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Manuale dei diritti fondamentali in Europa

Capitolo 1
Il sistema europeo e il movimento internazionale per il riconoscimento
dei diritti umani

La convenzione europea dei diritti umani è frutto di un movimento per il riconoscimento e


la protezione dei diritti fondamentali della persona, che dal dopoguerra si è collegato
nell’ambito delle responsabilità della comunità internazionale.

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (frutto della Rivoluzione
francese) negò distinzioni, privilegi e discriminazioni proprie dell’”Ancien Regime”. Tale
dichiarazione si presenta inoltre per la sua natura costituzionale. Essa all’articolo 2
afferma che lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e
imprescrittibili dell’uomo. All’epoca si intendeva che era dovere dei singoli stati riconoscerli
e garantirli nell’ambito della propria giurisdizione.

Nel novecento la responsabilità della protezione dei diritti umani si estende a sedi
sovranazionali impegnando la comunità internazionale e superando la pretesa degli stati di
non subire interferenze esterne.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) è destinata a sostituire la Società delle


Nazioni. Essa si fonda sulla carta firmata dai 51 stati membri originari. Nel suo preambolo
si indica la volontà di salvare le future generazioni dal flagello della guerra, richiamando le
4 libertà di Roosevelt sottolineando il valore dei diritti fondamentali dell’uomo, della dignità
della persona umana, dell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna e delle piccole e
grandi nazioni.

All’articolo 1 troviamo lo scopo dell’Organizzazione, ovvero il mantenimento della pace


realizzando la cooperazione internazionale sviluppando e incoraggiando il rispetto dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso,
lingua o religione. La pace perseguita dall’ONU non è solo l’assenza di guerra tra gli stati,
ma è una pace che assicura il riconoscimento dei diritti umani.

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, rappresenta un’importante novità
nella concezione del rapporto dell’individuo con lo stato e della posizione della comunità
internazionale rispetto alla violazione dei diritti umani commesse dagli stati al loro interno.
Nel suo preambolo si afferma che è indispensabile che i diritti dell’uomo siano protetti da
norme giuridiche, se nei vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere alla ribellione
contro la tirannia o l’oppressione.
La Dichiarazione tuttavia non è un trattato internazionale nel quale derivino gli obblighi
giuridici per gli stati, non contiene alcuna indicazione circa i mezzi idonei ad assicurare
che essa venga effettivamente osservata e non prevede nemmeno strumenti a
disposizione degli individui per far valere i loro diritti.

La sua importanza però deriva dallo sviluppo della generica espressione “diritti dell’uomo”
in un catalogo preciso di diritti. Tale Dichiarazione esprime l’idea che i diritti umani da essa
elencati abbiano natura universale, assumendo un contenuto programmatico che la rende
tuttora controversia.
Nonostante la diversità di contenuto e di struttura dei suoi diritti fondamentali e la
possibilità di raggrupparli secondo categorie distinte permette che essi siano:
- Indivisibili
- Interdipendenti
- Complementari

Alla Dichiarazione fecero seguito il Patto dei diritti civili e politici il Patto dei diritti
economico-sociali (che ricalcano il contenuto della Dichiarazione universale). Operano,
nell’ambito delle Nazioni Unite, il Consiglio dei diritti umani e l’Alto Commissario per i diritti
umani.

Nel 1948, organizzato dal Comitato internazionale dei movimenti per l’unione europea, si
svolse il Congresso dell’Aia. Tale Congresso diede via ai lavori per l’istituzione del
Consiglio d’Europa. I suoi stati fondatori furono Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda,
Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito.

Gia nel preambolo dello statuto, gli stati membri riaffermano la loro devozione ai valori
spirituali e morali che sono la comune eredità dei loro popoli e la vera origine della libertà
individuale, della libertà politica e dello stato di diritto.

L’Articolo 1 indica lo scopo dell’organizzazione con il raggiungimento di una maggiore


unità tra i suoi membri attraverso il mantenimento e lo sviluppo dei diritti umani e delle
libertà fondamentali.

L’ Articolo 3 stabilisce che ogni membro deve accettare il principio dello stato di diritto e il
principio in virtù del quale tutte le persone nell’ambito della sua giurisdizione devono
godere dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

Primo e tuttora più importante documento prodotto dal Consiglio d’Europa p la


Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU). Essa si raccorda strettamente con lo Statuto del Consiglio d’Europa. Il nesso tra
pace, democrazia, protezione dei diritti umani fondamentali è messo in risalto nel
preambolo della Convenzione, che ne indica il contesto politico-culturale e le intenzioni
degli stati parte.
Nel preambolo vanno anche menzionati il richiamo all’intenzione di realizzare un’unità più
stretta tra gli stati del Consiglio d’Europa attraverso la difesa dei diritti fondamentali.

La Convenzione, firmata a Roma il 4 Novembre 1950, è entrata in vigore il 3 Settembre


1953 ed è stata ratificata dall’Italia il 4 Agosto 1955. Il testo originario della Convenzione
ha subito nel tempo integrazioni e modificazioni attraverso vari protocolli. Si tratta dei
cosiddetti protocolli aggiuntivi, che integrano l’elenco dei diritti e delle libertà e di protocolli
emendativi ce modificano regole di procedura e di organizzazione del sistema.

I protocolli aggiuntivi legano solo gli stati che li hanno ratificati, i protocolli emendativi non
entrano in vigore se non ratificati da tutti gli stati che sono parte del sistema convenzionale
(salvo particolari disposizioni).

Tale Convenzione è accompagnata dall’Accordo europeo sulle persone partecipanti alle


procedure davanti alla Corte europea. Nella costituzione, nel funzionamento della Corte e
nella materia procedurale ha grande importanza il Regolamento interno della Corte.
Il sistema europeo di protezione dei diritti umani si caratterizza per l’istituzione di una corte
indipendente, capace di accertare le violazioni da parte degli stati ed imporre loro di
ripararle. In seguito all’entrata del Protocollo n.11 del 1998 di modifica alla Convenzione,
ogni stato parte accetta la giurisdizione della Corte europea e la possibilità per ogni
persona, fisica o giuridica, di presentare un ricorso alla Corte, direttamente e senza filtri.
Con tale Protocollo è stata abolita la Commissione prevista dal testo originario della
Convenzione.

Accanto al ricorso individuale è previsto quello intestatale, importante anche se raro. Esso
riposa sul concetto di grazia collettiva, da parte degli stati contraenti, dei diritti e libertà
definiti dalla Convenzione.

Il ricorso introdotto dalla vittima della violazione è quello che più frequentemente viene
utilizzato e che offre alla Corte l’occasione per affermare e sviluppare la propria
giurisprudenza.

La corte, che con la sua sentenza è chiamata a risolvere un conflitto, è esterna al sistema
giuridico degli stati. Il controllo esterno della Corte europea, rompe i confini degli stati. La
singola persona diviene soggetto di diritto internazionale, facendo valer diritti propri nella
controversia contro uno stato.

l’Unione Europea è il risultato di un processo di unificazione iniziato con la creazione


negli anni 50 delle Comunità europee. Nel 1951 venne istituita la Comunità europea del
carbone e dell’acciaio (CECA), e in seguito la Comunità economica europea (CEE) e la
Comunità europea dell’energia atomica (Euratom).
Lo sviluppo di tali istituzioni portò nel 1992, con il Trattato di Maastricht, all nuova
strutturazione sotto il nome attuale di Unione Europea (Ue). La Corte di giustizia delle
Comunità (ora Corte di giustizia dell’Unione Europea) venne spinta a costruire per via
giurisprudenziale a tutela dei diritti umani.

Fuori dallo spazio regionale europeo sono stati creati altri sistemi regionali di tutela dei
diritti fondamentali:

• La Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo, è stata adottata dal 1969


dall’Organizzazione degli stati americani (Osa) ed è entrata in vigore il 1978. A tale
sistema partecipano stati centro e sudamericani; non vi partecipano Stati Uniti e
Canada. Competente a conoscere delle questioni relative all’esecuzione degli
impegni presi dagli stati parte della Convenzione è una Corte, istituita nel 1979,
affiancata da una Commissione;

• La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, approvata nell’ambito


dell’Unione Africana nel 1981. A partire dal 2008 è stata istituita la Corte africana di
giustizia e dei diritti dell’uomo, competente a decidere i ricorsi introdotti dagli stati;

• La Carta arava dei diritti dell’uomo, approvata dalla Lega Araba nel 2004, ha
costituito il Comitato arabo dei diritti umani, che riceve ed esami i rapporti degli stati
sull’attuazione di quanto stabilito dalla Carta;

• La Carta dei diritti umani in Asia è un documento redatto nel 1998 da un gruppo
di organizzazioni non governative in Asia. Essa non ha valore giuridico.
Capitolo 2
La Corte europea dei diritti umani. Natura ed efficacia della sua
giurisprudenza.
Nella Convenzione, la definizione dei diritti e delle libertà fondamentali è normalmente
molto generale. Generali sono anche le espressioni usate per indicare le limitazioni che
taluni diritti ammettono. È una normativa che fissa principi.

La Corte europea è competente per risolvere ogni questione d’interpretazione e


applicazione della Convenzione (art.32 Conv.). con le sue sentenze essa risolve
controversie relative ai diritti e alle libertà convenzionali, sollevate da ricorsi individuali
(art.34 Conv.). In linea di principio la controversia sottoposta al suo esame è specifica
perché riguarda una vicenda concreta, la decisione della Corte si limita a stabilire il
fondamento o meno del singolo ricorso.

I criterio dominante è quello della proporzione dell’interferenza statale che il ricorrente


lamenta. La giurisdizione della Corte è giurisprudenza casistica, essa viene ad
accumularsi con decisioni caso per caso.

Accanto alla decisione primaria di decidere il caso , la giurisprudenza della Corte assume
un valore generale perché l sentenza costituisce un precedente cui la Corte si rifà
successivamente nei casi analoghi. Non è solo lo stato parte nel giudizio a dare
esecuzione alla sentenza, ma tutti gli stati membri del Consiglio d’Europa.

Le sentenze e le decisioni della Corte Europea ricorrono naturalmente a terminologia che


rinvia a concetti giuridici. La Corte opera ricorrendo a nozioni autonome, adottate ai soli
fini d’interpretazione e applicazione della Convenzione. Poiché sempre la Corte europea
ragiona in modo autonomo, rispetto ai diritti nazionali nell’ambito dei quai si è svolta la
vicenda sottoposta in giudizio.

Oggetto e natura delle sentenze ella Corte europea ne indicano la differenza rispetto alle
sentenze del giudice nazionale, particolarmente quando queste siano rese da giudici che,
come quello italiano, operano in sistemi di civil law.

La Corte tende a non ripetere o rivedere le valutazioni che essi hanno fatto, specialmente
per quanto riguarda la ricostruzione della normativa interna. La Corte esclude di poter
essere usata come sede di quarta istanza dopo l’esaurimento dei gradi di giudizio a
disposizione del ricorrente in sede nazionale. E quando la legalità secondo la legge
nazionale è requisito richiesto dalla Convenzione la Corte non sostituisce la propria
ricostruzione del diritto internazionale a quella adottata dai giudici interni, salvo il caso
estremo che essa sia arbitraria.

Le valutazioni effettuate dalla Corte europea rispondono a criteri ed esigenze diversi da


quelli delle autorità nazionali. In questo senso la Corte europea esclude di poter essere
usata come sede di una quarta istanza dopo l’esaurimento dei gradi di giudizio a
disposizione del ricorrente in sede nazionale.

La Corte interpreta la Convenzione facendo ricorso ai criteri indicati dagli art.31-33


della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati (1969). Tra questi criteri troviamo la
protezione concreta ed effettiva e nella promozione dei diritti fondamentali mediante un
sistema collettivo di tutela, lascia spazio alla Corte per definire il contenuto dei diritti e delle
libertà elencati adottando un atteggiamento giurisprudenziale dinamico e evolutivo.

Il Preambolo della Convenzione, che richiama lo scopo statutario del Consiglio d’Europa e
l’intenzione degli stati membri di operare per una maggior unità tra di loro anche attraverso
la protezione dei diritti e delle libertà fondamentali, offre un’indicazione teleologica
normativa ai fini dell’interpretatone della Convenzione.

La corte afferma di non essere abilitata a riconoscere nuovi diritti o nuove eccezioni per
rispondere a nuove esigenze. La natura casistica della sua giurisprudenza implica un
metodo di lavoro che parte necessariamente dal caso oggetto del ricorso e richiede alla
Corte la ricerca della norma convenzionale pertinente.

La democrazia è l’unico modello politico previsto dalla Convenzione ed è pertanto il solo


con essa compatibile. Essa sottolinea l’importanza della vitalità del dibattito permanente,
con i conseguenti limiti al potere della maggioranza di imporre la propria opinione.

Quanto ai protocolli aggiuntivi che non siano stati incorporati nella Convenzione, la Corte
ritiene che le loro disposizioni si aggiungano senza modificarle a quelle della
Convenzione.

La Corte non ricerca l’unanimità di tutti gli stati europei, ma assegna rilevanza ai segni di
tendenze significative verso il più ampio riconoscimento dei diritti umani. Il fondamento
oggettivo del richiamo al “consenso europeo” risulta spesso debole.

La corte non è legata dai propri precedenti, ma usualmente li segue e li applica,


nell'interesse della sicurezza legale e dell'ordinato sviluppo della sua giurisprudenza. Si
tratta di affermazione di metodo che descrive la modalità decisionale e la natura delle
argomentazioni della corte di cui occorrerà dar conto qui di seguito.

Le più importanti sentenze sono state liberate dalla corte nei decenni 60 e 70, nei primi
anni della sua attività. Naturalmente in assenza di precedenti e con conseguente rilievo
essenziali del testo letterale alla luce dello scopo della convenzione. Ed anche le decisioni
della commissione hanno portato importanti contributi alla costruzione della giurisprudenza
europea.
Il modo di ragionare della corte È fondamentalmente basato sui precedenti. Si parte dalla
ricerca del precedente rilevante e, quando non esita uno specifico, la corte si avventura
negli interstizi lasciati aperti tre precedenti giurisprudenziali pertinenti ma non specifici.

Essa dunque procede distinguendo il caso da decidere da quello o quelli già decisi, per
prevenire l'identificazione del precedente che indica la soluzione da adottare oppure la
conclusione che il caso in esame non trova ancora riscontro nella giurisprudenza della
corte.

Tuttavia nell'argomentazione dei giudici il complesso dei precedenti almeno la funzione di


guida e argine segnalando le conclusioni con cui non si può giungere senso l'esplicito
mutamento di giurisprudenza.

La corte europea riconosce agli Stati un margine di apprezzamento nell'applicazione della


convenzione, in particolare per quanto riguarda la necessità e proporzione delle limitazioni
ai diritti. In proposito va loro riconosciuto un largo margine di apprezzamento, fermo
restando il controllo della corte affinché non venga superata la misura strettamente
necessaria della deroga.

La corte afferma che essa non potrebbe ignorare le circostanze di diritto e di fatto che
caratterizzano la vita sociale nello Stato convenuto in giudizio; se si sostituisce dalle
autorità nazionali competenti, la corte perderebbe di vista il carattere sussidiario del
meccanismo della convenzione.

La corte ammesso che il sistema convenzionale non implica l'imposizione di un'uniformità


assoluta nell'applicazione della convenzione. Il margine di apprezzamento riconosciuto
agli Stati riguarda principalmente le ipotesi di interferenza nel diritto convenzionale.

L'intervento della corte è solo previsto quando sia sorta una continua in controversia e
dopo che siano state esaurite le vie di ricorso interne. Ca però rilevato che il ruolo dello
Stato nel riconoscere assicurare i diritti della convenzione non si sostanza in un diritto , Ma
in un obbligo, che non implica autonomia nella definizione dell'ambito dei diritti delle
possibili loro limitazioni.

La naturale reciproca influenza che opera tra la giurisdizione della corte europea e quelle
dei giudici nazionali, e chiamata anche “dialogo tra le corti”. Volte, la corte ha aggiunto la
rivendicazione di un suo ruolo nel controllo europeo di ragionevolezza, proporzione e
salvaguardia della sostanza del diritto di cui si tratta.

Tuttavia la corte europea mostra ritegno nel valutar valutare la proporzionalità


dell'interferenza statale nel diritto convenzionale di cui si tratta e il bilanciamento effettuato
in sede nazionale dei diritti contrapposti.

Nel suo complesso l'istituto di origine giurisprudenziale che va sotto il nome di margine di
apprezzamento risponde in linea di principio hai ragione i voli preoccupazioni di definizione
dei confini che sono propri a decisioni di natura giudiziaria rispetto a quelle politiche degli
Stati.

La corte europea afferma che l'ampiezza del margine di apprezzamento è una nazionale
varia secondo le circostanze, le materie e il contesto E che rileva in proposito la presenza
o l'assenza di una dominatore comune ai sensi giuridici degli Stati che fanno parte del
sistema della convenzione (consenso europeo). Il riconoscimento del margine di
apprezzamento conduce a risultati imprevedibili nell'applicazione. E ciò non solo quando
la corte ritiene di poter differenziare l'ampiezza di quel margine a seconda delle diverse
materie, anche quando vengono in esame i medesimi diritti.

Corso del tempo il potere particolarmente nel più recente periodo le giurisprudenza della
corte europea è parsa incline ad ammettere i più ampi ambiti e con maggiore facilità di
margine di apprezzamento rimessi agli Stati.

Nonostante la larghezza della giurisprudenza della corte, recentemente con il protocollo


numero 15, gli Stati hanno ritenuto di provvedere alla modifica della convenzione,
inserendo nel preambolo la menzione espressa della sussidiarietà e del margine di
apprezzamento nazionale accanto allo scopo di assicurare un'unione sempre più stretta
tra gli Stati in maniera di diritti umani e con esso in tendenziale contraddizione.

L'articolo 53 stabilisce che l'interpretazione della convenzione non può essere di


pregiudizio a diritti e libertà fondamentali riconosciuti dalle leggi nazionali. Si tratta di
disposizioni che, nel sistema del consiglio d'Europa, si rivolge prima di tutta la corte
europea e riguarda la competenza adesso assegnata dall'articolo 32 di interpretazione
applicazione della convenzione. La convenzione assicura che i diritti e le libertà
convenzionali siano garantiti nel contenuto il livello da essa definito.

La protezione convenzionale non può ridurre la portata di diritti fondamentali assicurati dei
sistemi nazionali. La convenzione assicura il livello di protezione minimo è comune a tutti
gli Stati europei.questa è la portata del riconoscimento che gli Stati hanno espresso
all'articolo uno della convenzione con riguardo ai diritti e alle libertà della convenzione.

L'articolo 53 della convenzione non si riferisce alla maggior tutela che eventualmente uno
Stato offra a uno o più dei diritti considerati dalla convenzione, ma si riferisce ai diritti
dell'uomo e le libertà fondamentali che siano riconosciuti dalle leggi dello Stato. La formula
letterale ricomprende il caso in cui le leggi dello Stato assicurino diritti o libertà
fondamentali ulteriori rispetto all'elenco contenuto nella convenzione nei protocolli.

Occorre considerare che la valutazione di ciò che significhi maggior tutela e tu il tratto che
facile. Intervengono valutazioni che riguardano lo stesso contenuto del diritto di cui si
tratta, nei suoi rapporti con tutti soggetti che vi sono interessati. La complessità della
disciplina nei suoi profili sostanziali e processuali, può offrire indicazioni confliggenti
quanto a livello di efficacia della tutela.

È importante istituire e assicurare alle vittime della violazione di un diritto convenzionale


un ricorso effettivo davanti a una istanza nazionale.il diritto di ricorso che gli Stati devono
assicurare alla sua contropartita nell'obbligo di esaurire i ricorsi disponibili prima di adire la
corte europea. La corte europea può intervenire in via sussidiaria solo quando i ricorsi alle
vie interne non abbia dato soddisfazione. E necessario che il giudice nazionale venga
sottoposto il profilo del diritto convenzionale che successivamente si intende far valere
davanti la corte europea. I ricorsi in sede nazionale contro la violazione di un diritto
convenzionale costituisce a sua volta un diritto individuale, strumentale e ausiliare rispetto
a quelli dell'elenco dell'articolo 13.

Nel sistema italiano la mancanza di accesso diretto alla corte costituzionale implica che il
relativo ricorso non è richiesto per l'esaurimento delle vie interne. Il ricorso deve essere
efficace sia in generale, che nel senso particolare del singolo individuo. Efficacia del
ricorso comprende la capacità di prevenire la violazione o la sua continuazione, ovvero di
fornire adeguato indennizzo se la violazione si è già verificata.

Ricostruttivo della giurisprudenza è indispensabile, in particolare da parte del giudice


nazionale in tutti i casi in cui venga in rilievo un diritto o una libertà fondamentale: non solo
quando vi sia da dare esecuzione nel sistema interno a una specifica sentenza della corte
europea. Sempre, quando manchi una sentenza della corte europea puntuale rispetto al
problema cui il giudice interno deve dare risposta, giurisprudenza europea, nel contenuto
e nel metodo che la caratterizza, offre ineludibile orientamento per l'identificazione
dell'obbligo discendente dalla convenzione.

Nel ricercare il senso della giurisprudenza della corte europea non si può prescindere dal
fatto che essa è casistica. Alla grande camera, che interviene raramente, e rimesso il
potere di modificare leggi rispondenza della corte. La sentenza della grande camera non è
un pena particolare forza vincolante. Questa sceglie un contrasto e fissa il tenore del
precedente cui fa riferimento, fino a che non sorga la necessità di ripensarlo.
Le sentenze pilota (che hanno variegata natura e struttura) non presentano a loro volta
una speciale forza. Essi si caratterizzano semplicemente per il fatto che decidono un caso
in vista della decisione di altri numerosi casi identici già pendenti, la cui trattazione viene
sospesa in modo da consentire al governo interessato di introdurre soluzioni nazionali
riparatorie e preventive di violazioni ripetute o strutturali.

La giurisprudenza della corte riguarda tutti gli Stati membri del consiglio d'Europa, sia pure
con le differenze che derivano dalla varietà di sistemi normativi e con gli effetti del margine
di apprezzamento nazionale. L'adeguarsi delle situazioni della corte consente agli Stati di
prevenire violazioni. In forza allo statuto del consiglio, oltre che degli articoli uno, 19:32
della convenzione, gli Stati membri sono tenuti ad osservare la convenzione
nell'interpretazione che ne dalla corte europea.

Per evitare che la legge interna entri in conflitto con la convenzione occorre che il giudice
sia lasciato un margine sufficiente di discrezionalità nel decidere, in modo che sia possibile
adattare la decisione alle particolarità del caso.

Capitolo 3
La Convenzione europea dei diritti umani nell’ordinamento italiano

Il tema dei rapporti tra Convenzione e ordinamento interno e dunque, del rango della
Convenzione nel nostro ordinamento, ha generato un acceso dibattito in dottrina ed in
giurisprudenza, almeno fino all’intervento della giurisprudenza costituzionale nel 2007,
successivamente rimessa in discussione in seguito all’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona.

L’importanza della soluzione del tema del rango della Convenzione europea
nell’ordinamento italiano deriva proprio dalla notevole portata evolutiva della Convenzione
con riferimento ad ogni settore del diritto interno.

Sul punto sono intervenute due sentenze della Corte Costituzionale del 22 ottobre 2007, la
n. 348 e la n. 349.

La Consulta, al fine di risolvere il problema del rango della Convenzione nell’ordinamento


interno ha analizzato alcune disposizioni della Costituzione che si occupano dei rapporti
tra lo Stato italiano e gli ordinamenti e gli organismi internazionali, ed in particolare, gli
articoli 10, 11 e 117 Cost. (quest’ultimo riformato dalla legge cost. 3 del 2001).

L’articolo 10 sancisce l’obbligo di conformazione dell’ordinamento italiano “alle norme del


diritto internazionale generalmente riconosciute”.

Tale locuzione è stata intesa dalla Consulta pacificamente riferita alle norme del diritto
internazionale consuetudinario, per le quali soltanto la Costituzione dispone l’adattamento
automatico; ne consegue che non possono ritenersi incluse anche le norme contenute in
Trattati bilaterali o plurilaterali, di diritto internazionale pattizio, categoria cui appartengono
le norme della Convenzione.

Sicché la Corte, sotto un primo versante, esclude che il tema del rango della Convenzione
nel nostro ordinamento possa essere risolto tramite il richiamo all’articolo 10 della
Costituzione.
La Consulta esclude altresì che la questione possa essere definita in base al richiamo alla
norma di cui all’articolo 11 della Costituzione.

Tale disposizione sancisce l’adesione dello Stato italiano, consentendo alla limitazione
della propria sovranità, alle organizzazioni internazionali che abbiano come scopo quello
di assicurare il perseguimento della pace e della giustizia fra le Nazioni.

I giudici della Corte Costituzionale ritengono infatti che l’articolo 11 della Costituzione non
possa disciplinare il rapporto tra l’ordinamento interno e la Convenzione, perché aderendo
a tale Convenzione, l’Italia non ha acconsentito ad alcuna limitazione di sovranità a favore
della Convenzione.

Sicché la giurisprudenza costituzionale ha identificato nell’articolo 117, comma primo,


Cost. la norma che contiene le disposizioni che regolano il rapporto tra ordinamento
interno e Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali.

La disposizione in questione sancisce che il legislatore interno deve rispettare i vincoli


derivanti “dagli obblighi internazionali”, ai quali vengono ricondotti gli obblighi che
promanano dall’adesione alla Convenzione.

L’articolo 117 della Costituzione è un esempio di “rinvio mobile ad una fonte”, poiché esso
è integrato dalle norme Convenzione, le quali rappresentano delle “norme interposte”, che
trovano la loro collocazione nella gerarchia delle fonti interne a metà strada tra norme di
rango ordinario e norme della Costituzione, in quanto sono dotate di una maggiore forza di
resistenza rispetto alle leggi ordinarie, ma sono comunque gerarchicamente inferiori alle
norme costituzionali.

In virtù di tale ricostruzione alla Convenzione viene attribuito un duplice ruolo: da una parte
essa diviene parametro interposto per vagliare la legittimità costituzionale delle norme
interne; dall’altra essa rappresenta un criterio per l’interpretazione costituzionalmente
orientata delle disposizioni interne.

Il giudice italiano quindi, prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale


di una norma interna per contrarietà alle disposizioni previste dalla Convenzione,
deve intraprendere la via dell’interpretazione convenzionalmente e, dunque di
conseguenza, costituzionalmente orientata, assegnando alla disposizione il
significato che la renda non incompatibile con la Convenzione e, ai sensi del
richiamo di cui al primo comma, dell’articolo 117, con la Costituzione.

Qualora tale via interpretativa non sia percorribile, il giudice deve sollevare la questione di
costituzionalità della norma interna per contrarietà rispetto alle disposizioni della
Convenzione.

L’esito cui si perviene nel risolvere la questione del rango della Convenzione e dei rapporti
della stessa con l’ordinamento interno, diverge da quello cui si è giunti con riferimento al
“diritto comunitario” (rectius: “diritto dell’Unione Europea”), per il quale si ritiene operi
direttamente l’articolo 11 della Costituzione, che determina l’adesione alle organizzazioni
sovranazionali, quali in specie, l’Unione Europea, accettando limitazioni di sovranità.

Da ciò consegue che, qualora la norma interna sia confliggente con il diritto comunitario, si
disapplica (e cioè non si applica, poiché la norma interna viene considerata “tamquam non
esset”), in virtù del principio di “primazia del diritto comunitario”, senza ricorrere
all’intervento della Corte Costituzionale.

Il Trattato in questione ha modificato il Trattato sull’Unione Europea (TUE) ed ha istituito il


Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE); in particolare, l’aspetto innovativo
che in questa sede occorre rilevare è costituito dalla modifica dell’articolo 6 del Trattato
sull’Unione Europea.

Tale articolo al paragrafo 1, statuisce che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi
sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000, che ha
lo stesso valore giuridico dei trattati”.

Il paragrafo 2 dispone che “l’Unione aderisce alla Convenzione Europea per la


salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica
le competenza dell’Unione definite nei Trattati”; il paragrafo 3 invece, dispone che “I diritti
fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, fanno parte del diritto dell’Unione Europea in quanto principi generali”.

Il primo paragrafo dell’articolo 6 contiene il riferimento alla Carta dei diritti fondamentali di
Nizza, alla quale, in virtù delle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, viene
assegnato “lo stesso valore giuridico dei Trattati”.

Sotto un primo versante dunque, è opportuno rilevare l’avvenuta “comunitarizzazione” (o


“trattatizzazione”) della Carta di Nizza, approdo questo su cui la dottrina e la
giurisprudenza sono unanimemente concordi.

Quanto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo invece, richiamata nei paragrafi 2 e
3 dello stesso articolo 6, del Trattato sull’Unione Europea, all’orientamento secondo cui
tale Convenzione sarebbe stata “comunitarizzata”, si contrappone quello secondo cui la
Convenzione conserverebbe la natura di norma interposta sub-costituzionale.

La prima tesi, quella dell’avvenuta “comunitarizzazione” (o “trattatizzazione”) della


Convenzione, secondo cui alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sarebbe stato
attribuito lo stesso valore giuridico e dunque, la stessa forza dei Trattati, si fonda sulla
valorizzazione del dato letterale contenuto nei paragrafi 2 e 3 dell’articolo 6; in particolare,
viene posto l’accento sulle locuzioni “aderisce” e “fanno parte”.

Da tale ricostruzione deriva la necessità di garantire la primauté della Convenzione sulle


norme del diritto interno, alla stregua di ciò che avviene per il “diritto comunitario”, e cioè
attraverso il meccanismo della disapplicazione delle norme interne configgenti con le
norme della Convenzione.

A tale impostazione si contrappone quella secondo cui il rango delle norme della
Convenzione nell’ordinamento interno sarebbe rimasto il medesimo, anche dopo le
modifiche apportate all’articolo 6 dal Trattato di Lisbona.

Sicché alla Carta di Nizza e alla Convenzione viene attribuito diverso valore giuridico.

Alla conclusione riferita la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie pervengono


attribuendo rilevanza alla disposizione contenuta nel paragrafo 1, con riferimento alla
Carta di Nizza, alla quale è stato assegnato “lo stesso valore giuridico dei Trattati”. La
medesima disposizione non è stata prevista per la Convenzione, essendo stata prevista
invece solo una mera “adesione” ed essendo stato disposto che i diritti fondamentali
sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo “fanno parte” del diritto dell’Unione
Europea, quali affermazioni di principio prive di un effetto innovativo del valore giuridico
della Convenzione.

Allo stesso esito è pervenuta da ultimo la Corte Costituzionale, con sentenza del 12
ottobre 2012, n. 230, nella quale la Consulta ha confermato il rango della Convenzione di
fonte sub- costituzionale, ma sovra-ordinata rispetto alla legge costituzionale.

La Convenzione non è interpretazione autonoma da parte dei giudici nazionali, nel


senso che l'interpretazione del giudice nazionale non può contrastare quella che
emerge dalla giurisprudenza della Corte europea.

Al giudice nazionale spetta la ricostruzione del tenore della giurisprudenza elaborata dalla
Corte europea. Essa offre il termine di paragone per l'adeguamento della legge interna in
via interpretativa.

Capitolo 6
L’applicabiità della Convenzione

Nel giudizio della Corte Europea è necessario distinguere due fasi:

1. La FASE DELL’APPLICABILITA’ DELLA CONVENZIONE : coincide con l’applicazione


dei criteri sulla competenza;

2. La FASE DELLA GIUSTIFICAZIONE: è la fase in cui si stabilisce se l’ingerenza


compiuta dallo stato o la mancata tutela che lo stato avrebbe dovuto fornire siano o
meno legittime.

La Corte europea è competente a esaminare un ricorso qualora le seguenti condizioni


siano rispettate:

• La violazione sia avvenuta nell’ambito della giurisdizione dello stato ( competenza


ratione loci);

• Gli atti che danno luogo all’asserita violazione siano avvenuti successivamente alla
ratifica della Convenzione da parte dello stato convenuto e prima della sua
denuncia (competenza ratione temporis). La Convenzione non può esaminare
ricorsi aventi ad oggetto violazioni avvenute prima della ratifica della Convenzione
da parte dello stato convenuto.

• Il diritto di cui il ricorrente lamenta la lesione sia previsto dalla Convenzione


( competenza ratione materiae). Nell’esame della propria competenza ratione
materiae la Corte deve verificare se il diritto invocato da parte del ricorrente sia
previsto dalla Convenzione o dai suoi protocolli.

• Il ricorrente sia la vittima della lesione di un diritto di cui è titolare o di cui è


portatore (competenza ratione personae). La Corte può essere investita di un
ricorso solo da una persona fisica, da un’organizzazione non governativa o da un
gruppo di privati.
Dall’adesione al sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali si deduce il divieto
degli stati di violare quei diritti, impedire l’esercizio di quelle libertà, interferire nella
condotta delle persone in modo da imporre limiti ingiustificati.

Si tratta delle OBBLIGAZIONI NEGATIVE, quelle che implicano un dovere di astensione.


Oltre a tali obbligazioni negative la convenzione assegna agli stati un dovere di proteggere
e rendere concreti i diritti e le libertà delle persone, imponendo in tal modo degli
OBBLIGHI POSITIVI. Si tratta di obblighi diretti a:

- Superare impedimenti derivanti dalla legislazione o dalla prassi dello stato;


- Proteggere diritti minacciati da azioni di privati;
- Sviluppare le condizioni di godimento e sviluppo dei diritti e libertà.
Agli stati quindi si richiede un comportamento attivo, di varia e diversa natura, quando
esso sia necessario per riconoscere/assicurare a tutte le persone i diritti della
Convenzione.

Alcuni obblighi di azione positiva da parte degli stati si ricavano agevolmente dal testo
stesso di alcuni articoli della Convenzione o ne derivano implicitamente; altri obblighi
positivi sono stati sviluppati dalla giurisprudenza della Corte sulla base dello scopo della
Convenzione. Non è escluso inoltre che tali obblighi operino anche quando la violazione o
la messa in pericolo del diritto di un individuo derivi dalla condotta di un altro privato e le
autorità pubbliche siano o debbano essere messe al corrente della situazione di pericolo o
di danno: è l’ipotesi di estensione indiretta e orizzontale dell’applicabilità della convenzione
(Drittwirkung).

Art.17 = Sancisce il DIVIETODI ABUSO DEI DIRITTI E LIBERTA’ CONVENZIONALI.

Stabilisce che la Convenzione non può essere interpretata e applicata per consentire a
stati, gruppi o persone di tenere comportamenti diretti a distruggere i diritti e le libertà o a
estendere limitazioni o eccezioni che la Convenzione riconosce. Si tratta di un articolo
applicabile solo in casi eccezionali e con riferimento a situazioni estreme.

La Convenzione, all’art.15, ammette deroghe agli obblighi assunti dagli stati per i diritti e le
libertà non indicati come inderogabili, ponendo una serie di condizioni. La previsione
consente, in situazioni che richiamano la nozione di “stato di necessità”, la sospensione o
limitazione di alcuni diritti convenzionali, senza che il governo interessato sia lasciata la
sola via della denuncia della Convenzione nel suo complesso. Si tratta principalmente dei
casi di guerra o di altri pericoli pubblici che minaccino la vita della nazione.

Sul piano procedurale, l’art.15 richiede che lo stato che adotta deroghe informi il segretario
generale del Consiglio d’Europa delle misure prese e dei motivi che le giustificano, nonché
della data a partire dalla quale esse cessano d’essere applicate.

Ultima tra le previsioni della Convenzione che concorrono a delimitarne l’applicabilità è


l’art.16, che ammette la possibilità di restrizioni all’attività politica degli stranieri.
( l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ne ha raccomandato l’eliminazione).
Capitolo 7
La giustificazione dell’interferenza

La prima condizione che un’inferenza statale nel godimento di un diritto o nell’esercizio di


una libertà convenzionale deve soddisfare per essere ammessa è quella di essere
prevista dalla legge nazionale. La Corte, nel caso in cui riscontri la mancanza di base
legale, non procede oltre nell’esame delle altre condizioni richieste dalla Convenzione !
“legge” o “diritto” ai fini della Convenzione sono la norma in vigore nel sistema
nazionale, come interpretata dai tribunali.

GLI SCOPI LEGITTIMI CHE GIUSTIFICANO LA LIMITAZIONE DEI DIRITTI:

A. L’integrità territoriale, trova un suo specifico rilievo nella connessa libertà di


associazione e riunione.

B. La sicurezza nazionale, che si presenta unitamente allo scopo di salvaguardare la


sicurezza pubblica e l’ordine e prevenire la commissione di reati.

C. La sicurezza pubblica. La nozione rinvia a uno scopo legittimo spesso considerato


dalla Corte insieme agli altri, come quello della protezione della salute pubblica o dei
diritti altrui.

D. L’ordine e la prevenzione delle violazioni della legge penale.

E. Il benessere economico del paese, è scopo che giustifica limitazioni nel diritto al
rispetto della vita privata e familiare.

F. L’esigenza di protezione della salute riguarda sia quella della singola persona (come
nei trattamenti sanitari obbligatori e nell’imposizione di vaccinazioni) sia quella
generale (ad es. nell’imposizione di test alcoolici a conduttori di veicoli).

G. La difesa della morale è stata ammessa come scopo legittimo rivendicato dal
governo in ricorsi concernenti pubblicazioni o esposizioni di oggetti e dipinti a esplicito
carattere o tema sessuale.

H. I diritti e le libertà altrui. Le occasioni più frequenti di richiamo da parte dei governi e
di ammissione da parte da parte della Corte europea dello scopo di proteggere i diritti
altrui riguardano il diritto alla reputazione rispetto ai casi di diffamazione, oppure
nell’interesse del bambino in casi relativi alla vita di famiglia. L’esigenza legittima di cui
si tratta è anche stata riconosciuta in relazione al diritto al rispetto delle convinzioni
religiose e in ordine alla concorrenza sleale.

Diversamente da quanto previsto nella Convenzione, la Carta Ue contiene un’unica


clausola relativa alle limitazioni all’esercizio dei diritti in essa riconosciuti. Analogamente
alla Convenzione, ogni limitazione all’esercizio dei diritti deve avere una base legale, nel
diritto dell’Ue o nel diritto statale. Le limitazioni debbono inoltre rispondere a interessi
generali riconosciuti dall’Unione e rispettare i principi di proporzionalità e necessità.

PROPORZIONE: Il test di proporzionalità rappresenta l’ultimo passo e il cuore dell’esame


della giustificazione dell’ingerenza statale nel diritto del ricorrente. Esso impone allo stato
di fornire ragioni che possano giustificare le condotte, attive od omissive, dei propri organi.
Sono le autorità pubbliche che, per legittimare le proprie azioni od omissioni, devono
dimostrare che le scelte adottate non incidono in maniera sproporzionata sui diritti delle
persone. In assenza di una valida giustificazione, correttamente introdotta innanzi alla
Corte europea, l’ingerenza nel diritto allegata dal ricorrente si traduce in una violazione
della Convenzione. Si tratta quindi di un vero e proprio onere per lo stato di motivare e
giustificare la propria condotta tutte le volte in cui essa incide sull’esercizio dei
diritti riconosciti dalla Convenzione.

E’ importante precisare che la fase della c.d. “giustificazione” delle ingerenze non si
applica nel caso in cui sia in gioco un diritto assoluto. Tale categoria di diritti non
permette, infatti, alcuna restrizione.

A livello teorico possono essere individuate tre componenti della proporzionalità:

- a verifica dell’adeguatezza (o idoneità) della misura rispetto al raggiungimento dello


scopo legittimo;

- la necessità di tale misura;


- la proporzionalità in senso stretto, ossia il vero e proprio
Si tratta di un divieto limitato nella portata, perché non investe tutti i diritti riconosciuti nei
singoli ordinamenti nazionali, tuttavia ha avuto una grande espansione grazie
all’interpretazione datane dalla Corte europea. Esso è previsto dall’art. 14 della
Convenzione, il quale richiama l’obbligo dello stato di assicurare il godimento dei diritti
convenzionali senza discriminazioni.
Non ogni differenza di trattamento costituisce discriminazione; la discriminazione consiste
non solo nel trattare diversamente situazioni eguali, ma anche nell’imposizione di un
eguale trattamento a situazioni che siano significativamente diverse ( discriminazione
indiretta).

Capitolo 8
Diritto alla vita
Il diritto alla vita è il primo in ordine di importanza nonché presupposto di tutti gli altri. La
Convenzione europea, all’art.2 afferma che “il diritto alla vita di ogni persona è protetto
dalla legge” e definisce i casi in cui la privazione della vita di una persona non è in
violazione del relativo diritto.
Titolare del diritto è ogni persona nel corso della sua vita.
Dal diritto alla vita non si può trarre il suo opposto e cioè il diritto di morire.

Lo stato deve astenersi dal causare la morte o anche solo dal mettere concretamente a
rischio la vita di una persona, prendendo le misure necessarie alla protezione. Quando per
gli scopi legittimi indicati dalla Convenzione, lo stato faccia ricorso alla forza, essa deve
essere mantenuta nei limiti di ciò che è assolutamente necessario. L’uso eccessivo della
forza determina la violazione del diritto alla vita anche quando lo scopo perseguito sia
legittimo e la conseguenza letale non sia intenzionale.

La prima ipotesi di uso della forza letale, che si pone come limite al diritto alla vita,
corrisponde alla legittima difesa e allo stato di necessità della legislazione penale italiana.
Lo scopo di perseguire un arresto o di impedire l’evasione di un detenuto legittima l’uso
della forza, quando essa sia assolutamente necessaria, anche a rischio di provocare la
morte del fuggitivo.

L’ultima ipotesi menzionata dall’art.2 Conv. Di uso della forza che cagiona la morte di una
persona riguarda la repressione secondo la legge di una sommossa o di un’insurrezione.

La prima obbligazione positiva dello stato è quella di introdurre una legislazione adeguata
alla protezione della vita delle persone: una legislazione, cioè, che sul piano sostanziale e
procedurale sia idonea a prevenire e reprimere le offese al diritto alla vita. Le leggi devono
essere accompagnate da prassi applicative che assicurino la tutela richiesta.
Oltre alla previsione di un adeguato apparato normativo, efficacemente preventivo e
repressivo, il diritto alla vita richiede che lo stato metta in atto le misure necessarie alla
protezione della vita delle persone.

Dal dovere dello stato di proteggere attraverso la legge la vita delle persone, deriva
l’obbligo positivo di svolgere indagini efficaci in ogni caso in cui vi sia stata perdita di una
vita e di punirne i responsabili. Si tratta di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, la cui
violazione ha carattere autonomo rispetto a quella di carattere sostanziale. Le due
violazioni, sostanziale e procedurale, possono coesistere o andar disgiunte secondo le
particolarità del caso. L’indagine deve essere indipendente ed effettiva, in modo tale da
assicurare il ristoro del danno subito dalle vittime sul piano morale e materiale.

La pena di morte è espressamente considerata come un’eccezione al diritto alla vita dal
resto dell’art.2 Conv. L’abolizione della pena di morte, salvo che in tempo di guerra, è stata
disposta dal Protocollo n. 6 del 1983. Successivamente, nel 2002, il Protocollo n. 13 ne ha
stabilito l’abolizione in ogni circostanza.

In Italia la pena di morte è esclusa dall’art. 27 Cost. che ha eliminato la previsione della
possibilità di tale pena nelle leggi penali di guerra.

Capitolo 9
Divieto di tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti

Il divieto è previsto dall’art. 3 della Convenzione europea e, in identico testo, dall’art. 4


Carta UE. La nostra Costituzione, dopo aver dichiarato all’art. 2 che la Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, stabilisce all’art. 13, con riguardo alle
persone sottoposte a restrizioni di libertà, che è punita ogni violenza fisica e morale e,
all’art. 27 che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e
devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Il divieto, legato al principio del rispetto della dignità di ogni persona, è assoluto e
inderogabile. Esso integra una norma internazionale consuetudinaria e costituisce “jus
cogens” inderogabile. Esso è previsto dall’art. 3 della Convenzione.
Dall’assolutezza del divieto deriva l’impossibilità di ammettere eccezioni o limiti in
considerazione di altri diritti fondamentali o di esigenze legittime degli stati.

Per rientrare nelle nozioni cui fa riferimento l’art.3 della Convenzione, occorre che il
trattamento raggiunga il livello minimo di gravità, andando oltre ciò che è inevitabilmente
connesso ad una pena o a un trattamento legittimi. La gravità del trattamento va valutata
in concreto, tenendo conto di una serie di elementi, come la durata, la serietà delle
conseguenze fisiche o mentali, l’età, il sesso, lo stato di salute della vittima.

Il trattamento è inumano se cagiona deliberatamente una grave sofferenza fisica o


mentale, mentre la tortura è una forma aggravata di trattamento inumano, sia per l’entità
delle sofferenze inflitte, sia perché tende ad uno scopo, come quello di ottenere una
confessione; il trattamento è invece degradante quando, indipendentemente
dall’intenzione di chi agisce, umilia gravemente la persona nei confronti di altri o di se
stessa o la spinge ad agire contro la sua volontà e coscienza.

Il divieto non implica soltanto l’interdizione per lo stato di torturare o infliggere pene o
trattamenti inumani o degradanti. Lo stato è infatti destinatario di obblighi positivi. Obblighi
positivi particolarmente stringenti gravano sullo stato quando si tratti di prevenire violazioni
in danno di soggetti deboli o particolarmente vulnerabili.

Primo fra gli obblighi positivi di natura sostanziale è quello di prevedere nella propria
legislazione norme repressive adeguate che consentano di indagare e punire le violazioni
del divieto di cui si tratta. A esso segue l’obbligo di svolgere efficaci e tempestive indagini
per identificare e punire i responsabili con pene adeguate alla gravità della violazione
( obbligo positivo procedurale).

Lo stato è anche tenuto ad istituire nel proprio ordinamento interno efficaci rimedi
preventivi e risarcitori per evitare o riparare le violazioni della Convenzione. L’obbligo
positivo dello stato riguarda anche i fatti commessi dai privati nei confronti di privati nei
confronti di privati.

L’Italia, in contrasto con l’obbligo derivante dall’art. 4 della Convenzione, non ha


tuttora introdotto nell’ordinamento penale interno un delitto di tortura e di
trattamenti inumani e degradanti.

L’obbligo che gli stati europei hanno assunto di non ricorrere alla tortura e alle pene o ai
trattamenti inumani o degradanti non riguarda soltanto le condotte direttamente compiute
nell’ambito della giurisdizione degli stati stessi. E’ invece acquisito che gli stati non
possono agire in modo da rendere possibile che simili condotte siano comunque poste in
essere.

In particolare, nonostante il principio secondo il quale gli stati hanno il diritto di controllare
l’entrata, la residenza e l’espulsione degli stranieri, essi non possono trasferire persone
fuori della loro giurisdizione e verso stati che praticano i comportamenti vietati dall’art. 3
Conv.
L’espulsione, l’estradizione e il respingimento verso stati rispetto ai quali vi sono seri
elementi per pensare che pratichino detti comportamenti illeciti costituirebbe violazione
della Convenzione. Conseguentemente, nel diritto interno,la misura dell’espulsione va
sostituita da altra misura di sicurezza, fino a che nello stato di destinazione permanga la
situazione che ha condotto la Corte europea a ritenere che l’espulsione costituirebbe
violazione dall’art. 3 Conv.

Capitolo 10
Divieto di schiavitù, di servitù e di lavori forzati o obbligatori

La riduzione in schiavitù o servitù e la costrizione a lavori forzati sono il punto di arrivo di


un lungo processo storico, di cui la Dichiarazione universale dei diritti umani può ora
essere considerato il punto di riferimento.

La nozione di schiavitù può essere ricostruita alla luce dell’art. 1 della Convenzione
concernente la schiavitù firmata a Ginevra il 25 settembre 1926, come “ lo stato o la
condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà
o taluni di essi”. Sono equiparate alla schiavitù le pratiche elencate dall’art. 1 della
Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù, del commercio di schiavi e
sulle istituzioni e pratiche assimilabili alla schiavitù del 7 settembre 1956:

• la servitù per debiti;

• il servaggio ( servitù della gleba);

• ogni istituzione o pratica secondo la quale un bambino o un adolescente minore di


diciotto anni sia consegnato, dai genitori o da uno di essi o dal tutore, a un terzo,
con o senza pagamento, perché ne sfrutti la persona o il lavoro.

La servitù, nel senso della Convenzione, consiste nello stato di chi è costretto a
rendere ad altri i suoi servizi ed è nozione confinante con quella di schiavitù ma non ad
essa sovrapponibile.

Quanto alla nozione di lavoro forzato o lavoro obbligatorio, la giurisprudenza europea ha


affermato che essa indica un lavoro costretto sotto minaccia di una qualunque sanzione e
contraria alla volontà dell’interessato che non vi si sia prestato liberamente.

I comportamenti vietati non si limitano a quelli delle autorità dello stato, ma riguardano
anche quelli dei privati che lo stato è tenuto a sanzionare adeguatamente. Gli stati sono
soggetti a obblighi positivi diretti ad assicurare un’efficace protezione contro la violazione
del divieto previsto dall’art. 4 Conv.

Mentre il divieto di riduzione in schiavitù o servitù non conosce eccezioni o


limitazioni, quello relativo al lavoro forzato od obbligatorio trova al comma 3 art. 4
Conv. l’indicazione di una serie di casi in cui il divieto non si applica. Si tratta del
lavoro normalmente richiesto a una persona legittimamente detenuta o durante il periodo
di libertà condizionale, il servizio militare o, nel caso degli obiettori di coscienza, qualunque
altro servizio sostitutivo di quello militare obbligatorio; il servizio richiesto in caso di crisi o
di calamità che minacciano la vita o il benessere della comunità, qualunque lavoro o
servizio facente parte dei normali doveri civici.

Capitolo 11
Divieto alla libertà e alla sicurezza

Il diritto alla libertà e alla sicurezza è nella Convenzione europea previsto all’art. 5; nella
nostra Costituzione esso è contemplato dall’art. 13, che sancisce l’inviolabilità della libertà
personale. L’art. 5 indica che la privazione della libertà è consentita nei seguenti casi:

• condanna da parte del giudice competente a una pena detentiva per la violazione di
una norma penale;

• arresto o detenzione per violazione di un ordine del giudice;

• restrizione della libertà per assicurare l’esecuzione di un obbligo di legge;

• restrizione della libertà di un minore che corrisponda all’esigenza di sottoporlo a


una forma di educazione di sorveglianza;

• restrizione della libertà per chi sia malato di mente, quando il suo internamento in
una struttura ospedaliera sia da ritenere proporzionato in rapporto alla gravità che
riveste ogni privazione della libertà;

• arresto o detenzione per impedire l’ingresso illegale di una persona sul territorio
dello stato o allo scopo di eseguirne l’estradizione o l’espulsione.

L'art. 5 ai commi 2, 3 e 4 stabilisce che a chiunque sia privato della libertà siano garantiti
alcuni diritti proceduali e il controllo giudiziario.

L'art. 5/5 Conv. Stabilisce che chi sia stato vittima di un arresto o di una detenzione
contrari alle disposizioni dello stesso articolo ha diritto a riparazione. L'indennizzo non
esaurisce l'ambito degli obblighi positivi di tutela relativi al diritto di libertà e alla sicurezza:
talvolta è necessaria la previsione di una sanzione penale nei confronti del responsabile
della violazione dell'art. 5 Conv.

Capitolo 12
Diritto a un equo processo

Il diritto a ottenere la decisione di un giudice a seguito di un processo equo, è espressione


necessaria del principio alla preminenza del diritto, proclamato nel Preambolo della
Convenzione (art. 6).

Il diritto di cui all'art. 6 Conv. È riconosciuto con riferimento alle controversie civii e alle
accuse penali.
Il diritto a un processo equo e a una decisione del tribunale presuppone il diritto di
accedere al tribunale; si tratta di un diritto implicito, non espressamente menzionato.
L'accesso al giudice consente, all'esito di una procedura nella quale siano adeguatamente
prese in esame le ragioni delle parti nel contraddittorio, di ottenere una decisione utile alla
definizione della domanda, accompagnata da una motivazione che riguardi gli argomenti
rilevanti svolti dalle parti. Il diritto di accesso al giudice da una parte è rinunciabili in
materia civile e dall'altro non è illimitato.

La giurisprudenza della Corte ha individuato una seria di limiti impliciti, che sono
ammissibili a condizione che l'accesso al giudice non sia reso concretamente
impraticabile, in contrasto con le esigenze proprie del principio della preminenza del diritto
su cui la Convenzione si fonda. Purchè si tratti di regolamentazione proporzionata allo
scopo, è così ammessa l'imposizione di condizioni, nochè forme o termini procedurali,
necessari per consentire la buona amministrazione della giustizia, la certezza del diritto, il
contraddittorio nel processo, ecc..

E' tribunale, ai fini del diritto d'accesso al giudice di cui all'art. 6, l'organo stabilito dalla
legge, che sia di piena giurisdizione rispetto a ogni questione di fatto e di diritto
concernenti la decisione della controversia secondo legge, all'esito di una procedura a tal
fine definita.

Un tribunale deve essere previsto dalla legge, essere indipendente e imparziale,


deve avere piena giurisdizione, agire secondo una procedura giudiziaria e poter
definire la causa con una decisione non modificabile da altra autorità che non sia
giudiziaria.

La previsione per legge del tribunale non riguarda solo il fato che esso sia istituito come
tale, ma investe anche l'osservanza delle norme che disciplinano la composizione dei
collegi giudicanti e l'assegnazione delle cause ai singoli giudici.

Un tribunale deve essere indipendente rispetto ai poteri esecutivo e legislativo e


imparziale rispetto alle parti.

L'imparzialità ha due aspetti, l'uno soggettivo e l'altro oggettivo. L'imparzialità


soggettiva si presume, ma viene esclusa se il giudice si manifesti o abbia manifestato con
il suo comportamento un pregiudizio personale, oppure se la causa gli sia stata assegnata
irregolarmente per considerazioni relative alla sua persona. Il giudice deve poi essere
oggettivamente imparziale, nel senso che deve essere assistito da garanzie sufficienti a
proteggerne l'imparzialità e a non dar occasione a dubbi a tal proposito.

L’articolo 6 Conv. è il riferimento normativo più importante che sia stato concesso a livello
sovranazionale dal dopoguerra ad oggi alle c.d. garanzie processuali. Tale disposizione
garantisce sostanzialmente il diritto ad un processo equo e quindi il diritto per chiunque sia
sottoposto alla giustizia ad una buona amministrazione della stessa. Ben sapendo che
all’interno della Convenzione si è cercato di bilanciare gli equilibri tra l’interesse generale
della collettività e la salvaguardia dei diritti fondamentali, la buona amministrazione della
giustizia occupa di certo un ruolo rilevante che non si può sacrificare per mera opportunità,
a meno che non si voglia far decadere le garanzie previste in una società democratica,
come la stessa Europa tende a divenire con il passare del tempo. Proprio per questo,
l’articolo in esame è un parametro di riferimento per tutti gli Stati firmatari e non può non
influenzare da vicino l’esperienze giuridiche dei vari ordinamenti nazionali.

Si parla di equo processo.


Nell’analisi dell’articolo 6 Conv, formato da tre commi particolarmente consistenti, il rischio
maggiore è quello di considerare alcuni diritti prevalenti sugli altri. In particolare, questo
articolo sembra diviso in due grandi parti: la prima, quella formata dal solo primo comma,
fornisce un quadro delle c.d. garanzie processuali “oggettive”, ossia che riguardano in
particolare il processo in quanto sequenza di atti, dipendenti l’uno dall’altro, nel senso che
il precedente costituisce il presupposto per l’adozione e la validità del successivo,
finalizzati ad un atto finale che produce effetti nella sfera giuridica sostanziale di un
determinato destinatario, ed è quello che maggiormente ci interessa, perché le garanzie
del giusto processo sono in primis oggettive mentre i diritti inerenti il processo e spettanti
ad ogni singolo individuo sono di difficile inquadratura; la seconda, formata dai due commi
successivi, racchiude le garanzie processuali “soggettive”, inerenti il singolo soggetto
imputato di un reato e che tale sia il soggetto lo capiamo proprio dal tipo di garanzie che
gli vengono elencate, dai diritti di difesa (assistenza di un avvocato, esame testimoni a
carico, convocazione testimoni a discarico, essere informato delle accuse a suo carico)
alla presunzione d’innocenza.

Il primo comma risponde al quesito di quanti si sono chiesti da dove provenissero le


disposizioni sul giusto processo che sono entrate di prepotenza negli ordinamenti giuridici
europei analizzati.

La prima garanzia è l’equità processuale con la quale si intende la configurazione che


deve possedere ogni processo per potersi definire effettivamente tale e non esserne
soltanto un’apparenza. Rappresenta un insieme di caratteri, alcuni specificati nel
prosieguo dello stesso comma, la cui individuazione non può però soltanto rimanere
cristallizzata in una disposizione scritta. Questa individuazione è compito dell’interprete e
da ciò ricaviamo come l’enumerazione contenuta nell’articolo 6 in tutti e tre i commi, non
sia esaustiva e costituisca un catalogo aperto. Questa funzione nomofilattica e di
interpretazione è lasciata per di più alla Corte europea che in alcune sentenze ha ribadito
come nell’analisi delle vicende sottoposte al suo giudizio essa faccia affidamento non
soltanto al primo comma, ma riconduca la sua interpretazione alla luce degli stessi commi
2 e 3, nell’ottica del combinato disposto di ciascuno di essi proprio con il comma 1.

Quello della durata ragionevole del processo è un problema che ha risvolti teorici e
pratici molto complicati e che la Corte europea ha cercato di semplificare ritenendo che la
durata ragionevole vada commisurata con la complessità della causa e il comportamento
dell’imputato in udienza e dell’autorità giudiziaria nell’organizzazione del proprio lavoro.
Nella complessità della causa viene prestata assoluta attenzione alla gravità del reato e
alla difficoltà nelle acquisizioni probatorie; nel comportamento dell’imputato si tiene conto
della sua concreta attività processuale, assenze, richieste, eccezioni ed impugnazioni;
nell’attività dell’autorità giudiziaria si analizzano le responsabilità dei magistrati nella
scansione dei tempi processuali, nell’organizzazione del carico di lavoro e si guarda al
concreto aiuto proveniente dagli uffici che lavorano per e con il giudice. La sintesi di tutto
questo complesso risultato è che compete al singolo Stato evitare il protrarsi eccessivo nel
tempo delle vicende processuali e che alla Corte europea compete capire quando lo Stato
sia direttamente responsabile delle violazioni a questo principio-diritto fondamentale.
Ugualmente per il diritto al tribunale indipendente ed imparziale. Questo diritto appare
come principio indefettibile per ogni sistema processuale che non intenda porsi ai margini
della comunità internazionale. È indiscutibile che il carattere dell’imparzialità sia
connaturale alla stessa qualità di giudice; e appare altrettanto indiscutibile che
all’imparzialità sia collegato in maniera diretta anche il carattere dell’indipendenza. Ciò che
la Corte europea ha cercato di definire meglio con le sue pronunce è far comprendere
cosa davvero si intenda con i termini “imparzialità” e “indipendenza”. È venuto fuori che
l’imparzialità si riferisce all’assenza di legami tra giudice e parti, alla indifferenza rispetto
agli interessi in conflitto e al risultato della disputa, alla sua mancanza di pregiudizi in
relazione al thema decidendi e alla sua posizione di equidistanza rispetto alle parti, in
definitiva al suo essere super partes. Se ciò è stato ribadito più volte all’interno di alcune
sentenze, vuol dire che non è stato immediato capire l’imparzialità in questo senso. Così
come l’indipendenza è stata sempre una affermazione di principio difficilmente tradotta in
realtà a causa della presenza dei regimi totalitari e di forze politiche coinvolgenti al punto
tale da rendere l’organo amministratore della giustizia dipendente dalla fazione di
appartenenza. Per indipendenza, si intende che essa sia istituzionale, organica e
funzionale e sarà ampiamente spiegata nel prosieguo della trattazione.

La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha avuto un ruolo fondamentale
per l’inserimento di alcuni principi, tra i quali quelli del giusto processo, nelle principali
Carte costituzionali europee. Secondo alcuni, è proprio grazie all’enorme lavoro di questa
Corte che oggi si può parlare di “esigenza costituzionalizzata” a riguardo dei principi
fondamentali dell’americano due process of law, espressione, come abbiamo visto,
variamente tradotta in Europa a seconda del Paese di ricezione.

L'art. 6 comma 3 della Convenzione prevede una serie di requisiti dell'equità che sono
propri del processo penale e che fanno riferimento alla persona dell’accusato:

- Essere informato nel più breve tempo possibile e in modo dettagliato della natura e dei
motivi dell'accusa formulata a suo carico;

- Ottenere tale informazione in una lingua da lui conosciuta e poi di farsi assistere
gratuitamente da un interprete se non coprende o non parla la lingua usata nell’udienza;

- Disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;


- Difendersi personalmente o con l'assistenza di un difensore di sua scelta;
- Partecipare all’udienza;
- Esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazioni e l'esame dei
genitori a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico.

Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua


colpevolezza non sia stata legalmente accertata (art. 6 comma 2 Conv.).
La presunzione di innocenza è compatibile con le misure cautelari, anche detentive, prese
in corso di processo, ma essa impone una valutazione rigorosa delle ragioni di interesse
pubblico prevalenti sul diritto alla libertà. Nel sistema della Convenzione, il diritto a un
doppio grado di giudizio riguarda la sola materia penale ed è riconosciuto soltanto a
chi è dichiarato colpevole di un reato, non quindi all'imputato assolto con formula non
pienamente soddisfacente, non al pubblico ministero e non alla parte civile.
Il diritto al doppio grado di giudizio riguarda la sola materia penale ed è riconosciuto
soltanto a chi è dichiarato colpevole di un reato, non quindi all'imputato assolto con
formula non pienamente soddisfacente, non al pubblico ministero e non alla parte civile.

Il divieto di bis in idem entra in gioco quando viene iniziato o continuato un nuovo
procedimento per lo stesso fatto che si sia concluso con sentenza definitiva. Esso non
riguarda dunque soltanto la doppia condanna in separati procedimenti, ma interviene già
in una fase antecedente, quando inizia o continua un secondo procedimento avente lo
stesso oggetto e quando il primo procedimento si è definitivamente concluso con
un'assoluzione o senza condanna, un secondo procedimento che conduca alla irrogazione
di una sanzione penale può dar luogo anche alla violazione della presunzione di
innocenza.

L'art. 5 Conv. Stabilisce che se una sentenza penale di condanna definitiva viene
successivamente annullata, oppure sia concessa una quache forma di grazia perchè un
fatto sopravvenuto o nuove rivelazioni provano che si è trattato di errore giudiziario, la
persona che ha scontato una pena ha diritto di essere risarcita.

Capitolo 13
Legalità dei delitti e delle pene

Il principio di legalità dei reati e delle pene con i suoi corollari è sancito da una serie di
disposizioni, che si articolano su tre livelli di fonti normative.

In primo luogo occorre considerare le disposizioni contenute nei commi secondo e terzo
dell’articolo 25 della Costituzione; in particolare il secondo comma sancisce che “nessuno
può essere in punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso”. Il terzo comma sancisce che “nessuno può essere sottoposto a misure di
sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”.

La Carta Costituzionale sancisce dunque la valenza costituzionale del principio di legalità,


con i relativi corollari della riserva di legge e tassatività (desumibile quest’ultimo, secondo
alcuni dallo stesso articolo 25 Cost., quale completamento logico del principio di riserva di
legge, secondo altri , dall’articolo 13 Cost., il quale prevede l’inviolabilità della libertà
personale, attribuendo al diritto penale la funzione di extrema ratio ed, in virtù di ciò,
esigendo un’estrema precisione nella formulazione delle fattispecie incriminatrici) al
contempo per i reati e per le misure di sicurezza.

A livello sub-costituzionale il principio di legalità è sancito dalle disposizioni di cui agli


articoli 1, 2, 199 e 200, del codice penale.

Il principio di legalità inoltre, ha rilievo sovranazionale ed è disciplinato da talune


Convenzioni internazionali, tra le quali la Convenzione Europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) assume assoluto risalto
nell’ordinamento interno, anche in considerazione di due sentenze rese dalla Corte
Costituzionale , a seguito della riforma del titolo V della Costituzione ed in particolare
dell’articolo 117 Cost. . Il primo comma dell’articolo 117 Cost., infatti, sancisce che il
legislatore interno (statale e regionale) deve conformarsi agli “obblighi internazionali”, tra i
quali sarebbero ricompresi quelli derivanti dall’adesione in specie alla CEDU. Sicché gli
obblighi sanciti da tale Convenzione sarebbero entrati a far parte dell’ordinamento interno,
costituendo norme interposte al fine di valutare la legittimità costituzionale delle norme
interne.

Per non essere arbitrarie, sia l'infrazione sia la pena devono essere previste per
legge; la ratio del principio di legalità si identifica con il favor libertatis e cioè, con
l’esigenza di garantire il cittadino dagli abusi del potere esecutivo e del potere giudiziario.
Esso costituisce pertanto un potente presidio della libertà dei cittadini ed una duplice
garanzia, oltre che sul piano della certezza giuridica, su quello della legittimazione
democratica e della qualità contenutistica della politica penale.

Tale principio si articolo nei tre corollari della riserva di legge, tassatività e irretroattività
sfavorevole (o divieto di retroazione sfavorevole).
Il principio di riserva di legge (nullum crimen nulla poena sine lege) in particolare prevede
che l’unico strumento idoneo a creare norme incriminatrici sia la legge ordinaria e cioè, la
legge emanata dal potere legislativo, fulcro dell’assetto democratico, mentre il corollario
della tassatività (o di precisione, determinatezza) prevede che la legge debba determinare
con chiarezza e precisione estreme la fattispecie di reato, nonché le pene cui
assoggettare il reo.

L'art 7 Conv stabilisce l'irretroattività delle disposizioni incriminatrici e delle pene più gravi
di quelle applicabili al momento della commissione del reato;il principio di irretroattività
invero, deve essere inteso in senso relativo, nel senso della irretroattività della legge
sfavorevole e di retroattività della legge favorevole.

Capitolo 14
Diritto al rispetto della vita privata e familiare

Il diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza è
previsto dall'art. 8 Conv il quale dispone che:

« 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio
domicilio e della propria corrispondenza. 2.Non può esservi ingerenza di una autorità
pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e
costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza
nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa
dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla
protezione dei diritti e delle libertà altrui».

L’art. 8 è finalizzato fondamentalmente a difendere l’individuo da ingerenze arbitrarie dei


pubblici poteri. In particolare, agli Stati contraenti è posto il divieto di ingerenza, salvo
specifiche espresse deroghe. Al riguardo, l’ingerenza può essere prevista dalla legge
ovvero motivata da una delle esigenze imperative di carattere generale di cui al secondo
comma dell’art. 8. All’impegno di carattere negativo degli Stati parti si aggiungono gli
obblighi positivi di adottare misure atte a garantire il rispetto effettivo della «vita familiare e
della vita privata». Il confine tra obblighi positivi e negativi posti a carico degli Stati
contraenti, ai sensi dell’art. 8, non si presta ad una definizione precisa ma i principi
applicabili sono, comunque, assimilabili.

Nell’adempiere ad entrambi gli obblighi (positivo e negativo), lo Stato deve trovare un


giusto equilibrio tra i concorrenti interessi generali e dei singoli , nell’ambito del
margine di apprezzamento che gli è conferito. Inoltre, la procedura decisionale prevista
deve essere “equa” e tale da garantire il dovuto rispetto degli interessi tutelati dall’articolo
8.

La nozione di «vita privata» elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo è una
nozione ampia, non soggetta ad una definizione esaustiva che comprende l’integrità fisica
e morale della persona e può, dunque, includere numerosi aspetti dell’identità di un
individuo. Il diritto al rispetto della «vita privata» implica che ciascuno possa stabilire, in
sostanza, la propria identità.

La Corte Edu ha elaborato una nozione di «vita familiare» più ampia di quella tradizionale,
attribuendo agli Stati contraenti la facoltà di differenziare, in relazione ai diversi modelli
della stessa, le varie forme di tutela. Il concetto autonomo di «vita familiare» include, in
primo luogo, i coniugi nonché i figli legittimi dal momento della loro nascita ed a
prescindere dal requisito della «coabitazione». Relativamente al rapporto tra ciascun
coniuge e la prole, la «vita familiare» persiste anche nel caso di scioglimento del
matrimonio e di affidamento dei figli ad un solo genitore. Il concetto di «vita familiare»
include anche la filiazione naturale essendo il rapporto familiare riconnesso solo al fatto
della nascita, anche in assenza di convivenza tra i genitori. Anche la filiazione adottiva
costituisce «vita familiare» ai sensi dell’art. 8 . L’art. 8 è applicabile allorquando esista un
legame familiare anche solo «di fatto».

Anche una «vita familiare progettata» non è stata completamente esclusa dall’ambito di
applicazione dell’articolo 8.

In linea di principio il detenuto è soggetto a limitazioni della libertà personale e dei diritti
che i sono connessi, ma conserva tutti gli altri diritti che sono propri delle persone libere;
ogni limitazione ai suoi diritti è condizionata dai criteri generali della legalità, scopo
legittimo e proporzione. Ciò vale ad esempio per i colloqui con i familiari, le comunicazioni
e la corrispondenza dei detenuti.

Il domicilio, ai fini dell'art. 8 Conv è lo spazio fisico definito in cui la persona conduce la sua
vita privata e familiare. Esso si riferisce sia all'abilitazione principale sia a quelle
secondarie o di vacanza. Anche i locali destinati all'attività professionale della persona e la
sede sociale i una società sono considerati domicilio ai fini della protezione di cui all'art. 8
Conv.

La più evidente violazione di domicilio consiste nella sua distruzione da parte della autorità
pubbliche o l'impedimento ai suoi abitanti di farvi rientro, ma anche la condotta dei privati
può dar luogo a violazione.

La corrispondenza comprende ogni mezzo di comunicazione privata. Costituiscono


ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza, soggette alla
condizioni di legalità, scopo legittimo e proporzione indicate nell'art. 8 Conv., l'impedimento
o l'intercettazione di conversazioni telefoniche, l'acquisizione di tabulati telefonici,
l'intercettazione di email e comunicazioni via Internet, la sorveglianza via Gps di persone
specificamente individuate.

L'art 12 Conv afferma che l'uomo e la donna in età matrimoniale hanno il diritto di
contrarre matrimonio e fondare una famiglia, secondo la legge nazionale che ne regola
l'esercizio.
Il diritto di sposarsi riguarda esclusivamente il diritto di contrarre matrimonio come atto
giuridicamente vincolate e non concerne le conseguenze che nel diritto nazionale derivano
dal matrimonio.

Capitolo 15
Libertà di circolazione e divieto di espulsione del cittadino

È compito degli Stati mantenere l’ordine pubblico; in particolare, vi rientra il compito di


controllare l’entrata e la residenza degli stranieri, nell’esercizio di un diritto
internazionalmente riconosciuto anche se nel rispetto degli obblighi posti dai trattati.
Questa grossa tara, espressione della propensione degli Stati a conservare gelosamente
le prerogative della sovranità, ha avuto una notevole influenza sullo sviluppo della
disciplina della libertà di movimento nella Convenzione. Va subito notato, infatti, che la
Convenzione europea sui diritti umani non contiene nessuna previsione espressa sulla
libertà di movimento delle persone. Nemmeno vi troviamo un’affermazione del diritto di
asilo, tanto per essere precisi.

A differena dello straniero, il cittadino dello stato non può essere espulso e non può
essergli impedito di entrare nel territorio nazionale.

Il divieto di espulsione, in qualunque forma sia eseguita, riguarda sia quella individuale, sia
quella collettiva ( quest'ultima vietata anche nei confronti degli stranieri).

Capitolo 16
Libertà di pensiero, di coscienza e di religione, diritto all’istruzione

Oggetto della garanzia assicurata dall’art 9 Conv sono il pensiero, la coscienza e la


religione. Si tratta di nozioni che hanno nessi evidenti e confini non sempre netti. La Corte
europea afferma che la libertà qui considerata rappresenta un pilastro della società
democratica; nella sua dimensione religiosa costituisce un elemento tra i più essenziali
della identità dei credenti e della loro concezione della vita, ma essa è anche un bene
prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici. Nell’applicazione della norma in questione
occorre distinguere ciò che attiene al foro interno e ciò che si manifesta all’esterno con la
condotta della persona: la distinzione, tutt’altro che facile, ha importanti conseguenze,
poiché solo nel secondo caso operano dei limiti ammessi dall’art. 9 comma 2 Conv. e il
conseguente giudizio di proporzionalità operato dalla Corte europea.

La Convenzione, come abbiamo appena accennato ammette limitazioni e condizionamenti


purchè siano previsti dalla legge e siano necessari in una società democratica per la tutela
della sicurezza pubblica, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica o la
protezione dei diritti e libertà altrui.

Fuori dei casi in cui sono ammesse interferenze statali nella manifestazione della proprie
convinzioni o religione, lo stato è tenuto a mantenere una posizione neutrale,
limitandosi a garantire le condizioni che rendono possibile il pluralismo e la reciproca
tolleranza tra individui e organizzazioni. La neutralità dello stato implica l’obbligo di non dar
mostra di privilegiare una religione o l’altra o esprimere valutazioni sulla legittimità delle
credenze.
Anche in materia di libertà di coscienza e di religione, accanto agli obblighi negativi che
vietano interferenze, operano gli obblighi positivi dello stato che è tenuto a operare
efficacemente per impedire che altri intervenga a impedire l’altrui libero esercizio del
diritto.

I titolari del diritto di libertà di cui all’art. 9 Conv sono gli individui; tuttavia, per la natura
collettiva del fenomeno religioso e la tradizionale strutturazione in organizzazioni e chiese,
la giurisprudenza della Corte europea ha riconosciuto le Chiese titolari del diritto alla
libertà religiosa e capaci di farla valere nei ricorsi in nome e per conto dei loro aderenti.

La Convenzione non tende ad imporre un modello unico di rapporto dello stato con le
chiese, cosicchè sono compatibili con la disposizione convenzionale sia regimi di chiesa di
stato, sia regimi concordatari, sia sistemi di stato separato dalle chiese. Ciò che rileva è
l’effettività delle garanzie di cui dispongono individui e organizzazioni religiose.

L’art 9 non menziona il diritto all’obiezione di coscienza che tuttavia è stato


egualmente riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte europea nei seguenti casi:

A. Obiezione di coscienza al servizio militare;

B. Pratica di indossare in pubblico indumenti aventi significati religiosi;

C. Diritto di non rivelare le proprie convinzioni filosofiche o religiose.

L’art. 2 Protocollo n. 1 riguarda il diritto al’’istruzione in tutti i suoi livelli in una forma
particolare: anche se costruita in modo negativo, come il divieto di esclusione, la
disposizione garantisce un vero e proprio diritto all’istruzione e trova applicazione con
riferimento a tutte le istituzioni di istruzione, siano esse statali o indipendenti.

Dispone infatti l’art. 2 che“Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo
Stato,nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e
dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale
insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”.

Capitolo 17
Libertà di espressione

Accanto alla libertà personale, la libertà di espressione rappresenta il cuore dei diritti di
libertà in quanto da questi due macro diritti possono essere fatti discendere tutti gli altri.

L’art. 10 Conv. rappresenta uno dei principali riferimenti normativi da prendere in


considerazione non solo a livello europeo, ma anche internazionale, in materia di libertà di
espressione. Come altri esempi di Carte dei diritti adottate a seguito del secondo conflitto
mondiale, risente fortemente della situazione di compressione, se non addirittura di
soppressione, dei diritti di libertà da parte degli Stati nazionali nel periodo bellico.

Proprio per questo motivo una prima e superficiale lettura della norma, con particolare
riferimento al primo comma, lascia intravedere il riconoscimento del diritto di espressione
in termini particolarmente ampi: accanto al tradizionale profilo della libertà di espressione
come sfera di autonomia privata garantita da ingerenze esterne (e quindi quale libertà
negativa) si afferma, infatti, anche una dimensione pubblica della libertà di espressione
quale “libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee”, presupposto fondamentale
per il formarsi di un’opinione pubblica consapevole e avvertita e, conseguentemente, per
elevare il tasso di democraticità del sistema costituzionale del paese.

I confini della libertà di espressione sono stati, inoltre, ulteriormente ampliati dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, sin dalle sue prime pronunce
in materia, ha manifestato l’evidente tendenza ad integrare il dettato normativo con quanto
«non detto».

La Corte europea ha, infatti, ricondotto alla sfera di garanzia di cui all’art. 10 della
Convenzione:

• ogni tipologia di manifestazione del pensiero, indipendentemente dalla forma


ovvero dallo specifico contenuto delle comunicazioni, che possono avere quindi
come oggetto sia espressioni artistiche, che religiose o commerciali; la Corte ha
tuttavia individuato una maggiore discrezionalità in capo agli Stati con riferimento
ad alcuni settori. Ad esempio, per quanto concerne le opinioni e credenze religiose,
ha precisato che può essere legittimo l’obbligo di evitare espressioni gratuitamente
offensive che non contribuiscano al progresso
del genere umano;

• ogni mezzo di comunicazione e diffusione delle notizie, adottando tuttavia le dovute


precisazioni in virtù delle differenze intrinseche dei diversi sistemi di
comunicazione, tra cui, in primis, la televisione ;

• qualsiasi opinione, indipendentemente dalla natura e condivisibilità, nonché dalla


obiettiva
rilevanza al fine di garantire quel pluralismo delle opinioni fondamentale per il
dibattito democratico. In questo senso la Corte ha ravvisato una violazione dell’art.
10 nella sanzione disposta nei confronti di un avvocato cipriota per aver criticato la
condotta del tribunale nel corso della cross examination poichè, per quanto aspre,
le affermazioni sono state comunque giudicate legittime; analogamente allorché si
è trovata a giudicare circa la legittimità di una condanna per diffamazione ai danni
di un esponente politico a carico di un giornalista austriaco, la Corte ha sostenuto
che i limiti alla libertà di espressione trovano applicazione anche con riferimento al
dialogo politico e al dibattito su questioni di pubblico interesse, sebbene ciascun
personaggio sia tenuto ad un maggior grado di tolleranza alle critiche.
Conseguentemente un mero giudizio di valore espresso da un giornalista su una
questione particolarmente rilevante per l’opinione pubblica non rappresenta una
lesione dell’altrui diritto alla reputazione tale da giustificare una limitazione del
diritto di espressione;

• le opinioni espresse sia dalle persone fisiche che dalle persone giuridiche:in tal
senso viene garantita la tutela dei diritti in capo alle forze armate ovvero alle
società commerciali.

La lettura del secondo comma dell’art. 10 della CEDU, in cui vengono individuati i motivi
che possono essere posti alla base di eventuali formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni
nell’esercizio della libertà lascia tuttavia in un primo momento perplessi.

Come nella maggior parte delle disposizioni a tutela della libertà di espressione, anche
nella Convenzione, nonostante l’impostazione particolarmente ampia del diritto di libertà,
si avverte la necessità di individuare alcuni limiti al suo esercizio. Detti limiti, connaturati
all’esigenza imprescindibile di far convivere molteplici diritti di libertà e di evitare contrasti
sulla base di un attento bilanciamento dei valori costituzionalmente riconosciuti, sono
fondamentali per delimitare in concreto la libertà d’espressione.

Tuttavia la lettura del secondo comma dell’art. 10 Conv – contenente per l’appunto i
suddetti limiti – lascia effettivamente qualche perplessità: a fronte dell’ampiezza del dettato
del primo comma, il secondo comma elenca numerose cause a fronte delle quali gli Stati
nazionali possono imporre limitazioni all’esercizio del diritto di manifestazione del
pensiero, e conseguentemente eludere, almeno in parte, l’affermazione generalissima di
un principio che è posto alla base dei moderni ordinamenti costituzionali.

Si tratta, infatti, di tutti quei casi in cui le misure «restrittive» si rendono necessarie in una
società democratica per:
a) tutelare la sicurezza nazionale;

b) tutelare l’integrità territoriale;

c) tutelare l’ordine pubblico;

d) prevenire i reati;

e) proteggere la salute;

f) proteggere la morale;

g) proteggere la reputazione o i diritti altrui;

h) impedire la divulgazione di informazioni confidenziali;

i) garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

I maggiori problemi sorgono non tanto dall’ampiezza del catalogo, bensì dalla genericità
delle espressioni in esso contenute: se il concetto di salute può essere in buona misura
delimitabile, lo stesso non si può invece dire con riferimento alla nozione di «ordine
pubblico» o di «morale»; per non parlare poi della loro «necessarietà in una società
democratica», definizione quanto mai indeterminata e posta alla base di tutti i giudizi di
legittimità delle misure restrittive.

È in questo spazio di incertezza che si deve necessariamente collocare l’attività


interpretativa della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo al fine di evitare indebite estensioni
dei limiti.

Capitolo 18
Libertà di riunione e associazione

La libertà di riunione e associazione trovano riconoscimento nell’art. 11 Conv il quale


dispone che :

“ Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d'associazione, ivi
compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la
difesa dei propri interessi.
L'esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono
stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la
sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per la difesa dell'ordine e la prevenzione
dei reati, per la protezione della salute o della morale e per la protezione dei diritti e delle
libertà altrui. Il presente articolo non vieta che restrizioni legittime siano imposte
all'esercizio di questi diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o
dell'amministrazione dello Stato”.

Pur essendovi evidenti differenze, le due libertà hanno in comune la natura collettiva,
soggiacciono ad analoghe possibili limitazioni e sono spesso reciprocamente funzionali.

La libertà di riunione comprende sia le riunioni private che quelle tenute in luogo pubblico,
sia quelle statiche che quelle che consistono in cortei pubblici. Sono estranei alla nozioni
assembramenti casuali.

La libertà considerata appartiene agli organizzatori della riunione come a coloro che vi
partecipano. Le manifestazioni in luogo pubblico devono svolgersi nell’osservanza delle
norme che le riguardano; esse però possono comportare disagio e impedimenti nelle
circolazione e nella vita degli altri, che tuttavia devono essere tollerati dalle autorità
pubbliche quando non vi siano atti di violenza, al fine di assicurare il raggiungimento dello
scopo della riunione pubblica. Nel caso di riunioni e manifestazioni violente è
giustificato l’intervento delle autorità, ma con modalità di tipo repressivo che non
devono superare i limiti della proporzione e necessità.

Anche al fine di consentire alle autorità di predisporre i servizi necessari per assicurare lo
svolgimento della riunione/manifestazione, sono compatibili con la libertà di riunione le
legislazioni che, relativamente ai luoghi pubblici, richiedono che sia dato il preavviso alle
autorità.

Ai fini della nozione di “associazione” è fondamentale la presenza di una pluralità di


soggetti, stabilmente e volontariamente associati; al diritto di partecipare ad una
associazione si accompagna quello di non aderirvi.

Anche in ordine alla libertà di associazione, l’obbligo che lo stato ha di riconoscerla non si
limita al dovere negativo di non ostacolarla, ma implica obbligazioni positive.

La libertà di organizzazioni comprende il diritto di fondarne una, organizzarla e ottenere il


riconoscimento giuridico necessario per operare efficacemente. Il riconoscimento giuridico
rappresenta una condizione essenziale all’efficace azione per cui l’associazione viene
costituita.

I limiti alla tutela della libertà di riunione e associazione sono legittimati da scopi che
trovano applicazione anche per altri diritto convenzionali ( sicurezza nazionale, pubblica
sicurezza, difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati, protezione della salute o della
morale e la protezione dei diritti e delle libertà altrui).
Capitolo 22
L’introduzione del ricorso e la rilevabilità

Ricorsi intestatari

Il ricorso interstatale è uno dei rimedi predisposti dalla Convenzione per poter avviare il
sistema internazionale di controllo di cui ogni Stato che ha ratificato la Convenzione può
avvalersi. Il testo dell’articolo 33 Conv prevede che ogni Stato contraente possa adire
unilateralmente la Corte al fine di accertare un’inosservanza della Convenzione e dei
protocolli commessa da un altro Stato membro.
La ratio della disposizione è quella di rendere responsabile ogni Stato contraente verso la
comunità degli Stati vincolati dalla Convenzione per ogni violazione di diritti e di libertà
fondamentali dell’uomo che possa essergli imputata.

Le condizioni stabilite per proporre ricorso sono che entrambi gli Stati - ricorrente e
convenuto - siano parti della Convenzione e che lo Stato ricorrente dimostri una violazione
della convenzione o dei protocolli da parte del secondo. Qualora uno Stato membro
preveda una legge interna che si ponga in contrasto con i principi, i diritti e le libertà
riconosciute dalla Convenzione può essere proposto ricorso statale al fine di denunciare
tale inosservanza.

Ricorsi individuali

L’attuale art. 35 Conv contempla una serie di condizioni di ricevibilità dei ricorsi, che sono
tra l’altro parimenti inserite in altri trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti umani.
Tra le condizioni di ricevibilità più importanti vanno annoverate certamente quelle relative:
A) alla necessità di previo esperimento delle vie di ricorso interne.

La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne.

Lo scopo di tale previsione, che richiede che tutti i rimedi previsti dallo Stato convenuto
debbano essere stati attivati dal ricorrente, è consentire allo Stato di evitare o rimuovere la
violazione.

Gli oneri del ricorrente sono di aver usato adeguata diligenza, cioè aver rispettato le
condizioni di procedura e forma dei rimedi interni, aver invocato in essi anche i diritti della
Convenzione presunti violati o norme analoghe interne, ed aver atteso la conclusione
dell’iter interno (purchè questo abbia una durata ragionevole).

I rimedi interni tuttavia devono loro volta rispettare due requisiti, mancanti i quali il
ricorrente può direttamente rivolgersi alla Corte senza dover prima esaurire tali rimedi: –
diretta accessibilità al ricorrente: si pensi ad esempio alla Corte Costituzionale italiana; –
sufficiente effettività: la soluzione dev’essere data in tempi ragionevoli ed a essa le autorità
nazionali debbono dare seguito;

L’onere processuale di dimostrare che le vie interne non sono state pienamente attivate
sarà poi in capo allo Stato nelle proprie difese, mentre l’individuo dovrà eventualmente
dimostrare che tali rimedi erano ineffettivi o non fruibili.

B) al rispetto del termine di sei mesi dalla decisione interna definitiva.

Uno dei principali limiti posti dall’art. 35 Conv per la ricevibilità del ricorso consiste nella
fissazione di un termine di decadenza di sei mesi dalla decisione interna definitiva per
poter utilmente adire la Corte. Il termine di sei mesi, costituisce evidentemente un fattore
di certezza del diritto e di sicurezza giuridica. La Commissione prima, e più di recente la
Corte, hanno più volte ribadito che la ratio di tale norma consiste nell’esigenza che i ricorsi
siano trattati in un periodo di tempo relativamente breve in modo da evitare che il passare
del tempo renda difficile la ricostruzione dei fatti di causa, vanificando in questo modo
l’esame dei ricorsi da parte della Corte.

Il termine dei 6 mesi inoltre ha la funzione di permettere al potenziale ricorrente di valutare


l’opportunità di adire la Corte e di formulare in maniera esaustiva le doglianze che intenda
far valere dinanzi a questa, con i relativi argomenti e la necessaria raccolta di
documentazione prodromica alla presentazione di un ricorso. In particolare, il termine è
rispettato se nei sei mesi il ricorso è trasmesso alla Corte.

C) quella relativa alla compatibilità del ricorso con le disposizioni della


Convenzione.

Altra condizione di ricevibilità prevista dall’art. 35 Conv è quella riguardante la compatibilità


del ricorso con le disposizioni della Convenzione stessa: la violazione invocata dinanzi alla
Corte deve ovviamente riferirsi ad una delle libertà e dei diritti sanciti dalla Convenzione.

D) quella relativa all’assenza di manifesta infondatezza del ricorso.

Oltre alle due condizioni di ricevibilità principali, ossia il previo esaurimento delle vie di
ricorso interne, da un lato, e il termine di sei mesi a partire dalla data della interna
definitiva, dall’altro, la Convenzione detta altre condizioni di ricevibilità ai para. 2 e 3
dell’art. 35 Conv.
Tra queste spicca quella della non manifesta infondatezza del ricorso. Si tratta, per tutta
evidenza, di una condizione che investe il merito del ricorso, nel senso che i ricorsi alla
Corte europea per essere accolti debbono presentare un fumus boni juris, cioè una seria
parvenza di fondamento.In altre parole, è manifestamente infondato il ricorso che, a
seguito di un preliminare e sommario esame del suo contenuto materiale, non lasci
ravvisare alcuna parvenza di violazione dei diritti garantiti dalla Corte. Ovviamente, da ciò
ne deriva che ogni ricorso con queste caratteristiche è suscettibile di essere
immediatamente dichiarato irricevibile dal giudice unico.
Il concetto di manifesta infondatezza è strettamente collegato all’espressione di “quarta
istanza”, utilizzata dalla giurisprudenza di Strasburgo per sottolineare che la Corte non è
un giudice di appello, di cassazione o di revisione rispetto alle autorità giudiziarie degli
Stati parte della Convenzione e, dunque, non può riesaminare la causa nello stesso modo
in cui farebbe un giudice interno di ultima istanza.

E) quella relativa al pregiudizio importante.


Questa nuova condizione richiede che un ricorso, seppur generalmente ricevibile e
potenzialmente fondato, possa essere rigettato nel caso in cui il ricorrente non abbia
subito un pregiudizio importante come conseguenza della violazione lamentata. La
previsione del suddetto criterio di ricevibilità, ha l’obiettivo di mettere a disposizione della
Corte europea uno strumento utile a definire in modo rapido le controversie che non
meritano un esame del merito così da avere più tempo per concentrarsi sui restanti casi.
L’elemento essenziale e centrale di questa nuova disposizione è, dunque, il “pregiudizio
importante” la cui sussistenza deve essere necessariamente verificata caso per caso. A tal
fine, la Corte europea tiene conto sia della percezione soggettiva del ricorrente che delle
conseguenze obiettive della violazione e, in particolare, del pregiudizio patrimoniale.
Quest’ultimo non viene valutato in astratto, ma facendo riferimento alla situazione
specifica della persona e di quella economica del paese o della regione in cui questa vive.
La sussistenza di tali condizioni di ricevibilità deve essere verificata per ogni doglianza
sollevata in un ricorso. Inoltre, le suddette condizioni hanno carattere cumulativi, sicché il
mancato verificarsi di una sola di esse determinerà l’irricevibilità del ricorso.

Vi sono poi altre condizioni di ricevibilità dei ricorsi che rivestono minore importanza e che,
peraltro, trovano anche scarsa applicazione nella pratica: si tratta delle ipotesi di ricorso
abusivo, di ricorso anonimo o del ricorso identico ad uno già esaminato o già sottoposto
ad altra istanza internazionale.
Anzitutto il ricorso è irricevibile a norma dell’art. 35, par. 3, lett. a), quando è abusivo, ossia
azionato dal ricorrente in modo pregiudizievole, al di fuori della sua finalità.
La giurisprudenza della Corte ha chiarito a questo proposito che il ricorso è abusivo:

- se fondato deliberatamente su fatti inventati o falsamente provati, in modo da portare in


errore la Corte;

- se utilizza un linguaggio vessatorio, oltraggioso, minaccioso o provocatorio nei


confronti dello Stato convenuto, della Corte, dei giudici o della Cancelleria; o ancora

- se si pone in contrasto e in violazione intenzionale dell’obbligo di riservatezza assunto


dal ricorrente nell’ambito delle negoziazioni nel corso della composizione amichevole
tra la parte e lo Stato convenuto (l’ipotesi di composizione è prevista dall’art 39 CEDU,
ed è obbligatoria ai sensi dell’art. 62, par. 1 del Regolamento della Corte).

Per quanto concerne il ricorso anonimo è evidente che la Corte non può accettare ricorsi
nei quali non si è specificato colui che lamenta la violazione della Convenzione sia perché
deve poter conoscere i fatti di causa sia per evitare strumentalizzazioni politiche.

Altra e diversa questione è quella della riservatezza sul nominativo del ricorrente, che ben
può essere richiesta al Presidente della Camera incaricato di seguire il procedimento
quando ne faccia richiesta ai sensi dell’art. 33 e dell’art.47, par. 4 del Regolamento di
procedura della Corte. Si ponga il caso che il ricorrente sia una figura di spicco – ad
esempio un politico: in queste situazioni la richiesta di riservatezza serve ad evitare delle
ripercussioni pregiudizievoli sulla vita privata del ricorrente. Altro esempio è quello della
vicenda che abbia un rilievo mediatico nazionale, e la richiesta viene fatta per evitare gli
effetti negativi che la pubblicizzazione circa la presentazione di un ricorso potrebbe avere
in questi casi. Ancora, la richiesta di anonimato può avere come spiegazione il timore di
ritorsioni (potrebbe essere questo il caso di un richiedente asilo).

Per quanto concerne i ricorsi identici a quelli già presentati ovvero presentati ad altre
istanze internazionali, si verte evidentemente in materia di ne bis in idem e di
litispendenza.

Capitolo 23
La Corte europea e la procedura

La corte è composta da tanti giudici quanti sono gli Stati membri del consiglio d'Europa
che hanno ratificato la convenzione (articolo 20 della conv.). Attualmente quindi la corte è
composto da 47 giudici.
L’'elezione dei giudici comporta due fasi. La prima si svolge a livello nazionale conduce
alla presentazione da parte del governo dall'assemblea parlamentare del consiglio
d’Europa di una lista di tre candidati, quando il posto del giudice eletto a titolo di quello
Stato rimane vacante. La scelta dei governi deve rispettare alcuni criteri: ciascun
candidato deve offrire altri requisiti di moralità ed essere i doni a svolgere le più alte
funzioni giudiziarie o essere giurista di riconosciuta competenza. La lista deve garantire un
certo equilibrio tra i due sessi, la procedura di selezione deve essere il più possibile
aperta, trasparente e pubblica, i candidati devono possedere una buona conoscenza di
una delle due lingue ufficiali e almeno una conoscenza passiva dell'altra e, infine, non
devono trovarsi in condizione di doversi astenere in numerosi casi e quindi richiedere la
nomina di giudici ad hoc in sostituzione.

I candidati indicati nella lista presentata dal governo sono esaminati dalle commissioni e
poi dall'assemblea parlamentare. Un primo esame effettuato dal comitato consultivo di
esperti suoi candidati. Il comitato è stato istituito nel 2010 dal comitato dei ministri. Esso è
composto da sette membri, il cui mandato è di tre anni rinnovabile una volta, nominati dal
comitato dei ministri tre giudici delle corti supreme nazionali.

Gli Stati sono tenuti a inviare la lista di tre candidati al comitato, indicando nomi e
curricula. Il parere del comitato e trasmesso sempre in via confidenziale alla commissione
dell'assemblea parlamentare sull'elezione dei giudici. La commissione, creata nel 2015
dall'assemblea parlamentare, deve esprimere un parere per l'assemblea relativa alla
conformità della lista ai criteri sopra indicati. Essa esamina il parere del comitato di esperti.

In caso di giudizio negativo sull'idoneità bianche solo alcuni di tre candidati, la


commissione può proporre all'assemblea parlamentare di rigettare la lista. L'assemblea
elegge il giudice a maggioranza assoluta e, in caso di secondo scrutinio, a maggioranza
relativa dei voti espressi (Art 22 conv.). I giudici rimangono in carica nove anni e non
possono essere riletti cessando l'incarico al compimento dei settant'anni. Tuttavia l'articolo
23 prevede che i giudici continuano a restare in carica fino alla loro sostituzione.

La convenzione assegno ruolo speciale ai cosiddetti giudici nazionali, come si usa


chiamare il giudice eletto a titolo dello Stato convenuto nel ricorso in discussione.
L'espressione giudice nazionale è tuttavia equivoca, in quanto evoca un qualche rapporto
di rappresentanza del giudice rispetto al governo o alla società nel suo complesso. Il
giudice nazionale gode di totale indipendenza e autonomia.la sua partecipazione alla
trattazione dei casi avviene a titolo individuale.il giudice nazionale siede di diritto nella
composizione della camera e della grande camera facendosi portatore insieme al collegio
giudicante della conoscenza specifica dell'ordinamento nazionale.

L'articolo 28 del regolamento prevede I casi di incompatibilità del giudice. La questione


può essere portata all'attenzione del presidente della camera dal giudice in cui interessato
o da una parte, O essere sollevata dall'ufficio dello stesso presidente. A capo se il giudice
che deve astenersi non è il giudice nazionale, al suo posto siede uno dei giudici supplenti.
Se si tratta invece del giudice nazionale, si ricorre a un giudice nominato ad hoc (Art.29
Rag.)

La corte è formata dall'assemblea plenaria e da cinque sezioni, ciascuna composta da 9


o 10 giudici. Ciascun giudice fa parte di diritto di una sezione. Le sezioni sono determinate
da dall'assemblea plenaria per un periodo di tre anni.
L'assemblea plenaria che comprende l'insieme dei giudici eletti, svolge numerosi compiti
di natura non giurisdizionale. Tra l'altro è competente per approvare modificare il
regolamento interno della corte, elegge a scrutinio segreto il presidente, i due
vicepresidenti e i presidenti delle sezioni per un periodo di tre anni, nei limiti della durata
del mandato di ciascun giudice.

L’'assemblea plenaria si riunisce almeno una volta all'anno per l'esame di questioni
amministrative e ogni volta che sia necessario.

La cancelleria fornisce un supporto giuridico e amministrativo alla corte ed è composta da


giuristi, personale amministrativo, esperti informatici, traduttori e funzionari distaccati dei
vari paesi membri. I funzionari sono aggiunti attraverso concorsi pubblici aperti e cittadini
degli Stati del consiglio d’Europa.

La Corte svolge le sue funzioni giudiziarie nella composizione di giudice unico, comitato,
camera e grande camera (art. 25. Conv.).

Il giudice unico è stato istituito dal protocollo n. 14 e svolge le funzioni che in precedenza
erano affidate al comitato dei tre giudici. Il giudice unico tratta esclusivamente ricorsi
individuali; non può trattare ricorsi introdotti contro lo Stato a titolo del quale è stato eletto.
La decisione del giudice unico e resa de plano (senza alcuna difficoltà), in assenza delle
osservazioni delle parti, quando il motivo di irricevibilità risulta prima facie degli atti
depositati dal ricorrente e conformemente a una prima pregressa giurisprudenza della
corte.

Il giudice unico può decidere di cancellare ricorso dal ruolo. Le cancellazioni dal ruolo
relative alla conclusione di un regolamento amichevole o della presentazione di una
dichiarazione unilaterale non possono essere depositate dal giudice unico in quanto
presuppongono la comunicazione del ricorso al governo.

Il giudice unico è assistito nello svolgimento delle proprie funzioni da un relatore non
giudiziario. Quest'ultimo è un agente della cancelleria nominato dal presidente della corte.
Di norma, si tratta di un giurista con conoscenze della lingua e del diritto interno dello
Stato contro il quale ricorso indirizzato.

Con l'entrata in vigore del protocollo n.14, ai sensi dell'Art .28 Conv., il comitato, composto
da tre giudici, può dichiarare un ricorso il ricevibile o cancellarlo dal ruolo, quando tale
decisione può essere adottata senza ulteriore esame, oppure può pronunciare una
sentenza quando la questione relativa all'interpretazione o all'applicazione della
convenzione o dei suoi protocolli è oggetto di una giurisprudenza consolidata della corte.

La competenza del comitato non è esclusa dalla presenza di complesse operazioni di


valutazione dell'equa soddisfazione. Il lavoro del comitato solleva la camera da un
contenzioso particolarmente ampio, che non pone questioni complesse e che può quindi
essere tratto secondo una procedura più snella e rapida.

Il comitato può esaminare i soli ricorsi individuali (Art. 34 Conv.) e decide


all'unanimità.quando questa manca il comitato rinvia l'esame del caso alla camera. La
competenza della camera comprende tutti i casi che non sono di competenza del giudice
unico e del comitato.
Importante sottolineare che solo alcuni tra i diritti previsti dalla convenzione possono
essere l'oggetto di una tutela in via cautelare.in particolare tra questi si possono citare
quelli previsti dagli Artt. 2 e 3 Conv. Tuttavia, non tutte le forme di violazione dell’Art. 3
Conv. conducono all'applicazione dell’Art. 39 Reg. Bene la convenzione non prevede
esplicitamente un obbligo per gli Stati di rispettare le misure provvisorie, la corte ha
ritenuto che in caso di inosservanza, lo Stato può essere ritenuto responsabile della
violazione dell’ Art. 34 Conv.

Applicazione delle misure provvisorie rimane un evento di carattere eccezionale. La corte


adotta un particolare Self-restaint in nella valutazione dei presupposti per l'applicazione
della misura.

Gli Stati sono tenuti a cooperare, fornendo tutti gli strumenti di cui la corte
necessita, al fine di permettere un esame effettivo dei ricorsi. In mancanza la corte
non può solo trarre le conclusioni che ritiene più opportuno in ordine di accertamento dei
fatti, ma può anche constatare la violazione dell'Art punto 38 Conv.. La corte può
procedere essa stessa un'inchiesta al fine di raccogliere direttamente le prove di cui
necessita.

Il sistema convenzionale riconosce la possibilità di intervenire nella procedura davanti alla


corte a soggetti diversi dal ricorrente e dallo Stato convenuto. La funzione la portata
dell'intervento del terzo dipende, dalla tipologia di soggetto che interviene. l’Art 36 Conv.
prevede che possono intervenire:
A. Lo Stato parte del sistema convenzionale, che non sia convenuto e di cui
ricorrente sia cittadino (la corte ha ritenuto che il diritto di intervento non possa
essere esercitato se può devi derivarne pregiudizio per la tutela effettiva dei diritti del
ricorrente);
B. Gli altri Stati parte della convenzione (non hanno diritto a partecipare, ma possono
chiedere di essere autorizzati, il loro intervento autorizzato anche di ufficio
nell'interesse di una buon amministratore della giustizia);
C. Gli altri soggetti privati, individui o ONG ( l’intervento di Stati terzi è solitamente
motivo delle potenziali ricadute erga omnes della sentenza della corte. Le ONG sono
invece autorizzate per ottenere informazioni utili in relazione ad aspetti di natura
fattuale o per ricevere argomentazioni sulla questione di principio oggetto del caso);
D. Il Commissario per i diritti dell’uomo.

La corte può richiedere d'ufficio a una terza parte di intervenire.

Poi è investita da una pluralità di ricorsi rispettivi che originano dalla medesima causa
interna al sistema nazionale dello Stato convenuto, la corte adotta talora una particolare
procedura, la cosiddetta procedura pilota.

Essa è designata per indicare allo stato convenuto le misure individuali e generali da
adottare per risolvere i problemi strutturali e per gestire i casi simili a quello preso esame
con la speciale procedura. Essa tende a facilitare la risoluzione della disfunzione
riscontrata a livello nazionale e garantire la rapida trattazione dei numerosi casi simili già
pendenti o previsti come effetto del problema strutturale.

Lo scopo della procedura pilota e quindi quello di integrare nella stessa procedura e tutti i
casi simili e allo stesso tempo quello di assorbirli nel quadro dell'esecuzione della stessa
sentenza pilota.
La procedura può essere adottata d'ufficio o su istanza di parte ai sensi dell’ Art. 61 reg.
Quei casi a cui è applicata la procedura pilota è accordata la priorità ai sensi dell’Art. 41
conv.
La sentenza pilota contiene nel dispositivo o solo nel corpo della sentenza, l'indicazione
delle misure generali da adottare sensi dell'Art. 46 conv. La corte, per favorire
l'introduzione nello Stato delle riforme necessarie, informa dell'adozione della sentenza
pilota non solo il comitato dei ministri, ma anche l'assemblea parlamentare, il segretario
generale e il commissario per i diritti dell’uomo.

Riconosciuto il rimborso dei costi e spese processuali che il ricorrente abbia sostenuto
davanti alle giurisdizioni nazionali e alla corte. Il ricorrente deve fornire documenti
necessari per permettere di verificare l'ammontare preciso da accordare, tra i quali, ad
esempio la nota spese.

L’art. 37 Conv. Prevede istituto della cancellazione dal ruolo. La corte può cancellare un
ricorso dal ruolo in tre ipotesi:
1. Quando il ricorrente non intenda più mantenerlo;
2. Quando la controversia sia stata risolta;
3. Quando la prosecuzione dell'esame del ricorso non sia più giustificata.

La prima ipotesi presuppone il consenso del ricorrente nella risoluzione della causa senza
esame del merito. Si tratta della rinuncia alla prosecuzione dell'esame del ricorso da parte
del ricorrente. La rinuncia deve essere accertata in maniera inequivoca. Essa può essere
esplicita o può essere dedotta implicitamente dalla corte.

La seconda e terza ipotesi prescindono dal consenso da parte del ricorrente. La corte può
ritenere che la controversia sia stata risolta e quindi che il mantenimento del ricorso non
sia più oggettivamente giustificato due condizioni. La prima riguarda il caso in cui siano
venuti a mancare i fatti che hanno dato luogo alla presunta violazione. La seconda
condizione è quella dell'eliminazione o della riparazione della presunta violazione.

Ultima ipotesi di cancellazione del ruolo riguarda i casi in cui la corte ritiene che non si
giustifichi più il proseguimento della procedura. Le ragioni che possono dar luogo a queste
ipotesi di cancellazione del ruolo non sono tassative. Il caso più frequente è rappresentato
dalla presentazione di una dichiarazione unilaterale da parte del governo.

Grande camera chiamata a decidere in cinque casi (Art. 31 conv.):


1. Rimessione del caso da parte di una camera;
2. Accoglimento da parte di un collegio di cinque giudici di una domanda di rinvio alla
grande camera di un caso già esaminato con sentenza da una camera;
3. Decisione del comitato dei ministri di adire la corte con un ricorso per inadempimento
in ragione della preesistente mancata esecuzione di una sentenza;
4. Istanza del comitato dei ministri che richiede alla corte di pronunciarsi con un parere
consultivo;
5. Nel caso in cui il collegio dei cinque giudici della grande camera ammetta la domanda
di parere consultivo promossa dal tribunale superiore di uno degli Stati che hanno
ratificato il protocollo n. 16.

Quanto alla competenza di cui alla lett. b , si può brevemente dire che la corte europea
nella sua formazione di grande camera, rispondendo alla domanda del comitato dei
ministri del consiglio d'Europa, esprime il suo parere su questioni giuridiche relative
all'interpretazione della convenzione dei suoi protocolli. L’Art. 30 conv. Prevede che la
camera possa rimettere alla grande camera casi che sollevano gravi problemi di
interpretazione della convenzione o dei suoi protocolli, o la cui risoluzione rischia di
dar luogo a un contrasto con una sentenza pronunciata anteriormente dalla corte.
Il rinvio del caso alla grande camera dopo che esso sia stato deciso con sentenza della
camera può essere chiesto dal ricorrente dal governo, ma non dei terzi intervenuti davanti
alla camera o dai ricorrenti i cui ricorsi o doglianze siano stati dichiarati il ricevibile. In caso
di rinvio, la grande camera è competente a riesaminare l'intero ricorso, fatta
eccezione per le doglianze che la camera abbia dichiarato il irricevibili.

Domanda di rinvio alla grande camera deve pervenire in cancelleria entro tre mesi dalla
pronuncia della sentenza. Non rileva la data di spedizione attestata dal timbro postale. Il
termine non viene prorogato se cade in un giorno festivo. La domanda è esaminata da un
collegio di cinque giudici.

La competenza della grande camera e delimitata dalle questioni che sono state
giudicate irricevibili dalla camera, ma la grande camera può dichiarare il ricevibile il ricorso
o doglianze considerati ricevibili dalla camera.la procedura davanti alla grande camera
prevede l'instaurazione del contraddittorio.

La grande camera è composta da 17 giudici titolari e tre supplenti. Sono membri di


diritto il presidente e vicepresidenti della corte, presidenti delle diverse sezioni o, i loro
vicepresidenti e il giudice nazionale. Il resto della composizione varia a seconda che la
Grande camera decida in seguito a rimessioni del caso o di rinvio dello stesso.

Capitolo 24
Le sentenze e la fase dell’esecuzione

La corte adotta decisioni o sentenze.

Le decisioni riguardano i casi di irricevibilità del ricorso, cancellazione del ruolo, domanda
di interpretazione introdotta dal comitato dei ministri.

Le sentenze sono invece adottate dalla corte quando si deve pronunciare sul merito del
caso, anche quando la corte decide separatamente sull'equa soddisfazione, in caso di
domanda di revisione o di interpretazione di una sentenza, o in caso di domanda del
comitato dei ministri sull'inadempimento dello Stato rispetto all'esecuzione di una
sentenza.

Tipo da 46 della convenzione le pronunce della corte vincolano esclusivamente le parti del
giudizio. Per l'interpretazione della convenzione che si esprimono, come si è visto in
precedenza, esse hanno tutte effetto erga omnes. La constatazione di LinkedIn di
violazione contenuta nella sentenza a natura dichiarativa.

Le sentenze e le decisioni che dichiarano i ricorsi ricevibile o irricevibili devono essere


motivate (Art.45 Conv.). La corte ha ritenuto che nonostante l'espressa indicazione
presente nella dichiarazione di Bruxelles del 2015, tale disposizione non trova
applicazione per le decisioni di rigetto delle domande di applicazione delle misure
provvisorie ai sensi dell'articolo 39 del regolamento e per quelli di rinvio alla grande
camera.

Sentenza della grande camera sono pronunciate nelle due lingue ufficiali. Il testo delle
decisioni del giudice unico non è pubblico.
Mentre le decisioni sono definitive al momento della loro pronuncia attraverso
comunicazione scritta le parti, le sentenze lo diventano, ai sensi dell'articolo 44 della
convenzione:
- Se le parti dichiarano che non richiederanno il rinvio del caso dinanzi alla grande
camera;
- 3 mesi dopo la data della sentenza, se non è stato richiesto il rinvio del caso dinanzi alla
grande camera;
- Se il collegio della grande camera respinge la richiesta di rinvio formulata ai sensi
dell'articolo 43.

Con il rinvio nella grande camera la sentenza di camera è sostituita da quella della grande
camera. Rimangono in ogni caso definitive le parti di sentenza della camera che hanno
rigettato le doglianze irricevibili.

Carattere definitivo della sentenza conosci alcune eccezioni. E se non sono previste dalla
convenzione, ma dal regolamento interno della corte. Quest'ultimo riconosce la possibilità
di richiedere la revisione di una sentenza, la rettifica di una pronuncia, interpretazione di
una sentenza. Dette eccezioni sono ammesse poiché la regola secondo cui la sentenza
della corte è definitiva ha come unico scopo quello di sottrarre la sentenza a qualunque
ricorso davanti ad un'altra autorità.

Ai sensi dell'articolo 80 del regolamento, la domanda di revisione può essere proposta si


merge un fatto che avrebbe potuto influenzare in modo decisivo l'esito della causa già
definita e che all'epoca della sentenza era sconosciuto alla corte e non poteva
ragionevolmente essere conosciuto da una delle parti.

L'articolo 80 del regolamento prevede tre condizioni: l'esistenza di un fatto nuovo non
conosciuto dalla corte, il suo carattere decisivo e la non conoscibilità dello stesso della
parte che introduce la domanda.

La nozione di fatto nuovo da tenere distinta da quella utilizzata ai fini del criterio di
ricevibilità relativo della presentazione di un ricorso essenzialmente identico ad altro
precedente. Se il fatto nuovo è precedente all'adozione della sentenza, si tratta di
revisione della sentenza, mentre se il fatto di cui si tratta è successivo, si tratta di verificare
se il nuovo ricorso introduca una questione nuova rispetto a quella già risolta.

Il carattere decisivo del fatto può incidere sulla questione di ricevibilità, sul merito della
causa o sulla determinazione dell'equa soddisfazione. In altri casi, il fatto nuovo può
portare la corte a cancellare dal ruolo ricorso, ad esempio, se la società ricorrente è stata
cancellata dal registro delle imprese prima della pronuncia della sentenza o se il ricorrente
è deceduto in assenza di eredi che abbiano espresso il loro interesse a proseguire la
procedura.

Il fatto nuovo può esercitare un'influenza non solo sulla ricevibilità del ricorso ma anche sul
merito.

Per quanto riguarda le determinazioni relative all'articolo 41 della convenzione, la corte ha


ritenuto che l'avvenuto pagamento di un debito, oggetto della doglianza relativa alla non
esecuzione di una decisione interna, prima della sentenza che ha constatato la violazione
dell'articolo sei della convenzione, esercita un'influenza decisiva in ordine alla situazione
sul danno patrimoniale.
A norma dell'articolo 80 del regolamento, l'istituto della revisione è applicabile
esclusivamente alle sentenze e non alle decisioni, senza che rilevi la formazione
giudiziaria che le ha adottate. A differenza di rinvio in grande camera, l'accoglimento delle
domande di revisione non permette il riesame di tutto il caso ma solo delle parti rimessa in
discussione del nuovo fatto.

Tutta via, talora oggetto della revisione è la sentenza nella sua interezza, ad esempio
quando il fatto nuovo incide sulla ricevibilità del ricorso. La procedura di revisione si
instaura su istanza di parte e le domanda deve essere introdotta entro sei mesi dal
momento in cui si è avuta la conoscenza del fatto nuovo.

L'articolo 81 del regolamento prevede che la corte possa rettificare gli errori di trascrizione
o di calcolo e le inesattezze evidenti. La procedura di rettifica può essere instaurata
d'ufficio o su istanza di parte.

La rettifica si preferisce alla procedura di revisione quando l'errore compiuto alla corte e di
natura meramente formale e non incide sulla motivazione della pronuncia. Al contrario, ad
esempio, l'errore della corte nel considerare che ricorrente non avesse depositato le
osservazioni nei termini previsti, in un caso in cui la corte non aveva mai richiesto tali
osservazioni, non può essere esaminato nel quadro della procedura di rettifica ma di
quello di revisioni.

L'articolo 79 del regolamento prevede che le parti possono richiedere l'interpretazione di


una sentenza entro un anno dalla pronuncia. Tale procedura si applica solo alle sentenze.

Con la procedura di interpretazione di una sentenza, la corte ha l'opportunità di chiarire il


senso e la portata della pronuncia.

La prassi della corte ha riconosciuto inoltre rigore eccezione al carattere definitivo delle
pronunce, non previsto né dalla convenzione né dal regolamento interno. Si tratta della
riapertura dell'esame di una doglianza dichiarata il ricevibile a seguito di un errore
manifesto nell'apprezzamento dei fatti o dei criteri di ricevibilità. Si tratta di uno strumento
a carattere eccezionale, esercitato nell'interesse della buona amministrazione della
giustizia, che si applica in particolare nei casi in cui non ricorrono i presupposti per la
revisione o la rettifica della pronuncia.

La corte può adottare separatamente la decisione della riapertura e trattare il merito del
riesame oppure esaminare, con un'unica decisione, i due profili.

Gli obbligo di conformarsi alle sentenze della corte previsto dall'articolo 46 della
convenzione, vincola infatti gli Stati non solo a fare cessare la violazione e a cancellare gli
effetti della stessa, con il restitutio in integrum poi il pagamento di un'equa soddisfazione ai
sensi dell'articolo 41 della convenzione.pure in assenza di esplicite indicazioni in questo
senso da parte della corte, esso impone agli Stati anche di adottare le misure generali
idonee a impedire la reiterazione della violazione nei confronti dello stesso ricorrente o di
altre persone.

È compito dello Stato individuare e adottare tutte le misure necessarie al fine di


conformarsi alla sentenza della corte. È importante ricordare che così come la
responsabilità internazionale dello Stato può derivare dalla condotta di qualunque autorità
pubblica e non solo da quella degli organi di governo centrali, allo stesso modo tutte le
articolazioni dello Stato sono responsabili dell'esecuzione delle sentenze.
Anche le giurisdizioni nazionali sono tenuti a rispettare l'articolo 46 e ad adottare le misure
necessarie per far cessare riparare la violazione individuale e per eliminare l'eventuale
problema strutturale.

È previsto che il presidente del consiglio dei ministri promuova gli adempimenti di
competenza governativa conseguenti alle pronunce della corte europea nei confronti dello
Stato italiano.

Un ruolo essenziale giocano anche necessariamente il legislatore le giurisdizioni


nazionali. Questi ultimi dovranno quindi garantire il rispetto dell'articolo 46 attraverso i
poteri che sono loro attribuiti dal diritto interno, ossia, per la corte costituzionale attraverso
la declaratoria di incostituzionalità di una legge, per i tribunali di merito e di legittimità
attraverso l'interpretazione convenzionalmente orientata del diritto nazionale.

Problematica risulta la giurisprudenza della corte di cassazione. Essa stabilito il difetto


assoluto di giurisdizione del giudice nazionale in relazione all'interpretazione e
all'esecuzione di una sentenza della corte o di una decisione di cancellazione del ruolo in
virtù di regolamento amichevole e ciò in quanto unici responsabili dell'esecuzione delle
sentenze sarebbero il comitato dei ministri del consiglio d'Europa ai sensi dell'articolo 46
della convenzione e il governo.

Tuttavia, anche nella fase dell'esecuzione, la corte sta assumendo un ruolo sempre più
importante. La prima questione riguarda l'eventuale esistenza della competenza della
corte a constatare la violazione dell'articolo 46 della convenzione in caso di mancata
esecuzione di una sentenza da parte dello Stato convenuto. La corte ha negato la
possibilità di interpretazione dell'articolo 46 in modo da i riconoscere un diritto individuale
alla corretta esecuzione di una sentenza da fare valere con l'introduzione di un nuovo
ricorso.

Per decidere della competenza della corte occorre valutare se il nuovo ricorso aperta sul
fatto nuovo e quindi pongo all'attenzione della corte una questione diversa rispetto a
quella già decisa. Tale criterio il cui esame richiede un'analisi delle circostanze specifiche
del singolo ed entra più tare alla luce del criterio di ricevibilità.

Inoltre, la corte è competente a esaminare un caso già deciso qualora la violazione per la
quale lo Stato è stato condannato si fondi su una situazione continua.

In altre situazioni la corte interviene su aspetti dell'esecuzione di una precedente


sentenza. Innanzitutto, le misure individuali e generali adottate dallo Stato possono essere
prese in considerazione dalla corte nel caso in cui, dopo essersi pronunciata nel merito
della causa, aggiorni l'esame sulle qua soddisfazione, pronunciandosi su di essa
separatamente.

Il comitato dei ministri è un organo politico intergovernativo. Oltre alla competenza


attribuita dalla convenzione, l'articolo 15 dello statuto del consiglio d'Europa stabilisce che
ruolo consiste principalmente nell'esaminare le misure idonee ad attuare lo scopo del
consiglio d'Europa, compresa la conclusione di convenzioni e accordi e lo stabilimento ad
una politica comune da parte dei governi circa questioni determinate.

Il sistema di controllo del comitato si fonda sul concetto della sorveglianza continua.
A partire dal giugno del 2009, il comitato dei ministri ha richiesto agli Stati di presentare un
piano e/o bilancio d’azione. La presentazione di tali documenti è divenuta obbligatoria a
partire dal 2011. Così come stato messo in evidenza dalla dichiarazione di Bruxelles del
2015, i piani bilanci d'azione costituiscono degli strumenti chiave per il controllo
dell'esecuzione, incrementando la trasparenza della procedura.

Il piano d'azione è un documento che deve includere le misure che lo Stato adottato e
intende adottare al fine di eseguire la sentenza della corte. Esso deve contenere un
calendario indicativo delle azioni da intraprendere.

Il bilancio d'azione è un rapporto nel quale lo Stato deve indicare le misure adottate per
conformarsi alle sentenze della corte o, le ragioni per le quali nessuna misura sia resa
necessaria. Il bilancio d'azione è spesso il risultato finale dell'aggiornamento del piano
d’azione.

A partire dal gennaio 2011, il controllo è esercitato con due modalità: la sorveglianza
standard e la sorveglianza rafforzata.

Secondo la procedura standard l'attribuzione di un caso il procedimento di sorveglianza,


presuppone che sia lo Stato ad adottare le misure necessarie per l'esecuzione della
sentenza senza la necessità di un intervento del comitato dei ministri.

La procedura di sorveglianza rafforzata comporta che il comitato dei ministri in carica il


segretariato di mettere in atto una cooperazione più approfondita e attiva nei confronti
dello Stato, fornendo, un'assistenza nell'elaborazione mi Sam pratica dei piani d'azione,
pareri di esperti sulle misure da adottare, programmi di collaborazione bilaterale e
multilaterale in relazione a casi che riguardano questioni complesse.

La procedura di sorveglianza prevede il riconoscimento del principio dell'esame in


contraddittorio del caso anche se in forma molto attenuata.

Nei casi in cui l'unica conseguenza derivante dalla sentenza di condanna o dalla
conclusione del regolamento amichevole sia il pagamento dell'equa soddisfazione, lo
Stato non è tenuto a presentare un piano o un bilancio d'azione.

Con l'entrata in vigore del protocollo numero 14 sono state introdotte le procedure relative
all'interpretazione delle sentenze e alla constatazione dell'inadempimento degli Stati
rispetto all'esecuzione delle sentenze. Esse si applicano a tutti i ricorsi pendenti davanti al
comitato dei ministri al 1 giugno 2010.

Il ricorso per inadempimento è uno strumento di pressione che il comitato dei ministri
poti lizzare in caso di rifiuto da parte dello Stato convenuto di eseguire la sentenza della
corte. Il comitato dei ministri con risoluzione interinale procede alla diffida dello Stato.
Trascorsi sei mesi dalla diffida, il comitato può decidere di introdurre la domanda di
accertamento dell'inadempimento davanti alla corte. La decisione del comitato deve
essere motivata e riflettere il parere te lo Stato interessato. La corte decide con sentenza
della grande camera.

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