ad avere dei
figli (per una coppia sposata) o dei nipoti (per i nonni – Šijakova et al. c. the Former Yugoslav
Republic of Macedonia, del 6.03.2003, par. 3).
Peraltro, varie fattispecie peculiari e problematiche, quali quelle concernenti l’uso di
anticoncezionali, la sterilizzazione coatta, la procreazione medicalmente assistita, non sono
valutate dalla Corte EDU ricorrendo al parametro di cui all’art. 12, ma ricorrendo all’art. 8
della Convenzione.
I giudici di Strasburgo, pur avendo aperto ad una lettura evolutiva dell’art. 12, poten-
zialmente inclusiva anche delle unioni omosessuali (Schalk e Kopf c. Austria, cit., parr. 54 ss.
– su cui diffusamente, infra, §5.1), nell’assumere le proprie decisioni tendono (salvo eccezio-
ni) a valorizzare al massimo il margine di apprezzamento degli Stati in sede di disciplina dei
requisiti formali e sostanziali dell’istituto del matrimonio. Conseguentemente, nel valutare
il diverso trattamento riservato alle coppie sposate rispetto a quello di cui possono godere
Il diritto al matrimonio 167
altre formazioni sociali esistenti in uno Stato, la Corte EDU ha considerato molte misure
statali non lesive delle norme convenzionali (ad esempio in materia di trattamento fiscale o
di regime previdenziale) in ragione del fatto che il matrimonio è un istituto caratterizzato da
uno specifico assetto di diritti e doveri (Şerife Yiğit c.Turchia, cit., par. 72). Non sono però
mancati i casi in cui la Corte, al contrario, si è ingerita nel merito delle scelte nazionali con-
dannando gli Stati se non forniscono adeguate giustificazioni per le misure adottate e sotto-
pone le loro scelte ad un rigoroso scrutinio di proporzionalità laddove esse possano condurre
a discriminazioni ritenute indebite (Karner c Austria, del 24.07.2003, par. 41). Un siffatto
modus operandi, tuttavia, apre a possibili critiche, poiché la Corte non si limita ad interpre-
tare l’art. 12 CEDU come norma che delinea le garanzie minime dell’istituto matrimoniale,
ma si intromette nelle scelte di merito degli Stati.
Corte EDU. Se rientra nella discrezionalità degli Stati imporre limitazioni volte ad evitare
matrimoni che abbiano il solo scopo di aggirare le norme che regolano l’ingresso dei migranti
nel Paese, tuttavia, siffatte limitazioni devono soddisfare requisiti di chiarezza ed accessibi-
lità e non possono tradursi in impedimenti eccessivi, arbitrari o nella concreta privazione del
diritto di contrarre matrimonio con persona straniera, pienamente capace, residente all’estero
(O’Donoghue et al c. Regno Unito, cit., par. 87; Frasik c. Polonia, cit., par. 89; Sanders c.
Francia, del 16.10.1996).
Anche qualora un matrimonio di convenienza sia stato, in un secondo momento, an-
nullato sulla base del diritto interno, non è giustificato il precedente ritardo delle autorità nel
procedere alla registrazione dello stesso (ritardo che può determinare la mancata acquisizione
della cittadinanza da parte dello straniero – cittadinanza che in forza della normativa vigente
in alcuni stati può essere mantenuta anche in caso di annullamento del matrimonio). La Corte
constata, inoltre, che «il rifiuto di registrare un matrimonio può avere conseguenze che vanno
al di là delle questioni legate all’immigrazione, influenzando la vita privata o familiare sia del
coniuge cittadino, sia dello straniero» e questo a prescindere dal fatto che quest’ultimo abbia
tempestivamente spostato la residenza nel Paese, non sussistendo alcun obbligo di legge in
tal senso (Dadouch c. Malta, del 20.10.2010, par. 49 – declaratoria di violazione dell’art. 8
CEDU).
In relazione al requisito della libertà di stato, la giurisprudenza della Corte europea
è salda nel riferire il disposto di cui all’art. 12 CEDU alla sola unione monogamica e non al
matrimonio poligamico. Il tema si è proposto con maggior forza negli ultimi decenni atteso
che al momento della redazione della Convenzione l’opzione realmente contemplabile nel
contesto europeo era il matrimonio monogamico.
La Corte ha riconosciuto come «in ogni società che sposa il principio della mono-
gamia sarebbe inconcepibile un matrimonio con una persona che sia già sposata con altra»
(Johnston et al. c. Irlanda, del 18.12.1986, parr. 50-52 – ma si v. anche V.K. c. Croazia, del
27.11.2012, par. 100). Ai sensi della Convenzione, quindi, pare potersi derivare che non sia
la poligamia in sé ad essere vietata, ma che siano legittime le normative statali che la proibi-
scono (Frasik c. Polonia, cit., par. 89).
Parzialmente connessa alla libertà di stato vi è la questione del divieto di contrarre
matrimonio fra consanguinei o persone che sono legate da un qualche rapporto di paren-
tela o affinità. Siffatti divieti sono presenti in moltissimi Stati. La Corte europea si spinge a
sindacarne la conformità a Convenzione qualora rilevi l’irragionevolezza di tali divieti. A tal
proposito, pare opportuno ricostruire il caso B. e L. c. Regno Unito del 13 settembre 2005,
ove la Corte europea è stata chiamata a valutare se impedire ad un uomo di sposare la donna
che era già stata sposata con suo figlio (e da questi aveva divorziato) violasse o meno l’art.
12 della CEDU. I giudici di Strasburgo riconoscono in primo luogo come l’art. 12 rinvii
alla normativa nazionale nell’intento di riservare a questa l’adozione di scelte etico-morali
connesse alla protezione dei figli e alla promozione di un ambiente familiare sano e sicuro,
e premettono che «il proprio giudizio non vuole sostituirsi alle decisioni delle autorità che
sono nella condizione migliore per regolare e rispondere ai bisogni della società» (par. 36).
Tuttavia, nell’esaminare la normativa nazionale, pur riscontrando come essa abbia l’obiettivo
di proteggere «l’integrità della famiglia (prevenendo rivalità sessuali fra genitori e figli)» e di
prevenire «danni ai figli che potrebbero essere influenzati da cambi di relazioni fra gli adulti
attorno ad essi», nel caso di specie non la ritengono adeguata a giustificare la limitazione al
diritto al matrimonio concretamente posta in essere. Quindi, la normativa de qua non può
impedire la relazione esistente fra una coppia di ex suocero ed ex nuora: «non vi è incesto, né
esistono norme penali che criminalizzino ex facto una siffatta relazione…e il divieto di matri-
Il diritto al matrimonio 169
monio non può prevenire alcuna confusione o insicurezza emotiva» per il figlio che la donna
ha avuto con l’ex marito (a sua volta figlio dell’attuale compagno – par. 37-38). La normativa
impugnata viene ascritta alla «tradizione e non pare più a lungo giustificabile» (par. 39) e la
Corte rileva non solo come lo stesso Parlamento inglese stesse esaminando una sua revisione,
ma anche che il divieto non è di natura assoluta, potendo essere superato da un «personal Act
of Parliament», come peraltro avvenuto in altri casi simili (parr. 39-40). Alla luce di ciò la
Corte ha condannato il Regno Unito per violazione dell’art. 12 CEDU.
degli Stati membri del Consiglio d’Europa abbia approvato normative che consentono il ri-
conoscimento giuridico delle unioni omosessuali (nella forma del matrimonio o dell’unione
civile registrata - par. 203), tuttavia analogo consenso non si rinviene in relazione alla regi-
strazione dei matrimoni omosessuali celebrati all’estero (par. 204). Ciò che si deve garantire,
quindi, ai sensi però dell’art. 8 e non dell’art. 12 della CEDU, è il mero riconoscimento giuri-
dico per le coppie dello stesso sesso e non anche il riconoscimento del diritto al matrimonio.
Una fattispecie particolare è quella relativa al diritto al ricongiungimento familiare
per le coppie omosessuali in Paesi che, però, non riconoscono il matrimonio omosessuale. A
tal proposito, pare rilevante il caso Taddeucci e McCall c. Italia del 30 giugno 2016 con cui
la Corte europea ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 14 CEDU in connessione con
l’art. 8, stabilendo che «all’epoca controversa, decidendo di trattare, ai fini del rilascio del
permesso di soggiorno per motivi familiari le coppie omosessuali alla stregua delle coppie
eterosessuali che non avevano regolarizzato la loro situazione, lo Stato ha violato il diritto
dei ricorrenti di non subire alcuna discriminazione fondata sull’orientamento sessuale nel
godimento dei loro diritti rispetto all’art. 8 della Convenzione (par. 98-99).
Con riferimento alla situazione dei transessuali, ancora nel 1990 la Corte europea,
mantenendo le determinazioni assunte già con il caso Rees c. Regno Unito del 1986, affer-
mava che «l’attaccamento alla concezione tradizionale di matrimonio fornisce ragioni giu-
stificative sufficienti per continuare a riferirsi al criterio biologico in sede di determinazione
del sesso di un soggetto» ai fini dell’applicabilità dell’art. 12 CEDU (Cossey c. Regno Unito,
del 27.09.1990, par. 46). Nel caso Cossey, peraltro, la Corte non ha nemmeno riscontrato
la sussistenza di una violazione dell’art. 8 della CEDU, ribadendo come «un’operazione di
modifica del sesso non determina l’acquisizione di tutte le caratteristiche biologiche dell’al-
tro sesso» (par. 40), peraltro rilevando come la mera annotazione nel registro di nascita non
avrebbe comunque rappresentato una soluzione sufficiente o appropriata.
Successivamente, con il caso Sheffield and Horsham c. Regno Unito del 30 luglio
1998, la Corte ha rifiutato di doversi «allontanare dalle decisioni rese nei casi Rees e Cossey»
concludendo che «il transessualismo continua a dare origine a questioni scientifiche, giuridi-
che, morali e sociali, particolarmente complesse, in relazione alle quali manca un approccio
comune da parte degli Stati» (par. 58, ma si v. anche il caso X., Y. and Z. c. Regno Unito, del
22.04.1997).
Una prima significativa apertura si è registrata a partire dal caso Christine Goodwin
c. Regno Unito deciso dalla Grand Chamber l’11 luglio 2002 ove la Corte ha affermato che
non esistono «fattori significativi di interesse pubblico da opporre all’interesse di tale singolo
richiedente nell’ottenere il riconoscimento giuridico della sua riassegnazione di genere» (par.
93), e, con riferimento all’art. 12, nello stabilire la sua violazione, la Corte si è dichiarata
«non persuasa che si possa ancora assumere che i termini di cui all’art. 12 si debbano riferire
ad una determinazione del genere individuata secondo criteri unicamente biologici» (par.
100). In questo contesto, se resta nella discrezionalità degli Stati stabilire le condizioni e le
formalità per il riconoscimento delle unioni (matrimoni) dei transessuali, tuttavia siffatta
discrezionalità non può estendersi sino a «vietare ai transessuali il godimento del diritto al
matrimonio» (par. 103).
Nonostante le aperture di cui al caso Goldwin, anche successivamente al 2002, i tran-
sessuali non hanno goduto di identico trattamento rispetto alle coppie eterosessuali. Ad esem-
pio, la Corte EDU ha ritenuto legittima la normativa secondo cui il cambiamento di sesso di
uno dei due coniugi potesse essere riconosciuto giuridicamente solamente dopo lo sciogli-
mento del precedente matrimonio (e la sua eventuale riconversione in unione civile). Rientra,
cioè, nel margine di apprezzamento di uno Stato rifiutarsi di riconoscere pienamente il nuovo
Il diritto al matrimonio 171
genere in costanza di matrimonio (in origine eterosessuale – cfr. Parry c. Regno Unito, cit.,
nonché R. e F. c. Regno Unito, del 28.11.2006).
Anche la giurisprudenza più recente si limita a ritenere l’art. 8 CEDU (e non l’art.
12) quale norma fondamentale per la tutela delle istanze dei transessuali, poiché imporrebbe
il riconoscimento giuridico del «gender reassignment of transgender persons» individuando
anche obblighi positivi in capo agli Stati (A.P., Garçon and Nicot c. Francia, del 6.04.2017,
par. 97). Non vi è, quindi, un riconoscimento assoluto del diritto al matrimonio per i transes-
suali, restando, questo, nella piena discrezionalità degli Stati (Hämäläinen c. Finlandia, cit.).
sposate (par. 32 – le problematiche inerenti al diritto di visita da parte dei familiari sono trat-
tate dalla Corte esclusivamente con riferimento all’art. 8 CEDU).
Considerazioni ad hoc vanno effettuate in relazione allo status di detenuto e al diritto
di procreare. Come anticipato supra (§ 3), la giurisprudenza corrobora una lettura dell’art.
12 CEDU in chiave tendenzialmente dualistica, dissociando il matrimonio dalla formazione
della famiglia. I giudici di Strasburgo non ritengono di poter imporre agli Stati l’obbligo
positivo di garantire ai detenuti visite finalizzate alla procreazione o a consentire ed agevo-
lare l’inseminazione artificiale. Al contrario, pur approvando le maggiori aperture in essere
in molti Stati, la Corte ha confermato di non ritenere illegittime quelle normative nazionali
che regolamentavano in modo rigido le visite in carcere da parte del coniuge (ad esempio
escludendo che il detenuto potesse essere trasferito in un carcere di sua scelta, vicino alla
famiglia, Hacisuleymanoğlu c. Italia, del 20.10.1994, ma si cfr. con Vinter e altri c. Regno
Unito [GC], del 09.07.2013, parr. 111-116.), vietando le visite finalizzate alla procreazione o
circoscrivendo moltissimo la sessualità intramuraria e l’accesso alle strutture per la procrea-
zione medicalmente assistita (Dickson c. Regno Unito [GC], del 4.12.2007, par. 81; Aliev c.
Ucraina, del 29.04.2003; E.L.H. et al. c. Regno Unito, del 22.10.1997; sull’equiparazione del
convivente stabile al coniuge si veda Petrov c. Bulgaria, del 22.10.2008).
Consiglio di Stato
Cons. di Stato, sent. n. 4899 del 26.10.2015 [intrascrivibilità dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello
stesso sesso]
Conseil constitutionnel, Déc. n. 2016-557 QPC del 29.07.2016 [caratteri e doveri connessi al vincolo matrimoniale
- scioglimento del matrimonio – limiti imponibili dal Legislatore]
Conseil constitutionnel, Déc. n. 2016-739 DC del 17.11.2016 [scioglimento del matrimonio - divorzio]
Nel contesto occidentale la libertà religiosa appare come la prima tra le libertà civili
rivendicate nei confronti del potere politico e quindi, secondo quanto sostenuto in dottrina,
come il primo diritto storico dell’essere umano, giungendo ad arricchirsi, nel tempo, sino a
ricomprendere la libertà di pensiero e di coscienza (su cui infra, par. 4).
ne internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro
famiglie del 1990 (artt. nn. 1, 7, 12, 13); la Dichiarazione sui diritti delle persone apparte-
nenti alle minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche del 1992 (artt. nn. 1, 2, 4).
Con riferimento ai contesti regionali, oltre alle previsioni di cui alla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e alla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (su cui, infra, par. 3), la libertà religiosa è di-
sciplinata e tutelata anche nella Dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo
del 1948 (Cap. 1, art. III e art. XXII) nonché nella Convenzione americana sui diritti umani
del 1969 (art. 1, 12, 13, 22) e dalla Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981
(artt. nn. 2, 8, 12).
punto, ad es. Corte EDU, Spampinato c. Italia, del 29.03.2007; Wasmuth c. Germania, del
17.02.2011, spec. par. 50-64).
Gli articoli 9 CEDU e 10 della Carta che, come anticipato, esprimono il c.d. forum
externum della libertà religiosa, nel tutelare libertà di cambiare religione o credo e la libertà,
da soli o in comunità con altri, e in pubblico o in privato, di manifestare la propria religione
o credo, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti, rappresentano
uno dei pilastri delle moderne società democratiche e pluraliste.
In relazione al forum externum delle libertà in esame, il General Comment n. 22 (cit.
par. 2) specifica che esso «comprende un’ampia gamma di atti», ed in effetti, «il concetto
di culto si estende agli atti rituali e cerimoniali che danno espressione diretta alla credenza,
così come a varie pratiche parte integrante di tali atti, tra cui la costruzione di luoghi di culto,
l’uso di formule e oggetti rituali, l’esposizione di simboli e l’osservanza di vacanze e giorni
di riposo [...]. L’osservanza e la pratica della religione o del credo può includere non solo
atti cerimoniali ma anche usanze come l’osservanza delle norme alimentari, l’uso di abiti o
copricapi distintivi, la partecipazione a rituali associati a determinate fasi della vita, e l’uso
di una particolare lingua abitualmente parlata da un gruppo [...]. La pratica e insegnamento
della religione o del credo include atti che sono parte integrante della condotta da parte di
gruppi religiosi dei loro affari fondamentali, come la libertà di scegliere i loro leader religiosi,
sacerdoti e insegnanti, la libertà di istituire seminari o scuole religiose e la libertà preparare e
distribuire testi o pubblicazioni religiose».
Come anticipato, inoltre, la principale differenza fra il forum internum e il forum
externum della libertà religiosa è che solo il secondo può essere soggetto a limitazioni spe-
cifiche imposte dagli Stati. Sul punto, solo l’art. 9 della CEDU prescrive che la libertà di
manifestare la propria religione o le proprie convinzioni può essere soggetta ad ingerenze
dell’autorità pubblica unicamente se tali ingerenze sono «previste dalla legge» e costituisco-
no misure che «in una società democratica» sono necessarie «alla sicurezza nazionale, alla
pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla preven-
zione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alle protezione dei diritti e delle
libertà altrui (par. 2).
Considerando il contesto dell’Unione europea, il contenuto dell’art. 10 della Carta è
legato anche agli artt. 21 e 22 della stessa. Ai sensi del primo, (art. 21, par. 1), è vietata ogni
discriminazione basata su qualsiasi motivo, in particolare per motivi legati alla religione o ad
un dato credo. Mentre, ai sensi del secondo (art. 22), va rispettata la «diversità culturale, re-
ligiosa e linguistica». In particolare, quest’ultima disposizione protegge non solo la diversità
delle religioni strictu sensu considerata, ma anche i molteplici aspetti della matrice culturale
esistente all’interno della società europea. Le disposizioni dell’art. 21 della Carta vanno co-
ordinate anche con gli artt. 18 TFUE (ex art. 12 TCE), 19 TFUE (ex art. 13 TCE) e con l’art.
14 CEDU, volti a contrastare ogni forma di discriminazione.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha recentemente stabilito che «[i]l divieto
di ogni discriminazione fondata sulla religione o le convinzioni personali riveste caratte-
re imperativo in quanto principio generale del diritto dell’Unione. Sancito all’articolo 21,
paragrafo 1, della Carta, tale divieto è di per sé sufficiente a conferire ai singoli un diritto
invocabile in quanto tale nell’ambito di una controversia che li vede opposti in un settore
disciplinato dal diritto dell’Unione» e, pertanto, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare
qualsiasi contrastante disposizione di diritto interno (C. Giust. UE, V. Egenberger, C-414/16,
del 17.04.2018; sul punto, nel contesto CEDU si v. ex multis, Corte EDU, İzzettin Doğan et
al c. Turchia [GC], del 26.04.2016, par. 160 e 165).
Inoltre, diverse disposizioni dell’UE (per lo più Direttive), tendono a proteggere vari
aspetti legati alle persone religiose (si v. ad esempio, la Direttiva 2000/78/ CE, che contem-
182 Caterina Drigo
pla sia discriminazioni dirette, sia indirette, basate su motivi religiosi) o alle manifestazioni
esteriori del credo religioso (come la Direttiva 93/119/CE in materia di macellazione rituale).
A ciò si aggiunga che la dimensione della sfera religiosa può anche essere considerata
un’espressione del principio della dignità umana, codificato dall’art. 1 della Carta.
Sul versante dell’Unione europea, anche prima dell’entrata in vigore della Carta dei
diritti fondamentali, la libertà religiosa trovava protezione. Come anticipato, infatti, dalla
fine degli anni Sessanta del secolo scorso l’importanza fondamentale della libertà religiosa è
stata riconosciuta (cfr. supra, par. 3.1) e la Corte di Giustizia ha ritenuto che il diritto europeo
derivato dovesse conformarsi ad essa. Così, ad esempio, i Giudici di Lussemburgo hanno
affermato che le istituzioni europee, in sede di effettuazione di concorsi pubblici, dovessero
evitare di fissare date che potessero discriminare individui appartenenti a determinate reli-
gioni, fermo restando, però, l’onere di presentare tempestiva comunicazione da parte delle
persone interessate (C. Giust. UE, Vivien Prais, C-130/75, del 27.10.1976).
Inoltre, sono state pronunciate diverse decisioni relative al giorno di riposo settima-
nale. In particolare, la Corte di Giustizia ha censurato la regola che prevedeva la domenica
come giorno di riposo: ritenendo che questa fosse una decisione da lasciare all’apprezzamen-
to degli Stati membri, in considerazione della loro diversità culturale, etnica e religiosa (C.
Giust. UE, Regno Unito e Irlanda c. Consiglio, C-84/94, del 12.11.1996; ma anche Torfaen
Borough Council, C-145/88, del 23.11.1989).
Francia [GC], del 27.06.2000, par. 73-74; Leyla Şahin, cit., par.78 e 105; Skugar, cit.). Salvo
ipotesi eccezionali (come in Skugar, cit.), o laddove una legge che stabilisce un privilegio o
un’esenzione speciale per i membri di una data comunità religiosa venga messa in discussio-
ne (ad esempio, nel campo del lavoro, come in Corte EDU, Kosteski c. Repubblica Jugoslava
di Macedonia, del 13.03.2006, par. 39), le autorità nazionali non sono giustificate a mettere in
dubbio la sincerità delle credenze e delle loro manifestazioni, cosicché i giudici di Strasburgo
tendono a respingere le eccezioni nazionali in tal senso (si veda, ad esempio, SAS c. Francia
[GC], del 1.07.2014, par. 56 o Vartic c. Romania, n. 2, del 17.12.2013, par. 469).
Infine, si anticipa che l’art. 9 CEDU non tutela ogni azione che sia ispirata o motivata
da uno scopo religioso, né assicura sempre il diritto di comportarsi nella sfera pubblica nei
modi dettati o ispirati dalla propria religione o dalle convinzioni (Corte EDU, Kalaç c. Tur-
chia, del 1.07.1997. Cfr. infra, par. 3.6 e 3.7).
[GC], cit.), fra cui anche l’alevismo (Cumhuriyetçi Eğitim ve Kültür Merkezi Vakfı c. Turchia,
del 2.12.2014; İzzettin Doğan e altri c. Turchia, del 26.04.2016), e l’Ahmadism (Metodiev
et al c. Bulgaria, del 15.06.2017), l’ebraismo (Cha’are Shalom Ve Tsedek c. Francia, del
27.06.2000; Francesco Sessa c. Italia, del 3.04.2012); la religione Sikh (Phull c. Francia,
dell’11.01.2005; Jasvir Singh c. Francia, del 30.06.2009); il Taoismo (Commissione europea
dei diritti dell’uomo, X. c. Regno Unito, del 18.05.1976); la religione Aumista (Association
des Chevaliers du Lotus d’Or c. Francia, del 31.01.2013); il movimento Bhagwan Shree
Rajneesh (conosciuto anche come movimento Osho: Leela Förderkreis e V. et al. c. Germa-
nia, del 6.11.2008; Mockutė c. Lituania, del 27.02.2018); la Chiesa dell’Unificazione del Re-
verendo Sun Myung Moon (Nolan e K. c. Russia, del 12.02.2009; Boychev et al c. Bulgaria,
del 27.01.2011); la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (nota come Mormo-
nismo, Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni c. Regno Unito, del 4.03.2014);
il Movimento Raeliano (F.L. c. Francia, del 3.11.2005); il Neo-Paganesimo (Ásatrúarfélagið
c. Islanda, del 18.09.2012); la religione del “Santo Daime” (Fränklin-Beentjes e CEFLU-Luz
da Floresta c. Paesi Bassi, del 6.05.2014; i Testimoni di Geova (Religionsgemeinschaft der
Zeugen Jehovas et al c. Austria, del 31.07.2008; Jehovah’s Witnesses of Moscow et al. c. Rus-
sia, del 10.06.2010); la chiesa di Scientology (ancorché per lo più implicitamente – Commis-
sione europea dei diritti dell’uomo, X. and Church of Scientology c. Svezia, del 5.05.1979;
Church of Scientology et al. c. Svezia, del 14.07.1980; Scientology Kirche Deutschland e.
V. c. Germania, del 7.04.1997; Corte EDU, Church of Scientology Moscow c. Russia, del
5.04.2007, par. 64).
Fra i credi e le convinzioni filosofiche che hanno trovato riconoscimento da parte della
Corte EDU si possono annoverare: il pacifismo (Arrowsmith c. Regno Unito, cit., par. 69); il
rifiuto a svolgere servizio militare (Bayatyan c. Armenia [GC], del 7.07.2011, su cui anche,
infra, par. 4); il veganesimo e l’opposizione alla manipolazione di prodotti di origine anima-
le o testati su animali (Commissione europea dei diritti dell’uomo, W. c. Regno Unito, del
10.02.1993); l’opposizione a pratiche abortive (Commissione europea dei diritti dell’uomo,
Knudsen c. Norvegia, dell’8.03.1985; Van Schijndel e altri c. Paesi Bassi, del 10.09.1997);
le opinioni di medici che praticano medicine alternative, da intendersi come forma di mani-
festazione della filosofia medica (Commissione europea dei diritti dell’uomo Nyyssönen c.
Finlandia, del 15.01.1998); l’attaccamento al principio di laicità (Lautsi e altri c. Italia [GC],
del 18.03.2011; Hamidović c. Bosnia ed Erzegovina, del 5.12.2017) e l’ateismo (Commis-
sione europea dei diritti dell’uomo, Angeleni c. Svezia, del 3.12.1986). Resta ancora irrisolta
la questione della riferibilità dell’art. 9 CEDU anche alle associazioni massoniche (N.F. c.
Italia, del 2.08.2001), mentre, in relazione ad attività economiche che trovano la propria
ragion d’essere in credi o filosofie, la giurisprudenza appare oscillante (cfr. Commissione
europea dei diritti dell’uomo, Company X. c. Svizzera, del 27.02.1979; Kustannus OY Vapaa
Ajattelija AB et al c. Finlandia, del 15.04.1996; Corte EDU, Cumhuriyetçi Eğitim ve Kültür
Merkezi Vakfı c. Turchia, del 2.12.2014; in relazione a corsi di yoga a carattere non gratuito:
Commissione europea dei diritti dell’uomo, Association Sivananda de Yoga Vedanta c. Fran-
cia, del 16.04.1998).
Ciò che preme ai giudici di Strasburgo è verificare che i diritti di cui all’art. 9 CEDU
non abbiano carattere «teorico o illusorio, ma pratico ed effettivo»: conseguentemente, «il
grado di discrezionalità concesso agli Stati» non può consentire loro «di interpretare la no-
zione di confessione religiosa in modo così restrittivo da privare una forma non tradizionale e
minoritaria di una religione di protezione legale. Tali definizioni limitative hanno un impatto
diretto sull’esercizio del diritto alla libertà di religione e sono suscettibili di limitare l’eserci-
zio di tale diritto negando la natura religiosa di una fede» (Corte EDU, İzzettin Doğan et al c.
186 Caterina Drigo
Turchia [GC], cit., par. 114, nonché Kimlya et al c. Russia, del 1.10.2009, par. 86). Peraltro,
anche secondo il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite (v. General comment n. 22,
cit. supra), queste definizioni non possono essere interpretate a scapito delle forme di reli-
gione non tradizionali (si veda, İzzettin Doğan cit., par. 114 e Magyar Keresztény Mennonita
Egyház et al. c. Ungheria, dell’8.04.2014, par. 88).
Per poter essere ricondotto all’alveo di cui all’art. 9 CEDU un credo personale o una
religione devono denotare «opinioni che raggiungono un certo livello di convincimento, se-
rietà, coesione e importanza» (Corte EDU, Eweida cit., par 81; Bayatyan c. Armenia [GC],
cit., par. 110, Leela Förderkreis e.V. et al. c. Germania, del 6.11.2008, par. 80; Jakóbski c.
Polonia, cit., par. 44). E se ciò si verifica, «il dovere di neutralità e imparzialità dello Stato è
incompatibile con qualsiasi potere da parte dello Stato di valutare la legittimità delle creden-
ze religiose o il modo in cui tali convinzioni sono espresse» (ex multis, Corte EDU, Ibragim
Ibragimov et al c. Russia, cit., par. 90; Eweida cit., par. 81; Manoussakis et al c. Grecia, del
26.09.1996, par. 47; Hasan and Chaush c. Bulgaria, cit., par.78; Refah Partisi c. Turchia,
cit., par. 1).
Gli Stati, infatti, «hanno la responsabilità di assicurare, in modo neutrale e imparzia-
le, l’esercizio di varie religioni, fedi e credenze. Il loro ruolo è aiutare a mantenere l’ordine
pubblico, l’armonia religiosa e la tolleranza in una società democratica, in particolare tra
gruppi opposti. Ciò riguarda sia le relazioni tra credenti e non credenti, sia le relazioni tra i
seguaci di varie religioni, fedi e credenze» (Corte EDU, Ibragim Ibragimov, cit., par. 90, ma
anche, Lautsi e altri c. Italia [GC], cit., par. 60). Di conseguenza, «il ruolo delle autorità in
tali circostanze non è quello di rimuovere la causa della tensione eliminando il pluralismo,
ma di garantire che i gruppi concorrenti si tollerino a vicenda» (Corte EDU, Ibragim Ibra-
gimov, cit., par. 90, ma si v. anche Serif c. Grecia, cit., par. 53 e Leyla Şahin, cit., par. 107).
Pertanto, non spetta ai giudici sindacarne il merito, valutare il ruolo che determinate creden-
ze assumono in una certa religione o il dibattito che esiste all’interno di uno Stato (Corte
EDU, İzzettin Doğan, cit., par. 69 e 134; Mansur Yalçın et al. c. Turchia, del 16.09.2014, o
Kovaļkovs c. Lettonia, cit., par. 60), né possono attribuire «alcun significato particolare» ai
«termini (utilizzati, nda) oltre alla constatazione che l’articolo 9 è ad essi applicabile» (Corte
EDU, İzzettin Doğan, cit., par. 69).
religiosa non conferisce il diritto di essere esentati da una disciplina generale o neutrale (ma
si v., parzialmente contra, Thlimmenos c. Grecia [GC], del 6.04.2000).
Le disposizioni nazionali limitative di certi comportamenti non sono oggetto di cen-
sura solo se hanno una giustificazione oggettiva e ragionevole, in caso contrario, se ne può
ravvisare la natura discriminatoria (ex multis, Corte EDU, O’Donoghue et al. c. Regno Unito,
del 14.12.2010; İzzettin Doğan et al. c. Turchia [GC], cit.). L’analisi della giurisprudenza di
Strasburgo suggerisce che i giudici tendono a svolgere un rigoroso scrutinio di proporziona-
lità delle misure contestate solo in relazione alla cosiddetta discriminazione diretta, mentre la
valutazione in merito alla sussistenza della discriminazione indiretta pare esser condotta at-
traverso criteri interpretativi più vaghi (si v. ad esempio: Corte EDU, DH et al. c. Repubblica
Ceca, del 13.11.2007). Con riferimento a quest’ultima tematica, nel panorama dell’Unione
europea, lo schermo rappresentato dalla neutralità del diritto potrebbe essere superato ampli-
ficando le potenzialità ermeneutiche del concetto di discriminazione indiretta e dei relativi
strumenti ermeneutici, molto ben dettagliati sia a livello normativo, sia giurisprudenziale.
Nel 2017, diversi anni dopo l’adozione della direttiva 2000/78 CE, la Corte di Giustizia ha
applicato le sue prime sentenze sulla discriminazione religiosa nel caso Samira Achbita e
Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding c. G4S Secure Solutions NV,
(C-157/15 del 14.3.2017) e Asma Bougnaoui e Association de défense des droits de l’homme
(ADDH) c. Micropole SA, (C-188/15 del 14.3 .2017). Tali sentenze appaiono piuttosto con-
troverse poiché non sembrano esserci tradizioni costituzionali comuni tra gli Stati membri
facilmente identificabili e atte a giustificare la determinazione assunta. Al contrario, sembra-
no coesistere posizioni diversificate. Nell’adottare tali decisioni, quindi, la Corte di giustizia
pare aver accolto un modello di laicità in linea solo con alcuni Paesi europei e non con altri.
scono il principio di laicità declinandolo come “separazione” della sfera pubblica rispetto al
fenomeno religioso. In questo contesto, la Corte ha attribuito particolare importanza all’o-
biettivo (dichiarato da uno Stato) di prevenire il disordine e proteggere i diritti e le libertà
altrui. A tal proposito, esemplificativo dell’iter argomentativo seguito dai giudici è il caso
S.A.S. c. Francia (Corte EDU, [GC], del 1.07.2014). Decidendo sulla legittimità del divie-
to francese di indossare in pubblico indumenti che coprano integralmente il viso, la Corte
EDU ha stabilito che, poiché «il viso gioca un ruolo importante nell’interazione sociale», il
divieto «rientra nei poteri dello Stato di garantire le condizioni per cui gli individui possono
convivere nella loro diversità», rispettando «l’insieme dei valori di una società democratica
aperta» (par. 114-122). Quindi, «in questo contesto uno Stato può trovare essenziale assegna-
re un peso particolare all’interazione tra individui e può ritenere che questo sia influenzato
negativamente dal fatto che alcune persone nascondono il volto in luoghi pubblici» (SAS c.
Francia, cit., par. 141, ma si v. anche Belcacemi e Oussar c. Belgio, dell’11.07.2017, e Dakir
c. Belgio, dell’11.07.2017).
In relazione, però, all’uso del velo islamico nelle aule di tribunale, la Corte ha adot-
tato una prospettiva parzialmente differente, ravvisando una illegittima interferenza nella
libertà religiosa in quelle disposizioni nazionali volte a proibirlo o a sanzionare chi si rifiuti
di toglierlo (sul punto, Hamidović c. Bosnia Erzegovina, del 5.12.2017, par 36 ss; Lachiri c.
Belgio, del 18.09.2018, par. 31 ss).
religione o da un sistema filosofico è una «pratica» tutelata ai sensi dell’art. 9 CEDU (ex
multis: Cha’are Shalom Ve Tsedek, cit. supra, Jakóbsky c. Polonia, del 7.12.2010, Vartic c.
Romania, n. 2., cit. supra, ma anche Commissione europea dei diritti dell’uomo W. c. Regno
Unito, del 10.02.1993), sebbene non includa ogni attività connessa (nel senso di escludere il
diritto di partecipare personalmente all’esecuzione della macellazione rituale e al successivo
processo di certificazione (Cha’are Shalom Ve Tsedek, cit., par. 82).
L’Unione europea ha tenuto in significativa considerazione la connessione fra fe-
nomeno religioso e normativa alimentare prevedendo apposite deroghe alle disposizioni
relative alla commercializzazione di certi alimenti al fine di consentire l’esecuzione della
macellazione rituale (cfr., ad es., Direttive 69/349/Cee e 74/577/Cee nonché Regolamento
1099/2009. Di recente si v. C. Giust. UE, Centraal Israëlitisch Consistorie van België e.al.,
C-336/19 del 17.12.2020).
l’obiezione di coscienza è protetta dalla Convenzione solo nei Paesi in cui viene espressamente
riconosciuta (si v. Cristián Daniel Sahli Vera e altri c. Cile, Caso n. 12.219, Report n. 43/05, del
10.03.2005, par. 95-97, nonché Alfredo Díaz Bustos c. Bolivia, Caso n. 14/04, Report n. 97/05,
del 27.10.2005, par.19, così citati in Corte EDU, Bayatyan c. Armenia, cit., par. 66).
Parlamento Europeo del 7.02.1983, 13.10.1989, 11.03.1993 e 19.01.1994. Per una ricostru-
zione di tali interventi Corte EDU, Bayatyan c. Armenia, cit. par. 55 ss. e 107 ss.) e, come
anticipato, appaiono oggi trasfusi nell’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali.
Church of Bessarabia et al. del 13.12.2001, par. 119; Agga c. Grecia (n. 2), del 17.10.2002, par.
56; Sezione di Mosca dell’Esercito della salvezza c. Russia, del 5.10.2006, par. 62).
Nel valutare la compatibilità con la Convenzione delle misure alternative al servizio
militare alla luce del requisito della “necessarietà in una società democratica”, la Corte euro-
pea ha costantemente affermato che «il pluralismo, la tolleranza e l’apertura mentale sono le
caratteristiche di una “società democratica”» e «[s]ebbene gli interessi individuali debbano a
volte essere subordinati a quelli di un gruppo, democrazia non significa semplicemente che
le opinioni della maggioranza debbano sempre prevalere: deve essere raggiunto un equilibrio
che assicuri il trattamento giusto e appropriato delle persone appartenenti alle minoranze ed
eviti qualsiasi abuso di una posizione dominante […] Pertanto, il rispetto da parte dello Stato
per il credo di un gruppo religioso minoritario come quello del ricorrente, fornendo loro l’op-
portunità di servire la società come dettato dalla loro coscienza, potrebbe, lungi dal creare
ingiuste disuguaglianze o discriminazioni come affermato dal governo, piuttosto assicurare
un pluralismo coeso e stabile e promuovere l’armonia e la tolleranza religiosa nella società»
(Bayatyan c. Armenia, cit., par. 126).
Conseguentemente, non solo l’impossibilità di scegliere un’attività alternativa al ser-
vizio militare integra una violazione dell’art. 9 CEDU (Bayatyan c. Armenia, cit., par. 128),
ma le misure alternative previste da uno Stato non devono avere un carattere punitivo o de-
terrente (Adyan et al c. Armenia, cit., par. 67).
Va precisato, inoltre, che se, da un lato, gli Stati hanno l’obbligo di prevedere servizi al-
ternativi al servizio militare, la possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza in tale ambito è
limitata alla sussistenza di «un conflitto serio e insormontabile tra l’obbligo di prestare servizio
nell’esercito e la coscienza di una persona» e le convinzioni religiose, o di altro tipo, devono es-
sere «profondamente e sinceramente detenute». Agli Stati è concesso, quindi, richiedere la prova
della sussistenza di «un certo livello di fondamento di autentica convinzione» e «se tale prova non
è imminente» è possibile negare l’esenzione dal servizio militare (Corte EDU, Dyagilev c. Russia,
cit., par. 62, nonché, Kosteski c. l’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, del 13.04.2006, par. 39;
Enver Aydemir c. Turchia, del 7.06.2016, par. 81; Papavasilakis c. Grecia, del 15.09. 2016, par.
54). Gli Stati, pertanto, possono istituire apposite «procedure per valutare la serietà delle convin-
zioni dell’individuo e per contrastare qualsiasi tentativo di abusare della possibilità di esenzione
da parte di persone che sono in grado di svolgere il servizio militare […] Allo stesso tempo, esiste
un corrispondente obbligo positivo per le autorità nazionali di garantire che le procedure per stabi-
lire se un richiedente abbia diritto allo status di obiettore di coscienza siano effettive e accessibili»
e «[u]na delle condizioni fondamentali affinché tale procedura sia considerata efficace è l’indi-
pendenza delle persone che esaminano le richieste svolgimento di un servizio alternativo a quello
militare» (Corte EDU, Dyagilev c. Russia, cit., par. 63).
Una seconda ipotesi di esercizio dell’obiezione di coscienza portata all’esame della
Corte europea concerne l’obiezione di coscienza dei medici e il loro conseguente rifiuto di
porre in essere specifiche pratiche che, per rilevare ai fini dell’applicabilità dell’art. 9 CEDU,
devono presentare determinate caratteristiche, poiché non «ogni atto o comportamento moti-
vato o ispirato da una religione o un credo è riconducibile ad esse»(ex multis, Corte EDU, P.e
S. c. Polonia, del 30.10.2012, par. 106; Pichon e Sajous c. Francia, del 2.10.2001). Inoltre,
«[g]li Stati hanno l’obbligo di organizzare il proprio sistema di servizi sanitari in modo tale
da garantire che l’effettivo esercizio della libertà di coscienza da parte degli operatori sanitari
in un contesto professionale non impedisca ai pazienti di ottenere l’accesso ai servizi a cui
hanno diritto in base alla legislazione applicabile» (P.e S. c Polonia cit., par. 106. In relazio-
ne all’obiezione di coscienza nell’applicazione sulla legge italiana che consente l’aborto (l.
194/1978), si v. Corte Cost., sentt. nn. 293/1993, 196/1997, 514/2002).
196 Caterina Drigo
5. Considerazioni conclusive
L’analisi svolta evidenzia come, a livello europeo, vi sia una forte tutela della libertà
religiosa e dei diritti della coscienza.
Dal punto di vista dell’applicazione concreta, dal 2010 la Commissione europea ha
adottato una strategia specifica con lo scopo di monitorare e garantire l’effettiva attuazione
dei diritti e delle libertà sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali rivedendola di recente, a
Dicembre 2020 (Strategia per rafforzare l’applicazione della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea COM (2020) 711 final). La nuova strategia si sviluppa attorno a quat-
tro profili principali: «1. Garantire l’effettiva applicazione della Carta da parte degli Stati
membri. 2. Responsabilizzare le organizzazioni della società civile, i difensori dei diritti e gli
operatori della giustizia. 3. Promuovere l’uso della Carta come “bussola” da parte delle isti-
tuzioni dell’UE. 3. Rafforzare la consapevolezza dei cittadini dei propri diritti ai sensi della
Carta», mentre la precedente versione, intitolata Strategy for the effective implementation of
the Charter of Fundamental Rights by the European Union (19 ottobre 2010, COM (2010)
573 final) aveva quale obiettivo specifico anche quello di «monitorare l’andamento dell’ap-
plicazione della Carta attraverso rapporti annuali sulla libertà religiosa». In particolare, tali
rapporti annuali hanno consentito di monitorare i progressi nei settori in cui l’Unione europea
ha il potere di agire, mostrando come si sono tenute in considerazione le disposizioni della
Carta, soprattutto in sede di proposizione di nuovi atti normativi.
Inoltre, l’Unione europea coopera con svariate organizzazioni internazionali in re-
lazione all’implementazione della libertà religiosa, di coscienza o di credo. Essa collabora
regolarmente con l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e
con lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulla libertà di religione o di credo nonché con
il Consiglio d’Europa.
Con riferimento al forum internum della libertà religiosa, non solo la Corte EDU e la
Corte di giustizia dell’Unione europea hanno svolto un ruolo centrale a favore dell’attuazione
della legislazione antidiscriminazione, ma anche gli attori istituzionali dell’Unione europea
hanno coordinato e monitorato l’attuazione dei diritti fondamentali delle persone religiose a
livello europeo, oltre ad attuare lo scambio di buone pratiche tra gli Stati membri.
Con riferimento alla tutela del forum externum della libertà religiosa, si deve osser-
vare che essa riguarda la maggior parte delle decisioni della Corte EDU e della Corte di
La libertà di pensiero, di coscienza e religione 197
Giustizia relative alla libertà di religione. Svariate decisioni, tuttavia, si sono distinte per il
contenuto controverso. La tutela del forum externum della libertà religiosa, soprattutto nel
campo dei simboli e dell’abbigliamento religioso, mostra tutta la sua scivolosità se si consi-
dera che anche in alcuni contesti culturali, in particolare quello islamico, non c’è accordo su
simboli e situazioni da considerarsi accettabili o “corretti”.
Ciò mostra l’estrema difficoltà di adottare un modello di integrazione che si possa
dire realmente scevro da assi di tensione o da profili critici. Il percorso per raggiungere una
piena e compiuta realizzazione della libertà religiosa, soprattutto in relazione all’effettività
del principio di uguaglianza è lungi dall’essere completo.
Le sfide poste dalla dimensione multiculturale del territorio europeo, unitamente alle
diverse strategie normative attuate nei diversi Stati, impongono una riflessione continua sul
tema della libertà religiosa e dei suoi limiti, anche al fine di evitare che solo i giudici abbiano
l’onere di identificare il punto di equilibrio tra diritti e bisogni potenzialmente confliggenti.
Il panorama europeo ci mostra come le criticità non vengano risolte semplicemente le-
gittimando qualsiasi comportamento, indipendentemente da potenziali violazioni dell’insie-
me dei valori fondamentali, o, viceversa, limitando al massimo le espressioni esterne di reli-
giosità. Non si eviterebbero difficoltà e conflitti che in primo luogo sono di origine culturale,
e non strettamente religiosa, e ogni lettura semplicistica pare da rifiutare categoricamente.
Nonostante gli approcci pragmatici della Corte di Giustizia o della CEDU, che com-
primono o estendono il margine di apprezzamento degli Stati a seconda del contesto, gli Stati
europei devono affrontare l’eroico compito di individuare il vero punto di equilibrio tra inte-
ressi opposti. I tragici eventi terroristici che si sono verificati negli ultimi anni e la presenza
di altri assi di tensione rilevanti ci mostrano come un modello di laicità declinato quale netta
separazione tra dimensione pubblica e sfera religiosa, e l’affermazione, talvolta connessa a
tale modello, che la religione dovrebbe essere ignorata nello spazio pubblico, non pare poi
così solido ed è quindi necessario riflettere attentamente sul concetto di laicità a cui aderire.
Inoltre, l’oscillare tra pratiche assimilazioniste e atteggiamenti relativistici potrebbe
avere come epilogo il diffondersi di situazioni di disuguaglianza potenzialmente dannose
solo per una particolare categoria di individui, le donne, spesso – anche se non sempre –
confinate ad un ruolo subordinato da alcune norme religiose, e questo è pericoloso, oltre che
dannoso, per la tutela di quei diritti fondamentali di cui gli Stati europei si affermano garanti.
6. Giurisprudenza rilevante
Confessioni cristiane
C. EDU/ECtHR, Svyato-Mykhaylivska Parafiya c. Ucraina del 14.06.2007
La libertà di pensiero, di coscienza e religione 199
Induismo
C. EDU/ECtHR, Kovaļkovs c. Lettonia del 31.01.2012
C. EDU/ECtHR,Genov c. Bulgaria del 23.03.2017
Islam
C. EDU/ECtHR, Hasan and Chaush c. Bulgaria del 26.10.2000
C. EDU/ECtHR Leyla Şahin c. Turchia [GC] del 10.11.2005
C. EDU/ECtHR, Cumhuriyetçi Eğitim ve Kültür Merkezi Vakfı c. Turchia del 2.12.2014 (alevismo)
C. EDU/ECtHR, İzzettin Doğan e altri c. Turchia del 26.04.2016 (alevismo)
C. EDU/ECtHR, Metodiev et al c. Bulgaria del 15.06. 2017 (Ahmadism)
Ebraismo
C. EDU/ECtHR, Cha’are Shalom Ve Tsedek c. Francia del 27.06.2000
C. EDU/ECtHR, Francesco Sessa c. Italia del 3.04.2012
Religione Sikh
C. EDU/ECtHR, Phull c. Francia dell’11.01.2005
C. EDU/ECtHR, Jasvir Singh c. Francia del 30.06. 2009
Taoismo
Commissione europea dei diritti dell’uomo, X. c. Regno Unito del 18.05.1976
Religione Aumista
C. EDU/ECtHR, Association des Chevaliers du Lotus d’Or c. Francia del 31.01.2013
Movimento Raeliano
C. EDU/ECtHR, F.L. c. Francia del 3.11.2005
Neo-Paganesimo
C. EDU/ECtHR, Ásatrúarfélagið c. Islanda del 18.09.2012
Testimoni di Geova
C. EDU/ECtHR, Religionsgemeinschaft der Zeugen Jehovas et al. c. Austria del 31.07.2008
C. EDU/ECtHR, Jehovah’s Witnesses of Moscow et al. c. Russia del 10.06.2010
Scientology
Commissione europea dei diritti dell’uomo, X. and Church of Scientology c. Svezia del 5.05.1979
Commissione europea dei diritti dell’uomo, Church of Scientology et al c. Svezia del 14.07.1980
Commissione europea dei diritti dell’uomo, Scientology Kirche Deutschland e. V. c. Germania del 7.04.1997
C. EDU/ECtHR Corte EDU, Church of Scientology Moscow c. Russia del 5.04.2007
C. EDU/ECtHR, Church of Scientology of St Petersburg et al c. Russia del 2.10.2014
Pacifismo
Arrowsmith c. Regno Unito, Relazione della Commissione del 12.10.1978
200 Caterina Drigo
Opinioni di medici che praticano medicine alternative, da intendersi come forma di manifestazione della filosofia medica
Commissione europea dei diritti dell’uomo Nyyssönen c. Finlandia del 15.01.1998
Principio di laicità
C. EDU/ECtHR, Lautsi e altri c. Italia [GC] del 18.03.2011
C. EDU/ECtHR, Hamidović c. Bosnia ed Erzegovina del 5.12.2017
Ateismo
Commissione europea dei diritti dell’uomo, Angeleni c. Svezia del 3.12.1986
Associazioni massoniche
C. EDU/ECtHR, N.F. c. Italia del 2.08.2001
C. Giust. UE/ ECJ, Samira Achbita e Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding c. G4S Secure
Solutions NV, C-157/15 del 14.3 .2017
C. Giust. UE/ ECJ, Asma Bougnaoui e Association de défense des droits de l’homme (ADDH) c. Micropole SA,
C-188/15 del 14.3.2017
La libertà di pensiero, di coscienza e religione 201
C. Giust. UE/ ECJ, Centraal Israëlitisch Consistorie van België e.al., C-336/19 del 17.12.2020
Commissione interamericana
Cristián Daniel Sahli Vera e altri c. Cile, Caso n. 12.219, Report n. 43/05, 10.03.2005, par. 95-97, Alfredo Díaz
Bustos c. Bolivia, Caso n. 14/04, Report n. 97/05, 27.10.2005, par.19
Abington School District v. Schempp, 374 U.S. 203 (1963) [sulle preghiere nelle scuole]
Sherbert v. Verner, 374 U.S. 398, 402 (1963) [limiti alla libertà religiosa - libertà religiosa e non discriminazione]
United States v. Seeger, 380 U.S. 163 (1965) [diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare in ragione di uno
specifico credo (non religioso)]
Welsh v. United States, 398 U.S. 333 (1970) [diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare in ragione di uno
specifico credo (non religioso)]
Lemon v. Kurtzman, 403 U.S. 602 (1971) [test per valutare le attività religiose nelle scuole]
Wisconsin v. Yoder, 406 U.S. 205 (1972) [esenzione da obblighi di legge in ragione di un credo (Amish)]
McDaniel v. Paty, 435 U.S. 618 (1978) [rifiuto di prestare giuramento]
Stone v. Graham, 449 U.S. 39 (1980) [simboli religiosi nella sfera pubblica]
United States v. Lee, 455 U.S. 252, 260 (1982) [libertà religiosa e normativa fiscale]
Goldman v. Weinberger, 475 U.S. 503 (1986) [simboli religiosi: utilizzo della Kippah per un ufficiale dell’esercito]
Corp. of the Presiding Bishop of the Church of Jesus Christ of Latter-Day Saints v. Amos, 483 U.S. 327 (1987)
[esenzione dalle leggi federali antidiscriminazione in modo che una confessione religiosa possa gestire autonoma-
mente propri affari]
O’Lone v. Estate of Shabazz, 482 U.S. 342, 350 (1987) [libertà religiosa e stato di detenzione]
Americans. See Lyng v. N.W. Indian Cemetery Protective Ass’n, 485 U.S. 439 (1988) [utilizzo dei territori sacri per
nativi americani]
Employment Division, Department of Human Resources of Oregon v. Smith, 494 US 872 (1990) [atti illegali deri-
vanti da credenze religiose: assenza di obbligo di accettazione da parte degli Stati]
Lee v. Weisman, 505 U.S. 577, 588 (1992) [preghiera in ambiente scolastico]
Church of the Lukumi Babalu Aye, Inc. v. City of Hialeah, 508 U.S. 520 (1993) [macellazione rituale di animali,
incostituzionalità del divieto]
Church of the Lukumi Babalu Aye, Inc. v. Hialeah, 508 U.S. 520 (1993)
Board of Education or Kiryas Joel Village School District v. Grumet, 512 U.S. 687, 705-08 (1994) [scuole confes-
sionali]
Zelman v. Simmons-Harris, 536 U.S. 639 (2002) [sul supporto pubblico alle scuole confessionali]
Van Orden v. Perry, 545 U.S. 677 (2005) [simboli religiosi nella sfera pubblica]
McCreary County v. ACLU of Kentucky, 545 U.S. 844 (2005) [simboli religiosi nella sfera pubblica]
Equal Employment Opportunity Commission v. Abercrombie & Fitch Stores, 575 U.S. ___ (2015), slip opinion
[sull’uso del velo]
American Legion et al. V. American Humanist Assn et al, 588 U. S. ____ (2019) [simboli religiosi nella sfera pub-
blica, separazione fra Chiesa e Stato]
South Bay United Pentecostal Church et al. v. Gavin Newsome, Governor of California et al. 590 U.S. ___ (2020)
[libertà di culto e protezione della salute ai tempi dell’epidemia da Covid-19]
Tribunal Superior de Justicia di Castiglia-León, Sent. n. 3250/2010 [simboli religiosi nelle scuole (crocifisso)]
la tutela specificamente dedicata ad altre libertà (ci si riferisce, in particolare, agli artt. 6, 8, 9,
11 della Convenzione, nonché agli artt. 2 del Protocollo n. 1 e 3 del Protocollo n. 1), rispetto
ai quali sono spesso emerse esigenze di calibrati e complessi bilanciamenti.