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Capitolo 1
Il sistema europeo e il movimento internazionale per il riconoscimento
dei diritti umani
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (frutto della Rivoluzione
francese) negò distinzioni, privilegi e discriminazioni proprie dell’”Ancien Regime”. Tale
dichiarazione si presenta inoltre per la sua natura costituzionale. Essa all’articolo 2
afferma che lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e
imprescrittibili dell’uomo. All’epoca si intendeva che era dovere dei singoli stati riconoscerli
e garantirli nell’ambito della propria giurisdizione.
Nel novecento la responsabilità della protezione dei diritti umani si estende a sedi
sovranazionali impegnando la comunità internazionale e superando la pretesa degli stati di
non subire interferenze esterne.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, rappresenta un’importante novità
nella concezione del rapporto dell’individuo con lo stato e della posizione della comunità
internazionale rispetto alla violazione dei diritti umani commesse dagli stati al loro interno.
Nel suo preambolo si afferma che è indispensabile che i diritti dell’uomo siano protetti da
norme giuridiche, se nei vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere alla ribellione
contro la tirannia o l’oppressione.
La Dichiarazione tuttavia non è un trattato internazionale nel quale derivino gli obblighi
giuridici per gli stati, non contiene alcuna indicazione circa i mezzi idonei ad assicurare
che essa venga effettivamente osservata e non prevede nemmeno strumenti a
disposizione degli individui per far valere i loro diritti.
La sua importanza però deriva dallo sviluppo della generica espressione “diritti dell’uomo”
in un catalogo preciso di diritti. Tale Dichiarazione esprime l’idea che i diritti umani da essa
elencati abbiano natura universale, assumendo un contenuto programmatico che la rende
tuttora controversia.
Nonostante la diversità di contenuto e di struttura dei suoi diritti fondamentali e la
possibilità di raggrupparli secondo categorie distinte permette che essi siano:
- Indivisibili
- Interdipendenti
- Complementari
Alla Dichiarazione fecero seguito il Patto dei diritti civili e politici il Patto dei diritti
economico-sociali (che ricalcano il contenuto della Dichiarazione universale). Operano,
nell’ambito delle Nazioni Unite, il Consiglio dei diritti umani e l’Alto Commissario per i diritti
umani.
Nel 1948, organizzato dal Comitato internazionale dei movimenti per l’unione europea, si
svolse il Congresso dell’Aia. Tale Congresso diede via ai lavori per l’istituzione del
Consiglio d’Europa. I suoi stati fondatori furono Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda,
Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito.
Gia nel preambolo dello statuto, gli stati membri riaffermano la loro devozione ai valori
spirituali e morali che sono la comune eredità dei loro popoli e la vera origine della libertà
individuale, della libertà politica e dello stato di diritto.
L’ Articolo 3 stabilisce che ogni membro deve accettare il principio dello stato di diritto e il
principio in virtù del quale tutte le persone nell’ambito della sua giurisdizione devono
godere dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
I protocolli aggiuntivi legano solo gli stati che li hanno ratificati, i protocolli emendativi non
entrano in vigore se non ratificati da tutti gli stati che sono parte del sistema convenzionale
(salvo particolari disposizioni).
Accanto al ricorso individuale è previsto quello intestatale, importante anche se raro. Esso
riposa sul concetto di grazia collettiva, da parte degli stati contraenti, dei diritti e libertà
definiti dalla Convenzione.
Il ricorso introdotto dalla vittima della violazione è quello che più frequentemente viene
utilizzato e che offre alla Corte l’occasione per affermare e sviluppare la propria
giurisprudenza.
La corte, che con la sua sentenza è chiamata a risolvere un conflitto, è esterna al sistema
giuridico degli stati. Il controllo esterno della Corte europea, rompe i confini degli stati. La
singola persona diviene soggetto di diritto internazionale, facendo valer diritti propri nella
controversia contro uno stato.
Fuori dallo spazio regionale europeo sono stati creati altri sistemi regionali di tutela dei
diritti fondamentali:
• La Carta arava dei diritti dell’uomo, approvata dalla Lega Araba nel 2004, ha
costituito il Comitato arabo dei diritti umani, che riceve ed esami i rapporti degli stati
sull’attuazione di quanto stabilito dalla Carta;
• La Carta dei diritti umani in Asia è un documento redatto nel 1998 da un gruppo
di organizzazioni non governative in Asia. Essa non ha valore giuridico.
Capitolo 2
La Corte europea dei diritti umani. Natura ed efficacia della sua
giurisprudenza.
Nella Convenzione, la definizione dei diritti e delle libertà fondamentali è normalmente
molto generale. Generali sono anche le espressioni usate per indicare le limitazioni che
taluni diritti ammettono. È una normativa che fissa principi.
Accanto alla decisione primaria di decidere il caso , la giurisprudenza della Corte assume
un valore generale perché l sentenza costituisce un precedente cui la Corte si rifà
successivamente nei casi analoghi. Non è solo lo stato parte nel giudizio a dare
esecuzione alla sentenza, ma tutti gli stati membri del Consiglio d’Europa.
Oggetto e natura delle sentenze ella Corte europea ne indicano la differenza rispetto alle
sentenze del giudice nazionale, particolarmente quando queste siano rese da giudici che,
come quello italiano, operano in sistemi di civil law.
La Corte tende a non ripetere o rivedere le valutazioni che essi hanno fatto, specialmente
per quanto riguarda la ricostruzione della normativa interna. La Corte esclude di poter
essere usata come sede di quarta istanza dopo l’esaurimento dei gradi di giudizio a
disposizione del ricorrente in sede nazionale. E quando la legalità secondo la legge
nazionale è requisito richiesto dalla Convenzione la Corte non sostituisce la propria
ricostruzione del diritto internazionale a quella adottata dai giudici interni, salvo il caso
estremo che essa sia arbitraria.
Il Preambolo della Convenzione, che richiama lo scopo statutario del Consiglio d’Europa e
l’intenzione degli stati membri di operare per una maggior unità tra di loro anche attraverso
la protezione dei diritti e delle libertà fondamentali, offre un’indicazione teleologica
normativa ai fini dell’interpretatone della Convenzione.
La corte afferma di non essere abilitata a riconoscere nuovi diritti o nuove eccezioni per
rispondere a nuove esigenze. La natura casistica della sua giurisprudenza implica un
metodo di lavoro che parte necessariamente dal caso oggetto del ricorso e richiede alla
Corte la ricerca della norma convenzionale pertinente.
Quanto ai protocolli aggiuntivi che non siano stati incorporati nella Convenzione, la Corte
ritiene che le loro disposizioni si aggiungano senza modificarle a quelle della
Convenzione.
La Corte non ricerca l’unanimità di tutti gli stati europei, ma assegna rilevanza ai segni di
tendenze significative verso il più ampio riconoscimento dei diritti umani. Il fondamento
oggettivo del richiamo al “consenso europeo” risulta spesso debole.
Le più importanti sentenze sono state liberate dalla corte nei decenni 60 e 70, nei primi
anni della sua attività. Naturalmente in assenza di precedenti e con conseguente rilievo
essenziali del testo letterale alla luce dello scopo della convenzione. Ed anche le decisioni
della commissione hanno portato importanti contributi alla costruzione della giurisprudenza
europea.
Il modo di ragionare della corte È fondamentalmente basato sui precedenti. Si parte dalla
ricerca del precedente rilevante e, quando non esita uno specifico, la corte si avventura
negli interstizi lasciati aperti tre precedenti giurisprudenziali pertinenti ma non specifici.
Essa dunque procede distinguendo il caso da decidere da quello o quelli già decisi, per
prevenire l'identificazione del precedente che indica la soluzione da adottare oppure la
conclusione che il caso in esame non trova ancora riscontro nella giurisprudenza della
corte.
La corte afferma che essa non potrebbe ignorare le circostanze di diritto e di fatto che
caratterizzano la vita sociale nello Stato convenuto in giudizio; se si sostituisce dalle
autorità nazionali competenti, la corte perderebbe di vista il carattere sussidiario del
meccanismo della convenzione.
L'intervento della corte è solo previsto quando sia sorta una continua in controversia e
dopo che siano state esaurite le vie di ricorso interne. Ca però rilevato che il ruolo dello
Stato nel riconoscere assicurare i diritti della convenzione non si sostanza in un diritto , Ma
in un obbligo, che non implica autonomia nella definizione dell'ambito dei diritti delle
possibili loro limitazioni.
La naturale reciproca influenza che opera tra la giurisdizione della corte europea e quelle
dei giudici nazionali, e chiamata anche “dialogo tra le corti”. Volte, la corte ha aggiunto la
rivendicazione di un suo ruolo nel controllo europeo di ragionevolezza, proporzione e
salvaguardia della sostanza del diritto di cui si tratta.
Nel suo complesso l'istituto di origine giurisprudenziale che va sotto il nome di margine di
apprezzamento risponde in linea di principio hai ragione i voli preoccupazioni di definizione
dei confini che sono propri a decisioni di natura giudiziaria rispetto a quelle politiche degli
Stati.
La corte europea afferma che l'ampiezza del margine di apprezzamento è una nazionale
varia secondo le circostanze, le materie e il contesto E che rileva in proposito la presenza
o l'assenza di una dominatore comune ai sensi giuridici degli Stati che fanno parte del
sistema della convenzione (consenso europeo). Il riconoscimento del margine di
apprezzamento conduce a risultati imprevedibili nell'applicazione. E ciò non solo quando
la corte ritiene di poter differenziare l'ampiezza di quel margine a seconda delle diverse
materie, anche quando vengono in esame i medesimi diritti.
Corso del tempo il potere particolarmente nel più recente periodo le giurisprudenza della
corte europea è parsa incline ad ammettere i più ampi ambiti e con maggiore facilità di
margine di apprezzamento rimessi agli Stati.
La protezione convenzionale non può ridurre la portata di diritti fondamentali assicurati dei
sistemi nazionali. La convenzione assicura il livello di protezione minimo è comune a tutti
gli Stati europei.questa è la portata del riconoscimento che gli Stati hanno espresso
all'articolo uno della convenzione con riguardo ai diritti e alle libertà della convenzione.
L'articolo 53 della convenzione non si riferisce alla maggior tutela che eventualmente uno
Stato offra a uno o più dei diritti considerati dalla convenzione, ma si riferisce ai diritti
dell'uomo e le libertà fondamentali che siano riconosciuti dalle leggi dello Stato. La formula
letterale ricomprende il caso in cui le leggi dello Stato assicurino diritti o libertà
fondamentali ulteriori rispetto all'elenco contenuto nella convenzione nei protocolli.
Occorre considerare che la valutazione di ciò che significhi maggior tutela e tu il tratto che
facile. Intervengono valutazioni che riguardano lo stesso contenuto del diritto di cui si
tratta, nei suoi rapporti con tutti soggetti che vi sono interessati. La complessità della
disciplina nei suoi profili sostanziali e processuali, può offrire indicazioni confliggenti
quanto a livello di efficacia della tutela.
Nel sistema italiano la mancanza di accesso diretto alla corte costituzionale implica che il
relativo ricorso non è richiesto per l'esaurimento delle vie interne. Il ricorso deve essere
efficace sia in generale, che nel senso particolare del singolo individuo. Efficacia del
ricorso comprende la capacità di prevenire la violazione o la sua continuazione, ovvero di
fornire adeguato indennizzo se la violazione si è già verificata.
Nel ricercare il senso della giurisprudenza della corte europea non si può prescindere dal
fatto che essa è casistica. Alla grande camera, che interviene raramente, e rimesso il
potere di modificare leggi rispondenza della corte. La sentenza della grande camera non è
un pena particolare forza vincolante. Questa sceglie un contrasto e fissa il tenore del
precedente cui fa riferimento, fino a che non sorga la necessità di ripensarlo.
Le sentenze pilota (che hanno variegata natura e struttura) non presentano a loro volta
una speciale forza. Essi si caratterizzano semplicemente per il fatto che decidono un caso
in vista della decisione di altri numerosi casi identici già pendenti, la cui trattazione viene
sospesa in modo da consentire al governo interessato di introdurre soluzioni nazionali
riparatorie e preventive di violazioni ripetute o strutturali.
La giurisprudenza della corte riguarda tutti gli Stati membri del consiglio d'Europa, sia pure
con le differenze che derivano dalla varietà di sistemi normativi e con gli effetti del margine
di apprezzamento nazionale. L'adeguarsi delle situazioni della corte consente agli Stati di
prevenire violazioni. In forza allo statuto del consiglio, oltre che degli articoli uno, 19:32
della convenzione, gli Stati membri sono tenuti ad osservare la convenzione
nell'interpretazione che ne dalla corte europea.
Per evitare che la legge interna entri in conflitto con la convenzione occorre che il giudice
sia lasciato un margine sufficiente di discrezionalità nel decidere, in modo che sia possibile
adattare la decisione alle particolarità del caso.
Capitolo 3
La Convenzione europea dei diritti umani nell’ordinamento italiano
Il tema dei rapporti tra Convenzione e ordinamento interno e dunque, del rango della
Convenzione nel nostro ordinamento, ha generato un acceso dibattito in dottrina ed in
giurisprudenza, almeno fino all’intervento della giurisprudenza costituzionale nel 2007,
successivamente rimessa in discussione in seguito all’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona.
L’importanza della soluzione del tema del rango della Convenzione europea
nell’ordinamento italiano deriva proprio dalla notevole portata evolutiva della Convenzione
con riferimento ad ogni settore del diritto interno.
Sul punto sono intervenute due sentenze della Corte Costituzionale del 22 ottobre 2007, la
n. 348 e la n. 349.
Tale locuzione è stata intesa dalla Consulta pacificamente riferita alle norme del diritto
internazionale consuetudinario, per le quali soltanto la Costituzione dispone l’adattamento
automatico; ne consegue che non possono ritenersi incluse anche le norme contenute in
Trattati bilaterali o plurilaterali, di diritto internazionale pattizio, categoria cui appartengono
le norme della Convenzione.
Sicché la Corte, sotto un primo versante, esclude che il tema del rango della Convenzione
nel nostro ordinamento possa essere risolto tramite il richiamo all’articolo 10 della
Costituzione.
La Consulta esclude altresì che la questione possa essere definita in base al richiamo alla
norma di cui all’articolo 11 della Costituzione.
Tale disposizione sancisce l’adesione dello Stato italiano, consentendo alla limitazione
della propria sovranità, alle organizzazioni internazionali che abbiano come scopo quello
di assicurare il perseguimento della pace e della giustizia fra le Nazioni.
I giudici della Corte Costituzionale ritengono infatti che l’articolo 11 della Costituzione non
possa disciplinare il rapporto tra l’ordinamento interno e la Convenzione, perché aderendo
a tale Convenzione, l’Italia non ha acconsentito ad alcuna limitazione di sovranità a favore
della Convenzione.
L’articolo 117 della Costituzione è un esempio di “rinvio mobile ad una fonte”, poiché esso
è integrato dalle norme Convenzione, le quali rappresentano delle “norme interposte”, che
trovano la loro collocazione nella gerarchia delle fonti interne a metà strada tra norme di
rango ordinario e norme della Costituzione, in quanto sono dotate di una maggiore forza di
resistenza rispetto alle leggi ordinarie, ma sono comunque gerarchicamente inferiori alle
norme costituzionali.
In virtù di tale ricostruzione alla Convenzione viene attribuito un duplice ruolo: da una parte
essa diviene parametro interposto per vagliare la legittimità costituzionale delle norme
interne; dall’altra essa rappresenta un criterio per l’interpretazione costituzionalmente
orientata delle disposizioni interne.
Qualora tale via interpretativa non sia percorribile, il giudice deve sollevare la questione di
costituzionalità della norma interna per contrarietà rispetto alle disposizioni della
Convenzione.
L’esito cui si perviene nel risolvere la questione del rango della Convenzione e dei rapporti
della stessa con l’ordinamento interno, diverge da quello cui si è giunti con riferimento al
“diritto comunitario” (rectius: “diritto dell’Unione Europea”), per il quale si ritiene operi
direttamente l’articolo 11 della Costituzione, che determina l’adesione alle organizzazioni
sovranazionali, quali in specie, l’Unione Europea, accettando limitazioni di sovranità.
Da ciò consegue che, qualora la norma interna sia confliggente con il diritto comunitario, si
disapplica (e cioè non si applica, poiché la norma interna viene considerata “tamquam non
esset”), in virtù del principio di “primazia del diritto comunitario”, senza ricorrere
all’intervento della Corte Costituzionale.
Tale articolo al paragrafo 1, statuisce che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi
sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000, che ha
lo stesso valore giuridico dei trattati”.
Il primo paragrafo dell’articolo 6 contiene il riferimento alla Carta dei diritti fondamentali di
Nizza, alla quale, in virtù delle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, viene
assegnato “lo stesso valore giuridico dei Trattati”.
Quanto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo invece, richiamata nei paragrafi 2 e
3 dello stesso articolo 6, del Trattato sull’Unione Europea, all’orientamento secondo cui
tale Convenzione sarebbe stata “comunitarizzata”, si contrappone quello secondo cui la
Convenzione conserverebbe la natura di norma interposta sub-costituzionale.
A tale impostazione si contrappone quella secondo cui il rango delle norme della
Convenzione nell’ordinamento interno sarebbe rimasto il medesimo, anche dopo le
modifiche apportate all’articolo 6 dal Trattato di Lisbona.
Sicché alla Carta di Nizza e alla Convenzione viene attribuito diverso valore giuridico.
Allo stesso esito è pervenuta da ultimo la Corte Costituzionale, con sentenza del 12
ottobre 2012, n. 230, nella quale la Consulta ha confermato il rango della Convenzione di
fonte sub- costituzionale, ma sovra-ordinata rispetto alla legge costituzionale.
Al giudice nazionale spetta la ricostruzione del tenore della giurisprudenza elaborata dalla
Corte europea. Essa offre il termine di paragone per l'adeguamento della legge interna in
via interpretativa.
Capitolo 6
L’applicabiità della Convenzione
• Gli atti che danno luogo all’asserita violazione siano avvenuti successivamente alla
ratifica della Convenzione da parte dello stato convenuto e prima della sua
denuncia (competenza ratione temporis). La Convenzione non può esaminare
ricorsi aventi ad oggetto violazioni avvenute prima della ratifica della Convenzione
da parte dello stato convenuto.
Alcuni obblighi di azione positiva da parte degli stati si ricavano agevolmente dal testo
stesso di alcuni articoli della Convenzione o ne derivano implicitamente; altri obblighi
positivi sono stati sviluppati dalla giurisprudenza della Corte sulla base dello scopo della
Convenzione. Non è escluso inoltre che tali obblighi operino anche quando la violazione o
la messa in pericolo del diritto di un individuo derivi dalla condotta di un altro privato e le
autorità pubbliche siano o debbano essere messe al corrente della situazione di pericolo o
di danno: è l’ipotesi di estensione indiretta e orizzontale dell’applicabilità della convenzione
(Drittwirkung).
Stabilisce che la Convenzione non può essere interpretata e applicata per consentire a
stati, gruppi o persone di tenere comportamenti diretti a distruggere i diritti e le libertà o a
estendere limitazioni o eccezioni che la Convenzione riconosce. Si tratta di un articolo
applicabile solo in casi eccezionali e con riferimento a situazioni estreme.
La Convenzione, all’art.15, ammette deroghe agli obblighi assunti dagli stati per i diritti e le
libertà non indicati come inderogabili, ponendo una serie di condizioni. La previsione
consente, in situazioni che richiamano la nozione di “stato di necessità”, la sospensione o
limitazione di alcuni diritti convenzionali, senza che il governo interessato sia lasciata la
sola via della denuncia della Convenzione nel suo complesso. Si tratta principalmente dei
casi di guerra o di altri pericoli pubblici che minaccino la vita della nazione.
Sul piano procedurale, l’art.15 richiede che lo stato che adotta deroghe informi il segretario
generale del Consiglio d’Europa delle misure prese e dei motivi che le giustificano, nonché
della data a partire dalla quale esse cessano d’essere applicate.
E. Il benessere economico del paese, è scopo che giustifica limitazioni nel diritto al
rispetto della vita privata e familiare.
F. L’esigenza di protezione della salute riguarda sia quella della singola persona (come
nei trattamenti sanitari obbligatori e nell’imposizione di vaccinazioni) sia quella
generale (ad es. nell’imposizione di test alcoolici a conduttori di veicoli).
G. La difesa della morale è stata ammessa come scopo legittimo rivendicato dal
governo in ricorsi concernenti pubblicazioni o esposizioni di oggetti e dipinti a esplicito
carattere o tema sessuale.
H. I diritti e le libertà altrui. Le occasioni più frequenti di richiamo da parte dei governi e
di ammissione da parte da parte della Corte europea dello scopo di proteggere i diritti
altrui riguardano il diritto alla reputazione rispetto ai casi di diffamazione, oppure
nell’interesse del bambino in casi relativi alla vita di famiglia. L’esigenza legittima di cui
si tratta è anche stata riconosciuta in relazione al diritto al rispetto delle convinzioni
religiose e in ordine alla concorrenza sleale.
E’ importante precisare che la fase della c.d. “giustificazione” delle ingerenze non si
applica nel caso in cui sia in gioco un diritto assoluto. Tale categoria di diritti non
permette, infatti, alcuna restrizione.
Capitolo 8
Diritto alla vita
Il diritto alla vita è il primo in ordine di importanza nonché presupposto di tutti gli altri. La
Convenzione europea, all’art.2 afferma che “il diritto alla vita di ogni persona è protetto
dalla legge” e definisce i casi in cui la privazione della vita di una persona non è in
violazione del relativo diritto.
Titolare del diritto è ogni persona nel corso della sua vita.
Dal diritto alla vita non si può trarre il suo opposto e cioè il diritto di morire.
Lo stato deve astenersi dal causare la morte o anche solo dal mettere concretamente a
rischio la vita di una persona, prendendo le misure necessarie alla protezione. Quando per
gli scopi legittimi indicati dalla Convenzione, lo stato faccia ricorso alla forza, essa deve
essere mantenuta nei limiti di ciò che è assolutamente necessario. L’uso eccessivo della
forza determina la violazione del diritto alla vita anche quando lo scopo perseguito sia
legittimo e la conseguenza letale non sia intenzionale.
La prima ipotesi di uso della forza letale, che si pone come limite al diritto alla vita,
corrisponde alla legittima difesa e allo stato di necessità della legislazione penale italiana.
Lo scopo di perseguire un arresto o di impedire l’evasione di un detenuto legittima l’uso
della forza, quando essa sia assolutamente necessaria, anche a rischio di provocare la
morte del fuggitivo.
L’ultima ipotesi menzionata dall’art.2 Conv. Di uso della forza che cagiona la morte di una
persona riguarda la repressione secondo la legge di una sommossa o di un’insurrezione.
La prima obbligazione positiva dello stato è quella di introdurre una legislazione adeguata
alla protezione della vita delle persone: una legislazione, cioè, che sul piano sostanziale e
procedurale sia idonea a prevenire e reprimere le offese al diritto alla vita. Le leggi devono
essere accompagnate da prassi applicative che assicurino la tutela richiesta.
Oltre alla previsione di un adeguato apparato normativo, efficacemente preventivo e
repressivo, il diritto alla vita richiede che lo stato metta in atto le misure necessarie alla
protezione della vita delle persone.
Dal dovere dello stato di proteggere attraverso la legge la vita delle persone, deriva
l’obbligo positivo di svolgere indagini efficaci in ogni caso in cui vi sia stata perdita di una
vita e di punirne i responsabili. Si tratta di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, la cui
violazione ha carattere autonomo rispetto a quella di carattere sostanziale. Le due
violazioni, sostanziale e procedurale, possono coesistere o andar disgiunte secondo le
particolarità del caso. L’indagine deve essere indipendente ed effettiva, in modo tale da
assicurare il ristoro del danno subito dalle vittime sul piano morale e materiale.
La pena di morte è espressamente considerata come un’eccezione al diritto alla vita dal
resto dell’art.2 Conv. L’abolizione della pena di morte, salvo che in tempo di guerra, è stata
disposta dal Protocollo n. 6 del 1983. Successivamente, nel 2002, il Protocollo n. 13 ne ha
stabilito l’abolizione in ogni circostanza.
In Italia la pena di morte è esclusa dall’art. 27 Cost. che ha eliminato la previsione della
possibilità di tale pena nelle leggi penali di guerra.
Capitolo 9
Divieto di tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti
Il divieto, legato al principio del rispetto della dignità di ogni persona, è assoluto e
inderogabile. Esso integra una norma internazionale consuetudinaria e costituisce “jus
cogens” inderogabile. Esso è previsto dall’art. 3 della Convenzione.
Dall’assolutezza del divieto deriva l’impossibilità di ammettere eccezioni o limiti in
considerazione di altri diritti fondamentali o di esigenze legittime degli stati.
Per rientrare nelle nozioni cui fa riferimento l’art.3 della Convenzione, occorre che il
trattamento raggiunga il livello minimo di gravità, andando oltre ciò che è inevitabilmente
connesso ad una pena o a un trattamento legittimi. La gravità del trattamento va valutata
in concreto, tenendo conto di una serie di elementi, come la durata, la serietà delle
conseguenze fisiche o mentali, l’età, il sesso, lo stato di salute della vittima.
Il divieto non implica soltanto l’interdizione per lo stato di torturare o infliggere pene o
trattamenti inumani o degradanti. Lo stato è infatti destinatario di obblighi positivi. Obblighi
positivi particolarmente stringenti gravano sullo stato quando si tratti di prevenire violazioni
in danno di soggetti deboli o particolarmente vulnerabili.
Primo fra gli obblighi positivi di natura sostanziale è quello di prevedere nella propria
legislazione norme repressive adeguate che consentano di indagare e punire le violazioni
del divieto di cui si tratta. A esso segue l’obbligo di svolgere efficaci e tempestive indagini
per identificare e punire i responsabili con pene adeguate alla gravità della violazione
( obbligo positivo procedurale).
Lo stato è anche tenuto ad istituire nel proprio ordinamento interno efficaci rimedi
preventivi e risarcitori per evitare o riparare le violazioni della Convenzione. L’obbligo
positivo dello stato riguarda anche i fatti commessi dai privati nei confronti di privati nei
confronti di privati.
L’obbligo che gli stati europei hanno assunto di non ricorrere alla tortura e alle pene o ai
trattamenti inumani o degradanti non riguarda soltanto le condotte direttamente compiute
nell’ambito della giurisdizione degli stati stessi. E’ invece acquisito che gli stati non
possono agire in modo da rendere possibile che simili condotte siano comunque poste in
essere.
In particolare, nonostante il principio secondo il quale gli stati hanno il diritto di controllare
l’entrata, la residenza e l’espulsione degli stranieri, essi non possono trasferire persone
fuori della loro giurisdizione e verso stati che praticano i comportamenti vietati dall’art. 3
Conv.
L’espulsione, l’estradizione e il respingimento verso stati rispetto ai quali vi sono seri
elementi per pensare che pratichino detti comportamenti illeciti costituirebbe violazione
della Convenzione. Conseguentemente, nel diritto interno,la misura dell’espulsione va
sostituita da altra misura di sicurezza, fino a che nello stato di destinazione permanga la
situazione che ha condotto la Corte europea a ritenere che l’espulsione costituirebbe
violazione dall’art. 3 Conv.
Capitolo 10
Divieto di schiavitù, di servitù e di lavori forzati o obbligatori
La nozione di schiavitù può essere ricostruita alla luce dell’art. 1 della Convenzione
concernente la schiavitù firmata a Ginevra il 25 settembre 1926, come “ lo stato o la
condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà
o taluni di essi”. Sono equiparate alla schiavitù le pratiche elencate dall’art. 1 della
Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù, del commercio di schiavi e
sulle istituzioni e pratiche assimilabili alla schiavitù del 7 settembre 1956:
La servitù, nel senso della Convenzione, consiste nello stato di chi è costretto a
rendere ad altri i suoi servizi ed è nozione confinante con quella di schiavitù ma non ad
essa sovrapponibile.
I comportamenti vietati non si limitano a quelli delle autorità dello stato, ma riguardano
anche quelli dei privati che lo stato è tenuto a sanzionare adeguatamente. Gli stati sono
soggetti a obblighi positivi diretti ad assicurare un’efficace protezione contro la violazione
del divieto previsto dall’art. 4 Conv.
Capitolo 11
Divieto alla libertà e alla sicurezza
Il diritto alla libertà e alla sicurezza è nella Convenzione europea previsto all’art. 5; nella
nostra Costituzione esso è contemplato dall’art. 13, che sancisce l’inviolabilità della libertà
personale. L’art. 5 indica che la privazione della libertà è consentita nei seguenti casi:
• condanna da parte del giudice competente a una pena detentiva per la violazione di
una norma penale;
• restrizione della libertà per chi sia malato di mente, quando il suo internamento in
una struttura ospedaliera sia da ritenere proporzionato in rapporto alla gravità che
riveste ogni privazione della libertà;
• arresto o detenzione per impedire l’ingresso illegale di una persona sul territorio
dello stato o allo scopo di eseguirne l’estradizione o l’espulsione.
L'art. 5 ai commi 2, 3 e 4 stabilisce che a chiunque sia privato della libertà siano garantiti
alcuni diritti proceduali e il controllo giudiziario.
L'art. 5/5 Conv. Stabilisce che chi sia stato vittima di un arresto o di una detenzione
contrari alle disposizioni dello stesso articolo ha diritto a riparazione. L'indennizzo non
esaurisce l'ambito degli obblighi positivi di tutela relativi al diritto di libertà e alla sicurezza:
talvolta è necessaria la previsione di una sanzione penale nei confronti del responsabile
della violazione dell'art. 5 Conv.
Capitolo 12
Diritto a un equo processo
Il diritto di cui all'art. 6 Conv. È riconosciuto con riferimento alle controversie civii e alle
accuse penali.
Il diritto a un processo equo e a una decisione del tribunale presuppone il diritto di
accedere al tribunale; si tratta di un diritto implicito, non espressamente menzionato.
L'accesso al giudice consente, all'esito di una procedura nella quale siano adeguatamente
prese in esame le ragioni delle parti nel contraddittorio, di ottenere una decisione utile alla
definizione della domanda, accompagnata da una motivazione che riguardi gli argomenti
rilevanti svolti dalle parti. Il diritto di accesso al giudice da una parte è rinunciabili in
materia civile e dall'altro non è illimitato.
La giurisprudenza della Corte ha individuato una seria di limiti impliciti, che sono
ammissibili a condizione che l'accesso al giudice non sia reso concretamente
impraticabile, in contrasto con le esigenze proprie del principio della preminenza del diritto
su cui la Convenzione si fonda. Purchè si tratti di regolamentazione proporzionata allo
scopo, è così ammessa l'imposizione di condizioni, nochè forme o termini procedurali,
necessari per consentire la buona amministrazione della giustizia, la certezza del diritto, il
contraddittorio nel processo, ecc..
E' tribunale, ai fini del diritto d'accesso al giudice di cui all'art. 6, l'organo stabilito dalla
legge, che sia di piena giurisdizione rispetto a ogni questione di fatto e di diritto
concernenti la decisione della controversia secondo legge, all'esito di una procedura a tal
fine definita.
La previsione per legge del tribunale non riguarda solo il fato che esso sia istituito come
tale, ma investe anche l'osservanza delle norme che disciplinano la composizione dei
collegi giudicanti e l'assegnazione delle cause ai singoli giudici.
L’articolo 6 Conv. è il riferimento normativo più importante che sia stato concesso a livello
sovranazionale dal dopoguerra ad oggi alle c.d. garanzie processuali. Tale disposizione
garantisce sostanzialmente il diritto ad un processo equo e quindi il diritto per chiunque sia
sottoposto alla giustizia ad una buona amministrazione della stessa. Ben sapendo che
all’interno della Convenzione si è cercato di bilanciare gli equilibri tra l’interesse generale
della collettività e la salvaguardia dei diritti fondamentali, la buona amministrazione della
giustizia occupa di certo un ruolo rilevante che non si può sacrificare per mera opportunità,
a meno che non si voglia far decadere le garanzie previste in una società democratica,
come la stessa Europa tende a divenire con il passare del tempo. Proprio per questo,
l’articolo in esame è un parametro di riferimento per tutti gli Stati firmatari e non può non
influenzare da vicino l’esperienze giuridiche dei vari ordinamenti nazionali.
Quello della durata ragionevole del processo è un problema che ha risvolti teorici e
pratici molto complicati e che la Corte europea ha cercato di semplificare ritenendo che la
durata ragionevole vada commisurata con la complessità della causa e il comportamento
dell’imputato in udienza e dell’autorità giudiziaria nell’organizzazione del proprio lavoro.
Nella complessità della causa viene prestata assoluta attenzione alla gravità del reato e
alla difficoltà nelle acquisizioni probatorie; nel comportamento dell’imputato si tiene conto
della sua concreta attività processuale, assenze, richieste, eccezioni ed impugnazioni;
nell’attività dell’autorità giudiziaria si analizzano le responsabilità dei magistrati nella
scansione dei tempi processuali, nell’organizzazione del carico di lavoro e si guarda al
concreto aiuto proveniente dagli uffici che lavorano per e con il giudice. La sintesi di tutto
questo complesso risultato è che compete al singolo Stato evitare il protrarsi eccessivo nel
tempo delle vicende processuali e che alla Corte europea compete capire quando lo Stato
sia direttamente responsabile delle violazioni a questo principio-diritto fondamentale.
Ugualmente per il diritto al tribunale indipendente ed imparziale. Questo diritto appare
come principio indefettibile per ogni sistema processuale che non intenda porsi ai margini
della comunità internazionale. È indiscutibile che il carattere dell’imparzialità sia
connaturale alla stessa qualità di giudice; e appare altrettanto indiscutibile che
all’imparzialità sia collegato in maniera diretta anche il carattere dell’indipendenza. Ciò che
la Corte europea ha cercato di definire meglio con le sue pronunce è far comprendere
cosa davvero si intenda con i termini “imparzialità” e “indipendenza”. È venuto fuori che
l’imparzialità si riferisce all’assenza di legami tra giudice e parti, alla indifferenza rispetto
agli interessi in conflitto e al risultato della disputa, alla sua mancanza di pregiudizi in
relazione al thema decidendi e alla sua posizione di equidistanza rispetto alle parti, in
definitiva al suo essere super partes. Se ciò è stato ribadito più volte all’interno di alcune
sentenze, vuol dire che non è stato immediato capire l’imparzialità in questo senso. Così
come l’indipendenza è stata sempre una affermazione di principio difficilmente tradotta in
realtà a causa della presenza dei regimi totalitari e di forze politiche coinvolgenti al punto
tale da rendere l’organo amministratore della giustizia dipendente dalla fazione di
appartenenza. Per indipendenza, si intende che essa sia istituzionale, organica e
funzionale e sarà ampiamente spiegata nel prosieguo della trattazione.
La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha avuto un ruolo fondamentale
per l’inserimento di alcuni principi, tra i quali quelli del giusto processo, nelle principali
Carte costituzionali europee. Secondo alcuni, è proprio grazie all’enorme lavoro di questa
Corte che oggi si può parlare di “esigenza costituzionalizzata” a riguardo dei principi
fondamentali dell’americano due process of law, espressione, come abbiamo visto,
variamente tradotta in Europa a seconda del Paese di ricezione.
L'art. 6 comma 3 della Convenzione prevede una serie di requisiti dell'equità che sono
propri del processo penale e che fanno riferimento alla persona dell’accusato:
- Essere informato nel più breve tempo possibile e in modo dettagliato della natura e dei
motivi dell'accusa formulata a suo carico;
- Ottenere tale informazione in una lingua da lui conosciuta e poi di farsi assistere
gratuitamente da un interprete se non coprende o non parla la lingua usata nell’udienza;
Il divieto di bis in idem entra in gioco quando viene iniziato o continuato un nuovo
procedimento per lo stesso fatto che si sia concluso con sentenza definitiva. Esso non
riguarda dunque soltanto la doppia condanna in separati procedimenti, ma interviene già
in una fase antecedente, quando inizia o continua un secondo procedimento avente lo
stesso oggetto e quando il primo procedimento si è definitivamente concluso con
un'assoluzione o senza condanna, un secondo procedimento che conduca alla irrogazione
di una sanzione penale può dar luogo anche alla violazione della presunzione di
innocenza.
L'art. 5 Conv. Stabilisce che se una sentenza penale di condanna definitiva viene
successivamente annullata, oppure sia concessa una quache forma di grazia perchè un
fatto sopravvenuto o nuove rivelazioni provano che si è trattato di errore giudiziario, la
persona che ha scontato una pena ha diritto di essere risarcita.
Capitolo 13
Legalità dei delitti e delle pene
Il principio di legalità dei reati e delle pene con i suoi corollari è sancito da una serie di
disposizioni, che si articolano su tre livelli di fonti normative.
In primo luogo occorre considerare le disposizioni contenute nei commi secondo e terzo
dell’articolo 25 della Costituzione; in particolare il secondo comma sancisce che “nessuno
può essere in punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso”. Il terzo comma sancisce che “nessuno può essere sottoposto a misure di
sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”.
Per non essere arbitrarie, sia l'infrazione sia la pena devono essere previste per
legge; la ratio del principio di legalità si identifica con il favor libertatis e cioè, con
l’esigenza di garantire il cittadino dagli abusi del potere esecutivo e del potere giudiziario.
Esso costituisce pertanto un potente presidio della libertà dei cittadini ed una duplice
garanzia, oltre che sul piano della certezza giuridica, su quello della legittimazione
democratica e della qualità contenutistica della politica penale.
Tale principio si articolo nei tre corollari della riserva di legge, tassatività e irretroattività
sfavorevole (o divieto di retroazione sfavorevole).
Il principio di riserva di legge (nullum crimen nulla poena sine lege) in particolare prevede
che l’unico strumento idoneo a creare norme incriminatrici sia la legge ordinaria e cioè, la
legge emanata dal potere legislativo, fulcro dell’assetto democratico, mentre il corollario
della tassatività (o di precisione, determinatezza) prevede che la legge debba determinare
con chiarezza e precisione estreme la fattispecie di reato, nonché le pene cui
assoggettare il reo.
L'art 7 Conv stabilisce l'irretroattività delle disposizioni incriminatrici e delle pene più gravi
di quelle applicabili al momento della commissione del reato;il principio di irretroattività
invero, deve essere inteso in senso relativo, nel senso della irretroattività della legge
sfavorevole e di retroattività della legge favorevole.
Capitolo 14
Diritto al rispetto della vita privata e familiare
Il diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza è
previsto dall'art. 8 Conv il quale dispone che:
« 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio
domicilio e della propria corrispondenza. 2.Non può esservi ingerenza di una autorità
pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e
costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza
nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa
dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla
protezione dei diritti e delle libertà altrui».
La nozione di «vita privata» elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo è una
nozione ampia, non soggetta ad una definizione esaustiva che comprende l’integrità fisica
e morale della persona e può, dunque, includere numerosi aspetti dell’identità di un
individuo. Il diritto al rispetto della «vita privata» implica che ciascuno possa stabilire, in
sostanza, la propria identità.
La Corte Edu ha elaborato una nozione di «vita familiare» più ampia di quella tradizionale,
attribuendo agli Stati contraenti la facoltà di differenziare, in relazione ai diversi modelli
della stessa, le varie forme di tutela. Il concetto autonomo di «vita familiare» include, in
primo luogo, i coniugi nonché i figli legittimi dal momento della loro nascita ed a
prescindere dal requisito della «coabitazione». Relativamente al rapporto tra ciascun
coniuge e la prole, la «vita familiare» persiste anche nel caso di scioglimento del
matrimonio e di affidamento dei figli ad un solo genitore. Il concetto di «vita familiare»
include anche la filiazione naturale essendo il rapporto familiare riconnesso solo al fatto
della nascita, anche in assenza di convivenza tra i genitori. Anche la filiazione adottiva
costituisce «vita familiare» ai sensi dell’art. 8 . L’art. 8 è applicabile allorquando esista un
legame familiare anche solo «di fatto».
Anche una «vita familiare progettata» non è stata completamente esclusa dall’ambito di
applicazione dell’articolo 8.
In linea di principio il detenuto è soggetto a limitazioni della libertà personale e dei diritti
che i sono connessi, ma conserva tutti gli altri diritti che sono propri delle persone libere;
ogni limitazione ai suoi diritti è condizionata dai criteri generali della legalità, scopo
legittimo e proporzione. Ciò vale ad esempio per i colloqui con i familiari, le comunicazioni
e la corrispondenza dei detenuti.
Il domicilio, ai fini dell'art. 8 Conv è lo spazio fisico definito in cui la persona conduce la sua
vita privata e familiare. Esso si riferisce sia all'abilitazione principale sia a quelle
secondarie o di vacanza. Anche i locali destinati all'attività professionale della persona e la
sede sociale i una società sono considerati domicilio ai fini della protezione di cui all'art. 8
Conv.
La più evidente violazione di domicilio consiste nella sua distruzione da parte della autorità
pubbliche o l'impedimento ai suoi abitanti di farvi rientro, ma anche la condotta dei privati
può dar luogo a violazione.
L'art 12 Conv afferma che l'uomo e la donna in età matrimoniale hanno il diritto di
contrarre matrimonio e fondare una famiglia, secondo la legge nazionale che ne regola
l'esercizio.
Il diritto di sposarsi riguarda esclusivamente il diritto di contrarre matrimonio come atto
giuridicamente vincolate e non concerne le conseguenze che nel diritto nazionale derivano
dal matrimonio.
Capitolo 15
Libertà di circolazione e divieto di espulsione del cittadino
A differena dello straniero, il cittadino dello stato non può essere espulso e non può
essergli impedito di entrare nel territorio nazionale.
Il divieto di espulsione, in qualunque forma sia eseguita, riguarda sia quella individuale, sia
quella collettiva ( quest'ultima vietata anche nei confronti degli stranieri).
Capitolo 16
Libertà di pensiero, di coscienza e di religione, diritto all’istruzione
Fuori dei casi in cui sono ammesse interferenze statali nella manifestazione della proprie
convinzioni o religione, lo stato è tenuto a mantenere una posizione neutrale,
limitandosi a garantire le condizioni che rendono possibile il pluralismo e la reciproca
tolleranza tra individui e organizzazioni. La neutralità dello stato implica l’obbligo di non dar
mostra di privilegiare una religione o l’altra o esprimere valutazioni sulla legittimità delle
credenze.
Anche in materia di libertà di coscienza e di religione, accanto agli obblighi negativi che
vietano interferenze, operano gli obblighi positivi dello stato che è tenuto a operare
efficacemente per impedire che altri intervenga a impedire l’altrui libero esercizio del
diritto.
I titolari del diritto di libertà di cui all’art. 9 Conv sono gli individui; tuttavia, per la natura
collettiva del fenomeno religioso e la tradizionale strutturazione in organizzazioni e chiese,
la giurisprudenza della Corte europea ha riconosciuto le Chiese titolari del diritto alla
libertà religiosa e capaci di farla valere nei ricorsi in nome e per conto dei loro aderenti.
La Convenzione non tende ad imporre un modello unico di rapporto dello stato con le
chiese, cosicchè sono compatibili con la disposizione convenzionale sia regimi di chiesa di
stato, sia regimi concordatari, sia sistemi di stato separato dalle chiese. Ciò che rileva è
l’effettività delle garanzie di cui dispongono individui e organizzazioni religiose.
L’art. 2 Protocollo n. 1 riguarda il diritto al’’istruzione in tutti i suoi livelli in una forma
particolare: anche se costruita in modo negativo, come il divieto di esclusione, la
disposizione garantisce un vero e proprio diritto all’istruzione e trova applicazione con
riferimento a tutte le istituzioni di istruzione, siano esse statali o indipendenti.
Dispone infatti l’art. 2 che“Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo
Stato,nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e
dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale
insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”.
Capitolo 17
Libertà di espressione
Accanto alla libertà personale, la libertà di espressione rappresenta il cuore dei diritti di
libertà in quanto da questi due macro diritti possono essere fatti discendere tutti gli altri.
Proprio per questo motivo una prima e superficiale lettura della norma, con particolare
riferimento al primo comma, lascia intravedere il riconoscimento del diritto di espressione
in termini particolarmente ampi: accanto al tradizionale profilo della libertà di espressione
come sfera di autonomia privata garantita da ingerenze esterne (e quindi quale libertà
negativa) si afferma, infatti, anche una dimensione pubblica della libertà di espressione
quale “libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee”, presupposto fondamentale
per il formarsi di un’opinione pubblica consapevole e avvertita e, conseguentemente, per
elevare il tasso di democraticità del sistema costituzionale del paese.
I confini della libertà di espressione sono stati, inoltre, ulteriormente ampliati dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, sin dalle sue prime pronunce
in materia, ha manifestato l’evidente tendenza ad integrare il dettato normativo con quanto
«non detto».
La Corte europea ha, infatti, ricondotto alla sfera di garanzia di cui all’art. 10 della
Convenzione:
• le opinioni espresse sia dalle persone fisiche che dalle persone giuridiche:in tal
senso viene garantita la tutela dei diritti in capo alle forze armate ovvero alle
società commerciali.
La lettura del secondo comma dell’art. 10 della CEDU, in cui vengono individuati i motivi
che possono essere posti alla base di eventuali formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni
nell’esercizio della libertà lascia tuttavia in un primo momento perplessi.
Come nella maggior parte delle disposizioni a tutela della libertà di espressione, anche
nella Convenzione, nonostante l’impostazione particolarmente ampia del diritto di libertà,
si avverte la necessità di individuare alcuni limiti al suo esercizio. Detti limiti, connaturati
all’esigenza imprescindibile di far convivere molteplici diritti di libertà e di evitare contrasti
sulla base di un attento bilanciamento dei valori costituzionalmente riconosciuti, sono
fondamentali per delimitare in concreto la libertà d’espressione.
Tuttavia la lettura del secondo comma dell’art. 10 Conv – contenente per l’appunto i
suddetti limiti – lascia effettivamente qualche perplessità: a fronte dell’ampiezza del dettato
del primo comma, il secondo comma elenca numerose cause a fronte delle quali gli Stati
nazionali possono imporre limitazioni all’esercizio del diritto di manifestazione del
pensiero, e conseguentemente eludere, almeno in parte, l’affermazione generalissima di
un principio che è posto alla base dei moderni ordinamenti costituzionali.
Si tratta, infatti, di tutti quei casi in cui le misure «restrittive» si rendono necessarie in una
società democratica per:
a) tutelare la sicurezza nazionale;
d) prevenire i reati;
e) proteggere la salute;
f) proteggere la morale;
I maggiori problemi sorgono non tanto dall’ampiezza del catalogo, bensì dalla genericità
delle espressioni in esso contenute: se il concetto di salute può essere in buona misura
delimitabile, lo stesso non si può invece dire con riferimento alla nozione di «ordine
pubblico» o di «morale»; per non parlare poi della loro «necessarietà in una società
democratica», definizione quanto mai indeterminata e posta alla base di tutti i giudizi di
legittimità delle misure restrittive.
Capitolo 18
Libertà di riunione e associazione
“ Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d'associazione, ivi
compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la
difesa dei propri interessi.
L'esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono
stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la
sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per la difesa dell'ordine e la prevenzione
dei reati, per la protezione della salute o della morale e per la protezione dei diritti e delle
libertà altrui. Il presente articolo non vieta che restrizioni legittime siano imposte
all'esercizio di questi diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o
dell'amministrazione dello Stato”.
Pur essendovi evidenti differenze, le due libertà hanno in comune la natura collettiva,
soggiacciono ad analoghe possibili limitazioni e sono spesso reciprocamente funzionali.
La libertà di riunione comprende sia le riunioni private che quelle tenute in luogo pubblico,
sia quelle statiche che quelle che consistono in cortei pubblici. Sono estranei alla nozioni
assembramenti casuali.
La libertà considerata appartiene agli organizzatori della riunione come a coloro che vi
partecipano. Le manifestazioni in luogo pubblico devono svolgersi nell’osservanza delle
norme che le riguardano; esse però possono comportare disagio e impedimenti nelle
circolazione e nella vita degli altri, che tuttavia devono essere tollerati dalle autorità
pubbliche quando non vi siano atti di violenza, al fine di assicurare il raggiungimento dello
scopo della riunione pubblica. Nel caso di riunioni e manifestazioni violente è
giustificato l’intervento delle autorità, ma con modalità di tipo repressivo che non
devono superare i limiti della proporzione e necessità.
Anche al fine di consentire alle autorità di predisporre i servizi necessari per assicurare lo
svolgimento della riunione/manifestazione, sono compatibili con la libertà di riunione le
legislazioni che, relativamente ai luoghi pubblici, richiedono che sia dato il preavviso alle
autorità.
Anche in ordine alla libertà di associazione, l’obbligo che lo stato ha di riconoscerla non si
limita al dovere negativo di non ostacolarla, ma implica obbligazioni positive.
I limiti alla tutela della libertà di riunione e associazione sono legittimati da scopi che
trovano applicazione anche per altri diritto convenzionali ( sicurezza nazionale, pubblica
sicurezza, difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati, protezione della salute o della
morale e la protezione dei diritti e delle libertà altrui).
Capitolo 22
L’introduzione del ricorso e la rilevabilità
Ricorsi intestatari
Il ricorso interstatale è uno dei rimedi predisposti dalla Convenzione per poter avviare il
sistema internazionale di controllo di cui ogni Stato che ha ratificato la Convenzione può
avvalersi. Il testo dell’articolo 33 Conv prevede che ogni Stato contraente possa adire
unilateralmente la Corte al fine di accertare un’inosservanza della Convenzione e dei
protocolli commessa da un altro Stato membro.
La ratio della disposizione è quella di rendere responsabile ogni Stato contraente verso la
comunità degli Stati vincolati dalla Convenzione per ogni violazione di diritti e di libertà
fondamentali dell’uomo che possa essergli imputata.
Le condizioni stabilite per proporre ricorso sono che entrambi gli Stati - ricorrente e
convenuto - siano parti della Convenzione e che lo Stato ricorrente dimostri una violazione
della convenzione o dei protocolli da parte del secondo. Qualora uno Stato membro
preveda una legge interna che si ponga in contrasto con i principi, i diritti e le libertà
riconosciute dalla Convenzione può essere proposto ricorso statale al fine di denunciare
tale inosservanza.
Ricorsi individuali
L’attuale art. 35 Conv contempla una serie di condizioni di ricevibilità dei ricorsi, che sono
tra l’altro parimenti inserite in altri trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti umani.
Tra le condizioni di ricevibilità più importanti vanno annoverate certamente quelle relative:
A) alla necessità di previo esperimento delle vie di ricorso interne.
La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne.
Lo scopo di tale previsione, che richiede che tutti i rimedi previsti dallo Stato convenuto
debbano essere stati attivati dal ricorrente, è consentire allo Stato di evitare o rimuovere la
violazione.
Gli oneri del ricorrente sono di aver usato adeguata diligenza, cioè aver rispettato le
condizioni di procedura e forma dei rimedi interni, aver invocato in essi anche i diritti della
Convenzione presunti violati o norme analoghe interne, ed aver atteso la conclusione
dell’iter interno (purchè questo abbia una durata ragionevole).
I rimedi interni tuttavia devono loro volta rispettare due requisiti, mancanti i quali il
ricorrente può direttamente rivolgersi alla Corte senza dover prima esaurire tali rimedi: –
diretta accessibilità al ricorrente: si pensi ad esempio alla Corte Costituzionale italiana; –
sufficiente effettività: la soluzione dev’essere data in tempi ragionevoli ed a essa le autorità
nazionali debbono dare seguito;
L’onere processuale di dimostrare che le vie interne non sono state pienamente attivate
sarà poi in capo allo Stato nelle proprie difese, mentre l’individuo dovrà eventualmente
dimostrare che tali rimedi erano ineffettivi o non fruibili.
Uno dei principali limiti posti dall’art. 35 Conv per la ricevibilità del ricorso consiste nella
fissazione di un termine di decadenza di sei mesi dalla decisione interna definitiva per
poter utilmente adire la Corte. Il termine di sei mesi, costituisce evidentemente un fattore
di certezza del diritto e di sicurezza giuridica. La Commissione prima, e più di recente la
Corte, hanno più volte ribadito che la ratio di tale norma consiste nell’esigenza che i ricorsi
siano trattati in un periodo di tempo relativamente breve in modo da evitare che il passare
del tempo renda difficile la ricostruzione dei fatti di causa, vanificando in questo modo
l’esame dei ricorsi da parte della Corte.
Oltre alle due condizioni di ricevibilità principali, ossia il previo esaurimento delle vie di
ricorso interne, da un lato, e il termine di sei mesi a partire dalla data della interna
definitiva, dall’altro, la Convenzione detta altre condizioni di ricevibilità ai para. 2 e 3
dell’art. 35 Conv.
Tra queste spicca quella della non manifesta infondatezza del ricorso. Si tratta, per tutta
evidenza, di una condizione che investe il merito del ricorso, nel senso che i ricorsi alla
Corte europea per essere accolti debbono presentare un fumus boni juris, cioè una seria
parvenza di fondamento.In altre parole, è manifestamente infondato il ricorso che, a
seguito di un preliminare e sommario esame del suo contenuto materiale, non lasci
ravvisare alcuna parvenza di violazione dei diritti garantiti dalla Corte. Ovviamente, da ciò
ne deriva che ogni ricorso con queste caratteristiche è suscettibile di essere
immediatamente dichiarato irricevibile dal giudice unico.
Il concetto di manifesta infondatezza è strettamente collegato all’espressione di “quarta
istanza”, utilizzata dalla giurisprudenza di Strasburgo per sottolineare che la Corte non è
un giudice di appello, di cassazione o di revisione rispetto alle autorità giudiziarie degli
Stati parte della Convenzione e, dunque, non può riesaminare la causa nello stesso modo
in cui farebbe un giudice interno di ultima istanza.
Vi sono poi altre condizioni di ricevibilità dei ricorsi che rivestono minore importanza e che,
peraltro, trovano anche scarsa applicazione nella pratica: si tratta delle ipotesi di ricorso
abusivo, di ricorso anonimo o del ricorso identico ad uno già esaminato o già sottoposto
ad altra istanza internazionale.
Anzitutto il ricorso è irricevibile a norma dell’art. 35, par. 3, lett. a), quando è abusivo, ossia
azionato dal ricorrente in modo pregiudizievole, al di fuori della sua finalità.
La giurisprudenza della Corte ha chiarito a questo proposito che il ricorso è abusivo:
Per quanto concerne il ricorso anonimo è evidente che la Corte non può accettare ricorsi
nei quali non si è specificato colui che lamenta la violazione della Convenzione sia perché
deve poter conoscere i fatti di causa sia per evitare strumentalizzazioni politiche.
Altra e diversa questione è quella della riservatezza sul nominativo del ricorrente, che ben
può essere richiesta al Presidente della Camera incaricato di seguire il procedimento
quando ne faccia richiesta ai sensi dell’art. 33 e dell’art.47, par. 4 del Regolamento di
procedura della Corte. Si ponga il caso che il ricorrente sia una figura di spicco – ad
esempio un politico: in queste situazioni la richiesta di riservatezza serve ad evitare delle
ripercussioni pregiudizievoli sulla vita privata del ricorrente. Altro esempio è quello della
vicenda che abbia un rilievo mediatico nazionale, e la richiesta viene fatta per evitare gli
effetti negativi che la pubblicizzazione circa la presentazione di un ricorso potrebbe avere
in questi casi. Ancora, la richiesta di anonimato può avere come spiegazione il timore di
ritorsioni (potrebbe essere questo il caso di un richiedente asilo).
Per quanto concerne i ricorsi identici a quelli già presentati ovvero presentati ad altre
istanze internazionali, si verte evidentemente in materia di ne bis in idem e di
litispendenza.
Capitolo 23
La Corte europea e la procedura
La corte è composta da tanti giudici quanti sono gli Stati membri del consiglio d'Europa
che hanno ratificato la convenzione (articolo 20 della conv.). Attualmente quindi la corte è
composto da 47 giudici.
L’'elezione dei giudici comporta due fasi. La prima si svolge a livello nazionale conduce
alla presentazione da parte del governo dall'assemblea parlamentare del consiglio
d’Europa di una lista di tre candidati, quando il posto del giudice eletto a titolo di quello
Stato rimane vacante. La scelta dei governi deve rispettare alcuni criteri: ciascun
candidato deve offrire altri requisiti di moralità ed essere i doni a svolgere le più alte
funzioni giudiziarie o essere giurista di riconosciuta competenza. La lista deve garantire un
certo equilibrio tra i due sessi, la procedura di selezione deve essere il più possibile
aperta, trasparente e pubblica, i candidati devono possedere una buona conoscenza di
una delle due lingue ufficiali e almeno una conoscenza passiva dell'altra e, infine, non
devono trovarsi in condizione di doversi astenere in numerosi casi e quindi richiedere la
nomina di giudici ad hoc in sostituzione.
I candidati indicati nella lista presentata dal governo sono esaminati dalle commissioni e
poi dall'assemblea parlamentare. Un primo esame effettuato dal comitato consultivo di
esperti suoi candidati. Il comitato è stato istituito nel 2010 dal comitato dei ministri. Esso è
composto da sette membri, il cui mandato è di tre anni rinnovabile una volta, nominati dal
comitato dei ministri tre giudici delle corti supreme nazionali.
Gli Stati sono tenuti a inviare la lista di tre candidati al comitato, indicando nomi e
curricula. Il parere del comitato e trasmesso sempre in via confidenziale alla commissione
dell'assemblea parlamentare sull'elezione dei giudici. La commissione, creata nel 2015
dall'assemblea parlamentare, deve esprimere un parere per l'assemblea relativa alla
conformità della lista ai criteri sopra indicati. Essa esamina il parere del comitato di esperti.
L’'assemblea plenaria si riunisce almeno una volta all'anno per l'esame di questioni
amministrative e ogni volta che sia necessario.
La Corte svolge le sue funzioni giudiziarie nella composizione di giudice unico, comitato,
camera e grande camera (art. 25. Conv.).
Il giudice unico è stato istituito dal protocollo n. 14 e svolge le funzioni che in precedenza
erano affidate al comitato dei tre giudici. Il giudice unico tratta esclusivamente ricorsi
individuali; non può trattare ricorsi introdotti contro lo Stato a titolo del quale è stato eletto.
La decisione del giudice unico e resa de plano (senza alcuna difficoltà), in assenza delle
osservazioni delle parti, quando il motivo di irricevibilità risulta prima facie degli atti
depositati dal ricorrente e conformemente a una prima pregressa giurisprudenza della
corte.
Il giudice unico può decidere di cancellare ricorso dal ruolo. Le cancellazioni dal ruolo
relative alla conclusione di un regolamento amichevole o della presentazione di una
dichiarazione unilaterale non possono essere depositate dal giudice unico in quanto
presuppongono la comunicazione del ricorso al governo.
Il giudice unico è assistito nello svolgimento delle proprie funzioni da un relatore non
giudiziario. Quest'ultimo è un agente della cancelleria nominato dal presidente della corte.
Di norma, si tratta di un giurista con conoscenze della lingua e del diritto interno dello
Stato contro il quale ricorso indirizzato.
Con l'entrata in vigore del protocollo n.14, ai sensi dell'Art .28 Conv., il comitato, composto
da tre giudici, può dichiarare un ricorso il ricevibile o cancellarlo dal ruolo, quando tale
decisione può essere adottata senza ulteriore esame, oppure può pronunciare una
sentenza quando la questione relativa all'interpretazione o all'applicazione della
convenzione o dei suoi protocolli è oggetto di una giurisprudenza consolidata della corte.
Gli Stati sono tenuti a cooperare, fornendo tutti gli strumenti di cui la corte
necessita, al fine di permettere un esame effettivo dei ricorsi. In mancanza la corte
non può solo trarre le conclusioni che ritiene più opportuno in ordine di accertamento dei
fatti, ma può anche constatare la violazione dell'Art punto 38 Conv.. La corte può
procedere essa stessa un'inchiesta al fine di raccogliere direttamente le prove di cui
necessita.
Poi è investita da una pluralità di ricorsi rispettivi che originano dalla medesima causa
interna al sistema nazionale dello Stato convenuto, la corte adotta talora una particolare
procedura, la cosiddetta procedura pilota.
Essa è designata per indicare allo stato convenuto le misure individuali e generali da
adottare per risolvere i problemi strutturali e per gestire i casi simili a quello preso esame
con la speciale procedura. Essa tende a facilitare la risoluzione della disfunzione
riscontrata a livello nazionale e garantire la rapida trattazione dei numerosi casi simili già
pendenti o previsti come effetto del problema strutturale.
Lo scopo della procedura pilota e quindi quello di integrare nella stessa procedura e tutti i
casi simili e allo stesso tempo quello di assorbirli nel quadro dell'esecuzione della stessa
sentenza pilota.
La procedura può essere adottata d'ufficio o su istanza di parte ai sensi dell’ Art. 61 reg.
Quei casi a cui è applicata la procedura pilota è accordata la priorità ai sensi dell’Art. 41
conv.
La sentenza pilota contiene nel dispositivo o solo nel corpo della sentenza, l'indicazione
delle misure generali da adottare sensi dell'Art. 46 conv. La corte, per favorire
l'introduzione nello Stato delle riforme necessarie, informa dell'adozione della sentenza
pilota non solo il comitato dei ministri, ma anche l'assemblea parlamentare, il segretario
generale e il commissario per i diritti dell’uomo.
Riconosciuto il rimborso dei costi e spese processuali che il ricorrente abbia sostenuto
davanti alle giurisdizioni nazionali e alla corte. Il ricorrente deve fornire documenti
necessari per permettere di verificare l'ammontare preciso da accordare, tra i quali, ad
esempio la nota spese.
L’art. 37 Conv. Prevede istituto della cancellazione dal ruolo. La corte può cancellare un
ricorso dal ruolo in tre ipotesi:
1. Quando il ricorrente non intenda più mantenerlo;
2. Quando la controversia sia stata risolta;
3. Quando la prosecuzione dell'esame del ricorso non sia più giustificata.
La prima ipotesi presuppone il consenso del ricorrente nella risoluzione della causa senza
esame del merito. Si tratta della rinuncia alla prosecuzione dell'esame del ricorso da parte
del ricorrente. La rinuncia deve essere accertata in maniera inequivoca. Essa può essere
esplicita o può essere dedotta implicitamente dalla corte.
La seconda e terza ipotesi prescindono dal consenso da parte del ricorrente. La corte può
ritenere che la controversia sia stata risolta e quindi che il mantenimento del ricorso non
sia più oggettivamente giustificato due condizioni. La prima riguarda il caso in cui siano
venuti a mancare i fatti che hanno dato luogo alla presunta violazione. La seconda
condizione è quella dell'eliminazione o della riparazione della presunta violazione.
Ultima ipotesi di cancellazione del ruolo riguarda i casi in cui la corte ritiene che non si
giustifichi più il proseguimento della procedura. Le ragioni che possono dar luogo a queste
ipotesi di cancellazione del ruolo non sono tassative. Il caso più frequente è rappresentato
dalla presentazione di una dichiarazione unilaterale da parte del governo.
Quanto alla competenza di cui alla lett. b , si può brevemente dire che la corte europea
nella sua formazione di grande camera, rispondendo alla domanda del comitato dei
ministri del consiglio d'Europa, esprime il suo parere su questioni giuridiche relative
all'interpretazione della convenzione dei suoi protocolli. L’Art. 30 conv. Prevede che la
camera possa rimettere alla grande camera casi che sollevano gravi problemi di
interpretazione della convenzione o dei suoi protocolli, o la cui risoluzione rischia di
dar luogo a un contrasto con una sentenza pronunciata anteriormente dalla corte.
Il rinvio del caso alla grande camera dopo che esso sia stato deciso con sentenza della
camera può essere chiesto dal ricorrente dal governo, ma non dei terzi intervenuti davanti
alla camera o dai ricorrenti i cui ricorsi o doglianze siano stati dichiarati il ricevibile. In caso
di rinvio, la grande camera è competente a riesaminare l'intero ricorso, fatta
eccezione per le doglianze che la camera abbia dichiarato il irricevibili.
Domanda di rinvio alla grande camera deve pervenire in cancelleria entro tre mesi dalla
pronuncia della sentenza. Non rileva la data di spedizione attestata dal timbro postale. Il
termine non viene prorogato se cade in un giorno festivo. La domanda è esaminata da un
collegio di cinque giudici.
La competenza della grande camera e delimitata dalle questioni che sono state
giudicate irricevibili dalla camera, ma la grande camera può dichiarare il ricevibile il ricorso
o doglianze considerati ricevibili dalla camera.la procedura davanti alla grande camera
prevede l'instaurazione del contraddittorio.
Capitolo 24
Le sentenze e la fase dell’esecuzione
Le decisioni riguardano i casi di irricevibilità del ricorso, cancellazione del ruolo, domanda
di interpretazione introdotta dal comitato dei ministri.
Le sentenze sono invece adottate dalla corte quando si deve pronunciare sul merito del
caso, anche quando la corte decide separatamente sull'equa soddisfazione, in caso di
domanda di revisione o di interpretazione di una sentenza, o in caso di domanda del
comitato dei ministri sull'inadempimento dello Stato rispetto all'esecuzione di una
sentenza.
Tipo da 46 della convenzione le pronunce della corte vincolano esclusivamente le parti del
giudizio. Per l'interpretazione della convenzione che si esprimono, come si è visto in
precedenza, esse hanno tutte effetto erga omnes. La constatazione di LinkedIn di
violazione contenuta nella sentenza a natura dichiarativa.
Sentenza della grande camera sono pronunciate nelle due lingue ufficiali. Il testo delle
decisioni del giudice unico non è pubblico.
Mentre le decisioni sono definitive al momento della loro pronuncia attraverso
comunicazione scritta le parti, le sentenze lo diventano, ai sensi dell'articolo 44 della
convenzione:
- Se le parti dichiarano che non richiederanno il rinvio del caso dinanzi alla grande
camera;
- 3 mesi dopo la data della sentenza, se non è stato richiesto il rinvio del caso dinanzi alla
grande camera;
- Se il collegio della grande camera respinge la richiesta di rinvio formulata ai sensi
dell'articolo 43.
Con il rinvio nella grande camera la sentenza di camera è sostituita da quella della grande
camera. Rimangono in ogni caso definitive le parti di sentenza della camera che hanno
rigettato le doglianze irricevibili.
Carattere definitivo della sentenza conosci alcune eccezioni. E se non sono previste dalla
convenzione, ma dal regolamento interno della corte. Quest'ultimo riconosce la possibilità
di richiedere la revisione di una sentenza, la rettifica di una pronuncia, interpretazione di
una sentenza. Dette eccezioni sono ammesse poiché la regola secondo cui la sentenza
della corte è definitiva ha come unico scopo quello di sottrarre la sentenza a qualunque
ricorso davanti ad un'altra autorità.
L'articolo 80 del regolamento prevede tre condizioni: l'esistenza di un fatto nuovo non
conosciuto dalla corte, il suo carattere decisivo e la non conoscibilità dello stesso della
parte che introduce la domanda.
La nozione di fatto nuovo da tenere distinta da quella utilizzata ai fini del criterio di
ricevibilità relativo della presentazione di un ricorso essenzialmente identico ad altro
precedente. Se il fatto nuovo è precedente all'adozione della sentenza, si tratta di
revisione della sentenza, mentre se il fatto di cui si tratta è successivo, si tratta di verificare
se il nuovo ricorso introduca una questione nuova rispetto a quella già risolta.
Il carattere decisivo del fatto può incidere sulla questione di ricevibilità, sul merito della
causa o sulla determinazione dell'equa soddisfazione. In altri casi, il fatto nuovo può
portare la corte a cancellare dal ruolo ricorso, ad esempio, se la società ricorrente è stata
cancellata dal registro delle imprese prima della pronuncia della sentenza o se il ricorrente
è deceduto in assenza di eredi che abbiano espresso il loro interesse a proseguire la
procedura.
Il fatto nuovo può esercitare un'influenza non solo sulla ricevibilità del ricorso ma anche sul
merito.
Tutta via, talora oggetto della revisione è la sentenza nella sua interezza, ad esempio
quando il fatto nuovo incide sulla ricevibilità del ricorso. La procedura di revisione si
instaura su istanza di parte e le domanda deve essere introdotta entro sei mesi dal
momento in cui si è avuta la conoscenza del fatto nuovo.
L'articolo 81 del regolamento prevede che la corte possa rettificare gli errori di trascrizione
o di calcolo e le inesattezze evidenti. La procedura di rettifica può essere instaurata
d'ufficio o su istanza di parte.
La rettifica si preferisce alla procedura di revisione quando l'errore compiuto alla corte e di
natura meramente formale e non incide sulla motivazione della pronuncia. Al contrario, ad
esempio, l'errore della corte nel considerare che ricorrente non avesse depositato le
osservazioni nei termini previsti, in un caso in cui la corte non aveva mai richiesto tali
osservazioni, non può essere esaminato nel quadro della procedura di rettifica ma di
quello di revisioni.
La prassi della corte ha riconosciuto inoltre rigore eccezione al carattere definitivo delle
pronunce, non previsto né dalla convenzione né dal regolamento interno. Si tratta della
riapertura dell'esame di una doglianza dichiarata il ricevibile a seguito di un errore
manifesto nell'apprezzamento dei fatti o dei criteri di ricevibilità. Si tratta di uno strumento
a carattere eccezionale, esercitato nell'interesse della buona amministrazione della
giustizia, che si applica in particolare nei casi in cui non ricorrono i presupposti per la
revisione o la rettifica della pronuncia.
La corte può adottare separatamente la decisione della riapertura e trattare il merito del
riesame oppure esaminare, con un'unica decisione, i due profili.
Gli obbligo di conformarsi alle sentenze della corte previsto dall'articolo 46 della
convenzione, vincola infatti gli Stati non solo a fare cessare la violazione e a cancellare gli
effetti della stessa, con il restitutio in integrum poi il pagamento di un'equa soddisfazione ai
sensi dell'articolo 41 della convenzione.pure in assenza di esplicite indicazioni in questo
senso da parte della corte, esso impone agli Stati anche di adottare le misure generali
idonee a impedire la reiterazione della violazione nei confronti dello stesso ricorrente o di
altre persone.
È previsto che il presidente del consiglio dei ministri promuova gli adempimenti di
competenza governativa conseguenti alle pronunce della corte europea nei confronti dello
Stato italiano.
Tuttavia, anche nella fase dell'esecuzione, la corte sta assumendo un ruolo sempre più
importante. La prima questione riguarda l'eventuale esistenza della competenza della
corte a constatare la violazione dell'articolo 46 della convenzione in caso di mancata
esecuzione di una sentenza da parte dello Stato convenuto. La corte ha negato la
possibilità di interpretazione dell'articolo 46 in modo da i riconoscere un diritto individuale
alla corretta esecuzione di una sentenza da fare valere con l'introduzione di un nuovo
ricorso.
Per decidere della competenza della corte occorre valutare se il nuovo ricorso aperta sul
fatto nuovo e quindi pongo all'attenzione della corte una questione diversa rispetto a
quella già decisa. Tale criterio il cui esame richiede un'analisi delle circostanze specifiche
del singolo ed entra più tare alla luce del criterio di ricevibilità.
Inoltre, la corte è competente a esaminare un caso già deciso qualora la violazione per la
quale lo Stato è stato condannato si fondi su una situazione continua.
Il sistema di controllo del comitato si fonda sul concetto della sorveglianza continua.
A partire dal giugno del 2009, il comitato dei ministri ha richiesto agli Stati di presentare un
piano e/o bilancio d’azione. La presentazione di tali documenti è divenuta obbligatoria a
partire dal 2011. Così come stato messo in evidenza dalla dichiarazione di Bruxelles del
2015, i piani bilanci d'azione costituiscono degli strumenti chiave per il controllo
dell'esecuzione, incrementando la trasparenza della procedura.
Il piano d'azione è un documento che deve includere le misure che lo Stato adottato e
intende adottare al fine di eseguire la sentenza della corte. Esso deve contenere un
calendario indicativo delle azioni da intraprendere.
Il bilancio d'azione è un rapporto nel quale lo Stato deve indicare le misure adottate per
conformarsi alle sentenze della corte o, le ragioni per le quali nessuna misura sia resa
necessaria. Il bilancio d'azione è spesso il risultato finale dell'aggiornamento del piano
d’azione.
A partire dal gennaio 2011, il controllo è esercitato con due modalità: la sorveglianza
standard e la sorveglianza rafforzata.
Nei casi in cui l'unica conseguenza derivante dalla sentenza di condanna o dalla
conclusione del regolamento amichevole sia il pagamento dell'equa soddisfazione, lo
Stato non è tenuto a presentare un piano o un bilancio d'azione.
Con l'entrata in vigore del protocollo numero 14 sono state introdotte le procedure relative
all'interpretazione delle sentenze e alla constatazione dell'inadempimento degli Stati
rispetto all'esecuzione delle sentenze. Esse si applicano a tutti i ricorsi pendenti davanti al
comitato dei ministri al 1 giugno 2010.
Il ricorso per inadempimento è uno strumento di pressione che il comitato dei ministri
poti lizzare in caso di rifiuto da parte dello Stato convenuto di eseguire la sentenza della
corte. Il comitato dei ministri con risoluzione interinale procede alla diffida dello Stato.
Trascorsi sei mesi dalla diffida, il comitato può decidere di introdurre la domanda di
accertamento dell'inadempimento davanti alla corte. La decisione del comitato deve
essere motivata e riflettere il parere te lo Stato interessato. La corte decide con sentenza
della grande camera.