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Opere varie

Stefano Allievi

5 cose che tutti dovremmo sapere


sull'immigrazione (e una da fare)

Editori Laterza
© 2018, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: settembre 2018


www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma
 

Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)


per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858134696
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Indice

Nota dell’autore
1. Perché ci muoviamo
2. Perché si muovono loro
3. Perché arrivano in questo modo
4. Perché proprio qui? E per fare cosa?
5. Perché la diversità ci fa paura. E ci attrae
Una cosa da fare (da cui discendono tutte le altre)
L’autore
Nota dell’autore

All’inizio del 2018 è uscito un mio libro intitolato Immigrazione. Cambiare


tutto. Pieno di dati, di ragionamenti dettagliati, di proposte di cambiamento
delle politiche sull’immigrazione.
Successivamente, ne ho ricavato una specie di spettacolo, che ho portato
in giro in molti festival, teatri, scuole, corsi di formazione. Che si chiudeva,
il più delle volte, con una discussione: che aiutava tutti – anche me – a
cogliere punti di vista diversi. E che mi ha fatto capire quanto sia alta la
richiesta di saperne di più, anche da parte di chi non ha convinzioni
granitiche, ma come molti, forse i più (incluso chi scrive), continua a rifarsi
le domande fondamentali, navigando alla ricerca di una rotta tra i dubbi
propri e le certezze altrui – senza stancarsi di cercare un pensiero e una via
praticabile, lontano dagli schematismi ideologici.
Nel frattempo, il dibattito anche politico sulla questione è diventato
sempre più acceso, a livello nazionale ed europeo. E Giuseppe Laterza mi
ha fatto una proposta: cercare di condensare in breve le risposte che dalle
mie riflessioni, dai miei incontri, e dal dibattito che continua ad agitare il
paese e il vecchio continente, stanno emergendo.
Il risultato sono le pagine che seguono. Chi vorrà approfondire, sarà
opportuno si rivolga al fratello maggiore di questo libro (e magari anche al
primogenito della famiglia, di un paio d’anni più vecchio – scritto con
l’amico demografo Gianpiero Dalla Zuanna, e che si intitolava Tutto quello
che non vi hanno mai detto sull’immigrazione). Il fratello minore che qui
presentiamo – tale solo per dimensioni ed età – tuttavia non è un riassunto
dei due libri precedenti, ma una riscrittura e un ripensamento, con molte
intuizioni che sono emerse solo in tempi più recenti: non va quindi a
sostituire, e nemmeno a sintetizzare, i due lavori già presenti sul mercato,
ma li completa logicamente e praticamente. È, appunto, loro fratello. Una
certa aria di famiglia li accomuna. Ma è dotato, come giusto, di personalità
autonoma.
1.

Perché ci muoviamo

Ci muoviamo assai più che in passato. Non è strano: siamo dotati di piedi,
non di radici, né cresciamo attaccati agli scogli, o agli alberi, o ad altri
animali, come certi parassiti – e siamo stati nomadi a lungo. Oltre tutto, dal
momento in cui siamo scesi dagli alberi – all’epoca in cui di arti, per
muoverci, ne usavamo ancora quattro – abbiamo dovuto cominciare a
correre: e anche velocemente, per cacciare le prede e sfuggire ai predatori.
Circa 60.000 anni fa i nostri antenati sapiens hanno lasciato l’Africa (da lì
veniamo tutti, anche se col passare del tempo ci siamo un po’ scoloriti...), e
una migrazione dopo l’altra sono arrivati prima in Medio Oriente e, 20.000
anni dopo, in Europa: dove già 250.000 anni prima troviamo le tracce dei
più antichi Neandertal, arrivati anche loro da altrove. Nessun europeo è
nativo europeo, se andiamo indietro a sufficienza nella storia!
Oggi, in un certo senso, abbiamo ricominciato ad essere nomadi, e lo
siamo in misura maggiore rispetto ai nostri genitori e ai nostri nonni: del
resto, è probabile che di questo lungo processo di mobilità, nel nostro DNA,
nella nostra memoria profonda, nel nostro inconscio, qualcosa sia rimasto.
Anche perché è grazie alla stazione eretta e alla vocazione nomade che la
nostra intelligenza si è sviluppata.
Spostarsi è diventato sempre più veloce e comodo, e sempre meno
costoso: l’anno scorso ci sono stati oltre un miliardo e duecento milioni di
voli transnazionali, e le previsioni di incremento sono stupefacenti.
L’innovazione tecnologica, con l’interconnessione globale e l’invenzione
della comunicazione in tempo reale (un qualcosa che fino a pochi decenni
fa era immaginabile solo nei libri di fantascienza), non ha reso inutile la
mobilità: al contrario, ne ha moltiplicato la necessità, o anche solo il
desiderio. Non c’è associazione (che si occupi di cultura, tempo libero,
volontariato o sport) che non abbia, oltre il livello locale, quello nazionale e
quello transnazionale. C’è un campionato mondiale più o meno di
qualunque cosa, e c’è voglia e bisogno di incontrarsi. Le teleconferenze non
hanno diminuito le riunioni tra manager globali, la gente di spettacolo si
muove sempre più spesso e più lontano, ci sono professionisti che hanno
fatto delle sale lounge degli aeroporti il proprio ufficio, gli studenti con
l’Erasmus studiano all’estero, e lo smartphone e Skype non hanno sostituito
le relazioni personali, semmai hanno permesso il formarsi di più frequenti
long distance relationships – di amori a distanza.
Ci si muove per necessità o per desiderio, per paura o per piacere, per
insoddisfazione o per irrequietezza, per cercare qualcosa o perché non lo si
trova, perché si hanno degli obiettivi precisi o al contrario perché non se ne
ha nessuno e non si sa cosa fare, per inseguire una speranza o per sfuggire
alla disperazione, per motivi importantissimi o senza un motivo particolare,
per passare il tempo o magari anche solo perché non si sa stare fermi. Molte
lunghe file in autostrada si spiegano anche così: forse anche le nottate in
macchina dei giovani il sabato sera, fino agli esodi vacanzieri. Per non
parlare di fiere, festival, mostre, expo, megaconcerti, happening,
manifestazioni, pride, eventi sportivi globali. Poi naturalmente c’è il
turismo (anche congressuale, accademico, purtroppo pure quello sessuale,
in cui gli italiani pare siano ai vertici delle classifiche mondiali), gli affari,
l’amore, il divertimento, le riunioni, gli incontri delle organizzazioni
professionali, dei dipendenti delle istituzioni transnazionali e di quelli
impegnati nella cooperazione e nello sviluppo, i viaggi di cultura, i viaggi
della speranza legati alla salute, quelli per imparare lingue straniere, e buoni
vecchi motivi per muoversi che non hanno perso il loro peso, come la
religione (pellegrinaggi, missioni) e la guerra (ma anche missioni militari di
peacekeeping, o di monitoraggio di processi democratici).
Tutto si muove di più e a minor prezzo, non solo le persone: informazioni
(sempre più a costo zero), idee, merci (qualsiasi prodotto, ovunque sia, è a
sole 24 ore di distanza da noi), denaro (ancor più da quando è digitale).
Uomini e donne, però, non tutti. Un po’ perché molti non ne hanno nessuna
intenzione. E un po’ perché trovano più ostacoli. Non fisici, e nemmeno
solo o soprattutto economici. Ma legislativi, amministrativi, burocratici.
Globalmente, si muovono di più i più ricchi: gli abitanti dei paesi più
sviluppati rispetto a quelli dei paesi meno sviluppati, e i più ricchi più dei
più poveri dei rispettivi paesi. La mobilità è in se stessa uno status symbol, e
viene volentieri esibita: sui social network e nella conversazione quotidiana,
per molti semplicemente fa trendy poter dire “sto andando a...”, “sono a...”
o “sto tornando da...”.
Tuttavia la mobilità è cambiata. Come tutto, non è più necessariamente per
la vita. Ha una forte componente esperienziale, e le esperienze, si sa, sono
volubili. È più frequente, ma proprio per questo anche temporanea, e
reversibile: ci si mette poco sia a partire che a tornare, volendo. Può
caratterizzare quindi anche solo un periodo o una fase della vita, fino a che
si sceglie dove mettere radici. Anche l’avere radici diventa in certa misura
una scelta, che presuppone una volontà propria, anziché un destino, dettato
dalla nascita. E la sensazione è che il mondo si dividerà sempre più tra chi
si muove e chi no, quelli a cui piace il movimento e quelli che al massimo
lo subiscono, mentre altri saranno mobili in certi periodi della vita e non in
altri (con molti rimescolamenti: si può viaggiare da giovani, o per lavoro
nella fase adulta della vita, o ancora cominciare o ricominciare una volta
andati in pensione). Sarà, è, solo questione di risorse, di possibilità, e di
voglia.
E, per quel che riguarda le migrazioni in senso stretto, sono diventate
circolari: non ci sono più solo paesi di emigrazione da una parte, e paesi di
immigrazione dall’altra. Ormai quasi tutti i paesi sono entrambe le cose:
solo, in percentuali diverse, e a seconda dei momenti. Per limitarci
all’Europa, in Gran Bretagna, terra del desiderio per molti, anche italiani
(Londra ormai è la sesta città italiana per numero di abitanti), ogni due
persone che entrano ne esce una. In Francia gli emigranti sono quasi quanto
gli immigrati. In Spagna sono già di più quelli che escono di quelli che
entrano. Dovremmo ricordarcelo, quando parliamo di invasione.
E in Italia? Pure. Gli italiani, giovani e meno giovani, che emigrano –
quasi 200.000 quelli stimati nel 2017 – sono più degli stranieri che arrivano
con gli sbarchi (119.000 nello stesso anno). Anzi, ultimamente hanno
cominciato ad emigrare pure gli stranieri presenti in Italia: 40.000 solo nel
2017 – del resto una parte di loro, 28.000 nel 2016, ha acquisito la
cittadinanza italiana, e con essa la libertà di circolazione in Europa.
2.

Perché si muovono loro

Per ragionare sulle cause delle migrazioni potremmo limitarci a citare, in


ordine sparso, alcune parole: guerre, fame, dittature, persecuzioni (per
motivi etnici, religiosi, razziali, politici), ingiustizie subìte, diseguaglianze,
calamità naturali (incluse quelle dovute al cambiamento climatico), crescita
demografica non accompagnata da crescita economica. A cui va aggiunto il
puro e semplice sfruttamento delle risorse (alimentari, minerarie, ecc.), fatto
quasi sempre per conto terzi: anche quando gli sfruttatori sono i governi –
spesso militari – dei rispettivi paesi, i terzi sono, di solito, aziende dei paesi
sviluppati; e come dice un saggio proverbio africano, “se uno percuote un
alveare per portare via il miele, le api lo inseguono”. Quella che precede è
la lista, per difetto, dei cosiddetti push factors, o fattori di spinta. Ci
accontenteremo di fare un cenno solo alle diseguaglianze di reddito e alla
demografia.
Le differenze di reddito non spiegano tutto, delle migrazioni. Esistono da
sempre. E nonostante questo la maggior parte delle persone preferisce
rimanere vicino alla sua famiglia, tra la sua gente, la sua cultura, con chi
parla la sua lingua. Ma pesano. Il PIL pro capite (il prodotto interno lordo –
ovvero la ricchezza del paese – suddiviso per il numero degli abitanti), è in
Italia di 30.507 dollari l’anno. Quello medio dell’Unione Europea è di
39.317 dollari, quello dell’Africa subsahariana è di 3.837 dollari, e in alcuni
dei paesi da cui provengono coloro che tentano di sbarcare in Italia viaggia
al di sotto dei mille dollari l’anno (411 in Niger, 469 in Gambia, 795 in
Etiopia, 830 in Mali, 852 in Ciad). Ora, se le diseguaglianze di reddito
bastassero a spiegare le migrazioni, l’Africa sarebbe già da decenni in
Europa, l’Europa negli Stati Uniti (dove il PIL pro capite è di oltre 57.000
dollari, quasi 20.000 in più che in Europa), e gli Stati Uniti a loro volta in
Lussemburgo (dove è di 103.000, il più alto del mondo). E non bastano le
barriere alle immigrazioni per spiegare perché non sia così: in Europa c’è la
libera circolazione della manodopera, e il reddito della Germania è oltre il
doppio di quello della Grecia (e i servizi e il welfare molto migliori), eppure
i greci – nonostante la drammatica crisi che hanno vissuto in questi anni –
in maggioranza non sono andati in Germania, e sono rimasti a casa loro (né
gli altri europei sono finiti tutti in Lussemburgo, peraltro). Ma serve a
spiegare perché le migrazioni siano in aumento. Del resto, chiedetevelo da
soli: quanti di voi sarebbero disposti ad emigrare sapendo che, a parità di
lavoro, il vostro reddito potenziale potrebbe essere di dieci o addirittura
cinquanta volte tanto? In molti non stareste neanche lì a chiedervi se il costo
della vita altrove è più alto... Eppure oggi – grazie ai media globali e alla
rete – la ricchezza degli altri la possiamo letteralmente “vedere”, più di
quanto capitasse ai nostri nonni.
Poi c’è la demografia. La popolazione del mondo cresce: molto, e in
maniera squilibrata. In Europa, ad esempio (Italia inclusa), diminuisce, e
stiamo ogni giorno più larghi. In Africa invece cresce tumultuosamente:
entro il 2050 sarà il doppio di oggi. La Nigeria, per dire, oggi settimo paese
del mondo per popolazione, prima del 2050 scalzerà gli Stati Uniti dal loro
tradizionale terzo posto: e già oggi i 10 Stati più giovani del mondo, con
un’età media intorno ai vent’anni, sono tutti africani. La sproporzione si
vede bene sul piano storico: all’inizio del Novecento era europeo un
abitante del mondo su quattro; nel 2050 lo sarà uno su quattordici.
Facciamo meno figli, e viviamo più a lungo, di conseguenza la popolazione
invecchia, e gli anziani sono più dei giovani – i demografi la chiamano
inversione della piramide della popolazione, è la prima volta che accade
nella storia per motivi naturali, e ha effetti drammatici. Non è solo
questione di risorse, di chi pagherà le pensioni e le cure mediche, sempre
più care man mano che cresce l’età della popolazione – uno squilibrio che
mette sulle spalle delle giovani generazioni un fardello enorme. È anche
questione del tipo di paese che si va configurando: non è dagli anziani che
ci aspettiamo – e che storicamente proviene – la creatività, l’innovazione,
l’apertura mentale, il desiderio di scoprire nuovi orizzonti... E nemmeno il
mettersi in gioco economicamente con l’invenzione di imprese, il lancio di
start up, l’assunzione di manodopera. Dunque una società più anziana è
anche una società depressiva e recessiva – consuma più di quello che
produce, oltre che essere più triste e passiva: diciamolo, è più vicina alla
morte, e vive nella sua ombra. Per invertire lo scenario occorre avere, come
sempre nella storia dell’umanità, più popolazione giovane. Certo, potrebbe
essere popolazione autoctona. Ma, semplicemente, non c’è. Per motivi
legati agli stili di vita e alle trasformazioni culturali – e, per i ceti meno
abbienti, anche ai costi – l’aumento del benessere ha finora portato con sé la
riduzione della natalità.
A spingere le migrazioni ci sono anche, oltre ai fattori di espulsione, i
fattori di attrazione, i pull factors: il differenziale economico e salariale
l’abbiamo già citato. Ma conta anche l’immaginario che abbiamo sugli altri
paesi, che crediamo più liberi, e più ricchi di opportunità, non solo di
denaro. Libertà di muoversi, di sfuggire al controllo sociale della famiglia e
della comunità, di studiare quello che si vuole (e di poterlo fare perché
aiutati dallo Stato, anche se si è poveri), di fare esperienze (tutte quelle
legate alla condizione giovanile, incluse quelle sessuali, in società più
aperte da questo punto di vista), di viaggiare, di trovare più opportunità di
lavoro (per il semplice fatto che la società è più complessa e il mercato del
lavoro più ampio e articolato: non ci sono solo quei tre o quattro mestieri a
cui si è inevitabilmente destinati...), di essere valutati rispetto al proprio
merito e non alla propria origine, di sfuggire alla corruzione dei governi e
delle burocrazie, che può essere oppressiva e soffocante, fino al semplice
desiderio di sposare chi si vuole, e di sperimentare le proprie capacità
cercando nuove occasioni, diversificate quanto lo sono le forme del
desiderio. E poi, magari – li sottovalutiamo, questi fattori, noi che li diamo
per scontati –, di avere scuole e ospedali migliori e quasi gratuiti, l’acqua
corrente in casa, gli elettrodomestici, i videogiochi, quattro soldi in tasca,
negozi pieni di merci, le vacanze...
L’Europa non se ne è accorta, ma è diventata l’America dell’Africa (e di
altre aree del mondo): o per lo meno, un’America più vicina e meno
irraggiungibile dell’altra, che resta ancora la più ambita. Per molti, nel
mondo, la nostra è una terra dei sogni. Il fatto che non ce ne accorgiamo ci
dà la misura di quanto l’Europa non sia all’altezza del proprio ruolo.
Ecco perché non sarà facile fermare le migrazioni. Ammesso che sia
auspicabile. E, a proposito: sareste d’accordo a fermare anche quelle in
uscita? Perché è giusto capire in quale direzione stiamo contribuendo a far
andare il mondo: è probabile infatti che saremo ripagati con la stessa
moneta, se le frontiere, anziché luoghi di attraversamento, diventano muri.
Ce ne stiamo già accorgendo. Ecco perché, anche, è necessario lavorare
sulle cause delle migrazioni, sugli equilibri e gli squilibri globali, sulle
ingiustizie planetarie. In una logica di scambio.
3.

Perché arrivano in questo modo

Come abbiamo visto nel primo capitolo, ci muoviamo molto di più. Ma non
tutti. Come ci informa il Passport Index, che trovate online, dipende da
dove siamo nati: se dalla parte giusta o dalla parte sbagliata del mondo, con
il passaporto giusto o con quello sbagliato. Una questione di caso, di
fortuna, non di merito: e a qualcuno andrebbe ricordato.
Un cittadino italiano, come la maggior parte dei suoi colleghi europei,
nonché di quelli statunitensi e giapponesi, può andare in 162 paesi del
mondo senza che gli chiedano il visto. È dunque un privilegiato, che può
entrare liberamente quasi ovunque. Un afgano invece può entrare solo in 30
paesi (mentre 168, all’inverso, pretendono un visto, che peraltro non hanno
nessuna intenzione di concedergli), un iracheno in 33, un pakistano in 34,
un siriano in 37, e così via. E di solito non sono i paesi in cui
desidererebbero andare... Questa differenza dice già quasi tutto, sulla libertà
di circolazione, e le diseguaglianze che la caratterizzano. Ma c’è di più.
Una volta si poteva circolare abbastanza liberamente, da e verso l’Europa,
e altrove. Phileas Fogg, il protagonista de Il giro del mondo in 80 giorni di
Jules Verne, aristocratico inglese, nel 1873 gira tutto il mondo senza che gli
chiedano mai di presentare un documento. E mica solo lui: anche il suo
servo francese Passepartout, e persino la fanciulla rocambolescamente
salvata in India, che alla fine del romanzo convolerà felicemente a nozze
con Phileas in quel di Londra. E non si tratta di fiction: era la realtà, allora.
Oggi non è più così.
A seguito delle crisi economiche – a partire già da quella dovuta allo
shock petrolifero, negli anni Settanta – e con l’emergere progressivo di una
crescente opinione pubblica anti-immigrati, tutti i paesi europei hanno
progressivamente chiuso gli accessi regolari agli immigrati. Così facendo,
hanno semplicemente aperto – senza accorgersene – all’immigrazione
irregolare.
Immaginiamo di chiudere da domani l’importazione legale di liquori
stranieri: l’aspettativa ingenua è quella di fermarne l’arrivo; quella realistica
è che si aprirebbe un nuovo ampio settore di contrabbando, di economia
illegale, come accadde non a caso negli anni Venti del secolo scorso. È
esattamente quello che è successo con le migrazioni: bloccando gli ingressi
regolari abbiamo regalato un intero settore merceologico, assai redditizio,
alle mafie transnazionali, che hanno avuto cura di incrementarlo, con
procacciatori di affari sguinzagliati nei villaggi dell’Africa a vendere il
sogno europeo.
Ora, c’è da stupirsi se, non potendo arrivare legalmente, molti ci provino
nell’unico modo possibile, ossia illegalmente? È evidente per chi scappa da
una guerra o da una persecuzione etnica o religiosa: fuggirebbero anche in
zattera, sapendo di correre gravi rischi – tanto le prospettive a casa loro
sarebbero peggiori, ammesso che una casa ce l’abbiano ancora. Ma lo fanno
anche altri. Producendo così una forte immigrazione irregolare (che, se
fosse regolare, potrebbe inserirsi molto più facilmente e non creerebbe i
problemi che vediamo, anche rispetto alla percezione dell’opinione
pubblica). Paradossalmente, è proprio l’Europa, con la sua legislazione, a
produrre migrazioni irregolari che potrebbero invece essere regolari, e
definitive laddove potrebbero essere temporanee e reversibili, se ci fosse la
possibilità di andare e tornare senza problemi.
Dunque la prima cosa da fare è quella di riaprire canali regolari di
immigrazione, concordati con i paesi d’origine, selezionati in base alle
esigenze del mercato del lavoro: anche ponendo dei vincoli (certificato
penale pulito, ad esempio) e dei costi (biglietto aereo di ritorno
preacquistato, assicurazione sanitaria prepagata) a carico del richiedente; e
stabilendo magari dei punteggi che incentivino alcuni (a seconda del titolo
di studio, della conoscenza delle lingue europee, della presenza di parenti in
Europa, ad esempio). A chi vuole migrare costerebbe comunque meno che
affidarsi ai trafficanti, il viaggio sarebbe più sicuro, e ci metterebbe un
tempo enormemente inferiore (non potendo semplicemente prendere un
aereo, ma dovendo attraversare frontiere e deserti, con i pericoli del caso, il
tempo medio di percorrenza della tratta tra l’Africa occidentale e la Libia,
senza neanche contare l’attesa dell’attraversamento del Mediterraneo, è
superiore a un anno e mezzo...!).
Le esigenze del mercato del lavoro, del resto, ci sono, dato che l’Europa
perde ogni anno 3 milioni di lavoratori, che vanno in pensione, e non sono
sostituiti da nessuno, semplicemente perché chi avrebbe dovuto sostituirli
non è mai nato.
L’Europa, Italia inclusa, l’abbiamo visto, è in drastico calo demografico:
qualunque politica di natalità, opportuna e doverosa, avrà effetto tra
vent’anni – intanto? Ci accontenteremo di essere un continente (e un paese)
di vecchi? Che delocalizzerà altrove le sue produzioni nella misura in cui
perde popolazione in età lavorativa? Perché se non c’è manodopera, le
imprese vanno altrove: c’è quindi anche questo effetto recessivo
paradossale e non previsto dietro l’idea del blocco dell’immigrazione per
salvaguardare il lavoro degli autoctoni.
Una politica di apertura all’ingresso regolare sarebbe anche l’unica vera
legittimazione – e un’utile moneta di scambio – per una politica della
fermezza rispetto all’immigrazione irregolare, che implica controllo delle
frontiere e selezione. È da quando ci sono le migrazioni irregolari, inoltre,
che il livello di istruzione medio dei migranti è calato drammaticamente,
rendendo più difficili e costosi i processi di integrazione; riportare le
migrazioni sotto il controllo degli Stati consentirebbe di ritornare a una
situazione più accettabile anche per il mercato del lavoro e per le società
europee.
Attivare accordi diplomatici ed economici, in una logica di pari dignità,
con i paesi d’origine e di transito significherebbe anche creare una
collaborazione più efficace tra paesi di emigrazione e paesi di
immigrazione: anche relativamente ai rimpatri degli irregolari, nel caso. E
darebbe ai cittadini dei paesi in cui i migranti arrivano la sensazione che i
confini sono controllati, non fuori controllo, aperti a chi ci prova, alleviando
il senso di insicurezza oggi così diffuso, e che tanto sta cambiando la faccia
dell’Europa, culturalmente e diremmo perfino antropologicamente, prima
ancora che politicamente. Il tutto senza bisogno di bloccare i salvataggi, che
rimarrebbero per i casi estremi – non si può abdicare all’umanità, e a un
principio che esiste da secoli nel diritto e nella prassi delle marinerie di tutto
il mondo –, e senza chiudere i porti non offrendo alcuna alternativa.
Senza viaggi irregolari gestiti dagli scafisti, si eviterebbero anche i morti
nel Mediterraneo, diventato in questi ultimi anni la frontiera più pericolosa
del mondo: morti annegati che sono stati (quelli contabilizzati, almeno,
perché di altri non sappiamo, e il mare fa il suo mestiere) 3.771 nel 2015,
5.082 nel 2016, 3.119 nel 2017, oltre 1.000 nei primi sei mesi del 2018,
nonostante un drastico calo degli arrivi (quindi con una percentuale più alta
che in passato).
Si tratta di un tributo di morti inaccettabile per chiunque di noi: che può
essere evitato fermando all’origine le immigrazioni irregolari, e aprendo a
quelle regolari.
4.

Perché proprio qui? E per fare cosa?

Quanti sono gli immigrati in Italia? Gli stranieri residenti al 1° gennaio


2018, secondo l’ISTAT, l’Istituto nazionale di statistica, sono poco più di 5
milioni (per la precisione, 5.065.000), con una prevalenza – nonostante
molti credano il contrario – di donne rispetto agli uomini. I cittadini non
comunitari, cioè non facenti parte dell’Unione Europea – quelli a cui si
pensa quando si parla di immigrati – sono 3.714.137.
A questi numeri vanno aggiunti gli stranieri che hanno acquisito la
cittadinanza italiana: 184.638 cittadini non comunitari nel 2016, con una
tendenza che era tuttavia molto inferiore (meno della metà ogni anno) fino
al 2012.
E poi bisogna calcolare gli irregolari, la cui stima è per definizione solo
indicativa: anche perché molti (soprattutto tra gli sbarcati come richiedenti
asilo degli ultimi anni) sono solo transitati dall’Italia, per poi recarsi altrove,
nel Centro e Nord Europa. Probabilmente quelli rimasti in Italia sono
intorno ai 2/300.000. Una parte di essi sono persone sbarcate negli anni
precedenti, la cui richiesta di asilo non è stata accolta; un’altra parte sono
persone che erano regolari, ma che non avendo un lavoro regolare hanno
perso anche il permesso di soggiorno – potremmo dire che sono il frutto di
una legislazione che in certa misura produce irregolarità.
L’Italia si colloca un po’ sopra la media europea della presenza di
immigrati, e un po’ sotto i paesi più grandi, comparabili al nostro, come
Germania, Gran Bretagna, Francia, ma anche Belgio, Olanda e altri ancora.
Parliamo del totale delle presenze, dello stock, come dicono gli statistici. I
flussi – cioè gli arrivi annui – sono oggi ridotti a 119.369 (parliamo di
sbarchi) nel 2017 (drasticamente calati a 16.000 nei primi sei mesi del
2018), mentre erano 181.436 nel 2016, e 153.842 nel 2015. In netto calo,
quindi. E corrispondono all’incirca alla metà rispetto alla media storica
degli emigranti italiani: nel secolo tra il 1861 e il 1961 hanno lasciato
l’Italia oltre 25 milioni di persone, a un ritmo quindi di 250.000 l’anno,
quasi 700 al giorno. Un livello di emigrazione, come abbiamo visto, che
stiamo nuovamente raggiungendo proprio in questi ultimi anni.
Per collegarci alla questione demografica, i dati ci dicono che l’Italia nei
prossimi vent’anni, per mantenere costante la sua popolazione in età
lavorativa (20-64 anni), avrebbe bisogno di un innesto di 325.000 lavoratori
l’anno. Naturalmente, si può scegliere di non averlo: in questo caso si
avrebbe un calo di lavoratori da 36 a 29 milioni, e un invecchiamento della
popolazione, con il passaggio degli anziani con più di 65 anni da 13,3 a
17,8 milioni. Per capirci con un esempio, nelle regioni messe peggio, come
il Friuli, già dal 2015 per ogni under 15 ci sono due over 65 anni.
L’importante è sapere a che cosa si va incontro: per citare una conseguenza
spesso sottovalutata, la spesa sanitaria per gli over 75 è otto volte più
elevata che per la fascia di popolazione tra 15 e 24 anni. Inoltre gli anziani
consumano meno, e fanno girare meno l’economia: il loro aumento sul
totale della popolazione ha quindi effetti anche su questo fronte.
Gli occupati stranieri presenti in Italia rappresentano il 10,5% della forza
lavoro e producono l’8,9% del PIL italiano (la percentuale è più bassa
rispetto alla quantità di forza lavoro perché il loro reddito medio è inferiore
di 7.500 euro l’anno rispetto a quello degli italiani, e molti lavorano
irregolarmente). In alcuni casi la loro percentuale sul totale della forza
lavoro è molto maggiore: il 18,4% nel settore alberghiero e della
ristorazione, il 17,4% in quello delle costruzioni, il 16,7% in agricoltura.
Parliamo dei residenti regolari: gli irregolari sfuggono per definizione alle
classifiche. Se fossero contabilizzati, la percentuale di ricchezza prodotta da
stranieri sarebbe ancora più alta.
Quanto alle prestazioni previdenziali e alle pensioni: gli stranieri versano 8
miliardi di euro di contributi sociali all’INPS, e ne ricevono circa 3 miliardi.
Con i 5 miliardi di differenza si calcola che si paghino oltre 600.000
pensioni: di italiani.
Si dice spesso che gli immigrati portano via il lavoro agli italiani, perché
accettano salari più bassi. In parte è vero, soprattutto tra le professioni più
dequalificate e già meno pagate: i cosiddetti ddd jobs (dirty, dangerous and
demeaning, ovvero sporchi, pericolosi e umilianti, e soprattutto meno
pagati). Ed è un problema serio: anche se alcuni economisti sostengono che
in alcuni settori molte imprese, già fragili, se non potessero applicare salari
più bassi semplicemente chiuderebbero, e alcune porterebbero la loro
produzione in altri paesi. Per la maggior parte dei settori lavorativi tuttavia
non è così. In alcuni casi l’arrivo degli stranieri ha addirittura favorito la
crescita dei salari degli italiani. È il caso delle donne, soprattutto quelle più
istruite, che grazie all’arrivo di colf e badanti straniere hanno potuto entrare
o ri-entrare (per esempio dopo una gravidanza) nel mercato del lavoro, o
acquisire posizioni migliori con salari più elevati.
Non c’è del resto un rapporto di causa-effetto tra migrazioni in direzioni
diverse. Se magicamente gli immigrati in Italia evaporassero, e non ne
arrivassero più, gli italiani che partono non partirebbero, o troverebbero
lavoro in Italia? A spanne, possiamo dire che forse uno o due su dieci di
quelli che vanno via non partirebbe (e sono quelli che fanno lavori meno
qualificati, e con livello di istruzione più basso – troverebbero quindi un
lavoro, ma a salari modesti): gli altri invece partirebbero comunque. Perché
non cercano un lavoro purchessia, ma uno soddisfacente, compatibile con i
loro studi, con salari adeguati alla loro preparazione. E il nostro mercato del
lavoro, purtroppo, spesso non glielo offre. Non perché c’è l’immigrazione:
ma per ragioni più complesse e più profonde. E più difficili da risolvere.
Che vengono da lontano, nel tempo, più di quanto gli immigrati vengano da
lontano nello spazio.
Ci sono infatti tre fratture, o segmentazioni come le chiamano gli studiosi,
nel mercato del lavoro italiano: una normativa, una territoriale e una
generazionale, che generano squilibri importanti.
La prima è quella tra lavoro regolare e lavoro irregolare. Alcuni datori di
lavoro, anche stranieri, cercano lavoratori non in regola, per spendere meno,
e questo è un problema serio: dovuto al fatto che esiste – ed esisteva anche
a prescindere dall’immigrazione – un’enorme fetta di economia in nero, che
non paga contributi, IVA e tasse, a danno di tutti gli italiani. Gli stranieri
sono più portati degli italiani ad accettare questi lavori: quelli che sono
irregolari sul piano della residenza, non possono fare altrimenti; in altri casi
il datore di lavoro, anche se sono in regola con il permesso di soggiorno,
non li assume comunque. E così, per come è stata concepita l’ultima legge
italiana sull’immigrazione, detta Bossi-Fini dai nomi dei suoi primi
firmatari (che all’ingrosso dice che se non si ha un lavoro regolare per un
po’ di tempo si finisce per perdere il permesso di soggiorno), dopo un po’
diventano anche loro irregolari. Talvolta i lavoratori stranieri sono
incentivati più degli italiani, che pure lo fanno, ad accettare il lavoro
“grigio”, regolarizzato solo per una parte dell’orario: anche perché ad alcuni
stranieri non interessa la regolarità dei contributi previdenziali (quelli che
paga il datore di lavoro), dato che pensano di tornare al loro paese
d’origine, e non di riscuotere la pensione qui (tra l’altro quelli che pagano
contributi solo per pochi anni ci regalano un bel po’ di soldi che rimangono
nelle casse dell’INPS – un meccanismo previdenziale che funziona come
una specie di Robin Hood alla rovescia, che toglie agli stranieri poveri per
dare agli italiani un po’ meno poveri).
La seconda frattura riguarda la divisione tra Nord e Sud Italia, e su questa
possiamo essere più rapidi. Gli stranieri sono soprattutto al Nord: i
disoccupati italiani sono soprattutto al Sud. Ognuno di noi conosce dei
disoccupati, o delle persone che non riescono a trovare lavoro, anche al
Nord. Ma i numeri ci dicono che alcune province del Nord hanno una
disoccupazione paragonabile a quella della Germania, anche se non lo
sanno. Questa differenza tra tassi di disoccupazione e presenza di stranieri
(le aree con più disoccupati non sono quelle con più immigrati, e viceversa)
è la dimostrazione che gli uni non tolgono il lavoro agli altri. Salvo, come
detto, nei settori meno qualificati del mercato del lavoro.
La terza frattura è invece generazionale. I giovani italiani, oltre che essere
di meno, sono più scolarizzati degli italiani che vanno in pensione. Quindi
non sostituiscono se non in parte il lavoro di costoro. Solo il 30% dei nati
nel 1950 che va in pensione ora, ha studiato oltre il livello delle medie
inferiori. Mentre sono oltre l’80% tra i giovani che si affacciano sul mercato
del lavoro, nati nel 1995. Per ogni cinque lavoratori poco istruiti che vanno
in pensione, dunque, solo un giovane poco istruito cerca di entrare nel
mercato del lavoro. Per cui a sostituire i posti di lavoro per persone poco
istruite vanno gli stranieri. E i giovani italiani con un titolo di studio più alto
si mettono in coda per andare a lavorare all’estero. La tragedia – che è un
costo economico enorme, oltre che umano e sociale, per l’Italia – è che non
ci sono abbastanza posti di lavoro per persone più istruite, che pure
formiamo, spendendo risorse ingenti; o non hanno salari abbastanza
interessanti.
Ma, va detto, si va via anche, più spesso di quanto non si dica, per ragioni
culturali, diciamo così: dalle ricerche sui giovani italiani all’estero – a
Berlino, per esempio (una città in cui, su tre milioni e mezzo di abitanti, i
tedeschi sono solo due milioni) – emerge che una parte di essi sbarca
appena il lunario, e spesso sono aiutati dalle famiglie rimaste in Italia, ma
non hanno alcuna intenzione di rientrare. Hanno scoperto un mondo
differente, aperto, interessante, capace di accettare le diversità (culturali,
etniche, sessuali, ecc.) e integrarle, cosmopolita, vivace, meritocratico, dove
l’ascensore sociale funziona (cioè si può sperare di cambiare classe sociale
grazie al proprio impegno), e lo trovano più attrattivo del luogo di partenza.
La scoperta della diversità culturale alle volte produce di questi effetti: che
finisce per interessarci e piacerci. Del resto, sapete quanti sono gli studenti
italiani che, partiti per l’Erasmus, finiscono per sposare un o una partner di
nazionalità diversa? Più di uno su tre. Vuol dire che la diversità non sempre
fa paura: ad alcuni piace così tanto che se la sposano...
5.

Perché la diversità ci fa paura. E ci attrae

La diversità è un problema? Sì, no, forse, dipende. È l’unica risposta sensata


che possiamo dare a questa domanda. Oppure potremmo rispondere così: la
diversità culturale è un problema quando crea un problema, o quando viene
percepita come un problema; non lo è in tutti gli altri casi. Cosa vogliamo
dire? Che non esiste nessuna diversità che sia problematica in sé: che lo sia
dipende dal contesto, dal momento, dalla relazione che abbiamo con chi la
incarna. Ad esempio, la diversità culturale, etnica, religiosa, non ci fa
nessun problema quando si tratta di campioni sportivi che rappresentano il
nostro paese, o di ricercatori che lavorano nei nostri laboratori scientifici, o
quando misuriamo il grado di internazionalizzazione delle nostre università
e scopriamo che più è alto e meglio sono valutate.
La nozione stessa di diversità culturale – quella di cui discutiamo più
spesso – è problematica. Posso avere molto in comune con una persona di
nazionalità, etnia, religione, cultura diversa dalla mia, proveniente da
cinquemila chilometri di distanza. E poco più di niente in comune con
persone della mia stessa nazionalità, nate nella mia città, residenti nel mio
stabile o vicini di pianerottolo, con opinioni politiche o stili di vita
enormemente diversi dai miei. Oppure ci possono essere incomprensioni,
ma transitorie: finché non ci si conosce meglio, e personalmente – come
accade spesso nelle convivenze di quartiere o di condominio. Oppure ci può
essere un ambivalente sentimento di attrazione e repulsione, come ci hanno
mostrato gli imperialismi, i colonialismi, gli esotismi, gli orientalismi, gli
stessi razzismi: capaci di sentirsi superiori e al contempo affascinati dalla
cultura reputata inferiore; dominatori e al contempo sedotti; imponendo dei
costumi e accogliendone altri, su piani diversi – quello economico, politico,
religioso, culturale, sessuale – che non vanno sempre nella stessa direzione.
Le mode, i consumi culturali, la musica, il cibo, ma anche la medicina e la
salute, e tanti altri aspetti della vita, ci mostrano che spesso la diversità
culturale ci attrae, ci piace, ci interessa, introduce variabilità e possibilità di
scelta nella nostra vita quotidiana: tanto che possiamo scegliere, e molti lo
fanno, di “convertirci” allo stile di vita di un altro, alle sue idee, alla sua
musica, al suo cibo, al suo modo di curarsi, o alla sua religione –
definitivamente o, spesso, anche solo per alcuni periodi della nostra vita;
essendone consapevoli o meno, come accade nel multiculturalismo
quotidiano legato ai consumi (quando ascoltiamo musica reggae,
pratichiamo lo yoga, facciamo agopuntura, ci vestiamo secondo la moda
etnica del momento, viaggiamo in India, mangiamo giapponese...).
Inoltre la pluralità sociale e culturale, ovvero la presenza di persone,
gruppi e comunità di individui che hanno altre culture e stili di vita, produce
incroci e meticciamenti culturali: la parola fusion, che applichiamo alla
cucina, alla musica e a molti altri settori, ci mostra proprio questo. Tra
l’altro ci si mischia socialmente: non a caso sono in aumento le esperienze,
le amicizie e i matrimoni cosiddetti misti – in Italia i matrimoni tra persone
di nazionalità diversa sono già oggi 1 su 10, in crescita continua. E
sarebbero di più, se non fosse che tra persone di religione o colore della
pelle diverso, a causa dello stigma negativo da parte delle famiglie e degli
ambienti di origine, molti finiscono per non sposarsi, limitandosi a
convivere.
Certo, l’incontro implica anche, inevitabilmente, lo scontro.
Statisticamente, più capita di inciampare nella diversità e più spesso
capiterà di avere un incontro non piacevole: più ci si incontra, e più ci si
scontra; e viceversa, meno ci si incontra con altri, meno sarà probabile
scontrarsi con loro (solo se fossimo da soli non ci scontreremmo mai con
nessuno, precisamente perché non incontreremmo nessuno – e non
crediamo sarebbe una bella prospettiva). Ma come dice un proverbio
africano, “si sente il rumore dell’albero che cade, ma non quello della
foresta che cresce”. In particolare nel linguaggio giornalistico e politico:
quando l’incontro funziona, non fa notizia, non se ne parla, né si crea
battaglia politica intorno ad esso; quando non funziona, sì. Come per i
matrimoni misti: se ne parla se falliscono, se riescono restano impercepiti.
Per la società plurale questo è un problema serio: perché, semplicemente,
non ci aiuta a capirla. Al contrario, ce la fa fraintendere. E dà visibilità solo
ai suoi nemici. Spingendoci ad avere paura della diversità.
La società complessa e plurale che stiamo descrivendo – che è quella in
cui viviamo – è un po’ come un caleidoscopio: all’interno del quale pezzi
diversi (le diverse culture) restano uguali a se stessi, mantenendo lo stesso
colore; ma in parte si sovrappongono, producendo sfumature differenti.
Accadono insomma entrambe le cose contemporaneamente: si resta uguali a
se stessi, ma anche si cambia – come nella vita. C’è chi recupera una
qualche identità originaria (o presunta tale), chi ne crea una attraverso
qualche forma di fusion tra identità diverse, e chi se la inventa. Tutte, poi,
possono essere temporanee, reversibili, intermittenti, a seconda delle
stagioni, delle età, delle opportunità, degli incontri fatti, del cambiamento
delle opinioni, persino delle mode culturali (anche la chiusura identitaria,
del resto, è sottoposta alle stesse dinamiche: e anch’essa può essere
temporanea, reversibile, intermittente...).
Viviamo in quello che potremmo chiamare un contesto interculturale. Che
ha vantaggi e svantaggi. È questione di come vediamo le cose, di come le
mettiamo in prospettiva. Probabilmente è anche questione di come la
incontriamo, la diversità. Per capirci, facciamo un esempio. Usa distinguere
tra immigrati e nativi digitali: quelli che sono nati quando le tecnologie che
ci hanno cambiato la vita (il computer, internet, lo smartphone, ecc.) non
c’erano ancora – gli adulti e gli anziani di oggi – e quelli che sono nati
quando già esistevano – i giovani di oggi. Ebbene, non le vivono allo stesso
modo. Ecco, probabilmente esistono anche gli immigrati e i nativi della
mobilità e soprattutto della pluralità culturale: quelli che l’hanno incontrata
a un certo punto della loro vita (gli immigrati stessi, e chi li ha visti
arrivare), per cui è una novità foriera di incognite e pericoli, e quelli che
semplicemente la vivono e la sperimentano dalla nascita, dandola per
scontata, e cercando di tirarne fuori il meglio.
“Se conosci solo l’Inghilterra, non conosci l’Inghilterra”, recita un detto
anglosassone. Significa che l’altro spesso ci aiuta a capire noi stessi. È uno
dei grandi insegnamenti della filosofia del Novecento e della psicanalisi.
Ma è vero anche per la società. Gli altri ci aiutano a capire chi siamo noi,
come funziona la nostra società. Nel bene, e anche nel male. Facciamo un
esempio. Immaginiamo due fratelli gemelli, immigrati, provenienti da un
villaggio di un altro paese o continente: stessa cultura, religione, livello di
istruzione, classe sociale. Immaginiamo che uno emigri a Roma e l’altro,
poniamo, a Stoccolma. E ora chiediamoci: hanno la stessa probabilità di
rispettare il semaforo rosso o di pagare il biglietto dell’autobus? Ecco,
questo è precisamente un esempio di come l’altro ci fa vedere che cosa non
funziona da noi. E ciò su cui dovremmo lavorare. Senza illuderci che sia
sufficiente dare la colpa a lui, per rimettere a posto le cose: come invece,
spesso, facciamo.
Il processo di integrazione è come un matrimonio: funziona solo se a
volerlo sono entrambi i coniugi. In questo caso, sia i nuovi arrivati sia quelli
che non si sono mossi, sia gli immigrati sia gli autoctoni.
Per fare in modo che questo accada, bisogna investire: in comunicazione,
in relazioni, in conoscenze. E ascoltare gli uni e gli altri: le loro fatiche, le
loro speranze, le loro reciproche paure. Prendendole sul serio. È da quando
ho cominciato ad occuparmi di immigrazioni – quasi trent’anni fa, ormai –
che penso e dico che bisognerebbe spendere la metà delle risorse, delle
energie, dell’intelligenza, e anche dei soldi, che spendiamo in accoglienza
degli immigrati, per aiutare gli autoctoni a capire cosa sta succedendo.
Sarebbe un buon investimento. Migliorerebbe sia i processi di integrazione
che il modo di funzionare della società. Perché – proprio come nei
matrimoni – se uno dei due non capisce, non è convinto, pensa che ci sia
qualcosa che non va, ha dei sospetti, o peggio ha paura, andrà tutto a rotoli.
È per questo che bisogna capire le paure. Anche quando sono mal motivate.
E ancora di più se sono fondate su fragili presupposti. Perché (come recita
un noto teorema sociologico) se una cosa è percepita come reale, essa sarà
reale nelle sue conseguenze. Inoltre, è bene ricordarlo – ancora una volta,
esattamente come nei matrimoni –, le ragioni non stanno mai tutte da una
parte sola. E il crederlo è parte importante della reciproca incomprensione.
Di alcuni problemi, magari, le migrazioni non saranno necessariamente la
causa, ma solo un comodo capro espiatorio. Probabilmente, saranno parte di
un problema più ampio. Che, nel caso, va ascoltato. Perché ascoltare le
paure aiuta ad evitare le chiusure. E a capire che spesso sono svantaggiose
anche per chi le attiva, come meccanismo di autodifesa.
Xenofobia e razzismo (parola usata troppo spesso per non far pensare che
sovente lo sia a sproposito) possono essere facili scorciatoie interpretative:
sia da parte di chi le usa sia da parte di chi, di queste, accusa. Del resto,
sono parte di un fenomeno più ampio, il ritorno degli -ismi:
fondamentalismi, etnicismi, localismi, tribalismi, e tanti altri. E vanno
analizzati come tali, sapendo che il meccanismo del capro espiatorio è
attraente perché, spesso, funziona: aiuta a proiettare il proprio malessere
altrove, a dare la colpa a qualcun altro se le cose vanno male. E dunque
conviene cercare insieme le vere cause del malessere, se davvero si vuole
curarlo. Cosa che, va detto, alcuni non vogliono fare: quelli che, dal
malessere, dal conflitto, hanno qualcosa da guadagnarci, e per questo lo
tengono vivo.
È frutto di incomprensione di quello che succede anche la diffusa
sovrastima numerica del numero degli immigrati presenti in Italia. Una
indagine dell’Ipsos rileva come gli italiani siano convinti che gli immigrati
rappresentino il 26% della popolazione residente in Italia, e i musulmani
siano il 20% della popolazione; quando le cifre reali ci dicono che i primi
sono circa il 10% (stimando e comprendendo anche gli irregolari) e i
secondi il 3,5% circa. Una ricerca comparativa ancora più recente, condotta
dal National Bureau of Economic Research di Harvard, pubblicata a giugno
2018, misura la percezione degli immigrati in Italia addirittura nel 30%
della popolazione: per ogni immigrato reale, in pratica, gli italiani ne
“vedono” tre, e sono convinti che la metà di essi sia musulmana. Inoltre
pensano che il 40% degli immigrati siano disoccupati, probabilmente
confondendo gli immigrati con i richiedenti asilo presenti nelle strutture di
accoglienza, mentre il tasso di disoccupazione tra gli immigrati è intorno al
10%, più o meno come quello degli italiani.
Tutto ciò è reso credibile da un sistema dell’informazione che enfatizza
continuamente questo e solo questo problema, in maniera tendenziosa,
rendendo la percezione deviata: tanto che ormai quando pensiamo agli
immigrati ci vengono in mente solo i disperati che arrivano sui gommoni.
In termini comparativi, secondo alcune ricerche internazionali, siamo tra i
primi paesi al mondo nella sovrastima numerica: in Giappone credono che
gli immigrati siano 5 volte tanto il dato reale, in Polonia 4,5 volte, in Sud
Corea 3,7, in Ungheria 3, e in Italia appunto 2,9 volte. Per quanto riguarda i
musulmani siamo messi ancora relativamente bene, se pensiamo che in
Ungheria credono che siano addirittura 70 volte il dato reale, in Polonia 50,
in Giappone 40, negli Stati Uniti 15, e in Italia, in fondo, solo 5 o 6 volte la
realtà...
Le ricerche – come la Standard Eurobarometer Survey – ci dicono anche,
tuttavia, una cosa che i governi europei non hanno ancora capito, e ancora
meno cominciato a praticare: la stragrande maggioranza degli europei, ben
il 68%, sostiene che dovrebbe essere l’Unione Europea, e non i singoli Stati
nazionali, a gestire le politiche sull’immigrazione. Anche a loro, forse,
bisognerebbe cominciare a dare ascolto.
Tutto questo ci dice che occorre implementare la sicurezza reale e
percepita, ma soprattutto costruire e rinforzare il legame sociale tra le
persone, autoctoni e immigrati. Mentre formare i cittadini, le organizzazioni
sociali, i corpi intermedi e le classi dirigenti alla pluralità, alle sue
dinamiche, ai suoi conflitti, alla loro gestione, diventa una priorità sociale
ineludibile.
Una cosa da fare

(da cui discendono tutte le altre)

Da quanto precede si desume che ci sia una sola cosa da fare, urgente e
indispensabile, dalla quale discendono tutte le altre. E questa cosa è così
semplice che la sua enunciazione sarà molto breve (del resto, l’abbiamo già
anticipata): riaprire i canali di immigrazione regolari.
Così facendo i paesi europei sarebbero maggiormente legittimati e più
efficaci nel chiudere i canali irregolari, togliendo alle mafie transnazionali il
monopolio di gestione dei flussi migratori che indirettamente hanno loro
affidato: e che prima che chiudessimo le frontiere alle migrazioni regolari
non avevano.
Conviene a noi, e converrebbe anche ai paesi d’origine: che sarebbero così
incentivati a controllare le migrazioni irregolari, essendo coinvolti in
accordi in cui avrebbero pari dignità, e potrebbero avere dei vantaggi in
termini di sviluppo, avendo pure una valvola di sfogo nelle migrazioni
regolari.
Questo consentirebbe ai paesi europei – o meglio ancora all’Unione
Europea, che sarebbe un negoziatore molto più forte e autorevole – di
selezionare le migrazioni anche rispetto ai propri bisogni e interessi.
Modulandoli secondo necessità: che potrebbe voler dire, regolarizzando in
una prima fase – prima di attivare nuovi flussi – gli irregolari già presenti
sul territorio, tra cui i richiedenti asilo che ricevono un diniego alla loro
richiesta, che hanno già avviato percorsi di integrazione lavorativa. E
lasciando aperta la strada del rimpatrio assistito per altri: che sarebbe, in un
regime di accordi tra Stati, più collaborativo di quanto non sia oggi.
Verrebbe così articolata diversamente anche la distinzione tra richiedenti
asilo (riconoscimento che potrebbe rimanere solo per la minoranza che ne
ha effettivamente diritto) e migranti economici, che nella storia sono sempre
stati la grande maggioranza dei migranti. E con essa il bisogno di
un’accoglienza di tipo eccezionale ed emergenziale, per richiedenti asilo
che spesso non sono tali (per colpa nostra, dato che dirsi tali è rimasto
l’unico modo che abbiamo lasciato per tentare l’ingresso in Europa), mentre
si potrebbero investire le risorse in altro modo, attivando veri processi di
integrazione e di inclusione – fatti di studio intensivo e obbligatorio della
lingua e della cultura del paese di accoglienza, di formazione professionale
e di orientamento al lavoro – e non solo progetti di accoglienza limitati
spesso alla sola fornitura di vitto e alloggio. Ciò eviterebbe anche disparità
di trattamento nei confronti degli emigranti del passato, e dei cittadini di
oggi. E consentirebbe di ripensare progetti di inclusione che non valgano
solo per gli stranieri neo-arrivati, ma per tutti i cittadini in posizione debole
o con delle fragilità rispetto al mercato del lavoro e alla società.
Alfabetizzazione e formazione sono diritti di tutti, parte di quello che
dovrebbe essere un welfare universale, non rivolto a singole categorie della
popolazione. E progetti in questa direzione che funzionano potrebbero
utilmente aprirsi a chiunque ne abbia bisogno: sarebbe un vantaggio per la
società intera, immigrati e autoctoni insieme.
Tutto questo, inoltre, garantirebbe un numero assai minore di irregolari (lo
diventano infatti anche i richiedenti asilo che, alla fine del percorso,
ricevono un diniego alla loro domanda): si avrebbe dunque più legalità,
maggiore controllo, e quindi anche maggiore sicurezza. Il fatto di trovarsi in
situazione di marginalità e talvolta di devianza è dovuto infatti alla
condizione di irregolare, non a quella di straniero. Lo straniero regolare può
inserirsi normalmente nel mercato del lavoro e nella società, quello
irregolare no. Regolarità e certezza del diritto significa diritti e doveri
uguali per tutti, senza distinzioni: la condizione migliore per favorire
l’integrazione ed evitare conflitti.
I flussi migratori sono, come tali, regolabili e canalizzabili, almeno in
buona misura: proprio come accade per il fluire dei fiumi. Sta a noi decidere
se lasciarli alla mercé dei nuovi schiavisti, o assumerci la responsabilità di
affrontare i problemi per provare, finalmente, a risolverli. Nell’interesse
nostro e di tutti.
L’autore

Stefano Allievi è professore di Sociologia e direttore del Master in


Religions, Politics and Citizenship presso l’Università di Padova. Si occupa
di migrazioni in Europa e analisi del cambiamento culturale e del
pluralismo religioso, temi sui quali ha condotto ricerche in Italia e
all’estero. Tra le sue pubblicazioni in italiano, La guerra delle moschee
(Marsilio 2010), Conversioni: verso un nuovo modo di credere? Europa,
pluralismo, islam (Guida 2016) e Il burkini come metafora. Conflitti
simbolici sull’islam in Europa (Castelvecchi 2017). Per Laterza, Tutto
quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (con G. Dalla Zuanna,
2016) e Immigrazione. Cambiare tutto (2018).
www.stefanoallievi.it

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