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2 IL CONTENUTO DELLE NORME INTERNAZIONALI

Paragrafo 1
Il contenuto del diritto internazionale come insieme di limiti all’uso della forza internazionale ed interna
degli Stati Tutto il diritto internazionale si snoda intorno all’idea che esso sia costruito da un insieme di
limiti all’uso della forza da parte degli Stati. È possibile distinguere due tipi di violenza: a) La violenza di tipo
bellico diretta verso gli altri Stati: si parla in questo caso di “uso internazionale della forza”. La Dichiarazione
dell’Assemblea Generale dell’Onu (Risoluzione 3314 del 1974) definisce la forza internazionale come
aggressione armata in tutte le sue specie. b) La violenza diretta verso l’interno: compiuta nei confronti di
persone fisiche o giuridiche, o dei loro beni. Si parla in questo caso di “uso interno della forza”. Quando si
parla di uso interno della forza, non ci si riferisce solamente alla forza materiale, cioè agli atti concreti
(azioni di polizia, esecuzione forzata dei beni, esecuzione di condanne penali). Anche una sentenza o una
legge che contenga un provvedimento possono costituire comportamento internazionalmente illecito,
tuttavia, perché la legge o il provvedimento possano considerarsi come degli esempi di uso interno della
forza, è necessario che: -) vi sia un chiaro riferimento alla realtà. Se a un comando astratto non segue la sua
applicazione ad un caso concreto, non si può parlare di violazione del diritto internazionale, per il quale
sono rilevanti le conseguenze concrete derivanti da un atteggiamento interno di uno Stato. L’attività
normativa astratta non interessa, neanche quando sia oggetto specifico di una convenzione internazionale.
Un esempio è rappresentato dal divieto internazionale della tortura. Nonostante alcuni ritengano che
costituisca un illecito internazionale non prevedere delle norme “anti-tortura”; in realtà solo quando
qualcuno viene torturato il diritto internazionale si attività per sanzionare lo stato proprio perché non aveva
adottato delle norme che impedissero la tortura. -) la sentenza o la legge possano essere coercitivamente
applicate all’interno di quello stato. Perché ciò avvenga è necessario che le persone o i beni, a cui quella
legge deve applicarsi, si trovino all’interno dello Stato in cui vuole essere esercitata quest’attività di
coercizione. Si pensi come esempio a una Legge approvata dal Congresso americano nel 1987 che vietava
“di stabilire e mantenere uffici dell’Organizzazione libera palestrina sul suolo americano”. Questa legge,
ponendosi in contrasto con le convenzioni attuate dall’Onu di cui l’OLP faceva parte, si qualificava come un
uso interno della forza. Questa legge, tuttavia, non si qualificò più come un uso interno della forza da
quando la giurisprudenza americana dichiarò inapplicabile la legge, privandola di quel requisito di
coercitività di cui abbiamo parlato. Sia la forza internazionale che la forza interna sono azione esercitata
dallo Stato su persone o cose. A questo punto una domanda sorge spontanea: è possibile che questo
potere sia esercitato nei confronti di attività incoercibili per loro natura? (come trasmissioni radio, attività
spaziali, comunicazioni in rete). Anche in tal caso si ritiene che i diritti e gli obblighi internazionali, di cui lo
Stato è titolare, presuppongano sempre la sua possibilità di governare, nei luoghi di partenza e arrivo, sulle
attività umane. Un esempio di come anche in queste materie c.d. incoercibili si sia giunti ad una
normazione di diritto internazionale è dato dalla Convenzione di Budapest del 2001 sui Ciber-crimini.
Paragrafo 2 La sovranità territoriale. Date le premesse di cui al paragrafo 1, è possibile analizzare le norme
che delimitano il poter di governo dello Stato. La norma consuetudinaria fondamentale, in tema di
limitazione del potere di governo dello Stato, è quella sulla sovranità territoriale. La sovranità territoriale
indica il diritto dello Stato di esercitare in modo esclusivo il potere di governo su quel territorio e sulla
comunità che vi abita. Al diritto di fare ciò che vuole nel suo territorio, si accompagna il dovere di non fare
certe cose fuori del proprio territorio, di non esercitare azioni coercitive in territorio altrui, se non col
consenso dell’autorità locale (un esempio è l’attività svolta dai consoli o dagli agenti diplomatici). Un
esempio di questo limite all’uso del potere è rappresentato da una sanzione, emessa dall’Onu nei confronti
di Israele, che aveva catturato in Argentina il criminale nazista Eichmann. Le Nazioni Unite, pur
sottolineando la necessità di perseguire coloro che si erano macchiati di crimini contro gli ebrei, esortò il
Governo israeliano ad assicurare al Governo di Buenos Aires una riparazione adeguata all’invasione del
territorio argentino, in conformità con la Carta e con le norme consuetudinarie. Si è detto pocanzi che lo
Stato può fare ciò che vuole sul proprio territorio: questa libertà va sempre più restringendosi, man mano
che l’evoluzione del diritto internazionale porta all’affermazione di principi di tutela dei diritti umani, di
solidarietà e cooperazione in campo economico e sociale. A difesa della libertà degli stai va tuttavia
sottolineato che questi principi trovano fondamento il delle norme convenzionali; quindi, norme che gli
stati hanno liberamente predisposto e accettato. territoriale. In ogni caso varie norme di diritto
internazionale riconoscono la libertà dello Stato all’interno del suo territorio. Un principio, affermato
ripetutamente dall’Assemblea generale dell’Onu, è quello per cui a ogni Stato deve essere garantito il
diritto di esercitare la sovranità sulle proprie risorse e ricchezze naturali, e al contempo di diritto di
scegliere liberamente il proprio sistema politico, economico, sociale e culturale, conformemente alla
volontà popolare. Questi principi sono molto cari ai Paesi in via di sviluppo, che vi ravvisano le basi per
poter evitare ingerenze e sfruttamenti da parte dei Paesi industrializzati. Per quanto riguarda le modalità di
acquisto della sovranità: essa si acquista con l’esercizio effettivo, indisturbato ed esclusivo del potere di
governo su un certo territorio. In altre parole, la sovranità viene riconosciuta a chi effettivamente ha il
potere necessario per governare quel paese. Un problema molto attuale è quello relativo all’acquisto di
territori mediante l’uso della forza (ad es. i territori arabi occupati da Israele nel 1967). Nonostante tentativi
per limitare il principio della effettività e disconoscere quelle espansioni territoriali realizzate con violenza,
la prassi attuale è orientata ad affermare la sovranità territoriale ogni qual volta vi sia un esercizio
consolidato del potere di governo su di un territorio, comunque sia stato conquistato. (l’unica reazione che
ci può essere sul piano internazionale è la negazione degli atti di governo, emanati da quello Stato, da parte
della comunità internazionale. Una reazione destinata a cedere se quel governo riesce a consolidare il suo
potere, divenendo magari una rappresentazione della volontà popolare). Paragrafo 2.1. I limiti della
sovranità territoriale. L’erosione del dominio riservato e il rispetto dei diritti umani. I limiti più importanti
alla sovranità territoriale sono oggi dettati dalle norme convenzionali (accordi) che perseguono valori di
giustizia, di cooperazione e di solidarietà tra i popoli. Come è stato già sottolineato, il processo progressivo
di intromissione del diritto internazionale nelle questioni interne sta provocando un restringimento del
dominio riservato o competenza interna, ovvero di quei settori in cui lo Stato è libero da obblighi esterni.
Anche la concessione della cittadinanza, una delle incontestate libertà degli Stati, oggi è fortemente
limitata convenzionalmente o da atti giurisdizionali (come la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia
(1955) che affermò che non può essere considerata internazionalmente legittima l’attribuzione della
cittadinanza senza un legame effettivo, il c.d. genuine link, tra individuo e Stato concedente). Altra fonte di
limiti per la sovranità territoriale è rappresentata dalla tutela internazionale della dignità umana, che si è
tradotta in atti di grande valore politico, anche se di scarso valore giuridico: come la Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, l’Atto finale della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in
Europa, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ai due Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili,
politici ed economici da riconoscere a tutti i cittadini degli Stati firmatari (patti che sono stati ratificati da
quasi tutti i paesi che compongono la comunità internazionale) oltre a numerose convenzioni. Si tratta di
documenti dettagliati che elencano minuziosamente i diritti che gli Stati devono riconoscere a tutti i
cittadini senza distinzione di sesso, razza, religione ecc. (si pensi ai diritti civili, politici, alla libertà, alla
condanna di ogni forma di discriminazione e violenza a diritti economici come il diritto al lavoro, il diritto
alla sicurezza sociale…). Molto importante tra le convenzioni sui diritti umani è la convenzione del 1984
contro la tortura o trattamenti crudeli, la quale all’art 1 definisce tortura come qualsiasi atto tramite il
quale sono inflitti ad una persona dolori o sofferenze per ottenere informazioni o confessioni o per punirla
per un atto che ha commesso. All’art 2 invece viene indicato l’obbligo per gli Stati contraenti di adottare
tutte le misure per prevenire e punire tali crimini commessi nei territori sottoposti alla loro giurisdizione. Ai
due patti delle nazioni unite hanno aderito anche alcuni Stati che notoriamente non hanno grande
considerazione della persona umana. La materia dei diritti umani è stata oggetto, oltre che di norme
convenzionali (accordi), anche di norme consuetudinarie. Queste ultime pongono dei principi generali e
irrinunciabili, riconosciuti dalle Nazioni civili. Fra questi principi irrinunciabili troviamo le c.d.
Grossviolations, ossia le violazioni gravi e generalizzate dei diritti umani (si pensi all’ apartheid, al genocidio,
alla distruzione di gruppi etnici, razziali, politici o religiosi, pulizia etnica, tortura, trattamenti disumani e
degradanti, esodi forzati, eliminazione di prigionieri politici). Sulla contrarietà di queste pratiche
concordano tutti gli Stati che compongono la comunità internazionale. Ciò nonostante, Grossviolations
vengono continuamente compiute (in particolare è ancora molto utilizzata la tortura e i trattamenti
disumani e degradanti: si pensi come esempio alle torture compiute nel carcere di Guantanamo o ai
trattamenti disumani posti in essere dall’organizzazione terroristica Al-Quaeda nei confronti dei prigionieri
occidentali). L’obbligo per gli Stati di rispettare i diritti umani si manifesta in due tipologie di obblighi: a) Un
obbligo negativo: inteso come necessità dello stato di astenersi da porre in essere pratiche lesive dei diritti
indicati dalle norme convenzionali o di dar vita alle c.d. Grossviolations (in quanto lesive del diritto
consuetudinario). b) Un obbligo positivo: consistente nella necessità di impedire che nel proprio territorio
avvengano violazioni dei diritti umani. Ciò avviene attraverso la predisposizione di misure di protezione, di
controllo, di prevenzione e di repressione. Il problema di tutelare i diritti umani trova inoltre attuazione
nella difesa delle popolazioni indigene. Un tema di grande attualità in vari Stati dell’Africa (si pensi al Sud
Africa, che pur essendo popolato principalmente da una popolazione indigena è governato da occidentali,
in particolare britannici) o delle Americhe (dove molti indiani d’America hanno rivendicato il diritto di
godere delle terre che gli indigeni tradizionalmente possedevano, il diritto di preservare la loro identità
linguistico-culturale…). Non molte convenzioni internazionali si occupano della questione. Nel tempo sono
state adottate due Convenzioni dall’OIL (una nel 1957 l’altra nel 1989) e una Dichiarazione di principi,
approvata dalle Nazioni Unite nel 2007. Queste norme di diritto internazionale non hanno valore vincolante
e pongono solamente dei principi a cui dovrebbe ispirarsi la politica degli Stati quando si occupano del
problema delle popolazioni indigene. Per quanto riguarda la possibilità di sanzionare e inibire la violazione
dei diritti umani: alla materia dei diritti umani si applica la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni.
La violazione delle norme consuetudinarie sui diritti umani non può dirsi consumata e non può farsi valere a
livello internazionale, finché esistono nello Stato offensore rimedi adeguati ed effettivi per eliminare
l’azione illecita o per fornire all’individuo una congrua riparazione. Tale regola è contenuta in tutte le
convenzioni sui diritti umani.
Paragrafo 2.2. La punizione dei crimini internazionali.
Il mancato rispetto dei diritti umani comporta la punizione dei crimini internazionali. La comunità
internazionale sta tentando di giudicare gli autori di crimini internazionali in appositi tribunali; si tratta
tuttavia di tentativi alquanto isolati (si pensi al Tribunale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia o alla
Corte penale internazionale) la punizione è, infatti, generalmente affidata ai tribunali interni. Con l’Accordo
di Londra del 1945, che istituì il Tribunale di Norimberga, i crimini internazionali vennero distinti in 3
tipologie: a)Crimini contro l’umanità: atti contro una popolazione civile, quali omicidio, schiavitù,
deportazione o esodo forzato, privazione illegale della libertà, tortura, violenza carnale, prostituzione
forzata o violenza sessuale di eguale gravità, persecuzioni per motivi razziali, politici, religiosi, di sesso,
sparizione forzata, apartheid, altri atti disumani fonti di sofferenze gravi di carattere psichico e fisico. A
questa categoria è stato aggiunto, dalla Corte penale internazionale, il genocidio: inteso come eliminazione
t otale o parziale di un gruppo etnico, razziale o religioso; b) crimini di guerra: In questa categoria vengono
riprodotti alcuni crimini inclusi in tempo di pace fra i crimini contro l’umanità (ad es. la tortura, i trattamenti
disumani). A questi si aggiungono i crimini che possono essere compiuti solamente in tempo di guerra (ad
esempio la violazione della Convenzione di Ginevra del 1949 sul diritto umanitario di guerra, gli attacchi
intenzionali contro popolazione e obiettivi civili). c) Crimini contro la pace: di cui il più importante è il
crimine di aggressione. Si tratta di crimini dotati del riconoscimento generale della comunità internazionale
e, quindi, presenti anche nel diritto consuetudinario. Per quanto riguarda l’individuazione del soggetto
responsabile del crimine internazionale: di solito alla responsabilità individuale si affianca la responsabilità
internazionale dello Stato, dato che solo uno Stato è in grado di organizzare su vasta scala atti del genere.
Inoltre, generalmente l’individuo/organo che compie un crimine internazionale, altro non è che un organo
(o un rappresentante) supremo dello Stato cui appartiene. Si pensi ad esempio ad un genocidio o ad un
altro crimine contro l’umanità. Si tratta di una Grossviolation che comporterà una duplice responsabilità: la
responsabilità individuale di chi ha commesso il genocidio e la responsabilità dello Stato cui il genocida
appartiene. Posta questa premessa non è da escludere che crimini contro l’umanità possano essere
commessi anche da gruppi privati che non rappresentano alcuno Stato (es.: attentati dell’11 settembre
2001 attribuiti all’organizzazione terroristica Al Qaida). È dubbio invece che atti singoli di terrorismo,
inquadrabili in momenti di lotta per la liberazione di territori dalla dominazione straniera, possano essere
considerati.
crimini contro l’umanità. In passato si tentava di giustificare questi atti di terrorismo richiamando il
principio di autodeterminazione dei popoli. Oggi, data anche l’efferatezza degli attacchi kamikaze, sono
state adottate una serie di Convenzioni internazionali (ad es. la Convenzione del 1997 dell’Onu, ratificata da
147 stati fra cui quasi tutti gli Stati Arabi) che stabilisce l’impossibilità di giustificare gli attacchi terroristici,
facendo ricorso a considerazioni di natura politica, filosofica religiosa ecc.
Paragrafo 2.2.1. la giurisdizione penale e la prescrizione. Normalmente la giurisdizione penale è esercitabile
sulla base del principio di territorialità: il giudizio avviene nel territorio dello Stato in cui il reato è stato
commesso. Nel diritto internazionale si è andato, invece, affermando il principio dell’universalità della
giurisdizione statale: ogni Stato può procedere al giudizio, ovunque il crimine sia stato commesso, purché si
tratti di crimini internazionali. Lo Stato, esercitando l’azione punitiva, persegue in questo modo un
interesse di tutta la comunità internazionale. Da ricordare inoltre che il potere punitivo dello Stato è
esercitabile anche quando l’imputato sia stato catturato all’estero, violando la sovranità territoriale dello
Stato in cui dimorava. Detto questo secondo il diritto consuetudinario è facoltà di ogni singolo Stato
concedere o non concedere l’estradizione; ritenere il crimine internazionale come prescrittibile o
imprescrittibile (da ricordare che si sta formando una consuetudine internazionale che considera
imprescrittibili i crimini internazionali). Diversa è invece la situazione secondo il diritto pattizio che, anche
per i reati non qualificabili come crimini internazionali, prevede spesso la regola aut dedere aut judicare
(estradare o giudicare). Questa regola è ad esempio prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1949 sul
diritto umanitario di guerra. All’universalità della giurisdizione penale si affianca anche l’universalità della
giurisdizione civile, principio introdotto dalle Corti statunitensi e ormai avallato dal diritto internazionale
generale. Spesso, nei Paesi in cui viene esautorato un Governo che si è macchiato di violazioni gravi dei
diritti umani (si pensi al Sud Africa dopo l’apartheid), si tende a chiudere pacificamente con il passato
attraverso leggi di amnistia o la creazione delle Commissioni di verità e di riconciliazione. Tale prassi
riguarda solo il Paese interessato, mentre non si può impedire al resto della comunità internazionale di
procedere al giudizio. Infine, una conclusione: il principio dell’universalità della giurisdizione non si estende
al punto da consentire anche il giudizio in contumacia del criminale internazionale, che deve essere
fisicamente presente nel territorio dello Stato giudicante. Questo principio è valido anche per i tribunali
internazionali ed è previsto dallo Statuto della Corte penale internazionale. Paragrafo 2.3. I limiti relativi ai
rapporti economici e sociali. Altri limiti alla sovranità territoriale dello Stato sono posti dal cosiddetto diritto
internazionale economico, che trova la sua massima applicazione nei rapporti tra Paesi industrializzati e
Paesi in via di sviluppo. E’ un settore strettamente dominato da regole convenzionali e quasi per nulla fa
registrare la nascita di norme consuetudinarie. Molti suoi principi sono stati codificati dall’Onu, dall’Unctad
e da altri organi delle Nazioni Unite e ribaditi da numerose Convenzioni e Dichiarazioni. Tra essi il più
importante è oggi quello che sottolinea la necessità che tutti i Paesi possano partecipare ai benefici della
globalizzazione. La Dichiarazione sul diritto allo sviluppo, adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu,
considera tale principio come una sorta di diritto umano spettante a tutte le componenti dei popoli di Paesi
in via di sviluppo. Ma, nonostante le buone intenzioni, a parte il principio generale che vieta
comportamenti che mettano in crisi l’economia di un altro Stato, non si è prodotta alcuna norma
consuetudinaria contenente precisi diritti e obblighi per gli Stati. L’unica norma rilevabile afferma che i
rapporti tra Paesi in sviluppo e Paesi industrializzati devono essere regolati convenzionalmente. E proprio la
nascita di una fitta rete di convenzioni bilaterali e multilaterali ha posto dei limiti alla libertà degli Stati nel
regolare i propri rapporti economici. Si pensi ad esempio: agli accordi sui prodotti di base, che stabiliscono
un prezzo remunerativo per i Paesi produttori (di solito Paesi in via di sviluppo) ed equo per i consumatori;
Al sistema delle preferenze, cioè tariffe favorevoli per gli Stati in sviluppo, ma senza clausola di reciprocità
con i Paesi sviluppati; alle iniziative per agevolare il vantaggioso trasferimento di nuove tecnologie dai Paesi
sviluppati alle industrie dei Paesi in sviluppo. Altri limiti per gli Stati in materia economica sono posti da una
serie di accordi, tendenti a creare integrazione tra gli Stati: liberalizzazione del commercio internazionale,
abbattimento degli ostacoli alla libera circolazione di merci, servizi e capitali. Per quanto riguarda la
giurisdizione dello Stato a sanzionare quei comportamenti che danneggiano i suoi interessi economici: La
dottrina dominante, originatasi negli Stati uniti, sostiene la c.d. “Teoria degli effetti”. Secondo questa scuola
di pensiero, lo Stato sarebbe giurisdizionalmente competente a sanzionare un certo comportamento (ad es.
il commercio illegale, l’irregolare amministrazione di una società) ogni qual volta questo produca degli
effetti nel territorio nazionale (indipendentemente da dove sia stato compiuto l’atto e dal fatto che l’autore
appartenga a quello Stato o meno). A questa conclusione, di per sé valida, bisogna aggiungere che se il
soggetto autore del crimine (ad es. l’impresa che ha compiuto atti di commercio illegale), non ha sedi nello
Stato che vuole agire contro di lei né dispone di beni nel suo territorio, l’intervento sanzionatorio dello
Stato diventa assolutamente impossibile.
Paragrafo 2.4. la protezione dell’ambiente: lo sfruttamento delle risorse del territorio. Esistono altri
condizionamenti alla sovranità territoriale derivanti dai limiti alla libertà di sfruttamento delle risorse
naturali, che, se indiscriminato, può produrre all’ambiente danni irreversibili. Spesso si è posto il problema
se il diritto consuetudinario imponga l’obbligo di non compiere atti nocivi, soprattutto nel quadro di
rapporti di vicinato (utilizzo e inquinamento dei fiumi, emissione di fumi e sostanze tossiche da attività
industriali in prossimità dei confini, attività di centrali nucleari potenzialmente capaci di creare danni
irreparabili all’ambiente, si pensi all’incidente di Chernobyl del 1989 ecc.). Di simili problematiche si sono
occupate la Dichiarazione di Stoccolma (nell’ambito della Conferenza indetta dall’Onu nel 1972
sull’ambiente umano) e la Dichiarazione della Conferenza di Rio del 1992; che dispone: “Gli Stati hanno il
diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse naturali in conformità alla propria politica ambientale e hanno
l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate non causino danni all’ambiente in altri Stati”. La dottrina si è
domandata se queste Dichiarazioni debbano considerarsi come parte di un diritto consuetudinario
internazionale posto a tutela dell’ambiente. Parte della dottrina e della giurisprudenza si sono pronunciate
in tal senso (si pensi alla recente sentenza della Corte internazionale di giustizia secondo cui: “l’obbligo di
non inquinare discende da un corpo di regole del diritto internazionale dell’ambiente). Secondo il Conforti,
invece, non possono ancora ravvisarsi norme di diritto generale che impongono agli Stati obblighi sugli usi
nocivi del territorio. Questo viene confermato secondo Conforti dal fatto che sia la Dichiarazione di
Stoccolma che la Conferenza di Rio sono prive di carattere vincolante. Tuttalpiù il diritto consuetudinario
può prevedere un generale obbligo di informare gli altri Stati dell’imminenza o dell’attualità di un incidente,
affinché si possano adottare misure preventive adeguate. Per il resto non si può concludere che gli Stati si
sentano effettivamente vincolati a impedire l’uso nocivo del territorio. A questo bisogna aggiungere
l’atteggiamento dei Paesi in sviluppo, che mal tollerano intralci al pieno sfruttamento delle proprie risorse,
considerati un attentato al principio di sovranità.
Un’eccezione all’assenza di norme consuetudinarie nel diritto internazionale può essere fatta, secondo il
Conforti, nell’utilizzo delle acque comun i (fiumi, laghi): sarebbe vietato qualsiasi uso che possa nuocere ad
altri utilizzatori (deviazione, sottrazione, inquinamento). La materia è stato oggetto di codificazione ad
opera di una Convenzione dell’Onu del 1997 (non ancora in vigore). Essa prevede un utilizzo equo e
ragionevole dei corsi d’acqua; ogni Stato rivierasco deve adottare le misure necessarie per evitare di
causare danni agli altri Stati rivieraschi e, nel caso in cui il danno si sia verificato lo stesso, discutere la
questione dell’indennizzo. Una precisazione: non bisogna confondere gli obblighi internazionali dello stato
in materia di inquinamento dalla possibilità delle Nazioni che subiscono l’inquinamento di citare in giudizio
le persone fisiche o giuridiche che hanno causato il danno ambientale per richiedere un risarcimento.
Questo principio del “chi inquina paga” è stato previsto dalla Dichiarazione di Rio del 1992 e adottato in
varie Convenzioni internazionali. Una linea di tendenza in formazione, anche se non ancora identificabile
come diritto generale, riguarda l’esistenza dell’obbligo a gestire razionalmente le risorse del proprio
territorio secondo criteri di sviluppo sostenibile, cioè contemperando le esigenze di sviluppo economico
con quelle della tutela ambientale in modo da evitare che i miglioramenti in ambito economico vadano a
creare dei danni irreversibili al patrimonio ambientale delle generazioni future. Quest’obiettivo richiede di
attuare una politica precauzionale, evitando attività rischiose per l’ambiente in mancanza di piene certezze
scientifiche. Quest’obbligo è stato riconosciuto da alcune sentenze della Corte internazionale di giustizia ( si
pensi ad es. alla sentenza della CIG che, nell’indicare alla Slovacchia e all’Ungheria i principi da seguire
nell’attuare un accordo per la costruzione di dighe sul Danubio, ha sottolineato la necessità di perseguire lo
sviluppo sostenibile) e da alcune sentenze emesse nei singoli Stati (un esempio è la sentenza della Corte
suprema delle Filippine che ha riconosciuto il diritto della popolazione alla conservazione delle foreste e più
in generale all’uso razionale delle risorse). Precisata quale è l’incidenza del diritto consuetudinario sulla
materia ambientale, è possibile concentrarsi sulla rilevanza del diritto pattizio. Accordi bilaterali e
multilaterali si sono andati moltiplicando negli ultimi anni. Fra questi bisogna ricordare: a) Gli accordi volti a
tutelare il territorio ed evitare che vengano compiute attività nocive per l’ambiente: si pensi ad esempio
alla Convenzione del 1979 sugli inquinamenti atmosferici; alla Convenzione dell’IAEA del 1986 sulla
tempestiva notifica degli incidenti nucleari ecc. Più che delineare divieti precisi, questi accordi si limitano a
stabilire degli obblighi di cooperazione preventiva, informazione, assistenza e consultazione reciproca. b)gli
accordi volti ad una gestione più razionale delle risorse in applicazione del principio dello sviluppo
sostenibile: si pensi ad esempio alla Convenzione di Vienna del 1985, ratificata da 150 Stati tra cui l’Italia)
per la protezione della fascia di ozono; al Protocollo di Kyoto del 1997 sulla riduzione dei gas-serra; alla
Conferenza sul Clima tenuta a Durban il 28 Novembre 2011 c) Gli accordi per tutelare la diversità biologica:
molto importante è la Convenzione di Nairobi del 1992, adottata con lo scopo di tutelare la moltitudine di
specie biologiche esistenti nei diversi ecosistemi. Viene inoltre disciplinato l’impatto ecologico negativo
delle biotecnologie (in particolare la produzione di alimenti geneticamente modificati). Il problema di tutti
questi accordi è la loro osservanza. Il quadro di oggi è molto drammatico; un esempio eclatante è stato
fornito dalla Conferenza sul Clima di Durban, in cui i due principali produttori di CO2 al mondo, Usa e Cina,
sono rimasti fuori dall’accordo volto a diminuire l’emissione di gas-serra. Paragrafo 3 Il trattamento degli
stranieri. Due sono i principi di diritto internazionale generale che si sono formati per consuetudine in
materia di trattamento degli stranieri: 1) Il principio dell’attaccamento sociale: allo straniero non possono
imporsi prestazioni e comportamenti che non si giustifichino con un sufficiente “attaccamento sociale”
dello straniero o dei suoi beni con la comunità territoriale. Per fare degli esempi: il servizio militare potrà
essere richiesto solo in caso di cittadinanza; prestazioni fiscali solo in caso di attività o possesso di beni che
giustifichino tale imposizione; vincoli a imprese o industrie, solo se siano collegate al territorio ecc. 2) Il
principio che impone un obbligo di protezione: lo Stato territoriale deve predisporre misure idonee a
prevenire e reprimere le offese contro la persona e i beni dello straniero. La protezione dello straniero
viene realizzata dallo stato sia attraverso misure preventive (ad es. dislocando delle pattuglie difronte ad un
gruppo che sa essere preso di mira da organizzazioni terroristiche); sia attraverso misure repressive (che
richiedono la possibilità dello straniero di ricorrere agli organi giurisdizionali di quello stato per far valere i
suoi diritti). Lo Stato che nega questa garanzia, per difetti organizzativi della macchina statale, incorre
nell’illecito di diniego di giustizia.
Paragrafo 3.1.
La protezione dei beni dello straniero: la tutela degli investimenti stranieri Poste le premesse, di cui al
paragrafo precedente, è possibile ora analizzare la tutela che viene effettivamente garantita dal diritto
internazionale alla persona dello straniero e ai suoi beni. Occorre anzitutto fare una precisazione: mentre la
persona dello straniero viene ormai garantita all’essere umano in quanto tale, indipendentemente dal suo
status. I beni dello straniero, invece, se si escludono alcune norme convenzionali a difesa della proprietà,
per il diritto internazionale possono essere legittimamente sacrificati in vari casi. Analizzando per prima
cosa la tutela offerta ai beni dello Straniero occorre ricordare: 1) La tutela degli investimenti stranieri. Per
quanto riguarda gli investimenti stranieri, la comunità internazionale si è divisa in due gruppi: -) I paesi
industrializzati: che propendono verso la massima tutela degli investimenti stranieri, ritenendo necessaria
l’adozione di norme internazionali generali applicabili in tutti gli stati. b) I paesi in via di sviluppo: che
sottolineano la necessità di garantire ai singoli stati la libertà di disciplinare a piacimento la materia. Questa
regola è stata affermata nella Carta dei diritti e doveri economici degli Stati afferma che: “Ogni Stato è
libero di disciplinare gli investimenti in conformità alla sua legge e ai propri fini di politica economica e
sociale e di adottare tutte le misure necessarie, affinché le sue direttive vengano rispettate dagli stranieri e,
in particolare, dalle società multinazionali”. Questo principio, introdotto con il chiaro scopo di evitare il
ripetersi di fenomeni come quelli del colonialismo in cui le risorse degli stati occupati venivano sfruttate dai
Paesi occupanti, si qualifica oggi come una regola generale del diritto internazionale. 2)La tutela contro le
espropriazioni: Connessa con la necessità di tutelare gli investimenti stranieri è la disciplina
internazionalistica delle espropriazioni e delle altre misure restrittive della proprietà, comprese le
nazionalizzazioni di beni stranieri (si pensi ad es. alle nazionalizzazioni compiute dall’URSS dopo la Prima
guerra mondiale o alle nazionalizzazioni di compagnie petrolifere compiute da parte di Stati arabi). Secondo
la dottrina non vi è dubbio che ogni Stato ha la piena libertà di compiere espropriazioni e nazionalizzazione
sui beni stranieri presenti sul suo territorio. Il problema fondamentale rimane quello di stabilire in quantum
dell’indennizzo dovuto a coloro che subiscono l’espropriazione o la nazionalizzazione.
Una regola in questa materia, che secondo alcuni è diventata principio generale del diritto consuetudinario,
è stata introdotta dal Tribunale Iran-Usa istituito nel 1981. I magistrati di questo tribunale precisarono che
bisogna distinguere fra: -) le espropriazioni compiute su singoli beni: per le quali l’indennizzo va
commisurato al valore del bene che viene espropriato. -) le nazionalizzazioni: in cui è possibile fare degli
aggiustamenti sul valore dei singoli beni. Un esempio è rappresentato dai c.d. lump sum agreements in cui
lo Stato che compie la nazionalizzazione corrisponde una somma forfettaria a quello che la subisce; sarà
quest’ultimo a dover decidere come redistribuire la somma ricevuta fra coloro che sono stati privati dei
loro beni. 3)La disciplina sui debiti contratti dallo Stato: Connesso con la necessità di tutelare il patrimonio
dello Straniero è il problema che si pone quando allo Stato che ha contratto il debito con lo Straniero
succede un altro Stato a seguito di un mutamento di sovranità. La dottrina tradizionale è in genere
favorevole alla successione nel debito pubblico contratto dallo Stato predecessore. Tale opinione, a cui si
sono opposti i Paesi in sviluppo nati dalla decolonizzazione, ha trovato applicazione nella prassi recente
dello smembramento di Unione Sovietica e Cecoslovacchia (in quell’occasione i paesi nati dallo
smembramento si sono accollati il debito degli Stati precedenti; una scelta dettata dalla necessità di
mantenere un rapporto con i creditori degli Stati che li avevano preceduti). Analizzando la questione sul
piano del diritto internazionale, si può dire che la materia, segue le regole della successione dei trattati,
prevedendo dunque il passaggio dei debiti localizzabili (contratti cioè nell’interesse del territorio in cui si
verifica un mutamento di sovranità) e non dei debiti generali (salvo accollo convenzionale del debito)
Paragrafo 3.2. la protezione della persona dello straniero Stabilito quali siano le misure adottate a livello
internazionale per tutelare i beni dello straniero, passiamo ora ad analizzare la protezione offerta alla
persona dello Straniero: 1) Per quanto riguarda l’ammissione e l’eventuale espulsione degli stranieri: Lo
Stato può decidere in libertà la politica di immigrazione e imporre, quando e come crede, l’abbandono del
territorio agli stranieri. Un limite deriva dal fatto che l’espulsione deve avvenire in modo non oltraggioso e
lesivo della dignità umana, concedendo un lasso di tempo ragionevole per sistemare i propri interessi prima
di uscire dal Paese. si sta inoltre facendo strada la regola per cui allo straniero deve essere garantito il
diritto di ricorrere al giudice contro il provvedimento di espulsione. Limiti particolari derivano dalle
Convenzioni sui diritti umani (Onu) e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che
obbligano gli Stati a non estradare stranieri in Paesi in cui rischierebbero tortura o pena di morte e ad
evitare l’espulsione, quando causerebbe la rottura dell’unità familiare dello straniero. Grande importanza
hanno inoltre la Convenzione e il Protocollo sui rifugiati: entrambi ratificati dall’Italia. Lo Status di rifugiato
viene riconosciuto a tutti coloro che temono di poter subire nel proprio paese persecuzioni a causa della
loro religione, della razza, dell’appartenenza politica ecc. Al rifugiato deve essere garantita la possibilità di
praticare la propria religione, di accedere ai tribunali, di essere assistito dalla P.A.; è inoltre diritto del
rifugiato ottenere un “documento di viaggio” che gli permette di circolare liberamente nei territori degli
Stati che hanno ratificato la Convenzione (o il Protocollo). Non bisogna confondere il diritto ad essere
considerato rifugiato con il diritto di asilo territoriale. Esso non è previsto dal diritto internazionale generale
ma solamente da norme non vincolanti (come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948). In
Italia il diritto di asilo è garantito dall’art.10 comma 3 della Costituzione che dispone: “Lo straniero, al quale
sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione
italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. nella
pratica il diritto di asilo è stato regolamentato da due decreti legislativi (uno del 2007, l’altro del 2008) che
lo prevedono sia per i rifugiati veri e propri, sia per le persone riconoscibili quali beneficiari di protezione
sussidiaria. Essi corrispondo a quelle persone che, pur non essendo rifugiati propriamente intesi, hanno
ugualmente esigenza di protezione internazionale, in quanto in caso di rimpatrio, correrebbero un rischio
oggettivo di danno grave, quale la sottoposizione a pena di morte, a tortura o altri trattamenti inumani o
degradanti, ovvero una minaccia grave ed individuale alla loro vita o alla loro persona a causa di una
situazione di violenza generalizzata derivante dovuta ad un conflitto armato interno o internazionale. È poi
possibile che gli stati vadano a stipulare delle convenzioni di stabilimento: in base ad essere ciascun
contraente si obbliga a riservare condizioni di particolare favore ai cittadini degli altri Stati contraenti in
tema di ammissione ed esercizio di attività imprenditoriali e professionali. Particolarmente significativo in
merito è il Trattato Ce (modificato dal Trattato di Maastricht) che, con l’istituzione della cittadinanza
europea, ha realizzato una parificazione tra i sudditi degli Stati membri sul territorio comunitario, per
quanto riguarda la circolazione, il lavoro e la capacità elettorale. 2)La protezione diplomatica dello
Straniero: lo Stato che non osserva le norme sul trattamento dello straniero compie illecito internazionale
nei confronti dello Stato a cui la persona appartiene. Quest’ultimo può esercitare la protezione diplomatica,
con cui assume la difesa del proprio suddito sul piano internazionale, attraverso proteste formali, proposte
di arbitrato, minacce di ritorsioni, ricorso a contromisure, al fine di ottenere dallo Stato territoriale la
cessazione della violazione e il risarcimento del danno causato al proprio suddito. Occorre ricordare che la
protezione diplomatica può essere esperita, solo dopo che: a) Lo straniero abbia esaurito tutti i rimedi
previsti dall’ordinamento interno dello Stato territoriale (questa è la regola del previo esaurimento dei
ricorsi interni) che devono essere adeguati ed effettivi, cioè idonei ad eliminare l’azione illecita e fornire la
giusta riparazione. b) Lo straniero abbia fatto ricorso ai rimedi internazionali azionabili individualmente. Da
ciò si deduce che l’istituto della protezione diplomatica ha sicuramente carattere residuale. Una
precisazione: lo Stato che agisce in protezione diplomatica difende un diritto di cui esso è titolare non un
diritto del suddito. Esso non agisce come rappresentante o mandatario e quindi è del tutto libero di agire o
non agire, avviare o interrompere la tutela, transigere o addirittura sacrificare l’interesse individuale in
nome di altri interessi (in tal senso si è pronunciata anche la giurisprudenza che ha sottolineato come il
Governo non sia obbligato ad esercitare la protezione diplomatica a tutela dei suoi cittadini. Questi ultimi
sono al massimo titolari di un’aspettativa legittima a che il loro caso sia preso in considerazione). I Paesi in
sviluppo contestano l’istituto della protezione diplomatica, limitatamente ai rapporti economici che fanno
capo a stranieri. Essi si rifanno alla dottrina Calvo, che venne ideata nel secolo scorso dal diplomatico
argentino, per reagire alla pretesa dei Paesi europei di intervenire militarmente in America latina a
protezione dei propri sudditi. Tale dottrina afferma che le controversie sul trattamento degli stranieri sono
di esclusiva competenza dei Tribunali dello Stato territoriale. Questa dottrina ha trovato attuazione nella
c.d. clausola Calvo che, inserita nei contratti con imprese straniere, le obbligava, in caso di controversie, a
rinunciare alla protezione del proprio Paese. Secondo la dottrina maggioritaria (in particolare Conforti), non
si può costringere uno Stato, accusato di violazione nel trattamento di interessi stranieri, a trattare la
questione sul piano internazionale o mediante arbitrato, se ciò non sia stato assunto convenzionalmente;
allo stesso tempo non si può vietare allo Stato dello straniero di protestare e di assumere iniziative, anche
in presenza della clausola Calvo, dato che lo Stato, con la protezione diplomatica, fa valere unicamente un
proprio diritto. Nella pratica l’istituto della protezione diplomatica è in declino, sostituito da strumenti
diretti a garantire i privati all’estero contro il rischio di nazionalizzazioni, espropriazioni ecc. Ne sono un
esempio le assicurazioni dirette a coprire gli investimenti in Paesi in sviluppo, come la Miga (Agenzia per la
garanzia degli investimenti multilaterali), entrata in vigore nel 1988 su iniziativa della Banca internazionale
per la ricostruzione e lo sviluppo. Da segnalare poi l’Icsid (Centro internazionale per il regolamento delle
controversie in materia di investimenti) istituito con la Convenzione di Washington nel 1965, a cui ha
aderito un gran numero di Paesi. L’Icsid propone un sistema di conciliazione e arbitrato per le controversie
tra privati investitori e Stati che ricevono all’investimento. Fino ad esso abbiamo parlato della protezione
diplomatica offerta alle persone fisiche; nel caso di protezione offerta alle persone giuridiche si pone il
problema di stabilire quale sia la nazionalità di queste ultime e, quindi, quale sia lo Stato che debba
esercitare la protezione diplomatica. Per le società commerciali ci si chiede se si debba far riferimento a: -
)Criteri formali (come il luogo di costituzione, la sede principale): a favore di questa tesi si pronunciata la
Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza del 1970 sull’affare della Barcelona Traction.Si tratta di
un’azienda canadese (la sua nazionalità canadese discende dal fatto che la sede principale si trovava a
Toronto e la società era stata costituita secondo la legge del Canada) che forniva energia elettrica in Spagna
ma i cui azionisti provenivano in maggioranza dal Belgio. La Corte escluse che il Belgio avesse titolo per
agire in protezione diplomatica dell’azienda dichiarata fallita in Spagna. Questa articolata vicenda
dell’azienda canadese evidenzia la pratica diffusa della scelta di molte società di far parte di Stati
compiacenti dal punto di vista fiscale e dei controlli sulla gestione sociale, anche a rischio di un’inadeguata
protezione diplomatica. -) Criteri sostanziali (nazionalità della maggioranza dei soci o dei controllori della
società). Secondo la giurisprudenza lo Stato al quale appartiene l’azionista (il socio) può agire in protezione
diplomatica solamente se il cittadino-azionista sia stato direttamente leso in un suo diritto. In caso
contrario la competenza spetta allo Stato in cui l’azienda ha la sua sede principale o in cui la società è stata
costituita (applicandosi dunque criteri formali).
Paragrafo 3.3. Il trattamento degli organi stranieri, particolarmente degli agenti diplomatici. Limiti alla
sovranità degli Stati sono posti dal diritto consuetudinario con le immunità diplomatiche riconosciute agli
agenti diplomatici, codificate dalla Convenzione di Vienna del 1961 promossa dall’Onu. Le immunità sono
prerogative che accompagnano l’agente durante la permanenza in uno Stato, nell’esercizio delle sue
funzioni, e lo lasciano quando egli ne abbandona il territorio. La presenza dell’agente è subordinata alla
volontà dello Stato, espressa attraverso il gradimento, che precede l’accreditamento, o, per quanto
riguarda l’espulsione, con la consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare il Paese entro un certo
tempo. Passando ad analizzare le immunità diplomatiche esse sono: a) L’Inviolabilità personale: consiste
nella protezione dalle offese alla persona, mediante misure preventive e repressive. Si manifesta con il
generico dovere di protezione che lo Stato ha verso ogni straniero. Essa deve essere adeguata
all’importanza della persona e prevede l’inapplicabilità al diplomatico di qualsiasi misura di polizia. b)
L’Inviolabilità domiciliare: protezione della sede diplomatica e dell’abitazione privata dell’agente. In passato
si parlava di extraterritorialità delle sedi diplomatiche; oggi queste sono territorio dello Stato ospitante, ma
non vi possono essere esercitati atti di coercizione senza il consenso dell’agente. c)Immunità dalla
giurisdizione penale e civile; bisogna distinguere tra due diverse tipologie di atti: -) Gli atti compiuti come
organo dello Stato, coperti da immunità funzionale (ratione materia). L’immunità funzionale è concessa per
garantire all’agente l’esercizio indisturbato delle sue funzioni, dato che i suoi atti non sono a lui imputabili,
ma allo Stato straniero. Per questo non si può sottoporre l’agente a giudizio penale o civile, neanche
quando siano cessate le sue funzioni e neanche in uno Stato terzo (uno stato cioè diverso da quello presso
cui l’ambasciatore è accreditato). Una posizione contraria è stata affermata dalla sentenza della Corte
costituzionale tedesca del 1997 che incriminava un ex ambasciatore siriano, accreditato presso la
Repubblica democratica tedesca, per aver fornito aiuto a dei terroristi che avevano pianificato un attentato
a Berlino ovest. Con la sentenza la Corte ritenne che l’agente fosse coperto dall’immunità, anche dopo la
cessazione delle su funzioni, presso La Repubblica democratica tedesca ma non negli altri Stati in cui non
era accreditato (in particolare la Germania). Una conclusione criticabili dato che, come abbiamo visto,
l’immunità funzionale deve essere riconosciute anche da parte degli stati terzi (a prescindere dalla
cessazione delle funzioni).
-) Gli atti compiuti come privato, coperti da immunità personale (ratione personae). Anche questi atti, al
parti di quelli compiuti dal diplomatico nell’esercizio delle sue funzioni, sono immuni dalla giurisdizione
penale e civile, per quest’ultima l’immunità non andrà a coprire le azioni reali e successorie o riguardanti
attività commerciali dell’agente. Egli, precisato che questa immunità personale, riconosciuta all’agente, non
lo dispensa dall’osservare la legge; egli gode, infatti, di un’immunità processuale per compiere indisturbato
le sue funzioni nello Stato che lo ospita. Una volta che il suo ruolo è venuto meno, egli potrà essere
sottoposto a giudizio anche per gli atti illeciti privati compiuti nel periodo della funzione. Ad integrazione di
questa disciplina, la Convenzione di Vienna 1961 prevede che l’immunità continui per un certo lasso di
tempo dopo la fine delle funzioni e che l’inviolabilità personale sussista anche negli Stati attraversati per
rientrare in patria. d) Immunità fiscale: che sussiste esclusivamente per le imposte dirette personali. A
questo punto una domanda sorge spontanea: a chi spettano le immunità diplomatiche? Le immunità
diplomatiche, oltre ad ambasciatori, ministri plenipotenziari, incaricati d’affari, spettano a tutto il personale
diplomatico delle missioni e alle famiglie. La Convenzione di Vienna le estende anche al personale tecnico e
amministrativo, con esclusione degli impiegati residenti nello Stato territoriale. Tali immunità spettano
anche ai Capi di Stato, Capi di Governo e Ministri degli esteri quando si trovano all’estero in forma ufficiale.
Per quanto riguarda l’ambito di copertura di queste immunità: l’immunità personale copre anche i crimini
internazionali. L’immunità funzionale, invece, ormai soccombe di fronte all’esigenza di punizione di questi
crimini: trattasi di jus cogens. Poiché i crimini internazionali sono commessi proprio dagli organi supremi
dello Stato, sarebbe assurdo non procedere al giudizio dell’agente diplomatico o altro individuo, una volta
che siano cessate le funzioni. Per quanto riguarda gli altri organi statali: essi non godono di alcuna
immunità, neanche i consoli, per i quali è prevista solo l’inviolabilità dell’archivio consolare. Per coloro che
non sono coperti da immunità, valgono comunque le comuni regole sul trattamento degli stranieri
(compreso il dovere di protezione che deve essere commisurato al rango dell’organo in questione). Vi è poi
una categoria di agenti statali, ai quali l’immunità non è riconosciuta: gli agenti segreti. Paragonati agli
agenti segreti, sono anche gli agenti di polizia che compiono intrusioni non autorizzate in territorio
straniero, i quali non sono coperti da immunità dalla giurisdizione penale. L’immunità funzionale è anche
negata dalla corte suprema indiana nel caso dei Marò, ovvero i due sottufficiali della marina militare
italiana che avrebbero ucciso, secondo le indagini svolte in India due pescatori indiani a bordo di un
peschereccio. Secondo la dottrina maggioritaria si ritiene che l’immunità funzionale non possa essere
invocata dai due militari italiani.
Paragrafo 3.4. Il trattamento degli Stati stranieri. Altri limiti al potere d’imperio dello Stato sono
rappresentati dal principio della non ingerenza negli affari di altri Stati, interni e internazionali. Di fatto, il
principio ha perso via via spessore, sostituito e assorbito da altre regole più specifiche. La più importante di
queste è costituito dal divieto della minaccia e dell’uso della forza bellica negli affari interni e internazionali
di altri Stati. In proposito la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 1986, sulle attività militari e
paramilitari statunitensi contro il Nicaragua, afferma che fornire armi e assistenza logistica ai ribelli è
attività contraria sia al principio della non ingerenza, sia al divieto dell’uso della forza, mentre l’invio di
fondi ai ribelli costituisce inosservanza del solo principio di non ingerenza. Ci si chiede se possa costituire
inosservanza del principio di non ingerenza l’applicazione di misure economiche tese a condizionare le
scelte interne e internazionali di uno Stato. La Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza sul
Nicaragua, afferma che l’interruzione di un programma di aiuti allo sviluppo, la riduzione o sospensione
delle importazioni da un Paese che si vuole colpire, non possono costituire illecito intervento negli affari
altrui. Secondo Conforti, però, qualora le misure non costituiscano reazione ad un comportamento illecito,
ma il modo per incidere sistematicamente sulle scelte dello Stato straniero, esse devono considerarsi
vietate. Inoltre, non è chiaro se costituisca violazione del principio di non ingerenza il non impedire nel
proprio Stato comportamenti che possano turbare l’ordine pubblico e la vita normale di Stati stranieri (ad
es. manifestazioni contro la politica di uno Stato straniero che possano turbarne il normale andamento).
Indubbiamente devono ritenersi lecite le manifestazioni di critica e di condanna del sistema politico, sociale
ed economico dello Stato straniero ma la dottrina è discorde quando si tratta di comportamenti più incisivi.
Forse, l’unica regola consuetudinaria vigente è quella che impone di vietare la preparazione di atti di
terrorismo diretti contro altri Stati. Tutto il resto appartiene alla sfera del diritto convenzionale.
Un altro tema sul trattamento degli Stati stranieri è se questi siano assoggettabili alla giurisdizione civile
dello Stato territoriale: ad esempio, per inadempienza contrattuale, per licenziamento di un dipendente
assunto nella ambasciata o per altra questione civile. Alla regola dell’immunità assoluta, vigente sino alla
Seconda guerra mondiale, si è andata sostituendo quella dell’immunità relativa, che oggi corrisponde al
diritto internazionale consuetudinario. In base ad essa, l’immunità dello Stato straniero è limitata agli atti
jure imperii, ossia quegli atti propri dell’esercizio delle funzioni pubbliche statali, e non si estende agli atti
jure privatorum, ossia aventi carattere prettamente privatistico. In caso di dubbio sulla natura di un atto, va
applicata l’immunità, essendo la sottoposizione alla giurisdizione un’eccezione alla figura dell’immunità
(così afferma la Commissione di diritto internazionale dell’Onu nel Progetto sulle immunità giurisdizionali
degli Stati, adottato nel 1991). Nelle controversie di lavoro, avviate dal lavoratore avente nazionalità dello
Stato territoriale per prestazioni in ambasciate o uffici stranieri, sino ad epoca recente la giurisprudenza
italiana applicava l’immunità, quando le mansioni esplicate implicavano una partecipazione del lavoratore
all’esercizio di funzioni sovrane o comunque attività pubbliche dello Stato estero. In tal modo l’immunità
era praticamente sempre applicata. Un temperamento a questa linea venne dalla Convenzione europea
sull’immunità degli Stati del 1972, promossa dal Consiglio d’Europa, che, pur adottando la differenza tra atti
jure imperii e atti jure privatorum, adotta per i rapporti di lavoro il criterio della nazionalità del lavoratore,
cumulato con quello del luogo della prestazione; l’art. 5 di questa Convenzione afferma che: - se il
lavoratore ha la nazionalità dello Stato straniero presso cui lavora, l’immunità sussiste in ogni caso; - se il
lavoratore ha la nazionalità dello Stato territoriale, o vi risiede abitualmente pur essendo cittadino di uno
Stato terzo, e il lavoro viene prestato nel territorio, l’immunità è esclusa. A questa distinzione, operata dalla
Convenzione del 1972, si è allineata la Giurisprudenza italiana che ha rifiutato di concedere l’immunità con
riguardo al lavoro prestato da cittadini italiani in ambasciate estere situate in Italia. Per quanto riguarda la
possibilità degli Stati di invocare l’immunità per le conseguenze civilistiche derivanti da violazioni gravi dei
diritti umani: la giurisprudenza dominante nella comunità internazionale ha ritenuto non applicabile
l’immunità. Sussistono tuttavia delle eccezioni come la sentenza della House of Lords, adottata in
Inghilterra nel 2006, che rispetto a degli atti di tortura compiuti in Arabia Saudita, considerò immune non
solo lo Stato ma anche il torturatore.
Occorre a questo punto compiere una precisazione: lo Stato straniero può dichiarare la rinuncia
all’immunità e può farlo espressamente o implicitamente. Si ritiene che vi sia rinuncia quando lo Stato si fa
attore in giudizio, proponendo domanda riconvenzionale (La domanda riconvenzionale ricorre quando il
convenuto, nel processo civile, esercita apposita domanda verso l'attore: non si limita cioè a difendersi, ma
chiede un provvedimento a sé favorevole e sfavorevole all'attore, andando oltre il rigetto della domanda
proposta). L’immunità dalla giurisdizione civile è prevista, oltre che per lo Stato complessivamente
considerato, anche per gli enti territoriali e le altre persone giuridiche, a conferma che a formare la persona
dello Stato nel diritto internazionale concorrono tutti coloro che esercitano il potere di governo nell’ambito
della comunità statale e non solo gli organi del potere centrale. Per quanto riguarda l’ambito di
applicazione della teoria dell’immunità ristretta: essa va applicata sia al procedimento civile di cognizione,
sia all’esecuzione forzata sui beni detenuti dallo Stato estero. Quest’ultima è ammissibile solo per quei beni
non destinati ad una funzione pubblica a cui si applica l’immunità (una sentenza della Corte di Cassazione
ha ad esempio escluso la possibilità di esperire un’azione possessoria nei confronti di un immobile
situazione nella base militare Usa a Sigonella). Non è sempre facile stabilire se un bene sia destinato ad una
pubblica funzione. Più volte si è posto ad esempio il problema se i conti correnti bancari, in mancanza di
una destinazione specifica del conto, possano essere colpiti da misure di esecuzione. La giurisprudenza ha
sempre negato quest’eventualità, in quanto il denaro è sempre destinato, almeno in linea di principio, a
finanziare fini istituzionali. Occorre infine ricordare la dottrina dell’Act of State, diffusasi negli Stati uniti
negli anni 60 e poi affiorata qua e là nella giurisprudenza degli altri Stati. secondo questa scuola di pensiero,
se il tribunale di uno Stato è tenuto ad applicare una legge o un atto di sovranità di uno Stato straniero
dovrà necessariamente farlo senza poter sindacare se questo sia contrario al diritto internazionale o al suo
diritto interno. Questa teoria è priva di alcun fondamento e deve essere ulteriormente criticata in quanto
porta ad un’applicazione precipua del diritto nazionale anche in deroga alle norme internazionali
generalmente riconosciute. Paragrafo 3.5. Il trattamento delle organizzazioni internazionali. Non esistono
particolari norme consuetudinarie che impongono agli Stati di concedere immunità ai funzionari delle
organizzazioni internazionali. Obblighi in tal senso possono derivare solo da convenzioni (come ad es.
l’accordo istitutivo dell’organizzazione, accordi successivi con gli Stati membri, con Stati terzi, e in
particolare con lo Stato in cui è stata istituita la sede). Sempre per via convenzionale vengono regolate le
immunità dei rappresentanti degli Stati presso le organizzazioni. Come gli stati anche l’organizzazione può
sempre rinunciare all’immunità. Per quanto riguarda i funzionari dell’Onu: la Carta delle Nazioni unite si
limita a disporre che “I funzionari dell’Organizzazione godono dei privilegi e delle immunità necessari per
l’esercizio indipendente delle proprie funzioni”. da questa enunciazione si capisce che sarà poi compiuto
dell’Onu raggiungere degli accordi con i singoli stati affinché vengano fornite delle garanzie ai suoi
funzionari. Un discorso analogo deve essere fatto per i rappresentati dell’Unione Europea. Come già detto,
lo Stato, nell’ambito della consuetudine sul trattamento degli stranieri, è tenuto a proteggere il funzionario
che opera nel suo territorio, con misure preventive e repressive, idonee ed efficaci. La violazione
dell’obbligo dà vita alla protezione diplomatica da parte dello Stato del funzionario. Lo stesso avviene in
parte anche per i rappresentanti delle organizzazioni internazionali. Si può dire che un obbligo di protezione
diplomatica sorge per l’organizzazione internazionale nei confronti dello Stato territoriale, solo per quanto
riguarda i danni arrecati ad essa (protezione funzionale) e non quelli arrecati all’individuo in quanto tale. Lo
Stato invece agisce in protezione diplomatica per la totalità dei danni. La protezione diplomatica riguarda i
soli danni funzionali, perché, nel caso dei danni personali, il legame tra Stato e funzionario è costituito dalla
cittadinanza, aspetto che non esista nel rapporto tra funzionario e organizzazione, tra i quali c’è solo un
rapporto di impiego. Sulla questione si è pronunciata la Corte Internazionale di Giustizia nella decisione del
1949 sul caso Bernadotte. Il Conte Bernadotte era un mediatore dell’Onu tra arabi e israeliani; venne ucciso
da estremisti israeliani e il segretario generale dell’Onu aveva accusato Israele di non aver predisposto le
misure necessarie a tutelare il funzionario delle Nazioni Unite. La Corte, nel valutare la possibilità dell’Onu
di ottenere un risarcimento da Israele per il danno subito a causa della morte del funzionario, riconobbe
non solo il diritto a richiedere il risarcimento per i danni funzionali ma anche per quelli personali (una
conclusione non condivisibile per i motivi sopra esposti). Per quanto riguarda l’immunità delle
organizzazioni internazionali dalla giurisdizione civile: È’ ormai norma consuetudinaria, confermata da
numerose convenzioni, l’applicazione dell’immunità dalla giurisdizione civile, per interpretazione estensiva
con la situazione degli Stati, anche alle organizzazioni internazionali.
Per quanto concerne infine le controversie di lavoro che possono verificarsi presso le organizzazioni
internazionali: l’immunità viene riconosciuta solamente se le Organizzazioni sono dotate di organo
giudiziario, indipendente e imparziale, a cui i lavoratori possono rivolgersi per risolvere le controversie
eventualmente sorte con l’Organizzazione (si pensi ad es. al Tribunale Amministrativo appositamente
creato presso l’Onu nel 1949). Paragrafo 4 Il diritto internazionale marittimo. Libertà dei mari e controllo
degli Stati costieri sui mari adiacenti. Il diritto internazionale marittimo è stato oggetto di importanti
convenzioni di codificazione. Fra queste le più importanti sono: a)La Conferenza di Ginevra del 1958 che
produsse quattro convenzioni che si occupavano rispettivamente del: -)mare territoriale e zona contigua; -
)alto mare; -)pesca e conservazione delle risorse biologiche marine; -)piattaforma continentale. b) La
Conferenza di Ginevra del 1960 adottata con lo scopo di fissare il limite esterno del mare territoriale, ma
non ebbe seguito. c)La Conferenza dell’Onu sul diritto del mare che ha dato vita alla fondamentale
Convenzione di Montego Bay del 1982 entrata in vigore nel 1994: essa modifica sostanzialmente il regime
delle risorse sottomarine al di là dei limiti della giurisdizione nazionale. È assai sbilanciata a favore dei Paesi
in sviluppo e sostituisce tra gli Stati contraenti le quattro Convenzioni di Ginevra, già superate prima del
1982, riproducendo largamente il diritto consuetudinario in materia. Questa convenzione è quella a cui si
farà riferimento d’ora in avanti per descrivere la disciplina del diritto internazionale marittimo.
Paragrafo 4.1. Libertà dei mari Il Principio della libertà dei mari si è affermato in Europa nei secoli XVII e
XVIII, esso fu proposto dagli olandesi e a poco a poco indussero anche l’Inghilterra, la Spagna, il Portogallo a
rinunciare al dominio sui mari. Il principio della libertà dei mari implica che: lo Stato, nel cui territorio si
trova quello spazio marino, non può impedire lo sfruttamento e il movimento nel mare da parte di altri
Stati (navigazione, pesca, ecc.). Ovviamente la libertà degli altri Stati non può spingersi fino a
compromettere la possibilità dello Stato, nel cui territorio si trova il mare, di utilizzarlo (si pensi ad una
pesca eccessiva che finisce per danneggiare le specie ittiche viventi in quella zona).
In contrapposizione al principio della libertà dei mari troviamo il Principio del controllo dei mari adiacenti:
Esso indica la pretesa di assicurarsi l’uso esclusivo delle acque di fronte alle proprie coste, con il potere di
esercitare un controllo sulle navi straniere che vi navigano a scopo di pesca e per reprimere il
contrabbando. Questo principio si è andato affermando tra il XIX e il XX secolo e, attraverso ulteriori
principi, ha finito per diminuire l’importanza del principio della libertà dei mari. L’evoluzione di questi
principi ha seguito le seguenti tappe: a) La prima fase vede affermarsi il principio del Mare territoriale: si
tratta di una fascia di mare costiero equiparata, in quanto a sovranità, al territorio dello Stato. Si è andato
affermando dopo la metà del XIX secolo e ha ampliato le pretese di controllo statale sul mare adiacente. b)
La seconda fase porta a teorizzare la c.d. Piattaforma continentale: affermatosi subito dopo la seconda
guerra mondiale con la generale accettazione della dottrina enunciata dal presidente americano Truman
nel 1945. In base ad essa gli Stati Uniti rivendicavano il controllo e la giurisdizione sulle risorse di quella
parte di fondo marino, estesa anche centinaia di miglia, che costituisce il prolungamento, a fondo costante
(200 metri), delle terre emerse. c) la terza fase consiste nell’affermazione dell’esistenza di una Zona
economica esclusiva: affermatosi negli anni ’80 e propugnato dai Paesi latino americani e dai Paesi in
sviluppo, per estendere lo sfruttamento delle risorse del fondo, del sottosuolo e delle acque sovrastanti, in
una zona marina distante anche 200 miglia dalla costa, considerata di pertinenza dello Stato costiero.
d)Negli ultimi anni si sta inoltre delineando il concetto di Mare presenziale: si tratta di una pratica recente,
posta in essere da alcuni Stati, che per salvaguardare l’ambiente e la conservazione delle specie ittiche,
hanno spinto la loro presenza in mare aperto ben oltre la zona economica esclusiva con lo scopo non di
rivendicare una giurisdizione esclusiva in materia di pesca ma solo di imporre la propria presenza ai fini di
lottare contro la depredazione della fauna marina. Tali pretese, per ora, hanno incontrato l’opposizione di
molti Stati.
Paragrafo 4.1.1. Il mare territoriale e la zona contigua. Secondo il diritto internazionale consuetudinario, il
mare territoriale è sottoposto automaticamente alla sovranità dello Stato costiero, così come la costa e la
terraferma. La Convenzione di Montego Bay sul mare territoriale afferma due principi base: 1) identifica il
c.d. mare territoriale: secondo gli articoli 2 e 3 della Conferenza, la sovranità dello Stato si estende, al di là
del territorio e delle acque interne, ad una zona di mare adiacente alle coste denominata mare territoriale,
che può estendersi fino ad un massimo di 12 miglia dalla costa. La normativa italiana si è adeguata a quanto
stabilito dalla Conferenza con la legge 359/1974 che ha esteso il mare territoriale fino a 12 miglia dalla
costa. 2)Ha codificato il concetto di zona contigua al mare territoriale, sostenendo che in una zona d’alto
mare contigua al mare territoriale, lo Stato costiero può esercitare i controlli necessari a prevenire le
violazioni delle proprie leggi di politica doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione o a reprimerne la
violazione. Durante la Conferenza si è inoltre fissata in 24 miglia la larghezza massima della zona contigua.
Sull’attinenza di questa normativa al diritto generale, Conforti sostiene che, riguardo alla vigilanza
doganale, il potere dello Stato incontra nel diritto internazionale generale solo un limite funzionale e non
spaziale. La distanza dalla costa, in cui avviene l’atto repressivo o preventivo, non è rilevante; può superare
le 12 o 24 miglia, purché non si tratti di una distanza tale da far perdere qualsiasi tipo di connessione con lo
Stato territoriale (si pensi ad esempio ad un carico che vuol essere illegalmente sbarcato sulle coste di uno
Stato; questo potrà intervenire anche se la nave si trova oltre la zona contigua al mare territoriale). A
questo punto una domanda sorge spontanea: da quali punti della costa si misura la distanza delle 12 miglia
che segnano il confine del mare territoriale? La Convenzione di Montego Bay stabilisce due criteri: a) Il
criterio di base per la misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bassa marea. b) Il Sistema delle
linee rette: Questo criterio è stato affermato dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 1951 per risolvere
una controversia tra Norvegia e Gran Bretagna. Esso prevede che venga delineata la zona del mare
territoriale non seguendo l’andamento sinuoso della costa, ma congiungendo i punti sporgenti della stessa
o le estremità di scogli e isole in prossimità della costa. In ogni caso, quando si utilizza questo sistema,
bisogna tener conto degli interessi economici consolidati dall’uso di certe zone marine. Per quanto riguarda
l’Italia: nonostante il codice della navigazione preveda l’applicazione del criterio di base fondato sulla
misurazione del mare territoriale attraverso la linea di bassa marea, il D.P.R. 816/1977 ha adottato il
sistema delle linee rette lungo tutte le coste principali e le isole maggiori. Questo provvedimento ha
suscitato molte perplessità sia perché un atto amministrativo (il D.P.R.) ha derogato ad una norma di legge
(il codice della navigazione); sia per la chiusura del Golfo di Taranto, operata appunto con lo stesso decreto
presidenziali (una disciplina che, come si è detto, deve considerarsi contraria al diritto internazionale).
Un’altra norma importante, adottata con la Convenzione di Montego Bay, è quella che si occupa di definire
le Baie (art 10). Con baia si identifica un'insenatura costiera che, a differenza del golfo, presenta un'entrata
dal mare stretta e che poi si va ad allargare via via che si penetra nell'entroterra. Il concetto di baia è
fondamentale in quanto: a) se la distanza tra i punti naturali d’entrata della baia e la costa non supera le 24
miglia, le acque della baia sono considerate acque interne e il mare territoriale viene misurato da dove
finisce la baia. b) Se la distanza tra i punti supera, invece, le 24 miglia, la retta per misurare il mare
territoriale si traccia all’interno della baia in modo da lasciare alle acque interne lo spazio più ampio
possibile. L’art. 10, indipendentemente dalla superficie, definisce come acque interne le c.d. baie storiche,
cioè insenature sulle quali lo Stato costiero vanta diritti esclusivi consolidati nel tempo, grazie anche
all’acquiescenza degli altri Stati. Da notare una pratica, posta in essere da molti Stati, che per aumentare
l’estensione del loro mare territoriale, hanno chiuso le baie con un diametro superiore a 24 miglia così da
misurare il mare territoriale direttamente dalla costa (si pensi alla chiusura della Baia di Pietro il Grande da
parte dell’URSS, della chiusura del Golfo di Panama da parte di Panama; della chiusura del Golfo di Taranto,
che ha un’apertura di circa 60 miglia, da parte dell’Italia). Si tratta di una pratica frequente, spesso avallata
dagli altri Stati, ma che deve considerarsi in contrasto con il diritto internazionale. Per quanto riguarda i
poteri sul mare territoriale: essi sono gli stessi che lo Stato esercita sulla terraferma. Esistono tuttavia due
limiti alla sovranità sul mare territoriale (che non sono previsti per le acque interne): a) Il primo limite è il
diritto di passaggio inoffensivo. Montego Bay lo definisce come il diritto al passaggio pacifico di ogni nave
straniera sul mare territoriale, per attraversarlo, per entrare nelle acque interne, per prendere il largo,
sempre che il passaggio sia continuo e rapido. Il passaggio è inoffensivo quando non reca pregiudizio alla
pace e alla sicurezza dello Stato costiero, cioè quando non comporti l’uso della forza, manovre militari,
propaganda ostile, inquinamento, pesca. Le norme sul passaggio inoffensivo si applicano a tutte le navi e,
quindi, anche alle navi da guerra e ai sottomarini (che, però, devono navigare in superficie).
Eccezionalmente lo Stato costiero può chiudere al traffico il mare territoriale per motivi di sicurezza o per
procedere a manovre militari, dopo aver adeguatamente reso pubblica l’iniziativa. Per gli stretti, meno
ampi di 24 miglia, quindi totalmente costituiti da mare territoriale, quando essi mettano in comunicazione
due zone di mare in cui la navigazione è libera, Montego Bay (artt. 37 e ss.) stabilisce che le navi hanno
diritto di transito non limitabile con sospensione. Tali stretti, a differenza del mare territoriale, possono
essere sorvolati e attraversati da sottomarini anche non in superficie. Per gli altri stretti che, invece,
mettono in comunicazione mare territoriale e una zona di libera navigazione, c’è solo un diritto di passaggio
inoffensivo non limitabile con sospensione. b) Secondo limite, osservato nella prassi, riguarda l’esercizio
della giurisdizione penale sulle navi straniere da parte delle autorità dello Stato territoriale. Essa non può
esercitarsi per fatti puramente interni alla nave straniera, cioè quei fatti che non hanno alcuna
ripercussione all’esterno e che non possono turbare la vita della comunità territoriale. La distinzione viene
applicata anche alle navi nei porti. Sul tema Montego Bay è meno definitiva e si discosta dalla
consuetudine, limitandosi a dire che “lo Stato Costiero non dovrebbe esercitare la giurisdizione sui fatti
interni” un periodo che evidenzia la possibilità del singolo Stato di decidere se esercitare o meno la propria
giurisdizione sulla nave straniera.
Paragrafo 4.1.2. La piattaforma continentale. La zona economica esclusiva (ZEE). Dopo la Seconda guerra
mondiale gli Stati di tutto il mondo iniziarono una corsa allo sfruttamento delle risorse marine. Oltre alla
pesca molto fruttuose erano le attività minerarie (in particolare il prelievo di idrocarburi liquidi e gassosi)
svolte sul fondale marino. La tendenza a sfruttare le risorse marine ha portato gli Stati costieri ad estendere
il proprio controllo oltre il mare territoriale. Tale tendenza ha dato vita agli istituti, generalmente accettati,
della piattaforma continentale e della zona economica esclusiva. 1)Per quanto riguarda la piattaforma
continentale: secondo da Convenzione di Montego Bay: Tutti gli Stati hanno il diritto esclusivo di sfruttare
le risorse della piattaforma continentale. il diritto viene acquisito in modo automatico, così come la
sovranità sul mare territoriale, a prescindere dall’occupazione effettiva della piattaforma. Il diritto sulla
piattaforma continentale ha natura funzionale, cioè non dà vita ad una sovranità generale, ma unicamente
al controllo e allo sfruttamento delle risorse della piattaforma. Il principio della piattaforma continentale è
risultato iniquo per quegli Stati, la cui conformazione geologica non permette di identificare tale zona. Si è
ovviato a ciò con la creazione della zona economica esclusiva che comporta l’assegnazione allo Stato
costiero delle risorse del fondo marino in una zona sino a 200 miglia dalla costa. Per quanto riguarda il
criterio di delimitazione della piattaforma continentale tra Stati che si fronteggiano:
-)la Convenzione di Ginevra adottava il criterio dell’equidistanza, in modo da tracciare un confine della
piattaforma partendo dalle rispettive linee di base del mare territoriale. -)La Corte Internazionale di
Giustizia, con sentenza del 20.02.69, afferma che l’equidistanza non è un principio consuetudinario, per cui
la delimitazione può essere effettuata solo con accordo delle parti interessate, che deve ispirarsi a principi
di equità (la sentenza della Corte ha risolto una controversia tra Germania Federale, Olanda e Danimarca ed
ha evidenziato che spesso il criterio dell’equidistanza tra Stati contigui può portare a risultati paradossali;
nel caso specifico, dal momento che l’Olanda e la Danimarca hanno coste convesse mentre la Germania
Federale concave, se si applicasse il criterio dell’equidistanza, la Germania subirebbe notevoli svantaggi
nella definizione della piattaforma continentale) -)il principio equitativo, introdotto dalla CIG, è stato
adottato da Montego Bay che, con scelta discutibile, poi afferma che, in attesa della delimitazione
concordata, gli Stati debbono giungere ad arrangiamenti pratici provvisori. Sul punto la dottrina
maggioritaria, e in particolare il Conforti, afferma che il subordinare l’accordo all’equità non ha nessun
senso, giacché l’intesa, equa o iniqua che sia, una volta conclusa resta valida. Bisogna riconoscere, però,
che la giurisprudenza internazionale ha delineato una serie di criteri pratici, anche se non vincolanti, da
tener presenti nel momento in cui si procede a delimitare la piattaforma continentale. 2)la Zona economica
esclusiva: negli ultimi anni e con il favore della stragrande maggioranza dei Paesi, ai poteri sulla piattaforma
continentale si sono andati sostituendo quelli esercitabili nell’ambito della zona economica esclusiva. Alcuni
Stati l’hanno già istituita con apposite norme interne, senza incontrare alcuna opposizione, tanto che si può
dire che siamo ormai di fronte ad un istituto di diritto consuetudinario. Anche la Convenzione di Montego
Bay se ne è occupata disponendo che: La zona può estendersi sino a 200 miglia dalla linea di base del mare
territoriale. Come per la piattaforma, la delimitazione della zona tra Stati frontisti o contigui è rimessa
all’accordo delle parti. Allo Stato costiero spetta il controllo esclusivo sulle risorse economiche della zona,
sia biologiche, che minerali, nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sovrastanti con particolare rilievo per la
pesca. Allo Stato spetta fissare la quantità massima di risorse ittiche sfruttabili da lui, e, se vi sia un esubero,
consentire la pesca agli stranieri nel quadro degli accordi conclusi con i singoli Stati d’appartenenza.
L’attribuzione delle risorse della zona allo Stato costiero non può pregiudicare le possibili utilizzazioni per
altri Stati, che continueranno a godere del diritto di navigazione, di sorvolo e di posa di cavi e condotte. Sul
punto si sono tuttavia contrapposte diverse scuole di pensiero: a) le Potenze di tradizione marittima, si
sono spinte ad affermare che la libertà degli Stati di utilizzare quelle zone marine, implica la vigenza del
vecchio principio di libertà dei mari. b) I Paesi in via di sviluppo hanno, invece, sottolineato che la libertà
degli altri Stati costituisce l’eccezione e non la regola. c) Secondo Conforti la disciplina attualmente in vigore
non fa prevalere né la regola della libertà dei mari né quella che prevede il diritto esclusivo dello Stato
costiero di utilizzare la Zona economica esclusiva. In altre parole il regime attuale non si basa sul confronto
tra principio di libertà e principio di sovranità dello Stato costiero, ma sul fatto che i diritti di quest’ultimo,
così come quelli degli altri Stati, hanno carattere funzionale, nel senso che sono consentite solo quelle
attività indispensabili allo sfruttamento delle risorse, per lo Stato costiero, e alle comunicazioni e ai traffici
marittimi e aerei, per gli altri Stati (lo Stato costiero e gli altri Stati utilizzano dunque quella zona marina in
modo differente). Può succedere che i diritti sulla zona economica esclusiva si sovrappongano a quelli della
piattaforma continentale, quando questa si estende oltre le 200 miglia dalla costa. La Convenzione di
Montego Bay, nel rispetto di una prassi consolidata, ha stabilito che la giurisdizione dello Stato costiero, in
tal caso, si allarga sull’intera estensione della piattaforma. Secondo quanto previsto dalla Conferenza,
tuttavia, parte dei ricavi dello sfruttamento delle zone situate tra le 200 miglia e il limite estremo della
piattaforma (il c.d. margine continentale), debbono essere versate all’autorità internazionale dei fondi
marini. La Convenzione di Montego Bay ha inoltre istituito un’apposita Commissione a cui comunicare la
presenza di una piattaforma che superi il limite delle 200 miglia. A seguito della comunicazione una
commissione di geologi valuterà l’estensione della piattaforma (questa commissione, tuttavia, essendo
dotata soltanto di poteri di raccomandazione non può vincolare gli Stati che vantano una piattaforma
superiore alle 200 miglia). Esempi di queste comunicazioni sono quelle compiute dalla Russia e dalla
Norvegia che, in tal modo, hanno iniziato a sfruttare il Mare Artico (un mare fino a quel momento rimasto
incontaminato). Infine, occorre fare alcune precisazioni sugli Stati che non hanno accesso al mare, o agli
stati con sviluppo minimo di coste o con accesso a mari chiusi e semichiusi. Al riguardo la Convenzione di
Montego Bay prevede il diritto a partecipare, su base convenzionale, allo sfruttamento di parte delle risorse
biologiche eccedenti (non si parla di risorse minerarie), delle zone economiche esclusive degli Stati costieri.
Paragrafo 4.2. Il mare internazionale e l’area internazionale marina. A questo punto è possibile stabilire
cosa accade nelle zone marine che si trovano al di là della c.d. zona economica esclusiva. queste zone sono
sottratte al controllo degli stati costieri; La convenzione di Montego Bay parlava di “alto mare”, un termine
che appare scorretto dal momento che la Zona economica esclusiva si estende fino a 200 miglia dalla costa.
Appare più corretto, dunque, parlare di “mare internazionale” inteso come uno spazio marino sottratto al
controllo di un singolo Stato. Il mare internazionale è l’unica zona dove trova ancora applicazione il
principio della libertà dei mari. In questo spazio tutti gli Stati hanno eguali diritti e possono liberamente, pur
con il limite del rispetto della libertà altrui, procedere allo sfruttamento della pesca, delle risorse biologiche
e minerarie, navigare e posare cavi. Sinora non hanno trovato conferma le pretese di alcuni Stati che
tendono ad assicurare la loro presenza oltre la zona economica esclusiva, detta del mare presenziale, al fine
di controllare la conservazione delle specie ittiche. Per quanto riguarda le risorse minerarie che si trovano
sul fondo e nel sottosuolo del mare internazionale: la risoluzione n. 2749 del 1970 dell’Assemblea Generale
dell’Onu ritiene patrimonio comune dell’umanità tutte le risorse minerarie del fondo e del sottosuolo del
mare internazionale. Questo principio fa ormai parte del diritto consuetudinario e comporta che lo
sfruttamento debba avvenire nell’interesse dell’intera umanità. Allo scopo di tutelare queste risorse è stata
creata l’Autorità internazionale dei fondi marini i cui organi principali sono: l’Assemblea, il Consiglio, il
Segretariato e l’Impresa. Tramite quest’ultimo organo l’Autorità internazionale dei fondi marini partecipa
direttamente allo sfruttamento attraverso il sistema dello sfruttamento parallelo (in base al quale ogni sito
marittimo da sfruttare è diviso in due parti: una assegnata alle imprese dello Stato che ha individuato
l’area; l’altra attribuita all’Impresa). Da notare che ad oggi, a causa delle difficoltà di realizzazione (lo
sfruttamento dei fondali oceanici si è dimostrata antieconomica almeno nel breve periodo), nessuna
attività di sfruttamento è stata ancora avviata dall’Autorità internazionale dei fondi marini.
Paragrafo 4.3. La navigazione marittima. Circa gli spostamenti sul mare, vige il principio generale per cui
ogni nave è sottoposta esclusivamente al potere dello Stato di cui ha la nazionalità, cioè lo Stato di
bandiera, che esercita il suo governo attraverso il comandante e le proprie navi da guerra. Il comandante di
una nave, anche di una nave privata, deve considerarsi come un organo dello Stato che esercita poteri
coercitivi limitatamente agli eventi che si verificano nel corso della navigazione, salvo il rispetto degli
obblighi relativi al trattamento degli stranieri a bordo, analogamente a quanto avviene per la sovranità
territoriale. La Convenzione di Montego Bay stabilisce, all’art 92, che “la nave batta bandiera di un solo
Stato e in alto mare è sottoposta alla sua giurisdizione esclusiva, salvo le eccezioni espressamente previste
da trattati internazionali o dalla Convenzione”. Ciò comporta che solo lo Stato di bandiera (e non gli Stati
cui appartengono i passeggeri o i membri dell’equipaggio) può, in caso di illeciti compiuti da Stati stranieri a
danno della nave, reclamare per i danni arrecati. Solo nel caso di collisioni o di altri incidenti della
navigazione (ex. Rottura di cavi telefonici) la Convenzione prevede, all’art 97, che Stati diversi da quello
della bandiera o dallo Stato Nazionale dell’autore o degli autori dell’incidente, non possono esercitare,
neppure nel loro territorio, la giurisdizione penale sugli autori medesimi. Vale la pena soffermarsi sulla
storia dell’art 97, partendo dalla sentenza della Corte Permanente di Giustizia Internazionale del 1927, nel
caso del Lotus, mercantile francese entrato in collisione con un vapore turco, provocandone
l’affondamento e la morte di otto persone. La corte, in quell’occasione, affermò che la Turchia, pur non
essendo lo Stato della bandiera, aveva il diritto di giudicare l’ufficiale francese, autore dell’incidente; per far
ciò, la corte prese in considerazione la prassi di vari stati le cui legislazioni permettevano, in determinate
circostanze, l’esercizio della giurisdizione penale sugli stranieri per fatti avvenuti all’estero. Di contro, la
Francia sostenne di essere esclusivamente competente ad esercitare la giurisdizione, in quanto Stato della
bandiera. La tesi della Francia è stata accolta nel progetto di codificazione della CDI (commissione di diritto
internazionale) sul diritto del mare che ha elaborato l’art 97 e che dapprima si occupava del solo reato di
collusione, ma oggi fa riferimento anche ad altri tipi di incidenti di navigazione. Una situazione simile si è
presentata ai giorni nostri con il caso Marò: due sottufficiali della marina militare italiana, dalla nave
mercantile italiana Enrica Lexie, hanno provocato la morte di due indiani su un peschereccio indiano. Il
fatto è avvenuto a circa 20,5 miglia dalla costa indiana, e quindi oltre i limiti del mare territoriale. In tale
caso non assume alcun rilievo il fatto che l’incidente sia avvenuto in un tratto di mare rientrante sia nella
zona contigua che nella ZEE indiane. I due militari, arrestati in un porto indiano, sono ancora detenuti in
India in attesa del giudizio finale. Nel frattempo, nel gennaio 2013 una sentenza interlocutoria della Corte
suprema indiana, che rivendica il diritto del proprio Stato ad esercitare la giurisdizione penale, sulla base
del collegamento che intercorre tra la morte dei due pescatori sull’imbarcazione indiana e la nazionalità
indiana delle vittime. Ciò è legittimato anche dal fatto che i due Marò sono stati arrestati sulla terraferma;
se al contrario vi fosse stato un atto coercitivo in mare, ciò avrebbe costituito una violazione del principio
secondo il quale si riserva solo allo Stato della bandiera l’esercizio di attività d’imperio. Il principio della
sottoposizione della nave allo Stato di bandiera subisce eccezioni che aumentano via via che la nave entra
nelle zone sottoposte alla sovranità dello Stato costiero. Eccone l’elenco. 1)Pirateria: Il diritto
consuetudinario stabilisce che la nave pirata (cioè la nave che commette atti di violenza contro altre navi a
fini di preda) può essere catturata e sottoposta a misure repressive da parte di qualsiasi Stato. Il fenomeno
della Pirateria ha raggiungo livelli assai preoccupanti nelle acque della Somalia. Questa pratica si è originata
nei primi anni 90, cioè quando scoppiò la guerra civile somala. Inizialmente i pirati erano pescatori che
dichiaravano di ritenere le navi mercantili straniere “una minaccia per l’economica locale”. Con il tempo i
Signori della guerra si resero conto che la pirateria era un fruttuoso “business”, visto che di solito venivano
pagati dei riscatti per il rilascio delle navi o delle persone catturate durante questi assalti marittimi.
Connesso con il tema della pirateria è l’art 110 della Convenzione di Montego Bay che ha introdotto un
limitato “diritto di visita delle navi mercantili” altrui in alto mare da parte di navi da guerra. Si parla di
diritto di visita limitato in quanto la nave mercantile non può essere fermata a meno che non vi siano seri
sospetti che: a) la nave pratichi pirateria; b) la nave pratichi la tratta degli schiavi; c)dalla nave partano
trasmissioni radiotelevisive non autorizzate rivolte al grande pubblico. (da notare che i casi b e c non
trovano riscontro nel diritto internazionale consuetudinario e, quindi, la visita è da considerare illegittima
se lo Stato visitante e lo Stato di bandiera non sono contraenti della Convenzione). d)la nave non abbia
alcuna nazionalità; e) la nave, pur battendo bandiera straniera o rifiutandosi di issare la bandiera, abbia in
realtà la stessa nazionalità della nave da guerra. Nel caso in cui i sospetti si rivelano infondati, e sempre che
l’atteggiamento della nave non li giustifichi, la nave fermata deve avere un indennizzo per qualsiasi perdita
o danno.
2)Ingresso della nave in zona economica esclusiva altrui: In tal caso, lo Stato costiero può esercitare sulle
navi altrui tutti i poteri relativi alla regolamentazione dello sfruttamento delle risorse, reprimendo le
infrazioni, visitando e sequestrando il carico, infliggendo sanzioni penali all’equipaggio. Non sono
giustificabili misure sproporzionate alle infrazioni commesse. 3)Ingresso della nave nel mare territoriale
altrui: Lo Stato costiero esercita il proprio potere di governo imponendo il limite di passaggio inoffensivo.
Inoltre, la giurisdizione dello Stato di bandiera è valida solo per quei fatti puramente interni alla comunità
navale, per gli altri interviene la giurisdizione dello Stato costiero. 4)Diritto di inseguimento: Le navi da
guerra o adibite a servizio di vigilanza doganale o sanitaria appartenenti allo Stato costiero possono
inseguire anche in acque internazionali la nave che abbia violato le sue leggi, purché l’inseguimento abbia
avuto inizio nelle acque sotto la sovranità dello Stato costiero (acque interne, mare territoriale, piattaforma
continentale, zona economica esclusiva), nel rispetto dei limiti, imposti in ogni zona. L’inseguimento deve
essere continuo e sulla nave catturata possono esercitarsi quei poteri previsti nella zona in cui
l’inseguimento ha avuto inizio. L’inseguimento deve cessare se la nave entra nel mare territoriale di altro
Stato. 5)la teoria della presenza costruttiva: secondo questa teoria la nave straniera che, pur in acque
internazionali, partecipi a traffici illeciti (es.: trasbordo di merci di contrabbando) di altre navi che operano
in spazi marini sottoposti al potere di governo dello Stato costiero, può essere catturata da quest’ultimo.
Questa regola ha trovato un eco nella Convenzione di Montego Bay che l’ha introdotta con lo scopo di
combattere il contrabbando. A questo punto viene da chiedersi se uno Stato può concedere la sua bandiera
a qualunque nave. Secondo la Convenzione di Montego Bay, che riprende una norma di diritto
internazionale generale trattata nella Convenzione di Ginevra nel 1958, ogni Stato fissa le condizioni per la
concessione della nazionalità alle navi, iscrivendole nei propri registri navali. Tuttavia, perché tale
registrazione possa essere effettuata è necessario che sussista, tra lo Stato e la nave, un legame sostanziale
(il c.d. genuine link). In cosa consista questo legame sostanziale venne precisato dalla Convenzione dell’Onu
del 1986 sulle condizioni di immatricolazione delle navi: secondo questa convenzione la nave deve essere di
proprietà di un numero di cittadini dello Stato immatricolante sufficiente ad assicurare un controllo
effettivo sulla nave e che, allo stesso mondo, l’equipaggio sia formato per una quota soddisfacente da
cittadini o residenti abituali nello Stato immatricolante (questo perché come si è detto, il capitano può
esercitare i poteri dello Stato immatricolante solamente sui cittadini di quello Stato). Le navi che vengono
immatricolate nonostante non sussista questo “genuine link” vengono chiamate Bandiere ombra. La
mancanza di questo legame sostanziale, necessario per l’immatricolazione delle navi seconda la
Convenzione Onu, non legittima tuttavia (secondo la giurisprudenza maggioritaria) le navi di altri stati a
intervenire, sulle navi battenti bandiere ombra, quando queste si trovano in alto mare né a disconoscerne
la nazionalità (manifestata mediante esposizione della bandiera). Paragrafo 4.6. La protezione
dell’ambiente marino. La lotta all’inquinamento marino richiede una stretta cooperazione internazionale. In
merito, Montego Bay detta una normativa-quadro lasciando che dei dettagli si occupino gli accordi specifici
(fra questi si ricordi fra gli Accordi universali la Convenzione di Londra del 1954 contro l’inquinamento da
idrocarburi; Fra gli Accordi regionali importante è la convenzione di Barcellona del 1976 per la protezione
del Mar Mediterraneo dall’inquinamento). Prima di parlare delle varie Convenzioni adottate dalla comunità
internazionale per tutelare l’ambiente marino, bisogna stabilire in quali termini esiste nel diritto
internazionale un obbligo a non inquinare i mari. 1)A livello di diritto consuetudinario, non si è formato un
obbligo a non inquinare le acque dei mari (come non esiste obbligo a non produrre inquinamento nel
territorio di altri Stati). Per cui quando la Convenzione di Montego Bay dispone che gli Stati hanno” il
dovere di proteggere e preservare l’ambiente marino”, indica non una regola del diritto nazionale generale
ma un principio in formazione. Ciò di cui più si preoccupa la Convenzione è la predisposizione, da parte
degli Stati, di sistemi adeguati a permette un risarcimento dei danni causati dall’inquinamento fondato sulla
Responsabilità civile dello Stato inquinante (anche in questo caso, dunque, come nel caso
dell’inquinamento oltrefrontiera ciò che conta è che sia garantito un risarcimento dallo Stato inquinante).
2)a livello di diritto convenzionale: gli Accordi universali e regionali contengono una serie di divieti (spesso
molto dettagliati) per contrastare l’inquinamento dei mari. Questi divieti riguardano prevalentemente le
navi ma sono indirizzati anche alle persone fisiche e giuridiche (si pensi ad es. ad una fabbrica che inquina il
mare riversando le proprie scorie nelle acque a lei circostanti). Un altro problema fondamentale, in tema di
lotta all’inquinamento marino, è la necessità di stabilire quale Stato possa utilizzare il proprio potere di
governo sulle navi per evitare che esse vadano ad inquinare il mare.
Per il diritto consuetudinario, ad imporre divieti e sanzioni per inquinamento, sono lo Stato di bandiera e,
nelle zone sottoposte alla giurisdizione nazionale, lo Stato costiero (che eserciterà il proprio potere sulle
navi di altri stati, onde evitare fenomeni di inquinamento, quando esse si troveranno nelle proprie acque
interne, nelle acque territoriali e nella zona economica esclusiva). Stesso principio, grosso modo, vige negli
accordi internazionali. 2)Più restrittiva la disciplina introdotta con la Convenzione di Montego Bay: secondo
cui lo Stato costiero può imporre misure coercitive solo se la nave si trovi in un suo porto, a meno che non
si tratti di casi gravi. In compenso la Convenzione ritiene l’intervento ammissibile anche quando la nave in
porto abbia inquinato una zona non sottoposta alla giurisdizione dello Stato costiero. Per quanto riguarda
l’Italia che, come abbiamo visto, non possiede una zona economica esclusiva, una legge del 2006 ha
previsto la possibilità di creare delle “zone di protezione ecologica” entro i limiti geografici della zona
economica esclusiva. in queste zone lo Stato potrà esercitare tutte le prerogative tipiche di uno Stato
costiero. In conclusione, bisogna ricordare un’altra pratica riconosciuta dalla Convenzione di Montego Bay e
dalla prassi, secondo cui l’intervento dello Stato in acque internazionali deve considerarsi legittimo se
attuato con lo scopo di impedire o attenuare i danni al proprio mare e al litorale, derivanti da un incidente
già avvenuto. Paragrafo 5 Gli spazi aerei e cosmici: la Navigazione aerea Le norme sulla navigazione aerea si
sono formate per analogia con quelle della navigazione marittima per poi assumere autonomia
consuetudinaria. Anche esse comportano limiti alla potestà di governo degli Stati. Due sono in principi
generali in materia: a) la sovranità dello Stato si estende allo spazio atmosferico sovrastante il territorio e il
mare territoriale (principio sancito anche dalla Convenzione di Chicago del 1944, istituita dall’Icao). b) lo
spazio aereo, sovrastante l’alto mare e i territori inappropriati e inappropriabili, deve restare libero
all’utilizzazione di tutti gli Stati che esercitano il loro esclusivo potere sugli aerei della propria nazionalità. La
sovranità dello Stato, sullo spazio aereo sovrastante il suo territorio o il mare territoriale, si manifesta
soprattutto nella possibilità di: - regolare il sorvolo del proprio territorio; - stabilire le zone interdette al
sorvolo;
- indicare le rotte che gli aerei devono seguire; - impedire il sorvolo ad aerei stranieri, a meno che non vi
siano obblighi internazionali a consentire il sorvolo; Lo sviluppo della tecnologia aeronautica e le velocità
raggiunte dagli aeromobili hanno portato alla creazione, intorno alle aree sovrastanti il mare territoriale, di
vaste zone di identificazione. Gli Stati costieri impongono agli aerei che entrano in queste zone e che sono
diretti verso le proprie coste i seguenti obblighi: - sottoporsi a identificazione; - comunicare la propria
posizione; - sottoporsi ad altre misure di controllo da terra. Gli aerei che si sottraggono a tali obblighi si
espongono a sanzioni di: - intercettazione; - atterraggio forzoso; - abbattimento. Paragrafo 5.1. Gli Spazi
aerei e cosmici: la navigazione cosmica. La navigazione cosmica negli spazi extra-atmosferici, attraverso
satelliti o navi spaziali, risponde ai criteri di libertà di sorvolo propri degli spazi nullius. Lo Stato che lancia
un satellite o una nave spaziale ha diritto di governo esclusivo su di essi. È prassi che a questo tipo di
navigazione, caratterizzata da estrema velocità e distanza dalla Terra, non si applichino i criteri del sorvolo
delle zone territoriali. Numerose sono le Convenzioni in sede Onu che hanno per oggetto il regime degli
spazi cosmici, come il Trattato su esplorazione e utilizzazione dello spazio extra atmosferico, Luna e altri
corpi celesti del 1967 che sancisce i seguenti principi: a) lo spazio cosmico non può essere sottoposto alla
sovranità di nessuno Stato. b) lo spazio cosmico è denuclearizzato; c) gli astronauti sono inviati
dell’umanità; d) è obbligo degli Stati dare ogni tipo di assistenza agli astronauti in caso di incidente, pericolo
o atterraggio d’emergenza; e) Lo Stato nazionale è responsabile per di danni da attività cosmica causati da
un oggetto spaziale da lui lanciato. f) lo Stato nel quale l’oggetto è registrato ha piena giurisdizione e
controllo sull’oggetto stesso. Anche per gli spazi atmosferici e cosmici si può parlare in senso lato di risorse:
il problema dell’utilizzo delle risorse cosmiche si è posto in particolare per l’utilizzo dello spazio cosmico ai
fini di compiere trasmissioni radio o telecomunicazioni (mediante la posizione di satelliti). In questo caso
vige il principio di libertà con il consueto limite del rispetto della pari libertà altrui, con in più l’esigenza di
coordinamento tra tutti gli Stati, a causa della limitatezza del numero delle frequenze radiotelevisive e del
limitato numero di satelliti che possono ruotare sull’orbita geostazionaria (cioè quella linea che corre
sull’equatore nella quale i satelliti per telecomunicazioni seguono la rotazione terrestre). Si ritiene che
l’orbita geostazionaria possa ospitare al massimo 1800 satelliti (al momento solo alcune centinaia di satelliti
ruotano intorno alla terra). Non sembra avere alcun fondamento la rivendicazione di sovranità sull’orbita
geostazionaria di alcuni Stati equatoriali che ha dato vita alla Dichiarazione di Bogotà (1976). Paragrafo 6 Le
regioni polari. Le regioni polari, Artide e Antartide, sono spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato,
nei quali vige il principio di libertà. Non sono mancate pretese di sovranità sulle regioni polari, basate sulla
cosiddetta teoria dei settori, rivendicata dagli Stati contigui territorialmente alle zone artica e antartica
(Argentina, Cile, Australia), ma anche da altri Stati non contigui (Inghilterra, Francia). Tali pretese sono state
sempre respinte dalla maggioranza degli Stati. Esse sono, inoltre, giuridicamente infondate, in quanto non
sorrette dall’effettività dell’occupazione. La mancanza di sovranità territoriale comporta che ciascuno Stato
eserciti il proprio governo solo sulle comunità che ad esso fanno capo. Per quanto riguarda le navi, vige il
potere dello Stato di bandiera; per quanto riguarda spedizioni e basi scientifiche, il potere è esercitato dallo
Stato organizzatore su tutti i componenti, cittadini e stranieri. Convenzionalmente è stabilito che il
personale scambiato tra basi diverse rimanga soggetto alla sovranità del proprio Stato. Per l’Antartide può
anche parlarsi di territorio internazionalizzato, poiché varie norme ne disciplinano l’utilizzazione da parte
degli Stati. L’Antartide è stato internazionalizzato con il Trattato di Washington (1959), in base al quale
tutte le pretese di sovranità e le relative opposizioni sono state congelate a favore del funzionamento del
regime internazionale dell’area. Esso prevede: a) interdizione da ogni attività militare e nucleare; b) libertà
di ricerca scientifica, previa comunicazione agli altri Stati contraenti dell’invio di spedizioni e della
realizzazione di basi a scopo di ricerca; c) cooperazione nell’attività scientifica di ricerca, attraverso lo
scambio di informazioni e di personale.
Il Trattato distingue, nell’ambito dei contraenti, tra parti consultive e parti non consultive: -)Le parti
Consultive: Stati firmatari e Stati che dimostrano interesse per l’Antartide conducendovi attività di ricerca,
creandovi basi o inviando spedizioni, godono di uno status di netto privilegio. Esse decidono all’unanimità,
ma con effetto vincolante, su tutte le questioni rientranti nel Trattato e sulla protezione di flora e fauna.
Inoltre, hanno l’esclusivo diritto di condurre ispezioni su mezzi e personale altrui per controllare
l’osservanza del Trattato. Si presume che l’inizio dell’attività di ricerca comporti l’assunzione automatica
dello status di parte consultiva, senza deliberazione delle altre parti consultive. L’Italia ha tale status dal
1987. -) Parti non consultive: Il regime internazionale vincola solo le parti contraenti del Trattato di
Washington, mentre per gli Stati terzi vige un regime di libertà, sulla scorta di quanto dichiarato
dall’Assemblea Generale dell’Onu, che ha definito le risorse del continente antartico patrimonio comune
dell’umanità. Per cui lo sfruttamento delle risorse può essere operato unilateralmente in regime di libertà,
con i vincoli del rispetto della libertà altrui, del rispetto dell’ambiente per gli Stati che aderiscono al
Protocollo di Madrid del 1991 (che sospende le estrazioni minerarie per 50 anni e prevede che ogni attività
abbia un’adeguata valutazione ambientale), dell’obbligo di sfruttare nell’interesse dell’umanità e nel
rispetto dell’ambiente, sulla base della dichiarazione dell’Assemblea Generale dell’Onu.
L’ADATTAMENTO DEL DIRITTO INTERNO AL DIRITTO INTERNAZIONALE
1. Nozione e meccanismi di adattamento.
L’adattamento del diritto interno al diritto internazionale è l’istituto attraverso il quale il diritto
internazionale può essere effettivamente applicato all’interno degli Stati, creando cioè la possibilità per i
soggetti dell’ordinamento interno di invocare davanti ai giudici nazionali diritti ed obblighi discendenti da
norme internazionali.
Perché ciò avvenga occorre un atto statale di volontà di recepimento o di adattamento del diritto
internazionale, trattandosi di norme di un ordinamento, quello internazionale, che devono produrre effetti
in uno diverso, e cioè quello nazionale.
Questo atto di recepimento avviene attraverso dei procedimenti normativi, detti di adattamento del diritto
interno al diritto internazionale, che trasformano la norma internazionale in norma nazionale.
2. I procedimenti di adattamento
Il diritto internazionale conosce due meccanismi di adattamento:
- il procedimento ordinario
- il procedimento speciale o di rinvio.
Il procedimento ordinario di adattamento consiste nella riformulazione della norma internazionale, che
viene così riscritta e quindi trasformata in una legge interna in tutto identica alle altre leggi statali, ad
eccetto della sua origine, che trova riscontro in una fonte, consuetudinaria o pattizia, del diritto
internazionale.
Il procedimento speciale di adattamento consiste invece nell’operare un rinvio da parte di un atto
normativo nazionale (strumento di adattamento), ad esempio una legge ordinaria, direttamente alla fonte
del diritto internazionale che s’intende adattare, sia essa una consuetudine o un accordo o, ancora, una
fonte prevista da accordo, cioè un atto delle organizzazioni internazionali.
Si dice in proposito che, mediante procedimento speciale di adattamento:
“…la norma internazionale non viene riformulata all’interno dello Stato: di fronte ad una certa norma
internazionale, o ad un certo gruppo o ad un’intera categoria di norme internazionali da introdurre
nell’ordinamento statale, gli organi preposti alle funzioni normative si limitano ad ordinare l’osservanza
della o delle norme internazionali medesime…”.
Quest’ultimo procedimento, stando alla migliore dottrina, è da preferire, per i numerosi vantaggi che
presenta, poiché con il suo diretto richiamo nell’ordinamento nazionale consente una più corretta
applicazione del diritto internazionale.
Nel caso del procedimento ordinario, infatti, la norma di diritto internazionale riformulata in norma interna
dovrà comunque essere applicata dal giudice, anche quando la norma internazionale sia mal riformulata e
quindi errata, ad esempio perché chi vi ha proceduto l’ha mal interpretata, o ha fatto riferimento a norme
inesistenti nel diritto internazionale; oppure a norme ormai estinte in quell’ordinamento.
Nel procedimento speciale questi inconvenienti sono superati dal fatto che:
“…il centro d’applicazione della norma internazionale si sposta dal legislatore (…) all’interprete. E’
l’interprete che deve ricostruire integralmente il contenuto della norma internazionale, che deve stabilire
se una norma effettivamente vige, se essa non sia estinta, se non si a stata illegittimamente emanata (nel
caso di decisioni di OI)…” .
In alcuni casi, tuttavia, il procedimento ordinario di adattamento si rivela indispensabile. Questo accade
quando la norma internazionale non è direttamente applicabile all’interno dell’ordinamento statale quanto
al suo contenuto. Si parla in dottrina di norme non self-executing. In casi del genere i singoli (persone
fisiche e giuridiche) non possono invocare la norma internazionale davanti al giudice nazionale, subendo in
tal modo l’eventuale lesione dei loro diritti che da quella norma internazionale discendono.
Molto spesso i due procedimenti, ordinario e speciale, coesistono, ad esempio quando si tratta di adattare
un accordo internazionale (adattamento che in Italia avviene mediante procedimento speciale) che
contenga disposizioni non self-executing.
Il carattere non self-executing di una norma permette quindi al giudice nazionale di escluderne
l’applicazione in giudizio: questo a danno del rispetto del diritto internazionale da parte dello Stato di
origine del giudice.
Per cercare di limitare questo inconveniente, e, soprattutto, per cercare di assicurare il massimo rispetto
del diritto internazionale all’interno dello Stato, la dottrina ha proposto di limitare la nozione di norme non
self-executing ad ipotesi circoscritte, come vedremo nel prossimo paragrafo.
In Italia il diritto internazionale è in linea di principio recepito con procedimento speciale di adattamento,
sia per quanto riguarda le consuetudini, sia per gli accordi.
3. Il concetto di norma non direttamente applicabile (non self-executing).
“…Con questa espressione ci si riferisce alle norme che richiedono necessariamente, per essere applicate,
un’attività normativa integratrice da parte degli organi statali…”.
Una norma è quindi da ritenere non direttamente applicabile quando, in considerazione del suo contenuto,
essa non è in grado d’incidere sulla sfera giuridica dei singoli, non è cioè capace di produrre diritti ed
obblighi direttamente azionabili davanti al giudice.
Nella dottrina internazionalistica (Conforti) si circoscrivono le ipotesi di norme non self-executing a tre casi
soltanto:
a) norme che attribuiscono solo facoltà agli Stati: ad esempio la norma che permetta allo Stato di
adempiere un certo obbligo di risultato scegliendo tra due o più comportamenti.
b) norme che hanno bisogno della predisposizione di organi o di procedure indispensabili per la loro
attuazione.
c) norme che hanno bisogno per la loro attuazione di particolari adempimenti di carattere
costituzionale.
3.1. Esempi del criterio sub a)
Gli articoli 5 e 7 della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, che lasciano agli Stati contraenti la
possibilità di adottare il sistema delle linee di bassa marea quali linee di base per la misurazione del limite
esterno del mare territoriale (articolo 5 che pone la regola generale); oppure di optare per l’adozioe del
sistema delle linee rette (articolo 7). L’Italia ha scelto quest’ultimo sistema con il D.P.R. 26.4.1977 n. 816 (di
adeguamento della precedente Convenzione di Ginevra sul mare territoriale del 1958).
L’articolo A lettera b) della Parte III della Carta sociale europea del 1996 è da considerare come norma non
self-executing in quanto lascia facoltà agli Stati contraenti di scegliere di rispettare almeno sei dei nove
articoli in esso indicati (articoli 1, 5, 6, 7, 12, 13, 16, 19, 20).
Lo stesso deve dirsi per l’articolo A lettera c) della Parte III della stessa Carta, che permette agli Stati
contraenti di scegliere se considerarsi vincolati da un numero supplementare di articoli o di paragrafi
numerati della Parte II della Carta.
L’articolo 6 § 1 della Convenzione europea sull’adozione del 1967, adattata in Italia con la legge n. 357 del
22.5.1974 che dispone: “La legislazione (nazionale) non può permettere l’adozione di un minore se non da
parte di due persone unite in matrimonio o da parte di un singolo adottante”. Questa disposizione è stata
oggetto d’interpretazione da parte della Corte costituzionale con sentenza n. 183 del 16.5.1994 e della
Corte di Cassazione con sentenza n. 7950 del 21.7.1995 nel caso Di Lazzaro. Le citate pronunce hanno
riconosciuto il carattere non self-executing dell’articolo 6 § 1 della Convenzione in quanto lascia liberi gli
Stati di scegliere se permettere l’adozione di un minore soltanto da parte di coppie regolarmente unite in
matrimonio oppure anche da parte di un singolo adottante. Poiché la normativa italiana in materia di
adozione di minori non prevede l’ipotesi dell’adozione da parte di un singolo adottante, i giudici hanno
rifiutato all’attrice la possibilità di adottare un bambino in quanto persona singola, ritenendo che l’Italia
abbia scelto una sola tra le due opzioni lasciate dalla disposizione convenzionale, e precisamente quella più
rigida.
L’articolo 8 della Convenzione europea di estradizione del 13.12.1957, adattata in Italia con legge n. 300 del
30.1.1963, il quale riconosce agli Stati contraenti la facoltà di scegliere se estradare o meno un individuo
quando in Italia penda un procedimento a carico di quest’ultimo.
La Corte costituzionale nella sua sentenza n. 58 del 3.3.1997 resa nel caso Priebke ha interpretato questa
disposizione come di carattere non self-executing, traendone la conseguenza della prevalenza della norma
italiana, l’articolo 705 comma 1 del c.p.p. che sancisce l’obbligo del rifiuto di estradizione. Con questa
disposizione l’Italia avrebbe infatti scelto, quale una delle due opzioni previste dall’articolo 8 predetto, di
non estradare individui nei confronti dei quali penda un processo in Italia.
3.2. Esempi del criterio sub b)
L’articolo 14 § 5 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite dispone il principio per il quale
ognuno ha diritto al doppio grado di giurisdizione. Perché questa disposizione internazionale possa essere
effettivamente applicata occorre che ogni Stato contraente disponga di adeguate norme processuali che
assicurino il doppio grado di giudizio. L’articolo 96 della Costituzione italiana nella sua formulazione
originaria, ovvero prima della sua modifica ad opera della legge costituzionale n. 1 del 16 gennaio 1989,
disponeva che il giudizio di messa in stato di accusa del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri
dovesse svolgersi in unico grado davanti alla Corte Costituzionale. Nel caso Lockeed la Corte costituzionale,
con ordinanza del 6.2.1979, ha interpretato l’articolo 14 § 5 del Patto ONU come disposizione non self-
executing, escludendone l’applicazione ai giudizi basati sull’articolo 96, perché all’epoca non c’erano norme
processuali istitutive del doppio grado di giurisdizione per quel tipo di processi.
3.3. Esempi del criterio sub c)
Una disposizione del diritto internazionale non può essere considerata direttamente efficace se implica
oneri finanziari straordinari o l’adozione di sanzioni penali.
In particolare norme di diritto internazionale, sia consuetudinario che pattizio, che impongano l’obbligo di
punire i crimini internazionali individuali, prima di poter essere applicate in ogni ordinamento statale
dovrebbero essere specificate da una legge nazionale che, in ossequio al principio di legalità per cui
nessuno può essere condannato penalmente per un comportamento che non sia già previsto dalla legge
come reato (principio dell’irretroattività della legge penale) né punito se la legge non specifica la pena da
applicare: nullum crimen, nulla poena sine lege. In Italia il principio è sancito dall’articolo 25 commi 2 e 3
della Costituzioneche che recitano:
“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”.
3.3.1. Il caso Barcot
Nel caso Barcot la Corte di Cassazione penale, con sentenza dell’8 luglio 1994, ha escluso di poter
incriminare due individui, Franco Barcot e Zdravkp Troijc, rispettivamente comandante e primo ufficiale
della nave Vela Luka, per violazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU n. 713 del 25
settembre 1991 che impone a tutti gli Stati di adottare le misure necessarie a far rispettare l’embargo sulla
fornitura di armi dirette alla Iugoslavia.
In particolare la Corte, pronunciandosi sull’efficacia diretta delle risoluzioni del CdS ONU, precisa che
queste ultime non possono trovare attuazione nell’ordinamento italiano se non in forza di norme interne di
adattamento.
La Corte, nel prosciogliere gli imputati, ha modo di affermare:
“…non consta l’esistenza, nel nostro sistema penale, di una fattispecie incriminatrice che contempli e
sanzioni le condotte attuate in violazione delle risoluzioni dell’ONU (…), preesistente od introdotta
nell’ordinamento interno in attuazione od a sostegno della risoluzione medesima o di altre
successivamente emanate (…) né, a maggior ragione, un tale precetto penale può essere direttamente
ravvisato nella stessa risoluzione ONU in quanto immediatamente vincolante per il nostro Stato, anche
senza bisogno di norme interne di adattamento, (…) stante la riserva di legge statale in materia penale di
cui all’articolo 25 secondo comma Cost.”.
3.3.2. Il caso Scilingo
In una recente pronuncia (caso Scilingo), un Tribunale spagnolo, l’Audiencia Nacional, con sentenza del 19
aprile 2005 n. 16/2005 ha condannato un imputato straniero, Adolfo Francisco Scilingo, ex militare
argentino per crimini contro l’umanità commessi durante la dittatura in Argentina (1976-1983) .
L’Audiencia Nacional ha condannato Scilingo a 640 anni di carcere per crimini contro l’umanità, figura di
reato non prevista dalla legge penale spagnola all’epoca dei fatti– che riconosceva ai tribunali spagnoli
soltanto la facoltà di esercitare la giurisdizione universale in materia penale per crimini determinati quali il
genocidio e il terrorismo –, richiamandosi invece al fatto che al momento della commissione dei crimini
questi ultimi fossero vietati dal diritto internazionale consuetudinario. In questo modo il tribunale spagnolo
ha applicato direttamente il diritto consuetudinario che prevede la facoltà di ogni giudice di punire chi
commette crimini contro l’umanità.
Questa norma di diritto penale internazionale, per autorevole dottrina, sarebbe però non self-executing, in
quanto necessiterebbe per la sua applicazione, di adempimenti costituzionali costituiti nel caso dal rispetto
per il principio di legalità e di irretroattività e tassatività della legge penale, garantiti, in Spagna, dall’articolo
9 § 3 della Costituzione e dall’articolo 25 che stabilsce il principio nullum crimen sine lege.
In tal modo le imputazioni di crimini contro l’umanità contestate a Scilingo avrebbero dovuto essere
inserite in una legge nazionale penale che prevedesse i primi come reati e li sanzionasse penalmente.
Risulterebbe in altre parole violato il principio di legalità, perché l’Audiencia Nacional applica una norma
spagnola, l’articolo 607-bis del Codice penale, che è entrata in vigore nel 2004, ossia successivamente ai
fatti contestati all’imputato.
Il giudice spagnolo invece ha ritenuto di non violare il suddetto principio perché esso avrebbe nel diritto
internazionale una “…formulazione e un’applicazione distinte da quelle che gli sono proprie nel diritto
interno…”. In particolare il principio nullum crimen sine lege, nel diritto internazionale diventerebbe nullum
crimen sine iure, intendendo con quest’ultimo termine un concetto più vasto di quello interno (legge) che
comprenderebbe anche il diritto internazionale, considerando così la norma internazionale che vieta i
crimini contro l’umanità come diritto consuetudinario direttamente efficace nell’ordinamento spagnolo.
3.3.3. Casi di diretta applicabilità del diritto internazionale in materie penalistiche.
Il diritto internazionale in materia penalistica può essere direttamente applicato anche se manca una legge
specifica di adattamento, quando esista nel diritto interno una procedura analoga a quella richiesta dalla
norma internazionale.
Per esempio la Corte di Cassazione italiana ha riconosciuto la diretta applicabilità dell’articolo 5 § 1, lett. f) e
§ 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che riconosce a chiunque sia detenuto per essere
estradato o espulso il diritto a ricorrere al giudice, estendendo al mandato d’arresto (provvedimento
amministrativo) emesso dal Ministro della giustizia le garanzie procedurali che riconoscono a chiunque il
diritto di ricorso in Cassazione contro provvedimenti giurisdizionali lesivi della libertà personale, contenute
nell’articolo 111, secondo comma della Costituzione, 190, secondo comma e 263bis del codice di procedura
penale .
3.5. Uso distorto della nozione di norme non self-executing
La dottrina considera negativamente le tendenze della giurisprudenza di vari Paesi che ricorrono al
concetto di norme non self-executing: “…per non applicare norme “indesiderate” perché contrarie a
sopravvenuti interessi nazionali…” o altri motivi politici latu sensu.
3.6. Valore delle clausole di esecuzione
Alcune volte la giurisprudenza interna considera non self-executing quei trattati che contengono le
cosiddette “clausole di esecuzione” con le quali si prevede che gli Stati adotteranno le misure interne per
garantire l’applicazione dell’accordo. Questa tendenza è da respingere perché le clausole di esecuzione non
possono costituire una condizione di applicabilità del trattato ma hanno la funzione principalmente di
impegnare lo Stato contraente ad adottare le misure necessarie all’applicazione delle norme non self-
executing del trattato.
4. Sfera di applicazione delle norme internazionali adattate all’interno dello Stato
Entro che limiti le norme internazionali adattate possono essere invocate all’interno dello Stato?
La risposta al quesito dipende dal contenuto della norma internazionale, ed in particolare dalla concreta
realizzazione della fattispecie astratta considerata nella suddetta norma.
In alcuni casi è difficile stabilire la sfera soggettiva di applicazione della norma internazionale all’interno
dello Stato, cioè i suoi destinatari. Questo è un problema d’interpretazione che si risolve tenendo presente
che lo scopo da raggiungere è quello di determinare esattamente i limiti entro i quali la norma
internazionale vuole essere applicata.
4.1. Norme internazionali che si indirizzano solo a stranieri.
La norma consuetudinaria che vieta allo Stato costiero di esercitare poteri di vigilanza doganale al di là dei
mari adiacenti alle proprie coste (zona di vigilanza doganale, costituita dal mare territoriale e dalla zona
contigua) sarà applicabile in Italia soltanto nei confronti delle navi straniere perché battenti bandiera di un
altro Stato, ma non nei confronti di navi italiane, nei confronti delle quali la Guardia di Finanza potrà
esercitare i suoi poteri ispettivi anche al di là di dette zone marittime.
Questo perché alle navi di nazionalità dello Stato costiero si applica il principio per il quale quest’ultimo non
incontra limiti nell’esercizio della propria giurisdizione nei confronti delle proprie navi in acque
internazionali.
La Corte costituzionale ha deciso in tal senso nella sua sentenza n. 67 del 22 dicembre 1961.
4.2. Norme internazionali che si applicano a tutti i soggetti dell’ordinamento interno
L’articolo III del GATT (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio internazionale nell’acronimo inglese)
vieta agli Stati contraenti di adottare misure discriminatorie sul piano fiscale a scapito dei prodotti
provenienti da altri Stati ed importati nell’ordinamento di un altro, favorendo così i prodotti nazionali
“similari”.
Il principio di parità del trattamento fiscale è da considerare come una norma self-executing perché non
richiede alcuna attività statale di integrazione, ed è da considerarsi applicabile nei confronti di qualsiasi
soggetto, persona fisica o giuridica, sia cittadino dello Stato che riceve il prodotto importato che straniero.
Per questo il giudice italiano, in una serie di pronunce ha considerato invocabili innanzi ad esso i reclami di
cittadini italiani che, nella loro qualità di importatori di una certa merce dall’estero, siano danneggiati da
eventuali discriminazioni fiscali causate da misure statali (ad esempio leggi interne) che colpiscono il
prodotto importato in misura maggiore rispetto a quello nazionale similare.
4.3. Sfera di applicazione di accordi internazionali adattati in Italia rispetto a Stati terzi
Una volta introdotto nell’ordinamento interno, l’accordo internazionale può risultare applicabile nei
confronti di Stati terzi estranei ad esso ed ai loro cittadini.
Un caso del genere è costituito dall’articolo 77 § 4 del Trattato di pace tra l’Italia e le Potenze alleate e
associate, adattato con il decreto legislativi del 28 novembre 1947, che dispone la rinuncia dell’Italia “a suo
nome e a nome dei cittadini italiani a qualsiasi domanda contro la Germania e i cittadini germanici
precedente alla data dell’8 maggio 1945”.
Questa disposizione contiene norme che possono essere invocate in Italia sia dalla Germania che dai suoi
cittadini, ove si instaurasse una causa davanti ai nostri giudici, per ottenere il risarcimento dei danni
derivanti dalle atrocità commesse durante la Seconda guerra mondiale.
Questo effetto non costituisce un’applicazione del principio dell’inefficacia degli accordi nei confronti dei
terzi, perché quest’ultimo, secondo autorevole dottrina, non viene proprio in rilievo, trattandosi piuttosto
di un effetto che deriva dal fatto che, una volta entrata nel diritto statale, la norma internazionale (nel caso
l’articolo 77 § 4 del Trattato di pace) diventa invocabile davanti ai giudici italiani da parte di tutti i soggetti
che nel nostro ordinamento si possono configurare come destinatari della norma, siano essi cittadini italiani
o lo Stato tedesco o i suoi cittadini.
5. Il rango delle norme internazionali in Italia.
Le norme internazionali acquistano il rango, cioè il valore giuridico formale, dello strumento legislativo di
adattamento. In Italia lo strumento legislativo di adattamento è diverso a seconda che si debbano recepire
norme internazionali consuetudinarie o pattizie.
Nel primo caso interviene una norma costituzionale, mentre nel secondo si procede con l’adozione di atti
ad hoc per ogni accordo concluso dall’Italia. Questo atto ad hoc è denominato “ordine di esecuzione” e,
stando alla migliore dottrina:
“…data l’inesistenza nell’ordinamento italiano di una norma che lo contempli come tipo particolare di atto
di produzione giuridica, deve avere la forma propria delle norme interne la cui creazione, modificazione o
abrogazione è necessaria per compiere l’adattamento al trattato in relazione al quale è emanato. (…) Perciò
(…) se il trattato importa per lo Stato obblighi che esigono la emanazione o l’abrogazione di norme
giuridiche legislative, l’atto che contiene l’ordine di esecuzione dovrà essere emanato sotto forma di legge,
è cioè di competenza degli organi legislativi; se, invece, il trattato internazionale crea obblighi per
l’adempimento dei quali si esigono nell’ordinamento interno delle norme che hanno carattere
regolamentare, l’ordine di esecuzione potrà essere emanato dal potere esecutivo nella sua competenza ad
emanare regolamenti. Per la stessa ragione, essendo rilevante nell’ordinamento italiano la distinzione tra
leggi costituzionali e leggi ordinarie, quando un trattato crei obblighi internazionali che implichino
modificazioni di norme costituzionali e deroghe ad esse, l’ordine di esecuzione, per essere
costituzionalmente idoneo a produrre tale effetto, dovrebbe essere adottato con legge costituzionale…”.
6. Il rango delle norme internazionali convenzionali alla luce dell’articolo 117 comma 1 Cost.
L’articolo 117 comma 1 della Costituzione dispone come si è detto che “la potestà legislativa è esercitata
dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali”. Di conseguenza l’accordo internazionale avrà un rango
superiore alle altre leggi ordinarie italiane, in ragione del fatto che una norma costituzionale, l’articolo 117
comma 1, impone al legislatore italiano di esercitare le sue competenze rispettando, tra l’altro, il diritto
internazionale.
Poiché la supremazia delle norme consuetudinarie, e più in generale del diritto internazionale generale non
scritto (princìpi generali di diritto e jus cogens) è già garantita, almeno in via di principio, da un’altra norma
costituzionale, l’art. 10 comma 1, sembra plausibile limitare gli effetti dell’art. 117 comma 1 Cost. sul rango
delle norme internazionali adattate in Italia agli accordi e alle fonti previste da accordi.
Questo argomento sarà approfondito nella lezione relativa all’adattamento dell’ordinamento italiano agli
accordi internazionali ed alle fonti di terzo grado.
L’ADATTAMENTO AL DIRITTO CONSUETUDINARIO
1. L’articolo 10 della Costituzione italiana
Il meccanismo di adattamento del diritto italiano al diritto internazionale generale è previsto dall’art. 10
della Cost. italiana, che dispone: “L’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute”.
Questo significa che l'art. 10 Cost. attua un rinvio speciale all’ordinamento internazionale, che venne
autorevolmente definito come “trasformatore permanente” dal Perassi, presentando i caratteri
dell’automatismo e della permanenza, e permette quindi di recepire solo quelle norme consuetudinarie
effettivamente vigenti nel momento in cui sono richiamate all’interno dello Stato.
Come è ben illustrato da una Autrice, l’articolo 10 comma 1 Cost.:
“…legittima l’operatività “automatica”, nell’ambito dell’ordinamento italiano, delle norme internazionali
non scritte (…) nel loro contenuto autentico e nel significato loro proprio nell’ordinamento nel quale esse si
formano e progressivamente evolvono…”.
L’effetto di questo automatismo conferisce, per la stessa dottrina:
“…al giudice (e, più in generale a tutti gli organi preposti all’applicazione del diritto nel nostro ordinamento)
rilevare, caso per caso, il contenuto e la portata delle norme consuetudinarie in vigore e valutare,
conseguentemente, in quale misura il diritto interno debba modificarsi, allo scopo di adeguarsi a quanto in
esse previsto…”.
2. Le norme internazionali oggetto di adattamento ex articolo 10 Cost.
L’articolo 10 della Costituzione funzione quale meccanismo di adattamento di tipo speciale (mediante
rinvio) esclusivamente rispetto alle norme del diritto internazionale generali, ossia aventi un’efficacia erga
omnes, per tutti i soggetti dell’ordinamento internazionale.
Tali possono considerarsi soltanto le norme consuetudinarie non scritte, che, come abbiamo visto nelle
lezioni precedenti, si possono individuare nelle norme consuetudinarie “ordinarie”, nel principi generali di
diritto riconosciuti dalle nazioni civili, e nelle norme appartenenti allo jus cogens (norme imperative dotate
del carattere dell’inderogabilità).
Secondo alcuni autori sarebbero adattate dall’articolo 10 anche le consuetudini particolari e locali.
La dottrina maggioritaria esclude invece che l’articolo 10 comma 1 si estenda anche all’adattamento dei
trattati per effetto dell’introduzione mediante tale disposizione costituzionale del principio consuetudinario
pacta sunt servanda.
3. Il rango delle norme internazionali adattate con l’articolo 10 Cost.
Il rango delle norme internazionali generali all’interno degli ordinamenti statali varia con il variare degli
strumenti di adattamento predisposti da ciascuno Stato.
Il recepimento delle consuetudini internazionali avviene nel nostro Paese con norma costituzionale e quindi
le consuetudini in Italia hanno rango (valore) tendenzialmente costituzionale.
Questo status delle norme internazionali generali nell’ordinamento italiano deve poi coordinarsi con le
norme italiane, sia di rango costituzionale che di rango ordinario, come le leggi, gli atti del Governo aventi
forza di legge e gli atti legislativi degli enti territoriali.
Il problema dei rapporti tra norme internazionali e norme interne – che si pone con riferimento a tutte le
norme internazionali, consuetudinarie, convenzionali ed alle fonti di terzo grado -, viene affrontato in
questa lezione, esclusivamente rispetto ai rapporti tra norme internazionali generali adattate dall’articolo
10 Cost. e norme interne, sia di rango costituzionale che ordinario.
4. I rapporti tra norme internazionali e le norme italiane di rango ordinario
Il problema dei rapporti delle norme del diritto internazionale generale con le norme interne
dell’ordinamento si pone su di un duplice piano. Si possono così distinguere, a seconda del rango della
norma internazionale adattata e della norma interna eventualmente in conflitto con la prima:
- rapporti tra norme di pari rango
- rapporti tra norme internazionali e interne di ranghi diversi.
Per quanto riguarda i rapporti delle norme interne ordinarie con le norme consuetudinarie internazionali,
poiché queste ultime assumono il rango dello strumento di adattamento, l’articolo 10 Cost. che è una
norma costituzionale, esse assumeranno in Italia rango “tendenzialmente” costituzionale, e quindi
superiore alle leggi interne ordinarie.
Questo significa che una legge italiana ordinaria contraria ad una norma consuetudinaria immessa in Italia
può essere oggetto di dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte costituzionale per indiretta
violazione dell’articolo 10.
4.1. Il caso A.P.
La Corte Costituzionale italiana, con sentenza n. 131 del 15 maggio 2001 ha affermato l’incostituzionalità di
una normativa italiana che prevedeva l’obbligo di leva (servizio militare) anche nei confronti di cittadini di
altri Stati, in quanto in conflitto con l’articolo 10 comma 1 Cost. che introduce nel nostro ordinamento la
norma di diritto internazionale consuetudinario che vieta agli Stati di imporre obblighi militari a cittadini
stranieri.
Nel caso specifico la Corte viene adita dalla Corte militare di appello con ordinanza del 7 aprile 2000 con la
quale chiede di verificare la legittimità costituzionale di una disposizione del d.p.r. n. 237 del 14 febbraio
1964 relativa alla Leva ed al reclutamento obbligatorio in combinazione con l’articolo 8 della legge italiana
sulla cittadinanza n. 555 del 13 giugno 1912, poiché dalla loro interpretazione si desume l’obbligo della leva
per i coloro che abbiano perduto la cittadinanza italiana e acquistato la cittadinanza di un altro Stato.
Il signor A.P. aveva perduto nel caso specifico la cittadinanza italiana e acquistato quella canadese dal 1988
ma il Tribunale militare di Padova lo aveva imputato del reato di mancanza alla chiamata conseguente
all’assenza dal servizio militare, condannandolo con due distinte pronunce, una relativa alla mancanza alla
chiamata per il periodo dal 22 gennaio 1985 al 31 maggio 1994, la seconda invece rispetto al periodo fini
all’8 luglio 1998.
Le sentenze erano oggetto di un procedimento di revisione ai sensi degli articoli 630 e 633 del codice di
procedura penale e il giudice adito, la Corte militare di appello, decideva di sospendere il procedimento e di
sollevare la questione della costituzionalità delle predette disposizioni italiane con il diritto internazionale
consuetudinario immesso in Italia mediante l’articolo 10 comma 1 Cost.
La Corte costituzionale considera fondata la questione relativa all’articolo 10 e richiamandosi ad una sua
precedente pronuncia ed estendendone gli effetti al caso posto alla sua attenzione, dichiara
l’incostituzionalità delle disposizioni italiane per contrasto con la norma consuetudinaria che vieta
d’imporre obblighi militari a cittadini stranieri, applicabile come norma di rango superiore per effetto del
rinvio operato dall’articolo 10 Cost.
5. I rapporti tra norme internazionali generali e norme costituzionali
Le norme consuetudinarie internazionali immesse nel nostro ordinamento mediante l’articolo 10 in che
rapporti si pongono con le altre norme costituzionali, in particolare con quelle che affermano i diritti e le
libertà fondamentali?
La migliore dottrina afferma che, in linea di principio, la norma di origine internazionale dovrebbe prevalere
sulle altre norme costituzionali per effetto dell’applicazione del principio interpretativo di specialità, riferito
al procedimento di formazione delle norme internazionali e di conseguenza alla volontà, espressa
dall’articolo 10, dello Stato italiano di voler garantire il rispetto del diritto internazionale generale
all’interno del nostro ordinamento.
Può tuttavia darsi il caso che una norma consuetudinaria si ponga in conflitto con una norma costituzionale
che tutela un valore fondamentale: varrà sempre il principio di specialità o è da ritenersi che di fronte a
certi valori il diritto interno di pari rango debba prevalere?
Vediamo come rispondono a questa domanda la dottrina e la prassi giudiziaria italiana.
5.1. L’opinione della dottrina
Gli studiosi più autorevoli sostengono la tesi secondo la quale, nell’ipotesi in cui una norma consuetudinaria
immessa nel nostro ordinamento per effetto dell’articolo 10 comma 1 si riveli in conflitto con un’altra
disposizione interna di pari rango che tuteli dei valori fondamentali, quest’ultima debba prevalere.
Si parla così di “clausola di salvaguardia dei valori essenziali che ispirano la Costituzione” ; oppure di
“cardini essenziali del nostro ordinamento, ossia quei principi che il Costituente ha voluto considerare
coessenziali all’attuale assetto costituzionale, assolutamente imprescindibili e quindi immodificabili” .
5.2. La posizione della giurisprudenza italiana
Nella prassi giudiziale, quasi tutti i casi in cui si è posto un problema di compatibilità tra le norme
consuetudinarie immesse con l’articolo 10 comma 1 Cost. ed altre norme costituzionali, riguardano i
rapporti tra l’articolo 10 comma 1 e l’articolo 24 Cost. In particolare, il conflitto spesso riguarda l’articolo 10
nella misura in cui adatta la norma consuetudinaria che riconosce l’immunità degli Stati stranieri e degli
agenti diplomatici dalla giurisdizione civile, in quanto ritenuta incompatibile con il principio fondamentale
del diritto alla tutela giurisdizionale dei propri diritti e interessi legittimi, sancito dall’articolo 24 della
Costituzione. Su questi rapporti si sono pronunciate sia la Corte costituzionale che la Corte di Cassazione.
5.3. Il caso Russel c. Immobiliare Soblin s.r.l.
I fatti del caso riguardavano la mancata corresponsione dei canoni di affitto di un immobile da parte del
Colonnello Russel, addetto militare presso l’Ambasciata canadese a Roma, rivendicata dalla società italiana
Immobiliare Soblin s.r.l.
Il Russel, godendo dello status di agente diplomatico straniero nel nostro Paese, contestava la giurisdizione
del giudice italiano a conoscere della controversia, invocando la norma di diritto internazionale
consuetudinario che riconosce l’immunità sia degli Stati stranieri che dei loro agenti diplomatici dalla
giurisdizione civile, immessa in Italia dall’articolo 10 Cost.
La società italiana rivendicava a sua volta il diritto fondamentale al ricorso al giudice garantito dall’articolo
24 della Costituzione
La Corte costituzionale imposta correttamente il problema come relativo ai rapporti tra norme di rango
costituzionale in conflitto, ma, nel caso specifico, lo risolve nel senso della prevalenza della norma
sull’immunità, ricorrendo al principio della specialità del diritto internazionale rispetto al diritto interno nei
termini che seguono:
“…Ritiene la Corte che il denunciato contrasto sia soltanto apparente e risolubile applicando il principio
della specialità. Invero le deroghe alla giurisdizione derivanti dall’immunità diplomatica non sono
incompatibili con le norme costituzionali invocate, in quanto necessarie a garantire l’espletamento della
missione diplomatica, istituto imprescindibile del diritto internazionale, dotato anche di garanzia
costituzionale…”.
La Corte costituzionale però prosegue nel suo ragionamento e, dopo aver…salvato le norme
consuetudinarie sull’immunità trova comunque modo di stabilire un importante principio per il quale in
caso di contrasto tra norme internazionali immesse nell’ordinamento mediante l’articolo 10 comma 1 Cost.
e principi fondamentali dell’ordinamento italiano, saranno questi ultimi a prevalere, limitando però
significativamente la portata di questo principio circoscrivendolo alle consuetudini formatesi
successivamente all’entrata in vigore della Costituzione e, quindi, escludendo le norme sulle immunità.
Riportiamo il passo rilevante della sentenza, criticato da diversi autori:
“…Occorre comunque affermare, più in generale, per quanto attiene alle norme di diritto internazionale
generalmente riconosciute che venissero ad esistenza dopo l’entrata in vigore della Costituzione, che il
meccanismo di adeguamento automatico previsto dall’articolo 10 della Costituzione non potrà in alcun
modo consentire la violazione di principi fodamentali del nostro ordinamento costituzionale, operando in
un sistema costituzionale che ha i suoi cardini nella sovranità popolare e nella rigidità della Costituzione…” .
Si può definire questa tesi, oggi superata dalla sentenza n. 238/2014 della stessa C. Cost., come "teoria
zoppa dei controlimiti".
5.4. Il caso dell’incidente del Cermis
Questa distinzione tra consuetudini precedenti e successive all’entrata in vigore della Costituzione è stata
ripresa in una sentenza della Corte di Cassazione, che ancora una volta l’ha utilizzata per “salvare” le norme
internazionali sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile.
Il caso riguardava un episodio tristemente famoso, occorso nel 1998 in Italia vicino Cavalese dove un caccia
della Marina statunitense durante un volo di addestramento a bassa quota recideva i cavi di una teleferica
che, precipitando da un’altezza di centinaia di metri, causava la morte di venti persone.
A seguito dell’incidente la sezione Trasporti (FIT) di un sindacato italiano (CGIL), la FILT-CGIL - Trento, adiva
il Tribunale di Trento contro gli Stati Uniti d’America chiedendo di imporre agli Stati Uniti, in via principale,
la cessazione dei voli di addestramento di aerei militari statunitensi sopra il territorio della Provincia
autonoma di Trento, in quanto essi avrebbero costituito un grave pericolo per la vita e l’integrità fisica e la
salute delle persone; in subordine, chiedendo di imporre agli USA di limitare il sorvolo della Provincia entro
i limiti necessari ad assicurare la tutela di tali valori per i lavoratori addetti al settore dei trasporti, ed in
particolare per quelli addetti agli impianti a fune .
Gli Stati Uniti prima e il Governo italiano poi, nella persona della Presidenza del Consiglio dei ministri,
sollevavano eccezione di difetto di giurisdizione appellandosi alle norme internazionali consuetudinarie
sull’immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile, applicabili in Italia per effetto dell’articolo 10
comma 1 Cost.
La FILT-CGIL-Trento, dal canto suo, pur riconoscendo il diritto degli USA fondato sul Trattato NATO e accordi
di esecuzione, d’insediare basi militari, riteneva che fossero da far prevalere il diritto dei singoli individui (e
delle organizzazioni che tutelano i loro interessi) ad agire in giudizio e chiedevano quindi di affermare la
giurisdizione del giudice italiano.
La questione era portata, come si è detto, dagli USA e dal Governo italiano davanti alla Corte di Cassazione
con regolamento preventivo di giurisdizione, e la Suprema Corte accoglieva le eccezioni sollevate e
dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice italiano per effetto dell’applicazione dell’articolo 10 comma
1 Cost., nella misura in cui immette nell’ordinamento italiano la norma consuetudinaria relativa
all’immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione.
In particolare, la Cassazione riconosce che tale norma presenta un contenuto relativo (cd. teoria
dell’immunità ristretta) e non assoluto, dovendosi distinguere i casi in cui lo Stato straniero agisce
nell’esercizio di poteri sovrani (acta jure imperii) soggetti all’immunità, dai casi nei quali lo Stato stranieri
agisce in veste di privato mediante il compimento di attività di natura commerciale (acta jure gestionis),
casi nei quali è invece possibile escludere l’immunità ed affermare la giurisdizione del giudice dello Stato
ospite nei confronti dello Stato straniero.
Tuttavia, la Corte considera i voli di addestramento di velivoli alla guerra in funzione difensiva, svolti dagli
aerei statunitensi in Italia come atti sovrani, cioè jure imperii e perciò coperti da immunità. Passando poi a
considerare i rapporti tra la norma consuetudinaria e la lesione di diritti fondamentali degli individui, la
Corte riprende la sua precedente giurisprudenza che distingue tra consuetudini antecedenti e successive
all’entrata in vigore della Costituzione e afferma:
“…La regola consuetudinaria così ricostruita preesisteva all’entrata in vigore della Costituzione italiana, ed
ha assunto valore cogente nel nostro ordinamento in virtù della clausola di adeguamento automatico alle
norme di diritto internazionale generalmente riconosciute dettata dall’articolo 10 comma 1 Cost…”
e prosegue, più avanti:
“…Ne deriva che quella regola è stata recepita nel nostro ordinamento nella sua interezza e che per essa
non si pone, né si può porre, la questione della compatibilità con il nostro sistema costituzionale.
Tanto alla stregua del principio, affermato dal giudice delle leggi nella sentenza 12 giugno 1979 n. 48,
secondo cui, per le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute anteriori alla data d’entrata
in vigore della Costituzione, la disposizione di cui al 1° comma dell’articolo 10 della Carta costituzionale ne
determina l’applicazione automatica piena e senza limiti; e il problema della coerenza delle omologhe
norme con i principi fondamentali della Costituzione (…) si pone solo per le norme che siano venute ad
esistenza dopo quella data” .
In dottrina sono stati espressi diversi commenti critici nei confronti di questa decisione, con i quali si
stigmatizza il criterio…cronologico utilizzato dal giudice italiano, quando sarebbe stato più opportuno
operare un bilanciamento degli interessi degli Stati al rispetto della loro sovranità e degli interessi dei
singoli individui alla tutela di valori quali i diritti umani e le libertà fondamentali, riconoscendosi ad
esempio, da parte del giudice italiano, almeno il diritto al pagamento di una somma di risarcimento per
ogni famiglia delle vittime da parte degli USA quale riparazione per la violazione del diritto alla vita .
5.5. Il caso Ferrini
Il caso Ferrini costituisce il primo esempio di mutamento di giurisprudenza della Corte di Cassazione italiana
rispetto al problema dei rapporti tra la norma consuetudinaria sull’immunità degli Stati stranieri dalla
giurisdizione civile e la tutela di valori fondamentali dell’ordinamento internazionale, quali le norme di jus
cogens relative alla tutela della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona, tutte immesse in Italia
dall’articolo 10 comma 1 Cost.
Essa rappresenta infatti un importante precedente sotto il profilo degli effetti delle norme di jus cogens
immesse in Italia mediante l’articolo 10 comma 1 Cost., nella gerarchia delle fonti nell’ordinamento
internazionale, poiché si afferma espressamente che lo jus cogens in quanto superiore di rango, prevale
sulle consuetudini “ordinarie” alle quali apparterrebbe invece, secondo la Cassazione, la norma che
riconosce l’immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile.
Ai fini della presente lezione che riguarda i rapporti tra norme internazionali e costituzionali di pari rango, la
pronuncia si rivela interessante in quanto, risolvendo l’antinomia tra norme tutte internazionali e tutte
immesse in virtù dell’articolo 10 nell’ordinamento italiano, indirettamente risolve l’antinomia esistente
sotto il profilo dei rapporti tra l’articolo 10 Cost., che immette la norma consuetudinaria sull’immunità degli
Stati stranieri dalla giurisdizione, e l’articolo 24, che riconosce il diritto fondamentale alla tutela
giurisdizionale.
Il signor Ferrini conveniva in giudizio la Repubblica federale di Germania davanti al Tribunale di Arezzo
chiedendo il risarcimento dei danni da lui subiti a seguito della sua cattura da parte delle truppe tedesche,
per essere stato deportato in Germania, dove aveva dovuto svolgere lavori forzati per l’industria bellica
tedesca.
La Repubblica federale di Germania eccepiva l’insussistenza della giurisdizione del giudice italiano sulla base
della norma consuetudinaria che riconosce l’immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile.
Sia il Tribunale di Arezzo che la Corte di appello di Firenze, successivamente adita, rigettavano la domanda
del Ferrini applicando la norma consuetudinaria che riconosce l’immunità agli Stati per atti iure imperii,
quali erano, secondo i giudici italiani, da considerarsi quelli invocati dal ricorrente, in quanto atti compiuti
dallo Stato straniero nell’esercizio della sua sovranità.
Ferrini ricorreva allora alla Cassazione chiedendo di cassare la sentenza d’appello contestando, con il
quarto motivo, la prevalenza che il giudice italiano aveva attribuito all’articolo 10 e quindi alla norma
consuetudinaria sull’immunità, rispetto ad altre norme di diritto internazionale cogente, poste a tutela di
valori fondamentali quali il rispetto della dignità umana e dei diritti inviolabili delle persone. Le norme di jus
cogens, secondo Ferrini, avrebbero dovuto ritenersi prevalenti per il principio gerarchico, per cui la norma
di rango superiore si applica in caso di conflitto con una di rango inferiore.
La Corte di Cassazione ritiene fondato il ricorso, e passa perciò ad esaminare il contenuto della norma
consuetudinaria sull’immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile, operando un’interpretazione
sistematica delle norme di diritto internazionale generale che vengono in rilievo e dei valori che ognuna di
esse tutela.
La Corte di Cassazione giunge così ad effettuare, stando alla migliore dottrina, che riporta espressioni della
sentenza:
“…un vero e proprio bilanciamento tra due princìpi di fondo dell’ordinamento internazionale; e cioè, il
principio di «“sovrana uguaglianza” degli Stati, cui si ricollega il riconoscimento dell’immunità statale dalla
giurisdizione civile straniera», e quello del «rispetto dei diritti inviolabili della persona umana», sotteso
invece dalla disciplina dei crimini venuti in rilievo…”.
La Corte esprime chiaramente l’esigenza che norme diverse dell’ordinamento internazionale, tutte aventi
carattere generale e sottendendo valori fondamentali, quali quello dell’uguaglianza degli Stati e quello della
tutela dei diritti inviolabili della persona, siano interpretate sistematicamente ai fini della risoluzione di
eventuali antinomie:
“…Le norme giuridiche non vanno infatti interpretate le une separatamente dalle altre, poiché si
completano e si integrano a vicenda, condizionandosi reciprocamente nella loro applicazione…”.
E nella misura in cui la norma sull’immunità degli Stati:
“… ostacola la tutela di valori, la cui protezione è da considerare invece, alla stregua di tali norme e princìpi,
essenziale per l’intera Comunità internazionale, (…omissis…) non può esservi dubbio che l’antinomia debba
essere risolta dando la prevalenza alle norme di rango più elevato…”,
riferendosi, rispetto a queste ultime, al diritto internazionale cogente che tutela la dignità umana e i diritti
inviolabili della persona. Così la Suprema Corte cassa la sentenza della Corte d’appello di Firenze che
accordava l’immunità alla Germania, rinviando a questo giudice per la decisione di merito.
La decisione, sebbene condivisibile nel risultato, è apparsa ad alcuni contraddittoria nell’argomentazione
che l’ha portata a negare l’applicabilità della norma consuetudinaria sull’immunità quando lo Stato
straniero sia chiamato a rispondere di crimini internazionali. La illustreremo meglio nel prossimo paragrafo.
5.6. La giurisprudenza successiva della Cassazione sui rapporti tra immunità e crimini internazionali.
La Corte di Cassazione, in una serie di pronunce successive al caso Ferrini, ha pienamente confermato e
ribadito il nuovo indirizzo, nei termini che seguono:
“… il principio consuetudinario di immunità dalla giurisdizione civile dello Stato straniero (volto a favorire le
relazioni internazionali con il rispetto delle reciproche sovranità) coesiste, dunque, nell'ordinamento
internazionale, con l'altro parallelo principio, di pari portata generale, per cui i crimini internazionali
"minacciano l'umanità intera e minano le fondamenta stesse della coesistenza tra i popoli"; (…omissis…);”
E quindi ribadendo:
“… - che l'innegabile "antinomia" tra i riferiti principi - i quali risultano entrambi automaticamente recepiti
dal nostro ordinamento per effetto della norma (di produzione) di cui all'art. 10 Cost., nel momento in cui
questi vengano, come nella specie, contemporaneamente, ed antagonisticamente, in rilievo, non può
altrimenti risolversi - di ciò queste Sezioni unite restano persuase - che, sul piano sistematico, dando
prevalenza alle norme di rango più elevato (…omissis…);
- che, infatti, come già sottolineato nella sentenza n. 5044 del 2004 di questa Corte, il rispetto dei diritti
inviolabili della persona ha assunto, anche nell'ordinamento internazionale, il ruolo di principio
fondamentale, per il suo contenuto assiologico di meta valore;
- che, nel ribadire ora le conclusioni cui sono già pervenute con il ricordato proprio precedente, queste
Sezioni unite sono consapevoli di contribuire così alla emersione di una regola conformativa della immunità
dello Stato estero, che si ritiene comunque già insita nel sistema dell'ordinamento internazionale;
- che, del resto, come anche sottolineato dalla dottrina internazionalistica più attenta al tema che ne
interessa, sarebbe a dir poco "incongruo" che la giurisdizione civile, che l'ordinamento internazionale già
consente di esercitare nei confronti dello Stato straniero in caso di violazioni, ad esso addebitabili, di
obbligazioni negoziali, resti, invece, esclusa a fronte di ben più gravi violazioni, quali quelle costituenti
crimini addirittura contro l'umanità, e che segnano anche il punto di rottura dell'esercizio tollerabile della
sovranità;
- che tutto ciò conferma che la Repubblica Federale di Germania non ha il diritto di essere riconosciuta,
nella presente controversia, immune dalla giurisdizione civile del Giudice italiano - che va pertanto
dichiarata - anche in ragione del fatto che la condotta illecita si è verificata anche in Italia…”.
Parte della dottrina propone alcune riflessioni critiche sullo svolgimento dell’argomentazione della
Suprema Corte, esprimendo perplessità riguardo la prevalenza di certe norme, quali quelle che vietano i
crimini internazionali, presumibilmente appartenenti alla categoria delle norme cogenti, su altre, come
quelle relative alle immunità, considerate norme consuetudinarie ordinarie.
Focarelli individua nel pensiero della Corte, a partire dalla decisione nel caso Ferrini in parte ripresa dalle
sentenze successive, alcune incongruenze.
In un primo momento, infatti, la Corte afferma che non si può affermare con certezza né l’esistenza della
norma che afferma l’immunità degli Stati anche se convenuti in giudizio con l’accusa di aver commesso
crimini internazionali; né l’opposta norma che invece nega l’immunità in quest’ultimo caso. In una fase
successiva della decisione però la Corte afferma che sia il principio che riconosce l’immunità sia quello che
la nega in caso di commissione di crimini internazionali coesistono, e sarebbero entrambe introdotti
nell’ordinamento italiano per il tramite dell’articolo 10 della Costituzione.
Delle due l’una: o le due norme non esistono oppure esistono: prima contraddizione.
Ma l’affermazione della loro co-esistenza è anch’essa, secondo Focarelli, una contraddizione: se la maggior
parte della Comunità internazionale ritiene di dover riconoscere l’immunità anche in caso di Stati chiamati
a rispondere davanti al giudice di un altro Stato di crimini internazionali, la stessa maggioranza non potrà al
contempo affermare come esistente la norma contraria, che invece nega l’immunità in casi del genere.
Di qui risulterebbe anche viziata, per lo studioso, la conseguente affermazione dell’esistenza di norme di
rango superiore, cogente, che la Corte trae da quest’ultima constatazione della coesistenza dei princìpi:
l’uno che riconosce l’immunità e l’altro che la nega in caso di crimini internazionali.
Nel ragionamento della Corte, infatti, l’articolo 10 della Costituzione introdurrebbe i due princìpi in
posizione antinomica l’uno rispetto all’altro. Secondo il giudice italiano l’antinomia non potrebbe che
risolversi a favore della norma di rango più elevato che non è quella sull’immunità – derogabile in via
convenzionale – ma è quella che tutela la persona umana e vieta i crimini internazionali, in quanto principio
di carattere cogente.
Focarelli ben dimostra tuttavia, in diversi contributi, che l’attuale esistenza di norme cogenti, come
individuazione di conseguenze speciali in caso di violazione di certe norme sentite come espressive di valori
fondamentali non è assolutamente provata dalla prassi.
Piuttosto egli attribuisce un valore promozionale allo jus cogens, il quale dovrebbe collocarsi più che:
“… nella statica della gerarchia formale fra fonti, più propriamente nella dinamica del diritto internazionale,
e cioè nel tentativo da parte dei giudici di un singolo stato di trasformare il diritto internazionale vigente in
una direzione più conforme a ceri valori sentiti, a torto o a ragione, come fondamentali e indefettibili, tali
da poter (e dover) essere accolti anche dai giudici e da altre autorità degli altri Stati così da dar luogo
eventualmente in futuro ad una nuova norma (o ad una nuova eccezione ad una norma preesistente) di
diritto internazionale consuetudinario…” .
Sarebbe stato meglio ammettere semplicemente che quella esistente è attualmente la prima consuetudine,
perché in tal senso è orientata quasi tutta la giurisprudenza internazionale ed interna, ad eccezione del
caso Ferrini; e poi affermare che la decisione nel caso Ferrini si sarebbe posta come un contributo della
prassi statale in senso evolutivo della consuetudine esistente, al fine di una sua modifica in un senso
maggiormente conforme ai valori fondamentali sentiti dalla comunità internazionale, relativi alla tutela
della persona umana.
Secondo Focarelli più correttamente dovrebbe ritenersi che la norma consuetudinaria che impone di
riconoscere l’immunità per atti jure imperii anche quando siano catalogabili come crimini internazionali
esiste attualmente ma è in via di erosione, mentre la norma consuetudinaria che nega l’immunità in caso lo
Stato sia chiamato in giudizio per rispondere di crimini internazionali è in via di formazione e che il giudice
italiano si propone proprio di contribuire all’evoluzione della norma.
6. Clausola di salvaguardia dei valori fondamentali dell’ordinamento italiano come limite all’adattamento
del diritto internazionale generale ex articolo 10 (1) Cost.: la cd. teoria dei controlimiti.
Come si è appena visto, quando si pongono problemi di applicazione del diritto internazionale
consuetudinario essi riguardano il più delle volte il contrasto tra il regime delle immunità e il diritto
fondamentale alla tutela giurisdizionale, espressi dall’antinomia tra articolo 10 comma 1 e 24 Cost.
Abbiamo illustrato la giurisprudenza della Corte costituzionale nei casi Russel e Incidente della funivia del
Cermis, concordando con le opinioni critiche circa l’escamotage usato dalla Corte Costituzionale per
“salvare” il regime delle immunità di distinguere tra consuetudini formatesi prima e dopo l’entrata in vigore
della Costituzione repubblicana.
Abbiamo poi illustrato la giurisprudenza non omogenea dei giudici italiani sul riconoscimento o meno
dell’immunità in caso di gravi violazioni dei diritti fondamentali della persona e della commissione di veri e
propri crimini internazionali, ricavandone la conclusione che nella maggior parte di essi il giudice interno ha
riconosciuto l’immunità dello Stato straniero o dell’organo-individuo dalla giurisdizione, cambiando
orientamento a partire dal caso Ferrini e con la giurisprudenza successiva.
Vediamo adesso come, in una recente pronuncia, la Corte di Cassazione abbia riconosciuto, proprio con
riferimento alle norme sulle immunità, la possibilità che il loro ingresso nell’ordinamento italiano sia
impedito proprio in applicazione della tesi dottrinale che afferma l’esistenza di una clausola di salvaguardia
dei diritti fondamentali.
Subito dopo riferiremo dell’applicazione di questa tesi per impedire l’ingresso nel nostro ordinamento di
norme consuetudinarie diverse da quelle relative all’immunità, illustrando il caso Baraldini.
6.1. La sentenza della Corte di Cassazione (I Sez.penale) n. 1072 del 21 ottobre 2008
Una più recente sentenza della nostra Suprema Corte ha, a mio avviso, portato un contributo importante
nella complessa vicenda dei rapporti tra articolo 10 (1) e 24 Cost., nella misura in cui siano coinvolte le
norme sulle immunità e sui diritti fondamentali.
In questa materia, infatti, stando anche alle posizioni assunte dal giudice italiano, si intersecano due diversi
ma connessi problemi:
- da una parte occorre infatti ricostruire il contenuto della norma consuetudinaria sull’immunità degli
Stati e di quella che impone la punizione dei crimi internazionali all’interno dell’ordinamento
internazionale, in base all’articolo 10 comma 1 Cost.;
- dall’altra occorre stabilire i rapporti tra l’articolo 10 (1) della Costituzione e i principi costituzionali
fondamentali, anch’essi senz’altro ponenti un divieto di commettere crimini internazionali e che, stando
alla migliore dottrina (Conforti, Cassese), una clausola tacita di salvaguardia rende senz’altro prevalenti
sulle norme internazionali confliggenti.
In attesa del consolidarsi della norma consuetudinaria sulla cosiddetta immunità condizionata, - che
esclude che l’immunità possa riconoscersi a quegli Stati autori di crimini internazionali -, ed in presenza
quindi di una norma internazionale che imporrebbe di riconoscere l’immunità anche se lo Stato straniero
convenuto in giudizio debba rispondere di crimini internazionali, è bene comunque fare affidamento sulla
soluzione “internistica” in base alla quale:
“… Anche a non volere tenere conto delle diverse posizioni emerse in dottrina a proposito del rango delle
norme di adattamento di cui all'art. 10 Cost., comma 1, deve sottolinearsi che anche gli autori favorevoli a
ricondurle, almeno in parte, nel novero delle norme costituzionali ammettono che l'adattamento "deve
essere bensì costante e completo, ma a condizione di non portare ad infrangere i cardini essenziali del
nostro ordinamento, e cioè quei principi che il costituente ha voluto considerare coessenziali all'attuale
assetto costituzionale, assolutamente imprescindibili e quindi immodificabili". Ed è estremamente
significativo che tra questi principi costituzionali ritenuti non derogabili ad opera delle norme internazionali
generalmente riconosciute vengano compresi i diritti fondamentali della persona umana…”.
La Corte di Cassazione afferma sostanzialmente che l’esistenza della clausola “interna” di salvaguardia
esclude l’ingresso di norme internazionali incompatibili con i princìpi materiali fondamentali
dell’ordinamento italiano, tra i quali va ricompreso il divieto di commettere crimini internazionali ed il
corrispondente diritto per le vittime ed i loro aventi causa ad ottenere il risarcimento del danno. Si afferma
perciò, con riferimento a norme diverse da quella sull'immunità degli Stati dalla giurisdizione civile, la teoria
dei controlimiti.
6.1. Il caso Silvia Baraldini
Questo episodio della prassi non riguarda il conflitto tra le norme sulle immunità e il diritto fondamentale
alla tutela giurisdizionale come i precedenti illustrati, e, significativamente, è uno dei pochi nel quale è
possibile rinvenire, sia pure in un passo incidentale, un atteggiamento diverso della Corte Costituzionale, di
maggiore apertura per la teoria dei controlimiti e la possibile prevalenza di norme costituzionali interne che
garantiscano diritti fondamentali della persona su norme internazionali, anche consuetudinarie.
Il caso riguardava il trasferimento in Italia di una persona, Silvia Baraldini, condannata negli Stati Uniti a
pena detentiva, ai fini della prosecuzione della carcerazione nello Stato di cittadinanza della condannata. In
base all’accordo intervenuto tra le autorità italiane e statunitensi, di attuazione della Convenzione di
Strasburgo del 1983 sul trasferimento delle persone condannate, le autorità italiane si impegnavano a
tenere in carcere la Baraldini, nonostante ella fosse seriamente ammalata e nonostante la legge italiana
(l’articolo 147 comma 1 n. 2 del codice di procedura penale) consentisse all’autorità giudiziaria la facoltà del
rinvio dell’esecuzione della pena in presenza di condizioni di grave infermità fisica del condannato.
Sul caso interveniva la Corte costituzionale, adita dal Tribunale di sorveglianza di Roma che chiedeva
all’organo di stabilire se l’ordine di esecuzione della Convenzione di Strasburgo, consentendo deroghe
all’applicazione dell’articolo 147 comma 1 n. 2 c.p.p., che tutela un diritto fondamentale della persona,
fosse compatibile, tra l’altro, con l’articolo 32 della Costituzione che tutela il diritto fondamentale alla
salute ed all’integrità fisica.
Sebbene si trattasse di un problema di rapporti tra norme costituzionali e leggi ordinarie di esecuzione di
trattati, la Corte nel paragrafo 3.1. della sua sentenza di infondatezza della questione, ha modo di
pronunciarsi, incidentalmente, anche sui rapporti tra norme consuetudinarie e norme costituzionali nei
termini che seguono:
“…L’orientamento di apertura dell’ordinamento italiano nei confronti sia delle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute, sia delle norme internazionali convenzionali incontra i limiti
necessari a garantire l’identità e quindi, innanzitutto, i limiti derivanti dalla Costituzione.
Ciò vale perfino nei casi in cui la Costituzione stessa offre all’adattamento al diritto internazionale uno
specifico fondamento, idoneo a conferire alle norme introdotte nell’ordinamento italiano un particolare
valore giuridico. I “principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale” e i “diritti inalienabili della
persona” costituiscono infatti il limite all’ingresso tanto delle norme internazionali generalmente
riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico si conforma secondo l’articolo 10, 1° comma della
Costituzione (sentenza n. 48 del 1979); quanto delle norme contenute in trattati…” .
6. Clausola di salvaguardia dei valori fondamentali dell’ordinamento interno e tutela per equivalente.
Ora occorre domandarsi se la clausola di salvaguardia, frutto della teoria dei controlimiti, così come viene
proposta dalla dottrina più qualificata, ove la sua applicazione fosse accettata dalla giurisprudenza, come
sembra sia accaduto nel caso Baraldini, operi sempre automaticamente oppure se occorra valutare le
circostanze dei singoli casi concreti per verificare se l’individuo vittima di una violazione del diritto
internazionale possa ricevere una tutela per equivalenti.
La tutela per equivalenti significa che l’individuo deve poter usufruire di mezzi alternativi, non
necessariamente giudiziari, che abbiano però un’efficacia equivalente a quella che avrebbe ottenuto se gli
fosse stato possibile rivolgersi al proprio giudice naturale.
Ad esempio, nel caso di affermazione d’immunità dello Stato straniero di fronte al giudice italiano,
quest’ultimo, prima di risolvere l’incompatibilità tra l’articolo 10 Cost. e l’articolo 24 Cost., che sarebbe
violato dal riconoscimento dell’immunità a favore dello Stato straniero, potrebbe verificare se l’individuo
possa disporre di altri mezzi per far valere i suoi diritti, come rivolgersi ai tribunali dell’organo o dello Stato
straniero al quale è imputabile l’illecito, o ad un giudice di uno Stato terzo che sia competente in base a
clausole giurisdizionali contenute in accordi; oppure rivolgere il suo ricorso ad un tribunale internazionale;
o, ancora, affidarsi alla protezione diplomatica del proprio Stato ai fini di una soluzione extra giudiziale del
caso.
Si può ricordare l’opinione di chi ha fatto notare che, nel caso Ferrini, quest’ultimo avrebbe potuto, quale
alternativa al ricorso al giudice italiano, presentare domanda di risarcimento alla Fondazione “Memoria,
Responsabilità e Futuro” creata dalle autorità tedesche con una legge del 2 agosto 2002 proprio allo scopo
di risarcire le vittime della ferocia nazista . Secondo questa opinione, la legge tedesca non avrebbe però
potuto rappresentare per Ferrini una tutela per equivalente, poiché il suo campo d’applicazione era limitato
alle vittime ed eredi di deportazioni per motivi razziali e religiosi, mentre non sarebbe stata applicabile alle
vittime di deportazioni come prigionieri di guerra destinati ai lavori forzati; in ogni caso poi non era prevista
alcuna impugnazione delle delibere della fondazione relative all’assegnazione delle somme di risarcimento
agli aventi diritto.
Una forma di tutela per equivalente si realizza con riferimento alla rinuncia al sindacato, da parte delle
supreme corti costituzionali dei Paesi membri dell’UE, sulla conformità degli atti comunitari con i diritti
fondamentali.
Tale sindacato, rivendicato dal giudice dell'UE – Corte di Giustizia e Tribunale - e finora riconosciuto anche
se con alcuni limiti, è stato recentemente rimesso in discussione da autorevole dottrina, proprio alla luce
del principio della tutela per equivalenti.
Il Tribunale UE, in diversi casi di congelamento dei beni di presunti terroristi, ad opera di risoluzioni del CdS
ONU recepite da atti comunitari (ora dell'UE) vincolanti, ha rifiutato di accogliere i ricorsi dei soggetti colpiti
dalle misure restrittive, presentati contro gli atti comunitari (ora dell'UE) di esecuzione delle risoluzioni
ONU. I ricorsi lamentavano la violazione di diritti fondamentali quali quello di difesa e quello alla tutela
giurisdizionale.
Il meccanismo previsto dalle risoluzioni ONU per chiedere la cancellazione dei propri nomi dalla lista dei
presunti terroristi non poteva considerarsi, secondo la dottrina, come una tutela per equivalente, non
assomigliando in nulla ad un procedimento giurisdizionale, in quanto fondato sulla discrezionalità politica
degli Stati membri ONU richiedenti tali misure di decidere in merito alle richieste degli individui.
La dottrina aveva poi fatto rilevare come il rifiuto del Tribunale potesse far venir meno la rinuncia al
sindacato di conformità degli atti comunitari (ora dell'UE) con i diritti fondamentali, operata dalle Corti
costituzionali e dai giudici nazionali a favore del giudice comunitario (ora dell'UE), proprio in considerazione
del venir meno della tutela per equivalente che quest’ultimo giudice avrebbe dovuto garantire. La Corte di
Giustizia, tuttavia, con sentenza del 3 settembre 2008, ha annullato la decisione del Tribunale di primo
grado di congelamento dei beni in uno dei casi citati, affermando inequivocabilmente la necessità che il
giudice comunitario (ora dell’UE) svolga il sindacato di compatibilità degli atti comunitari (ora dell'UE) con i
diritti fondamentali di difesa e del ricorso al giudice .
Un’altra forma di tutela per equivalente potrebbe essere rappresentata, secondo alcuni, dall’esercizio, da
parte dello Stato della vittima della violazione grave del diritto internazionale o di un vero e proprio
crimine, della protezione diplomatica a tutela del proprio cittadino. In alcuni casi sono intervenuti in
protezione diplomatica Stati terzi, a favore di cittadini stranieri e nei confronti dello Stato al quale sia
imputabile l’illecito. È questa la lettura che parte della dottrina offre della prassi relativa a casi di deroga al
regime delle immunità degli Stati dalla giurisdizione civile, applicati da alcuni giudici interni. Si rileva, in
proposito, una tendenza maggiormente favorevole al ricorso a forme di protezione diplomatica non solo da
parte degli Stati di cittadinanza delle vittime, ma anche da parte di terzi Stati, che si assumevano l’onere
dell’esercizio di protezione diplomatica anche a favore di cittadini di stati terzi, compresi i cittadini dello
Stato autore dei crimini.
Sul piano dei rapporti diplomatici la prassi offre esempi di negoziazione di accordi globali di compensazione
a favore delle vittime di crimini internazionali, sulla falsariga dei lump-sums agreements utilizzati per
risarcire i cittadini privati investitori in caso di nazionalizzazioni da parte dello Stato ospite. Secondo
qualcuno questa potrebbe considerarsi una forma di tutela per equivalente, ma a nostro parere non è detto
che si tratti di un rimedio effettivo.
Infatti occorre guardare al fatto che l’istituto della protezione diplomatica costituisce una facoltà per lo
Stato e non un obbligo, che quest’ultimo potrebbe decidere di non ricorrervi per mantenere buone
relazioni con lo Stato autore dell’illecito, che il suo esercizio è in linea generale soggetto al legame di
cittadinanza dell’individuo vittima con lo Stato che agisce, e che non è ancora possibile configurare un vero
e proprio obbligo di quest’ultimo ad esercitare la protezione diplomatica tutte le volte che i ricorsi interni si
risolvono in un diniego di giustizia a causa dell’applicazione del regime dell’immunità degli Stati stranieri
dalla giurisdizione.
7. Tutela per equivalente assicurata da organismi creati in seno ad OI per dirimere le controversie in
materia di rapporti di lavoro.
Infine, la giurisprudenza ha considerato come una forma di tutela per equivalente l’esistenza di organismi
creati in seno ad organizzazioni internazionali per la risoluzione delle controversie in materia di rapporti di
lavoro di individui alle dipendenze dell’OI.
La prassi conosce diversi esempi, come il tribunale amministrativo delle Nazioni Unite, il tribunale per la
funzione pubblica in seno alle CE, il Tribunale amministrativo della Banca mondiale, il Tribunale
amministrativo della Banca per lo sviluppo asiatico.
Secondo la dottrina:
“… Per quanto concerne la giurisprudenza dei tribunali amministrativi, si può osservare che essa sembra
garantire un controllo effettivo sulla legittimità dei provvedimenti adottati dall’Organizzazione in tema di
rapporti lavorativi…”.
Alcune volte invece le OI dispongono di meccanismi od organismi che non assicurano una tutela del tutto
equivalente, per l’assenza dei caratteri dell’indipendenza e dell’imparzialità dell’organo competente a
risolvere le controversie, soprattutto in materia di rapporti di lavoro, e resta perciò aperta la questione
dell’antinomia tra immunità e diritto ad un ricorso davanti al giudice per vedere tutelati i propri diritti.
Qui di seguito riportiamo un caso che riguarda il profilo dell’equivalenza della tutela in favore di un
individuo in rapporto di lavoro con una OI, riconosciuta da organismi interni a queste ultime, in luogo di
quella garantita dal giudice.
7.1. Il caso Nacci c. Centro internazionale di alti studi agronomici
Questo caso riguarda una controversia di lavoro tra un dirigente con la qualifica di amministratore
dell’Istituto Agronomico Mediterraneo (IAM) di Bari, organo locale del Centre International de Haute
Etudes Agronomiques Méditerranéennes. Il Nacci a seguito del suo licenziamento ricorre contro l’IAM
davanti al Pretore di Bari per far dichiarare la nullità del licenziamento e la reintegrazione nel posto di
lavoro e la condanna del datore al risarcimento del danno.
L’IAM eccepisce l’immunità dalla giurisdizione che però il Pretore non applica, accogliendo invece le
richieste del Nacci con sentenza del 1991, impugnata dalla parte convenuta, l’IAM.
Quest’ultimo reiterava in appello l’eccezione di carenza di giurisdizione del giudice italiano per effetto
dell’immunità di cui godeva l’IAM in quanto organo del Centro di Alti studi mediterranei che è una OI alla
quale l’accordo istitutivo, cui partecipa l’Italia, riconosce sia l’immunità dalla giurisdizione che l’esenzione
dall’esecuzione.
L’Italia tuttavia, in forza di una riserva posta all’accordo riconosce tali immunità ed esenzioni soltanto “nei
limiti e secondo i princìpi generali che il diritto internazionale accorda agli Stati stranieri” e questo, per la
Cassazione, investita della causa con regolamento preventivo di giurisdizione, significa che:
“…la questione di giurisdizione va…risolta non in base alla norma pattizia di una illimitata immunità
giurisdizionale, ma in forza della norma consuetudinaria internazionale… recepita nel nostro ordinamento
attraverso l’articolo 10…” .
La Cassazione vuole con ciò precisare che al caso si applica la teoria dell’immunità ristretta per la quale si
devono distinguere gli atti dello Stato straniero iure imperii da quelli iure privatorum. Tuttavia, essa,
attraverso questo criterio così come applicato in precedenti pronunce, riconosce l’immunità dell’IAM dalla
giurisdizione civile del giudice italiano in relazione all’ottemperanza all’ordine di reintegrazione, in
considerazione dell’oggetto del petitum: l’illegittimità de licenziamento del Nacci e la richiesta di
reintegrazione nel posto di lavoro e di risarcimento, atti che resterebbero insindacabili in quanto
apartenenti alla sfera dell’attività pubblicistica dell’ente.
La Corte di Cassazione sotto il profilo che qui interessa, dopo aver detto che l’articolo 24 Cost. va
contemperato con gli obblighi internazionali in materia di sovranità (immunità), si chiede se il Nacci, una
volta esclusa la giurisdizione del giudice italiano, avesse la possibilità di vedere riconosciuti i suoi diritti
attraverso altri mezzi di ricorso e nel dare risposta affermativa considera tale la Commissione dei ricorsi
istituita dal regolamento del Centro internazionale e competente a decidere i ricorsi proposti dai
dipendenti. Secondo la Cassazione:
“…Trattasi…di un organo interno all’ente internazionale, dotato di indipendenza ed obiettività, requisiti
questi garantiti dall’alta competenza dei componenti e della loro estraneità al Centro medesimo. Ciò è
sufficiente per garantire il principio supremo della tutela giurisdizionale, tutelato dall’articolo 24 Cost. (…) a
nulla rilevando il fatto che tale commissione non sia composta di magistrati coperti da una guarentigia
formale di indipendenza…”.
L’ADATTAMENTO AGLI ACCORDI E ALLE FONTI PREVISTE DA ACCORDI
1. L’adattamento agli accordi internazionali.
L’ordinamento italiano non contiene una disposizione simile all’articolo 10 (1) Cost. per l’adattamento agli
accordi.
Ciononostante, in passato si propose autorevolmente di utilizzare l’articolo 10 comma 1 Cost. anche ai fini
dell’adattamento ai trattati, con immissione automatica a livello costituzionale, argomentando dal fatto che
quest’ultimo inserisce nell’ordinamento italiano la norma consuetudinaria pacta sunt servanda (gli accordi
devono essere rispettati).
Contro questa opinione si sono pronunciate sia la dottrina che la giurisprudenza.
Per quanto riguarda la prima, si ricorda l’opinione di Conforti, il quale fa notare che questa interpretrazione
dell’articolo 10 (1) Cost. non collima né con la lettera del testo, che fa riferimento solo alle norme di diritto
internazionale “generalmente riconosciute”; né con i lavori preparatori dell’articolo 10, che depongono
invece per la limitazione alle norme generali materiali. Inoltre, si argomenta, se si introducessero gli accordi
con l’articolo 10 essi assumerebbero rango costituzionale, e il Governo potrebbe aggirare le garanzie
costituzionali semplicemente concludendo accordi.
Per quanto riguarda la giurisprudenza, la Corte costituzionale ha di recente riaffermato questa
interpretazione restrittiva dell’articolo 10 (1) Cost. con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.
La dottrina più attenta fa poi notare come esistano nella Costituzione italiana diverse norme che, pur
occupandosi di certe categorie di trattati, tuttavia non costituiscono norme sull’adattamento. Queste sono:
- l’articolo 10 comma 2 Cost., che riguarda la condizione giuridica dello straniero e dispone che
questa è regolata “in conformità con le norme e i trattati internazionali”;
- l’articolo 7 Cost., che attiene ai rapporti tra Stato e Chiesa, disponendone la regolazione mediante i
Patti Lateranensi, che sono un accordo internazionale;
- l’articolo 11 Cost., che consente limitazioni alla sovranità a favore di Organizzazioni internazionali;
- l’articolo 117 comma 1 Cost., che riguarda i rapporti tra ordinamento interno e diritto
internazionale e comunitario, ed attiene pertanto alla fase successiva al momento dell’adattamento vero e
proprio.
1.1. Procedimento di adattamento del diritto italiano ai trattati: l’ordine di esecuzione.
L’ordinamento italiano a tale scopo utilizza l’ordine di esecuzione, che costituisce un procedimento speciale
di adattamento mediante rinvio. L’ordine di esecuzione materialmente riveste forma, in genere, di legge
ordinaria, ma può anche essere dato con altro atto legislativo, ad esempio di rango costituzionale, o
addirittura sub-legislativo.
L’ordine di esecuzione costituisce un atto ad hoc: questo significa che, a differenza di altri ordinamenti, non
si prevede una norma che una volta per tutte regoli l’adattamento agli accordi, approvandosi ogni accordo
internazionale di volta in volta.
Per quanto riguarda il suo contenuto, l’ordine di esecuzione contiene soltanto l’ordine di eseguire un certo
accordo, e opera il rinvio al testo dell’accordo così come vige nell’ordinamento internazionale.
Quanto al regime di pubblicità, al pari delle altre leggi italiane, l’ordine di esecuzione viene pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale in base alla legge n. 839 dell’11 dicembre 1984, che prevede che vadano pubblicati tutti
gli accordi internazionali conclusi dall’Italia, compresi quelli in forma semplificata.
1.2. Effetti giuridici dell’ordine di esecuzione.
L’ordine di esecuzione permette a tutti i soggetti dell’ordinamento italiano di chiedere l’applicazione
dell’accordo internazionale, ove quest’ultimo attribuisca loro diritti azionabili davanti al giudice nazionale o
internazionale, ovvero contenga norme self-executing.
Di conseguenza, la mancanza dell’ordine di esecuzione comporta l’impossibilità per i singoli di chiedere
l’applicazione dell’accordo all’interno dello Stato italiano davanti al giudice nazionale o a qualsiasi altro
organo statale.
Questo, nonostante il fatto che l’accordo sia stato debitamente ratificato dall’Italia e sia entrato in vigore
sul piano internazionale.
Va infatti tenuto ben distinto l’istituto della ratifica, che attiene al procedimento di stipulazione e perciò al
piano internazionale dei rapporti dell’Italia con gli altri Stati contraenti e che serve lo scopo di obbligare lo
Stato al rispetto dell’accordo nei confronti degli altri Stati contraenti, dall’ordine di esecuzione, che invece
serve il diverso scopo di permettere all’accordo internazionalmente valido e in vigore di spiegare i suoi
effetti all’interno dello Stato contraente, rispetto ai soggetti del suo ordinamento.
In altre parole l’accordo ratificato ed in vigore sul piano internazionale ma non adattato in Italia con
l’ordine di esecuzione non può essere applicato all’interno dell’ordinamento, il giudice italiano dovendosi
rifiutare di applicarlo nel caso concreto.
Una tal situazione potrà eventualmente comportare la responsabilità dell’Italia sul piano internazionale per
violazione dell’accordo nei confronti degli altri contraenti.
L’obbligo di esecuzione riguarda, naturalmente, anche i trattati conclusi in forma semplificata, i quali
potranno spiegare i loro effetti solo una volta adattati all’interno del nostro ordinamento.
Nella prassi normalmente il Parlamento provvede ad autorizzare la ratifica e ad eseguire i trattati con uno
stesso, unico atto, che però, per i motivi appena esposti, va considerato come divisibile in due atti distinti
per funzione.
In tal senso si è più volte espressa la giurisprudenza. Nella sentenza n. 867 del 1972 la Corte di Cassazione
ha precisato che, pur utilizzandosi un unico strumento legislativo per autorizzare la ratifica degli accordi
previsti dall’articolo 80 Cost. e per ordinarne l’esecuzione all’interno dello Stato, tuttavia si tratta:
“… di due istituti ben diversi che operano in momenti successivi…”.
1.3. Procedimento ordinario di adattamento del diritto italiano ai trattati in caso di norme non self-
executing.
Abbiamo già avuto modo di specificare che quando una norma internazionale non è self-executing è
necessario provvedere al suo adattamento utilizzando il procedimento ordinario.
Va sottolineato comunque che l’adattamento mediante rinvio consente al giudice di non applicare un
accordo che sia estinto sul piano internazionale, perché egli applica o disapplica direttamente l’accordo;
mentre lo stesso giudice dovrebbe comunque applicarlo nell’ordinamento interno, anche quando fosse
estinto, ove si trovasse di fronte ad una legge italiana riproduttiva del contenuto dell’accordo (che l’abbia
cioè riformulato), poiché oggetto dell’applicazione sarebbe quest’ultima e non l’accordo in quanto tale.
In ogni caso, di fronte a norme non self-executing contenute in un accordo, quali norme che non
impongono obblighi bensì riconoscono facoltà agli Stati di scegliere tra più comportamenti, o norme che
per essere attuate hanno bisogno dell’istituzione di procedure o di organi, o, infine, norme che richiedono
adempimenti costituzionali ai fini della loro attuazione, bisognerà adottare una normativa interna
integrativa utilizzando il procedimento ordinario.
1.4. Rango dei trattati adattati con ordine di esecuzione.
Abbiamo già visto che l’ordine di esecuzione può materialmente essere una legge ordinaria o costituzionale
e addirittura un atto sub-legislativo. Ciò significa che il rango degli accordi corrisponderà a quello del tipo di
legge o atto legislativo o sub-legislativo prescelti per l’adattamento. Così se l’ordine di esecuzione è una
legge ordinaria, come solitamente avviene, l’accordo avrà lo stesso rango all’interno dell’ordinamento
italiano; se invece l’ordine di esecuzione è una legge costituzionale o un decreto legislativo o addirittura un
atto sub-legislativo, l’accordo avrà di volta in volta il rango dello strumento nazionale di adattamento
utilizzato.
Con la modifica dell’articolo 117 comma 1 della Costituzione, in base alla quale “la potestà legislativa è
esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”, gli accordi internazionali acquistano, secondo
la dottrina, un rango superiore a quello delle leggi ordinarie, a prescindere dal fatto che lo strumento di
adattamento, cioè l’ordine di esecuzione, sia una legge ordinaria .
1.5. Rapporti tra norme internazionali e norme interne: l’articolo 117 comma 1 Cost.
L’articolo 117 comma 1 della Costituzione dispone come si è detto che “la potestà legislativa è esercitata
dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali”. Di conseguenza l’accordo adattato con legge ordinaria come
ordine di esecuzione avrà un rango superiore alle altre leggi ordinarie italiane, in ragione del fatto che una
norma costituzionale, l’articolo 117 comma 1, impone al legislatore italiano di esercitare le sue competenze
rispettando, tra l’altro, il diritto internazionale pattizio.
In dottrina si afferma in proposito:
“…Deve ritenersi pertanto che sia viziata da illegittimità costituzionale, per violazione indiretta della
Costituzione, e possa come tale essere annullata dalla Corte Costituzionale, la legge ordinaria che non
rispetta i vincoli derivanti da un trattato…”.
1.6. Le sentenze della Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007.
Questa opinione è del resto suffragata dalla recente giurisprudenza della Corte costituzionale la quale, con
due recenti sentenze, ha chiaramente affermato da un lato la superiorità di rango dei trattati anche se
eseguiti con legge ordinaria, rispetto alle leggi ordinarie interne; dall’altro, che in caso di conflitto, le norme
interne ordinarie incompatibili con un accordo internazionale violano l’articolo 117 comma 1 Cost. e vanno
pertanto assoggettate al controllo di costituzionalità e annullate.
La Corte Costituzionale ha precisato però che questa situazione non attribuisce “…rango costituzionale alle
norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento...” ma soltanto
l’obbligo del legislatore ordinario di rispettarle.
L’articolo 117 comma 1 Cost. diventa operativo nel momento in cui effettua il rinvio all’accordo
internazionale di volta in volta rilevante nel caso concreto: l’accordo diventa quindi “norma interposta” e
acquista così, per effetto del rinvio operato dalla norma costituzionale, rango subordinato rispetto alla
Costituzione ma intermedio tra quest’ultima e la legge ordinaria incompatibile.
Proprio in considerazione del rango intermedio ma sub-costituzionale della norma internazionale pattizia,
la Corte Costituzionale ha precisato che, prima di valutare la compatibilità della norma internazionale con la
legge interna, sarà necessario prendere in considerazione la compatibilità dell’accordo internazionale con la
Costituzione, in quanto ad essa subordinato, e, solo dopo aver verificato tale compatibilità, utilizzare
l’accordo come parametro interposto di costituzionalità attraverso l’articolo 117 comma 1 Cost.
Spiega Focarelli:
“… La subordinazione dei trattati alla Costituzione comporta che (…) la Corte debba sempre valutare se il
trattato è conforme alla Costituzione, eventualmente «espungendo» la norma pattizia in caso di
incompatibilità…”.
In effetti occorre riflettere sul fatto che, prima della modifica dell’articolo 117 comma 1 Cost., la Corte
costituzionale si è più volte pronunciata sulla compatibilità tra un accordo internazionale eseguito in Italia
con legge ordinaria e quindi considerato come avente anch’esso rango di legge ordinaria, e la Costituzione,
annullando se del caso l’ordine di esecuzione nella misura in cui adattava norme internazionali
incompatibili con i valori protetti dalla nostra Carta costituzionale.
Questa possibilità non viene meno con l’entrata in vigore della modifica costituzionale all’articolo 117
comma 1, poiché appare chiaro che il vincolo del legislatore ordinario italiano al rispetto delle norme
internazionali, compresi gli accordi, sussiste solo e nella misura in cui l’accordo non si ponga in contrasto
con un principio fondamentale materiale costituzionale.
Del resto, abbiamo visto, nella lezione precedente, come anche il diritto internazionale generale, pur
possedendo rango tendenzialmente costituzionale in quanto adattato per effetto dell’articolo 10 comma 1
Cost., possa essere bloccato nel suo ingresso nel nostro ordinamento, ove ritenuto in contrasto con un
principio fondamentale protetto dalla Costituzione.
In sintesi, la Corte costituzionale, di fronte ad un caso di incompatibilità tra una legge interna ordinaria ed
un accordo internazionale eseguito in Italia, considera necessario effettuare due diverse operazioni:
- in primo luogo, verificare la conformità dell’accordo internazionale con la Costituzione e le leggi
costituzionali interne;
- in secondo luogo, e solo dopo aver affermato tale compatibilità, verificare la conformità della legge
interna ordinaria con l’accordo internazionale annullando la prima ove incompatibile con quest’ultimo.
1.7. Portata delle pronunce della Corte costituzionale nell’ordinamento italiano.
Le pronunce della Corte Costituzionale, se da una parte chiariscono la portata ed il ruolo dell’articolo 117
comma 1 Cost., che va interpretato come norma a portata generale, che non incide solo nei rapporti tra
Stato e Regioni, bensì svolge un effetto generale sugli obblighi del legislatore italiano, a qualsiasi livello, fa
sorgere però alcuni interrogativi sugli effetti che tali pronunce avranno sul ruolo del giudice nazionale,
chiamato a decidere sulla compatibilità di un accordo internazionale con una legge ordinaria interna.
Occorre in via preliminare effettuare in sintesi una ricognizione della situazione antecedente all’entrata in
vigore del nuovo articolo 117 comma 1 Cost., per poi vedere come su di essa abbiano inciso le pronunce
della Corte.
In considerazione dell’assenza di una norma come l’art. 117 comma 1 Cost., anteriormente alla sua entrata
in vigore la dottrina distingueva tra rapporti tra accordo e leggi ordinarie da un lato, e rapporti tra accordo
e norme costituzionali dall’altro.
Nel primo caso, dato che l’ordine di esecuzione è di norma costituito da una legge ordinaria, il trattato di
volta in volta adattato assumeva lo stesso rango dello strumento di adattamento ed il problema dei suoi
rapporti con le leggi ordinarie si poneva sul piano dei rapporti tra norme di pari rango.
Ancora una volta, in assenza di una norma costituzionale come l’attuale articolo 117 comma 1 Cost., la
dottrina e la giurisprudenza ritenevano che tali rapporti andassero risolti in via interpretativa,
proponendosi l’uso di diversi criteri, quali quello della presunzione di conformità della legge interna con
l’obbligo internazionale, quello di specialità e quello di posteriorità, quello, infine, in base al quale la legge
interna prevale sull’accordo soltanto in presenza di una chiara indicazione in tal senso in essa contenuta.
Il criterio della presunzione di conformità della legge interna con gli obblighi internazionali permette al
giudice ordinario di applicare la legge posteriore ambigua in modo da consentire allo Stato il rispetto degli
obblighi internazionali.
Il criterio di specialità ratione materiae o ratione personarum permette ad un accordo anteriore di
prevalere rispetto ad una legge interna successiva, ma non risulta sempre applicabile perché la legge
interna potrebbe avere per oggetto una materia più specifica di quella oggetto dell’accordo.
Più puntuale appare il criterio di specialità suggerito dal Conforti, secondo il quale l’accordo sarebbe
speciale in virtù del suo procedimento di formazione e del fatto che esprimerebbe, rispetto alla legge
ordinaria interna, non solo la volontà di disciplinare una disciplinare una certa materia in un certo modo,
ma soprattutto la volontà dello Stato di utilizzare l’accordo a tale scopo. Poiché l’accordo è il frutto di più
volontà statali, una legge statale di uno dei contraenti non potrebbe validamente contrapporsi ad esso, per
effetto, appunto, del principio di specialità.
Il criterio di posteriorità si applica se l’accordo, rectius, la legge ordinaria che lo esegue in Italia (ordine di
esecuzione), è temporalmente successivo rispetto alla legge interna incompatibile.
Il criterio che sembra preferibile, stando alla dottrina più qualificata, è quello per il quale in caso
d’incompatibilità tra accordo e legge interna, dovrebbe sempre riconoscersi la prevalenza del primo a meno
che la legge interna non contenga “… una chiara indicazione della volontà del legislatore di contravvenire al
trattato…”. Perché si possa applicare, questo criterio implica che coincidano sia la materia regolata
dall’accordo e dalla legge interna tra loro incompatibili, sia i soggetti chiamati ad applicarli.
Secondo questo studioso il criterio appena richiamato “… è il più ampio e il più favorevole alla prevalenza
del trattato…” e rende inutile il ricorso agli altri criteri della presunzione di conformità e di specialità.
I criteri appena esposti comportavano tutti una importante conseguenza sul piano concreto: era sempre il
giudice ordinario a provvedere invia interpretativa all’applicazione del diritto internazionale pattizio,
disapplicando se del caso la norma interna incompatibile.
Veniamo adesso al caso dei rapporti tra accordo e norme costituzionali: è chiaro che qui si applicava il
criterio gerarchico, essendo la Costituzione italiana gerarchicamente superiore all’accordo adattato con
ordine di esecuzione dato con legge ordinaria. In tal caso il giudice nazionale al quale si fosse presentato un
problema d’incompatibilità con norme costituzionali rinviava di regola alla Corte costituzionale al fine di far
dichiarare nullo l’ordine di esecuzione del trattato nella parte in cui recepiva norme internazionali in
contrasto con norme costituzionali.
In quest’ultimo caso il giudice ordinario non ha alcuna possibilità di agire in via interpretativa e deve
comunque rimettere la questione alla Corte costituzionale.
Vediamo adesso come sono cambiate le prospettive di risoluzione dei conflitti tra accordi e leggi interne
davanti al giudice nazionale alla luce del nuovo articolo 117 comma 1 Cost.
Dal momento che adesso esiste una norma espressa di rango costituzionale che impone allo Stato e alle
Regioni, quali legislatori, di rispettare il diritto internazionale, compresi gli accordi, la Corte nelle sue
pronunce ne ha dedotto che le norme internazionali restano attratte:
“… nella sfera di competenza della Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di
successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in
contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale…”.
Per questa ragione:
“… il giudice comune non ha … il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ... in contrasto con una
norma CEDU…”,
perché la questione della sua compatibilità con la legge interna è una:
“…questione di legittimità costituzionale per eventuale violazione dell’articolo 117 comma 1 Cost., di
esclusiva competenza del giudice delle leggi…”.
1.8. Le opinioni della dottrina sugli effetti delle pronunce 348 e 349 nell’ordinamento italiano.
Le sentenze in esame hanno suscitato preoccupazioni da parte di alcuni studiosi, i quali si sono chiesti: deve
allora ritenersi che, a differenza del passato, adesso in qualsiasi ipotesi di contrasto tra norme interne e
accordi internazionali il giudice nazionale abbia l’obbligo di sollevare una questione di legittimità
costituzionale per eventuale violazione dell’articolo 117 comma 1 Cost.?
Conforti, con riferimento al ruolo del giudice ordinario ed all’esclusione della possibilità di diretta
applicazione del diritto internazionale pattizio e conseguente disapplicazione del diritto interno
incompatibile, ritiene che le due pronunce possano essere equivocate.
A suo avviso la sentenza n. 349 fa salva la possibilità per il giudice ordinario d’interpretare il diritto interno
in modo conforme a quello internazionale, ma non è chiara sul punto di sapere fino a dove il giudice
ordinario può spingersi ad interpretare il diritto interno incompatibile senza utilizzare il filtro del rinvio di
legittimità costituzionale offerto dall’articolo 117.
È chiaro infatti che se ogni volta che tale operazione non fosse possibile, oppure ogni volta che il giudice
comune dubitasse circa la compatibilità, la soluzione fosse quella del rinvio alla Corte Costituzionale invece
che la disapplicazione direttamente operata dal giudice comune, il sistema subirebbe un irrigidimento.
A suo avviso invece dovrebbe essere sempre possibile per il giudice ordinario disapplicare norme interne
incompatibili con accordi internazionali, almeno quelli diversi dalla CEDU e meno importanti per materia,
quali quelli tecnici, commerciali, di amicizia, di navigazione o stabilimento, utilizzando il principio di
specialità.
Un altro studioso, pur prendendo atto delle pronunce della Corte Costituzionale n. 348 e 349 che
considerano del tutto eccezionale il ricorso da parte del giudice ordinario all’istituto della disapplicazione,
esclude però che da tali pronunce si debba ricavare l’idea che:
“…la Corte abbia escluso in maniera radicale la possibilità che le norme della Convenzione europea possano
spiegare effetti diretti nell’ordinamento italiano ed essere quindi applicate direttamente dal giudice
ordinario…”.
Secondo Cannizzaro, infatti, le norme della CEDU:
“…non vi è dubbio che (…) una volta rese esecutive attraverso l’ordine di esecuzione, possano e anzi
debbano essere applicate direttamente dal giudice ordinario…”, utilizzando i criteri dell’obbligo
d’interpretazione del diritto interno in modo conforme a quello internazionale e di specialità.
Secondo Focarelli il ricorso al criterio della presunzione di conformità del diritto interno agli obblighi
internazionali costituisce un utile strumento per evitare che sorga un conflitto e permettere quindi al
giudice comune di risolvere il caso senza sollevare la questione di costituzionalità.
Qualora tale criterio non sia utilizzabile, invece, occorrerà chiedersi, secondo questo studioso, se i criteri
della lex posterior e della lex specialis saranno considerati dal giudice nazionale come canoni interpretativi
oppure come criteri diretti a sanare un conflitto reale tra l’accordo e la legge interna.
Nel primo caso sarà possibile risolvere il conflitto senza sollevare questione di legittimità costituzionale, con
il semplice ricorso ai due criteri da parte il giudice comune in via interpretativa.
Le pronunce della Corte costituzionale indicherebbero tuttavia, per Focarelli, la seconda soluzione come
quella più ad esse conforme, con la conseguenza che il giudice comune non potrebbe utilizzare né il criterio
della lex posterior né quello di specialità e avrebbe sempre l’obbligo, in caso di conflitto, di sollevare la
questione di legittimità che potrà essere risolta solo dalla Corte costituzionale. In tal senso egli richiama una
sentenza della Corte costituzionale del 2008.
Ovviamente nel caso in cui l’accordo, secondo il giudice comune, confligga con una norma costituzionale,
egli sarà sempre e comunque tenuto a sollevare la questione di legittimità costituzionale.
2. L’adattamento alle fonti previste da accordi internazionali.
L’adattamento alle fonti previste da accordi internazionali è per autorevole dottrina, automatico, nel senso
che gli atti degli organi decisionali delle Organizzazioni internazionali (come il Consiglio di Sicurezza delle
NU o il Consiglio dei ministri delle CE), sono automaticamente recepiti dagli ordinamenti degli Stati membri
per effetto dell’adattamento al loro interno dei trattati istitutivi.
In Italia, tuttavia, esiste anche una disposizione della Costituzione, l'art. 11, che pur non avendo
espressamente la funzione di recepire gli atti internazionali di terzo grado, tuttavia predispone
l’ordinamento interno a conformarvisi, permettendo a fonti estranee all’ordinamento italiano di essere ivi
recepite in deroga alle norme costituzionali che attribuiscono la potestà legislativa esclusivamente alle
istituzioni italiane: Parlamento e, in alcuni casi, Governo, con il concorso del Parlamento; Regioni, Provincie,
Comuni.
L’art. 11 (seconda parte) Cost. si propone cioè di permettere l’entrata di norme prodotte da organi e con
procedimenti estranei alla Costituzione, affermando che:
“L’Italia (...) consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le Organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo”.
Tutto ciò premesso va detto che la pratica della maggior parte degli Stati, compresa l’Italia, va in una
direzione diversa, nel senso che gli atti vincolanti di OI, come l’ONU, l’OMC, l’OMS, le CE, vengono di volta
in volta e singolarmente adattati con strumenti di esecuzione specifici. Focarelli precisa che in Italia
l’adattamento agli atti delle OI avviene in genere con riformulazione mediante adozione di atti normativi ad
hoc.
In dottrina si sostiene che questa prassi sarebbe necessaria soltanto quando si tratti di recepire norme non
self-executing, cioè norme, come le direttive comunitarie, che hanno bisogno di normative di dettaglio per
la loro attuazione; e che invece, si tratti di atti inutili per le norme direttamente applicabili o self-executing.
Si dichiara invece favorevole all’adattamento caso per caso di ogni singolo atto delle OI chi prende in
considerazione l’ipotesi che possano venire adattati automaticamente atti di OI che invece costituiscono
dei veri e propri accordi modificativi del trattato istitutivo e che non esista, all’interno dell’Organizzazione,
un organo di controllo giurisdizionale che sia competente a valutare la legittimità di tali atti.
Poiché l’adattamento agli atti delle OI avviene con atti normativi interni che possono essere sia leggi
ordinarie, ma anche decreti legislativi e addirittura atti regolamentari amministrativi, il rango di tali atti
all’interno del nostro ordinamento dovrebbe coincidere con quello dello strumento di adattamento. Si
pone però il problema di sapere se, al pari degli accordi internazionali, anche agli atti delle OI sia da
attribuirsi un rango superiore alle leggi ordinarie interne, indipendentemente dall’atto con il quali sono
stati adattati, per effetto dell’articolo 117 comma 1 Cost. Quest’ultima norma fa riferimento agli “obblighi
internazionali” dell’Italia senza specificare se siano ricompresi gli atti in questione.
La dottrina propende per estendere l’articolo 117 comma 1 Cost. anche agli atti delle OI, in quanto se
vincolanti attuano senz’altro obblighi internazionali:
“…Ciò comporta (…omissis…) che anche le norme contenute negli atti vincolanti delle organizzazioni
internazionali, quale che sia il rango dell’atto che le ha recepite, siano «norme interposte» superiori alla
legge ordinaria, ancorché inferiori alla Costituzione…”.
L'APPLICAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO E DELL’UNIONE EUROPEA NELL'ORDINAMENTO ITALIANO
1. L’ADATTAMENTO AI TRATTATI
L’ordinamento italiano ha provveduto al recepimento dei trattati istitutivi delle tre CE originarie, del TUE e
di tutti i trattati di adesione e di revisione mediante ordini di esecuzione dati con legge ordinaria. Si
ricordano, in particolare, la legge n. 1203 del 14 ottobre 1957 di adattamento ai Trattati di Roma CEE ed
EURATOM, la legge n. 454 del 3 novembre 1992 di adattamento al Trattato di Maastricht; la legge n. 209
del 16 giugno 1998 di adattamento al Trattato di Amsterdam; la legge n. 102 dell’11 maggio 2002 di
adattamento al Trattato di Nizza e la legge n. 130 del 2 agosto 2008 di adattamento al trattato di
Lisbona.
Dato il carattere politico dei suddetti trattati, la loro idoneità a creare norme estranee all’ordinamento
italiano ma capaci di prevalere su o di modificare norme nazionali e la potenziale capacità di incidere sui
diritti fondamentali garantiti dalle Costituzioni, diversi Stati membri, (Lussemburgo, Paesi Bassi; Irlanda,
Spagna), hanno ritenuto necessaria una modifica Costituzionale inserendo un’apposita clausola “europea”
per poter procedere formalmente alla ratifica dei Trattati. In altri Stati (Belgio e Francia) non è previsto il
controllo di costituzionalità sulle leggi, mentre in Germania ed in Italia si è di fronte a costituzioni rigide ed
a un sistema di controllo della costituzionalità delle leggi e si sono perciò posti gli stessi problemi, qui di
seguito illustrati.
In proposito, infatti, la dottrina italiana ha messo in luce come:
“…La circostanza che l’ordine di esecuzione sia stato adottato con legge ordinaria ha fatto sorgere non
poche discussioni in merito alla sua idoneità a dare attuazione a trattati come quelli istitutivi delle CE (ora
dell'UE), le cui disposizioni sono suscettibili di avere una incidenza su norme contenute nella Costituzione
italiana…”. Il riferimento è chiaramente alle norme strumentali della nostra Costituzione che presiedono
alla formazione degli atti legislativi, che sarebbero violate ogni volta che si consentisse l’ingresso di fonti
estranee, dell’Unione, prodotte da enti (le istituzioni europee) diversi dalle istituzioni italiane dotate di
poteri legislativi: il Parlamento nazionale in primis ed il Governo limitatamente agli atti aventi forza di legge:
decreti-legge e decreti legislativi delegati.
Ci si è chiesti in particolare se una legge ordinaria come l’ordine di esecuzione sia sempre idonea a recepire
i Trattati istitutivi, quando impongono obblighi che potrebbero porsi in contrasto con la Costituzione.
La soluzione prospettata dalla dottrina, vede legittimo l’utilizzo dell’ordine di esecuzione in quanto adatta
accordi “coperti” dall’art. 11 Cost. Quest’ultima norma dispone che:
“…L’Italia …consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo…”.
La norma, in origine ideata per permettere l’adesione dell’Italia all’ONU, è utilizzabile senz’altro per
considerare legittima ogni limitazione di sovranità derivante dall’appartenenza del nostro Paese ad
un’organizzazione internazionale come l’UE:
“…di modo che le eventuali deroghe che i trattati istitutivi rechino a norme della Costituzione sarebbero
legittime anche se i trattati sono stati resi esecutivi con legge ordinaria, in quanto autorizzate appunto già
dall’art. 11…”.
Questa opinione è stata poi accolta anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Nel caso Costa c.
ENEL deciso con la sentenza n. 14 del 1964 la Corte costituzionale italiana ha affermato che l’art. 11 Cost.
dev’essere interpretato nel senso che:
“…quando ricorrano determinati presupposti, è possibile stipulare trattati con cui si assumono limitazioni
della sovranità ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinaria…”.
2. L’ADATTAMENTO AGLI ATTI DELL’UNIONE EUROPEA
Per poter comprendere pienamente come avviene l’adattamento degli atti dell’Unione europea all’interno
dell’ordinamento italiano occorre prendere le mosse dagli obblighi che oggi l’appartenenza all’Unione
impone a tutti gli Stati membri in materia, che sono contenuti, rispettivamente, negli artt. 4 § 3 TUE e 288
TFUE.
In secondo luogo bisogna illustrare i princìpi generali in materia di adattamento elaborati dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia, quali il principio dell’efficacia diretta del diritto comunitario e quello
del primato di quest’ultimo sui diritti degli Stati membri da un lato; e gli obblighi che discendono da questi
due fondamentali principi e che le autorità degli Stati membri competenti all’applicazione del diritto
dell’Unione europea, soprattutto i giudici nazionali e la pubblica amministrazione sono tenuti ad osservare,
per non rischiare l’accusa di inadempimento, dall’altro.
In terzo luogo, analizzeremo i rapporti tra le norme emanate dall’Unione europea e le norme italiane per
verificare in che modo il nostro ordinamento assicura la prevalenza delle prime in caso di incompatibilità
tra norme di pari rango, e come affronta il problema dei rapporti del diritto dell’Unione europea con le
norme costituzionali, in specie per quel che riguarda il controllo di costituzionalità sugli atti di diritto
europeo derivato.
Infine, illustreremo il ruolo delle Regioni in materia di formazione ed applicazione del diritto dell’Unione
europea.
3. GLI OBBLIGHI PREVISTI DAI TRATTATI IN MATERIA DI ADATTAMENTO
In via introduttiva dobbiamo ricordare quello che abbiamo già detto nella lezione precedente a proposito
dell’adattamento del diritto interno agli atti delle organizzazioni internazionali, discorso che in questa sede
interessa proprio con riferimento all’adattamento agli atti dell’Unione europea.
Ricordiamo che gli atti di organi normativi delle Organizzazioni internazionali sono automaticamente
recepiti dagli ordinamenti degli Stati membri per effetto dell’adattamento al loro interno dei trattati
istitutivi.
Questo, a prescindere dal fatto che il trattato istitutivo contenga o meno disposizioni che prevedono la
diretta applicabilità degli atti degli organi dell’organizzazione internazionale all’interno degli Stati.
I trattati invece, come vedremo contengono sia un principio generale che impone agli Stati di cooperare
con l’UE per la corretta esecuzione degli atti comunitari (art. 4 § 3 TUE), sia una disposizione espressa sugli
effetti degli atti all’interno degli ordinamenti nazionali (art. 288 TFUE).
4. L’ART.4 § 3 TUE: IL PRINCIPIO DI LEALE COOPERAZIONE
L’Art. 4 § 3 TUE, oggi prevede esplicitamente che:
“In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono
reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati”.
Peraltro, tale principio era già rinvenibile nel sostituito Art. 10 TCE che recitava:
“Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale e particolare atta ad assicurare l’esecuzione
degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione. Gli Stati Membri
facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di
mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione”
Secondo la dottrina:
“… L’art. 10 (già art. 5) sancisce il principio generale della leale collaborazione tra gli Stati membri e la
Comunità europea. A tale principio deve ispirarsi il comportamento degli Stati membri nell’espletamento
dell’attività di adattamento dei diritti interni all’ordinamento comunitario…”.
Il principio pone a carico degli Stati un duplice obbligo:
- quello di assicurare l’esecuzione degli obblighi comunitari all’interno dei loro ordinamenti;
- quello di astenersi dall’adottare misure che possano pregiudicare la realizzazione degli scopi del
TCE (oggi TUE).
Il dovere di leale cooperazione si indirizza agli organi statali, siano essi l’organo legislativo, che deve
provvedere all’attuazione ed all’esecuzione del diritto comunitario, oppure le autorità amministrative, sulle
quali incombe un “…dovere generale di diligenza nell’esecuzione degli atti comunitari ed un dovere
generale di cooperazione con le istituzioni nella realizzazione delle singole politiche comunitarie…”.
Infine, resta valido quanto originariamente rilevato per l’art. 10/TCE (oggi sostituito dall’ Art. 4 § 3 TUE),
che s’indirizza ai giudici nazionali ai quali spetta, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di
giustizia “di garantire la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario
aventi efficacia diretta”.
5. L’ART. 288/TFUE
Vale la pena qui di richiamare il testo dell’art. 288 TFUE, già illustrato in precedenza in relazione alle fonti
del diritto comunitario.
“Per esercitare le competenze dell’Unione, le istituzioni adottano regolamenti direttive, decisioni
raccomandazioni e pareri.
Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in
ciascuno degli Stati membri.
La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva
restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi.
La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei
confronti di questi.
Le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti”.
6. IL CONCETTO DI OBBLIGATORIETÀ DI UNA NORMA.
L’art. 288/TFUE considera obbligatori i regolamenti (II comma); le direttive limitatamente all’obbligo di
risultato che impongono agli Stati (III comma), e le decisioni.
Ne consegue che regolamenti, direttive e decisioni sono tutti atti obbligatori ovvero devono essere
necessariamente applicati negli ordinamenti degli Stati membri.
Una cosa è l’obbligatorietà di una norma, un’altra la possibilità che essa sia immediatamente applicabile da
parte degli organi statali, ad esempio i giudici nazionali o, in altre parole, sia suscettibile di produrre diritto
ed obblighi invocabili davanti ad un giudice dai privati.
Dopo aver chiarito cosa intendiamo per obbligatorietà di una norma, qui di seguito cercheremo di spiegare
i concetti di efficacia diretta, diretta applicabilità – che l’art. 288 attribuisce come carattere ai soli
regolamenti - e se tra le due nozioni vi sia una differenza.
7. IL CONCETTO DI DIRETTA APPLICABILITÀ.
L’art. 288/TFUE, al suo secondo comma, disciplina il regolamento e, dopo averne affermato la portata
generale ed il carattere obbligatorio dispone che esso è:
“…direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri…”.
Invece la stessa disposizione prevede che la direttiva sia obbligatoria soltanto per l’obbligo di risultato: non
si è quindi di fronte ad un atto direttamente applicabile, poiché agli Stati è lasciata discrezionalità di scelta
sulle forme e i mezzi per conseguire l’obbligo di risultato.
La diretta applicabilità è, secondo alcuni, un concetto strettamente legato agli effetti dei regolamenti
emanati dall’Unione europea. Essa viene così definita in dottrina:
“…si possono qualificare direttamente applicabili le norme per le quali sussiste l’attitudine ad incidere
direttamente sulla sfera giuridica dei singoli risulta dal Trattato…”.
BALLARINO considera la diretta applicabilità dei regolamenti come:
"...una qualità formale inerente - in maniera astratta all’atto normativo...".
e precisa che tale qualità non consente di attribuire ai regolamenti effetti diretti. Sembra pertanto che l'A.
si accosti più alla tesi di Conforti che, in merito alla diretta applicabilità dei regolamenti, ritiene che essa:
"...riguarda la forza formale dei regolamenti medesimi; essa significa che tutti i regolamenti acquistano tale
forza, e possono creare diritti ed obblighi all'interno del nostro Stato, indipendentemente da provvedimenti
di adattamento ad hoc. Ciò non significa che tutti i regolamenti siano direttamente, o meglio,
immediatamente applicabili (self-executing) anche per quanto riguarda il loro contenuto...".
Insomma, tra i concetti di diretta applicabilità dei regolamenti e la loro efficacia diretta ci sarebbe
differenza.
8. IL CONCETTO DI EFFICACIA DIRETTA (NORMA SELF-EXECUTING)
Secondo un'autorevole opinione:
"...L'effetto diretto risiede nell'idoneità della norma comunitaria a creare diritti ed obblighi direttamente in
capo ai singoli...".
L’efficacia diretta riguarda perciò la possibilità di desumere in via interpretativa l’attitudine di una norma
comunitaria qualsiasi – norma del TFUE, regolamento, direttiva o decisione che sia - ad incidere
direttamente sulla sfera giuridica dei singoli, poiché tale norma non prevede espressamente nulla al
riguardo. L’attribuzione di effetti diretti alle fonti del diritto comunitario avverrà in tal caso applicando le
regole all’uopo individuate dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
9. LA DISTINZIONE TRA DIRETTA APPLICABILITÀ ED EFFICACIA DIRETTA
Parte della dottrina sostiene la tesi per la quale la diretta applicabilità è caratteristica che deve emergere
espressamente dal Trattato, e quindi nel diritto comunitario essa è propria dei soli regolamenti in quanto
"qualità formale inerente - in maniera astratta, all'atto normativo", mentre l’efficacia diretta è invece
attributo da verificarsi in concreto caso per caso nei rispetti di tutte le norme comunitarie, persino dei
regolamenti, ove essi non siano completi.
Una tesi vicina a quest’ultima è quella, già richiamata, di chi ritiene che la diretta applicabilità sia un
concetto che si riferisce alla forza formale degli atti e perciò la identifica con la loro obbligatorietà. Per
questo A. invece l'efficacia diretta o immediata riguarda il contenuto dell’atto.
Altre posizioni affermano che la differenza tra diretta applicabilità ed efficacia diretta riguardi le diverse
modalità di applicazione all'interno degli SM, nel senso che le norme provviste di diretta applicabilità, come
i regolamenti, implicherebbero il divieto per gli Stati Membri di emanazione di normative statali di
attuazione salvo il caso della loro materiale incompletezza, nel qual caso si tratterebbe di norme produttive
di effetti diretti che implicherebbero l'obbligo degli Stati Membri di provvedere alla loro attuazione
concreta IMMEDIATA, senza cioè aspettare, come succede per le direttive, che scada il termine di
trasposizione .
Vi è infine chi ritiene irrilevante la distinzione tra diretta applicabilità ed efficacia diretta:
"...Non sono mancati i tentativi di distinguere la nozione di effetto diretto da quella di applicabilità
diretta...(...) con l'applicabilità diretta si rileva una qualità della norma, con l'effetto diretto se ne coglie
l'incidenza sulla posizione giuridica del singolo..."
il quale conclude:
"...La distinzione, peraltro, non trova alcun riscontro nella giurisprudenza, che utilizza indifferentemente le
due espressioni per designare le norme comunitarie che creano a vantaggio dei singoli posizioni giuridiche
soggettive direttamente tutelabili in giudizio...”.
In sintesi, ed a prescindere dalle discussioni della dottrina, si può dire che ciò che importa di sapere,
quando si devono stabilire gli effetti una norma comunitaria all’interno dello Stato, è se tale norma possa
produrli immediatamente o se invece non abbia bisogno dell’attività integratrice degli organi statali. In altre
parole, se l’atto comunitario sia self o non self-executing, abbia o meno efficacia diretta.
Le norme sprovviste di efficacia diretta nel diritto comunitario sono per antonomasia le direttive. Tuttavia,
vedremo che possono darsi anche casi di decisioni e regolamenti cd. “incompleti”.
10. I PRINCIPI GENERALI ELABORATI DALLA CORTE DI GIUSTIZIA
La Corte di giustizia è intervenuta sin dai primi anni di attività delle tre CE originarie per chiarire l’obbligo
degli Stati membri di assicurare il rispetto del diritto comunitario all’interno dei rispettivi ordinamenti
statali, elaborando, in proposito, due principi fondamentali, quello dell’efficacia diretta del diritto
comunitario e quello del primato del diritto comunitario sul diritto interno degli Stati membri. Tali principi
sono da considerarsi principi generali del diritto comunitario, con rango superiore alle norme di diritto
comunitario derivato.
In questa e nella prossima lezione analizzeremo il principio dell’efficacia diretta quale elaborato dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia, rispettivamente:
- delle norme dei trattati UE,
- dei regolamenti,
- delle direttive,
- delle decisioni,
- degli accordi conclusi dall’ UE,
- delle sentenze della Corte di giustizia
- di alcune fonti dell’Unione europea.
In secondo luogo, ed in questa lezione, illustreremo il principio fondamentale del primato del diritto
comunitario sul diritto degli Stati membri.
11. IL PRINCIPIO DELL’EFFICACIA DIRETTA DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA NEL DIRITTO INTERNO
DEGLI SM.
a) Efficacia diretta delle norme dei trattati
Il caso Van Gend en Loos – Sentenza CGCE del 5 febbraio 1963 in causa 26/62.
Si trattava di stabilire se l’art. 12 del Trattato CEE (attuale art. 30 TFUE) che vieta agli Stati di introdurre
nuovi dazi doganali o misure di effetto equivalente avesse efficacia diretta e potesse essere invocato dai
singoli. La Corte afferma in proposito:
“…Il disposto dell’art. 12 pone un divieto chiaro e incondizionato che si concreta in un obbligo non già di
fare, bensì di non fare. A quest’obbligo non fa riscontro alcuna facoltà degli Stati di subordinare l’efficacia
all’emanazione di un provvedimento di diritto interno. Il divieto dell’art. 12 è per sua natura perfettamente
atto a produrre direttamente degli effetti sui rapporti giuridici intercorrenti fra gli stati membri ed i loro
amministrati…”
e, più avanti, conclude:
“…Dalle considerazioni che precedono emerge che, secondo lo spirito, la struttura, il tenore del trattato,
l’art. 12 ha valore precettivo ed attribuisce ai singoli dei diritti soggettivi che i giudici nazionali sono tenuti a
tutelare…”.
Si ricordano inoltre i casi SALGOIL e Defrenne c. SABENA , relativi, rispettivamente, all'affermazione degli
effetti diretti degli ex artt. 31 (ora art. 35 TFUE divieti di restrizioni quantitative all’esportazione e misure di
effetto equivalente) e 119 (ora art. 157 TFUE, principio della parità di retribuzione tra uomo e donna) del
Trattato CE.
b) Efficacia diretta dei regolamenti.
L’art. 288 TFUE prevede la diretta applicabilità dei regolamenti. Nella maggior parte dei casi questa nozione
coincide con la loro efficacia diretta, ma ciò non sempre accade. Nel caso le due nozioni non coincidano, si
parla di “regolamenti incompleti”.
L’efficacia diretta è stata affermata più volte dalla Corte di Giustizia, anche con riferimento a regolamenti
incompleti ed è stata di recente riaffermata, rispetto ad ogni tipo di rapporti (sia verticali tra Stato e privati
che orizzontali tra privati). Sotto quest’ultimo aspetto si veda il caso Antonio Munoz y Cia SA e Superior
Fruiticola SA c. Frumar Limited e Redbridge Produce Marketing Limited -
L’efficacia diretta dei regolamenti è stata riconosciuta dalla nostra Corte Costituzionale solo nel 1973.
c) Efficacia diretta e regolamenti incompleti.
Il caso Leonesio: sentenza della Corte di Giustizia CE del 17 maggio 1972 in causa 93/71.
In quel caso un regolamento comunitario imponeva agli Stati membri di partecipare alla distribuzione, con
fondi nazionali di bilancio, di premi agli agricoltori, che dovevano essere solo in parte erogati dalla CEE.
Occorreva evidentemente l’attivazione di una procedura di erogazione dei premi, oltre che la previsione in
bilancio della relativa spesa e l’istituzione degli organi competenti alla loro distribuzione: si trattava
pertanto di un regolamento, per questa parte, non self-executing: la Corte di Giustizia riconoscendone il
carattere direttamente applicabile, ha identificato quest’ultimo con la diretta efficacia del regolamento.
Il caso Azienda Agricola Monte Arcosu: sentenza della Corte di Giustizia del 2001 in causa C-403/98.
d) Efficacia diretta delle decisioni
Il caso Grad: sentenza della Corte di Giustizia del 6 ottobre 1970 in causa 9/70.
Si verteva degli effetti di una decisione della Commissione di attuazione di una direttiva sull’introduzione
dell’IVA. L’art. 4 della Decisione 65/271 stabiliva che dal momento dell’applicazione della Direttiva
all’interno degli ordinamenti degli Stati membri, questi ultimi non avrebbero potuto mantenere tasse
interne equivalenti a dazi doganali, dovendole invece sopprimere.
La Corte ha così interpretato l'ex art 189 (ora art. 288 TFUE) del Trattato CE per la parte relativa alle
caratteristiche ed agli effetti delle decisioni:
"...la norma secondo cui le decisioni sono obbligatorie in tutti i loro elementi per il destinatario fa sorgere il
problema del se l'obbligo derivante da una decisione possa essere fatto valere soltanto dalle istituzioni
comunitarie nei confronti del destinatario, oppure possa eventualmente essere fatto valere da qualsiasi
soggetto interessato al suo adempimento.
Sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita dall'art. 189 alle decisioni l'escludere, in generale,
la possibilità che l'obbligo da essa imposto sia fatto valere dagli eventuali interessati...".
e) Efficacia diretta delle direttive
Le direttive comunitarie sono per definizione atti non self-executing, poiché, in base all’art. 288 TFUE e
come si è già detto nella lezione sugli atti, vincolano lo Stato membro solo per il risultato da raggiungere,
lasciandolo libero nella scelta delle forme e dei mezzi per ottenerlo.
Questo implica che gli Stati membri destinatari di direttive hanno un obbligo particolare: l’obbligo di
trasposizione, che consiste nell’adottare tutte le misure legislative, amministrative o regolamentari interne
necessarie a dare attuazione alla direttiva ed a realizzarne l’obbligo di risultato.
Se lo Stato membro viene meno all’obbligo di trasposizione, ci si chiede se la direttiva possa comunque
produrre effetti e, se sì, entro che limiti.
Autorevole dottrina, in materia di efficacia diretta delle direttive, afferma:
"...per ciò che concerne le direttive, l'obbligatorietà è limitata al risultato (...); ma si tratta allora di stabilire
quali effetti costituiscono un corollario dell'obbligo di risultato e si producono quindi immediatamente e
direttamente, e quali effetti invece sono condizionati alla determinazione delle "forme" e dei "mezzi" da
parte di organi nazionali, e si producono solo in seguito all'emanazione degli atti interni di esecuzione...".
Come si evince da quanto sopra, e dalla lettera dell’art. 288 TFUE (vedi lezione n. 9) le direttive sono atti
non self-executing, che hanno cioè bisogno di atti interni di trasposizione da parte degli organi competenti
degli Stati membri per poter esplicare i loro effetti giuridici, pur possedendo natura obbligatoria quanto al
risultato da conseguire.
Occorre ricordare in questa sede il fenomeno delle cd. "direttive dettagliate", frutto della prassi
istituzionale che tende a precisare le norme di attuazione delle direttive, togliendo in tal modo spazio e
discrezionalità agli Stati membri laddove invece essi avrebbero dovuto conservarli.
La legittimità di tal modo di procedere da parte delle istituzioni comunitarie sembra discutibile sul piano
teorico ed in linea di principio, limitando in modo importante lo spazio discrezionale lasciato agli Stati
membri con riferimento alle norme nazionali di trasposizione.
Tuttavia, tale legittimità non è mai stata contestata dagli Stati membri per cui le direttive "dettagliate" sono
considerate dalla dottrina unanime come legittime ma sono accostate da molti, quanto al loro contenuto, a
dei regolamenti.
In relazione all'efficacia diretta delle direttive occorre perciò distinguere quelle "dettagliate" dalle altre: le
prime saranno più frequentemente dotate di efficacia diretta, in quanto "assimilabili a dei regolamenti”, le
altre, invece, "produrranno immediatamente solo gli effetti derivanti conciliabili con l'obbligo di risultato" .
Il problema principale, con riguardo all’efficacia delle direttive si pone quando gli Stati membri destinatari
non provvedono all’obbligo di trasposizione emanando la normativa interna indispensabile oppure quando
vi provvedono in modo errato, ipotesi assimilabile alla mancata trasposizione limitatamente alle norme
nazionali incompatibili con la direttiva ed il suo obbligo di risultato.
Ci si chiede allora se, in caso di mancata o non corretta trasposizione, le direttive comunitarie possano
esplicare effetti negli ordinamenti interni, possano cioè essere invocate davanti ai giudici nazionali dai
singoli, persone fisiche o giuridiche, per far valere i diritti che loro discendono dalla direttiva.
Secondo Conforti, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ammette l'efficacia diretta delle direttive in tre
ipotesi:
(a) quando i giudici interni sono chiamati ad interpretare norme nazionali disciplinanti materie oggetto di
una direttiva comunitaria, tale interpretazione deve avvenire alla luce della lettera e dello scopo della
direttiva medesima (obbligo del giudice nazionale d’interpretazione del diritto interno in modo conforme
alla direttiva);
(b) allorché la direttiva chiarisce la portata di un obbligo già previsto dal Trattato, o sceglie una tra più
interpretazioni possibili di una medesima norma del Trattato, la sua interpretazione può considerarsi come
vincolante;
(c) allorché la direttiva impone allo Stato un obbligo, sia pure di risultato, ma non implicante
necessariamente l'emanazione di atti di esecuzione ad hoc (ad es. l'obbligo di abrogare determinate norme
entro un certo termine o di applicare un determinato principio), gli individui possono invocarla davanti ai
giudici nazionali per far valere gli effetti che essa si propone (...).
Gli effetti diretti possono essere riconosciuti però solo dopo la scadenza del termine di trasposizione
previsto dalla direttiva.
Con specifico riferimento all'ultima ipotesi, però, la Corte riconosce la possibilità di far valere gli effetti
diretti della direttiva soltanto nei rapporti tra Stato membro inadempiente (perché non l’ha trasposta nei
termini o trasposte non correttamente) e privati (PF e PG) (cd. effetti diretti verticali) e non anche nei
rapporti tra privati (cd. effetti diretti orizzontali).
La Corte di giustizia ha individuato un altro limite all’applicazione dei principi del primato e dell’efficacia
diretta del diritto comunitario nel principio fondamentale di legalità, in quanto principio generale del diritto
comunitario.
Questo principio presenta una doppia articolazione: da un lato esso comporta l’irretroattività della legge
penale, quando prevede che nessuno può essere punito penalmente per un comportamento tenuto in un
tempo in cui tale comportamento non era previsto come reato.
Dall’altro, dallo stesso principio si ricava quello della retroattività della legge penale più favorevole, poiché
consente, nel caso in cui una legge sopravvenuta escluda la punibilità di un comportamento in precedenza
considerato come reato, che tale legge sia applicata con efficacia retroattiva, investendo anche i
procedimenti penali pendenti.
Sotto il primo profilo, dell’irretroattività della legge penale, la Corte di giustizia ha mantenuto una
giurisprudenza costante nel tempo, in cui ha affermato, con riferimento all’efficacia del diritto comunitario,
che essa incontra un limite nel rispetto del principio di legalità.
CONFORTI inoltre ritiene che:
"...Oltre alle ipotesi ricavabili dalla giurisprudenza della Corte, altre se ne possono fare sulla base della
giurisprudenza interna e tenendo sempre presente le caratteristiche della direttiva..."
Secondo questo A. è possibile, perciò, riconoscere effetti diretti alle direttive anche nelle seguenti ipotesi:
(d) qualora la direttiva tocchi una materia lasciata alla discrezionalità della Pubblica Amministrazione, la sua
inosservanza da parte di quest'ultima può essere invocata come causa di eccesso di potere, comportando la
mancata realizzazione di un fine pubblico riconosciuto nell'ordinamento dello Stato;
(e) se la materia è coperta da riserva di legge, l'esistenza di direttive può sopperire all'inerzia del legislatore.
f) Efficacia diretta degli accordi conclusi dall’UE
La giurisprudenza della Corte di giustizia ha in linea di principio riconosciuto l’efficacia diretta degli accordi
internazionali, nella sentenza del 26 ottobre 1982, in causa 104/81, Kupfemberg .
In quel caso si discuteva dell’efficacia diretta nell’ordinamento degli Stati membri di un accordo di libero
scambio concluso dalla Comunità con un Paese allora parte dell’EFTA (Associazione europea di libero
scambio), il Portogallo.
In base all’art. 21, 1° comma di questo accordo, i contraenti devono evitare di adottare prassi fiscali
discriminatorie nei confronti dei prodotti originari di uno di essi ed importati in un altro, a favore dei
prodotti nazionali, poiché in caso contrario sarebbero annullati i vantaggi che l’accordo in questione
accorda ai prodotti importati in termini di esenzione da dazi doganali, tasse di effetto equivalente e
restrizioni quantitative.
La Corte afferma l’efficacia diretta di questa disposizione sia nei confronti delle istituzioni sia rispetto agli
Stati membri, data l’obbligatorietà per essi degli accordi dell’allora CE, che può rendere necessaria la loro
esecuzione, oltre che a livello comunitario, anche a livello degli ordinamenti statali.
Per l’efficacia diretta di un accordo di associazione (all’epoca, CE – Turchia) si ricorda il caso Demirel, dal
nome di una cittadina turca colpita da un provvedimento di espulsione emesso dalle autorità della
Repubblica Federale di Germania. L’espulsione derivava dal fatto che alla cittadina turca era scaduto il visto
per visitare il marito, regolarmente residente in Germania per motivi di lavoro, e non era riuscita ad
ottenere un permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare, per la severità delle leggi del Laden
Baden-Wuttemberg. La signora Demirel chiedeva l’annullamento del provvedimento di espulsione in
quanto contrario ad alcune disposizioni dell’accordo di associazione tra l’allora CE e la Turchia, in
particolare all’art. 12 che sanciva la libera circolazione dei lavoratori stranieri.
La Corte nega l’efficacia diretta della disposizione richiamata, interpretandola in combinato con l’art. 36 del
Protocollo addizionale che stabiliva le modalità di realizzazione graduale della cooperazione tra le parti.
Poiché non erano state adottate misure di attuazione graduale dell’art. 12, quest’ultimo avrebbe avuto una
natura meramente programmatica, senza prevedere disposizioni sufficientemente precise ed
incondizionate.
Una propensione a negare effetti diretti si può riscontrare nella giurisprudenza della Corte rispetto
all’accordo GATT 1947, e questo, nonostante la clausola di compatibilità dei tratti con gli accordi anteriori
contenuta nell’art. 351 TFUE, facendo valere il carattere programmatico e flessibile delle sue disposizioni,
ovvero la loro natura non self-executing.
Questa posizione è stata affermata dalla Corte nella nota sentenza International Fruit .
La Corte ha poi ribadito anche l’inefficacia delle norme del GATT 1994, che fa parte di diversi accordi
commerciali multilaterali che fanno capo al sistema OMC.
g) Efficacia delle sentenze della Corte di Giustizia
L’efficacia della sentenza della Corte si ricava dai trattati istitutivi. La Corte costituzionale italiana l’ha
espressamente riconosciuta con due importanti sentenze, soltanto negli anni ’80:
- Sentenza del 23.04.1985 n. 113/85, Beca s.p.a. e altri c. Amministrazione finanziaria dello Stato;
- Sentenza del 4-11 luglio 1989, conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato e la Provincia autonoma di
Bolzano.
L’obbligo di dare esecuzione alle sentenze della Corte è stato riconosciuto a livello legislativo dalle leggi di
adeguamento dell'ordinamento italiano al diritto dell'Unione.
12. IL PRINCIPIO DEL PRIMATO DEL DIRITTO COMUNITARIO SUL DIRITTO DEGLI SM.
Il principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno degli Stati membri è, assieme a quello
dell’efficacia diretta appena illustrato, il più importante principio generale del diritto comunitario. La sua
funzione è quella di regolare i rapporti tra l’ordinamento comunitario e gli ordinamenti degli Stati membri
muovendosi in un’ottica monista, considerando cioè i citati e diversi ordinamenti come appartenenti ad
unico ordine giuridico fatto di più livelli.
In quest’ottica monista il diritto comunitario costituisce l’ordinamento superiore (a quello degli Stati
membri) e le sue norme, di conseguenza, prevalgono su quelle degli ordinamenti statali.
Questo principio è stato elaborato dalla Corte di giustizia agli albori del fenomeno dell’integrazione
europea, in una storica sentenza resa nel caso Costa c. Enel.
13. IL CASO COSTA/ENEL – SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DEL 15 LUGLIO 1964 IN CAUSA 6/64.
Si trattava di stabilire se una legge interna italiana successiva di nazionalizzazione dell’ENEL fosse in
contrasto con il diritto comunitario e quali fossero i rapporti tra i due atti normativi. La Corte afferma in
quell’occasione il principio fondamentale del primato del diritto comunitario sul diritto interno degli Stati
membri:
“…Gli obblighi assunti con il Trattato istitutivo della Comunità non sarebbero assoluti, ma soltanto
condizionati, qualora le Parti contraenti potessero sottrarsi alla loro osservanza mediante ulteriori
provvedimenti legislativi…”
e, più avanti:
“…La preminenza del diritto comunitario trova conferma nell’art. 189 (attuale art. 288 TFUE), a norma del
quale i regolamenti sono obbligatori e applicabili direttamente in ciascuno degli Stati membri…”
e ancora:
“…Il trasferimento, effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento comunitario, dei diritti e degli obblighi
corrispondenti alle disposizioni del Trattato implica quindi una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani,
di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile col sistema della Comunità, sarebbe del
tutto privo di efficacia…”.
L’EVOLUZIONE LEGISLATIVA IN MATERIA DI ADATTAMENTO AL DIRITTO COMUNITARIO E DELL'UNIONE
EUROPEA.
In Italia mancavano, fino alla modifica del Titolo V della Costituzione, realizzata con la legge costituzionale
18 ottobre 2001 n. 3, norme costituzionali che imponessero l’applicazione ed il rispetto del diritto
comunitario in Italia, a differenza di altri Stati membri dove i rapporti tra diritto interno e diritto
comunitario sono espressamente disciplinati dalla Costituzione.
Inizialmente si procedeva pertanto in ordine sparso, compiendo azioni (come la riformulazione dei
regolamenti) od omissioni (come la mancata attuazione delle direttive nei termini imposti) spesso oggetto
di condanna da parte della Corte di Giustizia comunitaria.
Solo negli anni ’80 ed a seguito delle numerose pronunce d’inadempimento emesse dalla Corte di Giustizia
CE nei confronti del nostro Stato, s’inizia a registrare una maggiore attenzione del legislatore per il
problema dell’applicazione e del rispetto del diritto comunitario nel nostro ordinamento.
La Legge n. 183/1987, intitolata Coordinamento delle politiche riguardanti l’appartenenza dell’Italia alle
Comunità europee ed adeguamento dell’ordinamento interno agli atti normativi comunitari costituisce il
Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie (art. 1) e il Fondo di rotazione per far fronte
alle spese connesse con gli obblighi derivanti dall’adempimento del diritto comunitario in Italia. Si prevede
inoltre la possibilità di attuazione del diritto comunitario in via amministrativa in relazione a materie non
disciplinate con legge o non coperte da riserva di legge (art. 11) e l’istituzione di una Commissione per il
recepimento delle normative comunitarie (art. 19).
E’ tuttavia solo con la Legge La Pergola n. 86/1989 intitolata Norme generali sulla partecipazione dell’Italia
al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari che si
chiariscono in modo più organico i rapporti tra diritto comunitario e diritto italiano. La legge ha la finalità di
garantire l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle CE che conseguono sia
all’adozione di atti comunitari vincolanti che richiedano un’attività di attuazione da parte dello Stato, sia
all’accertamento di casi d’incompatibilità di norme interne col diritto comunitario con sentenze della Corte
di Giustizia (art. 1) e istituisce all’uopo la cosiddetta “Legge comunitaria” (art. 2).
Il paragrafo 2 di quest’ultima norma stabilisce che il Ministro competente per il coordinamento delle
politiche comunitarie debba presentare al Parlamento entro il 31 gennaio di ogni anno un disegno di legge
dal titolo: “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle CE”
completato dalla dicitura “Legge comunitaria” seguita dall’anno di riferimento.
Si prevede l’elaborazione di una relazione introduttiva del disegno di legge che dia conto della
giurisprudenza della Corte GCE e delle direttive scadute o in scadenza motivandone la loro eventuale
mancata inserzione nel disegno di legge. Entro 90 giorni (quindi entro il 1° marzo di ogni anno) il Governo
deve riferire alle Camere sullo stato di attuazione del diritto comunitario nel nostro ordinamento e
presentare un progetto di legge con le misure necessarie all’adeguamento del diritto comunitario
mediante:
- misure di modifica o di abrogazione delle norme interne incompatibili col diritto comunitario;
- misure per l’attuazione o per assicurare l’applicazione degli atti del Consiglio o della Commissione,
anche mediante conferimento di delega legislativa al Governo;
- mediante autorizzazione al Governo ad attuare in via regolamentare le direttive.
La legge La Pergola è stata poi sostituita dalla Legge 4 febbraio 2005, n. 11, intitolata "Norme generali sulla
partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli
obblighi comunitari" pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 37 del 15 febbraio 2005 che al suo articolo 1
dispone:
1. La presente legge disciplina il processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione
degli atti comunitari e dell’Unione europea e garantisce l’adempimento degli obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, di proporzionalità, di
efficienza, di trasparenza e di partecipazione democratica.
2. Gli obblighi di cui al comma 1 conseguono:
a) all’emanazione di ogni atto comunitario e dell’Unione europea che vincoli la Repubblica italiana a
adottare provvedimenti di attuazione;
b) all’accertamento giurisdizionale, con sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, della
incompatibilità di norme legislative e regolamentari dell’ordinamento giuridico nazionale con le disposizioni
dell’ordinamento comunitario;
c) all’emanazione di decisioni-quadro e di decisioni adottate nell’ambito della cooperazione di polizia e
giudiziaria in materia penale.
Rispetto alla Legge La Pergola, si introduce l’obbligo di adattamento non soltanto per gli atti delle CE, ma
anche dell’UE, in particolare delle decisioni e delle decisioni-quadro che sono adottate in materie di
competenza del terzo pilastro UE.
Altra novità è l’istituzione del CIACE (Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei). In
proposito la legge n. 11/2005 dispone:
“Al fine di concordare le linee politiche del Governo nel processo di formazione della posizione italiana nella
fase di predisposizione degli atti comunitari e dell’Unione europea e di consentire il puntuale adempimento
dei compiti di cui alla presente legge, è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri il Comitato
interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE), che è convocato e presieduto dal Presidente del
Consiglio dei ministri o dal Ministro per le politiche comunitarie e al quale partecipano il Ministro degli
affari esteri, il Ministro per gli affari regionali e gli altri Ministri aventi competenza nelle materie oggetto dei
provvedimenti e delle tematiche inseriti all’ordine del giorno”.
Gli articoli da 3 a 7 disciplinano una materia estranea all’adattamento, ovvero le modalità di
coinvolgimento, rispettivamente, del Parlamento italiano, delle Regioni e delle Province autonome, degli
enti locali, della società civile e delle categorie produttive, al processo di formazione degli atti comunitari.
L’art. 8, riprendendo nella sostanza la legge La Pergola, s’intitola “legge comunitaria” e disciplina le sue
modalità di adozione, mentre le successive disposizioni indicano il contenuto che deve assumere la legge
comunitaria (art. 9) e i diversi mezzi di attuazione del diritto comunitario, quali la via regolamentare e la
delega legislativa (art. 11).
L’art. 9 § 1 della legge n. 11/2005 precisa il contenuto che deve possedere la legge comunitaria,
disponendo:
1. Il periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento comunitario è assicurato dalla
legge comunitaria annuale, che reca:
a) disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti in contrasto con gli obblighi
indicati all’articolo 1;
b) disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti oggetto di procedure di
infrazione avviate dalla Commissione delle Comunità europee nei confronti della Repubblica italiana;
c) disposizioni occorrenti per dare attuazione o assicurare l’applicazione degli atti del Consiglio o della
Commissione delle Comunità europee di cui alle lettere a) e c) del comma 2 dell’articolo 1, anche mediante
il conferimento al Governo di delega legislativa;
d) disposizioni che autorizzano il Governo ad attuare in via regolamentare le direttive, sulla base di
quanto previsto dall’articolo 11;
e) disposizioni occorrenti per dare esecuzione ai trattati internazionali conclusi nel quadro delle
relazioni esterne dell’Unione europea;
f) disposizioni che individuano i principi fondamentali nel rispetto dei quali le regioni e le province
autonome esercitano la propria competenza normativa per dare attuazione o assicurare l’applicazione di
atti comunitari nelle materie di cui all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione;
g) disposizioni che, nelle materie di competenza legislativa delle regioni e delle province autonome,
conferiscono delega al Governo per l’emanazione di decreti legislativi recanti sanzioni penali per la
violazione delle disposizioni comunitarie recepite dalle regioni e dalle province autonome;
h) disposizioni emanate nell’esercizio del potere sostitutivo di cui all’articolo 117, quinto comma, della
Costituzione, in conformità ai princìpi e nel rispetto dei limiti di cui all’articolo 16, comma 3.
L’attuazione degli obblighi suddetti viene assicurata attraverso l’utilizzo di tre strumenti:
- l’attuazione diretta ad opera di disposizioni contenute nella legge stessa;
- la delega legislativa;
- l’attuazione con strumenti amministrativi, anche in deroga a norme di legge (delegificazione).
La Legge n. 11/2005, già modificata ad opera di leggi comunitarie ad essa successiva, è stata di recente
abrogata e sostituita dalla Legge n. 234/2012 “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla
formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”, anch’essa finalizzata a
disciplinare il ruolo delle istituzioni italiane sia nella fase ascendente, di formazione del diritto dell’Unione,
sia in quella discendente, di adattamento e applicazione della normativa europea.
Innovando rispetto alla precedente disciplina, la nuova legge 234/2012, con riguardo al processo di
adattamento (fase discendente) introduce al posto della “legge comunitaria” due distinti strumenti
legislativi: la legge di delegazione europea e la legge europea (art. 29), a cadenza annuale (com’era la legge
comunitaria), ma con la possibilità di emanazione, ove necessario, di un’altra legge di delegazione europea
in corso d’anno riferibile al secondo semestre.
Contenuto della legge di delegazione europea (art. 30 comma 2 L. 234/2012):
- conferimento al Governo di delega legislativa per l’attuazione di direttive e decisioni-quadro non
ancora recepite;
- conferimento al Governo di delega legislativa per la modifica o l’abrogazione di disposizioni statali
in esecuzione di pareri motivati della Commissione o di sentenze d’inadempimento della Corte di Giustizia;
- disposizioni di autorizzazione al Governo all’emanazione di atti regolamentari per recepire direttive
europee;
- conferimento al Governo di delega legislativa per l’adozione di sanzioni penali o amministrative per
le violazioni di atti europei;
- conferimento di delega legislativa al Governo per l’attuazione di regolamenti incompleti;
- conferimento di delega legislativa al Governo per l’emanazione di sanzioni penali per la violazione
di disposizioni dell’Unione recepite dalle Regioni e dalle Province autonome per le materie di loro
competenza;
- disposizioni che autorizzano il Governo ad emanare testi unici di riordino e armonizzazione di
normative di settore;
- conferimento di delega legislativa al Governo per l’adozione di disposizioni di modifica o
integrazione di decreti legislativi già emanati per recepire atti delegati dell’Unione adottati in base all’art.
290 TFUE.
Contenuto della legge europea (art. 30 comma 3 L. 234/2012):
- disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali in contrasto con obblighi europei;
- disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali oggetto di procedura d’infrazione
avviate dalla Commissione contro l’Italia o di sentenze della Corte di Giustizia;
- disposizioni necessarie ad attuare atti dell’Unione;
- disposizioni per dare esecuzione ad accordi internazionali conclusi nel quadro delle relazioni
esterne dell’Unione.
- Altre disposizioni delle due leggi riguardano materie di competenza regionale.
Data l’evidente sovrapposizione di contenuto, almeno parziale, delle due leggi, starà al Parlamento la
decisione di quale dei due strumenti utilizzare – se la legge di delegazione o la legge europea – al fine di
attuare il diritto dell’Unione.
Le leggi di delegazione e quella europea sono presentate annualmente dal Governo al Parlamento entro il
28 febbraio di ogni anno come disegni di legge.
Resta poi la possibilità, al di fuori di questi strumenti “ordinari” di attuazione, di adottare leggi specifiche
(ad hoc), per singoli atti dell’Unione o per attuare obblighi derivanti da sentenze di inadempimento della
Corte di Giustizia o dirette a far cessare procedure d’infrazione avviate dalla Commissione. Un esempio è la
legge n. 69/2005 (adottata prima della revisione di Lisbona) per attuare la decisione – quadro dell’ex terzo
pilastro in materia di mandato d’arresto europeo.
Inoltre, si può ricordare il cd. decreto salva infrazioni (decreto-legge n. 135/2009 convertito in Legge n.
166/2009) che ha permesso la chiusura di ben 14 procedure di infrazione contro l’Italia avviate dalla
Commissione.
Infine, è bene ricordare che con legge costituzionale n. 1/2012 si è introdotto nella nostra Costituzione il
principio del pareggio del bilancio, in esecuzione non già di un atto dell’Unione, bensì di un accordo
concluso tra alcuni degli Stati membri UE partecipanti alla zona euro, il Trattato di Bruxelles del 2 marzo
2012 denominato Fiscal Compact.
I RAPPORTI TRA NORME UE E NORME INTERNE
1. Introduzione
Una volta illustrati i due principi cardine in materia di rapporti tra norme UE e norme interne degli Stati
membri – efficacia diretta e primato – passiamo adesso a studiare gli obblighi che ne discendono per gli
Stati membri specificamente attraverso l’evoluzione di tali rapporti come si desume dall’esame della
giurisprudenza delle due massime Corti: la Corte costituzionale italiana e quella di giustizia dell'UE.
L’analisi si articolerà in due diverse parti: la prima riguarderà i rapporti tra norme di pari rango, ovvero i
rapporti tra le norme dei trattati e del diritto comunitario derivato che possiedono di rango ordinario in
quanto, l’ordine di esecuzione dei trattati istitutivi è stato dato con legge ordinaria, e le altre norme di
rango ordinario di natura puramente interna, adottate cioè dal legislatore italiano. Essa sarà svolta nella
presente lezione
Nella prossima lezione ci occuperemo dei rapporti tra norme UE e norme costituzionali italiane.
2. I rapporti tra norme dell'UE e leggi ordinarie secondo la dialettica tra Corte costituzionale italiana e Corte
di Giustizia UE.
Come emerge dalle affermazioni della Corte di giustizia nella sentenza Costa c. ENEL, le limitazioni di
sovranità, cui gli Stati membri hanno consentito aderendo ai Trattati, hanno determinato la creazione di un
ordinamento nuovo, diverso sia da quello internazionale, dal quale i trattati istitutivi traggono origine, sia
da quelli statali: un ordinamento sopra-nazionale che comprende sia l’ordinamento giuridico comunitario
(ora dell'UE) che gli ordinamenti degli Stati membri. Ecco spiegata l’ottica monista della Corte.
Questa concezione monista degli ordinamenti statali e dell'UE, tuttavia non è stata subito accettata dagli
Stati membri quali l’Italia, saldamente attaccata alla concezione dualista fondata sul relativismo degli
ordinamenti giuridici.
In base alla concezione dualista l’ordinamento comunitario (ora dell'UE) e l’ordinamento italiano sono due
ordinamenti distinti e separati ed inizialmente, secondo la prospettiva della Corte costituzionale italiana, le
norme comunitarie adattate e quelle italiane avrebbero dovuto coordinarsi secondo i normali principi
d’interpretazione delle leggi, in particolare quello di posteriorità.
3. Il caso Costa contro ENEL tra Corte costituzionale e Corte di giustizia
Questa posizione venne sostenuta dalla nostra Corte costituzionale proprio nel caso Costa c. Enel che,
prima di finire con rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia, era stato deciso dal giudice italiano
delle leggi pochi mesi prima, con la sentenza della Corte Costituzionale italiana del 7 marzo 1964 n. 14. In
quella occasione la nostra Corte aveva infatti deciso che ai rapporti tra norme del Trattato CEE (ora TFUE)
adattate con una legge ordinaria, e le norme emanate successivamente dal Parlamento italiano - in quel
caso la legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica e di creazione dell’ENEL che secondo l’avvocato
Costa erano in contrasto con alcune norme del TCE -, si applicava il principio di successione delle leggi nel
tempo, (lex posterior derogat anteriori) per cui sarebbe prevalsa la normativa italiana su quella
comunitaria, in quanto posteriore al Trattato.
La sentenza Costa c. ENEL decisa invece dalla Corte di giustizia e, soprattutto, l’affermazione del principio
del primato del diritto comunitario direttamente applicabile sul diritto interno degli Stati membri,
costituiscono la risposta dell'Unione alla concezione italiana dei rapporti tra diritto comunitario (ora
dell'UE) e interno.
Quanto precede dimostra come l’applicazione del diritto UE in Italia ed il suo rispetto da parte del nostro
ordinamento giuridico, agli esordi del processo d’integrazione e fino a tempi recenti, hanno subìto
importanti e tormentate vicende, per le diverse (almeno in origine) posizioni della Corte di Giustizia e della
Corte Costituzionale italiana, in materia di rapporti tra norme comunitarie e norme interne.
Queste vicende sono in parte dovute al fatto che in Italia non esistevano disposizioni costituzionali
specifiche sui rapporti tra diritto comunitario e diritto italiano fino al 2001, quando, lo ricordiamo, con la
riforma del Titolo V della Costituzione è stato modificato l’art. 117 Cost. il quale, sebbene tratti
formalmente della ripartizione di competenze legislative Stato-Regioni, è stata considerata da autorevole
dottrina, e dalla Corte costituzionale anche una norma regolatrice dei rapporti tra diritto italiano, diritto
internazionale e comunitario (ora dell'UE). Questo per la parte in cui prevede che, nell’esercizio delle
rispettive competenze legislative, lo Stato e le Regioni devono rispettare i vincoli derivanti, oltre che dalla
Costituzione, anche dal diritto internazionale e dal diritto comunitario.
4. Il caso Frontini: l’apertura della Corte costituzionale italiana al diritto comunitario.
Quasi dieci anni sono dovuti passare prima che la nostra Corte costituzionale ammettesse che il diritto
interno successivo incompatibile non potesse prevalere su quello comunitario.
Il caso Frontini, deciso dalla Corte costituzionale nel 1973, contiene la prima affermazione della prevalenza
del diritto comunitario sul diritto interno. Si trattava, in questo caso, di regolamenti comunitari con i quali
erano in conflitto atti interni di esecuzione.
La nostra Corte, capovolgendo la prospettiva accolta nel precedente caso Costa c. ENEL con la sentenza n.
14 del 1964, afferma adesso non solo che i regolamenti comunitari non devono essere eseguiti con norme
nazionali di attuazione, ma soprattutto che in caso di incompatibilità prevalgono su queste ultime:
“… Risponde (…) alla logica del sistema comunitario che i regolamenti della CEE, sempreché abbiano quella
completezza di contenuto dispositivo , che caratterizza di regola le norme intersoggettive, come fonte
immediata di diritti e obblighi sia per gli Stati sia per i loro cittadini in quanto soggetti della Comunità, non
debbano essere oggetto di provvedimenti statali a carattere riproduttivo, integrativo o esecutivo che
possano comunque differirne o condizionarne l’entrata in vigore, e tantomeno sostituirsi ad essi, derogarvi
o abrogarli, anche parzialmente…” .
La Corte giustifica il cambio di prospettiva invocando, quale base giuridica per riconoscere il primato del
diritto comunitario, l’art. 11 della Cost., norma che:
“…legittima le limitazioni dei poteri dello Stato in ordine all’esercizio delle funzioni legislativa, esecutiva e
giurisdizionale…”, in particolare consente la produzione di norme da parte di organi non appartenenti al
potere legislativo italiano, quali le istituzioni comunitarie.
Questo potere normativo:
“… compete agli organi della Comunità «per l’assolvimento dei loro compiti e alle condizioni previste dal
Trattato»; è stato così attuato da ciascuno degli Stati membri un parziale trasferimento agli organi
comunitari dell’esercizio della funzione legislativa, in base ad un preciso criterio di ripartizione di
competenze per le materie analiticamente indicate nelle parti seconda e terza del Trattato, in correlazione
necessaria con le finalità di interesse generale stabilite dal Trattato stesso (…) Questa attribuzione di
potestà normativa agli organi della CEE, con la corrispondente limitazione di quella propria degli organi
costituzionali dei singoli Stati membri, non è stata consentita unilateralmente né senza che l’Italia abbia
acquistato poteri nell’ambito della nuova istituzione…”.
Questa costruzione fondata sull’art. 11 Cost. doveva servire, per la Corte, a giustificare la prevalenza del
diritto comunitario con quello statale incompatibile.
5. Il caso ICIC: l’esclusione del potere per il giudice interno di disapplicare il diritto interno incompatibile col
diritto comunitario e l’obbligo di sollevare la questione di legittimità costituzionale.
Successivamente, con la nota sentenza ICIC, la Corte doveva di nuovo affrontare il problema della
compatibilità con il diritto comunitario di leggi interne di esecuzione di regolamenti comunitari. I
regolamenti comunitari sono atti, per espressa disposizione dell’art. 189/TCEE (ora 288/TFUE):
“direttamente applicabili in tutti i loro elementi all’interno degli Stati membri”.
La Corte costituzionale riconosceva che la legge italiana di esecuzione di un regolamento si poneva perciò in
contrasto con questa disposizione, ed anche con l’art. 177 del TCE (ora 267/TFUE), nei termini che seguono:
“… la successiva emanazione di norme legislative interne, anche se aventi lo stesso contenuto sostanziale
dei regolamenti comunitari, comporta non soltanto la possibilità di differirne, in tutto o in parte,
l’applicazione, in aperto contrasto con l’articolo 189, secondo comma, del Trattato di Roma, ma anche una
ben più grave conseguenza, in quanto la trasformazione del diritto comunitario in diritto interno ne sottrae
l’interpretazione in via definitiva alla Corte di Giustizia delle Comunità, con palese violazione dell’art. 177
dello stesso Trattato quale necessaria e fondamentale garanzia di uniformità di applicazione in tutti gli Stati
membri…” .
L’apertura della Corte risultava però solo teorica, dal momento che essa escludeva che, in conseguenza
della dichiarata incompatibilità della normativa interna, il giudice ordinario italiano potesse disapplicarla:
“…Per quanto concerne le norme interne successive, emanate con legge o con atti aventi valore di legge,
questa Corte ritiene che il vigente ordinamento non conferisca al giudice italiano il potere di disapplicarle,
nel presupposto d’una generale prevalenza del diritto comunitario sul diritto dello Stato. (…) Non sembra
nemmeno possibile configurare la possibilità della disapplicazione come effetto di una scelta tra norma
comunitaria e norma interna consentita al giudice italiano sulla base di una valutazione della rispettiva
resistenza. In tale ipotesi dovrebbe riconoscersi al giudice italiano non già la facoltà di scegliere tra più
norme applicabili, bensì quella di individuare la sola norma validamente applicabile, ciò che equivarrebbe
ad ammettere il suo potere di accertare e dichiarare una incompetenza assoluta del nostro legislatore, sia
pure limitatamente a determinate materie, potere che nel vigente ordinamento sicuramente non gli è
attribuito…”.
La soluzione trovata dalla nostra Costituzionale era allora quella di obbligare il giudice interno ordinario a
sollevare di volta in volta la questione della legittimità costituzionale delle norme interne di recepimento di
regolamenti comunitari, per contrasto con l’art. 11 Cost.:
“…È dunque evidente il contrasto con i principi enunciati dagli articoli 189 e 177 del Trattato istitutivo della
C.E.E. (ora CE), che comporta violazione dell’art. 11 della nostra Costituzione, in base al quale l’Italia ha
aderito alla Comunità consentendo, in condizioni di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità
richieste per la sua istituzione e per il conseguimento dei suoi fini di integrazione…”.
6. Le critiche della dottrina alla giurisprudenza ICIC.
La sentenza I.C.I.C. suscitò a suo tempo reazioni negative da parte della dottrina per gli effetti paralizzanti
che comportava sull’applicazione del diritto comunitario direttamente applicabile in Italia:
“…di fronte ad una norma di legge interna incompatibile con un regolamento comunitario, gli operatori
giuridici interni e soprattutto i giudici non avrebbero potuto applicare la normativa comunitaria prima che
la legge fosse annullata (annullamento che, tra l’altro, ha efficacia ex nunc) dalla Corte…”.
7. La reazione della Corte di giustizia CE: il caso Simmenthal.
La reazione della Corte di giustizia non si fece attendere: con la sentenza Simmenthal del 1978, essa ha
affermato l’importante principio, corollario indispensabile di quello del primato del diritto comunitario sul
diritto interno, dell’obbligo del giudice nazionale di disapplicare il diritto interno incompatibile con il diritto
comunitario direttamente efficace, quali sono i regolamenti, nei termini che seguono:
“… il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di
diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di
propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza
doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento
costituzionale…”.
8. L’adeguamento della Corte costituzionale italiana: il caso Granital.
L’accoglimento di questa posizione da parte del giudice costituzionale italiano interverrà dopo diversi anni,
con la storica sentenza n. 170/1984, Granital.
In questa pronuncia la Corte, dopo aver ricordato la sua posizione per la quale il giudice ordinario non
avrebbe potuto disapplicare la norma interna incompatibile ma sollevare necessariamente una questione di
legittimità costituzionale per violazione dell’art. 11 Cost., cambia opinione:
“…La Corte è ora dell’avviso che tale ultima conclusione, e gli argomenti che la sorreggono, debbano essere
riveduti…”.
In particolare essa prende le mosse dalla concezione dualista che ha improntato tutta la sua giurisprudenza
precedente in materia di rapporti tra ordinamento comunitario e interno configurandoli come “autonomi e
separati ancorché coordinati” e ritiene di dover “meglio chiarire come si ponga il rapporto tra i due
ordinamenti” . In proposito la Corte afferma:
“…la garanzia che circonda l’applicazione di tale normativa è – grazie al precetto dell’art. 11 Cost. (…) –
piena e continua. Precisamente le disposizioni della CEE, le quali soddisfano i requisiti dell’immediata
applicabilità devono, al medesimo titolo, entrare e permanere in vigore nel territorio italiano, senza che la
sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla legge ordinaria dello Stato. Non importa, al riguardo,
se questa legge sia anteriore o successiva. Il regolamento comunitario fissa, comunque, la disciplina della
specie. L’effetto connesso con la sua vigenza è perciò quello, non già di caducare, nell’accezione propria del
termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione
della controversia davanti al giudice nazionale…”.
Questo significa che, appartenendo le norme a due ordinamenti distinti ma coordinati, non operano i
normali strumenti, come l’abrogazione, che regolano i rapporti tra le fonti all’interno di uno stesso
ordinamento. La norma interna incompatibile, infatti, nella concezione della Corte, non va caducata,
abrogata, dovendo semplicemente, se adottata in materie trasferite alla CE (ora UE), spostarsi e fare posto
a quella comunitaria, unica competente a regolare la fattispecie. La Corte in proposito precisa infatti:
“…In ogni caso il fenomeno in parola (di ritrazione-disapplicazione della norma interna per far posto
all’applicazione di quella comunitaria n.d.r.) va distinto dall’abrogazione, o da alcun altro effetto estintivo o
derogatorio, che investe le norme all’interno dello stesso ordinamento statuale…”.
Si arriva dunque ad una posizione della Corte maggiormente europeista, favorevole al riconoscimento
della possibilità, per il giudice ordinario nazionale, di “disapplicare” direttamente il diritto interno non
conforme al diritto comunitario senza sollevare questione di costituzionalità, per il fenomeno di “ritrazione-
sostituzione-riconoscimento-garanzia”. Il presupposto dualista della pronuncia non comporta, per
MENGOZZI, che la Corte abbia riconosciuto un vero e proprio potere di disapplicazione del diritto interno,
perché quest’ultimo non risulta applicabile in quanto non più validamente formato nelle materie trasferite
alla Comunità. Si deve piuttosto parlare di fenomeno di “non applicazione”, come specificato dalla sentenza
della Corte costituzionale dell’8-18.04.1991 n. 168 (Giampaoli).
In questo caso si verteva dell’incompatibilità tra una norma italiana e una direttiva comunitaria non
correttamente trasposta: la Corte afferma che quando le norme di quest’ultima risultano incondizionate e
impongono obblighi precisi, e lo Stato sia inadempiente non avendola trasposta, anche le direttive, e non
solo i regolamenti, esplicando effetti diretti, prevalgono sul diritto interno.
Va infatti ricordato, con la migliore dottrina, che la sentenza Granital riguardava solo i regolamenti
comunitari, e che successivamente la Corte “…estende gli argomenti svolti e le conclusioni raggiunte nella
sentenza n. 170 a tutto il diritto comunitario “immediatamente applicabile” ivi comprese “le statuizioni
risultanti…dalle sentenze interpretative della Corte delle Comunità europee…”, avvicinandosi così alla
posizione espressa da quest’ultima nel caso Simmenthal.
9. L’estensione dell’obbligo di disapplicazione alla PA: il caso F.lli Costanzo.
È ancora la giurisprudenza italiana a segnare una nuova tappa nell’evoluzione dei principi applicabili ai
rapporti tra diritto comunitario e diritto interno degli Stati membri. Con il caso Fratelli Costanzo, sollevato
con rinvio pregiudiziale dal giudice amministrativo di Milano, la Corte di giustizia ha stabilito che l’obbligo di
disapplicare il diritto interno incompatibile con il diritto comunitario spetta non solo al giudice interno, ma
anche alla pubblica amministrazione nell’esercizio dei suoi poteri, quando si trovi a dover applicare norme
comunitarie.
10. Segue: il caso Ciola.
È merito invece di una questione pregiudiziale sollevata da un giudice austriaco l’aver provocato un’altra
decisiva pronuncia della Corte di giustizia sui rapporti tra diritto comunitario e diritto interno.
Nel caso Ciola il giudice comunitario ha infatti stabilito che il giudice interno è tenuto a disapplicare il diritto
interno incompatibile con la normativa comunitaria direttamente efficace, anche qualora si tratti di un
provvedimento amministrativo i cui effetti siano ormai definitivi.
11. I rimedi in caso d’impossibilità di applicare il diritto comunitario non self-executing.
Quid in caso di incompatibilità di una normativa nazionale con norme di diritto comunitario non self-
executing? In altre parole, in caso di mancata trasposizione di una direttiva, e nell’impossibilità di attribuirle
comunque effetti diretti, quali strumenti hanno a disposizione i singoli per far valere davanti al giudice
nazionale eventuali diritti loro riconosciuti dall’atto comunitario ineseguito?
Si possono distinguere, a tale proposito, rimedi di diritto dell'Unione e rimedi di diritto interno.
I primi sono essenziamente principi – quali l’obbligo d’interpretazione conforme o il diritto al risarcimento
del danno -. elaborati dalla Corte di giustizia ad uso del giudice nazionale, perché quest’ultimo possa
assicurare, nella maggior misura possibile, la piena e corretta applicazione del diritto comunitario.
I secondi sono rimedi offerti direttamente dall’ordinamento interno: nel nostro caso sono presi in
considerazione quelli relativi al diritto italiano.
12. I rimedi del diritto comunitario: l’obbligo d’interpretazione conforme.
Per quanto riguarda i rimedi che il diritto comunitario offre ai singoli, occorre ricordare l’importante
principio elaborato dalla Corte al fine di riconoscere effetti diretti a direttive non trasposte o trasposte non
correttamente: l’obbligo del giudice nazionale di interpretare il diritto interno in modo conforme al diritto
comunitario. Nella già illustrata sentenza Marleasing, lo ricordiamo, la Corte ha affermato che:
“… l’obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di raggiungere il risultato da questa previsto,
così come il loro dovere, in forza dell’art. 5 (ora art. 10) del Trattato, di adottare le misure generali o
particolari idonee a garantire l’adempimento di questo obbligo, si impongono a tutte le autorità degli Stati
membri comprese, nel quadro delle loro competenze, le autorità giurisdizionali. Ne consegue che
applicando il diritto nazionale, che si tratti di disposizioni anteriori o posteriori alla direttiva, il giudice
nazionale chiamato ad interpretarlo è tenuto a farlo, per quanto più possibile, alla luce della lettera e degli
scopi della direttiva stessa al fine di raggiungere il risultato da questa previsto…”.
L’obbligo di interpretazione conforme è stato poi esteso dalla giurisprudenza della Corte di giustizia ad altri
atti comunitari ove sprovvisti di efficacia diretta, come è accaduto nel caso Hermés dove un simile obbligo è
stato affermato in relazione ad un accordo concluso dalla CE (ora UE) ; e addirittura con riferimento ad atti
non vincolanti, quali le raccomandazioni, che vanno comunque tenuti in considerazione dal giudice
nazionale se sono di aiuto nell’interpretazione di norme nazionali “adottate allo scopo di garantire la loro
attuazione, o mirano a completare norme comunitarie aventi natura vincolante” .
13. Segue: l’obbligo di risarcire il danno causato al singolo dalla mancata attuazione del diritto comunitario.
Un altro rimedio, suggerito sempre dalla Corte di giustizia in un notissimo caso (Francovich), di nuovo
sollevato con rinvio pregiudiziale dal giudice italiano, prevede che, ove i singoli non possano invocare gli
effetti diretti del diritto comunitario e restino quindi sprovvisti di tutela dei loro diritti derivanti da
quest’ultimo, è loro diritto chiedere il risarcimento del danno allo Stato, responsabile per non aver
adempiuto agli obblighi derivanti dal diritto comunitario.
Dal punto di vista delle sanzioni previste dal diritto comunitario contro lo Stato inadempiente, bisogna
ricordare che la Commissione può (ma non deve) avviare la procedura d’infrazione prevista dall’art.
258/TFUE, per fa valere la responsabilità dello Stato per inadempimento. Tale procedura, tuttavia, è
preclusa ai singoli, potendo essere azionata, in base agli articoli 258 e 259 TFUE, solo dalla Commissione o
dagli altri Stati membri.
In dottrina si osserva, a proposito sia dell’azione di risarcimento del danno che i singoli possono
promuovere davanti al giudice nazionale, sia della procedura d’infrazione:
“… si tratta di rimedi che tendono soltanto ad attenuare le conseguenze della mancata applicazione delle
norme comunitarie e che, inoltre, non sono molto efficaci…”.
Per quanto riguarda eventuali rimedi a livello di ordinamento nazionale, va riconosciuta, con la migliore
dottrina, la possibilità che i singoli, parti di un procedimento davanti al giudice interno, chiedano a
quest’ultimo di sollevare una questione di legittimità costituzionale di una norma interna incompatibile con
una norma comunitaria non direttamente efficace, per violazione degli articoli 11 e 117 Cost., ai fini della
sua disapplicazione.
5. L’accertamento delle norme internazionali nell’ambito della comunità internazionale
50. L’arbitrato. La corte Internazionale di Giustizia
50.1 La funzione giurisdizionale internazionale (inteso il termine giurisdizionale nel senso di accertamento
vincolante del diritto) ha ancor oggi natura arbitrale, essendo ancorata al principio per cui un giudice
internazionale non può giudicare se la sua giurisdizione non è stata preventivamente accettata da tutti gli
Stati parti di una controversia.
50.2 Gli Stati sono liberi di deferire ad un tribunale internazionale una qualsiasi controversia che riguardi i
loro rapporti; ciò che è importante è che essi siano d'accordo nel sottoporre la controversia ad un'istanza
giurisdizionale internazionale accettandone come vincolante la decisione. Vale la nozione data dalla Corte
Permanente di Giustizia Internazionale e ripresa dalla CIG a partire dalla sentenza del 21.12.1962 nel caso
del Sud-ovest africano: "la controversia è un disaccordo su un punto di diritto o di fatto, un contrasto,
un'opposizione di tesi giuridiche o di interessi tra due soggetti".
Esistono solo controversie per le quali le parti assumono l’impegno di sottoporsi ad un tribunale
internazionale comunque costituito e controversie per le quali tale impegno non viene assunto, restando la
loro eventuale soluzione affidata alle vie diplomatiche. La stessa distinzione tra controversie giuridiche e
controversie politiche, tanto cara alla dottrina fra le due guerre mondiali e consistente nel fatto che, nelle
seconde, a differenza delle prime, entrambe le parti o almeno una non invocassero il diritto internazionale
ma pretendessero di mutarlo a loro favore, ha ormai scarso significato. È una questione di interpretazione
di ogni singolo accordo in materia di giurisdizione internazionale lo stabilire a quali controversie esso si
riferisce e quindi chiarire il significato delle clausole con cui determinate categorie di controversie.
Tra le disposizioni che si riferiscono alle controversie giuridiche vi è l'art. 36, par. 2, dello Statuto della CIG
modellato sullo Statuto della vecchia Corte Permanente di Giustizia Internazionale istituita all'epoca della
Società delle Nazioni. L'art. 36, par. 2, prevede che gli Stati che, con una dichiarazione ad hoc, accettino
come obbligatoria la giurisdizione della Corte, possano essere citati avanti alla Corte medesima da un
qualsiasi altro Stato che abbia emesso la stessa dichiarazione.
50.3. Il processo internazionale ha dunque carattere arbitrale riposando sulla volontà, sull'accordo, di tutti
gli Stati parti di una controversia. Se tale volontà manca, non è possibile costringere uno Stato a sottoporsi
a giudizio.
Punto di partenza dell'evoluzione dell'istituto è l'arbitrato isolato. Nel secolo XIX, e secondo una prassi che
si era andata consolidando di pari passo con il consolidamento della sovranità degli Stati a seguito della
disgregazione del Sacro Romano Impero, l'arbitrato si svolgeva di solito nel modo seguente: sorta una
controversia tra due o più Stati, si stipulava un accordo, il compromesso arbitrale, col quale si nominava un
arbitro (ad es. un Capo di Stato) o un collegio arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola
procedurale, e ci si obbligava a rispettare la sentenza; forma approssimativa e rudimentale non solo per la
sommaria procedura seguita ma anche perché l'impegno arbitrale, non precedendo ma seguendo la nascita
della controversia, non poteva che coprire questioni minoris generis.
Rispetto all'arbitrato isolato, l'istituto si è andato da allora sviluppando sia per quanto riguarda le
caratteristiche di quel presupposto indispensabile per 'emanazione della sentenza, cioè dell'accordo tra gli
Stati in controversia, sia per una sempre maggiore istituzionalizzazione del collegio arbitrale
giudicante. Possono distinguersi due fasi di sviluppo:
1° fase. Già alla fine del secolo XIX e agli inizi del XX si è cominciato a ricorrere a dei meccanismi per
facilitare l'accordo degli Stati necessario per l'instaurazione del processo internazionale: sono comparsi
quel tipo di clausola compromissoria e di trattato generale di arbitrato che chiameremo "non completi” per
distinguerli dalla clausola compromissoria e dal trattato generale di arbitrato "completi". La clausola
compromissoria (non completa) accede ad una qualsiasi convenzione e crea l'obbligo per gli Stati di
ricorrere all'arbitrato per tutte le controversie che sorgano in futuro in ordine all'applicazione ed
interpretazione della convenzione medesima; analoga è la funzione del trattato generale di arbitrato (non
completo) che egualmente crea un obbligo generico di ricorrere ad arbitrato addirittura per tutte le
controversie oggi come quelle relative a questioni di dominio riservato. Clausola compromissoria e trattato
di arbitrato non completi creano soltanto un obbligo di stipulare il compromesso arbitrale: clausola
eccetuativa dei trattati di arbitrati.
Si assiste poi all'avvio della tendenza ad istituzionalizzare i tribunali internazionali, cioè a creare organi
arbitrali permanenti e a predisporre regole di procedura applicabili in ogni procedimento così instaurato.
L'avvio all'istituzionalizzazione si ha con la Corte Permanente di Arbitrato tuttora esistente, creata dalle
Convenzioni dell'Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre. L'istituzionalizzazione è minima.
2° fase. Nella seconda fase, che grosso modo ha inizio con la fine della Prima guerra mondiale, si è avuto
anzitutto un maggior processo di istituzionalizzazione con la creazione prima della Corte Permanente di
Giustizia Internazionale all'epoca della Società delle Nazioni, e poi, nel 1945, con la Corte Internazionale di
Giustizia. Quest'ultima, organo delle Nazioni Unite, ha sostituito la Corte Permanente di Giustizia
Internazionale, ha sede all'Aja e funziona in base allo Statuto annesso alla Carta dell'ONU e ricalcante lo
Statuto della vecchia Corte. La CIG presenta un forte grado di istituzionalizzazione: trattasi di un corpo
permanente di giudici, letti dall'Assemblea generale e dal Consiglio di Sicurezza, che giudica in base a
precise e complesse regole di procedura inderogabili dalle parti. Trattasi di un tribunale arbitrale
che giudica solo sul presupposto di un accordo tra tutte le Parti di una controversia.
La Corte svolge anche una funzione consultiva: in base all'art. 96 della Carta delle Nazioni Unite e agli artt.
65 ss. del suo Statuto essa dà pareri su qualsiasi questione giuridica su richiesta dell'Assemblea generale o
del Consiglio di Sicurezza oppure di altri organi ma con l'autorizzazione dell'Assemblea.
Sebbene i pareri non siano vincolanti pure l'apporto che l'attività consultiva ha dato alla ricostruzione di
norme internazionali generali e all'interpretazione della Carta dell'ONU è significativo: si pensi al parere
sulla Convenzione sulla repressione del genocidio o ai pareri sulla Namibia. I pareri non sono vincolanti a
termini della Carta, ma possono divenire tali se, con una convenzione o altro atto vincolante, ci si impegni a
rispettarli.
La seconda fase è marcata da una decisa evoluzione anche per quanto riguarda l'accordo necessario per
l'instaurazione del processo internazionale. Compare la figura della clausola compromissoria "completa" e
del trattato generale di arbitrato anch'esso "completo". Bisogna riferirsi ai casi in cui la clausola
compromissoria o il trattato di arbitrato non si limitano a creare l'obbligo di stipulare il compromesso ma
prevedono direttamente l'obbligo di sottoporsi al giudizio di un tribunale internazionale già predisposto e
perfettamente in grado di funzionare. Clausola compromissoria e trattato generale di arbitrato, essendo in
tali casi completi, esplicano direttamente la funzione svolta dal compromesso, e permettono ad uno Stato
contraente di citare unilateralmente un altro Stato contraente di fronte al tribunale internazionale così
investito della controversia.
Analogo al trattato generale di arbitrato "completo" è il procedimento previsto dall'articolo 36, par. 2, dello
Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, articolo secondo cui "gli Stati aderenti al presente Statuto
possono in ogni momento dichiarare di riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza speciale
convenzione, nei rapporti con qualsiasi altro Stato dite accetti la medesima obbligazione, la giurisdizione
della Corte (dichiarazione di accettazione della giurisdizione della CIG).
50.4 Il discorso sull'evoluzione dell'arbitrato è stato fin qui condotto da un punto di vista rigorosamente
giuridico. Ma che cosa c'è da dire circa la propensione degli Stati che compongono l'attuale comunità
internazionale verso il regolamento giudiziario delle controversie?
È innegabile che l'arbitrato abbia attraversato una consistente fase di declino. Dal primo punto di vista si
distinsero gli Stati sorti dalla decolonizzazione, assai diffidenti verso la Corte anche a causa di alcune
sentenze da questa emesse. Per quanto riguarda il rifiuto di eseguire, si distinsero nello stesso periodo vari
Stati ivi comprese grandi Potenze, come gli Stati Uniti d'America.
Le sentenze contestate dai nuovi Stati furono alcune decisioni relative alla situazione del sud-ovest
africano, territorio affidato al Sud Africa dalla Società delle Nazioni e ancora considerato da questo Stato
come sottoposto alla sua sovranità. La Corte affermò, in un primo tempo, con una decisione di carattere
procedurale, la propria giurisdizione e poi in un secondo tempo, pur dovendo limitarsi al merito della
controversia, trovò modo di annullare la stessa decisione procedurale.
La situazione si è andata modificando a partire dagli anni Ottanta ed è poi esplosa negli ultimi tempi fino al
punto da far parlare di una "giurisdizionalizzazione" del diritto internazionale.
50.5 (Esecuzione delle sentenze internazionali) Anche per le sentenze internazionali, sia per quelle arbitrali
che per quelle emanate dai tribunali settoriali e regionali ci si può chiedere quali mezzi ne assicurino
l'esecuzione in via coattiva. Nelle linee generali, il problema va riportato a quello dell'attuazione coattiva
delle norme internazionali: c'è, da un lato, da lamentare la scarsezza di mezzi coercitivi a livello interstatale,
e dall'altro da affidarsi al diritto interno degli stessi Stati che devono, o in cui si deve, osservare la sentenza.
Nel secondo aspetto, l'osservanza di una sentenza internazionale deve ritenersi assicurata nel diritto
interno dalle stesse norme che provvedono all'adattamento alle regole internazionali di cui la sentenza
abbia accertato il contenuto: la legge italiana di esecuzione di un trattato comporta l'obbligo di osservare
non soltanto il trattato ma anche l'eventuale sentenza internazionale emessa, in ordine al trattato
medesimo, nei confronti dell'Italia o di persone che operano all'interno dello Stato italiano.
Anche alle sentenze internazionali si applica la teoria dei controlimiti, nel senso che la loro esecuzione deve
ritenersi esclusa qualora esse contrastino con principi fondamentali della nostra Costituzione. Nella
sentenza 28.11.2012 n. 264 della Corte costituzionale la Corte costituzionale ha applicato la teoria dei
controlimiti, rifiutandosi di conformarsi ad una sentenza della Corte EDU in materia di cumulo di
trattamenti pensionistici per il lavoro prestato in Svizzera e in Italia.
51. I Tribunali internazionali settoriali e regionali.
(Moltiplicazione dei Tribunali internazionali). Si vanno moltiplicando gli organi giurisdizionali internazionali
che hanno competenze settoriali e che il più delle volte presentano caratteristiche diverse dall'arbitrato.
Tratteremo anche di organi settoriali che possono definirsi come quasi giurisdizionali nel senso che essi
provvedono ad un accertamento di norme
internazionali in tutto e per tutto simile a quello svolto da un tribunale ma non hanno il potere di emanare
sentenze o decisioni vincolanti, limitandosi ad adottare raccomandazioni o atti equivalenti. Alcuni tra i
tribunali internazionali settoriali hanno carattere regionale, altri, istituiti da trattati conclusi da un gran
numero di Stati e comunque non limitati a questa o quella regione, carattere universale. I tribunali regionali
riguardano di solito il settore dei diritti umani e della cooperazione, o integrazione, economica.
La moltiplicazione dei giudici internazionali sarebbe una delle cause della "frammentazione" del diritto
internazionale. Ciò perché più giudici possono pronunciarsi in modo diverso sull'esistenza o interpretazione
della stessa norma. In realtà i casi in cui ciò è avvenuto sono pochissimi.
51.2 Competenze per buona parte sui generis presenta la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con sede
a Lussemburgo. Trattasi di competenze tanto sui generis da rendere legittimo il dubbio che alla Corte possa
attribuirsi la qualifica di tribunale internazionale. Sulla Corte di Lussemburgo si riflettono infatti quelle
incertezze circa l'esatta qualificazione dell'UE, ente a metà strada tra le organizzazioni internazionali e lo
Stato federale parziale. Con gli altri tribunali internazionali la Corte ha in comune soltanto l'origine pattizia,
essendo sorta e disciplinata dai Trattati che via via hanno dato vita alle Comunità europee prima, e poi
all'Unione, e potendo esercitare la sua funzione nei confronti degli Stati membri in quanto questi
partecipano all'Unione.
Le principali competenze della Corte sono le seguenti:
a) la competenza in tema di ricorsi per violazione dei Trattati da parte di uno Stato membro;
b) quella relativa al controllo di legittimità sugli atti degli organi dell'Unione;
c) quella infine concernente le questioni pregiudiziali.
a) (Competenza della Corte dell’UE in tema di inadempimento degli Stati) I ricorsi diretti a far accertare la
violazione dei Trattati da parte di uno Stato membro sono proponibili dalla Commissione o da ciascun altro
Stato membro previa consultazione della Commissione. Lo Stato "accusato" non può sottrarsi al giudizio
della Corte e, se questa lo dichiara inadempiente, è tenuto a prendere tutti i provvedimenti che
l'esecuzione della sentenza comporta.
b) (Competenza della Corte dell’UE in tema di questioni pregiudiziali) Il controllo di legittimità sugli atti
comunitari è limitato agli atti legislativi e non legislativi vincolanti del Consiglio, della Commissione, della
Banca centrale, del Parlamento e del Consiglio europeo.
c) La competenza in tema di questioni pregiudiziali è disciplinata dall'art-267 del TF'UE nel modo seguente:
quando, innanzi ad un giudice di uno Stato membro, è sollevata una questione relativa all'interpretazione
dei Trattati o alla validità o interpretazione degli atti degli organi dell'Unione, tale giudice ha il potere o il
dovere di sospendere il processo e di chiedere una pronuncia della Corte al riguardo. Secondo l'art. 267 la
Corte decide con urgenza qualora il rinvio pregiudiziale è effettuato in un giudizio nazionale relativo ad una
persona in stato di detenzione. La pronuncia della Corte ha effetto immediato nel giudizio nazionale a quo,
ma l'interpretazione in essa racchiusa sarà ovviamente utilizzata in tutti gli Stati membri finché la Corte
non sia sollecitata a mutarla attraverso una successiva pronuncia.
Alla Corte è affiancato il "Tribunale", già "Tribunale di primo grado dell'UE”, la cui principale competenza
ha per oggetto i ricorsi promossi dalle persone fisiche e giuridiche in tema di controllo sulla legittimità degli
atti.
51.3 Nel campo del diritto internazionale marittimo opera oggi il Tribunale Internazionale del Diritto del
Mare, il cui Statuto è contenuto nell'Annesso VI alla Convenzione di Montego Bay. Il Tribunale, con sede ad
Amburgo, è composto da ventuno giudici indipendenti, eletti tra persone che abbiano una competenza
notoria nel campo del diritto del mare.
Non è possibile dar conto delle norme che si occupano della competenza del Tribunale e che si inseriscono
in un sistema assai sofisticato di soluzione delle controversie, previsto dalla Convenzione. Il Tribunale
rappresenta solo una delle istanze giurisdizionali che sono a disposizione delle parti. Competenze più varie
ha la Camera per le controversie sui fondi marini, che può essere adita anche dagli individui; ma si tratta di
un organo che non ha finora funzionato.
51.4 Un sistema assai complesso di soluzione delle controversie tra Stati nel settore del commercio
internazionale è quello predisposto dall''Intesa sulle regole e procedure relative alla soluzione delle
controversie". Tale sistema fa capo ad un organo dell'OMC nel quale sono rappresentati tutti gli Stati
membri, l"'Organo per la soluzione delle controversie" e si articola in due gradi di giudizio: il primo
costituito da panels di esperti volta a volta nominati dall'Organo, il secondo consistente invece in un corpo
permanente di appello in cui siedono sette giudici. Sia i panels che l'organo di appello sono chiamati
ad applicare il diritto, ossia le norme del GATT e degli altri accordi multilaterali facenti capo all'OMC
(l’organizzazione nata dagli sviluppi della prassi relativa al GATT) nelle loro varie modificazioni ed
integrazioni.
51.5 La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Corte EDU), con sede a Strasburgo, è l'organo che controlla il
rispetto della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e dei
suoi Protocolli che ne formano parte integrante, da parte degli Stati contraenti. La Corte è formata da un
numero di giudici pari a quello degli Stati contraenti (47) e scelti tra "giureconsulti di notoria competenza"
persone che posseggano i requisiti richiesti per l'esercizio delle più alte funzioni giudiziarie. I giudici durano
in carica 9 anni e non sono rieleggibili, il loro mandato scade comunque al raggiungimento dei settanta anni
di età.
La Corte giudica attraverso giudici unici Comitati composti da tre giudici e Camere di sette giudici. Una
Grande Camera, di diciassette giudici, può poi essere chiamata eccezionalmente a pronunciarsi su richiesta
di una Camera, oppure come una sorta di istanza di appello contro la sentenza di una Camera.
Il ricorso alla Corte può essere proposto da un altro Stato contraente nell'interesse obbiettivo, sia da
qualsiasi persona fisica o giuridica o organizzazione o gruppo di individui, ma in questo caso occorre che il
ricorrente si pretenda vittima di una violazione della Convenzione. Il ricorso individuale ha marcato il
grande successo del sistema di Strasburgo, provocando una giurisprudenza estremamente ricca da parte
della Commissione e della Corte.
51.6 L'esperienza del sistema di controllo sul rispetto dei diritti umani instaurato dalla Convenzione
europea dei diritti dell'uomo ha servito da modello ad altri sistemi, sia regionali che universali. Il sistema
regionale più importante dopo quello europeo è stato posto in essere dalla Convenzione americana dei
diritti dell'uomo; ne sono Stati contraenti la maggior parte degli Stati del continente americano. Il controllo
sul rispetto dei diritti riconosciuti dalla Convenzione è affidato ad una Commissione e ad una Corte.
Anche nell'ambito dell'Unione africana è stata istituita una Corte dei diritti dell'uomo nel 2009. Essa
applica la Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, adottata dall'Organizzazione.
Passando dal piano regionale a quello universale vengono in rilievo i due Patti internazionali promossi dalle
Nazioni Unite, l'uno sui diritti economici, sociali e culturali, l'altro sui diritti civili e politici. Il Patto sui diritti
civili e politici prevede, agli artt. 28 ss., il funzionamento di un organo, il Comitato delle Nazioni Unite sui
diritti civili e politici, composto da diciotto membri; questi sono eletti dagli Stati contraenti per un periodo
di quattro anni. Il Comitato può prendere in esame reclami presentati contro uno Stato contraente da altri
Stati o da individui, se lo Stato accusato ha dichiarato di accettare la competenza del Comitato in materia. A
parte i reclami statali e individuali, il Comitato è competente a ricevere rapporti dagli Stati circa
l'applicazione del Patto
nei rispettivi territori, a studiarli, ed a trasmettere agli Stati contraenti e al Consiglio economico e sociale
delle Nazioni Unite "le osservazioni generali che ritenga opportune". Competenze più o meno simili sono
quelle esercitate dal Comitato istituito dalla Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti
crudeli disumani o degradanti.
Nel 1985 il Consiglio economico e sociale ha creato il Comitato dei diritti economici, sociali e culturali
perché lo "assista" nell'esercizio delle sue competenze così come previste dal Patto. Il Comitato ha la
competenza a ricevere comunicazioni da parte di individui o di gruppi di individui. Il Protocollo, ratificato
finora da 24 Paesi, è entrato in vigore il 5 maggio 2013.
51.7 (Corti penali internazionali) Alla formazione delle norme internazionali sui crimini di guerra contro
l'umanità si accompagna la tendenza ad attribuire la corrispondente giurisdizione penale a tribunali
internazionali. La prima esperienza in materia fu quella del Tribunale di Norimberga, creato nel 1945 con
l'Accordo di Londra, concluso tra le Potenze che occupavano la Germania debellata, per la punizione dei
criminali nazisti. Il Tribunale di Norimberga trovò per l'appunto la sua giustificazione dal punto di vista
giuridico, e fu in pratica reso possibile, dall'occupazione della Germania.
Il Tribunale per la ex Iugoslavia, composto di due Camere di prima istanza, di tre giudici ciascuna, ed una
Camera di appello di cinque giudici, funzionava in base ad uno Statuto allegato alla risoluzione del Consiglio
di Sicurezza e ad un Regolamento che il Tribunale stesso si è dato. Lo Statuto tra le altre cose elencava i
crimini di guerra, contro la pace e contro l'umanità che rientravano nella competenza del Tribunale e
prevedeva la priorità di quest'ultimo rispetto alle Corti nazionali, nel senso che, su richiesta del Tribunale
medesimo, le Corti dovevano spogliarsi della loro competenza e gli Stati che detenevano il presunto
criminale dovevano consegnarlo al Tribunale, che aveva sede all'Aja. Una disciplina più o meno analoga
era prevista per il Tribunale per il Ruanda, che aveva in comune con quello per la ex lugoslavia i membri
della Camera di appello e quelli dell'ufficio del Pubblico Ministero.
Nel 1998 è stata poi istituita la Corte penale internazionale, prima autorità giurisdizionale a carattere
permanente competente a giudicare, ai sensi dell'art. 5 del suo Statuto, gli individui responsabili dei
“crimini internazionali più gravi, motivo di allarme per l'intera comunità internazionale". La Corte, è stata
creata con un accordo internazionale (lo Statuto di Roma) adottato nel 1998 da un'apposita Conferenza di
Stati, ed aperto alla firma e alla ratifica di tutti gli Stati. La Corte ha sede a L'Aia e si compone dei seguenti
organi: la Presidenza, le tre Sezioni giudiziarie, l'Ufficio del Procuratore e la Cancelleria. Le Sezioni
giudiziarie sono composte da 18 giudici indipendenti, scelti tra persone che posseggono una competenza
riconosciuta in diritto e procedura penale, o in settori pertinenti del diritto internazionale, ed eletti a
scrutinio segreto dall'Assemblea degli Stati. Ai 18 giudici spetta il compito di eleggere il Presidente della
Corte nonché i due Vicepresidenti. I crimini (individuali) di cui la Corte è competente a conoscere, ai sensi
dell'art. 5 dello Statuto, sono: il crimine di genocidio, i crimini contro l'umanità ed i crimini di guerra.
La giurisdizione ratione loci della Corte, non può definirsi universale nella misura in cui non si estende
automaticamente a tutti gli Stati. Affinché la Corte possa esercitare la propria competenza per i crimini
commessi su di un determinato territorio è necessario il consenso dello Stato. La Corte, difatti, anche a
causa dell'opposizione di taluni Paesi tra cui gli Stati Uniti, la Russia e la Cina, soffre per la scarsa
cooperazione da parte della comunità internazionale e difetta dell'effettività necessaria per imporre le
proprie decisioni. Ricordiamo infine la creazione di Tribunali penali interni a composizione internazionale,
istituiti in Paesi in sviluppo ed in situazioni post-conflittuali.
51.8 Competenze limitate alle controversie di lavoro con i funzionari delle organizzazioni internazionali
hanno i tribunali istituiti all'interno di queste ultime, come ad es. il Tribunale Amministrativo delle Nazioni
Unite, il Tribunale Amministrativo dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro.
52. I mezzi diplomatici di soluzione delle controversie internazionali
52.1 l negoziati si distinguono mezzi dai mezzi giurisdizionali di soluzione delle controversie in quanto
tendono esclusivamente a facilitare l'accordo delle parti: di conseguenza essi non hanno carattere
vincolante per le parti e anche quando non vengono trascurati gli aspetti giuridici della controversia, è
sempre il compromesso tra le opposte pretese a costituirne l'oggetto.
L'accordo tra le parti può essere anzitutto facilitato da negoziati diretti tra le parti medesime; sicché i
negoziati sono considerati come il mezzo più semplice di soluzione diplomatica delle controversie!
Si parla poi di buoni uffici e mediazione quando si verifica l'intervento di uno Stato terzo, o anche di un
organo supremo di uno Stato o del Segretario di un'organizzazione internazionale a titolo personale,
intervento che è meno intenso nel caso dei buoni uffici e più penetrante nel caso della mediazione.
La conciliazione è la forma "diplomatica" più evoluta di soluzione delle controversie, quella che più si
avvicina all'arbitrato.
Le Commissioni di conciliazione, istituite talvolta su base permanente e talvolta in modo occasionale, sono
di solito composte da individui e non da Stati, ed hanno il compito sia di esaminare i fatti che hanno dato
luogo alla controversia medesima sia di formulare una proposta di soluzione, proposta che le parti sono
sempre libere di accettare o meno.
Spesso poi il ricorso alla conciliazione è previsto come obbligatorio, con la conseguente possibilità, per uno
degli Stati contraenti, di dare unilateralmente l'avvio alla procedura conciliativa. Tipiche al riguardo sono le
norme contenute negli artt. 65-68 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, le quali, disciplinano
una complessa procedura di conciliazione, cui le parti sono obbligate a sottostare se non scelgono un altro
mezzo di soluzione della controversia.
(Forme atipiche di mezzi di soluzione delle controversie) Talvolta si verifica una confusione tra mezzi
diplomatici e non vincolanti e l'arbitrato. È il caso della soluzione della controversia tra Francia e Nuova
Zelanda nella prima fase del caso del Rainbow Warrior. Qui le parti si erano impegnate ad accettare e a
trasfondere in un accordo la decisione del Segretario generale delle Nazioni Unite: si è parlato in proposito
sia di mediazione o conciliazione, sia di arbitrato, a causa del carattere vincolante della decisione.
Ai mezzi diplomatici vanno riportate anche quelle procedure di soluzione delle controversie a carattere non
vincolante che si svolgono in seno ad organizzazioni internazionali. Si tratta della funzione conciliativa delle
organizzazioni internazionali, che assume una particolare importanza in seno all'ONU e alle organizzazioni
regionali.
52.2 (Funzione conciliativa delle Nazioni Unite) I mezzi diplomatici esauriscono i mezzi pacifici di soluzione
delle controversie. La Carta delle Nazioni Unite stabilisce, all'art. 2, par. 3, che gli Stati membri hanno
l'obbligo di risolvere le loro controversie con mezzi pacifici. E l'art. 33, par. 1, della stessa Carta ribadisce
l'obbligo delle parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, di perseguirne una soluzione "mediante
negoziati, inchieste, mediazione, conciliazione od altri mezzi pacifici di loro scelta".
(Potere di inchiesta del Consiglio di Sicurezza) L'art. 33, par. 1, che, secondo la CIG, corrisponde al diritto
internazionale generale è spesso richiamato nella prassi, ad es. nelle clausole dei trattati internazionali
relative alla soluzione delle controversie. A causa della sua genericità, che impedisce di trarne obblighi
precisi in ordine ai singoli mezzi di soluzione delle controversie elencati, riteniamo che esso si limiti a
ribadire il divieto dell'uso della forza già previsto dall'art. 2 della Carta e dal diritto internazionale generale.
52.3 Alla "soluzione pacifica delle controversie" è dedicato un capitolo della Carta delle Nazioni Unite, il
cap. VI (artt. 33-38). In base al cap. VI, e precisamente al suo art. 34, il Consiglio dispone di un potere
d'inchiesta che può esercitare sia direttamente sia creando un organo ad hoc, ad es. una Commissione di
inchiesta composta da alcuni membri del Consiglio.
(Indicazione da parte del Consiglio di “mezzi di regolamento”) L'art. 33, par. 2, e l'art. 36 danno a loro
volta facoltà al Consiglio di sollecitare le parti di una controversia a far ricorso ai mezzi, procedimenti o
metodi elencati nel par. 1 dell'art. 33 (inchiesta, mediazione, conciliazione). La differenza tra l'art. 33, par.
2, e l'art. 36 sta nel fatto che il primo si riferisce ad un invito generico da parte del Consiglio, mentre il
secondo prevede che l'organo indichi quale specifico procedimento, tra quelli elencati dall'art, 33, par. 1,
sia appropriato in ordine al caso di specie.
Nella funzione conciliativa del Consiglio rientra infine il potere di raccomandare "termini di regolamento",
ossia di suggerire alle parti come risolvere, nel merito, la loro controversia. Tale potere è previsto all'art. 37,
e dovrebbe essere esercitato solo in presenza di alcuni presupposti, precisamente del fatto che la
controversia sia stata portata all'esame del Consiglio dalle stesse parti, nonché dell'accertata impossibilità
di raggiungere un'intesa attraverso i mezzi elencati dal più volte citato art. 33.
52.4 Nell'ambito delle Nazioni Unite una funzione conciliativa è svolta anche dall'Assemblea generale. La
prevede l'art. 14 della Carta, secondo cui “l’Assemblea può raccomandare misure per il regolamento
pacifico di qualsiasi situazione che essa ritenga suscettibile di pregiudicare il benessere generale o le
relazioni amichevoli tra le Nazioni". Una formula così generica permette di far rientrare nella funzione
conciliativa dell'Assemblea tutte le misure che abbiamo viste adottabili dal Consiglio di Sicurezza in
base al cap. VI.
(Attività di mediazione del Segretario generale dell’ONU) Anche il Segretario generale dell'ONU ha
prestato la sua opera per la soluzione di controversie, offrendo la propria attività mediatrice agli Stati
coinvolti in crisi internazionali. La Carta non prevede simili iniziative, salva ovviamente l'ipotesi che il
Segretario generale agisca su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza o dell'Assemblea generale.
52.5 Alla funzione conciliativa degli organi dell'ONU si affianca quella delle organizzazioni regionali. L'art.
52 della Carta delle Nazioni Unite prevede che in seno a tali organizzazioni si compia "ogni sforzo per
giungere ad una soluzione pacifica delle controversie di carattere locale prima di deferirle al Consiglio di
Sicurezza".

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