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Stefano Allievi
Editori Laterza
© 2018, Gius. Laterza & Figli
Nota dell’autore
1. Perché ci muoviamo
2. Perché si muovono loro
3. Perché arrivano in questo modo
4. Perché proprio qui? E per fare cosa?
5. Perché la diversità ci fa paura. E ci attrae
Una cosa da fare (da cui discendono tutte le altre)
L’autore
Nota dell’autore
Perché ci muoviamo
Ci muoviamo assai più che in passato. Non è strano: siamo dotati di piedi,
non di radici, né cresciamo attaccati agli scogli, o agli alberi, o ad altri
animali, come certi parassiti – e siamo stati nomadi a lungo. Oltre tutto, dal
momento in cui siamo scesi dagli alberi – all’epoca in cui di arti, per
muoverci, ne usavamo ancora quattro – abbiamo dovuto cominciare a
correre: e anche velocemente, per cacciare le prede e sfuggire ai predatori.
Circa 60.000 anni fa i nostri antenati sapiens hanno lasciato l’Africa (da lì
veniamo tutti, anche se col passare del tempo ci siamo un po’ scoloriti...), e
una migrazione dopo l’altra sono arrivati prima in Medio Oriente e, 20.000
anni dopo, in Europa: dove già 250.000 anni prima troviamo le tracce dei
più antichi Neandertal, arrivati anche loro da altrove. Nessun europeo è
nativo europeo, se andiamo indietro a sufficienza nella storia!
Oggi, in un certo senso, abbiamo ricominciato ad essere nomadi, e lo
siamo in misura maggiore rispetto ai nostri genitori e ai nostri nonni: del
resto, è probabile che di questo lungo processo di mobilità, nel nostro DNA,
nella nostra memoria profonda, nel nostro inconscio, qualcosa sia rimasto.
Anche perché è grazie alla stazione eretta e alla vocazione nomade che la
nostra intelligenza si è sviluppata.
Spostarsi è diventato sempre più veloce e comodo, e sempre meno
costoso: l’anno scorso ci sono stati oltre un miliardo e duecento milioni di
voli transnazionali, e le previsioni di incremento sono stupefacenti.
L’innovazione tecnologica, con l’interconnessione globale e l’invenzione
della comunicazione in tempo reale (un qualcosa che fino a pochi decenni
fa era immaginabile solo nei libri di fantascienza), non ha reso inutile la
mobilità: al contrario, ne ha moltiplicato la necessità, o anche solo il
desiderio. Non c’è associazione (che si occupi di cultura, tempo libero,
volontariato o sport) che non abbia, oltre il livello locale, quello nazionale e
quello transnazionale. C’è un campionato mondiale più o meno di
qualunque cosa, e c’è voglia e bisogno di incontrarsi. Le teleconferenze non
hanno diminuito le riunioni tra manager globali, la gente di spettacolo si
muove sempre più spesso e più lontano, ci sono professionisti che hanno
fatto delle sale lounge degli aeroporti il proprio ufficio, gli studenti con
l’Erasmus studiano all’estero, e lo smartphone e Skype non hanno sostituito
le relazioni personali, semmai hanno permesso il formarsi di più frequenti
long distance relationships – di amori a distanza.
Ci si muove per necessità o per desiderio, per paura o per piacere, per
insoddisfazione o per irrequietezza, per cercare qualcosa o perché non lo si
trova, perché si hanno degli obiettivi precisi o al contrario perché non se ne
ha nessuno e non si sa cosa fare, per inseguire una speranza o per sfuggire
alla disperazione, per motivi importantissimi o senza un motivo particolare,
per passare il tempo o magari anche solo perché non si sa stare fermi. Molte
lunghe file in autostrada si spiegano anche così: forse anche le nottate in
macchina dei giovani il sabato sera, fino agli esodi vacanzieri. Per non
parlare di fiere, festival, mostre, expo, megaconcerti, happening,
manifestazioni, pride, eventi sportivi globali. Poi naturalmente c’è il
turismo (anche congressuale, accademico, purtroppo pure quello sessuale,
in cui gli italiani pare siano ai vertici delle classifiche mondiali), gli affari,
l’amore, il divertimento, le riunioni, gli incontri delle organizzazioni
professionali, dei dipendenti delle istituzioni transnazionali e di quelli
impegnati nella cooperazione e nello sviluppo, i viaggi di cultura, i viaggi
della speranza legati alla salute, quelli per imparare lingue straniere, e buoni
vecchi motivi per muoversi che non hanno perso il loro peso, come la
religione (pellegrinaggi, missioni) e la guerra (ma anche missioni militari di
peacekeeping, o di monitoraggio di processi democratici).
Tutto si muove di più e a minor prezzo, non solo le persone: informazioni
(sempre più a costo zero), idee, merci (qualsiasi prodotto, ovunque sia, è a
sole 24 ore di distanza da noi), denaro (ancor più da quando è digitale).
Uomini e donne, però, non tutti. Un po’ perché molti non ne hanno nessuna
intenzione. E un po’ perché trovano più ostacoli. Non fisici, e nemmeno
solo o soprattutto economici. Ma legislativi, amministrativi, burocratici.
Globalmente, si muovono di più i più ricchi: gli abitanti dei paesi più
sviluppati rispetto a quelli dei paesi meno sviluppati, e i più ricchi più dei
più poveri dei rispettivi paesi. La mobilità è in se stessa uno status symbol, e
viene volentieri esibita: sui social network e nella conversazione quotidiana,
per molti semplicemente fa trendy poter dire “sto andando a...”, “sono a...”
o “sto tornando da...”.
Tuttavia la mobilità è cambiata. Come tutto, non è più necessariamente per
la vita. Ha una forte componente esperienziale, e le esperienze, si sa, sono
volubili. È più frequente, ma proprio per questo anche temporanea, e
reversibile: ci si mette poco sia a partire che a tornare, volendo. Può
caratterizzare quindi anche solo un periodo o una fase della vita, fino a che
si sceglie dove mettere radici. Anche l’avere radici diventa in certa misura
una scelta, che presuppone una volontà propria, anziché un destino, dettato
dalla nascita. E la sensazione è che il mondo si dividerà sempre più tra chi
si muove e chi no, quelli a cui piace il movimento e quelli che al massimo
lo subiscono, mentre altri saranno mobili in certi periodi della vita e non in
altri (con molti rimescolamenti: si può viaggiare da giovani, o per lavoro
nella fase adulta della vita, o ancora cominciare o ricominciare una volta
andati in pensione). Sarà, è, solo questione di risorse, di possibilità, e di
voglia.
E, per quel che riguarda le migrazioni in senso stretto, sono diventate
circolari: non ci sono più solo paesi di emigrazione da una parte, e paesi di
immigrazione dall’altra. Ormai quasi tutti i paesi sono entrambe le cose:
solo, in percentuali diverse, e a seconda dei momenti. Per limitarci
all’Europa, in Gran Bretagna, terra del desiderio per molti, anche italiani
(Londra ormai è la sesta città italiana per numero di abitanti), ogni due
persone che entrano ne esce una. In Francia gli emigranti sono quasi quanto
gli immigrati. In Spagna sono già di più quelli che escono di quelli che
entrano. Dovremmo ricordarcelo, quando parliamo di invasione.
E in Italia? Pure. Gli italiani, giovani e meno giovani, che emigrano –
quasi 200.000 quelli stimati nel 2017 – sono più degli stranieri che arrivano
con gli sbarchi (119.000 nello stesso anno). Anzi, ultimamente hanno
cominciato ad emigrare pure gli stranieri presenti in Italia: 40.000 solo nel
2017 – del resto una parte di loro, 28.000 nel 2016, ha acquisito la
cittadinanza italiana, e con essa la libertà di circolazione in Europa.
2.
Come abbiamo visto nel primo capitolo, ci muoviamo molto di più. Ma non
tutti. Come ci informa il Passport Index, che trovate online, dipende da
dove siamo nati: se dalla parte giusta o dalla parte sbagliata del mondo, con
il passaporto giusto o con quello sbagliato. Una questione di caso, di
fortuna, non di merito: e a qualcuno andrebbe ricordato.
Un cittadino italiano, come la maggior parte dei suoi colleghi europei,
nonché di quelli statunitensi e giapponesi, può andare in 162 paesi del
mondo senza che gli chiedano il visto. È dunque un privilegiato, che può
entrare liberamente quasi ovunque. Un afgano invece può entrare solo in 30
paesi (mentre 168, all’inverso, pretendono un visto, che peraltro non hanno
nessuna intenzione di concedergli), un iracheno in 33, un pakistano in 34,
un siriano in 37, e così via. E di solito non sono i paesi in cui
desidererebbero andare... Questa differenza dice già quasi tutto, sulla libertà
di circolazione, e le diseguaglianze che la caratterizzano. Ma c’è di più.
Una volta si poteva circolare abbastanza liberamente, da e verso l’Europa,
e altrove. Phileas Fogg, il protagonista de Il giro del mondo in 80 giorni di
Jules Verne, aristocratico inglese, nel 1873 gira tutto il mondo senza che gli
chiedano mai di presentare un documento. E mica solo lui: anche il suo
servo francese Passepartout, e persino la fanciulla rocambolescamente
salvata in India, che alla fine del romanzo convolerà felicemente a nozze
con Phileas in quel di Londra. E non si tratta di fiction: era la realtà, allora.
Oggi non è più così.
A seguito delle crisi economiche – a partire già da quella dovuta allo
shock petrolifero, negli anni Settanta – e con l’emergere progressivo di una
crescente opinione pubblica anti-immigrati, tutti i paesi europei hanno
progressivamente chiuso gli accessi regolari agli immigrati. Così facendo,
hanno semplicemente aperto – senza accorgersene – all’immigrazione
irregolare.
Immaginiamo di chiudere da domani l’importazione legale di liquori
stranieri: l’aspettativa ingenua è quella di fermarne l’arrivo; quella realistica
è che si aprirebbe un nuovo ampio settore di contrabbando, di economia
illegale, come accadde non a caso negli anni Venti del secolo scorso. È
esattamente quello che è successo con le migrazioni: bloccando gli ingressi
regolari abbiamo regalato un intero settore merceologico, assai redditizio,
alle mafie transnazionali, che hanno avuto cura di incrementarlo, con
procacciatori di affari sguinzagliati nei villaggi dell’Africa a vendere il
sogno europeo.
Ora, c’è da stupirsi se, non potendo arrivare legalmente, molti ci provino
nell’unico modo possibile, ossia illegalmente? È evidente per chi scappa da
una guerra o da una persecuzione etnica o religiosa: fuggirebbero anche in
zattera, sapendo di correre gravi rischi – tanto le prospettive a casa loro
sarebbero peggiori, ammesso che una casa ce l’abbiano ancora. Ma lo fanno
anche altri. Producendo così una forte immigrazione irregolare (che, se
fosse regolare, potrebbe inserirsi molto più facilmente e non creerebbe i
problemi che vediamo, anche rispetto alla percezione dell’opinione
pubblica). Paradossalmente, è proprio l’Europa, con la sua legislazione, a
produrre migrazioni irregolari che potrebbero invece essere regolari, e
definitive laddove potrebbero essere temporanee e reversibili, se ci fosse la
possibilità di andare e tornare senza problemi.
Dunque la prima cosa da fare è quella di riaprire canali regolari di
immigrazione, concordati con i paesi d’origine, selezionati in base alle
esigenze del mercato del lavoro: anche ponendo dei vincoli (certificato
penale pulito, ad esempio) e dei costi (biglietto aereo di ritorno
preacquistato, assicurazione sanitaria prepagata) a carico del richiedente; e
stabilendo magari dei punteggi che incentivino alcuni (a seconda del titolo
di studio, della conoscenza delle lingue europee, della presenza di parenti in
Europa, ad esempio). A chi vuole migrare costerebbe comunque meno che
affidarsi ai trafficanti, il viaggio sarebbe più sicuro, e ci metterebbe un
tempo enormemente inferiore (non potendo semplicemente prendere un
aereo, ma dovendo attraversare frontiere e deserti, con i pericoli del caso, il
tempo medio di percorrenza della tratta tra l’Africa occidentale e la Libia,
senza neanche contare l’attesa dell’attraversamento del Mediterraneo, è
superiore a un anno e mezzo...!).
Le esigenze del mercato del lavoro, del resto, ci sono, dato che l’Europa
perde ogni anno 3 milioni di lavoratori, che vanno in pensione, e non sono
sostituiti da nessuno, semplicemente perché chi avrebbe dovuto sostituirli
non è mai nato.
L’Europa, Italia inclusa, l’abbiamo visto, è in drastico calo demografico:
qualunque politica di natalità, opportuna e doverosa, avrà effetto tra
vent’anni – intanto? Ci accontenteremo di essere un continente (e un paese)
di vecchi? Che delocalizzerà altrove le sue produzioni nella misura in cui
perde popolazione in età lavorativa? Perché se non c’è manodopera, le
imprese vanno altrove: c’è quindi anche questo effetto recessivo
paradossale e non previsto dietro l’idea del blocco dell’immigrazione per
salvaguardare il lavoro degli autoctoni.
Una politica di apertura all’ingresso regolare sarebbe anche l’unica vera
legittimazione – e un’utile moneta di scambio – per una politica della
fermezza rispetto all’immigrazione irregolare, che implica controllo delle
frontiere e selezione. È da quando ci sono le migrazioni irregolari, inoltre,
che il livello di istruzione medio dei migranti è calato drammaticamente,
rendendo più difficili e costosi i processi di integrazione; riportare le
migrazioni sotto il controllo degli Stati consentirebbe di ritornare a una
situazione più accettabile anche per il mercato del lavoro e per le società
europee.
Attivare accordi diplomatici ed economici, in una logica di pari dignità,
con i paesi d’origine e di transito significherebbe anche creare una
collaborazione più efficace tra paesi di emigrazione e paesi di
immigrazione: anche relativamente ai rimpatri degli irregolari, nel caso. E
darebbe ai cittadini dei paesi in cui i migranti arrivano la sensazione che i
confini sono controllati, non fuori controllo, aperti a chi ci prova, alleviando
il senso di insicurezza oggi così diffuso, e che tanto sta cambiando la faccia
dell’Europa, culturalmente e diremmo perfino antropologicamente, prima
ancora che politicamente. Il tutto senza bisogno di bloccare i salvataggi, che
rimarrebbero per i casi estremi – non si può abdicare all’umanità, e a un
principio che esiste da secoli nel diritto e nella prassi delle marinerie di tutto
il mondo –, e senza chiudere i porti non offrendo alcuna alternativa.
Senza viaggi irregolari gestiti dagli scafisti, si eviterebbero anche i morti
nel Mediterraneo, diventato in questi ultimi anni la frontiera più pericolosa
del mondo: morti annegati che sono stati (quelli contabilizzati, almeno,
perché di altri non sappiamo, e il mare fa il suo mestiere) 3.771 nel 2015,
5.082 nel 2016, 3.119 nel 2017, oltre 1.000 nei primi sei mesi del 2018,
nonostante un drastico calo degli arrivi (quindi con una percentuale più alta
che in passato).
Si tratta di un tributo di morti inaccettabile per chiunque di noi: che può
essere evitato fermando all’origine le immigrazioni irregolari, e aprendo a
quelle regolari.
4.
Da quanto precede si desume che ci sia una sola cosa da fare, urgente e
indispensabile, dalla quale discendono tutte le altre. E questa cosa è così
semplice che la sua enunciazione sarà molto breve (del resto, l’abbiamo già
anticipata): riaprire i canali di immigrazione regolari.
Così facendo i paesi europei sarebbero maggiormente legittimati e più
efficaci nel chiudere i canali irregolari, togliendo alle mafie transnazionali il
monopolio di gestione dei flussi migratori che indirettamente hanno loro
affidato: e che prima che chiudessimo le frontiere alle migrazioni regolari
non avevano.
Conviene a noi, e converrebbe anche ai paesi d’origine: che sarebbero così
incentivati a controllare le migrazioni irregolari, essendo coinvolti in
accordi in cui avrebbero pari dignità, e potrebbero avere dei vantaggi in
termini di sviluppo, avendo pure una valvola di sfogo nelle migrazioni
regolari.
Questo consentirebbe ai paesi europei – o meglio ancora all’Unione
Europea, che sarebbe un negoziatore molto più forte e autorevole – di
selezionare le migrazioni anche rispetto ai propri bisogni e interessi.
Modulandoli secondo necessità: che potrebbe voler dire, regolarizzando in
una prima fase – prima di attivare nuovi flussi – gli irregolari già presenti
sul territorio, tra cui i richiedenti asilo che ricevono un diniego alla loro
richiesta, che hanno già avviato percorsi di integrazione lavorativa. E
lasciando aperta la strada del rimpatrio assistito per altri: che sarebbe, in un
regime di accordi tra Stati, più collaborativo di quanto non sia oggi.
Verrebbe così articolata diversamente anche la distinzione tra richiedenti
asilo (riconoscimento che potrebbe rimanere solo per la minoranza che ne
ha effettivamente diritto) e migranti economici, che nella storia sono sempre
stati la grande maggioranza dei migranti. E con essa il bisogno di
un’accoglienza di tipo eccezionale ed emergenziale, per richiedenti asilo
che spesso non sono tali (per colpa nostra, dato che dirsi tali è rimasto
l’unico modo che abbiamo lasciato per tentare l’ingresso in Europa), mentre
si potrebbero investire le risorse in altro modo, attivando veri processi di
integrazione e di inclusione – fatti di studio intensivo e obbligatorio della
lingua e della cultura del paese di accoglienza, di formazione professionale
e di orientamento al lavoro – e non solo progetti di accoglienza limitati
spesso alla sola fornitura di vitto e alloggio. Ciò eviterebbe anche disparità
di trattamento nei confronti degli emigranti del passato, e dei cittadini di
oggi. E consentirebbe di ripensare progetti di inclusione che non valgano
solo per gli stranieri neo-arrivati, ma per tutti i cittadini in posizione debole
o con delle fragilità rispetto al mercato del lavoro e alla società.
Alfabetizzazione e formazione sono diritti di tutti, parte di quello che
dovrebbe essere un welfare universale, non rivolto a singole categorie della
popolazione. E progetti in questa direzione che funzionano potrebbero
utilmente aprirsi a chiunque ne abbia bisogno: sarebbe un vantaggio per la
società intera, immigrati e autoctoni insieme.
Tutto questo, inoltre, garantirebbe un numero assai minore di irregolari (lo
diventano infatti anche i richiedenti asilo che, alla fine del percorso,
ricevono un diniego alla loro domanda): si avrebbe dunque più legalità,
maggiore controllo, e quindi anche maggiore sicurezza. Il fatto di trovarsi in
situazione di marginalità e talvolta di devianza è dovuto infatti alla
condizione di irregolare, non a quella di straniero. Lo straniero regolare può
inserirsi normalmente nel mercato del lavoro e nella società, quello
irregolare no. Regolarità e certezza del diritto significa diritti e doveri
uguali per tutti, senza distinzioni: la condizione migliore per favorire
l’integrazione ed evitare conflitti.
I flussi migratori sono, come tali, regolabili e canalizzabili, almeno in
buona misura: proprio come accade per il fluire dei fiumi. Sta a noi decidere
se lasciarli alla mercé dei nuovi schiavisti, o assumerci la responsabilità di
affrontare i problemi per provare, finalmente, a risolverli. Nell’interesse
nostro e di tutti.
L’autore