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DIRITTO PRIVATO

Francesco Galgano — Diritto privato 17a ed


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PARTE PRIMA
INTRODUZIONE

Capitolo primo
IL DIRITTO PRIVATO
1.1 Il diritto

Un ordinamento giuridico è un insieme di regole che “regolano” i rapporti fra gli individui di una
data comunità. Ogni ordinamento, infatti, deve essere concepito quale un sistema di regole, che
disciplinano i comportamenti umani cercando di uniformarli, evitando la violenza.
È cosa nota la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici: sebbene, infatti,
l’ordinamento giuridico statale cerchi di imporsi quale sovrano sul diritto emanato da organi
diversi, è indispensabile considerare come la modernizzazione abbia condotto alla nascita di
associazioni e organizzazioni, le quali, indipendentemente, hanno creato un diritto proprio.
Ciononostante è palese il fatto che per grandi aree geografiche il diritto sia piuttosto simile,
pur trattandosi, magari, di Paesi diversi. Stando ai canoni del costituzionalismo moderno, il
potere legislativo, esecutivo-amministrativo e quello giurisdizionale devono risiedere in
organi qualificati separati tra loro. Nel nostro Paese il potere legislativo è detenuto da organi
nazionali (parlamento), da organi sovranazionali (UE) e da enti locali (regioni e province).
Se in passato la struttura del diritto era piuttosto semplice, oggigiorno, al contrario, il diritto
ha una struttura piuttosto complessa, dettata dalla pluralità degli ordinamenti giuridici, dalle
molteplici fonti del diritto e dalle innumerevoli regole giuridiche. Spetterà al giudice
applicare il diritto astratto al caso concreto e contingente. È opportuno, a questo punto,
differenziare le regole giuridiche dalle regole non giuridiche. La differenza fra regole
giuridiche e regole non giuridiche risiede nell’esistenza o meno del carattere della
coercibilità: il trasgressore a livello giuridico sarà punito con una sanzione il trasgressore di
una regola non giuridica è punito con una punizione ultraterrena.
La legittimazione del diritto risiede, dal punto di vista formale, nella sua struttura qualificata
e, dal punto di vista sostanziale, nella sua accettazione dalla maggioranza dei consociati di
una comunità.
1.2 La norma giuridica

Ogni ordinamento giuridico è dato da un insieme di norme le quali sono generali (rivolte a
una pluralità indistinta d’individui) e astratte (è possibile ripeterle nel tempo e non riguardano
singoli fatti concreti, ma un’ipotetica serie di fatti). Le norme giuridiche possono essere
definite quali proposizioni precettive. A tal proposito è opportuno distinguere il linguaggio
prescrittivo (mondo del dover essere) dal linguaggio descrittivo o espressivo. È, tuttavia,
possibile che alcune norme giuridiche contengano delle definizioni giuridiche, le quali hanno
comunque valore precettivo (es. art. 1321—> definizione contratto). Le norme devono essere
precostituite, ossia non possono essere create quando il conflitto è già insorto. “Nessuno può
essere giudicato se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso”
(Art. 25.2 Cost.), la certezza del diritto, infatti, è data dal fatto che il soggetto possa
conoscere anticipatamente le leggi e possa conoscerne le eventuali sanzioni. Spetterà poi al
giudice, mediante le sentenze, applicare il diritto alle varie controversie, le sentenze del
giudice si pongono come norme non generali ed astratte, bensì particolari e concrete: si
riferiscono ad un fatto preciso ed esauriscono la loro funzione in limite a quel fatto e non

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sono ripetibili. Diverso è il sistema di matrice anglosassone dove, in base al principio dello
stare decisis, le sentenze del giudice sono creatici di diritto e vincolanti nelle decisioni dei
giudici nel tempo.
1.3 I diritto e lo stato

Si può parlare di Stato secondo tre diversi aspetti:


• Stato comunità: si fa riferimento alla comunità di persone stanziate sul territorio
• Stato ordinamento: si fa riferimento al sistema di norme giuridiche che regola lo stato
• Stato apparato: si fa riferimento a tutte le istituzioni politiche e giuridiche presenti
all’interno dello stato (es. regioni, comuni, ecc.)
Lo Stato (formato da popolo, territorio, potere sovrano) nasce come risposta alla
decadenza:del feudalesimo: nel 1600 nasce, infatti, lo Stato assoluto in cui non vi era
separazione dei poteri e il il sovrano creava la legge, ponendosi quindi al di sopra di essa. Sul
finire del ‘700 con le rivoluzioni liberali (inglese, americana e francese) cessa di esistere lo
stato assoluto e si passa allo stato liberale fondato sulla separazione dei poteri e la
sottoposizione di tutti alla legge. Da ciò nasceranno le prime costituzioni, nelle quali
andranno affermandosi i diritti e i doveri dei cittadini, fino ad arrivare ai moderni stati liberal
democratici.
1.4 Diritto privato e diritto pubblico

Tutto il dritto si scompone in due grandi sistemi di norme: il diritto privato e il diritto
pubblico. Secondo la distinzione tradizionale si può dire che il diritto privato sia quello che
regola i rapporti tra privati, mentre il diritto pubblico quello che regola rapporti cui partecipa
anche lo stato. Si può anche affermare che il diritto privato attiene ad interessi particolari e
disponibili (interessi del singolo individuo, di cui il singolo individuo può disporre), mentre il
diritto pubblico attiene ad interessi generali ed indisponibili. La distinzione più importante e
significativa è, però, che il diritto privato regola rapporti tra due individui posti sullo stesso
piano, mentre il diritto pubblico regola rapporti a cui partecipa lo stato (o altro ente pubblico)
dotato di SOVRANITÀ, posto quindi in una posizione di supremazia rispetto l’altra parte.
1.5 Diritto oggettivo e diritti soggettivi

La parola «diritto» può essere usata sia in senso oggettivo che in senso soggettivo: in senso
oggettivo è usata per indicare le norme giuridiche nel loro insieme, ossia l’ordinamento
giuridico; in senso soggettivo è utilizzata per indicare il diritto di un soggetto, ossia la pretesa
di un soggetto che altri tengano un determinato comportamento.
Si usa definire «rapporto giuridico» ogni rapporto tra uomini regolato dal diritto oggettivo.
All’interno di un rapporto giuridico si può distinguere un soggetto attivo ed un soggetto
passivo: attivo è il soggetto nell’interesse del quale è conferito il dovere è imposto, colui che
trae vantaggio dal rapporto; passivo è il soggetto su cui grava l’onere del rapporto, avrà
quindi un dovere. In ogni rapporto giuridico esiste quindi una sorta di correlazione: ad ogni
diritto corrispondono uno o più doveri.

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Entro la categoria dei diritti soggettivi si usa distinguere tra:

• Diritti assoluti: sono quei diritti riconosciuti ad un soggetto nei confronti di tutti («erga
omnes»). Sono diritti assoluti, per esempio, i diritti reali.
• Diritti relativi: sono quei diritti riconosciuti ad un soggetto nei confronti di una o più
persone determinate o determinabili. Sono diritti relativi, per esempio, i diritti di credito.
1.6 Fatti giuridici e atti giuridici
Il diritto è sia norma che regola i rapporti tra gli uomini, sia norma che prevede fatti al
verificarsi dei quali si creano, modificano o estinguono rapporti giuridici. Si individuano
quindi diversi fenomeni:
• Fatto giuridico: ogni accadimento, naturale o umano, al quale l’ordinamento giuridico
ricollega il sorgere di determinati effetti giuridici (es. fatto illecito art.2043,
raggiungimento maggiore età, ecc.). 

Tra i fatti giudici si distinguono poi i fatti naturali e umani:
a) Fatti naturali: sono quei fatti indipendenti dalla volontà e dall’operato dell’uomo
(es. fiume che trasporta terreno e modifica ampiezza dei fondi rivieraschi)
b) Fatti umani: sono quelli in cui il rapporto giuridico si costituisce, modifica o
estingue a causa di un comportamento consapevole e volontario dell’uomo. È
importante notare come il comportamento debba essere solamente consapevole e
volontario, indipendentemente dalla circostanza che l’uomo ne abbia voluto o meno
gli effetti giuridici. All’interno dei fatti umani si può poi distinguere tra: fatti leciti e
illeciti, a seconda che siano conformi o meno al diritti; fatti discrezionali o dovuti, a
seconda che il soggetto sia libero di compierli oppure vi sia obbligato.
• Atto giuridico: comportamento posto in essere da una persona in modo consapevole e
volontario al fine di produrre effetti giuridici. Perché un atto giuridico possa produrre
effetti è necessario che il soggetto che lo pone in essere possieda la capacità di agire. Si
conoscono due specie fondamentali di atti giuridici:
a) Dichiarazioni di volontà: in questi atti giuridici assume molta importanza la
volontà dell’uomo. L’effetto giuridico prodotto non si ricollega soltanto alla
volontarietà del comportamento posto in essere ma alla necessaria volontà degli
effetti: non basta che il soggetto abbia voluto porre in essere un determinato atto ma
è necessario che il soggetto ne abbia altresì voluto l’effetto (es. contratto).
b) Dichiarazioni di scienza: con questi atti giuridici il soggetto dichiara di avere
conoscenza di un fatto giuridico. L’effetto delle dichiarazioni di scienza non è
quello di costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, ma quello di provare
l’esistenza di fatti giuridici (es. quietanza di pagamento).
Per fare chiarezza sulla distinzione si può dire che i fatti giuridici sono fatti che hanno valore
anche fuori dal diritto, come fatti della realtà, e producono effetti giuridici solo nella misura
in cui il diritto gliene attribuisce. Gli atti giuridici invece hanno valore esclusivamente
all’interno del mondo del diritto. Si può quindi dire che i fatti giuridici siano «trovati» dal
diritto, mentre gli atti giuridici sono «creati» dal diritto.

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Capitolo secondo
LE FONTI DEL DIRITTO PRIVATO
2.1 Il sistema delle fonti del diritto

Delle fonti del diritto si può parare in due sensi: come fonti di produzione e di cognizione del
diritto. Le fonti di produzione sono i modi di formazione del diritto, le fonti di cognizione son
i testi che contengono norme giuridiche già formate. Nel nostro sistema è opportuno tener
presenti il diritto nazionale e quello sovranazionale: a tal proposito, l’art. 1 delle preleggi si
rivela obsoleto in quanto prevede soltanto a) legge b) regolamenti c) usi. Al giorno d’oggi,
infatti, il sistema delle fonti del diritto è così composto:
1) Trattati e regolamenti comunitari
2) Costituzione e leggi costituzionali
3) Leggi ordinarie dello Stato
4) Leggi regionali
5) Regolamenti
6) Usi (hanno efficacia solo esplicitamente richiamati dalla legge).
Tra queste fonti esiste una vera e propria gerarchia: le fonti sotto-ordinate non devono essere
in contrasto con le fonti sovraordinate pena l’invalidità.
2.2 La codificazione e il principio di eguaglianza

I codici sono raccolte di leggi ordinarie e si collocano a pari grado con le leggi ordinarie. Si
tratta di raccolte organiche: il loro contenuto è dato dall’unità di contesto (es. codice penale,
codice civile, codice della navigazione). Alla base dell’idea di codice sta il principio di
uguaglianza, affermato già in alcune costituzioni del XVIII secolo: i cittadini devono essere
uguali davanti alla legge, e quest’ultima, nei riguardi dei primi, deve darsi nei termini più
generali (rivolti a una pluralità indistinta d’individui) e astratti (ripetibili nel tempo) possibili.
Le codificazioni nacquero con l’intento di creare un diritto privo di qualsiasi tipo di
discriminazione. Muovendo dalla monarchia assoluta ci si indirizza verso un accentramento
del potere nelle mani della borghesia che considerò necessaria l’eguaglianza fra i cittadini per
poter instaurare un’economia di mercato, si passò da un accentuata disuguaglianza giuridica
ad una disuguaglianza economica. Si ritiene infatti che l’eguaglianza formale non sia più
sufficiente e si è instaurato quindi anche il principio di eguaglianza sostanziale.
Nonostante oggigiorno sia evidente la crisi dei codici (decodificazione, non si legifera più per
codici ma attraverso leggi che si affiancano al codice), il principio di eguaglianza tra
cittadini, sotteso in essi, non viene meno.
2.3 I modelli di codificazione: dalla separazione fra codice civile e codice di
commercio al codice civile unificato
Il codice di diritto civile italiano è entrato in vigore nel 1942 e ha soppiantato l’antica
separazione tra codice civile e codice di commercio, dando vita a un sistema normativo
unitario. Nella antica visione dei codici separati si riflettevano divergenze classiste e
ideologiche: il codice civile, vertente sulla disciplina della proprietà, era il codice della
borghesia fondiaria, traeva ricchezza dallo sfruttamento dei fondi, il diritto di proprietà era lo
strumento con cui si garantiva lo sfruttamento e la conservazione della ricchezza
immobiliare; il codice di commercio, incentrato sulla disciplina del contratto, era il codice

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della borghesia industriale e commerciale che tendeva a valorizzare la ricchezza mobiliare e i


suoi trasferimenti. In contrasto tra i due codici avrebbe prevalso il codice di commercio,
metafora della prevalenza della borghesia commerciale su quella fondiaria.
Si iniziò a pensare ad una unificazione dei due codici verso la fine del ‘800 in quanto nella
duplicazione dei codici si vedeva una lesione dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
Si arrivò ad una unificazione nel 1942 quando i due codici (e la concezione del codice di
commercio come “legge classista”) era cosa inconcepibile alla luce dei principi ideologici
fascisti fondati sull’economia corporativa e sul superamento di ogni conflitto di classe.
Il codice civile consta di 2969 articoli, buona parte dei quali è stata soppressa e ai quali si
sono aggiunti altri articoli, suddivisi in sei libri:
1) Delle persone e della famiglia (artt. 1-455)
2) Delle successioni (artt. 456-809)
3) Della proprietà (artt.810-1772)
4) Delle obbligazioni (artt.1773-2059)
5) Del lavoro (artt.2060-2642)
6) Della tutela dei diritti (artt.2643-2969)
Il c.c. è preceduto dalle preleggi ed è seguito da disposizioni transitorie e di attuazione:
muest’utiltime avevano il compito di regolare i rapporti pendenti alla data di entrata in vigore
del c.c.; le preleggi invece, invece, hanno il compito di disciplinare alcuni dei contenuti
presenti nel codice stesso. L’ancora presente distinzione fra diritto civile e diritto
commerciale è solo una semplificazione a livello scolastico nello studio del diritto privato.
2.4 Il diritto privato in Costituzione

Negli stati di matrice liberale le costituzioni contenevano soltanto norme di diritto pubblico,
il rapporto disciplinato era quello stato-proprietario, senza occuparsi, neanche in superficie,
della disciplina di istituti propri del diritto privato.
Il contenere norme di diritto privato è una innovazione delle costituzioni liberal-
democratiche. Nella nostra costituzione il fondamento del diritto costituzionale privato
risiede nell’art. 3.2 che pone le basi per tante disposizioni della prima parte della costituzione.
Le più importanti norme di diritto costituzionale privato sono contenute nel titolo III della
cost., per esempio l’art.41 (diretta attuazione dell’art.3.2) stabilisce che l'iniziativa economica
privata è libera e non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, ponendo quindi l’utilità
sociale in una posizione preminente rispetto l’utilità dei singoli. L’art.42 afferma che «La
proprietà è pubblica o privata» delineando così un sistema economico misto, l’art.37
stabilisce la parità tra donna e uomo lavorati e garantisce «gli stessi diritti e, a parità di
lavoro, le stesse retribuzioni», ecc.
2.5 L’uniformità internazionale del diritto privato

La statualizzazione del diritto se da un lato ha comportato l’accentramento del potere


legislativo nelle mani dello Stato, dall’altro ha causato problematiche sul fronte
internazionale. I commerci hanno riscontrato non pochi ostacoli nella loro diffusione in Paesi
differenti, poiché ciascuno di questi adottante una legislazione propria. Si è, pertanto,
provveduto tramite convenzioni fra Stati volte a costruire un diritto privato uniforme. I primi
passi in ambito europeo furono quelli mossi tramite l’istituzione della CEE.

Oggi l’UE è consapevole di dover emanare norme attraverso cui indirizzare i singoli Stati
verso una legislazione privatistica comune.

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Capitolo terzo
APPLICAZIONE DEL DIRITTO PRIVATO

3.4 La protezione giurisdizionale del diritto soggettivo

Intendendo il diritto in senso soggettivo, come interesse del singolo, l’azione del giudice è
protezione giurisdizionale dei diritti soggettivi. Secondo il principio della domanda il
giudice può agire solo se sollecitato dalle parti, non può provvedere d’ufficio. Terminologia
processuale essenziale:
- Attore: colui che ritiene gli sia stato leso un diritto, e si rivolge all’autorità giudiziaria
- Convenuto: la persona contro cui l’attore agisce.
- Parti: attore e convenuto.
- Processo/giudizio/procedimento: l’insieme degli atti che si compiono nello svolgimento
della funzione giurisdizionale.
- Causa/lite: la controversia tra le parti che forma l’oggetto del processo.
- Azione: pretesa vantata dall’attore.
- Eccezione: contrasto della pretesa dell’attore da parte del convenuto.

La protezione giurisdizionale dei diritti soggettivi è funzione spettante all’autorità
giurisdizionale ordinaria, istituita e regolata dalle norme sull’ordinamento giudiziario.
La giurisdizione civile è esercitata a protezione di ogni diritto soggettivo, sia questo di un
privato nei confronti di un altro privato, sia nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Si
distingue dalla giurisdizione civile quella amministrativa, volta a tutelare gli interessi
legittimi del cittadino lesi da un atto illegittimo della pubblica amministrazione.
La distinzione fra diritto soggettivo ed interesse legittimo attiene al diverso grado di
protezione che la legge riconosce:
Diritto soggettivo: sono interessi dei singoli che la legge riconosce e protegge
direttamente, in quanto interessi per sé meritevoli di protezione (es. diritti della personalità).
Interesse legittimo: sono interesse che la legge protegge solo indirettamente, in quanto
coincidenti con l’interesse pubblico (es. svolgimento corretto di un concorso pubblico).

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Capitolo quarto

I SOGGETTI DI DIRITTO
4.1 Condizione giuridica della persona: la capacità giuridica, il nome, la sede,
la morte presunta
Per il diritto l’uomo è una persona, o soggetto di diritto. Entrambe le espressioni (la prima di
uso codicistico, la seconda di uso dottrinale) fanno riferimento all’attributo dell’uomo di
essere centro di imputazione di diritti e doveri. Ogni uomo è in quanto tale una persona ed
acquisisce tale diritto al momento della nascita. Sempre al momento della nascita, intesa
come inizio della respirazione polmonare, si acquisisce la titolarità della capacità giuridica
(o personalità giuridica), cioè l’attitudine ad essere titolare di diritti e doveri, questa perdura
fino al momento della morte (art.1).
L’acquisto della personalità giuridica è un fatto subordinato all’evento della nascita, quindi al
nascituro non appartiene la capacità giuridica, la legge riserva a lui dei diritti ma subordinati
all’evento della nascita (es. il nascituro è successore del padre morto durante la gestazione,
ma se muore il nascituro prima di nascere non sarà titolare di quei diritti). La nascita è
dichiarata da uno dei genitori o da un loro procuratore, la dichiarazione deve essere resa entro
dieci giorni all’ufficiale dello stato civile, questa dichiarazione da luogo all’atto di nascita che
viene iscritto nei registri dello stato civile, come l’atto di morte alla morte di una persona. Gli
atto dello stato civile hanno forza probatoria: fanno fede fino a prova contraria della verità.
Ogni persona è identificata con un nome (art.6) che è scelto dal dichiarante la nascita. Il
cognome, in caso di figlio legittimo è quello del padre, altrimenti il bambino viene iscritto nei
registri come figlio di ignoti, ed il cognome è scelto dall’ufficiale di stato civile. Se il figlio
naturale viene riconosciuto, o paternità o maternità vengono accertate in giudizio, viene lui
dato il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, o in caso lo riconoscano entrambi, il
cognome del padre. Compiuti 18 anni la persona può decidere di cambiare o aggiungere un
prenome o un cognome al proprio, nei casi e con le procedure previste dallo stato civile.
Riguardo la sede dove si stanzia una persona possiamo distinguere tre nozioni:

• Il domicilio è il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi interessi o
affari (es. per l’imprenditore la sede dell’impresa, per il professionista il suo studio, ecc.).
Il domicilio generale si distingue da quello speciale, che la persona può eleggere con atto
scritto, per determinati affari.
• La residenza è il luogo della dimora abituale della persona, domicilio e residenza
possono non coincidere, emblematico il caso dei coniugi conviventi che hanno la stessa
residenza ma possono non avere lo stesso domicilio.
• La dimora è il luogo in cui la persona attualmente soggiorna, anche se non corrisponde
al luogo in cui soggiorna abitualmente (es. casa al mare, appartamento per studiare). Non
è dimora il soggiorno occasionale (es. camera d’hotel).
Può accadere che una persona scompaia dal suo domicilio o dalla sua attuale residenza e che
non se ne abbiano più notizie, sorge il problema della conservazione del suo patrimonio.
Coloro che ritengono di essere gli eredi dello scomparso o un qualsiasi interessato o un
pubblico ministero, possono chiedere al tribunale dell’ultimo domicilio o residenza dello

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scomparso la nomina di un curatore dello scomparso (art.48). Trascorsi due anni dall’ultima
notizia, il tribunale può dichiarare l’assenza della persona (art.49) ed immettere nel
possesso temporaneo dei suoi beni gli eredi, nel caso in cui l’assente fosse morto (art.50).
Questi ne hanno l’amministrazione e fanno proprie le rendite che i beni producono (art.52),
senza poterli però ne ipotecare, ne alienare, ne darli in pegno (art.54). Se l’assente ricompare
gli vengono restituiti solo i beni, le rendite rimangono agli amministratori. Dopo dieci anni
dall’ultima notizia, il tribunale può dichiarare la morte presunta, anche senza previa
dichiarazione di assenza (art.58). La morte presunta ha la stesa funzione della morte naturale,
gli eredi entrano in proprietà dei beni e il coniuge può contrarre nuovo matrimonio (art.
63ss.). Può accadere che lo scomparso ritorni, in questo caso i beni vanno riconsegnati nello
stato in cui si trovano, e nel caso fossero stati venduti ha diritto ai beni nei quali il prezzo era
stato reinvestito, ma se il denaro della vendita fosse stato consumato, egli non ha diritto a
nulla (art.66). Il precedente vincolo matrimoniale annullato riacquista vigore, annullando
ogni altro vincolo di eguale natura dell’altro coniuge (art.68).
4.2 La capacità di agire: condizione dei minori, degli interdetti, degli inabilitati

Si distingue dalla capacità giuridica, la capacità di agire: l’attitudine di un soggetto a


compiere atti giuridici, con i quali il medesimo acquista diritti o assume doveri. Tale capacità
si acquista quando un essere umano diviene in grado di provvedere ai propri interessi, ossia
con la maggiore età. (art. 2). Eccezionalmente al minore può essere riconosciuta la capacità
di compiere determinati atti giuridici, il sedicenne ad esempio può essere autorizzato dal
tribunale, per motivi gravi, a contrarre matrimonio o ancora, riconoscere il figlio naturale.

Il minore acquista diritti e assume doveri tramite i suoi rappresentanti legali, che nella
maggior parte dei casi sono i genitori (art. 316) o un tutore nominato dal giudice tutelare (artt.
343 ss.). Ai rappresentanti legali spetta la rappresentanza del minore, ma si limitano ad una
ordinaria amministrazione (amministrano i beni del minore, compiono in suo nome atti
giuridici, ecc.). I genitori possono compiere anche atti di straordinaria amministrazione ma
solo previa autorizzazione del giudice tutelare e solo quando vi sia necessità o utilità evidente
per il minore.
Il minore resta comunque legalmente incapace di stipulare contratti, cioè di contrattare in
proprio nome acquistando diritti o assumendo obblighi su di sé. La sua capacità naturale gli
consente però di contrattare in nome d’altri: concludere contratti in rappresentanza di una
persona che abbia la capacità di agire (art. 1389)(es. un bambino di 10 anni può comprare un
salame ma gli effetti del contratto si ripercuotono sui genitori). Bisogna però sempre
considerare la natura del contratto che deve essere proporzionata alla capacità naturale del
minore, gli è sempre vietato concludere contratti per i quali è d’obbligo la forma scritta.
Il sedicenne autorizzato dal tribunale a contrarre matrimonio, dalla data del matrimonio è
considerato emancipato, cioè dotato di capacità di agire, limitatamente agli atti di ordinaria
amministrazione. Per gli atti di straordinaria amministrazione deve essere autorizzato dal
giudice tutelare ed assistito da un curatore, che può essere il coniuge se maggiorenne, o una
persona nominata dal giudice, preferibilmente un genitore.
Il maggiore di età può trovarsi in condizioni di abituale infermità mentale ed essere dichiarato
dal giudice, su istanza di persona prossima al soggetto o del pubblico ministero, interdetto
ossia privato della capacità di agire. Il giudice nomina un tutore dell’interdetto, che ha gli

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stessi poteri di quello per il minore (art. 417). La legale incapacità di agire, prevista dal cod.
penale, consiste nel privare della capacità di agire il soggetto che sia stato condannato
all’ergastolo o a pena superiore a cinque anni, tale sanzione ha la natura di pena accessoria.
L’interdetto legale e l’interdetto giudiziale sono sottoposti alla stessa disciplina.
L’infermità mentale del soggetto potrebbe presentarsi non tanto grave da giustificare
l’interdizione, per ciò, su richiesta o iniziativa del giudice egli può essere inabilitato,
trovarsi cioè in una situazione di rappresentanza pari a quella del minore emancipato (art.
415-424). 
 La legge del 9 gennaio 2004 n. 6 agli artt. 404-413 del cod. civile, ha introdotto il
concetto di amministrazione di sostegno. Presupposto è uno stato di infermità temporanea.
L’amministratore di sostegno è nominato con decreto dal giudice tutelare su istanza
dell’interessato o da chiunque ne sia abilitato, il giudice indica quali atti l’amministratore può
compiere in nome e per conto del rappresentato e quali atti necessitano assistenza di
quest’ultimo, comunque l’infermo conserva capacità di agire per tutti gli atti necessari a
soddisfare interessi relativi alla vita quotidiana.
4.3 La persona fisica e la persona giuridica

L’attributo di persona non è riconosciuto soltanto all’uomo, sono persone anche le


organizzazioni collettive, come enti pubblici, associazioni e consorzi, ecc., a questi viene
riconosciuto l’attributo di persone giuridiche. Nel cc persone fisiche e giuridiche sono
riconosciute come specie dello stesso genere, sono entrambi persone: centro di imputazione
di diritti e doveri. Esistono però norme come quelle del diritto di famiglia che fanno
riferimento solo alle persone fisiche.

E’ persona giuridica, in linea di principio ogni soggetto di diritto diverso dalla persona fisica.
La persona giuridica si presenta come un soggetto a sé stante, diverso rispetto i singoli che
formano l’organizzazione, tale concetto permette di considerare la persona giuridica come
soggetto dotato di propria capacità giuridica, che le permette di essere titolare di propri diritti
e doveri. La volontà che si forma nelle assemblee o nei consigli di amministrazione delle
organizzazioni collettive è giuridicamente imputata alla persona giuridica, così come lo sono
gli atti compiuti dagli amministratori o di chiunque agisca in nome dell’organizzazione. È
riconosciuta quindi alle persone giuridiche anche una capacità di agire, essa compie atti
giuridici per mezzo di persone fisiche che agiscono come suoi organi.
Per ciò che riguarda i soggetti coinvolti in una organizzazione con personalità giuridica questi
vengono a trovarsi in una situazione in cui si contrappongono diritti e doveri, alcuni relativi
all’individuo ed altri relativi all’organizzazione. La persona giuridica è un soggetto
autonomamente riconosciuto dal diritto, perciò bisogna distinguere i debiti/crediti dei singoli
soci da quelli della società, il patrimonio dei singoli soci da quelli della società, ecc., si può
dire che questi appartengano ad una persona diversa.
4.4 I diritti della personalità

I diritti della personalità sono diritti soggettivi che si dicono trovati dal diritto oggettivo, sono
cioè diritti che non dipendono dal mutare dell’ordinamento ma spettano all’uomo in quanto
tale, indipendentemente dalle condizioni sociali e politiche in cui si trova. Primi fra tutti vi
sono il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla salute, al nome, all’onore, alla libertà
personale, all’espressione del pensiero e alla riservatezza. La loro identificazione è rimessa

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alle carte costituzionali dei diversi stati, la Costituzione italiana all’art. 2 definisce tali diritti
«inviolabili», sia nei confronti dell’autorità pubblica sia da parte di un altro privato. Sotto
quest’ultimo profilo emerge il rilievo della protezione civile e della protezione penale dei
diritti della personalità. Risaltano cioè le norme che nei codici o in altre leggi proteggono le
persone contro le lesioni dei propri diritti di personalità.
La protezione penale si manifesta nelle norme del cod. penale che puniscono i delitti contro
la persona. In via generale la protezione civile deriva dalle norme che agli artt. 2043 ss.
riconoscono un diritto al risarcimento e, laddove è possibile, alla reintegrazione in forma
specifica. I diritti della personalità si posizionano tra i diritti inviolabili, sono quindi: assoluti,
indisponibili, imprescrittibili e irrinunciabili.
4.5 I nuovi diritti della personalità

I diritti della personalità costituiscono un catalogo aperto, cioè il loro numero è in continua
espansione. Questo ampliamento si può spiegare oggi in relazione all’avvento e alla
diffusione su larga scala dei mezzi di comunicazione telematica, il cui utilizzo potrebbe
essere causa di lesioni ai diritti della personalità. Vengono così in considerazione nuovi
aspetti della personalità, nuovi diritti inviolabili da tutelare con l’art. 2 della costituzione. Tra
i nuoci diritti della personalità troviamo per esempio il diritto alla privacy, dritto alla
riservatezza informativa, diritti relativi alle biotecnologie, ecc.

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PARTE SECONDA
LA PROPRIETA’
Capitolo quinto
I BENI E LA PROPRIETA’
5.1 I beni

Punto essenziale dell’intero discorso sulla proprietà e sui diritti affini, è il rapporto fra l’uomo
e le cose, fra l’uomo in quanto portatore di bisogni e le cose adatte a soddisfare tali bisogni.
Per indicare le cose in relazione alla loro attitudine a soddisfare bisogni su suole usare la
parola beni. Sono beni innanzi tutto le risorse della natura e le cose prodotte dall’uomo, sia le
cose che direttamente soddisfano un bisogno (beni di consumo), sia le cose che li soddisfano
indirettamente, quei beni il cui scopo è produrre altri beni (beni produttivi). Non sono beni
tutte le cose da cui l’uomo non può o non può ancora trarre alcuna utilità, il concetto di bene
si pone quindi come concetto relativo legato allo sviluppo della società (es. 200 anni fa il
petrolio non era un bene poiché non poteva soddisfare alcun bisogno, ora si). In funzione del
concetto di relatività dei beni possiamo distinguere: i bisogni vitali, quelli il cui
soddisfacimento è necessario alla sopravvivenza (vestirsi, mangiare, ripararsi, ecc.), e i
bisogni indotti, quelli indotti dalla società (es. avere un telefono, una macchina, ecc.).
Ci sono beni che la natura offre in modo molto superiore ai bisogni dell’uomo, prendono il
nome di “cose comuni a tutti”, (res communes omnium). Sono tali perché nessuno ha
interesse a stabilire un rapporto di appartenenza esclusivo, che ne riservi a sé l’utilizzo con
l’esclusione dell’uso degli altri.
Sulla maggiorate dei beni però l’uomo ha interesse ad ottenere un utilizzo elusivo, la loro
utilizzazione da parte di alcuni implica l’esclusione di altri. Su queste cose gli uomini hanno
interesse a stabilire un rapporto di appartenenza: è solo di queste cose che si occupa il
diritto, delle cose in quanto materia di possibile conflitto tra individui.
Sono beni per il codice civile «solo le cose che possono formare oggetto di diritti» (Art. 810),
sono però anche le energie naturali «se hanno un valore economico» (Art. 814), se sono
idonei a formare oggetto di scambio. Unendo i due criteri si può dire che sono beni in
senso giuridico solo quelle cose suscettibili di valutazione economica.
Nonostante il carattere di relatività dei beni, tendenzialmente ogni sistema giuridico:
• Riconosce il diritto di proprietà: il diritto «di godere e disporre delle cose in modo
pieno ed esclusivo» (Art.832).
• Determina i modi di acquisto della proprietà, infatti all’art. 922 è stabilito che «la
proprietà si acquista nei soli modi stabiliti dalla legge».
• Fonda la categoria dei beni pubblici: beni considerati di utilità generale sottratti ad
ogni possibilità di appropriazione da parte dei singoli ed appartenenti alla società nel
suo insieme. Oggi sono beni appartenenti allo stato, cui è affidato:
a) Il compito di consentirne il disciplinato uso da parte di tutti (condizione giuridica
del demanio pubblico)
b) Il compito di utilizzarli in modo vantaggioso a tutti (condizione giuridica di beni
indisponibili dello stato).
• Pone limiti alla proprietà ed impone obblighi al proprietario.

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5.2 I diritti sulle cose: proprietà ed altri diritti reali

I diritti sulle cose assumo il nome di diritti reali (ius in re), nel nostro sistema giuridico
sono in tutto sette: proprietà, superficie, enfiteusi, usufrutto, uso, abitazione, servitù. Ogni
diritto reale consiste in una o più facoltà che si possono esercitare sulla cosa, l’insieme di
queste facoltà costituisce il contenuto del diritto. La proprietà è il diritto il cui titolare gode
delle facoltà più ampie, contemplate dall’ordinamento.
Rispetto alla proprietà gli altri diritti reali si presentano come:
• Diritti reali minori (o limitati o parziari), caratterizzati dal contenuto più ridotto.
• Diritti reali su cosa altrui, poiché si esercitano su una cosa in proprietà di un altro
soggetto. Coesistono col diritto di proprietà, la sua compressione permette l’esercizio di
altri diritti sulla cosa stessa. 

Il diritto di proprietà è definito nell’art. 832 come «il diritto di godere e di disporre
delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con osservanza degli obblighi
stabiliti dall’ordinamento».

I diritti di godere e disporre individuano le facoltà spettanti al proprietario:


• La facoltà di godere delle cose: è la facoltà del proprietario di utilizzare la cosa:


implica la possibilità di usarla o non usarla, di decidere come usarla, di trasformarla o
distruggerla. 
 Per le cose fruttifere la facoltà di godimento include il diritto di fare propri
i frutti della cosa, si distinguono due categorie di frutti: i frutti naturali e frutti civili. I
frutti naturali sono quelli che provengono direttamente dalla cosa (es. prodotti agricoli), i
frutti civili sono il danaro che il proprietario ricava dalla cessione ad altri del godimento
della propria cosa (es. interessi su capitale, rendite di immobili). I frutti naturali finché non
avviene la separazione dalla cosa madre restano parte di questa, la vendita di un fondo
agricolo, per esempio, implica la vendita di tutti frutti non ancora separati (es. le mele
diventano del proprietario solo quando vengono raccolte, prima fanno parte dell’albero).
Prima della separazione dei frutti si può disporre di questi ma come cose future.
• La facoltà di disporre delle cose: è la cosiddetta disposizione giuridica delle cose, intesa
come disposizione materiale: è la facoltà di vendere o non vendere la cosa, di donarla o
non donarla, di costituire su di questa garanzie reali (es. pegno e ipoteca), ecc. Con
riguardo alla facoltà di disporre delle cose si considera il valore di scambio: è il
controvalore in denaro delle cose che il proprietario realizza vendendole.
La pienezza e l'esclusività del diritto di proprietà indicano i caratteri delle facoltà di godere e
disporre del proprietario:
• La pienezza del diritto di proprietà: il proprietario della cosa può goderne e disporre «in
modo pieno»: può farne tutto ciò che non sia espressamente vietato dalla legge. La
pienezza viene meno quando sulla cosa sono costituiti diritti reali minori, in tal caso non si
parla più di piena proprietà ma di nuda proprietà. La proprietà però resta sempre
potenzialmente piena: nel momento in cui il diritto reale minore si estingue il contenuto
della proprietà si espande e ritorna piena (elasticità della proprietà).

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• L’esclusività del diritto di proprietà: il proprietario può godere disporre della cosa «in
modo […] esclusivo»: può escludere chiunque altro dal suo godimento e disposizione. Si
nota come, nella pretesa del singolo di servirsi delle cose con esclusione degli altri, il
rapporto fra l'uomo e la cosa diventi un rapporto fra uomini. Il diritto del proprietario è
protetto, contro chiunque lo violi, dall'autorità giudiziaria.
I limiti e gli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico costituiscono dei correttivi ai
caratteri di pienezza e di esclusività del diritto di proprietà. L'ordinamento giuridico ricerca
l'equilibrio fra l'interesse del proprietario a godere e disporre delle cose a proprio piacimento
e l'interesse della collettività ad un impiego della ricchezza che vada a vantaggio di tutti.
• I limiti alla facoltà di godere di disporre: un tradizionale limite sta nel divieto di atti di
emulazione (Art. 833): il proprietario non può utilizzare la cosa per compiere atti il cui
unico scopo quello di nuocere ad altri (es. muro inutile contro casa vista mare). 

Relativamente alla proprietà dei suoli la facoltà di godimento è limitata sotto vari aspetti.
Riguardo la destinazione: il proprietario di un terreno non può scegliere a proprio
piacimento se destinarlo all'agricoltura all'industria o all’edilizia, questa facoltà spetta ai
comuni tramite appositi piani regolatori, che stabiliscono quali aree del comune debbano
essere adibite ad agricoltura, edificazione, ecc. Ne deriva un limite alla facoltà di
edificare: il proprietario di un suolo potrà costruirvi un edificio sopra solamente se piano
regolatore consente. Infine, le costruzioni devono essere eseguite nel rispetto delle
prescrizioni poste dal comune solamente dopo aver ottenuto il relativo permesso (gli
edifici costruiti senza permesso possono essere demoliti).
• Gli obblighi del proprietario: un obbligo dei proprietari di un fondo è di consentire
l'accesso al vicino che abbia necessità di entrarvi per eseguire opere sul proprio fondo,
oppure a chi voglia riprendere la propria cosa che vi si trova accidentalmente (art. 843).

Nei confronti del proprietario del fondo destinato all'agricoltura è provvedere alla sua
coltivazione, le terre incolte possono essere assegnata a chi ne faccia richiesta, ciò per
incentivare la produzione di ricchezza e lo sfruttamento dei beni produttivi. 

Al proprietario che ottiene il permesso di costruire è imposto di corrispondere ha comune
degli oneri di urbanizzazione: esistono oneri di urbanizzazione primari (es. contributi
per costruzione di strade e acquedotti) e secondari (es. contributi per costrizione scuole),
ciò in ragione del fatto che le opere di urbanizzazione accrescono anche il valore delle
costruzioni e che se il proprietario non contribuisse si arricchirebbe a spese della società.
5.3 Le cose oggetto di diritti: la classificazione dei beni

Il c.c. impiega indifferentemente i concetti di “cosa” e di “bene”, anche se i beni sono solo
quelli che, ex art. 810, «possono formare oggetto di diritti». Tra i beni rientrano sia le cose
appartenenti a qualcuno, sia le cose che pur non appartenendo a nessuno potrebbero formare
oggetto di proprietà (es. i pesci nel mare). I primi sono definiti beni di patrimonio, i
secondi beni di nessuno (res nullius).
La distinzione fondamentale dei beni intercorre tra beni immobili e mobili. I beni immobili
sono quelli incorporati al suolo naturalmente (es. albero) o artificialmente (es. casa), anche se
per un periodo transitorio (es. paninaro), sorgenti e corsi d’acqua e anche i galleggianti
saldamente ancorati alla riva. Particolare importanza assumono i fondi e le costruzioni
edilizie, il fondo adibito allo sfruttamento agricolo si dice fondo rustico, quello adibito alla

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costruzione di edifici prende il nome di fondo urbano. Sono beni mobili tutti quelli che non
sono considerati dalla legge immobili (art. 814), si ricavano quindi per esclusione.
La condizione giuridica delle due categorie di beni è molto diversa soprattutto dal punto di
vista della c.d. circolazione dei beni, ossia nella disciplina che regola il passaggio dei beni
da un proprietario ad un altro. I beni mobili circolano in modo assai rapido, in quanto si cerca
di rendere più semplice la circolazione della ricchezza. I beni immobili invece circolano in
modo molto più lenti poiché si tende a tutelare maggiormente dell’interesse del proprietario a
conservare la proprietà. In una condizione intermedia sono i beni mobili registrati (es.
autoveicoli), sono beni mobili la cui proprietà deve essere iscritta in pubblici registri, la loro
disciplina riguardo la circolazione è molto simile a quella degli immobili, per il resto sono
sottoposti alle norme proprie dei beni mobili (art. 815).

Più cose appartenenti allo stesso proprietario e con medesima destinazione si dicono
universalità di cose (es. libri che compongono una biblioteca). Il proprietario può disporre sia
dell’universalità nel suo complesso e in questo caso, se non espressamente previsto, l’atto di
alienazione comprenderà anche le singole cose che la compongono (es. vendo una biblioteca e
tutti i libri al suo interno), ma può anche disporre delle singole cose (art. 816).
Sono pertinenze le cose, mobili o immobili, destinate durevolmente ad ornamento o a
servizio di un’altra cosa mobile o immobile (art. 817) (es. scialuppe su una nave, statua in
una casa). Il rapporto pertinenziale tra cose influisce sulla circolazione delle pertinenze in
quanto gli atti che hanno per oggetto la cosa principale coinvolgono, se non espressamente
previsto il contrario, anche le pertinenze (art. 818).
Il rapporto pertinenziale può essere costituito solo dal proprietario della cosa principale o da
chi vanti su essa altro diritto reale, non occorre che egli sia proprietario della pertinenza. Può
capitare che il proprietario della cosa principale la trasferisca senza escludere le pertinenze di
proprietà altrui. In questo caso l’acquirente, in forza del rapporto pertinenziale, acquista
entrambi legalmente ma solo se è in buona fede. Nel caso in cui la cosa principale sia un bene
immobile o un bene pubblico registrato, il proprietario della pertinenza può rivendicarla nei
confronti dell’acquirente in buona fede sei il suo diritto sulla pertinenza risulta da atto avente
data certa antecedente alla vendita della cosa principale (art. 819).
Vi sono poi le cose composte, nate cioè dall’unione o montaggio di più cose (es.
macchina formata da telaio, ruote, ecc.). Si differenziano dalla pertinenza perché nelle cose
composte la separazione di uno dei componenti determina la perdita di identità della cosa
stessa, al contrario delle pertinenze, il cui distaccamento non determina gli stessi effetti (se ad
una macchina tolgo le ruote non è più una macchina, se ad una casa tolgo la statua è
comunque una casa ed è comunque una statua).

Esistono poi beni fungibili e cose infungibili. I beni fungibili (o beni di genere)
appartengono ad un genere all’interno del quale ogni bene è indifferentemente sostituibile
con un altro (es. denaro, grano, acqua, ecc.). I beni infungibili (o beni di specie) sono
invece quelli di cui esiste un unico esemplare, o che presentano dei caratteri distintivi (es.
opere d’arte, beni immobili). I primi sono considerate in rapporto alla quantità, peso o
misura, i secondi in rapporto della loro identità.
Sono poi beni consumabili le cose che si estinguono con il primo uso (es. alimenti), sono
beni inconsumabili quelli che consentono un uso ripetuto (es. vestiti).

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5.4 Proprietà pubblica e proprietà privata

L’art. 42 cost afferma che «la proprietà è pubblica o privata», da ciò si evince come il nostro
sia sistema ad economia mista che ammette la possibilità di proprietà privata e proprietà
pubblica. Non tutti i beni però si trovano nella condizione giuridica di poter essere di
proprietà pubblica o privata. Il c.c. indica espressamente due categorie di beni che devono
essere di pubblica proprietà:
• I beni demaniali, dello stato delle regioni, delle province e dei comuni (artt. 822,
824), che a loro volta si distinguono in demanio naturale, come lidi i fiumi e i porti
e le altre acque definite pubbliche dalla legge, e demanio artificiale, come gli
acquedotti e gli immobili di valore storico e culturale. Sono beni demaniali anche
quelle universalità di beni mobili che sono collezioni o raccolte di valore storico o
artistico: i singoli beni possono essere oggetto di proprietà privata solo se non inseriti
nelle raccolte. 

• I beni patrimoniali indisponibili dello stato, delle regioni, delle province, dei
comuni (art. 826, commi II e III): foreste, miniere, cave; le cose mobili di valore
storico o artistico ritrovate nel sottosuolo; gli immobili adibiti ad uffici pubblici con i
relativi arredi, in genere tutti quei beni che leggi espressamente qualificano come
patrimonio indisponibile, ed infine i beni patrimoniali indisponibili degli enti pubblici
non territoriali, destinati al pubblico servizio (art. 830, comma II).
La proprietà pubblica di queste due categorie di beni si giustifica o per garantire il loro uso da
parte di tutti, o perché si tratta di essenziali risorse produttive da sfruttare per il vantaggio
dell’intera comunità, o perché beni culturali o naturali da salvaguardare, o infine perché beni
che servono allo stato per assolvere le diverse funzioni istituzionali.
I beni demaniali sono inalienabili (art. 830), salvo che con apposite procedure
amministrative non vengano declassificati a patrimonio pubblico (art. 829). I beni
indisponibili non possono essere sottratti alla loro destinazione se non con le procedure
ammesse dalla legge (art. 828 comma II). Entrambe le tipologie di beni, se la loro natura lo
consente, possono essere oggetto di diritti da parte dei privati (es. le concessioni per le
spiagge), ma sono qualificati come beni fuori commercio. Questi non solo non possono
essere alienati a privati ma il loro possesso è senza effetto, cioè non conduce all’acquisto per
usucapione.
La proprietà pubblica dei beni demaniali o patrimoniali indisponibili non è comparabile con il
normale diritto di proprietà in quanto lo stato non possiede le facoltà di godimento e di
disposizione esercitate dal privato, ma esercita i poteri che secondo il diritto pubblico
spettano alla PA.
Gli altri beni, non espressamente qualificati dal codice o da leggi speciali come demanio o
patrimonio indisponibile, possono indifferentemente essere sia oggetto di proprietà pubblica,
sia privata. Sono nel primo caso, i beni del patrimonio disponibile dello stato. Si
definiscono pubblici tali beni solo in qualità del soggetto che ne è proprietario e la loro
disciplina è regolata dal codice civile. L’acquisto di questi beni da parte dello stato viene
svolto nei modi stabiliti dal diritto comune (es. azionariato dello stato) .
Lo stato tuttavia possiede mezzi anche autoritativi per conseguire la proprietà dei beni, è il caso
questo dell’espropriazione per pubblica utilità(art. 42 cost.). L’espropriazione è retta da

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due principi: il principio di legalità, per cui i pubblici poteri possono appropriarsi di beni
privati solo nei casi previsti dalla legge e con le dovute procedure e il principio
dell’indennizzo, per cui lo stato deve corrispondere al soggetto che ha subito l’esproprio una
somma in denaro che risarcisca la perdita, tale somma deve essere stabilita secondo i criteri
dettati dalla legge e non deve essere meramente simbolica.
Oltre al regolamento relativo al demanio e al patrimonio indisponibile dello stato, la costituzione
all’art. 43 disciplina la c.d. nazionalizzazione. Tale disciplina consente allo stato di riservarsi
determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici o a risorse o a
situazioni di monopolio di interesse generale. Tale norma consente allo stato di espropriare le
imprese già esistenti, salvo indennizzo, nei settori di pubblico interesse (es. caso ENEL nel 1962).
Diversa è la requisizione che sottrae momentaneamente il godimento della cosa che rimane di
proprietà del privato. Ad essa i pubblici poteri possono ricorrere in momenti di urgenti necessità
pubbliche (es. requisizione di un albergo per gli sfollati di un terremoto) , è comunque dovuto un
indennizzo al proprietario della cosa requisita (art. 835).
Come dichiarato dalla costituzione all’art. 42, la proprietà è «riconosciuta e garantita dalla
legge», ciò significa sia che la legge assicura il libero accesso dei privati alla proprietà di quei
beni che non siano riservati alla pubblica proprietà, sia che la legge offre garanzia ai privati
contro l’arbitrio dei pubblici poteri, i quali sono tenuti al rispetto del diritto di proprietà del
privato. Lo stato può far valere la propria sovranità per spogliare il privato dei propri beni
solo nei casi e con i modi espressi dalla legge.
L’art. 42 della costituzione dichiara di voler assicurare anche la “funzione sociale della
proprietà”. Tale funzione deve equilibrare l’interesse proprio del titolare e l’interesse della
collettività. La norma esprime l’esigenza di una destinazione sociale delle risorse e della
ricchezza anche se privata. Per questo motivo la legge interviene ponendo limiti al diritto del
proprietario e attribuendo a stato ed enti pubblici il potere di assicurare la destinazione
sociale delle ricchezze.
Vi è una parte dell’art. 43 della costituzione che contempla un terzo genere di proprietà, la
proprietà sociale o autogestione riferita alle imprese e ai mezzi di produzione. E’ una
forma di proprietà collettiva per la quale il potere di godere e disporre dei mezzi di
produzione spetta agli stessi lavoratori o utenti dell’impresa. Non esistono tutt’oggi concrete
attuazzioni di questa disposizione costituzionale.
5.5 La proprietà fondiaria

Il fondo, rustico o urbano, è delimitato sia in senso verticale sia in senso orizzontale. La sua
delimitazione orizzontale è di carattere geometrico, esistono dei confini oltre i quali il diritto
del proprietario non sussiste. La proprietà del suolo in senso verticale si estende al sottosuolo
e a tutto ciò che questo contiene (esclusi i beni patrimoniali indisponibili, es. cave e miniere),
e allo spazio aereo sovrastante. Il diritto del proprietario non è però illimitato, infatti la legge
stabilisce che il proprietario non può opporsi ad attività che si svolgano nel sottosuolo o nello
spazio aereo sovrastante il suo fondo, ad una profondità o altezza tale che egli non abbia
interesse ad escludere (art. 840). L’identificazione verticale del limite di proprietà è
dunque di natura economica, in quanto il proprietario può vantare il suo diritto esclusivo fin
dove può dimostrare di averne interesse. Oltre tale limite, elastico e non astrattamente
quantificabile, il sottosuolo e lo spazio aereo sono considerati cose comuni a tutti.

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I confini del fondo segnano lo spazio entro cui il proprietario può esercitare la facoltà di
godimento insita nel diritto di proprietà, in linea di principio l’attività di godimento deve
essere contenuta entro i propri confini. Nessun proprietario può compiere atti o opere che
arrechino danno al fondo del vicino, ossia che ledano il diritto del proprietario vicino (art.
840), significativa è la norma che regola lo stillicidio, secondo cui un proprietario deve
costruire il tetto della propria casa in modo tale che l’acqua piovana sgorghi sul proprio
terreno e non su quello del vicino (art. 908).
Ma fra proprietari vicini è inevitabile che il godimento di uno interferisca con il godimento
dell’altro, limitandolo o pregiudicandolo. Alcuni aspetti trovano nella legge specifici criteri di
contemperamento: alla facoltà di godimento di ciascun proprietario sono imposti limiti per
conciliare il suo interesse con quelli degli altri proprietari di fondi confinanti.
Un primo limite è dettato dalle norme relative alle c.d. distanze legali, che impongono di
rispettare distanze minime nella costruzione di edifici, scavare pozzi e fosse, piantare alberi.
a) Le costruzioni su fondi confinanti, se non sono unite o in aderenza tra loro, devono
essere tenute a una distanza minima di tre metri, salvo diversa disposizione da parte dei
regolamenti locali (art. 873). Tale distanza è ritenuta idonea affinché costruzioni vicine
non si tolgano aria e luce e non pregiudichino la propria sicurezza.

Risulta favorito il proprietario che costruisce per primo (principio della prevenzione
temporale), in quanto egli può costruire a meno di un metro e mezzo dal confine o sul
confine stesso, costringendo l’altro o ad indietreggiare o a costruire appoggiandosi al
suo muro che diviene in comproprietà (art. 874-877). Il secondo non ha diritto
all’indennizzo per il suolo rimasto in edificabile.

Nel caso in cui il secondo costruttore non rispetti le minime distanze, il primo può
costringerlo alla riduzione in pristino, cioè alla demolizione (art. 872). Spesso i
regolamenti comunali impongono una distanza minima dal confine, in questo modo
perde ogni privilegio anche colui che edifica per primo.
b) Pozzi, cisterne e tubi devono essere collocati ad una distanza di almeno due metri dal
confine, i fossi ad una distanza uguale alla loro profondità (art. 892).
c) Gli alberi ad alto fusto che si ramificano, debbono essere posti ad una distanza minima
di tre metri dal confine, salvo diversi regolamenti o usi locali, gli altri alberi ad un
metro e mezzo, le viti e le siepi a mezzo metro (art. 892). Il vicino può recidere le radici
o chiedere al proprietario di potare i rami sporgenti (art. 896).
Per ciò che riguarda la ricezione di aria e luce, l’ordinamento risolve i conflitti distinguendo
tra luci e vedute. Sono luci le aperture che non consentono di affacciarsi sul fondo del vicino,
le vedute consentono invece di affacciarvisi. Per le luci che si aprono sul fondo del vicino
non vi sono distanze minime dal confine ma devono avere inferriate e grate per garantire la
sicurezza del vicino e devono essere collocate ad una distanza, prevista dalla legge, che
assicuri la privacy del vicino (art. 901). Le vedute devono essere aperte ad una distanza
minima di un metro e mezzo dal confine (art. 905), colui il quale abbia diritto di edificare in
aderenza o appoggiandosi al vicino può oscurare solo le luci di quest’ultimo e non le vedute.

L’interferenza nel godimento di un fondo può essere intaccata dalle immissioni (calore,
fumo, rumore, ecc.) provenienti da un fondo confinante, in questo caso il criterio legale per la
soluzione del conflitto è quello della normale tollerabilità (art. 844) secondo cui il

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proprietario di un fondo non può impedire le immissioni, di qualunque genere, provenienti


dal fondo del vicino se esse non superino la capacità di sopportazione dell’uomo medio, la
soglia oltre la quale le immissioni risultino intollerabili all’uomo medio. È questo un
principio a favore delle attività produttive. Il giudice in via applicativa deve contemperare le
esigenze della produzione e della proprietà. Complementari sono i criteri di legge di
condizione dei luoghi, e la priorità di un dato uso secondo cui è privilegiato chi per primo ha
dato diversa destinazione al suo edificio (es. se ho costruito un’officina e tu costruisci una
casa vicino, sono più tutelato io perché c’ero da prima). Proprio per evitare questi conflitti il
comune predispone piani regolatori.

Tutte le acque sono bene pubblico. L’utilizzazione da parte di privati sul cui fondo scorrano
corsi d’acqua è ammessa tramite concessione amministrativa. È libera invece l’utilizzazione
di acque sotterranee e acqua piovana per uso domestico (es. irrigare i campi).
Oggetto di diritto è generalmente il flusso di acqua scorre sul fondo, il proprietario del
fondo ha diritto di utilizzo delle acque e può disporne a favore di altri (costituendo servitù),
ma dopo l’utilizzo non può modificare il flusso a danno d’altri fondi.
5.6 Le azioni in difesa della proprietà

Sono previste dal codice civile a difesa del diritto di proprietà le c.d. azioni petitorie:

d) Azione di rivendicazione (art. 948): spetta a chi si dichiara proprietario di una cosa
della quale altri abbia possesso o detenzione; mira ad ottenere da parte del giudice
l’accertamento del diritto di proprietà e la condanna alla restituzione del possessore o
del detentore. 

Se nel corso del giudizio il convenuto ha, per atto proprio, perduto il possesso, l’attore può
agire contro il nuovo possessore o continuare ad agire contro il primo affinché questi a sue
spese recuperi la cosa o gliene corrisponda il valore, oltre al risarcimento dei danni.
L’attore deve dare prova del proprio diritto di proprietà (prova spesso ardua). La
restituzione è ottenibile anche a mezzo di azioni possessorie ove è necessario provare solo
che il convenuto impropriamente ha spossessato l’attore della cosa.
e) Azione negatoria (art. 949): spetta al proprietario contro chi pretende di avere diritti
minori sulla cosa. Mira all’accertamento giudiziale del diritto altrui e l’ordine, al
convenuto, di cessare le eventuali turbative o molesti della proprietà, ossia l’esercizio del
suo presunto diritto sulla cosa. L’attore deve provare il proprio diritto di proprietà, il
convenuto deve provare il diritto reale minore vantato sulla cosa. 

Per la cessazione delle molestie è utilizzabile anche l’azione possessoria di manutenzione.
f) Azione di regolamento dei confini (art. 950): spetta a ciascuno dei proprietari
immobiliari confinanti quando il confine tra i due fondi è incerto, mira all’accertamento
del confine per cui è ammesso qualsiasi tipo di prova.
Il diritto di proprietà non si prescrive, rimane cioè in capo al suo titolare al di là del suo
esercizio (art. 2934), la perdita della proprietà per non uso può avvenire solo per opera di
terzo che acquisti per usucapione. Il c.c non afferma esplicitamente che è il diritto di
proprietà imprescrittibile, ma le azioni a sua difesa (che sostanzialmente è a stessa cosa)

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Capitolo sesto
IL POSSESSO
6.1 Concetto di possesso

Proprietà e possesso sono, giuridicamente, due situazioni diverse. La prima è la situazione di


diritto definita dall’art. 832, il secondo è una situazione di fatto definita all’art. 1140 come
«il potere sulla cosa che si manifesta in una attività corrispondente all’esercizio del diritto di
proprietà o di altro diritto reale». La differenza sta appunto fra la titolarità e l’esercizio del
diritto di proprietà: fra l’essere proprietari e il comportarsi da proprietari.
Generalmente il proprietario è anche possessore, ma può accadere che il proprietario non
possieda la cosa e che altri sia possessore (es. furto). Il possesso ha una protezione
giuridica autonoma separata dalla tutela della proprietà, tale protezione può essere fatta
valere dal possessore sia proprietario che non proprietario. 

Oltre al c.d. possesso pieno, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, il
possesso può anche essere relativo ad altri diritti reali minori (es. possesso dell’usufrutto, ci si
comporta da usufruttuari), tale possesso prende il nome di possesso minore.
Dal possesso si deve distinguere la semplice detenzione che corrisponde all’avere la cosa
nella propria materiale disponibilità (corpus possessionis). Per essere possessore bisogna
avere l’animo o l’intenzione di possedere (animus possidendi), ossia l’intenzione di
comportarsi da proprietario della cosa. È dunque possessore colui il quale coltiva un fondo o
abita una edificio senza riconoscere in altri il proprietario e senza pagare canoni. Può
accadere quando è lo stesso proprietario il possessore della cosa oppure sia quando il
proprietario trascura di esercitare il proprio diritto ed altri lo esercita in suo luogo.
È invece mera detenzione la situazione un soggetto detiene la cosa per un titolo che ne
riconosce l’altruità (es. casa in locazione).
Si nota come si possa possedere in due modi: direttamente (detenendo la cosa con l’animo di
possederla) o indirettamente ( per mezzo di altri che ne abbia la detenzione) (Art. 1140.2).
Possesso e detenzione dunque sono concetti distinti e differenti sono le prove in concerto.
 Al
riguardo vige una presunzione: chi esercita il potere di fatto sulla cosa, ossia ne è materiale
detentore, si presume possessore (si presume il suo animo di possedere), salvo non si provi
che egli eserciti quel potere in base a un titolo che implica il riconoscimento dell’altrui
possesso (es. locazione, trasporto).

Il mero detentore può divenire possessore, ma non basta un mero mutamento


del suo intento psicologico (ossia l’insorgere dell’animo di possedere la cosa).

L’art. 1141 comma II riconosce in due soli casi la possibilità di interversione del possesso
(il mutamento della detenzione in possesso):
• Quando il titolo per il quale si ha la materiale disponibilità dalla cosa venga mutato
per causa proveniente da terzi (es. acquisto la casa che già detengo a titolo di
locazione).
• Quando il detentore faccia opposizione contro il possessore affermandosi proprietario
e facendo constare al possessore con esplicita dichiarazione o con atti concreti che
intende tenere la cosa come propria (es. negandogli l’accesso al fondo).
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Fuori da questi casi il detentore non può diventare giuridicamente possessore.

Il possesso è escluso anche in colui che compia atti di godimento della cosa con la tolleranza
altrui (art. 1144) (es. un mio amico prende un libro a casa mia, non diventa possessore).

Il possesso della cosa si può acquistare sia a titolo originario (es. chi muta la detenzione in
possesso), sia a titolo derivativo per trasmissione del possesso dal precedente al nuovo
possessore, il che può avvenire in vari modi:

• Consegna materiale della cosa (traditio): utilizzata per i beni mobili, è la


consegna materiale della cosa eseguita con la volontà di trasferire il possesso. 

• Consegna simbolica (traditio ficta): utilizzata per gli immobili la consegna è
simbolica (es. consegna delle chiavi una casa). 

• Senza la consegna della cosa (traditio brevi manu): trasferimento senza la materiale
consegna, accade quando si è già detentori della cosa. (la situazione inversa prende il nome
di constituto possessorio, è il caso in cui il possessore diviene detentore; es. il
proprietario che vende la casa ad soggetto che contestualmente gliela da in locazione)

La protezione giuridica del possesso prescinde dallo stato di buona o mala fede, è quindi
giuridicamente protetto anche il ladro. È in buona fede chi possiede la cosa ignorando di
ledere un diritto altrui (art. 1147, comma I), lo stato di buona fede è però escluso se derivante
da colpa grave (art. 1147 comma II). Di contro, è in malafede chi pur ignorando l’altruità
della cosa, poteva venirne a conoscenza con un minimo di diligenza (buona fede temeraria).
A tale proposito vige una presunzione di legge: il possessore si presume in buona fede
fino a prova contraria, è perciò in buona fede anche il possessore di cui non si riesce a
dimostrare la mala fede. È sufficiente che il possesso fosse stato buona fede al tempo
dell’acquisto (in origine) per essere considerato tale anche se successivamente si viene a
conoscenza dell’altruità della cosa (art. 1147), si dice: la malafede sopravvenuta non nuoce.

A diversi effetti è essenziale la durata del possesso. Per la prova di questa per il possessore è
assistito da due presunzioni:
• Possesso intermedio: chi prova di essere possessore attuale e prova di aver posseduto la
cosa tempo addietro si presume abbia posseduto anche nel tempo intermedio (art. 1142) .
• Possesso anteriore: chi prova il possesso attuale e il titolo in forza del quale possiede
(es. contratto acquisto casa), si presume possieda dalla data del titolo (art. 1143).
Sia agli effetti della durata quanto a quelli della qualificazione del possesso vale il principio
secondo il quale il possesso dell’erede continua quello del defunto, con somma dei
tempi di possesso, conservandone la qualificazione (se era di buona fede resta di buona fede e
viceversa).
Non c’è invece automatica continuazione del possesso nelle successioni a titolo particolare,
ma solo una facoltà attribuita al successore (accessione del possesso): l’acquirente, se gli
giova, può sommare suo possesso con quello dell’alienante (art. 1146).

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6.2 Diritti del possessore nella restituzione al proprietario

Al possesso, benché situazione di fatto, sono attribuiti molteplici effetti di diritto.


Il possessore può non essere proprietario e nel il proprietario può ottenere la restituzione della
cosa tramite azione di rivendicazione. La cosa nel frattempo ha prodotto frutti e il possessore
li ha percepiti: l’art. 1148 riconosce differenti diritti al possessore in malafede e a quello in
buona fede. Il proprietario in buona fede trattiene i frutti che ha percepito fino alla domanda
di restituzione, il possessore in mala fede deve restituire tutti i frutti o un loro equivalente in
denaro. Il proprietario non deve però trarre vantaggio dagli investimenti altrui, il possessore
di malafede è tenuto al risarcimento per le spese e la produzione del raccolto (art. 1149).
Il possessore può poi aver eseguito riparazioni o migliorie alla cosa. Ogni possessore ha
diritto al rimborso per le spese straordinarie, il possessore di buona fede ha il diritto ad
un’indennità pari al maggior valore raggiunto dalla cosa grazie ai miglioramenti apportati, il
possessore in mala fede ha diritto alla minor somma tra l’aumento di valore della cosa e
l’importo delle spese affrontate (art. 1150).
Al proprietario di buona fede spetta in fine il diritto di ritenzione, con il quale può
riservare la restituzione al momento del pagamento delle indennità dovutegli (art. 1152).
6.3 Le azioni possessorie

Al possesso è riconosciuta protezione giurisdizionale, il possessore che sia stato spossessato o


molestato nel suo possesso può rapidamente ottenere un provvedimento per la reintegrazione
del possesso o per la cessazione delle molestie. Tale protezione giurisdizionale è riconosciuta
al possesso in quanto tale: è irrilevante che il possessore sia, non sia o non possa
provare di essere proprietario del bene, ed è anche irrilevante se la cosa sia idonea o meno a
formare oggetto di proprietà privata (tale riconoscimento è previsto anche nei confronti del
possessore di bene demaniale, art. 1445, es. bagnino).
A difesa del possesso vi sono le azioni possessorie:

a) Azione di reintegrazione o di spoglio (art. 1168): spetta al possessore che sia


stato violentemente od occultamente spossessato di una cosa mobile o immobile
(occultamente: di nascosto; violentemente: con l’uso di forza o minacce).
L’azione è esercitatile entro un anno dallo spoglio, o se clandestino dal momento
della la sua scoperta; consente al possessore spogliato di ottenere in base alla semplice
notorietà dell’atto dello spoglio la reintegrazione del possesso tramite ordine del
giudice rivolto all’autore dello spoglio o a chi abbia acquistato il bene in malafede.
Trascorso l’anno dallo spoglio, il possesso si consolida nelle mani dell’autore del fatto,
da quel momento la reintegrazione può avvenire solo tramite azione di rivendicazione
da parte del proprietario. 

b) Azione di manutenzione (art. 1170): riguarda solamente i beni immobili e le
universalità di beni mobili, ha un duplice campo d’applicazione: spetta al possessore che
sia molestato (impedito, ostacolato) nel godimento della cosa e al possessore che abbia
subito uno spoglio non violento o clandestino. Può essere esperita entro un anno dallo
spoglio o dalle turbative e mira nel primo caso all’ottenimento di un ordine di

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cessazione delle turbative, nel secondo caso alla restituzione della cosa. 


L’ azione di reintegrazione, in quanto basata sull’altrui atto violento o clandestino, è data a


qualsiasi possessore indipendentemente dalla durata del possesso e dal modo con il
quale egli se lo era procurato. L’azione di manutenzione invece è concessa solo in caso di
possesso duraturo, continuato ed ininterrotto da oltre un anno e non conseguito in modo
violento o clandestino (oppure se conseguito in tal modo, è concessa solo se è trascorso un
anno almeno da quando la violenza o la clandestinità è cessata) (art. 1170 comma II). Si nota
che l’azione di reintegrazione può essere esercitata anche dal ladro, l’azione di manutenzione
invece può essere esercitata in caso di possesso illegittimo solamente trascorso un anno,
Le azioni possessorie spettano anche al proprietario che sia stato spogliato del possesso o
molestato nel godimento del bene. Agendo da possessore, il proprietario, gode di una
protezione più rapida, essendo esonerato dall’onere di provare la proprietà del bene.

Il possesso, nonostante sia una situazione di fatto, riceve tutela giurisdizionale per superiori
esigenze attinenti all’ordine pubblico: se chiunque potesse liberamente impossessarsi di ciò
che altri possiedono senza esserne (o senza possibilità di provare di essere) proprietario, si
legittimerebbero spoliazioni a catena con conseguente grave pregiudizio dell’ordine pubblico.
Vale l’antico principio per cui il possessore, anche se non proprietario, può ottenere dal
giudice protezione in forza della sola situazione di fatto. Tale principio solo indirettamente
protegge il possessore e mira essenzialmente alla salvaguardia dell’ordine pubblico.
La legge introduce un criterio per la risoluzione dei conflitti sul possesso dei beni per cui il
possessore antecedente (colui che viene spogliato del possesso), prevale sul possessore
successivo (l’autore dello spoglio), salvo che il possesso successivo non sia durato almeno un
anno senza reazione del primo possessore.

Le azioni possessorie possono essere rivolte verso tutti, anche nei confronti del proprietario.
Secondo l’art. 705 c.p.c. il proprietario non può opporre a difesa di un’azione possessoria il
proprio diritto di proprietà (divieto di eccezione petitoria nel giudizio possessorio).
Questo perché esiste l’azione di rivendicazione come mezzo di opposizione allo spoglio.
All’art. 705 c.p.c. va aggiunta però una riserva «salvo che ne derivi o possa derivare un
giudizio irreparabile per il convenuto». Tale riserva ammette l’ipotesi in cui l’attore vinto il
giudizio possessorio faccia sparire il bene prima del giudizio petitorio con cui sarebbe
obbligato alla restituzione del bene, perciò, provato l’irreparabile pregiudizio, l’attore può
richiedere il sequestro giudiziario del bene.

Il possessore di beni demaniali (es. bagnino) può esperire azioni possessorie verso altri
privati, ma non verso lo stato, che può utilizzare la forza pubblica per il recupero del bene o
la cessazione delle molestie.

L’azione di reintegrazione può spettare anche al detentore che non detenga per motivi di
servizio o di ospitalità (art. 1168 comma II). Spetta a chi detenga nel proprio interesse e
detenga sulla base di un rapporto stabile (es. il conduttore del fondo o l’inquilino della casa).
Il detentore che subisca spoglio o molestie relative al bene può esercitare egli stesso l’azione
di reintegrazione senza necessario riferimento al possessore, la detenzione ha così
protezione autonoma da quella del possesso. Non spetta di regola l’azione di
manutenzione al detentore che, per esercitarla, dovrà riferirsi al possessore. Eccezione a
questa regola generale è il conduttore: egli può, se molestato da terzi nel godimento della
cosa, esperire l’azione di manutenzione senza bisogno di rivolgersi al locatore.

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6.4 Le azioni di nunciazione

Sono azioni che spettano al possessore (indipendentemente dalla prova di proprietà), al


possessore non proprietario e al titolare di un altro diritto reale. Hanno la funzione di
prevenire un danno che minaccia la cosa, sono:
a) Denuncia di nuova opera (art. 1171): è la denuncia all’autorità giudiziaria di nuova
opera intrapresa da altri dalla quale si teme possa derivare un danno alla cosa di cui si è
possessori, proprietari o titolari di diritto reale minore. L’azione è esperibile fino a
quando l’opera non sia stata completata e purché non sia trascorso un anno dall’inizio
dei lavori.
b) Denuncia di danno temuto (art. 1172): è la denuncia di danno grave ed imminente,
all’autorità giudiziaria, che si teme possa derivare alla cosa di cui si è possessori.
proprietari o titolari di un altro diritto reale dall’edificio o da cosa altrui (es. l’edificio
del mio vicino penso stia per crollare).
Queste azioni danno luogo ad un giudizio che si divide in due fasi:

1. Inizialmente l’autorità giudiziaria in base ad una sommaria conoscenza dei fatti, emette
provvedimenti provvisori ed urgenti con i quali può vietare la continuazione dei lavori o
sottoporre la continuazione dell’opera a particolari cautele, che escludano la possibilità
del danno. 

2. Successivamente si ha giudizio di merito, la decisione conclusiva circa l’esistenza o
meno del pericolo di danno e illiceità del comportamento del denunciato. 

Tali azioni sono esperibili anche contro la PA, ma solo relativamente alle modalità di
esecuzione dell’opera (non dall’opera pubblica in sé).

Capitolo settimo
I MODI DI ACQUISTO DELLA PROPRIETÀ
7.1 Acquisto a titolo originario e a titolo derivativo

La proprietà si può acquistare solo nei modi stabiliti dalla legge, l’art. 922 ne enuncia 9,
facendo riserva degli «altri modi stabiliti dalla legge». I modi di acquisto di distinguono in
due categorie: acquisto titolo originario (occupazione, invenzione, accessione, specificazione,
unione, commistione e usucapione) e a titolo derivativo (contratti, successione mortis causa).
Si acquista a titolo derivativo quando si acquista il diritto di proprietà ad un precedente
proprietario. Si ha quando la proprietà viene trasferita con un contratto cui la legge riconosce
effetto traslativo della proprietà (art. 1376) oppure alla morte del proprietario si attua
successione dei suoi beni. Chi trasferisce il diritto è detto, dante causa, colui che acquista è
l’avente causa. L’essenza di questo tipo di acquisti è che l’avente causa acquisisce la
proprietà solo se e solo come il dante causa era proprietario. la cosa si trasferisce continuando
ad essere gravata, nel caso esistano, dai medesimi diritti reali minori. Vale l’antico principio
secondo cui nessuno può trasferire ad altri maggiori diritti di quanto egli stesso abbia.

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Si acquista a titolo originario quando il diritto di proprietà che si acquista sulla cosa è
indipendente dal diritto del precedente proprietario . Ciò accade sia quando non esiste il
precedente proprietario sia nel caso egli abbia abbandonato la cosa, o ancora quando esiste un
precedente proprietario, ma quando il suo diritto è destinato a soccombere di fronte al diritto
di chi acquista a titolo originario. Nei casi di acquisto a titolo originario il diritto di proprietà
si acquista libero da ogni diritto altrui che gravava sulla cosa, questi modi di acquisto
determinano la cessazione di ogni precedente diritto reale o garanzia reale sulla cosa.
7.2 Occupazione ed invenzione

L’occupazione è il modo con cui si acquistano le res nullius, le cose di nessuno (art. 923).
Solamente le cose mobili possono essere res nulluis, gli immobili non appartenenti a
nessuno,sono di proprietà dello stato o delle regioni a statuto speciale (art. 827).
Tale metodo di acquisto richiede un elemento materiale, ossia l’impossessamento della
cosa ed un elemento psicologico, consistente nella volontà di fare propria la cosa.
Vi sono due categorie di cose che il codice civile riconosce come cose di nessuno suscettibili
d’occupazione:
• Le cose abbandonate, queste diventano cose di nessuno dopo l’abbandono da
parte del precedente proprietario con cui si è liberato della cosa con l’intenzione di
rinunciare alla proprietà.
• Gli animali che formano oggetto di caccia o pesca. La caccia e la pesca sono le forme
tramite cui avviene l’impossessamento e l’acquisto della proprietà per occupazione. La
legge n. 968 del 1977, a tutela della natura hanno cambiato la condizione giuridica della
selvaggina selvatica, considerata oggi come patrimonio indisponibile dello stato.
Si può parlare di occupazione anche in riferimento ad un’altra categoria di cose mobili, le
cose altrui occupate con espresso o tacito consenso del proprietario. E’ il caso
non di cose di nessuno, ma di frutti naturali della foresta o del corso d’acqua che
appartengono o al proprietario del fondo (art. 821) oppure allo stato (art. 822). Il consenso,
espresso o tacito, del proprietario rende queste cose suscettibili di occupazione.
Dalle cose abbandonate si distinguono le cose smarrite, cose di cui il proprietario ha perso
il possesso senza rinunciare alla proprietà. Colui che ritrova la cosa è tenuto a portala
all’ufficio oggetti smarriti del comune, ma se dopo un anno dalla pubblicazione il
proprietario non reclama la cosa, questa diventa di proprietà del ritrovatore che la acquista
per invenzione. Se il proprietario si dovesse presentare, il ritrovatore ha comunque diritto
ad un premio pari a un decimo del valore della cosa (artt. 928, 929, 930)
Sempre per invenzione può acquistarsi il tesoro, con tesoro si intende «ogni cosa mobile di
pregio nascosta o sotterrata di cui nessuno può provare d’essere proprietario» (art. 932). Se il
ritrovamento è fatto dal proprietario del fondo, il tesoro giace questo diventa suo; se è fatto da
altri, spetta per metà allo scopritore e per l’altra metà al proprietario del fondo (art. 959). La
proprietà di cose ritrovate che abbiano valore storico o archeologico è dello stato (art. 826).

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7.3 L’accessione, l’unione e la commistione, la specificazione

L’accessione deriva da un principio per cui la proprietà di una cosa qualificabile come
principale fa acquistare la proprietà delle cose definite come ad essa accessorie. Vi sono tre
forme di accessione:
1. Accessione di cosa mobile a cosa immobile: qui si manifesta la preminenza della
proprietà immobiliare: ogni bene che venga materialmente unito ad un immobile accede a
questo, ossia diventa di proprietà del proprietario dell’immobile. Ad es. il proprietario del
suolo che incarica un’impresa di costruire un edificio sul suo terreno acquista a titolo
originario l’edificio man a mano che i materiali vengono incorporati al suolo. 

Può accadere che un soggetto, in buona fede, costruisca su suolo altrui utilizzando
materiali propri, in questi casi il proprietario del suolo ha diritto a tenersi l’edificio
pagando o una somma pari al costo dell’opera o al maggior valore raggiunto dal suolo.
Solo se il costruttore è in mala fede l’art. 936 permette al proprietario del suolo di
demolire la costruzione. 

Può capitare che il costruttore che costruisce sul proprio suolo sconfini su suolo altrui con
l’edificio, in tal caso il giudice può attribuirgli la proprietà del suolo occupato (c.d.
accessione inversa), obbligandolo a pagare il doppio del valore (art. 938).
2. Accessione di cosa immobile ad immobile: è il caso dell’alluvione: i detriti
trasportati dai fiumi sui fondi rivieraschi vanno a modificarne l’estensione, il proprietario
del fondo a valle acquista per accessione la proprietà della maggiore estensione che il suo
fondo ha ricevuto (art.941) . Vi è poi l’avulsione: quando il fiume trasporta da un fondo
a monte una porzione importante di terra sul fondo a valle, la terra trasportata diviene del
proprietario di quest’ultimo che però deve pagare una indennità al proprietario del fondo
da cui si è staccata la terra (art. 944).

L’alveo abbandonato del fiume e l’isola nata nel fiume sono proprietà del demanio .
3. Accessione di cosa mobile a mobile: se due cose mobili appartenenti a diverso
proprietario e si mescolano (commistione) (es. la vernice di A si mischia a quella di B)
o si uniscono (unione) (es. la vernice di A è stata usata per verniciare la macchina di B)
in modo da formare un tutt’uno inseparabile, il proprietario della cosa principale, pagando
un’indennità all’altro diviene proprietario del tutto. Se nessuna delle cose può
considerarsi principale, nel caso in cui la separazione non causi grave deterioramento,
ciascuno conserva la proprietà della sua cosa, altrimenti si avrà una comproprietà della
cosa risultante, con quote pari al valore delle cose unite (art. 939). 

La specificazione è il modo di acquisto della proprietà della materia altrui, da parte di chi
la adopera per ottenere una cosa nuova: la proprietà della nuova cosa è dello specificatore,
ma questo deve pagare un’indennità al proprietario della materia (es. un falegname realizza
un mobile con del legno altrui, il mobile è di sua proprietà ma dovrà pagare la materia al
proprietario). Se il valore della materia prima supera notevolmente il valore della
manodopera, la cosa diviene del proprietario della materia, che dovrà pagare la manodopera
dell’altro (art. 940).

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7.4 Il possesso di buona fede dei beni mobili

La proprietà si può acquistare a titolo originario mediante il possesso.


Il possesso dei beni mobili può determinare l’acquisto istantaneo della proprietà, nel
momento stesso in cui lo si consegue. Tale principio permette una più rapida circolazione dei
beni mobili, offre la possibilità di un acquisto a titolo originario dove ci sia un ostacolo che
impedisce l’acquisto a titolo derivativo, si dice che possesso vale titolo. Il principio si
manifesta in due ipotesi:
1. Acquisto di cosa mobile da non proprietario (a non domino): colui il quale
acquista un bene mobile da chi non è proprietario ne acquista la proprietà mediante
possesso, purché in buona fede e purché sussista un titolo idoneo al trasferimento di
proprietà (art. 1153). Il titolo idoneo è un contratto, improduttivo dell’effetto traslativo
solo perché il dante causa non è proprietario del bene alienato. In questo caso il
trasferimento della proprietà non si può acquistare a titolo derivativo (poiché nessuno può
trasferire un diritto maggiore a quello che possiede), l’acquisto della proprietà avviene
quindi a titolo originario, purché si acquisti in buona fede e con titolo idoneo. 

2. Alienazione della stessa cosa mobile a più persone: nel caso qualcuno alieni
a più persone una stessa cosa, diviene proprietario colui che per primo in buona
fede ha conseguito il possesso della cosa, anche se il suo contratto è successivo a
quello di altri (art. 1155). È una applicazione del precedente principio: il secondo
acquirente acquista a non domino (dato che ha già ceduto la proprietà), ma se in buona
fede e con titolo idoneo consegue la proprietà tramite possesso. 

In entrambi i casi la proprietà si acquista libera da ogni altrui diritto, se questi non risultano
dal titolo e c’è buona fede dell’acquirente, l’acquisto a non domino comporta quindi
l’estinzione di ogni diritto reale minore sulla cosa.

L’importanza di questo modo di acquisto della proprietà sta nella sicurezza, il compratore
acquista la cosa senza il rischio di doverla restituire ad un terzo che dimostri di esserne
proprietario. Tale vantaggio si riflette poi sul venditore, facilitato a vendere. Si favorisce così
una sicura, ampia e rapida circolazione dei beni mobili e quindi creazione di ricchezza.
Ne resta però sacrificato l’interesse del terzo proprietario a riottenere il proprio bene.
Negli stessi modi descritti si acquistano anche diritti reali minori su cose mobili (uso,
usufrutto) e il pegno. Mediante possesso non sono acquistabili i beni mobili registrati e le
universalità di beni mobili, i primi perché rispondono ad un tenore giuridico simile a quello
degli immobili, i secondi perché non sono destinati alla circolazione.
7.5 Usucapione

Si può essere possessori senza essere proprietari, se una simile situazione si protrae nel tempo
la legge ricollega una specifica conseguenza: il proprietario non possessore perde il diritto di
proprietà che viene acquistato dal possessore non proprietario. È l’usucapione: l’acquisto
della proprietà a titolo originario mediante il possesso prolungato nel tempo.
È irrilevante ai fini dell’usucapione che il possesso sia di buona o mala fede, ciò influisce
solo con riguardo alla durata, più lunga per l’usucapione in mala fede. È necessario però che

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il possesso della cosa sia goduto alla luce del sole, quindi in caso di possesso in mala fede,
(es. ladro), il tempo utile per l’usucapione comincia decorrere dal momento in cui cessa la
violenza o la clandestinità (art. 1163).
L’usucapiente, se ha posseduto la cosa come libera da diritti reali minori, ne acquista la
proprietà libera e piena (usucapio liberatis). Compiuto l'usucapione, diritti la cosa
eventualmente costituita l'antico proprietario non sono più opponibili all’usucapiente,
neanche se trascritti.

Il fondamento dell’usucapione è una l’esigenza di ordine generale di eliminare le situazioni di


incertezza circa l’appartenenza dei beni, assicurando la certezza dei diritti sulle cose.
L’incertezza sull’appartenenza dei beni nuoce alla circolazione della ricchezza.

L’usucapione vale anche a semplificare la prova in giudizio del diritto di proprietà.
La prova sarebbe impossibile, soprattutto per gli immobili, se si dovesse provare l’acquisto a
titolo derivativo: bisognerebbe provare di aver validamente acquistato da un proprietario che
a sua volta ha acquistato validamente, ecc. a ritroso fino al primo proprietario del bene (c.d.
prova diabolica). L’usucapione rende necessaria la prova: basta provare di aver posseduto
per il tempo necessario ad acquistare la proprietà a titolo originario, se si possiede da tempo
minore si può sommare il proprio tempo con quello del dante causa.
Il tempo necessario per usucapire una cosa varia a seconda del tipo di bene: di regola
servono venti anni per gli immobili (art. 1158) e per le universalità di beni (art. 1160), dieci
anni per i beni mobili registrati (art. 1162). Quando un immobile sia stato acquistato in buona
fede da non proprietario, con titolo idoneo al trasferimento e debitamente trascritto, bastano
dieci anni dalla data della trascrizione. Con condizione analoghe per i beni mobili registrati
bastano tre anni dalla trascrizione.
Con l’usucapione si acquistano anche le cose mobili qualora manchino le condizione per
l’acquisto immediato. Per le cose mobili non registrate, se conseguite in buona fede ma senza
titolo, servono dieci anni, se il possesso è stato conseguito in mala fede, ne sono richiesti
venti di anni (art. 1161).

Oltre che il diritto di proprietà, si acquistano per usucapione anche degli altri diritti reali,
anche gli altri diritti reali su beni mobili ed immobili (superficie, usufrutto, servitù). La durata
del possesso di tali diritti è la stessa richiesta per usucapire la proprietà.
Capitolo ottavo
I DIRITTI REALI SU COSA ALTRUI
8.1 Concetto di diritto reale su cosa altrui

Assieme al diritto di proprietà possono coesistere altri diritti reali sulla cosa, questi
presuppongono che la proprietà appartenga ad un atro soggetto, prendono quindi il nome di
diritti reali su cosa altrui (iura in re aliena), o diritti reali minori. Questi sono:
superficie, usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi e servitù.

La costituzione di questi diritti reali minori tende a ridurre il contenuto del diritto di
proprietà del titolare della cosa, sottraendo a questo alcune facoltà. Possono esistere sulla
stessa cosa, più diritti reali minori, dato il diverso contenuto di ciascuno (es. lo stesso fondo
può essere gravato da servitù e usufrutto).

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La natura dei reali minori si manifesta nel fatto che essi hanno per oggetto la cosa, dunque
permangono (e sono opponibili) anche qualora la proprietà della cosa venga trasferita, i diritti
reali minori seguono la cosa nella sua circolazione. Si dice a tal proposito che il diritto reale
minore ha diritto di seguito (o sequela: è opponibile a tutti i successivi proprietari che sono
tenuti a rispettarlo (salvo che l’acquisto non sia avvenuto a titolo originario).
I diritti reali minori sono inoltre suscettibili di possesso e di acquisto a titolo originario,
in quanto suscettibili a possesso ad essi è riconosciuta difesa con azioni possessorie.
I diritti reali minori formano un numero chiuso, sono solo quelli previsti dalla legge e i
privati non possono crearne di altri (tipicità dei diritti reali minori). Il favore legislativo è per
la piena proprietà ed ogni diritto reale su cosa altrui viene considerato un’eccezione alla
regola, che va confinata entro precisi limiti dalla legge. Ciò per favorire al massimo la
circolazione della ricchezza, infatti la costituzione di diritti reali parziari può essere una
problema per l’acquisto e quindi la circolazione della ricchezza. Il favore per la piena
proprietà si esplica anche nel carattere temporaneo che hanno alcuni diritti reali minori.
I diritti reali su cosa altrui, sempre in considerazione dello sfavore legislativo, sono
prescrittibili: si estinguono per non uso in 20 anni (art. 954, 970, 1014, 1073).

L’azione giudiziale in difesa dei diritti reali minori è l’azione confessoria, tale azione
mira al riconoscimento del proprio diritto su cosa altrui contro chiunque, terzo o proprietario,
ne contestati l’esistenza. Si utilizza inoltre per ottenere la cessazione di eventuali turbative o
molestie e se è necessario, la riduzione in pristino (art. 1079). L’azione confessori si
contrappone all’azione di negazione, di cui può fare uso il proprietario, contro chi vanti diritti
reali minori su un suo bene.
Quando un diritto reale su cosa altrui si estingue avviene la c.d. consolidazione, la
proprietà si espande e ritorna piena (elasticità della proprietà) . Una generale causa di
estinzione è la confusione, accade quando il proprietario della cosa e il titolare del diritto
reale minore si riuniscono nella stessa persona (es. compro il terreno che ho in usufrutto). Il
diritto minore si estingue e la proprietà riacquista la sua pienezza.
8.2 Il diritto di superficie

È il diritto di edificare e di mantenere sul suolo altrui, o nel sottosuolo, una propria
costruzione (artt. 952 comma I, 955). Il contratto che determina la costituzione del diritto di
superficie intervenuto tra proprietario del suolo e superficiario vale a sospendere il principio
di accessione, per il quale ogni opera sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario del
suolo stesso.
Il superficiario diviene proprietario della costruzione (proprietà superficiaria) e possiede
il diritto di superficie come diritto reale minore, il proprietario del fondo rimane proprietario
del fondo. Si costituisce il diritto di superficie anche quando il proprietario di una costruzione
alieni questa, ma non il fondo su cui si trova (art. 952 comma II), l’alienazione della
costruzione determina la costituzione del diritto di superficie a favore dell’acquirente.
Il diritto di superficie può essere costituito in perpetuo o a tempo determinato, nell’ultima
ipotesi al sopraggiungere della scadenza, operando il principio di accessione, il proprietario
del fondo acquista la proprietà della costruzione (art. 953).

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Il diritto di superficie può avere per oggetto anche la costruzione su edifici già esistenti,
riguardando dunque solo la porzione di superficie da occupare sopraelevando.

La prescrizione del diritto avviene dopo 20 anni, ma la prescrizione cessa di decorrere una
volta che il superficiario abbia costruito. Se la costruzione perisce il superficiario ha diritto a
ricostruire (art 954 comma III), dal momento del perimento della costruzione riprende a
decorrere il termine di prescrizione.
Non è consentito il diritto di superficie per le piantagioni: queste appartengono
necessariamente al proprietario del suolo (art. 956).
8.3 L’usufrutto, l’uso, l’abitazione

L’usufrutto si può costituire su un bene mobile, immobile o su universalità di beni.


Ha un contenuto molto vasto, comprende:
a) La facoltà di godere della cosa, ossia di utilizzarla per il proprio vantaggio con le
eventuali accessioni, ma nel rispetto della destinazione economica impressa dal
proprietario (art. 981)
b) Facoltà di fare propri i frutti, naturali e civili.
L’usufruttuario non raggiunge la pienezza delle facoltà del proprietario perché egli non ha
potere di modificare la destinazione economica della cosa, potere che rimane al
proprietario. Al proprietario, che resta nudo proprietario, rimane anche la facoltà di disporre
giuridicamente della cosa: può venderla, ma la cosa resterà gravata dall’usufrutto. 

Le spese e le imposte relative alla cosa sono ripartite tra proprietario ed usufruttuario: al
proprietario spettano le spese di straordinaria amministrazione e le imposte che gravano sulla
proprietà (artt. 1005- 1009), all’usufruttuario spettano le spese per la manutenzione ordinaria
e le imposte che incombono sul reddito (artt. 1004-1008). 

Proprio dell’usufrutto è il carattere di temporaneità, questo non può durare oltre la vita
l’usufruttuario e non è trasmissibile agli eredi. Se l’usufruttuario è una persona giuridica può
avere durata massima di 30 anni (art. 979). L’usufruttuario può alienare il suo diritto, ma il
diritto del nuovo usufruttuario sopravvive al massimo fino alla morte del precedente titolare. 

L’usufrutto può essere costituito per atto volontario (contratto o testamento), oppure può
trattarsi di usufrutto legale, imposto cioè dalla della legge (es. l’usufrutto dei genitori sui
beni dei figli minori, art. 324). Può essere acquistato anche per usucapione.

Al termine dell’usufrutto l’usufruttuario dovrà restituire la cosa al proprietario (art. 1001
comma I), nello stato in cui l’ha ricevuta, salvo deterioramenti determinati dall’uso (art. 996),
se si tratta di universalità di cose mobili l’usufruttuario dovrà reintegrare le cose perite (es. se
l’usufrutto ha ad oggetto un gregge e 3 bestie muoiono, devono essere reintegrate).
Il criterio con cui si giudica l’amministrazione e la custodia della cosa è quello del buon
padre di famiglia, ossia dell’uomo medio (art. 1001 comma II).

Oggetto di usufrutto possono essere anche cose consumabili o fungibili, ad esempio denaro
(si parla in questo caso di quasi-usufrutto). In tal caso l’usufruttuario deve restituire, non le
stesse cose, ma l’equivalente di quanto ricevuto in termini di qualità e quantità (art. 995)

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Il diritto reale di uso differisce dall’usufrutto per la limitata facoltà di godimento del titolare
di tale diritto. Infatti egli può godere dei frutti della cosa ma solo limitatamente alle esigenze
sue della sua famiglia (art. 1021), i frutti eccedenti vanno al proprietario della cosa.
Il diritto reale di abitazione è ancora più circoscritto di uso e usufrutto. Esso ha
necessariamente per oggetto una casa e consiste nel diritto di abitare la casa limitatamente ai
bisogni della famiglia del titolare del diritto (art. 1022).
Nè l’uso né l’abitazione consentono la cessione del diritto o la possibilità di dare in locazione
la cosa (art. 1024).
8.4 Enfiteusi

È fra i diritti reali minori quello di contenuto più esteso, un tempo molto diffuso oggi molto
meno (dato lo sfavore legislativo).
L’enfiteusi è un diritto perpetuo, se viene stabilito un termine non può essere inferiore a
venti anni (art. 958) e può essere trasmesso agli eredi (art. 965).

Ha per oggetto generalmente fondi rustici, ma è costituibile anche su fondi urbani. L’enfiteuta ha
le stesse facoltà di godimento del proprietario (art. 959), ma con due specifici obblighi:
• Migliorare il fondo
• corrispondere al nudo proprietario (o concedente), un canone periodico (art. 960)
La tradizionale funzione economica dell’enfiteusi è da un lato quella di consentire ai
proprietari del fondo di ricavare una rendita pur disinteressandosi del fondo (da ciò deriva
l’obbligo dell’enfiteuta di apportare miglioramenti al fondo). Dall’altro lato l’enfiteusi
permette all’enfiteuta di acquistare il fondo, grazie all’affrancazione.
L’enfiteuta gode infatti del diritto di affrancazione, ossia infatti la facoltà di acquistare il
fondo pagando al concedente, che non può opporsi, una somma pari alla capitalizzazione del
canone annuo (art.971).
Al concedente spetta il diritto di domandare al giudice la devoluzione del fondo, ossia
l’estinzione del diritto di enfiteusi quando l’enfiteuta non adempie all’obbligo di
miglioramento o non paga il canone per due anni (art. 972).
8.5 Le servitù prediali

Si definiscono come «un peso imposto sopra un fondo, per l’utilità di un altro fondo
appartenente a diverso proprietario» (art. 1027). Il peso consiste in una limitazione della
facoltà di godimento di un immobile, detto fondo servente, alla quale corrisponde un
diritto del proprietario di un altro fondo detto fondo dominante.
I due fondi non devono essere necessariamente contigui (es. servitù di acquedotto). L’utilità
del fondo può essere anche inerente alla sua destinazione industriale (art. 1028), ma è
necessario che alla servitù equivalga l’utilità di un fondo, e non l’utilità personale del
proprietario del fondo.
Le servitù vengono classificate in:
a) Servitù positive e negative. Le servitù positive consistono in una diretta utilizzazione
del fondo servente da parte del proprietario del fondo dominante, il proprietario del fondo
servente è tenuto a sopportare l’altrui attività (es.servitù di passaggio). Le

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seconde consistono in un obbligo di non fare del proprietario del fondo servente (es.
servitù di non soprelevazione).
b) Servitù continue e discontinue. Per l’esercizio delle servitù continue non è
necessaria alcuna attività umana (es. servitù di non soprelevazione), per le seconde è
invece necessario un comportamento attivo da parte del titolare della servitù (es. servitù
di attingere acqua).
c) Servitù apparenti e non apparenti. Le prime differiscono dalle seconde poiché sul
fondo servente esistono opere visibili e permanenti, destinate all’utilità del fondo
dominante (es. apparente: servitù di acquedotto; non apparente: servitù di non
edificare). 

Le servitù possono essere costituite per atto volontario (contratto o testamento), oppure
coattivamente. La costituzione coattiva si ha quando la legge riconosce al proprietario di
un fondo il diritto di ottenere una servitù dal proprietario di un altro fondo (art. 1032). Le
servitù coattive sono concesse dall’autorità giudiziaria che determina anche le indennità che
devono corrispondere i proprietari dei fondi serventi.
La legge riconosce una serie di casi di costituzione coattiva della servitù, come:
1) Acquedotto coattivo (art. 1033ss): è la servitù di far passare acque sui fondi o sul
fondo altrui (escluse case e giardini), per soddisfare i bisogni di acqua del proprio
fondo, sia i bisogni della vita del proprietario sia i bisogni del inerenti alla natura fondo
(es. fondo agricolo).
2) Passaggio coattivo (art. 1051ss): è la servitù di passaggio sul fondo altrui spettante
al proprietario del fondo intercluso, ossia in fondo che non ha accesso alla strada
pubblica, o potrebbe accedervi solo in seguito a lavori costosi. 

L’interclusione non va intesa in modo assoluto, tale tipo di servitù e costituibile anche
laddove fondi agricoli o industriali abbiano un accesso alla strada pubblica insufficiente
ai loro bisogni.n
3) Elettrodotto coattivo (ma anche acquedotto pubblico, metanodotto, ecc.) (art.
1056): è la servitù che spetta alle società di erogazione di un servizio pubblico, acqua,
metano, elettricità ecc... su tutti i fondi situati lungo il percorso delle linee elettriche,
ecc.. Il fondo dominante in questo caso è quello su cui è situata la centrale elettrica.
Nei casi previsti dalla legge (sostanzialmente solo quelli al punto 3) la servitù coattiva può
costituirsi anche per provvedimento dell’autorità amministrativa (art. 1032), tali
provvedimenti assumono il carattere analogo a quelli delle espropriazioni per pubblica utilità,
con la particolarità che permane il diritto di proprietà del titolare sul fondo, ma viene gravato
dalla servitù.

Vi sono poi le c.d. servitù reciproche, in cui proprietari di aree edificabili, costituiscono
servitù di uguale contenuto, generalmente di non edificare, limitandosi a vicenda.

Generalmente le servitù possono acquistarsi per usucapione, fanno eccezione le servitù non
apparenti (art. 1061) , le quali in assenza di strutture visibili non permettono di rendere certo
ed incontrovertibile il possesso della servitù.
Un modo di acquisto a titolo originario peculiare delle servitù è la destinazione del padre
di famiglia. Quando tra due fondi appartenenti allo stesso titolare esiste rapporto di servizio
analogo al contenuto di una servitù, tale rapporto permane anche se i due fondi cessano di
appartenere al medesimo proprietario. Tale modo di acquisto vale solo per le servitù
apparenti.

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La prescrizione delle servitù ha una durata di 20 anni. Se la servitù è positiva la


prescrizione comincia a decorrere dal momento in cui cessa l’attività di godimento del fondo
altrui (es. inuma servitù di passaggio cessa il passaggio), per le servitù negative comincia a
decorrere al verificarsi di un fatto che impedisce l’esercizio della servitù (es. se in un servitù
di non costruire il proprietario del fondo servente costruisce e l’altro non vi si oppone).

Le servitù non consistono mai in un fare o in un dare, solamente in un non fare o in un
sopportare (art. 1030), sempre l’art. 1030, però, aggiunge: «salvo che la legge o il titolo non
dispongano diversamente». Sono le c.d. prestazioni accessorie: consistono in un dare o
in un fare imposto dalla legge, o dal titolo della servitù, al proprietario del fondo servente.
Tali prestazioni hanno valore strumentale all’esercizio della servitù (es. manutenzione del
passaggio).
8.6 Gli oneri reali

Sono pesi che gravano su un immobile e che consistono in una prestazione imposta a chi sia
proprietario o titolare di un diritto reale su di un immobile (comprendono le prestazioni
accessorie alla servitù, l’obbligo di migliorare il fondo dell’entifeuta, ecc.). Sono obblighi
accessori alla titolarità di un diritto reale in quanto tale e perciò sono definiti oneri reali.
Essi ineriscono alla cosa e la seguono nella circolazione, per liberarsi dell’obbligo bisogna
spogliarsi del diritto sulla cosa.
Formano un numero chiuso, i privati non possono istituirne di altri.
Capitolo nono
LA COMUNIONE
9.1 La comunione in generale

La comunione è la situazione per la quale la proprietà, o altro diritto reale, spetta in comune a
più persone (art. 1100). Si tratta del caso in cui sulla medesima cosa esistono diritti,
appartenenti a più persone, tutti con con eguale contenuto.

Può costituirsi in tre ipotesi:
a) Comunione volontaria: dipendente dalla volontà dei partecipanti alla comunione,
quando, ad esempio, più persone comperano lo stesso bene, diventandone
comproprietarie.
b) Comunione incidentale: non dipendente dalla volontà dei partecipanti, come ad
esempio i lasciti ereditari di una medesima cosa a più persone.
c) Comunione forzosa: caso di comunione al quale non ci si può sottrarre, come ad
esempio chi voglia abitare in un condominio. 

La comunione incidentale differisce da quella forzosa per il fatto che la prima sorge senza
che i partecipanti l’abbiano voluta ma può sciogliersi per volontà di questi ultimi, la seconda
invece è totalmente sottratta dalla volontà dei partecipanti.

La coesistenza dell’uguale diritto sulla medesima cosa di più persone si realizza mediante una
divisione ideale della cosa in quote. La quota è una frazione ideale della cosa calcolata
aritmeticamente, segna la misura della partecipazione di ciascuno alla comunione: la

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proporzione secondo cui ciascun partecipante concorre nei vantaggi e negli oneri inerenti alla
cosa comune (art. 1101 comma II).
In linea di principio le quote si presumono uguali, ma per volontà delle parti o per legge
possono essere anche disuguali. La presunzione di uguaglianza tra le quota opera laddove più
persone comprano un bene versando ciascuno una somma differente, se le parti non
stabiliscono diversamente, ognuno sul bene una quota uguale.
Le facoltà di godimento e disposizione della cosa comune spettano ai partecipanti in
modo, per certi aspetti individuale, per altri collettivo.
a) Uso della cosa comune: in linea di principio spetta separatamente a ciascun
partecipante, il quale non deve alterare la destinazione economica, comportandosi in
modo tale da non impedire l’uso diparte degli altri partecipanti (art. 1102). Non sempre
tuttavia la natura del bene consente l’uso individuale della cosa comune, ad esempio se
in comproprietà ci sia una casa, per godere della cosa comune bisognerebbe darla in
locazione e ripartire gli utili o decidere che ad usarla sia un partecipante che dovrà poi
corrispondere agli altri le loro quote. 

b) Amministrazione della cosa comune: spetta collettivamente ai partecipanti che
deliberano a maggioranza di quote (art. 1105). Per le innovazioni e per gli atti di
straordinaria amministrazione occorre una doppia maggioranza del numero di
partecipanti che rappresentino almeno i due terzi del valore della cosa (art. 1108). Le
deliberazioni possono essere impugnate dai dissenzienti dinnanzi all’autorità
giudiziaria che le può annullare se pregiudizievoli per la cosa comune o per gli interessi
dei singoli partecipanti. 

c) Atti di disposizione della propria quota: ogni partecipante, senza l’altrui
consenso, può costituire diritti reali minori sulla sua quota o alienarla (art. 1103). 

d) Atti di disposizione dell’intera cosa comune: richiedono il consenso unanime
dei partecipanti (art. 1108 comma II). 

Lo stato di comunione è guardato con sfavore dal legislatore, per gli ostacoli che oppone al
mutamento di destinazione dei beni e per la loro circolazione, pregiudicando le possibilità di
maggiore sfruttamento della ricchezza. L’art. 1111 prevede che ogni partecipante può
chiedere in qualsiasi momento la divisione della cosa comune, salvo che si tratti di cosa che
se divisa cesserebbe di servire all’uso cui è destinata (es. cortile in comune). Il patto di
comunione non può durare più di dieci anni.
La divisione si attua, se possibile, in natura, ossia trasformando le quote in entità fisiche e
dividendole. Qualora sia impossibile si procede o alla sua assegnazione in solitaria ad uno dei
partecipanti che corrisponderà agli altri le loro quote, oppure si passa alla vendita del bene,
con conseguente divisione dei proventi in modo proporzionale alle quote.
9.2 Il condominio negli edifici

Riguarda gli edifici composti da una pluralità di appartamenti che appartengono a proprietari
diversi. I singoli appartamenti sono oggetto di proprietà solitaria dei rispettivi proprietari, il
suolo su cui sorge l’edificio, i muri maestri, i tetti e tutte le cose destinate all’uso comune, sono
oggetto di comproprietà fra tutti i proprietari degli appartamenti (art. 1117). Può inoltre

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riguardare le cose comuni a più edifici condominiali, ad es. un giardino comune, in questo
caso prende in nome di condominio orizzontale (contrapposto al tradizionale, verticale).
Il condominio è un caso di comproprietà forzosa, i proprietari degli appartamenti devono
tutti contribuire, in proporzione al valore della sua proprietà, alle spese occorrenti per
conservazione e godimento delle parti comuni (art. 1123 comma I). Le spese che riguardano
cose destinate a servire in modo diverso o esclusivo alcuni condomini, sono ripartite in
maniera proporzionale all’uso (es. chi è al piano terra non spende per l’ascensore).
Le deliberazioni sull’amministrazione, sono prese da una assemblea dei condomini (artt.
1135 e ss.), se i condomini sono più di otto è d’obbligo la nomina di un amministratore, se
sono più di dieci deve essere formato un regolamento per l’utilizzo delle cose comuni, la
ripartizione delle spese, ecc. Il proprietario dell’ultimo piano può sopraelevare pagando una
indennità ai condomini (art. 1127).
Le parti comune non possono essere divise, salvo che la loro divisione non arrechi danni a
nessun condomine. Nel caso di possibile divisibilità è richiesto il consenso di tutti i
condomini (art. 1119).
Il condominio può essere sciolto quando le parti di un medesimo edificio possono assumere il
carattere di edifici autonomi (ad es. abitazioni nello stesso edificio con scale ed ingressi
differenti). Lo scioglimento può anche essere parziale, e lasciare sopravvivere l’antico
condomini per le parti rimaste comuni (es. per riscaldamento comune).
Diversa dalla comunione è la multiproprietà, oggi sfruttata a scopi turistici. Un medesimo
appartamento viene venduto separatamente a più persone che ne possono godere a turno,
ciascuna in un differente periodo dell’anno. Il diritto di ciascun multiproprietario è perpetuo
ed indisponibile, la cosa ad oggetto è indivisibile e le parti comuni del complesso residenziale
sono poste in condominio.

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PARTE TERZA
LE OBBLIGAZIONI
Capitolo decimo
L’OBBLIGAZIONE
10.1 Diritto reale e diritto di obbligazione

Carattere generale della moderna società industriale rispetto l’antica società feudale è la
progressiva perdita di importanza del diritto reale a favore dei diritti di obbligazione, e in
particolare modo il contratto.
I diritti d’obbligazione (o diritti di credito), rispetto ai diritti reali presentano importanti
caratteri distintivi:
a) I diritti reali si presentano come sulle cose, i diritti si credito si presentano come diritti ad
una prestazione personale, ossia ad un dato comportamento di un soggetto. Questo
comportamento può consistere in una prestazione di dare, di fare o i di non fare. 
 Alcuni
diritti di obbligazione presentano caratteristiche affini con i diritti reali, come la locazione
che assicura il godimento della cosa data in locazione al locatario. Nel caso della
locazione però non emergono diritti sulla cosa, bensì il diritto del conduttore di esigere
che il locatore permetta il godimento o l’uso ad altri della cosa.
b) Come diritto relativo: i diritti reali sono diritto assoluti: possono essere fatti valere nei
confronti di chiunque; i diritti di obbligazione sono diritti relativi: spettano al loro titolare,
non nei confronti di tutti, ma solo verso soggetti determinati o determinabili. 

La relatività del diritto di obbligazione emerge chiaramente nella differenza che intercorre
tra una servitù negativa (diritto reale) ed una obbligazione negativa: nel primo caso il
titolare diritto di servitù potrà opporlo a tutti i proprietari di quel fondo, anche se dopo
una ipotetica vendita del fondo in questione, al contrario il titolare del diritto di
obbligazione potrà far valere questo solo nei confronti di quella specifica persona.
c) Come diritto con difesa relativa: i diritti reali godono di una difesa assoluta, tutti i
titolari di diritti reali hanno azione in giudizio contro chiunque contesti il loro diritto. I
diritti di obbligazione invece godono di una difesa relativa, il loro titolare potrà farli
valere solo nei confronti della persona obbligata, mentre non può agire nei confronti dei
terzi che contestino il suo diritto, ha bisogno in questo caso della collaborazione
dell’obbligato. 

Si manifesta con chiarezza questa distinzione con riguardo alla differenza che intercorre
tra usufruttuario e conduttore: entrambi hanno diritto alla consegna della cosa ma, nel
caso in cui la cosa sia detenuta da un terzo l’usufruttuario può far valere il proprio diritto
anche nei confronti del terzo, il conduttore deve agire tramite il locatore. 

A partire dagli anni settanta però la giurisprudenza ha esteso ai diritti di credito la tutela
aquiliana, un tempo riservata ai diritti assoluti. Il creditore, il cui diritto sia stato
pregiudicato da un terzo, ha azione nei confronti di questo per il risarcimento del danno e,
se possibile, per la reintegrazione in forma specifica. I diritti di credito sono così oggi
considerati diritti patrimoniali protetti.

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d) Come diritto non suscettibile di possesso: solo i diritti reali sono suscettibili di
possesso e di acquisto a titolo originario, i diritti di obbligazione non sono suscettibili di
possesso (ad eccezione per i titoli di credito). Tale differenza rispetto ai diritti di credito
attiene alla diversa legge di circolazione dei diritti: i diritti reali si possono acquistare
anche a titolo originario, i diritti di credito solo a titolo derivativo.
10.2 Il rapporto obbligatorio

Nella sua struttura più elementare l’obbligazione è definibile come: un vincolo che lega un
soggetto ad un altro per l’esecuzione di una data prestazione.
All’interno del rapporto si distinguono:
• Soggetto attivo: creditore, al quale spetta il diritto di esigere una data prestazione
• Soggetto passivo: debitore, il quale è tenuto ad adempiere la prestazione
• Oggetto: prestazione dovuta dal debitore al creditore. 

I soggetti coinvolti nel rapporto possono essere, da entrambi i lati, più di uno, ma devono
essere, nel momento in cui sorge il rapporto obbligatorio, determinati o determinabili. Sono
determinati quando è palese chi siano le parti del rapporto, sono determinabili quando non è
palese chi siano le parti del rapporto ma è chiaro e determinato il criterio con cui si stabilisce
chi possa essere parte del rapporto (es. se perdo il portafoglio e dico che darò 100€ a chi lo
ritrova, è chiaro che il debitore sarei io ma non è chiaro chi potrebbe essere il creditore, il
criterio è però determinato).

L’oggetto dell’obbligazione deve avere carattere patrimoniale, ossia deve essere
suscettibile di valutazione economica (art. 1174), deve consistere in un pagamento di una
somma di denaro o in diverso comportamento del debitore che sia, tuttavia traducibile in una
somma di denaro che ne rappresenta il valore economico. L’interesse del creditore, invece, può
anche non essere di carattere economico o patrimoniale (es. vado al cinema, pago il biglietto
(valore economico) ma senza trarre dalla visione del film un interesse economico).
Il carattere patrimoniale dell’oggetto dell’obbligazione è l’equivalente del al valore
economico dei beni oggetto di diritti reali. In questo si identifica una analogia tra diritti reali e
diritti di credito, i quali compongono nel loro insieme la categoria dei diritti patrimoniali,
quali diritti su una cosa o ad una prestazione, avente valore economico. Tale categoria di
diritti serve soprattutto a distinguere i diritti reali da altri diritti assoluti non patrimoniali,
come quelli della personalità, e a distinguere i diritti di obbligazione da altri diritti relativi che
però difettano del carattere della patrimonialità.

Il patrimonio dunque è l’insieme di tutti i diritti patrimoniali, reali e di credito, che
appartengono ad una medesima persona. Si distingue tra patrimonio lordo, quando si fa
riferimento alla totalità del patrimonio e patrimonio netto, che consiste nell’ammontare del
patrimonio di una persona tolti i debiti.
La prestazione dell’obbligazione può consistere in:

• Dare o consegnare: può consistere nel pagamento di una somma di denaro o nella
consegna di un bene. Una sottospecie è la prestazione di restituzione, particolare di
alcuni contratti in cui è prevista la restituzione dell’oggetto al termine del rapporto (es.
mutuo).


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La prestazione di dare o consegnare può dar vita a due diverse tipologie di


obbligazioni:
- Obbligazioni di genere: consistono nella consegna di un bene che rileva solo
nel genere (es. soldi, grano, frutta, ecc.). La scelta sul contenuto spetta al
debitore ma vale la regola secondo cui il debitore deve prestare cose di qualità
non inferiori alla media (art. 1178).
- Obbligazioni di specie: consistono nella consegna di una cosa determinata
nella sua identità. La scelta dell’oggetto spetta al creditore e il debitore si
libera consegnando quel determinato bene. Per le prestazioni di specie vale il
principio per cui l’obbligazione che ha per oggetto un cosa determinata
include una prestazione di fare, quella di custodirla fino alla consegna (art.
1177). 
 Il debitore non può liberarsi eseguendo una prestazione differente,
anche se di maggior valore, se il creditore non acconsente, l’estinzione
dell’obbligazione però non accade quando il creditore acconsente al cambio
della prestazione ma al momento della consegna (es. ti devo un braccialetto da
100€ ma voglio darti il mio orologio che ne vale 150 e tu acconsenti, ma nel
togliermi l’orologio questo cade e si rompe. Tu puoi rifiutare e richiedere
l’esecuzione della prestazione: il consenso non determina l’estinzione
dell’obbligazione principale)
• Fare: consiste nel svolgere un’attività, può determinare due tipologie di obbligazione:
- Obbligazione di mezzi: quando il debitore svolge una determinata attività,
senza però garantire al creditore il risultato (es. medico si impegna a curare il
paziente ma senza garantire che questo guarisca)
- Obbligazione di risultato: quando il debitore si impegna a garantire al
creditore un determinato risultato (es. tassista si impegna a portare i clienti a
destinazione)
Esiste una diversa distribuzione dei rischi nelle due ipotesi, nelle obbligazioni di
mezzi questi si riversano tutti sul creditore, nelle obbligazioni di risultato si riversano
sul lato del debitore. 

• Non fare: il debitore si obbliga a non assumere una determinata condotta nei
confronti del creditore. 

• Contrattare: impone l’obbligo al debitore di concludere un contratto. 


Generalmente il debitore, oltre ad adempiere ad una prestazione principale, può essere


obbligato all’adempimento di obbligazioni accessorie. La prestazione principale è quella
che caratterizza il rapporto obbligatorio, le prestazioni accessorie sono quelle che non
caratterizzano il rapporto obbligatorio e che sussistono anche se le parti contraenti non sanno
ci siano. Per esempio in un contratto di compravendita è obbligazione principale quella che
impone la vendita del bene e la corresponsione del prezzo, è obbligazione accessoria quella
che, ex. art. 1177, impone al venditore di custodire la cosa.

Una generale obbligazione accessoria che coinvolge sia il debitore che il creditore, è quella di
comportarsi l’una verso l’altro secondo le regole della correttezza (art. 1175), nel senso
cioè che l’uno deve cooperare per il soddisfacimento dell’interesse dell’altro. Applicazione
specifica è il dovere di informazione, per cui è necessario informare la controparte di tutti gli
eventuali rischi in cui potrebbe intercorrere.

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10.3 Obbligazioni con pluralità di soggetti o di oggetti

In una obbligazione possono essere più debitori di un medesimo creditore o più creditori di
un medesimo debitore, quando un’obbligazione presenta più soggetti dal lato del creditore o
del debitore, questa può configurarsi come obbligazione solidale o parziaria.

L’obbligazione è solidale quando le parti possono essere convenute per l’intero (solidale
da solidum, l’intero). Ci può essere solidarietà sia dal lato attivo che da quello passivo:
- È SOLIDARIETÀ ATTIVA quando più creditori di un medesimo debitore possono
rivolgersi a questo ed esigere l’adempimento dell’obbligazione per l’intero, con la
conseguenza che l‘adempimento libera il debitore nei confronti degli altri concreditori.
- È SOLIDARIETÀ PASSIVA quando ciascuno dei debitori del medesimo creditore può
essere costretto da questo ad adempiere all’intera prestazione, determinando la
liberazione dagli obblighi, degli altri condebitori (art. 1292).
Nei rapporti interni tra concreditori e condebitori l’obbligazione si divide: il creditore che
ha riscosso l’intero dovrà dare agli altri concreditori la parte che gli spetta e il debitore che ha
adempiuto alla prestazione per l’intero avrà azione di regresso verso gli altri per ottenere
da questi il rimborso della parte da ciascuno dovuta. Le parti di ciascuno si presumono uguali
(art. 1298). Se uno dei debitori è insolvente, la perdita si ripartisce fra tutti gli altri, che quindi
pagheranno di più (art. 1299). In definitiva ciascun condebitore adempiendo libera gli altri,
ciascun concreditore ricevendo l’adempimento libera il debitore rispetto gli altri creditori.
L’obbligazione è parziaria quando le parti possono essere convenute solo pro quota. È
PARZIARIETÀ ATTIVA quando ciascuno dei concreditori di un medesimo debitore può
esigere da questo solo la sua parte di prestazione, è PARZIARIETÀ PASSIVA quando
ciascuno dei debitori di un medesimo creditore può essere costretto a pagare solo la sua parte
e il creditore per ottenere l’intero dovrà agire nei confronti di tutti i condebitori (art. 1414).
Nei rapporti con più debitori la solidarietà è la regola mentre la parziarietà è l’eccezione,
salvo che le parti o la legge non l’abbiano espressamente prevista (art. 1294). Il contrario
accade invece quando più sono i creditori, in questo caso infatti di norma l’obbligazione è
parziaria e la solidarietà deve essere prevista. Tali disposizioni seguono il principio del
favore per il creditore, esonerando questo dall’insolvenza dei debitori.
Quando l’obbligazione ha per oggetto un dare / fare indivisibile questa sarà sempre solidale e ad
essa si applicheranno le norme sulle obbligazioni solidali se compatibili (art. 1316-1317).
L’obbligazione può avere per oggetto due prestazioni tra loro alternative, il debitore si libera
eseguendo l’una o l’altra (art. 1285) e la facoltà di scelta spetta, generalmente al debitore, salvo
che le parti non dispongano diversamente (art. 1286). Se prima della scelta una delle prestazioni
diventa impossibile, l’obbligazione si concentra sull’altra, se l’obbligazione diventa impossibile
dopo la scelta questa si estingue e il debitore è liberato da ogni obbligo.

10.4 Le fonti delle obbligazioni

Sono fonti, tutti gli atti o fatti che danno origine ad una obbligazione. All’art. 1173 sono
menzionate tre categorie di fonti delle obbligazioni, sono: il contratto, il fatto illecito e «ogni
atto o fatto idoneo a produrle, in conformità dell’ordinamento giuridico». Le fonti delle
obbligazioni sono quindi tipiche.

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Il contratto è un accordo tra due o più parti e si qualifica tra le fonti come fonte
volontaria, nel senso che le obbligazioni per contratto nascono con il necessario concorso
della volontà delle parti. Si coglie quindi la duplice funzione del contratto: da un lato come
mezzo di trasferimento di diritti reali, infatti nel nostro ordinamento i diritti reali si
trasferiscono per effetto del consenso (art.1376), il trasferimento della proprietà non è oggetto
di una obbligazione del vendite ma è direttamente e automaticamente prodotto dal contratto;
dall’altro lato come fonte di obbligazioni.

Il fatto illecito è fonte di obbligazione in quanto ogni atto o fatto che cagiona ad altri un
danno ingiusto è fonte dell’obbligazione di risarcire il danno (art. 2043), è dunque una fonte
non volontaria, l’obbligazione è conseguenza dell’illecito.

La terza categoria, generica, è composta sia da fonti volontarie, come la promessa in
pubblico, sia fonti non volontarie, non qualificabili come fatto illecito.

Capitolo undicesimo

L’ADEMPIMENTO E L’INADEMPIMENTO
11.1 L’adempimento delle obbligazioni

L’adempimento è l’esatta esecuzione, da parte del debitore, della prestazione che forma
oggetto dell’obbligazione, ad esso consegue l’estinzione dell’obbligazione e la liberazione
del debitore. L’esattezza dell’esecuzione deve essere valutata considerando: le modalità
dell’esecuzione, il tempo dell’esecuzione, il luogo dell’esecuzione, la persona che esegue la
prestazione, la persona destinataria alla prestazione e l’identità della prestazione.

A) Modalità di esecuzione della prestazione
Per ciò che riguarda le modalità di esecuzione della prestazione, il codice civile indica
uno specifico principio di valutazione, secondo cui il debitore, nell’adempiere, deve usare «la
diligenza del buon padre di famiglia» (art.1176 comma I), ossia la cura e l’attenzione
dell’uomo medio che assolve ai suoi impegni. Diverso è il metro di giudizio per prestazioni che
riguardano l’esercizio di un’attività professionale (es. medico, architetto), la diligenza va valutata
con riguardo alla natura dell’attività esercitata (art.1176 comma II) e sarà quella del
professionista medio, se tuttavia la prestazione richiede la risoluzione di problemi di particolare
difficoltà, la responsabilità professionale per danni è valutata con minor rigore.
Sebbene il criterio di diligenza sia formulato dal codice in termini generali, questo è idoneo a
qualificare solo le obbligazioni di fare, ed in particolare nelle obbligazioni di mezzi. Per
obbligazioni di dare, di risultato o di non fare la diligenza non è criterio per valutare la
prestazione del debitore.
La prestazione deve essere eseguita per intero e il creditore può rifiutare un adempimento
parziale anche quando la prestazione è divisibile, ad esempio se l’oggetto fosse la restituzione
di una somma di denaro, il creditore può considerare l’adempimento parziale come acconto o
considerare il debitore inadempiente per l’intero.

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B) Tempo di esecuzione della prestazione


Con riguardo al tempo dell’esecuzione della prestazione, questa deve essere eseguita
a richiesta del creditore, o se fissato un termine, alla scadenza di questo. Nel primo caso, il
creditore può chiedere l’adempimento in qualsiasi momento, finché il suo credito non sia
estinto per prescrizione. Quando invece, per la natura dell’obbligazione o per gli usi, è
necessario porre una scadenza, questa, in mancanza di accordo tra le parti, è decisa dal
giudice (art. 1183). Nel secondo caso, il termine fissato si presume a favore del debitore,
salvo che non risulti fissato a favore del creditore o di entrambi (art. 1184). Il creditore può
quindi esigere l’adempimento anticipato solo quando il termine sia fissato a suo favore (art.
1185). Il termine è posto o a data fissa (giorno, mese e anno) o a certo tempo ( a tot giorni, a
tot mesi, ecc...), in questo secondo caso non viene conteggiato conta il giorno iniziale e il
tempo scade nell’ultimo istante dell’ultimo giorno utile.
C) Luogo di esecuzione della prestazione
Riguardo il luogo di esecuzione della prestazione questo deve essere stabilito dalle
parti, se esse non hanno stabilito il luogo, valgono le regole definite dall’art. 1182:
• L’obbligazione di consegnare una COSA DETERMINATA va adempiuta nel luogo in
cui la cosa si trovava al sorgere dell’obbligazione.
• L’obbligazione di pagare una somma di DENARO va adempiuta al domicilio del
creditore al tempo dell’adempimento.
• OGNI ALTRA obbligazione va adempiuta al domicilio del debitore al tempo
dell’adempimento.
D) Persona che esegue la prestazione
Riguardo la persona che esegue la prestazione, tenuto ad adempiere è di regola il debitore,
ma la prestazione può essere di natura tale per cui risulti indifferente che ad adempiere sia il
debitore o un terzo (es. consegna di somme di denaro o cose fungibili). In questi casi il creditore
non ha alcun interesse affinché l’adempiente sia proprio il debitore, e la prestazione eseguita da
terzi libera il debitore anche se eseguita contro la volontà della creditore (art.
1180 comma I). Il debitore può rifiutare la prestazione di terzi solo in due casi:
• Quando ha interesse a che ad adempiere sia il debitore in persona (nei casi di consegna
di cose infungibili o prestazioni di fare, es. appalto)
• Quando il debitore abbia manifestato la sua opposizione all’adempimento da parte di
terzi. In questo caso il creditore ha la facoltà di rifiutare l’altrui adempimento (art. 1180
comma II). Il creditore che riceve l’adempimento da un terzo può surrogare a questo i
suoi diritti di credito nei confronti del debitore (art. 1201).
L’adempimento è un atto dovuto dal debitore, non un atto di libera disposizione del suo
patrimonio, quindi non importa se al momento del adempimento il debitore sia incapace di
intendere e di volere.

E) Destinatario dell’adempimento
Per ciò che riguarda il destinatario del adempimento è necessario che questo sia capace
di intendere e di volere: chi paga al creditore incapace e non ai suoi rappresentanti si ritiene
liberato solo se prova che il pagamento è stato rivolto a vantaggio dell’incapace (art.1190).
L’adempimento deve essere eseguito nelle mani del debitore, o di un suo legale
rappresentante, o nelle mani di chiunque sia autorizzato a riceverlo (es. commesso nel
negozio) (art. 1188). Se accade che il creditore paghi nelle mani di una persona, solo
apparentemente legittimata, questi è considerato libero se e solo se ricorrono due condizioni

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(art. 1189): che l’apparenza sia creata da circostanze univoche, ossia da elementi
oggettivi, e che il debitore nel pagare fosse in buona fede.
F) Identità della prestazione
È poi essenziale l’identità della prestazione, il debitore infatti è liberato solo se esegue la
prestazione dovuta, non è liberato se esegue una diversa prestazione anche se di valore uguale
o maggiore. Il creditore può però consentire un’adempimento diverso da quello dovuto, è il
caso della datio in solutum o prestazione in luogo dell’adempimento (art. 1197). In
questo caso il consenso del creditore non provoca l’estinzione dell’obbligazione, il debitore è
liberato solo quando la diversa prestazione viene eseguita, o se in luogo della prestazione è
stato ceduto un credito, quando questo credito è riscosso (art. 1198).
L’adempiente ha diritto alla quietanza: una dichiarazione (di scienza) che attesta l’avvenuto
pagamento (art. 1199). Chi ha più debiti nei confronti dello stesso creditore può dichiarare,
quando paga, quale debito intende estinguere, altrimenti il creditore nel rilasciare quietanza
dichiarerà quale debito ritiene saldato. Se nulla viene dichiarato da entrambi valgono i criteri
legali per cui si considerano estinti prima i debiti già scaduti, poi quelli meno garantiti ed
infine quelli di più vecchia data. Il debitore, salvo diversa disposizione del creditore, deve
imputare il suo pagamento prima agli interessi e poi al capitale (altrimenti il capitale
cesserebbe di produrre interessi).
11.2 Le obbligazioni pecuniarie

Il denaro, anche chiamato moneta o valuta, è un bene mobile idoneo ad acquistare altri beni o
per procurarsi le altrui prestazioni, funge quindi da bene di scambio. 

Sono obbligazioni pecuniarie o debiti di valuta quelle che hanno per oggetto la consegna di
una somma di denaro. Si adempiono con la moneta avente corso legale nello stato al
momento del pagamento(art. 1277), se dal momento in cui il debito è sorto e il pagamento la
moneta legale è cambiata, il pagamento avverrà nella nuova moneta ragguagliata al valore
della prima. Se nell’obbligazione è stata dedotta una moneta estera il debitore potrà pagare
l’ammontare del suo debito sia nella moneta estera sia in moneta nazionale (art.1278).
Per ciò che riguarda il valore della moneta vale il “principio nominalistico” secondo cui la
moneta è presa in considerazione per il suo valore nominale, non con riguardo al suo potere
d’acquisto. Esistono clausole contrattuali grazie alle quali il creditore può prevenire la
svalutazione della moneta: clausola Istat, per cui la restituzione del denaro deve tener conto degli
indici di inflazione stilati dall’Istat; la clausola oro, per cui si fa riferimento ad una data quantità
di oro che si poteva comperare in passato con una determinata somma di denaro, ecc.
L’adempimento di obbligazione pecuniaria si ritiene esatto solo se eseguito con moneta, il
creditore può rifiutare il pagamento in assegno (si avrebbe prestazione in luogo
dell’adempimento), ma non può rifiutare se il suo atto è considerato contrario alla buona fede.
Ai debiti di valuta si contrappongono i debiti di valore: sono obbligazioni in cui la somma
di denaro è dovuta non come bene a sé ma come valore di un altro bene. Sono debiti di
valore, per esempio, quelli sorti da fatto illecito, in questo caso il debitore adempie pagando
una somma di denaro corrispondente al valore del danno cagionato. Il valore in questo caso
viene tradotto dal giudice in una somma di denaro e in quel momento diviene debito di valuta
ed è retto dai medesimi principi di questo. La differenza riguarda solamente il periodo
precedente la liquidazione.

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Il denaro è un bene produttivo di frutti civili, gli interessi. L’obbligazione di pagare una
somma di denaro che sia liquida ed esigibile, cioè non sottoposta a termine non ancora
scaduto, è accompagnata, salvo diversa disposizione delle parti, da un’obbligazione
accessoria di corrispondere gli interessi. Gli interessi vanno corrisposti secondo il tasso legale
o secondo il tasso più elevato che le parti abbiano convenuto (art. 1284). Sono i c.d. interessi
compensativi che si distinguono dagli interessi moratori: i primi vertono su debiti di denaro
non sottoposti a termine o su con termine scaduto, ma dei quali il creditore non ha fatto la
costituzione in mora del debitore, i secondi sono gli interessi dovuti dal debitore in mora. Il
tasso legale di interesse è fissato annualmente dal ministro del tesoro. I tassi di interesse
superiori a quello legale devono essere pattuiti per atto scritto, altrimenti sono dovuti nella
misura legale.
Non sono di regola dovuti gli interessi composti, ossia gli interessi sugli interessi scaduti,
l’art. 1283 prevede che gli interessi composti siano dovuti dal momento della domanda
giudiziale con la quale si chiedono gli interessi già scaduti o per effetto di convenzione
posteriore alla loro scadenza, sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi.
11.3 L’inadempimento delle obbligazioni

Art. 1218:” Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al
risarcimento del danno, se non prova che l' inadempimento o il ritardo è stato determinato da
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.”
Il debitore è inadempiente, se non esegue la prestazione dovuta o se non la
esegue esattamente, ossia nei modi, nei tempi, nel luogo, ecc.
Secondo i principi del codice civile l’inadempimento è un fatto oggettivo: il fatto,
oggettivamente considerato, della mancata o della inesatta esecuzione della prestazione. Al
prodursi del fatto oggettivo dell’inadempimento consegue la responsabilità del debitore:
degli deve risarcire il danno che il suo inadempimento ha cagionato al creditore. Concorre
con questo principio quello per il quale il debitore è ammesso a provare che la mancata
esecuzione della prestazione è stata dovuta ad una impossibilità della prestazione dovuta a
causa a lui non imputabile. Quindi il debitore che non adempia o non adempia
esattamente alla prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno cagionato, a meno che
non provi che l’inadempimento (o l’inesatto adempimento) è stato determinato da
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Il favore per il creditore è evidente, infatti egli può ottenere il risarcimento solo in base
all’oggettivo inadempimento del debitore, il debitore inadempiente, invece, per liberarsi dal
vincolo deve presentare una duplice prova:
1. Deve provare che la prestazione è diventata oggettivamente impossibile: la
prestazione deve essere ineseguibile da ogni debitore, non solo da quel dato debitore.
2. Deve provare che la prestazione oggettivamente impossibile è diventata tale per una
causa a lui non imputabile, indicandola specificamente. Per “causa a lui non
imputabile” si intende ogni evento che non fosse prevedibile ed evitabile da parte del
debitore o da parte dei suoi ausiliari (art. 1228). L’evento imprevedibile ed inevitabile
che libera il creditore è generalmente una situazione di: caso fortuito, una fatalità (es.
un terremoto o una inondazione) o forza maggiore, una forza alla quale non si può
resistere, può essere naturale (es. vento per una consegna marittima) o generata da terzo
(es. incidente stradale per consegna su strada) o un ordine della pubblica autorità. 


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Per comprendere la portata e l’applicazione di tali principi è necessario considerare le diverse


tipologie di prestazioni [10.2] :
• Per le PRESTAZIONI DI DARE UNA COSA GENERICA (denaro o altre cose di
genere), il debitore sarà sempre responsabile per il mancato adempimento, in
quanto non sarà mai oggettivamente impossibile la restituzione di una cosa di genere
(es. in mancanza di denaro lo si può prendere in prestito), il debitore potrà essere
solamente soggettivamente impossibilitato (es. debitore senza soldi). In questi casi
non si pone il problema della causa imputabile in quanto l’imputabilità della causa
rileva solo in relazione ad una oggettiva impossibilità. 

• Per le PRESTAZIONI DI DARE UNA COSA DI SPECIE, l’impossibilità oggettiva è
un caso possibile possibile (vale lo stesso regime per le obbligazioni di dare una cosa
appartenente ad un genere limitato es. un libro di cui esistono poche copie). In questi
casi il debitore per liberarsi deve dare la prova che la prestazione è diventata
oggettivamente impossibile per causa a lui non imputabile: deve innanzi tutto
identificare la causa (restano a suo carico le cause ignote) e deve dimostrare che
questa era imprevedibile ed inevitabile per lui o per chi per lui esegue l’obbligazione. 

• Per le PRESTAZIONI DI FARE CONSISTENTI IN PRESTAZIONI DI MEZZI, il
metro per valutare se il debitore è adempiente o meno è espresso dall’art. 1176.
Accertato che l’impossibilità sia oggettiva, il fondamento della responsabilità può
essere la colpa, intesa come mancanza di diligenza, prudenza o perizia, e l’onere di
provare l’inadempimento spetta qui al creditore. Per l’inadempimento di prestazioni
professionali (es. medico) la diligenza è da valutarsi con riguardo alla natura
dell’attività e l’onere della prova ricade sul soggetto cui è più prossima (es. nel caso in
cui ad un medico viene contestata un’operazione chirurgica spetta a lui dimostrare che
la aveva eseguita bene)

• Per le PRESTAZIONI DI FARE CONSISTENTI IN PRESTAZIONI DI
RISULTATO, l’impossibilità può essere soggettiva ma anche oggettiva (es.
appaltatore può non adempiere perché senza mezzi finanziari o perché frana il terreno
sotto), il codice affronta le diverse fattispecie in relazione ai singoli contratti, talvolta
confermando la regole dell’art. 1218, altre volte fornendo altre regole. 

• Nelle PRESTAZIONI DI NON FARE, il problema dell’impossibilità di adempiere
non si pone in quanto ogni fatto compiuto in violazione dell’obbligazione è da
considerarsi come atto volontario del debitore, del quale questi è sempre responsabile. 

Il debitore è in dolo quando è volontariamente inadempiente, è invece in colpa se la
prestazione è diventata impossibile per causa a lui imputabile per negligenza, imprudenza o
imperizia, si parla invece di responsabilità senza colpa o responsabilità oggettiva quando
il debitore risponde dell’inadempimento derivante da impossibilità soggettiva o oggettiva
derivante da cause ignote (risponde sempre tranne per caso fortuito o forza maggiore).

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Esiste dunque una ripartizione, fra debitore e creditore, dei rischi per l’inadempimento, ma
è il creditore ad essere privilegiato secondo il principio del favore verso il creditore. Il
creditore corre solo il rischio di una oggettiva impossibilità dell’inadempimento determinato
da cause non imputabili al debitore (che sono di difficile prova), il debitore invece corre il
rischio di inadempimento dovuto da una impossibilità soggettiva o oggettiva che non riesce a
dimostrare in giudizio essere derivante da cause a lui non imputabili.
Ciò significa che il sistema giuridico impone al debitore di adoperarsi il più possibile per non
incorrere nell’inadempimento, questo perché quante più sono le obbligazioni adempiute tanto
maggiore sarà il beneficio che ne ricaverà l’intero sistema economico e di conseguenza
maggiore sarà la ricchezza prodotta.
La ripartizione dei rischi attuata dal codice civile, può entro certi limiti essere modificata
dalle parti, è comunque nullo il patto che preventivamente esonera il debitore da
responsabilità per dolo e colpa grave (art. 1229).
11.4 Mora del debitore e mora del creditore

La mora del debitore è il ritardo di questo nell’adempiere la prestazione dovuta, ritardo che
sarebbe già inadempimento (dovendo essere la prestazione esattamente adempiuta), ma
concretamente può tradursi in un definitivo inadempimento del debitore o, qualora la natura
dell’obbligazione lo consenta, in un adempimento tardivo. È da precisare il fatto che la mora
non è il ritardo colposo, ma il semplice ritardo.
Perché il debitore sia in mora non basta la scadenza di un termine ma occorre un atto formale
che è la costituzione in mora, ossia la richiesta o intimazione scritta di adempiere, da
parte del creditore al debitore (art. 1219 comma I). Ciò perché c’è una presunzione di
tolleranza del creditore nei confronti del debitore, perciò il debitore è inadempiente solo
quando gli viene rivolta la formale richiesta di adempimento (la presunzione di tolleranza si
considera come “dovere di correttezza” ex art. 1775) .
La costituzione in mora è però superflua, perché il debitore sia in mora, in diversi casi:
• Quando abbia dichiarato per iscritto di non voler adempiere
• Nel caso di di prestazione con termine scaduto da eseguirsi al domicilio del creditore
• Quando si tratta di obbligazione da fatto illecito (art.1219)
• Quando si tratta di obbligazioni di non fare (art. 1222)
La mora del debitore produce due effetti:
• Aggravamento del rischio del debitore: qualora, dopo la costituzione in mora, la
prestazione diventasse impossibile, anche per fatto non imputabile al debitore, questi è
ugualmente responsabile, a meno che non dimostri che l’oggetto della prestazione sarebbe
perito anche nelle mani del creditore (art. 1221) (perpetuatio obligationis). 

• L’obbligazione di risarcire i danni che il creditore provi di aver subito a causa
dell’inadempimento o del ritardo nell’adempimento. Questa è la “responsabilità
contrattuale”. L’art.1218 disciplina l’inadempimento da obbligazione nascente sia da
contratto che da altra fonte, l’espressione responsabilità contrattuale si utilizza quindi per
tutte le obbligazioni (non solo da contratto) tranne per quelle derivanti da fatto illecito. Il
danno subito è formato da due componenti (art. 1223): danno emergente, ossia la
perdita subita dal creditore, e il lucro cessante, ossia il mancato guadagno. 


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Fra inadempimento e danno deve sussistere uno specifico rapporto di causalità: è


risarcibile cioè solo il danno che sia conseguenza diretta e immediata (art. 1223) e che sia
prevedibile dal debitore come conseguenza del proprio inadempimento (art. 1225). Il danno
non prevedibile, sempre che sia conseguenza diretta ed immediata dell’inadempimento, è
risarcibile solo in caso di dolo del debitore, ossia di inadempimento consapevolmente
perseguito per danneggiare il creditore (art. 1225). Il creditore che con l’ordinaria diligenza
avrebbe potuto evitare il danno, esonera il debitore dalla responsabilità, o quanto meno riduce
l’ammontare del risarcimento (art. 1227).
Nel caso di prestazioni con oggetto la consegna di somme di denaro (che non sono mai
impossibili), il debitore, dopo la costituzione in mora, è tenuto anche al pagamento degli
interessi moratori secondo il tasso legale, anche se le parti non avevano convenuto il
pagamento di interessi compensativi (se invece erano previsti interessi compensativi ad un
tasso maggiore di quello legale, gli interessi moratori saranno corrisposti allo stesso tasso di
quelli compensativi). Gli interessi moratori valgono come risarcimento per il ritardo e sono
sempre previsti, a prescindere che il debitore in mora sia responsabile o no. Il creditore può
però provare di aver subito un danno maggiore rispetto a quello risarcitogli dagli interessi
moratori (spesso causa inflazione) , in questi casi il giudice può ordinare un risarcimento del
maggior danno. In questo modo il creditore risulta effettivamente risarcito e il debitore
scoraggiato a pagare il più tardi possibile.
Il ritardo nell’adempimento può essere causato anche dalla condotta del creditore. La mora
del creditore consiste nell’ingiustificato rifiuto del creditore di ricevere la prestazione
offertagli dal debitore o comunque una condotta del creditore che impossibilita la controparte
ad adempiere (art. 1206).
Il debitore ha l’obbligo di eseguire la prestazione dovuta e il creditore ha il diritto di esigere
la prestazione, tuttavia il rifiuto del creditore può danneggiare il debitore esponendolo al
rischio che la prestazione diventi impossibile o obbligandolo a sostenere ad ulteriori spese,
magari di custodia della cosa e privandolo del diritto alla controprestazione. L’art. 1206
stabilisce che il creditore deve fare il possibile affinché il debitore possa adempiere, più che
un dovere è un onere in quanto il creditore che non coopera si espone alle conseguenze della
mora.
La costituzione in mora del creditore la effettua il debitore con l’offerta della prestazione al
creditore (art. 1209) che è: offerta reale per le cose mobili da consegnare al domicilio del
creditore; offerta per intimazione per gli immobili e i mobili da consegnare in luogo diverso.
L’art 1207 stabilisce che la costituzione in mora del creditore può produrre tre effetti:
• L’impossibilità sopravvenuta della prestazione, anche per cause a lui non imputabili, è
a carico del creditore e il debitore infatti può esigere la controprestazione.
• Non sono più dovuti dal debitore interessi sulle somme di denaro.
• Il creditore è tenuto al risarcimento dei danni subiti dal debitore.
Il debitore, se perdura il rifiuto, può liberarsi versando la somma di denaro in oggetto in
una banca o le cose mobili nel luogo indicatogli dal giudice, o la consegna dell’immobile al
sequestratario nominato dal giudice (art. 1210). Gli effetti dell’offerta e del deposito si
produrranno solo quando la sentenza del giudice passerà in giudicato, dopo aver accertato
che il rifiuto del creditore era effettivamente ingiustificato (art. 1210 comma II). 


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11.5 Estinzione dell’obbligazione per cause diverse dall’adempimento

L’adempimento è solo uno dei modi di estinzione dell’obbligazione, l’obbligazione si


estingue anche per impossibilità sopravvenuta all’adempimento per cause non
imputabili al debitore. L’impossibilità può essere anche solo temporanea (art. 1256), in tale
caso l’obbligazione si estingue solo se il tempo dell’adempimento doveva considerarsi
essenziale (es. servizio catering per una cena). Se la impossibilità sopravvenuta è solamente
parziale il debitore si libera eseguendo la prestazione rimasta eseguibile (es. nave in cui parte
delle merci cadono in mare).
La novazione è l’estinzione dell’obbligazione per volontà delle parti, mediante la
costituzione di una nuova obbligazione diversa per oggetto o per titolo (art. 1230). L’oggetto
può mutare ad esempio da una somma di denaro alla consegna di un immobile, la novazione
si distingue però dalla prestazione in luogo dell’adempimento in quanto nella prima il mero
consenso è idoneo a mutare l’obbligazione, nella seconda serve la consegna del bene.
L’obbligazione può essere novata anche per il titolo, come ad esempio una somma di denaro
dovuta a titolo di vendita, viene novata in una somma da consegnare a mutuo, logica
conseguenza è che quel rapporto sarà regolato dalla disciplina prevista per il mutuo, non più
da quella prevista per la compravendita. Non c’è novazione se vengono cambiati i tempi
dell’adempimento (art. 1231). L’obbligazione originaria è la ragione che giustifica la
costituzione della nuova obbligazione, per cui se la prima è dichiarata senza effetto anche la
seconda sarà giudicata tale.
La remissione è la rinuncia volontaria del creditore al proprio diritto, può risultare da una
dichiarazione espressa (art. 1236) o dalla volontaria restituzione al debitore del documento
dal quale risulta il credito (art. 1237). Estingue il debito sempre che il debitore entro congruo
termine non vi si opponga (art. 1236), questo in base al principio che nessuno può essere
costretto a ricevere un favore da altri.
Si ha estinzione per confusione quando le qualità di debitore e creditore si riuniscono nella
medesima persona, questo perché non si può essere creditori di se stessi. Non c’è estinzione
in caso di fideiussione, se chi ha garantito il debito altrui diventa lui stesso soggetto passivo
del rapporto fideiussorio, questo non viene meno.
Si può infine verificare l’estinzione dell’obbligo per compensazione, quando due persone
sono reciprocamente obbligate, in modo che la prima sia debitrice della seconda e la seconda
sia debitrice della prima. La compensazione è totale quando i due debite sono uguali, parziale
quando sopravvive solo il maggiore. La compensazione può essere:
a) LEGALE, operante per il solo fatto che esistono i presupposti di legge. Si applica fra
debiti omogenei, che abbiano per oggetto entrambi somme di denaro o quantità di cose
fungibili dello stesso genere, liquide, cioè determinabili nel loro ammontare, ed
esigibili, cioè con un termine scaduto (art. 1243 comma II). Deve essere eccepita dal
debitore ed opera dal momento in cui i due debiti coesistono, ha effetti retroattivi. 

b) GIUDIZIALE, decisa dal giudice. Si attua quando i due debiti siano omogenei ed
esigibili ma uno dei due non è liquido. Il giudice se lo considera “di facile e pronta
liquidazione”, può dichiarare la compensazione per quella parte di debito(art. 1243
comma II). Opera dal momento in cui la sentenza viene dichiarata (art. 1242) 


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c) VOLONTARIA, decisa dalle parti ove manchino i presupposti per la compensazione


giudiziale e legale (art. 1252).
La compensazione non opera se il debitore vi abbia previamente rinunciato o nei casi di
credito impignorabile o di altro credito per cui la legge esclude la compensazione (art. 1246).

Sul meccanismo della compensazione legale si basa il contratto di conto corrente. È
stipulato da soggetti tra i quali intercorrono rapporti di affari che col tempo determinano una
pluralità di crediti reciproci. L’obbligo è quello di mettere in conto i rispettivi crediti, tra le
reciproche rimesse nel conto si attua la compensazione e alla scadenza del termine previsto
delle parti quello dei due che risulterà creditore dell’altro potrà esigere da questi il saldo,
salvo che non ne faccia rimessa in conto per un nuovo periodo (art. 1823).

Capitolo dodicesimo
IL CONTRATTO
12.1 Il contratto e l’autonomia contrattuale
Il contratto è un atto giuridico idoneo a svolgere due funzioni, è sia modo di acquisto di diritti
reali (art. 922) sia fonte di obbligazioni (art. 1173). L’art.1321 definisce il contratto:
l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere fra loro un rapporto giuridico
patrimoniale (definizione che non contempla il trasferimento di diritti reali). Di particolare
rilevanza è la patrimonialità del rapporto giuridico che il contratto costituisce, regola o
estingue: deve cioè avere per oggetto cose o prestazioni suscettibili di valutazione economica
(requisito sia dei beni, sia delle prestazioni oggetto di obbligazione).
La regolazione del contratto si attua nel codice civile in due serie di norme, una prima
riguarda il contratto in generale (artt. 1321-1469), la seconda serie regola invece i singoli
contratti, ossia quella serie di contratti che nel codice civile trovano una disciplina specifica.
Questa seconda serie di norme è contenuta in gran parte nel quarto libro del codice, di seguito
alla disciplina generale del contratto (artt. 1470-1986), ma vari contratti sono regolati anche
nel quinto e nel secondo libro. Fra le due serie di norme vige uno specifico rapporto, che vede
la disciplina generale propria di tutti i contratti (art. 1323)e le norme particolari valevoli solo
per gli specifici contratti cui si riferiscono, non è comunque raro che queste deroghino alle
norme generali.
Ciò che per l’art. 1321, costituisce, regola o estingue un rapporto patrimoniale è l’accordo
tra le parti, bisogna distinguere l’accordo e la volontà: la volontà è ciò che le parti
intendono, l’accordo è ciò che le parti dichiarano. Un rapporto patrimoniale può costituirsi,
regolarsi ed estinguersi per cause diverse dal contratto, ma questo assume importante rilievo
proprio per il ruolo assunto dalla volontà delle parti: l’effetto costituivo, regolatore o estintivo
del rapporto è qui prodotto dalla volontà delle parti interessate.
L’importanza e la preminenza del contratto, fra i modi di acquisto della proprietà e di altri
diritti come fra le fonti delle obbligazioni, deriva dall’ampio riconoscimento legislativo della
c.d. “signoria della volontà”, ossia al fatto che la legge riconosce ai privati un ampio potere
di provvedere, con autonomo atto di volontà, alla costituzione, regolazione ed estinzione dei
rapporti patrimoniali. Il contratto occupa ancora oggi una posizione centrale all’interno del
sistema del diritto privato, benché, rispetto al passato, siano stati posti limiti maggiori alla
signoria della volontà.

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Per definire la preminenza della volontà dei privati si parla di libertà o autonomia
contrattuale, (autonomia significa darsi da sé la propria legge). Tale autonomia del privato
si manifesta sotto un duplice aspetto, uno negativo ed uno positivo:
• In senso NEGATIVO autonomia contrattuale significa che nessuno può essere
spogliato dei propri beni o essere costretto ad eseguire prestazioni a favore di altri
contro o indipendentemente dalla propria volontà. Ciascuno obbedisce solo alla sua
volontà e non può essere vincolato, salvo la legge non lo preveda, dalla volontà altrui.
 Il
contratto non vincola se non chi ha partecipato all’accordo, coloro i quali cioè che
hanno espresso il proprio consenso alla costituzione, o alla regolazione o alla estinzione
di un rapporto giuridico a carattere patrimoniale. Secondo l’art. 1372, il contratto
produce effetti nei confronti di terzi (coloro che non vi hanno partecipato) solo nei casi
previsti dalla legge. 

• In senso POSITIVO autonomia contrattuale, significa che ogni privato, può con
autonomo atto di volontà, costituire o regolare o estinguere rapporti patrimoniali
relativi alla disposizione dei propri beni o all’assunzione di obbligazioni a favore di
altri. In senso positivo l’autonomia dei contraenti si manifesta essenzialmente in tre
forme:
1) Libertà di scelta fra diversi tipo di contratto previsti dalla legge, a
seconda degli scopi che il privato intende perseguire.
2) Libertà di stabilire il contenuto del contratto, entro i limiti disposti
dalla legge (art. 1322). Ciascuna determinazione inserita dalle parti nel
contratto scritto, prende il nome di clausola o patto, sono generalmente sono
indicate da una numerazione progressiva e nel loro insieme formano il c.d.
regolamento contrattuale.
3) Libertà di concludere contratti atipici (o innominati), contratti cioè non
corrispondenti a tipi contrattuali previsti dalla legge, ma ideati e praticati nel
mondo degli affari. Tali contratti sono validi purché siano diretti a realizzare
interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322
comma II). Tale requisito di validità è la causa. I contratti atipici sono
sottoposti alla disciplina delle norme generali del contratto (art. 1323), sono
regolate per il resto dalle loro clausole contrattuali.
Il contratto è bilaterale quando le parti siano due e solamente due, è plurilaterale quando le
parti sono più di due. Il concetto di parte, però, non coincide con la persona: parte è “il centro
di interessi che aderisce al contratto” (es. se due comproprietari danno in locazione la cosa
comune il contratto sarà comunque bilaterale).
Sono invece atti unilaterali le dichiarazioni di volontà di una sola parte, di per sé
produttiva, solo nei casi espressi dalla legge, di effetti giuridici. Gli atti unilaterali
costituiscono un numero chiuso, solo quelli espressamente previsti dalla legge sono
produttivi di effetti giuridici (art. 1987). Questi non hanno una disciplina generale, ma solo
una disciplina particolare relativa ad ogni singolo atto, rispondono comunque alle norme
generali sui contratti, in quanto compatibili (art. 1324).

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12.2 Contratto e atto unilaterale come negozi giuridici

L’attitudine a produrre effetti giuridici che il diritto riconosce alla volontà umana, è stata
riunita in un concetto (non accolto dal codice civile italiano), il negozio giuridico,
definibile come: una manifestazione o dichiarazione di volontà diretta a produrre effetti
giuridici, che il diritto realizza in quanto voluti.
A seconda del numero delle parti coinvolte nel negozio, si distinguono negozi unilaterali
(testamento, promessa unilaterale, ecc.), bilaterali (matrimonio e contratti bilaterali) e
plurilaterali (contratti di società, associazione, ecc.). Si distingue poi tra negozi patrimoniali e
non patrimoniali, a seconda che gli effetti siano in qualche modo suscettibili di valutazione
economica.
L’astrazione del concetto di negozio giuridico è stata creata ed inserita dalla dottrina tedesca
nel codice vigile tedesco (BGB) del 1900. Il legislatore italiano del ’42 ha preferito rimanere
fedele al modello francese regolando come categoria generale solo il contratto, con le
applicazioni delle stesse norme all’atto unilaterale tra vivi a contenuto patrimoniale, in quanto
compatibili (art. 1324).
La scelta del legislatore italiano del 1942, risponde ad un metodo di codificazione definito
come “metodo dell’economia”. È un metodo che ripudia le categorie altamente astratte,
volendo adeguare i concetti giuridici alla realtà economico-sociale. La dichiarazione di
volontà è poi un concetto che mal si sposa con un sistema di diritto privato come quello
italiano fondato sul principio di causalità. Nonostante il codice non lobbia accettato, nel
nostro linguaggio giuridico comunque il concetto di negozio viene ancora utilizzato nella
forma aggettivata, infatti non sono rare espressioni come “volontà negoziale”, ossia la
volontà diretta produrre effetti giuridici; “effetti negoziali”, effetti prodotti da una
dichiarazione di volontà; “dichiarazione negoziale”, avente contenuto di dichiarazione di
volontà; “responsabilità negoziale”, con lo stesso significato di responsabilità contrattuale. 

12.3 Requisiti del contratto: a) l’accordo delle parti

L’art 1325 scompone il concetto di contratto in quattro distinti requisiti: l’accordo delle parti,
la causa, l’oggetto, la forma. In relazione ad ognuno poi vengono formulati alcuni principi
fondamentali del contratto in generale.

L’accordo delle parti è l’incontro delle manifestazioni o dichiarazioni dei volontà dei
contraenti: il contratto è concluso, o meglio si perfeziona, quando viene raggiunta piena
coincidenza fra le dichiarazioni di volontà provenienti dalle diverse parti contraenti.
Il contratto si può perfezionare in modo espresso o tacito: si perfeziona in modo espresso
quando la volontà delle parti viene dichiarata per iscritto, oralmente o con un qualsiasi altro
segno ritenuto valido (es. nell’asta alzando la mano). Si perfeziona in modo tacito quando la
volontà delle parti non viene dichiarata ma si desume dal loro comportamento (c.d.
comportamento concludente), il loro comportamento corrisponde all’esecuzione di un dato
contratto, e perciò lascia presupporre che esse abbiano voluto concluderlo. La legge vieta
alcuni casi di tacita manifestazione di volontà, la volontà di liberare il debitore deve essere
sempre espressa nella delegazione, nell’espromissione e nell’accollo, deve essere espressa la
volontà di prestare fideiussione e la volontà di rinunciare all’ipoteca da parte del creditore.


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La volontà può formarsi in modo simultaneo, quando cioè le parti manifestano la loro
volontà di adesione nella stessa unità di tempo o per fasi successive, le dichiarazioni dei
contraenti in tal caso prendono il nome di proposta ed accettazione. La proposta è la
dichiarazione di volontà di chi assume l’iniziativa del contratto, l’accettazione è invece la
dichiarazione di volontà che il destinatario della proposta rivolge, a sua volta al proponente.
In virtù della libertà contrattuale, il destinatario della proposta è pienamente libero di
accettare o rifiutare, può infatti rispondere negativamente o non rispondere affatto, né è
tenuto a dare spiegazioni per il suo rifiuto. L’accettazione della proposta è valida solo se
pienamente conforme alla natura di quest’ultima, se non è conforme ha la valenza di nuova
proposta e richiede l’accettazione dell’originario proponente (art. 1326 comma V).

Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha inviato la proposta riceve la
dichiarazione di accettazione dell’altra parte (art. 1326 comma I). L’accettazione deve
pervenire entro il termine posto da proponente, in mancanza di termine deve pervenire entro
un tempo ragionevole rispetto la natura del contratto o agli usi (art. 1326 comma II).
La proposta può essere rivolta ad un soggetto determinato o può avere la forma di offerta al
pubblico (es. annuncio vendita sul giornale), chiunque quindi, in questo ultimo caso, può
esprimere al proponente la propria accettazione, con la conseguenza che il contratto si
perfeziona quando questa arriva al proponente (art. 1336).
È diverso dalla proposta contrattuale l’invito a proporre. È tale una dichiarazione che non
contenga tutti gli estremi essenziali del contratto da concludere ma vale solo come invito a
formulare proposte contrattuali o ad iniziare trattative contrattuali (es. cartello “Vendesi”
fuori da una casa). Una specifica forma di proposta contrattuale è l’adesione di nuove parti ad
un già formato contratto plurilaterale (es. società). La richiesta di ammissione deve essere
rivolta all’organo costituito per l’adesione del contratto, o in mancanza a tutti gli organi
contraenti (art. 1332).
Fino al momento in cui il contratto non è concluso, le parti conservano la propria autonomia
contrattuale, possono in qualsiasi momento revocare la proposta o l’accettazione. La
proposta può essere ritirata prima che giunga l’accettazione al proponente, l’accettazione è
revocabile prima che questa giunga al proponente (art. 1328).
La conoscenza di proposta e accettazione, quanto quella della loro revoca è una
conoscenza presunta, esse si presumono conosciute quando pervengono all’indirizzo del
destinatario, il quale è ammesso comunque a provare d’essere stato, senza sua colpa,
impossibilitato ad averne avuto notizia (art. 1335).
La proposta può essere dichiarata dal proponente come ferma o irrevocabile per un dato
tempo. Il destinatario può entro questo tempo accettarla o non accettarla e il proponente non
può revocare la proposta che rimane per lui vincolante così formulata, fino al termine da lui
stesso prefissato (art. 1329). L’utilità della proposta irrevocabile è evidente, il destinatario
infatti fruisce di un lasso di tempo per decidere se accettare o rifiutare, consapevole che in
questo periodo il proponente non modificherà la proposta.
Dalla proposta irrevocabile differisce l’opzione per la sua natura di contratto. Si parla infatti
di contratto di opzione quando uno dei probabili contraenti si vincola verso l’altro, e l’altro si
limita a prenderne atto, riservandosi l’opzione di accettare o meno. Il patto di opzione
produce a carico dell’obbligato gli stessi effetti della proposta irrevocabile, ma con la
differenza che è valido anche se non è stato prefissato un termine per l’accettazione, che
potrà essere poi stabilito dal giudice (art. 1331 comma II). Talvolta chi acquista per contratto
la facoltà di opzione, paga all’altro contraente un corrispettivo, che è il controvalore
dell’utilità che l’altrui impegno irrevocabile procura e che non dovrà essere restituito anche in
caso di mancata accettazione. L’opzione, in quanto contratto, può essere ceduta e chi la
acquista ha, a differenza del destinatario di proposta ferma, la facoltà di negoziarla.

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Particolari tecniche di formazione dell’accordo riguardano:

• I contratti con obbligazione del solo proponente (es. mandato gratuito, trasporto
gratuito). Il silenzio del destinatario della proposta è considerato come tacita
accettazione, il contratto si perfeziona se entro il termine previsto per la natura
dell’obbligo o dagli usi il destinatario non rifiuta la proposta (art. 1333). La norma è
valida solo per i contratti con effetti obbligatori, non vale per quelli con effetti reali.
• I contratti che ammettono esecuzione prima della risposta dell’accettante. Secondo
l’art 1327 il proponente può chiedere, oppure la natura del contratto o gli usi possono
permettere che la prestazione della controparte sia eseguita senza preventiva risposta.
Il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio la esecuzione. Qui
c’è accettazione tacita per fatto concludente, quale è l’iniziata esecuzione della
prestazione. 

Gli atti unilaterali rivolti ad una persona determinati (c.d. atti unilaterali recettizi) producono
effetti dal momento in cui giungono a conoscenza del destinatario (art. 1334), anche in questo
caso vale la presunzione di conoscenza ex art. 1335.
12.4 Continua: i limiti dell’autonomia contrattuale

I limiti imposti all’autonomia contrattuale sono menzionati nella norma generale all’art.
1322: «le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti
dalla legge». Questi limiti derivano da un tipo di società come la nostra, la cui economia
essenzialmente fa perno sull’industria e la produzione in serie e vi è intervento pubblico nella
regolamentazione dei rapporti di mercato.
Nel nostro sistema i limiti all’autonomia contrattuale appaiono alquanto estesi e si
manifestano sotto un duplice aspetto, talvolta limita solo uno dei contraenti, procurando
vantaggi all’altro, in altri casi tendono a limitare l’autonomia contrattuale di entrambi. La
prima ipotesi ricorre soprattutto nei contratti in serie, distinti dai c.d. contratti isolati. È
contratto isolato quello frutto di trattative intercorse tra le parti, nelle quali queste discutono
delle clausole che andranno a formare il futuro contratto, sono frequenti questi contratti nei
casi in cui le parti si trovano in condizione di parità (es. due grandi aziende). È contratto in
serie (o standard) il contratto interamente predeterminato da una delle parti l’atra parte può
solo prendere o lasciare, non può cioè trattare alcuna clausola. Il contratto in serie serve per
regolare in modo uniforme i rapporti contrattuali con i consumatori dei prodotti o con gli
utenti dei servizi (es. un’assicurazione ha lo stesso contratto con tanti utenti).
L’aspetto giuridico del fenomeno si manifesta nell’efficacia che la legge attribuisce alle
condizioni generali di contratto. Sono condizioni contrattuali predisposte da uno dei
contraenti e destinate ad essere efficaci per tutti i contratti che verranno in futuro conclusi:
«sono efficaci nei confronti dell’altro contraente quando questo le conosce o avrebbe dovuto
conoscerle usando l’ordinaria diligenza» (art. 1341 comma I). Non è necessaria dunque
conoscenza effettiva, ma mera conoscibilità dell’altro contraente ai fini dell’efficacia del
contratto (es. biglietto obbligatorio per salire sul bus) .

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Il consumatore o l’utente è dunque nei confronti della controparte che predispone il contratto
una parte debole, che la legge in qualche modo protegge. Il secondo comma dell’art 1341
prevede alcune eccezioni al primo: devono essere approvate per iscritto le c.d. clausole
vessatorie o onerose, «condizioni che stabiliscono a favore di colui che le ha predisposte,
limitazioni della responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospendere l’esecuzione,
o sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre
eccezioni, restrizione della libertà contrattuale nei rapporti con terzi, tacita proroga o
rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza della autorità
giudiziaria.»
Per il contratto in serie spesso sono predisposti moduli o formulari prestampati che vengono
riempiti con i dati del contraente e gli estremi del contratto mancanti nel modulo. A favore
del contraente debole è previsto che le clausole aggiunte a penna o a macchina prevalgano su
quelle stampate, anche se cancellate.
Altro limite all’autonomia contrattuale previsto a carico del contraente forte è l’obbligo di
contrattare del monopolista. «Chiunque eserciti una impresa in condizioni di monopolio
legale è obbligato a contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto
dell’impresa, osservando parità di trattamento» . Il limite dell’autonomia contrattuale non
riguarda il contenuto del contratto ma la scelta se concluderlo o meno. La scelta è libera per
l’utente, ma non per l’imprenditore, che è tenuto ad accettare le proposte del consumatore o
quanto meno a motivare il proprio rifiuto. È inoltre tenuto alla parità di trattamento, cioè la
soddisfazione delle varie richieste non risponde all’arbitrio del monopolista, bensì all’ordine
delle richieste o quanto ai criteri di maggiore urgenza o necessità.

In altri casi appare limitata, a protezione di superiori interessi, la libertà contrattuale di
entrambe le parti. Il caso è quello della determinazione autoritativi dei prezzi dei beni di largo
consumo o delle tariffe di servizi pubblici, stabiliti dal comitato interministeriale prezzi. Gli
interessi protetti sono quelli connessi alla direzione pubblica dell’economia. L’aspetto
giuridicamente più significativo del fenomeno sta nel fatto che le condizioni contrattuali
imposte dalla pubblica autorità, concorrono direttamente a formare il contenuto del contratto
(inserzione automatica di clausole), entrano a far parte del contratto anche in
sostituzione delle clausole difformi poste dalle parti. Non c’è quindi un obblighi di
conformarsi delle parti ma queste prescrizioni concorrono direttamente a formare il contenuto
del contratto. Caso analogo si ha quando una clausola apposta dalle parti sia contraria ad una
norma imperativa, cioè non derogabile dalla volontà delle parti, in questo caso la clausola è
considerata nulla e sostituita con la norma imperativa (art. 1419, comma II).
Il contratto risulta a questo punto, non più semplice manifestazione di volontà dei contraenti,
bensì risultato di più componenti, che costituiscono le fonti del regolamento contrattuale, il
contratto infatti obbliga le parti, non solo in relazione a quanto vi è espresso (volontà delle
parti), ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o in mancanza
secondo gli usi e l’equità. Sono così indicate quattro fonti del regolamento
contrattuale: la volontà espressa dalle parti; le norme interpretative di legge e le clausole
direttamente inserita nel contratto per disposizione di legge; in via subordinata, per ciò che
non è regolato le dalla legge dall’accordo, gli usi e l’equità.

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L’equità non è fonte di diritto oggettivo, è invece una valutazione di fatto effettuata dal
giudice nei casi previsti dalla legge, ad integrazione delle valutazioni delle parti. Usi ed
equità hanno carattere suppletivo, laddove manchino espresse disposizioni delle parti o della
legge. Il carattere suppletivo dell’equità è normale, sussistendo casi nei quali essa configura
come equità correttiva essendo il giudice chiamato ad esercitare un vero e proprio potere
correttivo dell’autonomia privata.
Diversi dagli usi, sono le clausole d’uso o usi contrattuali, che si intendono inserite nel
contratto, anche se risulta che non sono state volute dalle parti (art.1340) (es. se si compra da
un venditore abituale il prezzo si considera sempre lo stesso).

Infine le clausole di stile sono clausole meccanicamente ripetute in moduli contrattuali a
stampa, o dal notaio nel redigere contratti per atto pubblico. Ciascuno dei contraenti è
ammesso a provare che una data clausola del modulo a stampa da lui sottoscritto, sebbene
inserita, era da lui non voluta.
12.5 Continua: b) La causa

Altro requisito essenziale per la validità del contratto e dell’atto unilaterale (visto il richiamo
all’art 1324) è la causa (art. 1325). La causa è la funzione economica-sociale dell’atto di
volontà, la giustificazione dell’autonomia privata.

Un bene o un diritto in generale non si trasferisce o l’obbligazione non sorge se manca una
causa, una giustificazione economico-sociale dell’atto di autonomia contrattuale. Così la
causa della vendita (art. 1470) è lo scambio di cosa con prezzo, la cosa dunque non passa solo
in virtù del fattore soggettivo che è la volontà, ma in funzione della ulteriore ragione
oggettiva, che al trasferimento del bene dal venditore al compratore, corrisponde
l’obbligazione di quest’ultimo di pagare il prezzo, nei contratti di lavoro la causa è lo
scambio di prestazione lavorativa con retribuzione (art. 2094). Le reciproche obbligazioni dei
contraenti diventano una la giustificazione dell’altra.
Esistono però anche contratti a titolo gratuito come la donazione, in cui la prestazione di una
delle parti non trova giustificazione nella prestazione di un’altra parte. La giustificazione di
una prestazione unilaterale risiede nello spirito di liberalità della parte che compie la
prestazione, la quale per generosità, per affetto ecc... arricchisce la controparte.
I CONTRATTI TIPICI, proprio perché disciplinati dalla legge, hanno tutti una causa (causa
tipica), e per essi non si pone il problema, già risolto dalla legge, di accertare la ricorrenza di
una funzione economico-sociale. Per ciascuno di questi modelli contrattuali, il trasferimento
del diritto e l’assunzione dell’obbligazione sono direttamente giustificati dalla legge. Ma al di
là del modello astratto c’è sempre da considerare la concreta realizzabilità del modello (es.
contratto di vendita di chi voglia acquistare una cosa già propria: il modello scelto è
astrattamente idoneo al conseguimento dell’obbiettivo, ma non è concretamente realizzabile,
poiché colui che vende a sé stesso un bene non riceve alcun prezzo, manca quindi una causa
che legittimi l’operazione, dunque il contratto è nullo).
Per i CONTRATTI ATIPICI, il problema della causa si pone sia sotto il profilo astratto sia
sotto il profilo della concreta realizzazione. Per i contratti innominati sarà il giudice a
decidere se il contratto in esame è votato a realizzare interessi meritevoli di tutela giuridica
(Art. 1322 comma II), per «interesse meritevole di tutela» si intende sempre una causa.
 Viene
dunque riconosciuto un controllo giudiziario alla autonomia contrattuale delle parti,

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non solo per determinare se gli interessi perseguiti siano illeciti (causa illecita), ma anche a
capire se gli interessi che le parti intendono perseguire siano meritevoli di tutela, potendoli
non ritenere tali, anche quando si tratta di interessi leciti. Il giudice è tenuto a giudicare in
base all’ordinamento giuridico, e non per equità, applicherà le norme che regolano casi simili
o materie analoghe o, in mancanza, i principi generali dell’ordinamento giuridico (art. 12
comma II preleggi). Tale potere è conferito al giudice non a protezione di interessi pubblici
ma a protezione degli interessi dei contraenti, in particolare del contraente più debole.
La giurisprudenza applica con rigore il requisito della causa, esige cioè la c.d. expressio
causae, ossia la enunciazione esplicita della causa, escludendo che questa, non emergendo
dal contenuto del contratto, possa rilevarsi da elementi estranei al contratto. La causa deve
essere espressa anche negli atti di liberalità: la causa donandi deve essere resa esplicita con
le parole donazione, donante, donatario o altre equivalenti.
Se il contratto atipico deriva dalla combinazione di più contratti tipici si parlerà di contratto
con causa mista. Diversi sono invece i contratti collegati, qui non avviene una fusione
di contratti, ma ne esiste una pluralità coordinata. ciascun contratto conserva autonomamente
la propria causa anche se nel loro insieme mirano a concludere, tra le stesse parti, una unitaria
operazione economica. Il collegamento contrattuale determina il fatto che talune vicende che
investono un contratto, come la nullità, possono ripercuotersi sugli altri. Il criterio distintivo
tra contratti misti e collegati è di tipo sostanziale, è dato dall’unità o dalla pluralità delle
cause.
Dal requisito della causa discende dunque l’inammissibilità dei contratti astratti, ossia
diretti produrre effetti per sola volontà delle parti, indipendentemente dalla causa. Coerente
con questo principio è l’art. 1988, per cui la semplice promessa di pagamento o il semplice
riconoscimento del debito sono dichiarazioni unilaterali astratte delle quali non emerge la
causa determinante tale obbligo. Perciò la dichiarazione ha un limitato valore: «dispensa
colui a favore del quale è stata fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale», cioè la
causa. Si attua un’ inversione dell’onere della prova: l’esistenza del debito si presume
fino a prova contraria. Si parla di astrazione processuale della causa, per cui l’onere della
prova non ricade su creditore (che dovrebbe provare l’esistenza del debito), ma sul debitore
che deve provarne l’inesistenza. L’astrazione processuale è per legge ammessa per la
promessa di pagamento e per la ricognizione del debito, la si ritiene non ammissibile per il
riconoscimento del diritto reale, fuori dai casi previsti dalla legge (enfiteusi).
Valore analogo ha il contratto di accertamento che mira all’eliminazione di situazioni di
incertezza relative a situazioni giuridiche intercorrenti tra le parti, le quali reciprocamente si
obbligano ad attribuire al fatto o all’atto preesistente gli effetti che risultano
dall’accertamento del contratto. Il rapporto giuridico trova sempre la sua fonte nell’atto o nel
fatto che lo aveva originariamente prodotto, ma l’accertamento fa sì che gli effetti prodotti
dalla fonte originaria siano quelli accertati dal contratto, l’accertamento opera quindi con
effetti retroattivi.
Diversi dalla causa sono i motivi del contratto, sono le ragioni soggettive che spingono le
parti a concludere il contratto e possono essere le più diversi, sia per il creditore che per il
debitore. I motivi sono di regola irrilevanti per il diritto, acquistano rilievo in due casi: nel
caso di motivo illecito, e nel caso di errore di diritto sui motivi.

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12. 6 Continua: c)L’oggetto

Dal contenuto del contratto, che è l’insieme delle clausole poste per legge o per volontà delle
parti, si distingue l’oggetto, che è la cosa, o più in generale,il diritto (reale o di credito) che
una parte trasferisce all’altra o la prestazione che una parte si obbliga ad eseguire in favore
dell’altra. Di regola, il contratto ha più di un oggetto (es. compravendita, oggetti sono il bene
e il prezzo), l’oggetto è unico nel caso di contratti che trasferiscono cose o diritti a titolo
gratuito o in quelli con obbligazione di una sola parte.
L’oggetto deve essere 1) possibile, 2) lecito, 3) determinato o determinabile (art. 1346).

La possibilità dell’oggetto fa riferimento alla sua possibilità materiale, è infatti


impossibile un oggetto che non esiste o una prestazione che non è eseguibile (es. la consegna
di una automobile distrutta). Una cosa attualmente inesistente può formare oggetto di
contratto se è suscettibile di venire ad esistenza: è il caso delle cose future, che possono
dedursi in contratto qualora la legge non lo vieti (art. 1348). Si può vendere una cosa futura
(es. i frutti di un fondo), si può garantire per fideiussione l’adempimento di una obbligazione
futura, mentre è vietato donare cose future.
Il requisito della possibilità fa inoltre riferimento alla possibilità giuridica dell’oggetto, è
infatti impossibile l’oggetto che non è per legge un bene in senso giuridico, una cosa cioè che
non può formare oggetto di diritti. È ancora giuridicamente impossibile l’oggetto che la legge
ha dichiarato inalienabile o fuori commercio (es.demanio).
L’oggetto deve essere lecito [v.13.2].


L’oggetto del contratto deve essere determinato: la vendita che non permetta una sicura
identificazione della cosa è nulla. Ma l’oggetto, se pur non determinato, può essere
determinabile in base ai criteri di individuazione espressi nel contratto o altrimenti
ricavabili.
Un caso di oggetto determinabile risiede in tutti quei contratti che deferiscano ad un terzo la
determinazione dell’oggetto; è un caso questo in cui la determinazione dell’oggetto è estranea
alla volontà delle parti, si parla di arbitramento, ed il terzo è detto arbitratore. Di regola
l’arbitratore deve procedere alla determinazione dell’oggetto con «equo apprezzamento», ma
le parti hanno il diritto di impugnare dinnanzi al giudice la determinazione del terzo
lamentando che essa è manifestatamene iniqua o erronea (art. 1349 comma I).
L’arbitramento, qualora sorgessero problemi in relazione alla stima del prezzo potrebbe
causare un rallentamento all’esecuzione del contratto, è stato previsto quindi che le parti
possano affidarsi anche al mero arbitrio del terzo, in questo caso la possibilità di
impugnazione dinnanzi al giudice è limitata alla mala fede dell’arbitratore (art. 1349 comma
II), ossia il suo intento di favorire una parte a danno dell’altra.

Gli effetti giudiziari delle due ipotesi sono differenti: nella prima ipotesi, se dichiarata dal giudice
manifestatamene iniqua o erronea, la determinazione spetta allo stesso giudice che determinerà
con equo apprezzamento (utilizzando l’equità). Nella seconda ipotesi l’omissione dell’arbitratore
o l’accertamento della sua mala fede determinerà la nullità del contratto, salvo che le parti, di
comune accordo, non intendano affidarsi ad un altro arbitratore

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12.7 Continua: d)La forma

Principio generale del moderno sistema dei contratti è la libertà delle forme. I contratti
possono, generalmente, risultare da dichiarazione espressa o tacita e i contratti espressi
possono a loro volta essere contratti verbali (o orali) e contratti scritti. È sufficiente perché il
contratto sia valido e produttivo di effetti, che la volontà delle parti sia manifestata,
qualunque sia il modo o la forma della sua manifestazione.
Al generale principio della libertà delle forme fanno eccezione i contratti immobiliari: i
contratti che trasferiscono la proprietà o altri diritti reali sugli immobili o che costituiscono o
modificano o estinguono diritti reali su questi beni, devono essere conclusi per atto scritto,
pena la nullità del contratto (art. 1350). La legge comunque impone la forma scritta anche per
contratti che non abbiano ad oggetto un immobile, ma sono solo quelli espressamente voluti
dal legislatore (art. 1350 n. 13).
La forma scritta può consistere in atto pubblico o scrittura privata. L’atto pubblico consiste
nel documento redatto dal notaio (o da altro ufficiale autorizzato) che attesta, con le dovute
formalità, le volontà dichiarate in sua presenza dalle parti (art. 2699). La scrittura privata è
il documento redatto e scritto dalle stesse parti, senza la partecipazione di un pubblico
ufficiale alla sua redazione. La scrittura privata può poi essere autenticata dal notaio che
certifica che le parti hanno sottoscritto il documento in sua presenza, quindi che le firme sono
autentiche (art. 2703).
È importante osservare che il requisito della forma scritta è di regola soddisfatto dalla sola
scrittura privata anche non autenticata. L’autenticazione della scrittura privata e l’atto
pubblico valgono solo come speciali mezzi di prova: la prima serve ad autenticare le firme
evitando che in seguito una delle parti disconosca la propria firma, il secondo fa prova, fino a
querela di falso, di quanto attestato dal notaio (art. 2700).
In alcuni casi l’atto pubblico è richiesto dalla legge pena la nullità del contratto (forma
solenne), è il caso della donazione (art. 782), del contratto di s.p.a. e di s.r.l.

Il principio generale della libertà delle forme asseconda l’intenzione legislativa di favorire al
massimo la circolazione dei beni, caricando il meno possibile i contraenti di oneri formali. È
d’obbligo la forma scritta nei contratti immobiliari per accertare la effettiva volontà del
proprietario, di spogliarsi di un proprio bene.
Si deve distinguere la forma scritta richiesta dalla legge a pena di nullità del contratto, dalla
forma scritta che la legge talvolta richiede per la prova del contratto (o prova documentale),
richiesta per esempio nel contratto di assicurazione o per contatto di non-concorrenza. In
questi casi infatti il contratto risulta valido anche in assenza di una forma scritta ma se si
dovesse presentare l’eventualità che una delle parti contesti l’esistenza del contratto sarà
ardua per l’altra parte provarne l’esistenza. La forma scritta è richiesta qui come forma della
prova, non del contratto, quindi un qualsiasi documento che inerisca ad una rapporto
intervenuto tra le parti, con contenuto idoneo al contratto contestato, sarà valido come prova,
anche se il contratto era concluso oralmente o per atti concludenti.

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12.8 La trascrizione del contratto

La trascrizione del contratto nei pubblici registri è prevista sia per i beni immobiliari, sia per
beni mobili registrati, è il mezzo per dare pubblicità al contratto, per renderlo cioè
conoscibile a terzi (art 2643, 2683).

Il contratto, anche se non trascritto, è pienamente valido ed è pienamente efficace tra le parti.
Tuttavia solo con la trascrizione del contratto può essere noto a terzi, e quindi ad essi
opponibile, dopo la trascrizione si considera noto a tutti (presunzione legale di
conoscenza). Se più persone acquistano un immobile o un bene mobile registrato, ne
diviene proprietario colui il quale per primo ha trascritto il contratto, in quanto è l’unica a
poter opporre a terzi il diritto sul bene (art. 2644).

Per iscrivere un contratto nei pubblici registri è necessario che questo risulti da atto pubblico
o da scrittura privata autenticata (art 2657), se la scrittura privata non è stata autenticata,
occorre2 venga giudizialmente accertata, ossia dichiarata autentica dal giudice.
12.9 Il contratto preliminare

È un contratto con il quale le parti reciprocamente si obbligano reciprocamente a


concludere un futuro contratto, del quale predeterminano il contenuto essenziale. Il più
diffuso è il preliminare di vendita, esso non trasferisce la cosa da una parte all’altra ma con
esso sorge l’obbligo in capo alle parti di vendere e di comprare. 

Per legge la forma del contratto preliminare deve essere la stessa del contratto definitivo,
pena la nullità (art. 1351). Il codice prevede l’evenienza che una delle parti si rifiuti di
adempiere al preliminare, in questo caso l’altra parte può rivolgersi al giudice e ottenere, se il
contratto preliminare non lo esclude, l’esecuzione forzata dell’obbligazione di contrattare: il
giudice emetterà una sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso (art. 2932).
Tale contratto viene usato soprattutto quando le parti intendono reciprocamente riservarsi
l’altrui prestazione, ma si riservano alcuni accertamenti tecnici.
I contratti preliminari non vanno confusi con i contratti da riprodurre (anche se nella
pratica vengono definiti entrambi preliminari). I contratti da riprodurre contratti definitivi,
hanno già prodotto gli effetti ma manca qualche requisito necessario alla trascrizione. Le
parti concludono il contratto, ma si impegnano reciprocamente a ritrovarsi in un secondo
momento per riprodurre il contratto già definitivo, in un documento avente forma dell’atto
pubblico o della scrittura privata autenticata. La differenza tra i de contratti si nota in caso di
perimento della cosa: nei contratti da riprodurre, avendo già prodotto i propri effetti, il
compratore deve comunque pagare il prezzo della cosa.

Altra figura è la minuta di contratto: le parti si accordano su alcuni estremi del futuro
contratto, ma non ancora su tutti(es. manca il prezzo). In questo caso se non si raggiunge il
successivo accordo sui punti mancanti, non si potrà fare ricorso all’art. 2932 e si avrà un
contratto con oggetto non determinato né determinabile, come tale nullo.
C’è poi il programma di contratto, con cui le parti si impegnano ad istaurare trattative per la
formazione di un possibile contratto del quale non si è fissato alcun punto essenziale,
fissando soltanto tempi e modalità delle trattative che si sono impegnate a condurre.

Se le parti hanno convenuto, per la formazione del futuro contratto, una forma non richiesta
dalla legge, questa si presume convenuta per la validità del contratto e non per la semplice
prova (art. 1352).

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Capitolo tredicesimo

VALIDITÀ E INVALIDITÀ DEL CONTRATTO
13.1 Le cause di nullità del contratto

Il contratto è invalido se in contrasto con norme imperative di legge. L’invalidità


può essere di due tipi, il contratto in contrasto con norme imperative può essere nullo o
semplicemente, annullabile.

La nullità del contratto sopraggiunge ogni qual volta questo violi una norma imperativa, ha
carattere generale: non occorre che la nullità sia prevista per legge . L’ annullabilità,
invece, ha carattere speciale, ricorre cioè quando sia stata prevista dalla legge come
conseguenza della violazione di una norma imperativa. A riguardo l’art. 1418 dispone: « Il
contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga
diversamente». Fra le ipotesi per le quali la legge dispone diversamente rientrano quelle
dell’annullabilità del contratto, e sono, per i contratti e gli atti unilaterali in generale,
l’incapacità di contrattare delle parti (artt. 1425 ss.) e i vizi del consenso (artt. 1427 ss.), il
conflitto di interessi fra rappresentato e rappresentante (artt. 1394 s.) e altre specifiche cause
relative ai singoli contratti e atti unilaterali.
Sono norme imperative le norme non derogabili per volontà delle parti, si identificano
facilmente perché non contengono incisi del genere: “salvo patto contrario” o “salva diversa
volontà delle parti”. Si distinguono da queste le norme dispositive che invece contengono
incisi di questo tipo, per indicare la facoltà delle parti di disporre diversamente. Sono
dispositive tutte quelle norme che, per la natura del sistema di norme entro cui operano,
appare evidente che si tratti di norma derogabile. Fra le norme imperative, la cui violazione
rende nullo il contratto, bisogna includere, oltre che le norme nazionali, anche quelle
comunitarie, quelle di ordinamenti stranieri quando il giudica sia abilitato ad applicarle e
sono da considerarsi sempre imperative le norme penali:il fatto che un precetto sia
penalmente sanzionato esprime il più alto grado di imperatività.
Produce sempre nullità la mancanza di uno dei requisiti essenziali espressi all’art. 1325:
mancanza dell’accordo delle parti, della causa nei contratti atipici, dell’oggetto o della forma
se richiesta a pena di nullità.

L’accordo si compone di due o più dichiarazioni di volontà mediante le quali ciascun
contraente partecipa all’accordo. In ciascuna dichiarazione si distingue la volontà che il
soggetto forma entro la propria mente (ciò che voleva intendere) e la dichiarazione,
costituita dallo scritto o dalle parole o da altri segni, giuridicamente validi, mediante i quali la
interna volontà si manifesta all’esterno (ciò che si dichiara). La sola volontà interna, non
manifestata è irrilevante per il diritto, la dichiarazione produce effetti in relazione alla giusta
corrispondenza con la tra volontà. Il contratto è nullo per la mancanza dell’accordo
tra le parti quando, nonostante la dichiarazione resa all’esterno, manca la
volontà dell’una o di entrambe le parti di produrre effetti giuridici .
Casi di marginale importanza a tale proposito sono ad esempio la dichiarazione non seria o
l’esemplificazione didattica, ma di rilevante importanza è il caso della violenza fisica, cioè il
caso in cui l’altro contraente o un terzo che provochino una dichiarazione non voluta (es. ad
un asta il mio vicino alza il mio braccio).
Diversi sono i casi in cui vi è una divergenza fra interna volontà e dichiarazione esterna, il
dichiarante cioè vuole la dichiarazione, ma questa è per errore (detto errore ostativo),
formulata in modo non corrispondente alla sua volontà, oppure è trasmessa in modo errato

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dalla persona o dall’ufficio che ne era stato incaricato. A rigore anche in questi casi manca il
requisito dell’accordo, vista la divergenza tra volontà e manifestazione, la legge non ravvisa
tuttavia in questi casina causa di nullità, bensì una causa di semplice annullabilità del
contratto, e solo nel caso in cui l’errore sia riconoscibile dall’altro contraente.
Secondo una categoria sconosciuta al codice civile, ma largamente riconosciuta dalla
giurisprudenza, oltre che invalido il contratto può essere inesistente. È inesistente il
contratto che non è neppure identificabile come tale, privo cioè del minimo essenziale
affinché un accadimento possa essere considerato un contratto. C’è differenza tra contratto
nullo e inesistente, poiché quest’ultimo non produce nemmeno quei limitati effetti che il
contratto nullo produce (contratto nullo è per esempio una proposta senza alcuna risposta).
13.2 Il contratto illecito

Il contratto, inoltre, è nullo per illiceità della causa, per illiceità dell’oggetto, per illiceità dei
motivi (art. 1418 comma II). Qui assume rilievo la contrarietà a norme imperative del scopo
che con il contratto le parti si propongono di realizzare, con riguardo ai tre aspetti
dell’oggetto, della causa e dei motivi del contratto.
Secondo una formula che l’art. 1343 utilizza per la causa illecita, l’oggetto, i motivi e la
causa sono illeciti se contrari a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon
costume. Tale formula legislativa esprime l’esigenza di difesa dei valori fondamentali della
società che attengono alla pacifica e civile convivenza fra gli uomini e al loro progresso
economico e sociale, ma anche difesa anche dei valori individuali, relativi alla libertà,
sicurezza e dignità dei singoli.
L’atto di autonomia contrattuale che leda questi valori è illecito, e quindi nullo. La difesa di
questi valori è generalmente realizzata con l’espressa formulazione di norme imperative che
vietano determinati atti o attività. Non è però necessaria, in campo civile, una espressa
dichiarazione legislativa per dichiarare la nullità del contratto per illiceità. Questo è illecito
anche se contrario all’ordine pubblico o al buon costume. L’ordine pubblico è costituto da
quelle norme, anch’esse imperative, che salvaguardano i valori fondamentali della comunità e
del singolo, che tuttavia non sono espressamente formulate dalla legge ma che si ricavano
dall’ordinamento giuridico (es. puoi fare un contratto di assicurazione contro il rischio di
essere scoperto mentre compi un reato).
Il buon costume è costituito da quelle norme imperative, non esplicite, ma ricavabili per
implicito dal sistema legislativo, che comportano una valutazione del comportamento dei
singoli, in termini di moralità ed onestà. Il contratto contrario al buon costume, sebbene
nullo, produce uno speciale effetto (art. 2035): non si è tenuti, come in qualsiasi altro
contratto nullo, a dare esecuzione del contratto, ma non si può neanche ottenere la
restituzione di ciò che si è pagato in esecuzione del contratto.
L’illiceità del contratto si articola in: 1) illiceità dell’oggetto, 2) della causa, 3) dei motivi.

1) Con riguardo all’illiceità dell’oggetto, questo è illecito quando la cosa dedotta in contratto è
il prodotto o lo strumento di attività contrarie alle norme imperative, all’ordine pubblico o al buon
costume (es.vendita di droga), o quando la prestazione è essa stesa attività vietata.

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2) L’illiceità della causa differisce dall’illiceità dell’oggetto, poiché riguarda lo scopo (la
funzione) del contratto. Il contratto può avere un oggetto lecito ma una causa illecita, è il caso
del contratto che obblighi ad una prestazione e ad una controprestazione si per sé lecite, ma di
cui è vietato lo scambio.
È meglio spiegare con un esempio: il contratto con cui si assolda un assassino perché questi
uccida qualcuno in cambio di denaro, è un contratto con oggetto illecito, il contratto di
protezione mafiosa con cui la malavita si impegna a non uccidere in cambio di denaro è un
contratto con causa illecita, non uccidere infatti è lecito, ma non è lecito non uccidere in
cambio di denaro (lo scambio tra soldi e la non-uccisione).
Una serie di ipotesi in cui la legge considera illecita la causa del contratto è quella dei
contratti in frode alla legge (art. 1344). È in frode alla legge il contratto che costituisce il
mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa, in quanto le parti mirano a
realizzare un risultato che la legge vieta. Le parti per non incorrere nell’applicazione della
norma imperativa che vieta la realizzazione dei risultati da esse voluti, utilizzano uno o più
contratti in sé leciti al solo scopo di realizzare un risultato equivalente a quello vietato. La
legge ad esempio vieta il patto commissorio, in base al quale la cosa data in pegno o in
ipoteca, in caso di insolvenza del debitore, diventa proprietà del creditore. Per eludere il
divieto le parti utilizzano la vendita con patto di riscatto: il debitore vende al creditore un
proprio bene per un prezzo pari al debito intercorrente tra i due che quindi non verrà pagato
perché “compensato” dal preesistente debito. Se alla scadenza il debitore si dimostrerà
adempiente, eserciterà il diritto di riscatto, altrimenti la cosa rimarrà definitivamente al
creditore.
3) Il motivo per cui le parti concludono il contratto è di regola giuridicamente irrilevante,
diventa rilevante quando è illecito (contrario alle norme imperative, all’ordine pubblico o al
buon costume). L’illiceità del motivo, per rendere nullo il contratto, deve presentare due
requisiti: essere il motivo esclusivo del contratto ed essere motivo comune ad entrambe le
parti (art. 1345), non basta che una delle parti sia a conoscenza dei motivi illeciti dell’altra,
deve anche trarne vantaggio, il contratto è quindi nullo se entrambe le parti lo hanno concluso
per un motivo illecito. Ad esempio dare in locazione una nave per fare contrabbando è un
contratto illecito, ma non basta che chi adatto in locazione la nave sia a conoscenza dell’uso
illecito che l’altra parte ne vuole fare; bisogna che appaia evidente che il locatore abbia inteso
approfittare dell’altrui illecito motivo per trarre guadagno, ad esempio chiedendo un canone
più altro del normale.
Eccezione fa la da donazione, ove è sufficiente il motivo illecito del donante, purché sia
determinante della liberalità, e risulti dall’atto (art. 788) (es. è illecita la donazione al
pubblico funzionario che si è lasciato corrompere).
13.3 Le cause di annullabilità: l’incapacità di contrattare

Il contratto è annullabile solo nei casi in cui la legge ricollega alla violazione di una norma
imperativa, anziché la nullità, la speciale conseguenza dell’annullabilità. Casi in cui i
contratti sono annullabili sono quelli in cui sussiste l’incapacità di contrattare di una delle
parti, questa può presentarsi come incapacità legale oppure solo naturale.

Presentano incapacità legale di contrattare coloro che non hanno acquistato la legale
capacità di agire e coloro che avendola acquistata l’hanno successivamente persa, sono: i
minori di 18 anni (art. 2) gli infermi totali di mente interdetti con sentenza (art. 414) e i

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condannati all’ergastolo in stato di interdizione legale. Sono ancora incapaci a contrattare in


modo parziale, poiché possono compiere solo atti di ordinaria amministrazione i minori
emancipati (art. 390) e i parzialmente infermi di mente siano stati inabilitati (art. 415).
I contratti conclusi dall’incapace legale di agire sono annullabili (art. 1425 comma I), e
l’annullamento può essere domandato al giudice: da chi eserciti la potestà sul soggetto
incapace (genitori o tutore per il minore, curatore per il minore emancipato, tutore per
l’interdetto), dallo stesso soggetto incapace una volta acquistata/riottenuta la capacità di
agire, dagli eredi o aventi causa del minore.

Il contratto del minore non può essere annullato se il minore ha occultato con raggiri la sua
età (falsificando un documento), non basta la semplice falsa dichiarazione del minore.

Il contratto concluso dall’incapace di agire, se considerato astrattamente, è un contratto
manchevole della volontà di una parte e quindi punibile con la nullità. In questo caso le
esigenze di protezione dell’autonomia contrattuale sono coordinate con le esigenze attinenti
alla sicurezza della circolazione dei beni, esigenze che consigliano di contenere il più
possibile i casi di nullità del contratto. Il contratto è dunque considerato annullabile su istanza
dei soggetti espressamente legittimati all’azione.
La controparte capace non è mai legittimata a chiedere istanza di annullabilità,
poiché l’annullabilità è disposta a tutela dell’incapace, l’altra parte non ha ragione di richiederla.

Diverso è il caso di incapacità naturale di un contraente dotato di capacità legale (art.
1425 comma II): incapacità di intendere e di volere del maggiorenne affetto da infermità
mentale ma non interdetto ne inabilitato, oppure lo stato transitorio di incapacità intendere e
di volere di un soggetto al momento della stipulazione di un contratto (ubriachezza, droga).
La legge esige, oltre alla prova dell’incapacità, ulteriori requisiti. Si distingue tra atti e
contratti:
• Gli atti in genere, compresi gli unilaterali, sono annullabili su istanza dell’incapace o
di un erede o avente causa, solo se si prova che dall’atto derivi un grave
pregiudizio per l’incapace (art. 428 comma I).
• I contratti sono annullabili su istanza dell’incapace o dei suoi eredi o aventi causa
solo se si prova, oltre al pregiudizio per l’incapace, anche la mala fede dell’altro
contraente, il quale conosceva o avrebbe potuto conoscere con ordinaria diligenza lo
stato di infermità della controparte (art. 428 comma II). 

La legge considera l’incapacità naturale non come fattore che altera la volontà, ma come
possibile fattore di alterazione della causa dell’atto o del contratto. Sono però annullabili
solo se conclusi, per effetto dell’incapacità della parte, a condizioni gravemente
pregiudizievoli per essa (es. se da ubriaco vendo un bracciale a cui tengo molto, ma lo vendo
ad un prezzo ragionevole, il contratto è valido poiché non c’è pregiudizio nei miei confronti).

Per i contratti quindi non è sufficiente dimostrare il pregiudizio arrecato all’incapace, è
necessario provare anche la mala fede della controparte. In questo modo viene tutelato chi,
ignorandone l’incapacità, ha contrattato con l’incapace; l’interesse di quest’ultimo infatti
viene sacrificato a vantaggio di una vasta e più sicura circolazione dei beni. Fa eccezione la
donazione fatta dall’incapace, che è annullabile anche quando la controparte fosse ignara
dello stato dell’incapace (art. 775).
Se lo stato di incapacità naturale è stato provocato dalla controparte, o da un terzo, con
consapevolezza o meno dell’altro contraente, il contratto non è semplicemente annullabile,

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bensì nullo per violenza fisica, è nullo anche in mancanza del grave pregiudizio per
l’incapace (es. se faccio ubriacare un mio amico tutti i suoi contratti sono nulli).
13.4 I vizi del consenso: a) l’errore motivo e l’errore ostativo

Il contratto, o l’atto unilaterale, è annullabile se la volontà di una delle parti è stata dichiarata
per errore o carpita con dolo o estorta con violenza (art. 1427).

Questi sono i vizi della volontà (o del consenso), vizio indica il fatto che la volontà del
contraente è presente ma il suo processo formativo è stato alterato, la volontà risulta quindi
viziata.
Dell’errore bisogna distinguere due specie: l’errore motivo e l’errore ostativo.

L’errore motivo è quello che sorge nella formazione della volontà, prima che questa venga
dichiarata all’esterno : consiste in una falsa rappresentazione della realtà che induce il soggetto a
dichiarare una volontà che altrimenti non avrebbe dichiarato. L’errore motivo per rendere il
contratto annullabile deve essere un errore essenziale (art. 1428), cioè deve essere
determinante del volere, tale per cui il contraente se non fosse caduto in errore non avrebbe
mai concluso il contratto. L’errore è essenziale se cade su una delle quattro ipotesi che la legge
prevede all’art. 1429 (ma l’elencazione legislativa è considerata solo esemplificativa):
1) Sulla natura o sull’oggetto del contratto. Il primo errore riguarda il tipo (la
natura) del contratto che si intende concludere (es. pensavo di comperare invece ricevo
un leasing). Il secondo riguarda la prestazione (l’oggetto) del contratto l’oggetto del
contratto (es. ho comprato un biglietto pensando si vedesse un certo film invece se ne
vede un altro). 

2) Sull’identità dell’oggetto o su sue qualità. Riguardo l’identità dell’oggetto si può
fare l’esempio secondo cui io voglio comprare una casa in un tal edificio, ed effettivamente
compro una casa in quell’edificio, ma pensavo di comprare un appartamento diverso (non
c’è quindi errore sull’oggetto, ma sull’identità dell’oggetto). Riguardo le qualità, esse
devono, date le circostanze, ritenersi determinanti del consenso (es. non avrei comprato
quel quadro se avessi saputo fosse un imitazione e non l’originale). 

È irrilevante l’errore sul valore dell’oggetto(es. ho pagato una cosa, sbagliandomi,
molto meno di quanto vale in realtà), mentre assume importanza quando il reale valore
dell’oggetto venga mascherato con raggiri dalla controparte o da un terzo (nel caso del
terzo solo se il venditore ne era consapevole), in questo caso il contratto è annullabile
per dolo ai sensi dell’art. 1439. Diverso è l’errore sul prezzo che è errore ostativo (es.
pensavo di pagare 100 $ invece pago 100 €).
3) Sull’identità o sulle qualità personali dell’altro contraente. L’errore
sull’identità ricorre quando si crede di contrarre con un soggetto invece contratta con
un altro. L’errore sulle qualità personali dell’altro contraente ricorre ad esempio quando
si crede che questi goda di un’ottima condizione economica che invece non possiede. È
un errore ricorrente nei contratti intuitu personae, quando cioè l’identità o le qualità
dell’altro contraente siano determinanti ai fini del consenso (es. non faccio un mutuo ad
un nullatenente). 

Per i c.d. contratti personali l’identità o le qualità personali del contraente sono
sempre determinanti del consenso: basta solo la prova dell’errore sull’identità del
contraente o l’errore sulle sue qualità personali, anche non essenziale ai fini del

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consenso, per determinare l’annullabilità del contratto, essendo l’identità del contraente
inerente all’essenza stessa del contratto (es. mutuo, locazione, appalto) . 

4) Sui motivi dei contratto, se si tratta di errori di diritto. Le ipotesi fin ora
descritte, interessano i c.d. errori di fatto, determinati da una falsa conoscenza dei fatti,
cose o persone, vi sono poi gli errori di diritto. I motivi sono di norma non presi in
considerazione dal diritto, lo sono quando sono motivi inficiati dall’ignoranza o dalla
falsa conoscenza di una norma di legge o regolamento e costituiscono la ragione
esclusiva o principale del contratto (es. compro una casa volendoci costruire una villa,
invece quel terreno, secondo il piano urbanistico comunale, è adibito a coltivazione).
L’errore sui motivi è irrilevante quando si tratta di errore di fatto (es. vendo casa pensando di
trasferirmi per lavoro ma alla fine non mi trasferisco). Un eccezione a tale principio è la
donazione (art. 787), qui ha rilievo l’errore di fatto sui motivi, se questo risulta dall’atto e sia
stato il solo motivo che ha determinato la liberalità.

Perché il contratto sia annullabile, oltre che essenziale, l’errore deve essere
riconoscibile mediante l’ordinaria diligenza dall’altro contraente (art. 1431), in questo
modo viene protetto la fiducia dell’altro contraente riguardo la validità del contratto e, più in
generale, la sicurezza nella circolazione dei beni. Nel caso l’errore non sia riconoscibile dalla
controparte, il primo soggetto rimane vincolato al contratto. Vanno considerati a questi
effetti, il contenuto e le circostanze del contratto, nonché le qualità dei contraenti (art. 1431).

L’errore ostativo è, invece, l’errore che ricade sulla dichiarazione esterna della volontà,
oppure è l’errore commesso dalla persona o dall’ufficio incaricato di trasmettere la
dichiarazione. Nel primo caso l’errore è commesso dal dichiarante (es. scrivo che vendo a
100 invece voglio vendere a 1000), nel secondo caso l’errore è commesso da un terzo (es.
l’ufficio trascrive 100 anziché 100).
Il codice civile italiano (solo quello italiano) equipara l’errore motivo all’errore ostativo,
quindi quest’ultimo rende annullabile il contratto solo se riconoscibile dalla controparte (art.
1433).

13.5 Continua: il dolo e la violenza morale

Si parla di dolo come vizio del consenso in senso di «inganno», qui un contraente è indotto in
errore dai raggiri usati dall’altro contraente o da un terzo.
Si parla di dolo determinante ai fini del consenso, tale cioè che senza di questo il
contraente non avrebbe mai aderito al contratto, in questo caso il contratto è annullabile (art.
1439 comma I). Possiamo anche avere dolo incidente, cioè tale che senza raggiri il
contraente raggirato avrebbe comunque aderito al contratto ma ad altre condizioni, in questo
caso il contratto è valido ma la controparte è tenuta al risarcimento dei danni subiti dal
raggirato (art. 1440). Nel dolo non occorre che l’errore sia essenziale.
Il raggiro del terzo, perché il contratto sia annullabile, deve essere noto, e non solo
riconoscibile, al contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 1439 comma II). Basta che il
soggetto ne fosse a conoscenza, non è necessario che abbia cospirato con il terzo
nell’architettare il raggiro.

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Si parla di dolo omissivo quando il contraente sia indotto in errore da un comportamento


puramente omissivo dell’altro, quando cioè non vengono fornite informazioni la cui
conoscenza avrebbe scoraggiato il contraente raggirato dal concludere il contratto
(es.imprenditore, ritenuto da tutti solvibile, compra un immobile a credito non dicendo al
venditore di essere fallito). Per il contratto di assicurazione esiste una norma espressa all’art.
1892, per cui la semplice reticenza dell’assicurato è causa d’annullamento del contratto. Per
tutti gli altri contratti vale il principio secondo il quale le parti devono comportarsi secondo
buona fede (art. 1337), e ciò comporta un reciproco dovere di informazione, il dolo omissivo
è causa di annullamento del contratto ogni qual volta, date le circostanze, si ritiene che il
contraente fosse obbligato a fornire le informazioni omesse.
Il dolus bonus consiste nelle esagerate vanterie delle qualità del proprio bene o della
propria attività professionale che accompagnano l’offerta di un bene o di una prestazione (es.
il venditore che afferma l’indistruttibilità della sua stoffa). Una persona di media diligenza sa
che il più delle volte le caratteristiche vantate dal venditore non corrispondono al vero e sono
frutto di esagerazione, poiché il diritto tiene conto del comportamento dell’uomo medio
nessuno potrà in questi casi chiedere l’annullamento del contratto.
La violenza morale consiste nell’estorcere il consenso di un soggetto con la minaccia che,
se il consenso non verrà prestato, verrà inferto un male alla sua persona o ai suoi beni oppure
alla persona o i beni dei suoi familiari. È differente dalla violenza fisica (che esclude la
volontà del dichiarante e comporta la nullità), la violenza morale è il mezzo con cui si
costringe una persona a dichiarare una propria volontà sotto ricatto e produce
l’annullabilità del contratto.

Il male minacciato può essere un male alla persona (es. ti uccido), può riguardare i beni (es. ti
brucio la casa) e può riguardare la persona o i beni di terzi vicini al soggetto minacciato. Il
male però, per poter parlare di violenza morale, deve essere un male ingiusto (art. 1435),
cioè contrario al diritto. Analoga ipotesi è quella della minaccia di far valere un diritto, in
questi casi il contratto è annullabile, solo se la minaccia è diretta a realizzare un vantaggio
ingiusto (es. ti licenzio se non accetti questo contratto) (art. 1438).
Deve poi trattarsi di un male notevole (art. 1435), deve cioè essere superiore al danno che
il contratto estorto ha prodotto al minacciato. Tale valutazione è da valutare secondo
l’impressionabilità dell’uomo comune, la minaccia cioè deve essere tale da impressionare una
persona sensata, con riguardo all’età, al sesso, e alla condizione della persona (art. 1435). (es.
la minaccia “ti do un pugno se non firmi il contratto” può non impressionare un uomo medio,
può invece impressionare una persona anziana.)
La violenza può essere opera di un terzo (art. 1434), ma non è necessario, ai fini
dell’annullamento del contratto, che la minaccia di questo sia nota al contraente che ne ha
tratto vantaggio, si tutela così la vittima della violenza.

Non è causa di annullamento il semplice timore riverenziale (art. 1437), per cui non si dice di
no per la posizione di soggezione psicologica che colui che accetta possiede, nei confronti di una
persona autorevole o potente, o per la particolare relazione che intercorre con essa (es. contratto
con i propri genitori), l’uomo medio trova in questi casi il coraggio di dire di no.
Il contratto è invece annullabile nel caso il personaggio importante invece, pur senza esplicite
minacce, lasci intendere che dal suo consenso dipenda la sua carriera (es. contratto con il
proprio capo e possibile mancata promozione). Anche l’avvertimento mafioso, ad opera di un
esponente della malavita, vale come minaccia e quindi rende annullabile il contratto.

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13.6 Conseguenze della nullità e della annullabilità

Le conseguenze prodotte da nullità e annullabilità, sono profondamente diverse.

Legittimazione all’azione
• Nullità: è legittimato chiunque, anche terzo, che ve ne abbia interesse (art. 1421)
• Annullabilità: è legittimata solo la parte a favore della quale è prevista
l’annullabilità (art. 1441 comma I); può essere chiesta da un qualsiasi soggetto
interessato solo nei casi di interdizione legale per i condannati all’ergastolo o a pene
superiori ai cinque anni (art. 1441 comma II).
Rilevabilità d’ufficio
• Nullità: può essere rilevata d’ufficio dal giudice quando un contratto è dedotto in
giudizio, anche senza l’apposita domanda (art.1421).
• Annullabilità: l’annullamento può essere pronunciato dal giudice solo domanda o
eccezione della parte legittimata.
Prescrizione
• Nullità: l’azione di nullità è imprescrittibile (art.1422)
• Annullabilità: l’azione di annullamento ha termine di prescrizione di 5 anni (art. 1442) 

Varia però il termine di decorrenza della prescrizione: l’incapace legale e la vittima di
un vizio del consenso sono più protetti, la prescrizione decorre dalla cessazione dello
stato di incapacità legale e dalla data di scoperta del vizio portato dall’altro contraente.
Minore è la protezione in ogni altro caso, in quanto la prescrizione decorre dalla data
del contratto (art. 1442 comma III). 

La prescrizione riguarda l’azione non l’eccezione: può essere chiesto l’annullamento
anche in seguito a cinque anni, se solo dopo questo tempo, eccepita la causa di
annullamento, l’altro contraente domanda esecuzione del contratto (art. 1442).
Riguardo gli effetti della sentenza di nullità, essa opera retroattivamente (elimina ogni
effetto del contratto) sia fra le parti sia rispetto ai terzi, anche se questi sono in buona fede,
ossia ignoravano le cause di nullità. È il caso di chi abbia comprato un bene da una persona
che, a sua volta, l’aveva comperato con un contratto affetto da nullità: la nullità del
precedente contratto travolge il contratto successivo e i diritti acquistati tramite esso.
La sentenza di annullamento del contratto opera retroattivamente solo tra le parti e
rispetto ai terzi in mala fede (che conoscevano o avrebbero potuto conoscere le cause di
annullabilità del contratto). Non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede (art.
1445). Se però il terzo ha acquistato i diritti a titolo gratuito, anche se in buona fede, o se
l’annullamento dipende da incapacità legale, la sentenza di annullamento produce gli stessi
effetti della sentenza di nullità (art. 1445).
Il contratto affetto da una causa di annullabilità può essere convalidato con l’effetto di
sanare il contratto e di precludere l’azione di annullamento. Può essere convalidato in due
modi: o con una espressa dichiarazione di convalida ad opera della parte cui spetta
l’azione di annullamento (art. 1444 comma I), oppure in modo tacito, quando la parte cui
spetta l’azione di annullamento dà volontariamente esecuzione del contratto pur conoscendo
la causa di annullabilità (art. 1444 comma II), se in seguito venga domandato l’annullamento
del contratto, la controparte potrà eccepirgli l’avvenuta tacita convalida del contratto.
All’opposto non può essere convalidato il contratto nullo (art. 1423), eccetto la donazione.

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Il contratto nullo è suscettibile di conversione. Accade quando un contratto, dichiarato


nullo come contratto di un dato tipo, presenta i requisiti di un altro tipo contrattuale idoneo
allo scopo perseguito dalle parti (art. 1424) (es. una subenfiteusi, nulla come subenfiteusi, si
può convertire in locazione).
La conversione del contratto è applicazione di un più generale principio, quello della
conservazione del contratto: la legge tende affinché sia possibile attribuire effetti ad una
dichiarazione di volontà, esprimendo il proprio favore per la conclusione degli affari e la
circolazione di ricchezza.
Il principio di conservazione del contrato trova applicazione anche nei contratti plurilaterali,
in quanto la nullità (art. 1420) o l’annullabilità (art. 1446) della partecipazione al contratto di
una delle parti non comporta nullità dell’intero contratto, se la sua partecipazione al contratto
non sia essenziale.
Le cause di nullità che investono singole clausole del contratto comportano la nullità della
clausola e non dell’intero contratto (c.d. nullità parziale) nei casi in cui:
• Non si tratti di clausola essenziale, senza la quale le parti non sarebbero giunte al
contratto (art. 1419 comma I).
• Se le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative di legge (art. 1419
comma II). Si esplica il principio di integrazione del contratto (art. 1374), per cui il
contenuto di questo è determinato direttamente anche dalle disposizioni di legge (es.
se in un contratto fosse posta una clausola secondo cui il debitore non è responsabile
per dolo o colpa grave questa sarebbe nulla e non si porrebbe il problema della nullità
del contratto, art.1229). 

Alla dichiarazione di nullità o annullabilità segue il diritto delle parti di ripetere le
prestazioni eventualmente eseguite. L’azione di ripetizione si prescrive in dieci anni, ciò
contrasta con imprescrittibilità dell’azione di nullità, dato che una volta che l’azione di
ripetizione si è prescritta non servirà a niente ottenere la nullità del contratto.

Capitolo quattordicesimo

EFFICACIA E INEFFICACIA DEL CONTRATTO
14.1 Invalidità e inefficacia del contratto

Dall’invalidità del contratto bisogna distinguere la sua inefficacia. Il contratto invalido è


anche inefficace, la sentenza che dichiara la nullità o che pronuncia l’annullamento del
contratto lo rende improduttivo di effetti ed elimina anche gli effetti prodotti nel frattempo
(effetto retroattivo della sentenza), salvo nel caso dell’annullamento i diritti acquistati a titolo
oneroso da terzi in buona fede. Può comunque accadere che un contratto, sebbene valido, sia
inefficace, ossia non produttivo di effetti. Le cause che possono provocare l’inefficacia di un
contratto valido, o di sue singole clausole sono molteplici e sono diverse le forme di
inefficacia che possono provocare.
Un contratto può essere temporaneamente o definitivamente inefficace. Esistono
forme di inefficacia assoluta, che operano sia tra le parti sia nei confronti dei terzi, e
forme di inefficacia relativa, che agiscono solo nei confronti di terzi o determinati terzi (si
parla in questo caso di inopponibilità).

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Le cause che producono inefficacia sono a volte le stesse cause che producono la nullità del
contratto. Può infatti accadere che la contrarietà del contratto a norme imperative non trovi
nella legge l’invalidità ma l’inefficacia (esempio: vendita immobiliare conclusa in violazione
di una prelazione legale).
Non sono nulle, bensì inefficaci, per l’art. 1341 comma I, le condizioni generali di contratto
predisposte da uno dei contraenti e non conosciute, ne conoscibile dall’altra parte. A rigore,
mancando il requisito fondamentale del consenso di uno dei contraenti, il contratto dovrebbe
essere giudicato nullo, in linea con l’art. 1418 comma II. Allo stesso modo sono considerate
le clausole vessatorie non approvate per iscritto (art. 1341 comma II).
14.2 Termine e condizione del contratto

Per ciò che riguarda le cause di inefficacia che agiscono nel tempo possiamo distinguere le
cause di inefficacia iniziale e cause di inefficacia sopraggiunta. Le prime ritardano
l’efficacia del contratto (termine iniziale) o rendono possibile, anche se incerta, una
successiva efficacia (ponendo una condizione sospensiva). Le seconde invece privano di
effetti un contratto inizialmente efficace (termine finale e condizione risolutiva).
L’efficacia iniziale del contratto può essere subordinata dalle parti, ponendo un’apposita
clausola, al raggiungimento di un termine (termine iniziale). I contratti sottoposti a termine
iniziale sono già perfezionati quando le parti manifestano concordemente la propria volontà,
ma la loro efficacia è subordinata al raggiungimento di termine stabilito (es. stipulo contratto
di locazione il 10/09, il contratto però sarà efficace dal 1/10). Il termine finale invece limita
nel tempo l’efficacia del contratto, il contratto cessa di essere efficace a seguito del
raggiungimento del termine prestabilito (es. locazione che termina il 31/12) .
La condizione è un avvenimento futuro ed incerto al verificarsi del quale è subordinata
l’iniziale efficacia del contratto, o di una sua clausola, (condizione sospensiva), oppure il
cessare degli effetti del contratto o di una sua clausola (condizione risolutiva).
La condizione e il termine svolgono una funzione analoga, la differenza sta nel fatto che la
condizione è un avvenimento futuro ma di natura incerta, può accadere o no, ponendo
incertezza sull’efficacia o inefficacia del contratto (art. 1353) (es. stipulo un contratto di
vendita di un terreno a condizione che quel terreno diventi edificabile secondo il piano
urbanistico comunale, può diventarlo come no).
L’avvenimento futuro deve consistere in un evento che non è ancora accaduto, ma può
consistere anche nell’accertamento futuro di un fatto già avvenuto del quale però non si ha
notizia al momento della conclusione del contratto, come nel caso in cui sia posta in
condizione la sorte di una cosa data per dispersa. L’incertezza può essere di vario grado: può
essere incerto sia il “se" sia il “quando" dell’avvenimento futuro, ma può essere incerto il
“se” e certo il “quando”, come nel caso in cui sia posta in condizione la permanenza in vita di
una persona ad una fissata data.

Se la condizione non dipende dalla volontà delle parti si parla di condizione causale, in
caso contrario si avrà una condizione potestativa, ossia dipendente dal futuro
comportamento volontario di una delle parti (es. ti vendo la casa se mi trasferisco). È nullo il
contratto sottoposto a condizione meramente potestativa, cioè consistente nel puro
arbitrio di una delle parti (art. 1355) (es. ti venderò la casa se deciderò di venderla) poiché
manca in questi casi una volontà attuale nel voler acquistare un diritto o di assumere un
obbligazione. Se contratti del genere fossero validi uno dei contraenti si troverebbe in balia
dell’arbitrio dell’altra parte.

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La condizione illecita (risolutiva o potestativa), ossia contraria alle norme imperative,


all’ordine pubblico o al buon costume rende nullo il contratto (art. 1354 comma I).

È impossibile la condizione che consista in un evento irrealizzabile. Bisogna però fare una
distinzione: la condizione impossibile sospensiva rende il contratto nullo mentre una
condizione impossibile risolutiva si considera come non posta (art. 1354 comma II), il
contratto è efficace ma non sottoposto a condizione.
Finché perdura lo stato di incertezza sul verificarsi o no della condizione, si dice che questa
pende. Le parti si trovano in pendenza della condizione, uno stato di aspettativa
giuridicamente protetto. Chi ha acquistato un diritto sotto condizione sospensiva, o si è
assunto un’obbligazione sotto condizione risolutiva, può, in pendenza della condizione,
compiere atti conservativi (art. 1356)(es. richiesta di sequestro conservativo della cosa che
se si pensa che l’altro contraente possa vendere il bene). La stessa aspettativa può formare
oggetto di disposizione: chi ha acquistato un diritto con contratto sottoposto a condizione
sospensiva o chi ha alienato un diritto con contratto sottoposto a condizione risolutiva può, in
pendenza della condizione, alienarlo ad un terzo, e gli effetti di questo atto di disposizione
sono subordinati anch’essi alla medesima condizione (art. 1357). Perché il terzo acquisti un
diritto condizionato è necessario che la condizione gli sia opponibile, ossia che il contratto
condizionale sia menzionato nel contratto con il terzo, o in mancanza, che fosse stato
trascritto nei registri immobiliari prima del nuovo contratto. Se così non fosse il terzo
acquisterebbe un diritto incondizionato e l’alienante dovrà il risarcimento dei danni al suo
contraente per l’inadempimento contrattuale.
In pendenza della condizione le parti devono comportarsi secondo buona fede (art. 1358).
In particolare devono astenersi dai comportamenti che possano impedire il verificarsi della
condizione: se la condizione non di avvera per causa imputabile, anche per semplice colpa,
alla parte che aveva interesse a che non si verificasse, essa si considera avverata (art. 1359) e
l’altro contraente può pretendere l’esecuzione del contratto (finzione di avveramento).
Gli effetti dell’avveramento della condizione retroagiscono alla data del contratto (art. 1360),
il che significa che il diritto acquistato si considera acquistato sin dal momento della
conclusione del contratto, i frutti sono però dovuti solo dal giorno in cui la condizione si è
avverata (art. 1361 comma II) e acquistano piena efficacia gli atti di disposizione compiuti in
pendenza della condizione.
Il codice civile regola solo la condizione volontaria, cioè quella apposta per volontà delle
parti (art. 1353). È invece condizione legale, quando è la stessa legge a subordinare
l’efficacia del contratto ad un avvenimento futuro ed incerto. È il caso dei contratti conclusi
con la P.A., la cui efficacia è subordinata all’approvazione da parte delle autorità di controllo.
La condizione legale, non ha effetto retroattivo, ed ad essa non si ritiene applicabile la
finzione di avveramento (se la condizione non si realizza per negligenza della PA, il contatto
non è comunque efficace).

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14.3 La simulazione del contratto

Una causa di radicale e definitiva inefficacia del contratto è la simulazione del contratto. I
contraenti con le loro dichiarazioni creano solo parvenze esteriori di un contratto del quale
non vogliono gli effetti (art. 1414 comma I), oppure creano le parvenze esteriori di un
contratto diverso da quello da essi realmente voluto (art. 1414 comma II). La simulazione
può assumere tre forme:
• Simulazione assoluta (art. 1414 comma I): ricorre quando le parti concludono un
contratto e, con segreto e separato accordo (controdichiarazione), dichiarano di non
volerne alcun effetto. Il loro intento è solitamente quello di creare dinnanzi ai terzi
l’apparente trasferimento di un diritto o assunzione di un obbligazione, di una parte
rispetto l’altra. Possono esserci diverse ragioni alla base, alla simulazione assoluta
ricorre solitamente chi voglia nascondere i propri beni ai creditori o al fisco per
sottrarli alle loro pretese. Alla simulazione si fa ricorso anche per eludere un divieto di
legge o un’obbligazione contrattuale di non fare. 

• Simulazione relativa (art. 1414 comma II): si ha quando le parti creano l’apparenza
di un contratto diverso da quello che esse realmente vogliono. Si hanno due contratti,
quello simulato, che crea l’apparenza e di cui le parti non vogliono gli effetti, ed il
contratto dissimulato di cui le parti vogliono gli effetti. I due contratti possono
differire per tipo contrattuale (es. vendita simulata anziché donazione, perché
l’imposta sulla donazione è molto gravosa) e possono essere dello stesso tipo, ma con
diverso contenuto (es. vendita simulata a 100, vendita dissimulata a 150) . 

• Interposizione fittizia di persona. È un tipo di simulazione relativa che investe
l’identità delle parti: nel contratto simulato appare come contraente un soggetto, detto
interposto, che è persona diversa dal reale contraente, detto interponente. Ad esempio
il caso in cui un soggetto voglia acquistare un bene senza renderlo disponibile alle
pretese dei propri creditori, lo intesta ad un prestanome ma lo usa come fosse
proprietario (intestazione fittizia). 

La volontà di concludere un contratto simulato risulta da un apposito accordo di simulazione:
la controdichiarazione. Nel caso della simulazione assoluta le parti dichiarano di non
volere gli effetti del contratto fra esse concluse, nella simulazione relativa dichiarano di
volere, in luogo del contratto simulato, un diverso contratto.
La simulazione è causa di inefficacia solo relativa del contratto: determina
conseguenze molto diverse tra le parti e nei confronti dei terzi.
• Fra le parti il contratto simulato è inefficace (art. 1414 comma I), e se si tratta di
simulazione relativa o interposizione, l’inefficacia del contratto simulato comporta
l’efficacia del contratto dissimulato, sempre che sussistano i requisiti necessari
per la sua validità (art. 1414 comma II).
• Nei confronti dei terzi il contratto simulato può, a seconda dei casi, essere efficace
oppure inefficace. È inefficace rispetto quei terzi i cui diritti sono pregiudicati dal
contratto simulato, quali ad esempio i creditori del simulato alienante (art. 1415 comma
II), è invece efficace rispetto a quei terzi che, in buona fede, hanno fatto affidamento

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sull’apparente validità del contratto simulato, quali ad esempio i compratori in buona


fede di una casa precedentemente oggetto di vendita simulata (art. 1415 comma I, art.
1416 comma I).
La prima regola mira a sventare gli eventuali danni che con il contratto simulato sono stati
arrecati a terzi. La seconda regola risponde invece alle esigenze delineate dal principio sulla
sicurezza della circolazione dei beni, per cui l’inefficacia del contratto è in opponibile ai terzi
in buona fede.
La simulazione non è opponibile ai creditori del simulato acquirente (art. 1416 comma I) che
possono agire contro di lui.
In caso di contrasto tra creditori del simulato alienante e acquirenti del simulato acquirente la
simulazione non può essere opposta dai creditori del simulato alienante agli acquirenti del
simulato acquirente che in buona fede abbiano acquistato diritti dal titolare apparente
(contrasto tra prima e seconda regola) prevale quindi la regola che vuole una sicura
circolazione dei beni.
Nel caso insorgano conflitti tra i creditori del simulato alienante e i creditori del simulato
acquirente, prevalgono i primi se il loro credito è anteriore all’atto simulato (art. 1416 comma
II), in quanto è necessario che l’affidamento fondato sulla realtà deve prevalere su quello
fondato sull’apparenza.

Per ciò che riguarda la prova della simulazione, le parti non possono dare prova per
testimoni dell’accordo di simulazione tra esse intervenuto, ed in mancanza di prove scritte,
l’unico mezzo è il giuramento o la confessione. I terzi possono provare la simulazione anche
per testimoni, le parti sono ammesse a provare per testimoni solo quando il contratto simulato
sia illecito (art. 1417), allo scopo di favorire la dichiarazione di nullità del contratto.
Le norme sulla simulazione del contrattosi applicano anche agli atti unilaterali destinati a
persona determinata (unilaterali recettizi) , se sono simulati per accordo fra il dichiarante e
il destinatario della dichiarazione (art. 1414 comma III) (es. una emissione di falsa fattura per
ottenere esenzioni fiscali). Non è possibile parlare di simulazione per gli atti unilaterali non
recettizi, come la promessa al pubblico, mancando un determinato destinatario della
dichiarazione, con cui stabilire l’accordo della simulazione.
14.4 Il contratto fiduciario e il contratto indiretto

Si parla di contratto fiduciario quando la causa del contratto eccede lo scopo che le parti
intendono perseguire col contratto. L’eccesso della causa rispetto allo scopo risulta da uno
specifico patto intercorso tra le parti (patto fiduciario), che ha lo scopo di riportare il contratto
entro i limiti dello scopo dei contraenti. È il caso della vendita a scopo di mandato a vendere:
Tizio vende a Caio, con il patto che Caio, a sua volta, venda a Sempronio. Sono questi casi di
fiducia cum amico, si parla invece di fiducia cum creditore quando il contratto fiduciario
intercorre tra debitore e creditore, in cui il primo vende un bene al secondo a patto che, estinto il
debito, il creditore rivenderà il bene al debitore (vendita a scopo di garanzia).

Il contratto fiduciario, a contrario del contratto simulato, mira ad effetti realmente voluti dalle
parti. È in linea di principio, valido ed efficace e in caso di inadempimento del patto
fiduciario si potrà agire in giudizio per l’adempimento. Il patto fiduciario ha però efficacia
meramente obbligatoria, non efficacia reale, nel senso che vincola solo le parti (non è

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opponibile a terzi). Se il fiduciario, violando il patto, vende ad un terzo, questi acquista


validamente ed il fiduciante potrà chiedere solamente il risarcimento dei danni.
Il contratto fiduciario è nullo quando si rivela essere il mezzo per eludere l’applicazione di
una norma imperativa, rivelandosi come contratto in frode alla legge.

Si parla di contratto indiretto quando un determinato contratto è utilizzato dalle parti per
realizzare una funzione diversa da quella corrispondente alla sua causa (es. cosa venduta ad
un prezzo irrisorio, la vendita assume la forma della donazione). Esso risulta nullo se
concluso in frode alla legge.
La differenza con il contratto simulato risiede nel fatto che qui la volontà dei contraenti non
si dissocia tra dichiarazione e controdichiarazione, ma si manifesta in un unico atto di volontà
in cui traspare il reale intento delle parti.
14.5 I contratti tra professionista e consumatore

Nuove cause di inefficacia del contratto sono state introdotte in esecuzione di una direttiva
comunitaria per una maggiore tutela delle esigenze di protezione del consumatore.

La materia è regolata da “Codice del consumo” in riferimento al contratto che intercorre tra:

• Un professionista: persona fisica o giuridica, privata o pubblica, che nell’ambito


della sua attività imprenditoriale o professionale conclude contratti aventi per oggetto
la cessione di beni o la prestazione di servizi. 

• Un consumatore: persona fisica che si procura per contratto i beni o i servizi del
professionista per utilizzarli a fini fini personali. 

Il contratto tra soggetti così qualificabili è valutato come contratto con il quale il contraente
forte (il professionista) può avvalersi della propria forza contrattuale per imporre al
contraente debole (il consumatore) condizioni contrattuali, che, creerebbero uno squilibrio
dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, violando il dovere di buona fede.
È definita clausola vessatoria quella che all’interno del contratto provoca un
«significativo squilibrio» dei diritti e degli obblighi reciproci; tale lo squilibrio è inteso in
modo oggettivo, basta la sua esistenza, non è infatti richiesto alcun elemento d’ordine
soggettivo come la volontà del professionista di approfittare del consumatore. Inoltre lo
squilibrio di cui si parla non è lo squilibrio economico, è precisato che «la valutazione del
carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto,
né all’adeguatezza dei beni e dei servizi», non riguarda cioè la quantità o qualità dei beni o
servizi ma all’equilibrio dei dei diritto o doveri che discendono dal contratto. 

La legge comunque ammette una serie di presunzioni relative, che ammettono la prova
contraria del professionista. Si presumono vessatorie, fino a prova contraria, venti clausole
espresse all’art.33 del Codice del consumo, e di particolare importanza risultano la a)
limitazione della responsabilità del professionista per danni arrecati al consumatori derivanti
da fatti od omissioni a lui ascrivibili; b) escludere o limitare azioni o diritti del consumatore
nei confronti del professionista in caso di mancato o inesatto adempimento, l) prevedere
l’adesione del consumatore a clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere prima del
fatto.

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La categoria delle clausole vessatorie resta però una categoria aperta, infatti un consumatore
è sempre ammesso a dimostrare che una clausola provochi un significativo squilibrio dei suoi
diritti o obblighi rispetto a quelli del professionista anche se non ricade nelle ipotesi
espressamente menzionate.
La sorte delle clausole vessatorie è diversa a seconda delle ipotesi, se cioè ricorrono le
clausole a), b) o l), oppure le restanti. Nel primo caso la clausola è sempre e comunque nulla,
negli altri casi è nulla solo se posta unilateralmente dal professionista senza l’approvazione
del consumatore. Se il consumatore sottoscrive un contratto predisposto in precedenza dal
professionista, che presenta clausole vessatorie, sta al professionista dimostrare che le
clausole sono state oggetto di trattativa con il consumatore. La nullità della clausola
vessatoria è un nullità relativa opera a vantaggio del consumatore e può essere rilevata
d’ufficio dal giudice. La nullità della clausola vessatoria non comporta però la nullità del
contratto (si parla di nullità parziale).
Si nota però una divergenza tra il Codice del consumo e l’art.1341 cc, il primo definisce
come vessatorie più clausole ma limitate ai contratti tra consumatore e professionista, il
secondo ha una definizione più ristretta di vessatorietà ma applicabile ad ogni contratto.
Una clausola vessatoria, secondo il II comma dell’art. 1341 per essere efficace deve essere
approvata per iscritto dal consumatore, e solo in questo caso assumono piena efficacia, per le
nuove norme, invece, l’essere vessatoria comporta, generalmente, la nullità della clausola.
L’art.1341, sopravvissuto alle nuove norme del Codice del consumo, trova oramai
applicazione solo nel casi in cui il contratto non sia stipulato tra consumatore e professionista,
in tutti gli altri casi prevalgono le nuove norme.

Capitolo quindicesimo

LA RAPPRESENTANZA
15.1 Il contratto in nome altrui

Può accadere che una o entrambe le parti del contratto siano soggetti diversi dalle parti del
rapporto. È il fenomeno della rappresentanza: un soggetto (rappresentante) partecipa
alla conclusione del contratto con una propria dichiarazione di volontà, un altro soggetto
(rappresentato) subisce gli effetti giuridici del contratto concluso dal rappresentante,
assumendone i diritti o le obbligazioni che ne derivano.
Il potere di rappresentanza può essere conferito volontariamente dall’interessato, si ha in
questo caso rappresentanza volontaria, in altri casi invece deriva dalla legge (art. 1387)
e prende in nome di rappresentanza legale, ad adempio quella dei genitori per il figlio.

Il conferimento della rappresentanza volontaria è un atto di autonomia del rappresentato, che
preferisce affidare ad altri il compito della conclusione di un contratto e accetta di restare
vincolato all’altrui volontà. Nel caso della rappresentanza legale invece, non vi è alcun atto di
volontà, per cui invece di autonomia si parla di eteronomia.
In entrambi i casi si produce lo stesso risultato: il contratto concluso dal rappresentante
«produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato» (art. 1388). Perché ciò
accada occorrono delle condizioni preliminari, il rappresentante deve concludere il contratto:

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«in nome del rappresentato»; «nei limiti delle facoltà conferitegli»;


«nell’interesse del rappresentato» (Art.1388).
Il rappresentante deve contrattare, oltre che per conto, in nome altrui, occorre la c.d.
spendita del nome (contemplatio domini), cioè il contratto deve essere concluso in nome
del rappresentato, e se si tratta di contratto scritto deve essere concluso con la menzione del
suo nome (con formule del tipo: a questo contratto partecipa Tizio in rappresentanza di Caio).
Se un soggetto agisce in nome proprio, anche per conto altrui, il contratto da lui concluso
produrrà effetti nei suoi confronti: sarà lui ad acquistare i diritti e gli obblighi del contratto. 

L’effetto rappresentativo è efficace solo se il rappresentante è investito del potere di
rappresentanza. Nella rappresentanza legale questo potere è inerente ad una qualità del
rappresentante (es. genitore), nella rappresentanza volontaria, invece, tale potere deriva da un
atto volontario del rappresentato, la procura. Questa è un atto unilaterale non
recettizio, con il quale un soggetto investe un altro soggetto del potere di rappresentarlo
(non recettizio significa che è indirizzato ad una generalità di terzi verso cui il rappresentato
legittima il rappresentante ad agire in suo nome).
La procura può essere speciale o generale: la procura speciale riguarda la conclusione di
un determinato affare; la procura generale può riguardare una serie di affari oppure tutti
gli affari del rappresentato, ed in questo caso la rappresentanza generale assume la stessa
estensione della rappresentanza legale. La procura deve avere la stessa forma dei contratti o
del contratto da concludere (art. 1392).

Può accadere che qualcuno contratti come rappresentante altrui senza averne il potere, oppure
che nell’atto di contrattare ecceda i limiti dei poteri conferitigli. Si parla in entrambi i casi di
falso rappresentante. Il contratto concluso da falso rappresentante è invalido (art. 1398)
o inefficace, del tutto improduttivo di effetti.
La persona in nome della quale il falso procuratore ha agito, o i suoi eredi, possono però
ratificare il contratto, con un atto unilaterale (ratifica) destinato a sanare la mancanza di
rappresentanza. Se dichiarata, la ratifica, ha effetto retroattivo: il contratto ratificato
diventa efficace dalla sua data (art. 1399).

L’inefficacia del contratto, salvo ratifica, tende a sacrificare l’interesse del terzo contraente, a
favore del soggetto cui nome era stato indebitamente speso. Il terzo contraente può solo
rivolgersi al falso rappresentante per il risarcimento dei danni per aver confidato
senza colpa nell’efficacia del contratto (art. 1398), ma deve avervi confidato senza colpa,
cioè senza negligenza, la legge infatti gli riconosce il diritto di accertare l’esistenza dei poteri
del rappresentante, nonché la loro estensione (art. 1393). Se egli poteva, con l’utilizzo
dell’ordinaria diligenza, rendersi conto di contrattare con un falso procuratore, non ha diritto
nemmeno al risarcimento del danno.
La responsabilità del falsus procurator è una responsabilità da fatto illecito, rientrante nella
responsabilità precontrattuale. Il danno risarcibile in questi casi è l’interesse negativo che
consiste nel danno provocato dalla mancata contrattazione: una somma corrispondente alla
diminuzione del patrimonio che il terzo contraente non avrebbe subito (danno emergente) e al
vantaggio che il contraente avrebbe ottenuto se non avesse contrattato con il falso procuratore
(lucro cessante). Assumono rilievo dunque le spese sostenute per la contrattazione e il danno
per le occasioni perdute.
Il rappresentato può sempre revocare o modificare la procura. Revoca e modificazione
della procura sono entrambi atti unilaterali che il rappresentato deve portare alla conoscenza

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di terzi con mezzi idonei, altrimenti il contratto concluso dall’ex rappresentante è efficace nei
suoi confronti, salvo la prova che il terzo contraente, al momento della conclusione del
contratto, fosse a conoscenza della revoca o modificazione della procura, o che poteva
saperlo con ordinaria diligenza (art. 1396).
Il rappresentante deve contrattare nell’interesse del rappresentato (art. 1388), non può cioè
concludere contratti in nome del rappresentato nel proprio interesse (o di un terzo). Il che può
accadere quando rappresentante e rappresentato si trovino in una situazione di conflitto di
interessi, quando cioè, l’interesse dell’uno e dell’altro si trovano fra loro in concorrenza e la
realizzazione del primo comporti il sacrificio del secondo. Il contratto concluso dal
rappresentante,in conflitto di interessi è annullabile su richiesta del rappresentato (art. 1394), la
situazione di conflitto di interessi deve essere influente sul contenuto del contratto, e deve essere
noto o riconoscibile da parte del terzo contraente (es. il rappresentante ha una procura per
comprare un dato tipo di merce che produce la società di cui è socio).
Altro caso di conflitto di interessi è quello in cui in rappresentante conclude il contratto
con sé stesso, ha ad esempio una procura per vendere, e vende a sé stesso. Anche in
questo caso il contratto è annullabile.
15.2 Rappresentanza e ambasceria

Il rappresentante agisce per procura del rappresentato e su di questo si producono gli effetti
del rapporto, ragion per cui la capacità legale di agire deve necessariamente essere presente
nel rappresentato (art. 1389 comma II). Se la procura è stata conferita da persona legalmente
incapace di agire, il contratto sarà annullabile. Per ciò che riguarda il rappresentante non è
richiesto abbia la capacità di agire, è sufficiente la capacità naturale (art. 1389 comma I).
Il rappresentante ha il potere di di determinare il contenuto del contratto da concludere. Se la
procura non pone limiti, questo comprende ogni elemento del contratto. Il rappresentante
dichiara, a nome altrui, la propria volontà, ciò significa che i vizi del consenso renderanno
annullabile il contratto solo se si tratta di vizi della volontà del rappresentante (art. 1390).
Allo stesso modo gli stati soggettivi, di buona e mala fede, devono essere considerati con
riguardo alla persona del rappresentante (art. 1391).
Può comunque accadere che alcuni degli elementi del contratto siano predeterminati nella
procura (es. comprerai ad un prezzo di massimo X), in questo caso a determinare il
contenuto del contratto concorrono entrambe le volontà. Il rappresentante dunque dichiara
solo in parte la sua volontà, da ciò deriva una importante conseguenza: i vizi del
consenso che riguardano clausole predeterminate dal rappresentato renderanno annullabile il
contratto solo se risulta viziata la volontà del rappresentato (art. 1390). Stessa cosa vale per
gli elementi soggettivi del contratto.
Si parla invece di ambasceria quando tutto il contenuto del contratto viene stabilito dal
rappresentato e il rappresentante funge da semplice portavoce della volontà di un altro
soggetto. Anche in questo caso i vizi della volontà e gli elementi soggettivi che rilevano sono
quelli del rappresentato. Può rilevare però l’errore ostativo del rappresentante nella
comunicazione della altrui volontà, in questo caso, come per tutti i casi di errore ostativo, il
contratto è annullabile se l’errore era conoscibile dal terzo contraente (art. 1433).


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15.3 Mandato con e mandato senza rappresentanza

La procura è l’atto mediante cui il rappresentante è legittimato ad agire in nome del


rappresentato, non riguarda il rapporto interno fra i due. Il rapporto interno è regolato da un
contratto dal qual e nasce l’obbligo del rappresentante de agire in nome e nell’interesse del
rappresentato. L’ipotesi generale è che tale contrato sia un mandato.
Il mandato è il contratto in base al quale un soggetto, il mandatario, si obbliga a svolgere uno
o più atti giuridici per conto di un altro soggetto, il mandante (art. 1703). Il mandato, salvo
patto contrario, si presume oneroso, è dovuto un compenso al mandatario (art. 1709).

Mandato e procura svolgono due funzioni diverse: il mandato obbliga il mandatario ad agire
per conto del mandante, la procura legittima il mandatario ad agire verso terzi in nome del
mandante (art. 1704).
È comunque possibile che un soggetto conferisca ad un altro un mandato, e non anche una
procura: è il caso del mandato senza rappresentanza o rappresentanza indiretta. In questo
caso il mandatario agisce per conto del mandante ma in nome proprio, con la conseguenza
che gli effetti derivanti dal contratto prodotto con un terzo si produrranno in capo al
mandatario e non al mandante (art. 1704). Il mandatario sarà poi obbligato a trasferire gli
effetti dei contratti conclusi al mandante (spesso la figura del mandatario senza
rappresentanza è usato come prestanome).
Il terzo contraente non può in nessun caso, agire nei confronti del mandante e pretendere da
lui l’esecuzione del contratto concluso dal mandatario senza rappresentanza, neppure se ha
avuto conoscenza del mandato (art. 1705).

L’interesse del mandante è, rispetto quello del terzo contraente, molto più protetto:
• Le cose mobili acquistate dal mandatario senza rappresentanza possono essere rivendicate
direttamente dal mandante anche senza un contratto di trasferimento e anche nei confronti
di terzi, salvi i diritti dei terzi in buona fede (art. 1706 comma I).
• È concesso al mandante di rivendicare i crediti derivanti dal contratto concluso dal
mandatario senza rappresentanza (art. 1705 comma II).
• I beni mobili acquistati dal mandatario senza rappresentanza sono protetti dalle pretese
dei suoi creditori, i quali non possono agire nei suoi confronti se il mandato risulta da
data certa anteriore al pignoramento (art. 1707).
Tali regole non valgono per gli immobili e per i mobili registrati, perché devono essere
iscritti nei pubblici registri. Il mandante poi non può sottrarre questi beni all’azione esecutiva
dei creditori del mandatario, li può sottrarre solo in epoca successiva alla trascrizione
dell’atto di trasferimento o della relativa domanda giudiziale.

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Capitolo sedicesimo

GLI EFFETTI DEL CONTRATTO
16.1 Gli effetti del contratto tra le parti

Dal contratto come atto bisogna passare al contratto come rapporto, ossia al rapporto che
l’accordo tra le parti ha instaurato tra esse. Il contratto è fonte di obbligazione e di diritti delle
parti: l’insieme dei diritti e delle obbligazioni reciproche che nascono dal contratto prende il
nome di rapporto contrattuale. Il contratto, di norma, produce i suoi effetti dal momento
in cui è concluso.
L’adempimento delle obbligazioni assunte con il contratto, prende il nome di attuazione o
esecuzione del contratto, l’adempimento delle obbligazioni è, sotto questo profilo, atto
di esecuzione del contratto mentre l’inadempimento è mancata esecuzione del contratto.
L’esecuzione del contratto può esaurirsi rapidamente o può protrarsi nel tempo. Sotto questo
aspetto bisogna distinguere tra contratti a esecuzione istantanea, contratti ad esecuzione
differita e contratti ad esecuzione continuata o periodica.
• I contratti ad esecuzione istantanea sono quelli il cui adempimento si esaurisce, per
ciascuna delle parti, nel compimento di un solo fatto, simultaneo alla conclusione del
contratto o senza apprezzabile intervallo di tempo rispetto ad essa (es. vendita: pago al
commerciante il prezzo del bene ed egli contestualmente me lo consegna).
• Si parla di contratto ad esecuzione differita quando per l’adempimento di una o
entrambe le prestazioni è posto un termine differito rispetto alla conclusione del contratto.
(es. vendita con pagamento tra 60gg).
• Sono contratti ad esecuzione periodica o continuata i contratti che obbligano una
o entrambe le parti ad una prestazione continuativa o che deve essere periodicamente
ripetuta nel tempo. Continuativa può essere una prestazione di dare (somministrazione), di
fare (contratto di lavoro) o di non fare (contratto di non concorrenza tra imprenditori).
Il contratto, una volta concluso, ha forza vincolante. Il codice civile esprime questo concetto
dicendo che il contratto per le parti ha «forza di legge» (art. 1372 comma I); il contratto è
sì un atto di autonomia privata, a cui le parti possono aderire o meno, ma una volta concluso
le parti sono tenute a rispettarlo allo stesso modo in cui sono tenute ad osservare la legge.
Per sciogliere il contratto occorre un atto di autonomia contrattuale, uguale e contrario al
precedente: è necessario, in linea di principio, il mutuo dissenso, un nuovo accordo tra le
parti volto ad estinguere il già costituto rapporto contrattuale, o, se è stato posto un termine,
ad estinguerlo prima del sopraggiungere del termine stesso.
Il contratto può anche consentire, ad una o ad entrambe le parti, la facoltà di recesso
unilaterale (art. 1373). Questo è l’atto unilaterale, redatto nella stessa forma del precedente
contratto, di una delle parti che, in quanto tale, non necessita dell’accettazione dell’altro
contraente ma scioglie il contratto nel momento in cui viene comunicato (art. 1373).
Nei contratti ad esecuzione istantanea e differita la facoltà di recesso può essere esercitata,
salvo patto contrario, solo prima che il contratto abbia avuto principio di esecuzione (art.
1373 comma I), se ciò è avvenuto, entrambe le parti perdono la facoltà di recesso. Nei

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contratti ad esecuzione continuata o periodica, invece, il recesso è possibile anche se è già


iniziata l’esecuzione ma, salvo patto contrario, non ha effetto per le prestazioni già eseguite o
in corso di esecuzione (art. 1373 comma II). Si può dire quindi dire che il recesso scioglie il
rapporto contrattuale ma senza effetti reatroattivi.
Nei contratti plurilaterali il recesso di una parte non determina lo scioglimento del contratto
se la sua partecipazione al rapporto contrattuale è essenziale.

La clausola che riconosce la facoltà di recesso può prevedere un corrispettivo per il
recesso, in tale caso il recesso è efficace dal momento in cui il corrispettivo è prestato (art.
1373 comma III).

Per ciò che riguarda le modificazioni al contratto, valgono regole analoghe: le parti,
salvo patto contrario, non possono unilateralmente modificare il contratto.

Il mutuo dissenso e la clausola che permette il recesso, però, valgono solo come regola
generale, il contratto può anche sciogliersi «per cause ammesse dalla legge» (art. 1372
comma I). Le cause che legge prevede possono essere di due ordini: alcune riguardano i
contratti a titolo oneroso, e sono la risoluzione e la rescissione del contratto (capitolo
prossimo) , altre concernono i contratti di durata.
I contratti di durata sono quelli che instaurano tra le parti un vincolo destinato a protrarsi
nel tempo. Questi contratti pongono problemi riguardo la protezione della libertà contrattuale
dei contraenti, ed in particolare, del contraente più debole. Il codice civile è ispirato ad un
principio di sfavore nei confronti dei rapporti contrattuali perpetui che vincolano le parti per
tutta la loro esistenza. L’adesione ad un simile contratto equivarrebbe ad una rinuncia della
libertà contrattuale, disponendo, il contraente, con un singolo atto di tutta la sua futura libertà.
La legge per risolvere tali problemi utilizza due figure: il termine finale massimo e il recesso.
Per alcuni contratti ad esecuzione continuata o periodica è considerato requisito essenziale
del contratto un termine di durata, per altri invece è stabilito direttamente dalla legge un
termine massimo di durata (es. locazione max 30 anni).
Per altri contratti è possibile una durata indeterminata ma viene sempre riconosciuta alle parti
la facoltà di recesso. Si deve comunque distinguere tra recesso puro e semplice, atto
unilaterale che non necessita di giustificazione da parte di chi retrocede e il recesso per
giusta causa, che deve essere giustificato dal contraente che recede (es. datore di lavoro
può recedere solo per giusta causa, lavoratore per recesso semplice).
16.2 Continua: contratti con effetti obbligatori e con effetti reali, contratti
consensuali e contratti reali
Il contratto è sia fonte di obbligazioni sia modo in cui si trasferiscono diritti reali.
Per ciò che riguarda propriamente gli effetti del contratto, si possono distinguere: effetti
obbligatori ed effetti reali del contratto. Si parla di effetti obbligatori quando ci si riferisce
alle le obbligazioni che derivano dal contratto (es. nella vendita l’obbligo di custodire e
consegnare la merce). Sono effetti reali, invece, gli effetti prodotti dal contratto al momento
stesso della formazione dell’accordo delle parti: così il trasferimento della proprietà, nella
vendita, è un effetto reale.
Sono contratti con effetti obbligatori, quelli che sono solo fonte di obbligazione tra le parti.
Sono poi contratti con effetti reali quelli che producono l’effetto di trasferire la proprietà o
costituire diritti reali minori, oltre ad essere al tempo stesso fonte di obbligazione.


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Riguardo i contratti con effetti reale, vige il principio consensualistico, espresso dall’art.
1376: «nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento di proprietà, o di una cosa
determinata, o il trasferimento di un diritto reale o di un altro diritto, la proprietà o il
diritto si trasmettono per effetto del consenso delle parti legittimamente
manifestato». (es. nella vendita diventiamo proprietari della cosa al momento della
formazione dell’accordo, il pagamento è solo adempimento ad una obbligazione derivante da
un contratto già efficace, paghiamo per una cosa che è già in nostra proprietà). Le parti
possono utilizzare la vendita con riserva di proprietà, per cui il compratore acquista la
proprietà della cosa solo con il pagamento dell’ultima rata del prezzo.
Affinché operi il principio consensualistico è necessario che il contratto abbia per oggetto
cose determinate (art. 1376), nel caso di beni fungibili la proprietà passerà solo in seguito
all’individuazione di tali beni, fatta d’accordo tra le parti o nei modi da queste stabiliti (art.
1378). L’individuazione avviene generalmente al momento della consegna, ad esempio
nell’acquisto di benzina essa diviene di proprietà del compratore solo nel momento in cui
viene fisicamente inserita nel serbatoio.
Se oggetto è una massa di cose la proprietà si trasferisce secondo il principio
consensualistico, non occorre l’individuazione delle singole cose, anche se a determinati
effetti, come per determinare il prezzo, le cose debbano essere pesate o misurate (art. 1377).
Quando l’oggetto del contratto sono cose da trasportare da un luogo ad un altro,
l’individuazione, e quindi il passaggio di proprietà, avviene al momento della consegna al
vettore o allo spedizioniere (art. 1378).

Stabilire il momento in cui la proprietà passa è fondamentale in quanto il rischio del
perimento della cosa incombe su chi ne è proprietario: sul venditore se ne è ancora
proprietario, sul compratore se ne è già proprietario (principio res perit domino).
Il contratto si perfeziona con l’accordo delle parti, da quel momento esso produce tutti i suoi
effetti, siano essi reali oppure obbligatori. In linea generale, il semplice accordo tra le parti è
sufficiente a perfezionare il contratto, in alcuni casi però, oltre all’accordo è necessaria la
consegna della cosa, che forma oggetto del contratto. I contratti che necessitano anche
della consegna della cosa, oltre che del consenso delle parti, sono i contratti reali, e si
perfezionano solo al momento della consegna. Sono reali il contratto di mutuo, di deposito, di
comodato e il contratto costitutivo di pegno. Nei contratti consensuali, la consegna della cosa
dedotta in oggetto, è adempimento di un obbligo già sorto al momento dell’accordo. Se nulla
è previsto il contratto si presuppone consensuale, per essere reale deve essere espressamente
previsto dalla legge.
Nei contratti consensuali, che si perfezionano con il solo accordo delle parti, la consegna
della cosa che forma oggetto del contratto è solo adempimento ad una obbligazione, nei
contratti reali, invece, il contratto si perfeziona, e quindi sorgono le obbligazioni, solamente
al momento della consegna della cosa.
La consegna della cosa può svolgere anche una specifica funzione nei contratti consensuali.
Se con successivi contratti, una parte concede ai diversi contraenti un diritto personale di
godimento sulla medesima cosa, prevale tra essi il primo che ha conseguito il godimento
della cosa (art. 1380) (es. un soggetto che da in locazione a due persone differenti la stessa
casa, avrà diritto alla locazione il primo che vi si è trasferito).

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16.3 Gli effetti del contratto rispetto ai terzi

Principio generale è che il contratto vincola le parti ma non produce effetto rispetto ai terzi
(art. 1372 comma II), nel senso che nessuno può essere vincolato ad un contratto se non in
forza della sua libera volontà (lato negativo dell’autonomia contrattuale).

Coerente con questo principio generale è la promessa del fatto o dell’obbligazione del
terzo. Chi, per contratto, promette la prestazione di un terzo, esprime una valida promessa,
ma obbliga solo se stesso: se il terzo si rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto promesso, il
promettente dovrà indennizzare il danno subito all’altro contraente (art. 1381) (es. se
vendendo un impresa prometto che la banca continuerà a finanziare).
Il patto di non alienare, contenuto in un contratto, è valido (es. Tizio, ad esempio, vende a
Caio, il quale si obbliga a non rivendere a sua volta). Tuttavia al patto di non alienazione
l’art. 1379 attribuisce effetti limitati. Anzitutto esso ha effetto solo tra le parti, quindi non è
opponibile all’eventuale terzo che ha comprato la cosa dal contraente che ha venduto in
violazione del patto (es. Tizio potrà pretendere da Caio solo il risarcimento del danno per
l’inadempimento contrattuale, non potrà agire contro il terzo per ottenere la cosa). Il patto è
poi valido, solo se il divieto di alienare è contenuto entro certi limiti di tempo e se risponde
ad un apprezzabile interesse di una delle parti, non può avere lunga durata poiché
contraddirebbe il principio di libera circolazione della ricchezza. Per questo sono stabiliti
limiti di tempo a seconda dei casi: più lunghi per gli immobili (arriva fino a venti anni), ma
molto ridotti per i beni mobili di più intensa circolazione. Bisogna precisare che il divieto di
non alienare costituisce l’oggetto di una obbligazione personale negativa, non un peso
imposto sul bene: non può essere costituita una servitù di non alienare.
Altro limite contrattuale alla facoltà di disporre, connesso all’alienazione della cosa, è il
patto di prelazione, patto con cui un soggetto si obbliga nei confronti di un altro per
l’eventualità che egli intenda alienare un proprio bene: prima di alienarlo ad un terzo dovrà
offrirlo, alle stesse condizioni cui il terzo è disposto ad acquistarlo, a chi fruisce del diritto di
prelazione (è spesso previsto nelle s.p.a. che i soci fruiscano di diritti di prelazione reciproci).
Talvolta il diritto di prelazione è espressamente riconosciuto dalla legge, in questi casi si
parla di prelazione legale. Nei casi di prelazione legale il diritto di prelazione è opponibile
ai terzi ed il suo titolare può riscattare la cosa presso il terzo acquirente. La prelazione legale
è perciò prelazione reale, la prelazione contrattuale ha, invece, efficacia meramente
obbligatoria (come il patto di non alienare). Alla offerta in prelazione si attribuisce il carattere
di proposta contrattuale (e non di invito a proporre), il contratto si perfeziona a favore del
destinatario dell’offerta in prelazione quando l’accettazione giunge alla controparte.
Al momento della conclusione del contratto una delle parti può riservarsi la facoltà di
nominare successivamente la persona che acquisterà i diritti o assumerà le obbligazioni
derivanti dal contratto (contratto per persona da nominare) (art. 1401). La nomina del
contraente deve essere fatta entro il termine stabilito o in mancanza entro tre giorni (art. 1402
comma I), e deve essere accompagnata dall’accettazione del terzo (art. 1402 comma II). La
persona nominata e accettante, acquista i diritti e assume le obbligazioni del contratto con
effetto retroattivo dalla data del contratto (art. 1404). In mancanza di nomina o di
accettazione (che deve essere fatta nella forma del contratto, art. 1403), il contratto produce
effetti tra i contraenti originari (art. 1405).

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Nel contratto per persona da nominare non c’è deroga al principio generale della inefficacia
del contratto rispetto ai terzi, perché occorre l’accettazione del terzo. Una eccezione al
principio generale è il contratto a favore di terzo, eccezione giustificata dal fatto che il
terzo non assume obblighi ma acquista soltanto diritti. Le parti sono lo stipulante, colui che
contratta a favore del terzo, e il promittente, colui che si obbliga ad eseguire la prestazione
a favore di un terzo. In questi contratti non occorre l’accettazione del terzo: egli acquista il
diritto verso il promittente per effetto della stipulazione in suo favore (art. 1411 comma II).
È possibile che il terzo dichiari di non voler profittare della stipulazione in suo favore o che
lo stipulante revochi la stipulazione (ma solo fino al momento in cui il terzo non ha ancora
dichiarato di volerne profittare) (art. 1411 comma III). In questi casi la prestazione resta a
beneficio dello stipulante, salvo diversa disposizione delle parti (art. 1411 comma IV).
La stipulazione a favore di terzi è valida solo se lo stipulante vi abbia interesse (art. 1411
comma I), questo perché il suo interesse funge da causa del contratto. L’interesse può
essere sia di natura patrimoniale (es. nel caso del rapporto di provvista, in cui lo stipulante è
debitore del terzo) oppure non patrimoniale (es. rapporti familiari). Il contratto è nullo in
mancanza dell’interesse dello stipulante, ed è nullo anche quando sia nullo il rapporto di
provvista tra terzo e stipulante poiché verrebbe a mancare la causa del contratto.

Capitolo diciassettesimo

RISOLUZIONE E RESCISSIONE DEL CONTRATTO
17.1 La risoluzione del contratto

La causa del contratto può essere onerosa o gratuita. Nel primo caso entrambe le parti si
obbligano reciprocamente all’esecuzione di una prestazione, nel secondo caso solo una delle
parti assume un’obbligazione. Si distingue così tra contratti a titolo oneroso (la maggioranza)
e contratti a titolo gratuito (donazione, comodato, mandato gratuito, ecc.).
La causa dei contratti a titolo oneroso risiede nello scambio tra le prestazioni delle parti,
la stessa idea dello scambio implica una corrispettività tra le prestazioni: ciascuna parte si
obbliga ad una prestazione per avere in cambio la prestazione dell’altra, ciascuna prestazione
è, rispetto all’altra, una controprestazione. Dei contratti a titolo oneroso dunque, si suole
parlare anche come di contratti a prestazioni corrispettive, cioè la prestazione di ciascuna
parte trova giustificazione (o causa) nella prestazione dell’altra.
Il rapporto di corrispettività delle prestazioni è detto sinallagma, indica l’interdipendenza
esistente tra le prestazioni. Il sinallagma costituisce la causa del contratto (sinallagma
genetico), ma si realizza nella fase di esecuzione (sinallagma funzionale). Solo allora lo
scambio previsto e la funzione economico-sociale del contratto si attuano in concreto.
Può però accadere che una delle parti non adempia alla sua obbligazione, o che la sua prestazione
diventi impossibile per causa a lui non imputabile, o che la prestazione di una diventi troppo
onerosa rispetto alla prestazione dell’altra. In questi casi si determina una alterazione della causa
del contratto, per cui lo scambio di prestazioni non può avvenire (o non può avvenire alle
condizioni prestabilite). Si parla in questo caso di difetto funzionale della causa, per
distinguerlo con la sua originaria mancanza o illiceità che sono dette difetto genetico della causa.
Il difetto genetico colpisce il contratto come atto, determinandone la nullità; il difetto funzionale
investe il rapporto contrattuale, manifestandosi in sede di

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esecuzione del contratto e determinando la risoluzione del contratto. Risoluzione significa


scioglimento del contratto, le ragioni che determinano tale situazione sono solo quelle
previste dalla legge (art. 1372), per le quali il contratto può sciogliersi senza necessità del
mutuo consenso delle parti. A differenza della nullità che è una vicenda del contratto come
atto, la risoluzione è una vicenda del rapporto contrattuale come la condizione
risolutiva e il recesso unilaterale, per cui il contratto è valido ma il rapporto tra le parti si
scioglie con effetto retroattivo dalla data del contratto (art. 1458). Rispetto ai terzi, invece,
l’effetto retroattivo non si produce (art. 1458 comma II): chi ha acquistato diritti da una parte
del contratto poi risolto non viene pregiudicato dalla risoluzione. Nei contratti ad esecuzione
continuata o periodica l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite
(art. 1458). Nei contratti plurilaterali la risoluzione non comporta importa lo scioglimento se
la prestazione mancata non debba considerarsi essenziale,.
La legge prevede tre generali cause di risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive:
• Risoluzione per inadempimento
• Risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione
• Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.
Queste tre generali regole di risoluzione, valgono laddove la legge non preveda, nella
disciplina dei singoli contratti, una più specifica figura.
17.2 Risoluzione per inadempimento

L’inadempimento di una parte che permetta all’altra la risoluzione del contratto deve
presentare un requisito ulteriore rispetto al comune concetto di inadempimento: deve trattarsi
di inadempimento di non scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra
parte (art. 1455), occorre cioè che l’inadempimento di una parte sia tale da rendere non
giustificabile la controprestazione dell’altra.
In alcuni casi è la stessa legge a stabilire quando l’adempimento sia di scarsa importanza, tale
da non legittimare la risoluzione del contratto, come nella vendita il mancato pagamento di
una rata non legittima la risoluzione del contratto da parte del venditore. In mancanza di
criteri di legge, sarà il giudice a stabilire, caso per caso, quando l’inadempimento debba
considerarsi, secondo l’art. 1445, di non scarsa importanza.
La risoluzione per inadempimento può assumere due forme:
• Risoluzione giudiziale: se una delle parti non adempie alla sua prestazione l’altra
parte che vuole agire in giudizio ha una scelta (art.1453 comma I):
a) Può agire per l’adempimento, chiedendo al giudice di condannare
l’inadempiente ad eseguire la prestazione mancata, ed offrendosi di eseguire la
propria se non l’ha già fatto.
b) Può agire per la risoluzione, chiedendo al giudice di sciogliere il contratto.
Otterrà in questo caso di essere esonerato dall’eseguire la propria prestazione ,
poiché con la risoluzione viene meno la fonte dell’obbligazione, nel caso egli
avesse già eseguito la sua prestazione potrà ottenere anche la condanna dell’altra
parte alla restituzione della prestazione ricevuta.
Se agisce per l’adempimento potrà sempre domandare la risoluzione del contratto
(prima che abbia ricevuto dall’altra parte la prestazione dovutagli); se ha agito per la
risoluzione non potrà più chiedere l’adempimento (art. 1453 comma II), ne la
controparte potrà adempiere più la propria obbligazione (art. 1453 comma III).

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• Risoluzione stragiudiziale: non si ricorre al giudice e se ne conoscono di tre forme:


a) Diffida ad adempiere: la parte adempiente può intimare per iscritto all’altra
parte di adempiere entro un dato termine (non meno di quindici giorni), con
l’avvertenza che altrimenti il contratto si riterrà risolto (art. 1454). Alla scadenza
del termine il contratto è risolto di diritto (art. 1454 comma III), il debitore potrà
comunque neutralizzare l’effetto risolutivo della diffida accertando
giudizialmente la scarsa importanza del suo inadempimento.
b) Clausola risolutiva espressa: le parti possono convenire con un’apposita
clausola che se una di esse risulterà inadempiente il contratto si risolverà di
diritto, senza necessità di rivolgersi al giudice. Non basta però il semplice fatto
dell’inadempimento, ai fini della risoluzione, occorre anche che la parte
adempiente dichiari che intende valersi della clausola risolutiva (art. 1456). 
 La
dichiarazione scioglierà il contratto con effetto retroattivo alla data del contratto.
Tale clausola esonera dalla necessità di valutare l’importanza
dell’inadempimento, per il fatto che la risoluzione di diritto del contratto è stata
predeterminata dalle parti stesse.
c) Termine essenziale: il contratto è risolto di diritto per inadempimento se per la
prestazione di una parte era fissato un termine da considerarsi essenziale
dall’altra. Questa può ancora richiedere la prestazione entro tre giorni dalla
scadenza del termine, altrimenti, il contratto è risolto (art. 1457).
Il rapporto di corrispettività tra le prestazioni legittima ciascuna parte al rifiuto di adempiere
alla propria prestazione se l’altra parte non adempie o non offra di adempiere
contemporaneamente la propria, sempre che per l’adempimento non siano previsti termini
diversi (art. 1460). È la c.d. eccezione di inadempimento espressa tradizionalmente dal
principio “all’inadempiente non si deve adempiere”.
Analoga all’eccezione di inadempimento è l’eccezione basata sul mutamento delle
condizioni patrimoniali dell’altro contraente, divenute tali da porre in evidente pericolo il
conseguimento della controprestazione: in questo caso, la parte che per contratto è tenuta ad
adempiere per prima, può sospendere l’esecuzione della prestazione dovuta, salvo che l’altra
parte non offra idonee garanzie (art. 1461).
La parte inadempiente è in ogni caso tenuta a risarcire il danno cagionato alla
controparte, sia che questa abbia agito per l’adempimento sia che abbia agito per la
risoluzione (art. 1453 comma I). La parte che chiede il risarcimento del danno ha l’onere di
provare di aver subito un danno per l’altrui inadempimento o per il ritardo dell’adempimento,
e deve altresì provare, l’ammontare del danno subito.
Il contratto può comunque prevedere una penale per l’inadempimento o per il ritardo, che
determina due effetti:
• Di sollevare dall’onere di provare il danno (essendo la penale dovuta per l’inadempim.)
• Di limitare l’ammontare della penale pattuita, salvo che non sia prevista la risarcibilità
del danno ulteriore (art. 1382).

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Diversa dalla penale, che viene versata solo in seguito all’inadempimento o del ritardo, è la
caparra confirmatoria, che è una somma di denaro o di cose fungibili che una parte
consegna all’altra al momento della conclusione del contratto. Possono verificarsi tre
situazioni:
• Se la parte che ha versato la caparra adempie al contratto, l’altra è tenuta a restituire la
caparra o a scalarla dal prezzo (art. 1385 comma I)
• Se la parte che ha versato la caparra non adempie al contratto l’altra parte può trattenere
la caparra e recedere dal contratto
• Se inadempiente è la parte che ha ricevuto la caparra, l’altra può esigere il doppio della
caparra e recedere dal contratto (art. 1385 comma II).
L’aver dato o ricevuto una caparra non comporta la rinuncia ad agire per l’adempimento, per
la risoluzione o per ottenere il risarcimento del danno (art. 1385). Il recesso del contratto,
trattenendo la caparra o esigendone il doppio, resta una mera facoltà dell’adempiente.
Diversa è la caparra penitenziale, questa è data sempre alla conclusione del contratto, come
corrispettivo del recesso, il recedente perde la caparra data o deve il doppio di quella ricevuta
(art. 1386).
17.3 Risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione ed
eccessiva onerosità sopravvenuta
L’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore, in un
contratto a prestazioni corrispettive, rende priva di ogni giustificazione la controprestazione
del creditore. Essa comporta quindi la risoluzione del contratto dal quale l’obbligazione
estinta derivava, determinando anche l’estinzione della controprestazione. Ne consegue che
la parte liberata dall’obbligazione per sopravvenuta impossibilità, non può chiedere la
controprestazione e se l’ha già ricevuta, deve restituirla (art. 1463). La risoluzione del
contratto in questo caso opera di diritto, sarà necessario convenire l’inadempiente solo se si
rifiuta di restituire la prestazione già eseguita dalla controparte.

La legge non prevede il caso in cui la prestazione sia diventata impossibile per causa
imputabile al creditore, può prospettarsi una duplice soluzione:
• Si può ritenere che il contratto non si risolva, con la conseguenza che il creditore sia
comunque tenuto a dare esecuzione della propria prestazione
• Si può ritenere il contratto risolto e il creditore sarà esposto alla responsabilità per danni
che la controparte ha subito per la mancata esecuzione del contratto.
L’impossibilità sopravvenuta può essere solo parziale: il contratto in questo caso non si
risolve, ma l’altra parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della controprestazione,
oppure può recedere per giusta causa se non non avesse interesse ad una esecuzione solo
parziale della prestazione (art. 1464).
Si nota uno specifico rapporto di equivalenza tra le prestazioni per cui ad una esecuzione minore
corrisponde un’altrettanto minore controprestazione. È un carattere che viene in evidenza nei
contratti commutativi: sono contratti a prestazioni corrispettive in cui si attua uno scambio
tra prestazioni economicamente equivalenti. Quindi le vicende successive alla
formazione del contratto che provocano uno squilibrio economico fra le prestazioni influiscono
sulla misura della controprestazione o, addirittura, sulla sorte del contratto.
Il carattere della commutatività del contratto si manifesta in modo evidente nella disciplina
della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta. È un tipo di

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risoluzione che riguarda i contratti la cui esecuzione è destinata a protrarsi nel tempo, siano
essi contratti ad esecuzione differita o ad esecuzione continuata: può accadere che nel periodo
intercorrente tra la conclusione del contratto e quello dell’esecuzione si verifichino
avvenimenti straordinari ed imprevedibili tali da rendere una prestazione eccessivamente
onerosa rispetto alla controprestazione. In questo caso la parte che deve la prestazione
diventata eccessivamente onerosa può chiedere la risoluzione del contratto (art. 1467 comma
III). L’altra parte, per evitare la risoluzione del contratto può offrire di modificare equamente
le condizioni contrattuali ristabilendo uno stato di equivalenza economica delle prestazioni.
L’onerosità sopravvenuta deve essere eccessiva, deve cioè consiste in un forte squilibrio
economico tra le prestazioni tale da rendere iniquo il contratto. Lo squilibrio tra le prestazioni
deve inoltre dipendere da un evento straordinario ed imprevedibile, non sono tali le
normali oscillazioni dei prezzi di mercato (chi vuole sottrarsi a tale rischio deve inserire una
clausola nel contratto che preveda l’aggiornamento delle condizioni al variare del mercato). 

Le norme sulla risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopraggiunta non si
applicano per i contratti aleatori o di sorte (art. 1469). Sono contratti in cui uno dei
contraenti accetta di adempiere alla sua prestazione nonostante l’incertezza che l’altro esegua
la sua: accetta il rischio di dover eseguire la sua prestazione senza avere nulla in cambio. Il
contratto può essere aleatorio per sua natura (es. assicurazione), o per volontà delle parti (es.
vendita di cosa futura). Ai contratti aleatori si applicano comunque le norme riguardo
l’inadempimento e la sopraggiunta impossibilità di una prestazione.
17.4 La rescissione del contratto

Di regola, coerentemente col il principio dell’autonomia contrattuale, ogni soggetto può


contrattare a condizioni a sé favorevoli o sfavorevoli: è irrilevante lo squilibrio economico
originario tra le prestazioni. A questo principio generale fanno eccezione due casi, che vanno
sotto il nome di rescissione. Rescissione del contratto altro non significa se non
scioglimento o risoluzione del contratto, ma è un termine utilizzato nel linguaggio tecnico per
indicare lo scioglimento del contratto dovuto a due casi specifici:
• Stato di pericolo: chi per contratto assume obbligazioni a condizioni inique, ossia
con forte sproporzione tra il valore di ciò che da e di ciò che riceve, per la necessità,
nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla
persona, può chiedere al giudice la rescissione del contratto (art. 1447). Il caso non è
molto frequente nella pratica.
• Stato di bisogno: se c’è sproporzione tra la prestazione di una parte e quella
dell’altra, e tale sproporzione dovuta dalla situazione, anche momentanea, di bisogno
economico di una parte della quale l’altra ha approfittato, la prima può chiedere la
rescissione del contratto (art. 1448 comma I). È la c.d. rescissione per lesione (es.
chi è i difficoltà economica vende i propri beni ad un prezzo irrisorio). È la legge stessa
che stabilisce i criteri per determinare la sproporzione tra le prestazioni e quindi
lesione: la prestazione ricevuta deve essere inferiore alla metà del valore della
prestazione prestata al tempo del contratto (art. 1448 comma II); e questa sproporzione
deve perdurare fino al momento in cui è proposta la domanda di rescissione (art. 1448
comma III). La rescissione non può essere richiesta per i contratti aleatori (art. 1448
comma IV). La parte contro cui è chiesta la rescissione del contratto, può evitarla
riportando il contratto a condizioni di equità (art. 1450).

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Le cause di rescissione del contratto sono difetti genetici del contratto: riguardano la sua
formazione e non la sua esecuzione, tuttavia la legge disciplina queste eventualità con norme
analoghe a quelle previste per risoluzione e non con quelle per la nullità, che pur sopravviene
per difetti genetici. Il contratto rescindibile non può essere convalidato (art. 1451) come
quello annullato, ma può essere solo ricondotto ad equità. Anche gli effetti della rescissione
rispetto ai terzi sono regolati in modo corrispondente alla risoluzione (art. 1452).
L’azione di rescissione e l’eccezione di rescissione sono soggette al termine di prescrizione di
un anno, che decorre dalla conclusione del contratto (art. 1449 comma I).

Capitolo diciottesimo

CRITERI DI COMPORTAMENTO DEI CONTRAENTI E DI
INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
18.1 La buona fede contrattuale

Alle norme che regolano la formazione e l’esecuzione del contratto, si devono aggiungere
una serie di regole che disciplinano il generale criterio di comportamento delle parti
contraenti. Sono le norme che impongono alle parti di comportarsi, reciprocamente, secondo
buona fede: buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto
(art. 1337), buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375), buona fede, se si tratta di
contratto sottoposto a condizione risolutiva o sospensiva, in pendenza della condizione (art.
1358), buona fede nell’opporre l’eccezione di inadempimento (art. 1460 comma II).
C’è poi da aggiungere che la buona fede, oltre che criterio di comportamento, rappresenta
anche un criterio di interpretazione del contratto, questo infatti va interpretato secondo buona
fede (art. 1366).
La buona fede, in queste norme, significa correttezza e lealtà. In riferimento al contratto
assume un significato molto diverso da quello che assume in materia di possesso: in materia
di possesso «buona fede» significa ignorare di ledere gli altrui diritti; in ambito di contratto
esprime un dovere: quello delle parti contraenti di comportarsi secondo correttezza e lealtà.
Per distinguere i due concetti si parla di buona fede contrattuale.
Il dovere generale di buona fede ha la funzione di colmare le lacune legislative. La legge
infatti, pur completa che sia, non può prevedere tutte le possibili soluzioni a tutti i possibili abusi
che possono compiere le parti. Il criterio generale di buona fede consente di individuare ulteriori
divieti ed obblighi, oltre a quelli previsti dalla legge: realizza la chiusura del sistema legislativo,
ossia offre criteri per colmare le lacune che possono emergere nei diversi rapporti. Le regole, non
scritte, della correttezza e della lealtà, sono regole di costume: corrispondono a ciò che un
contraente di media lealtà e correttezza si sentirebbe in dovere di fare e di non fare, spetta al
giudice determinare ciò che è in buona fede e ciò che non lo è, non secondo un proprio criterio di
giudizio, ma secondo le regole del costume.
Il dovere di buona fede opera:

a) Nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337).

Qui assume anzitutto il carattere di un dovere di informazione di una parte nei confronti
dell’altra: ciascuna parte ha il dovere di dare notizia delle circostanze sconosciute all’altra che
possono essere determinanti del suo consenso (tali da produrre il rifiuto dell’altra

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parte o una contrattazione a diverse condizioni) (es. se vendo un terreno sapendo che sarà
reso non edificabile non dicendolo all’altro contraente).

Al dovere di informazione si ricollega la figura della reticenza: la violazione del dovere
di informazione può dare luogo ad un’azione di annullamento per dolo omissivo. La
violazione del dovere di informazione, indipendentemente dall’azione di annullamento,
può dare vita ad un azione di danni della controparte. 

Si considera contraria a buona fede anche una improvvisa ed ingiustificata rottura delle
trattative precontrattuali, intervenuta in un momento in cui l’altra parte aveva motivo
di fare affidamento sulla futura conclusione del contratto, ed aveva quindi affrontato delle
spese per far fronte all’adempimento delle obbligazioni contrattuali o aveva rinunciato ad
altri contratti (es. l’appaltatore che rifiuta altri appalti poiché confida di svolgerne uno che
viene improvvisamente annullato può richiedere i danni).

Chi, violando il dovere di buona fede nelle trattative contrattuali, ha cagionato un danno
all’altro contraente è tenuto a risarcirlo. Si parla di responsabilità precontrattuale, la
cui fonte non è il contratto, ma un fatto giuridico, omissivo o commissivo, che ha
preceduto o accompagnato la formazione del contratto. Per la Cassazione è una forma di
responsabilità da fatto illecito (art. 2043) regolato dalle norme a questa relative. C’è
anche chi pensa che la responsabilità precontrattuale derivi dall’inadempimento
dell’obbligazione di comportarsi secondo buona fede e debba dunque essere una
responsabilità per inadempimento, regolata dall’art. 1218 (quindi responsabilità
contrattuale, nell’ampio senso che si attribuisce a questa espressione). 

Una specifica ipotesi di responsabilità precontrattuale è prevista dalla legge: la parte che,
conoscendo, o dovendo conoscere con ordinaria diligenza, una causa di invalidità del
contratto non né da notizia all’altra è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per aver
confidato, senza sua colpa, nella validità o nell’efficacia del contratto (art. 1338). L’altra parte,
una volta scoperto l’errore, potrà sì ottenere l’annullamento del contratto e la restituzione della
prestazione eventualmente già eseguita, ma ciò potrebbe non aver sanato interamente il danno.
Può esserci infatti anche l’interesse contrattuale negativo: il danno emergente
(costituito dalle spese sostenute), e il lucro cessante (ossia il danno delle occasioni
perdute), applicazione di questa regola è la resp. da falso rappresentante. 


b) Nella esecuzione del contratto (art. 1375).



Due specifiche applicazioni di legge sono: 1) l’obbligo di comportarsi secondo buona
fede in pendenza della condizione, per conservare integre le ragioni dell’altra parte (art.
1358), ossia custodendo con diligenza la cosa alienata sotto condizione sospensiva, o
acquistata sotto condizione risolutiva; 2) il divieto di rifiutare la propria prestazione
avvalendosi della eccezione di inadempimento, se, tenuto conto delle concrete
circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede (art. 1460 comma II). 

La buona fede nell’esecuzione del contratto implica il dovere della parte di realizzare
l’interesse contrattuale dell’altra, o quantomeno di evitare di recarle danno. Ciò può
anche comportare l’adempimento di obblighi non previsti dalla legge o dal contratto,
come l’obbligo di prestazioni accessorie rispetto a quelle contrattuali (es. locazione di una
casa a un disabile, devo rendere la casa agibile) o l’obbligo di informare l’altra parte di
circostanze sopraggiunte che non è in grado di conoscere. Così se la prestazione di una
parte sta per diventare temporaneamente o definitivamente impossibile, essa dovrà darne
notizia all’altro contraente per consentirgli di procurarsi in altro modo la prestazione, o
comunque di non subire danni.

La violazione del dovere di buona fede può anche presentarsi nella forma di abuso del

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diritto: accade quando un contraente esercita verso l’altro i diritti che gli spettano per
realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati (es. in una s.p.a.
la maggioranza delibera un incremento di capitale al solo scopo di eliminare una
minoranza che, in difficoltà economica, non è in grado di sottoscrivere le nuove azioni). 

La violazione del dovere di buona fede comporta, generalmente, l’obbligazione di
risarcire il danno alla parte lesa. Ma può comportare anche conseguenze diverse, valutabili
come una sorta di esecuzione in forma specifica del dovere di buona fede, ad esempio se
si prova che la maggioranza ha abusato del diritto di voto, il giudice può dichiarare nulla
quella deliberazione (partendo dal presupposto che votando si da esecuzione al contratto
di società, e quindi deve essere una esecuzione in buona fede). Una ipotesi legislativa di
esecuzione in forma specifica dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede si trova nel
rapporto fra l’art. 1358 che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede in
pendenza di una condizione, e l’art. 1359 che considera avverata la condizione non
avvenuta per causa imputabile a colui che aveva interesse contrario al suo avveramento.
Qui la conseguenza posta a carico del contraente che ha violato l’obbligo di buona fede è
l’efficacia del contratto, produttivo di effetti nei suoi confronti, anche se sottoposto a
condizione mancata.
c) Nell’interpretazione del contratto.

18.2 L’interpretazione del contratto

Il contratto, quando non è tacito, è fatto di parole (scritto od orale che sia), ed il senso delle
parole può dare luogo a controversie. È necessario quindi formulare dei criteri per
l’interpretazione del contratto. Sono criteri che vincolano le parti nel momento in cui
queste assumono diritti e doveri derivanti dal contratto e che vengono utilizzati dal giudice
quando è controversa l’interpretazione del contratto dedotto in giudizio. La legge enuncia due
ordini di criteri interpretativi: i criteri di interpretazione soggettiva, che si basano sulla
ricerca della comune intenzione delle parti; i criteri di interpretazione oggettiva, che si
rifanno al concetto di buona fede ed ad elementi oggettivi non riconducibili all’intenzione dei
contraenti.
L’INTERPRETAZIONE SOGGETTIVA muove dal principio per cui nell’interpretazione
del contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti
e non limitarsi al senso delle parole usate (art. 1362 comma I). Le parole, prese a sé,
possono tradire l’intenzione dei contraenti, ad esempio un contratto di locazione in cui non è
menzionato il canone sarebbe un contratto nullo per mancanza dell’oggetto, ma la reale
intenzione delle parti potrebbe anche essere stata quella di concedere il godimento gratuito
dell’immobile. 

È evidente dunque, come l’interpretazione delle parti possa modificare la qualificazione
del contratto: vale, in questo caso, la regola secondo cui il nome dato dalle parti al
contratto non è vincolante e il giudice può attribuirgli una qualificazione giuridica
corrispondente alla sostanza del contratto. 

Per ricercare la reale intenzione delle parti, al di là delle parole, la legge fornisce alcuni
criteri. Un primo criterio, di carattere storico, è quello per cui va esaminato il
comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto (art.
1362 comma II). Un secondo criterio è di carattere logico: occorre interpretare le singole
clausole le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il significato che risulta dal
complesso del contratto (art. 1363). In virtù del primo criterio può essere considerata la fase
di trattative e il comportamento delle parti in esecuzione del contratto. Con il secondo criterio

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l’intenzione delle pari viene ricostruita considerando il contratto nel suo insieme, e il
significato letterale di una clausola può apparire contrario all’interpretazione delle parti se
questa viene considerata alla luce dell’intero regolamento contrattuale.
L’INTERPRETAZIONE OGGETTIVA segue un generale criterio per cui il contratto deve
essere interpretato secondo buona fede (art. 1366), questo criterio impone di dare al
contratto il significato che gli attribuirebbero contraenti corretti e leali (anche se non lo
sono). È un criterio che può condurre ad un significato diverso da quello proprio delle
espressioni che in esso figurano, se questo significato è quello che darebbero contraenti leali
e corretti.
 Criteri oggettivi, che prescindono dall’intenzione delle parti, valgono per le
clausole ambigue, ossia per quelle clausole alle quali si possono attribuire più sensi. Per
l’art. 1369 le espressioni che possono avere più sensi devono «essere interpretate nel
senso che meglio si conforma alla natura e all’oggetto del contratto», ossia
dando rilievo alla oggettiva funzione economico-sociale del contratto e alla oggettiva
destinazione economica del bene dedotto in contratto. 

Vale il principio di conservazione del contratto, per cui la clausola ambigua va
interpretata nel modo in cui è valida efficace anziché nel modo in cui sarebbe invalida (art.
1367). Valgono inoltre i c.d. usi interpretativi, che sono pratiche contrattuali diffuse per
cui la clausola ambigua si interpreta secondo ciò che generalmente si pratica nel luogo in cui
il contratto è stato concluso (art. 1368).
Le clausole che pongono condizioni generali del contratto si interpretano, nel dubbio, contro
il contraente che le le ha poste, a vantaggio del contraente più debole (art. 1370).

Se infine il contratto rimane ancora oscuro si applicano due estremi criteri. Il contratto a
titolo oneroso si interpreta nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi
delle parti, ossia il miglio equilibrio economico tra le prestazioni. Il contratto a titolo
gratuito si interpreta nel senso meno gravoso per il contraente obbligato (art. 1371).
18.3 Tendenze generali del diritto dei contratti

Possiamo ora ricavare alcune tendenze di fondo del c.c. in ordine alla disciplina del contratto.
Una prima tendenza del codice civile, coerente al ripudio al concetto di negozio giuridico e
quindi di esaltazione della volontà, è quella verso l’oggettivazione dello scambio
contrattuale, in conformità alle esigenze di sicura e ampia circolazione della ricchezza.
L’oggettivazione si manifesta anzitutto nella disciplina delle condizioni generali di contratto,
posta dall’art. 1341: la sostituzione della conoscibilità alla conoscenza del regolamento
contrattuale fa sì che il regolamento del contratto diviene vincolante per una parte anche se questa
non lo aveva conosciuto, e quindi non poteva averlo voluto (es. in obbligazioni di dare, la
custodia della cosa). L’oggettivazione dello scambio, da un lato, tende a far prevale la
dichiarazione sulla volontà, dall’altro a far prevalere la causa sul consenso,
instaurando con le clausole generali di buona fede, intesa in senso oggettivo, la possibilità di un
controllo giudiziario sulla funzione economica dello scambio (ad esempio l’art. 428 considera
ininfluente la capacità di intendere e di volere se dal contratto non derivano pregiudizi).
Il controllo giudiziario si è manifestato con evidenza, a proposito della funzione economica dello
scambio, nella presupposizione. Questa è una causa di risoluzione del contratto non prevista
dalla legge ma riconosciuta dalla giurisprudenza: consiste in un presupposto oggettivo del
contratto che le parti hanno avuto presente alla sua conclusione, ma che non è stato
menzionato nel contratto: nel momento in cui viene meno di questo presupposto, è data la
possibilità al contraente che vi ha interesse di chiedere al giudice la risoluzione del

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contratto. La presupposizione è riconosciuta dalla giurisprudenza poiché questa provoca una


alterazione funzionale della causa, rendendo non più giustificato lo scambio di
prestazioni tra le parti, che l’evento sopravvenuto ha reso non più equivalenti (es. affitto
balcone con vista su una manifestazione, poi la manifestazione viene annullata).
Bisogna comunque distinguere due casi: quello in cui la presupposizione abbia ad oggetto
una situazione falsamente presupposta oppure riguardi un mutamento della situazione
originariamente presupposta. Nel primo caso il contratto è nullo per mancanza della causa,
nel secondo caso è invece affetto da vizio funzionale, che determina la risoluzione del
contratto.

Capitolo diciannovesimo 

I FATTI ILLECITI
19.1 La responsabilità da fatto illecito

L’art. 2043 definisce il fatto illecito: « qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri
un danno ingiusto ». Il fatto illecito, ex art. 1173, rientra tra le fonti delle obbligazioni,
l’obbligazione che ne deriva è quella di risarcire il danno cagionato.
L’obbligazione di risarcimento del danno può anche derivare, in caso di inadempimento,
anche dal contratto, per distinguere i due casi si parla di responsabilità contrattuale e di
responsabilità extracontrattuale (o responsabilità aquilana). Il termine responsabilità
contrattuale viene però usato per indicare ogni responsabilità diversa da quella derivante da
fatto illecito.
Per indicare la responsabilità per danni si usa l’espressione responsabilità civile,
contrapposta a quella penale a cui è sottoposto l’autore di un fatto illecito qualificato come
reato dalla legge. Un medesimo fatto così, può essere fonte sia di responsabilità civile,
consistente nell’obbligo di risarcimento, sia di responsabilità penale, consistente
nell’assoggettamento alla pena prevista.
Scomposto nei suoi elementi costitutivi il fatto illecito è composto da elementi oggettivi: il
fatto, il danno ingiusto e il rapporto di causalità fra fatto e danno; ed elementi soggettivi:
il dolo o la colpa.
1) Il FATTO: è un comportamento umano commissivo (consistente in un fare, come il
comportamento di chi uccide una persona), od omissivo, (consistente in un non fare,
come il comportamento di chi, non riparando il proprio immobile pericolante, cagiona al
vicino un danno). Il fatto omissivo è fatto illecito solo se il soggetto la cui omissione ha
cagionato il danno aveva l’obbligo giuridico di evitarlo. 

2) Il DANNO INGIUSTO: è la lesione è la lesione di un interesse altrui meritevole di
tutela secondo l’ordinamento giuridico: non basta, perché il danno sia «ingiusto»,
la semplice lesione di un interesse, ciò che deve essere leso è un diritto tutelato. 

Il principio della risarcibilità di ogni danno qualificabile come ingiusto è una «clausola
generale»: se non è la legge a stabilire che un determinato danno è ingiusto, la valutazione è
rimessa all’apprezzamento del giudice. Si parla dunque di atipicità dell’illecito civile, in
antitesi con la tipicità dell’illecito penale. 


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In alcuni casi l’ingiustizia del danno è, nella prassi giurisprudenziale, fuori discussione:
a) Quando sia stato leso un diritto della personalità (es. il ferimento di una persona).

b) Quando sia stato leso un diritto reale (es. il danneggiamento di una cosa).

c) Quando l’uccisione di una persona comporti la lesione del diritto al


mantenimento o al diritto agli alimenti dei suoi familiari. Qui non viene in luce il
diritto alla vita dell’ucciso ma solo la lesione del diritto al mantenimento o agli alimenti
che eventualmente il coniuge e i figli avevano nei suoi confronti. 

In passato la giurisprudenza considerava danni ingiusti solo quelli ricadenti nei casi sopra
riportati, quindi quando la lesione riguardava un diritto assoluto o un diritto familiare. Questa
impostazione è stata ora superata e si ritengono danni ingiusti anche:
d) Quando sia stato leso un diritto relativo e in particolare un diritto di credito. Così la
distruzione della casa in locazione non lede solo il diritto reale del proprietario, ma
anche il diritto di credito del conduttore.
In questo caso il dano cagionato dal terzo provoca l’estinzione del rapporto obbligatorio (per
impossibilità sopravvenuta), la giurisprudenza ha riconosciuto la risarcibilità anche in ipotesi
in cui il fatto del terzo non estingua il rapporto obbligatorio:

e) Quando il terzo abbia reso solo temporaneamente impossibile la prestazione


del debitore (es. il ferimento di un dipendente che non potrà lavorare). 

f) Quando il terzo sia concorso nell’inadempimento del debitore, o istigandolo a
non compiere (induzione all’inadempimento) o rendendosi comunque partecipe. 

Fuori dalla lesione del credito si collocano altre ipotesi di danno giudicato risarcibile:

g) Quando sia stata lesa la libertà contrattuale, come nel caso del contraente che, per
falsa informazione del terzo, abbia concluso un contratto che altrimenti non avrebbe
concluso. In questo caso il contraente raggirato può ottenere l’azione di annullamento, a
patto che l’altro contraente fosse cosciente del dolo del terzo. 

h) Quando sia stata lesa una situazione di fatto meritevole di protezione. Un caso è
quello della famiglia di fatto: viene uccisa una persona che mantiene il proprio
convivente, questi non può vantare il risarcimento per la lesione di un diritto, ma solo
per la lesione di una situazione di fatto, certamente meritevole di tutela giuridica.
Oppure il caso di chi subisca spoglio del possesso.
Il concetto di danno ingiusto si compone, oltre che di questi estremi positivi (la lesione di un
interesse meritevole di tutela), anche di un estremo negativo: deve trattarsi di un danno
che non sia stato cagionato dall’esercizio di un diritto (esempio: il datore di lavoro
che licenzia per giusta causa: cagiona un danno, ma non è ingiusto). Per distinguerli si parla di
danno ingiusto come danno contra ius, mentre quello cagionato nell’esercizio di

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un diritto si qualifica come danno non iure. 


In due casi la legge esclude in modo esplicito che il danno sia ingiusto:
1) Legittima difesa: chi cagiona danno per legittima difesa di sé o di altri, non è
responsabile del danno cagionato (art. 2044). La difesa può essere relativa alla persona
oppure dei beni. La difesa per essere legittima deve essere proporzionale
all’offesa, presente o temuta: non si può uccidere o ferire un soggetto se esiste un’altro
mezzo per metterlo in fuga o prevenirne l’eventuale danno.
2) Stato di necessità: qui, a differenza che nella legittima difesa, si cagiona danno ad
un innocente, e lo si fa perché costretti dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo
attuale di un grave danno alla persona (art. 2045) (es. naufraghi che uccidono chi prova
a salire su una scialuppa di salvataggio già stracolma). Occorre però che il pericolo non
sia stato volontariamente cagionato dal danneggiante e che il danno non fosse
altrimenti evitabile. Dato che si cagiona danno ad un innocente, lo stato di necessità
si può invocare solo per salvare la persona da un pericolo attuale, non per salvare i beni.
Quando si invoca lo stato di necessità il giudice può condannare il danneggiante al
risarcimento di una equa indennità, cosa che non accade per i casi di legittima difesa.
3) il RAPPORTO DI CAUSALITÀ TRA IL FATTO E IL DANNO: deve sussistere, fra il
fatto e il danno, un rapporto di causa ed effetto per cui possa dirsi che il primo ha
«cagionato» il secondo (art. 2043). Questo rapporto non va inteso in senso naturalistico:
ogni evento è il prodotto di più cause, ognuna delle quali è in rapporto di causalità con
l’evento. Occorre, perché sia rapporto di causalità in senso giuridico, che l’evento dannoso
appaia come conseguenza immediata e diretta (art. 2056 e 1223) del fatto
commesso. Per l’applicazione di questo principio si adotta il criterio della regolarità
statistica: un fatto è giuridicamente considerato come causa di un evento se questo
appare come conseguenza prevedibile ed evitabile di quel fatto. 

Si distingue quindi tra cause ed occasioni di un evento, risponde del danno solo colui
che ha posto in essere una causa, non una semplice occasione (es. Tizio investe Caio,
ferendolo. Arriva l’ambulanza, fa un incidente e Caio muore. L’investimento di Tizio è
occasione della morte di Caio, non causa). 

4) Il DOLO O LA COLPA: è DOLO l’intenzione di provocare l’evento dannoso come
l’intenzione di uccidere o di danneggiare beni altrui. È perciò «fatto doloso» il
comportamento assunto con l’intenzione di provocare come conseguenza il danno; è
COLPA la mancanza di diligenza, di prudenza o di perizia o inosservanza di leggi o
regolamenti: l’evento dannoso non è voluto, ma è provocato per negligenza, imprudenza o
imperizia o per inosservanza di norme di legge o di regolamento. Il fatto colposo è dunque
il comportamento negligente, o imprudente o imperito. 

L’onere di provare il dolo o la colpa del danneggiante incombe sul danneggiato, questa
costituisce una rilevantissima differenza tra responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale.
L’azione extracontrattuale può essere esercitata anche da chi possa esperire nei confronti del
danneggiante l’azione contrattuale. Il fatto produttivo di danno può infatti, venire in
considerazione sia come inadempimento di una obbligazione contrattuale, sia come illecito
aquiliano.

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19.2 La responsabilità indiretta

Per regola generale, la responsabilità di risarcire il danno incombe su colui che lo ha


cagionato (art. 2043). A questa regola generale, tuttavia, sono apportate numerose ed
importanti eccezioni, sono ipotesi in cui è responsabile del danno un soggetto diverso da
colui che l’ha cagionato, si parla quindi di responsabilità indiretta:
a) Responsabilità dei padroni e dei committenti: se il danno è provocato da un
lavoratore dipendente nell’esercizio delle mansioni a lui affidate, del danno risponde,
oltre che il dipendente, anche il suo datore di lavoro (art. 2049). La giustificazione di
questa regola sta nel contratto di lavoro: il dipendente mette a disposizione del datore di
lavoro le sue energie lavorative, mentre il rischio del lavoro incombe sul datore di
lavoro il quale fa proprio il risultato del lavoro altrui. 

b) Responsabilità dei sorveglianti di incapaci: se l’illecito è cagionato da persona
incapace di intendere e di volere, questa non ne risponde a meno che lo stato di
incapacità non derivi da sua colpa (art. 2046), ne risponde invece chi è tenuto alla
sorveglianza dell’incapace (art. 2047). 

c) Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori: i genitori sono responsabili
dei fatti illeciti commessi dai loro figli minorenni, il tutore lo è per il minore o l’interdetto
affidato alla sua tutela, i precettori (insegnanti, istruttori ecc...) sono responsabili del danno
dei loro allievi minori nel tempo in cui sono sotto la loro sorveglianza (art. 2048).
Le ipotesi b) e c) differiscono dall’ipotesi a) dal per un importante aspetto: chi è tenuto alla
sorveglianza degli incapaci o i genitori, i tutori e i precettori, possono liberarsi da
responsabilità provando di non aver potuto impedire il fatto (art. 2047, 2048 comma
III), ai padroni e ai committenti invece non è concessa alcuna prova liberatoria: essi
rispondono sempre a titolo di rischio lavorativo.
d) Responsabilità del proprietario del veicolo: questi risponde in solido con il
conducente, a meno che provi che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua
volontà.

19.3 La responsabilità oggettiva

Per l’art. 2043 il fatto illecito deve presentare l’elemento soggettivo del dolo o della colpa. È lo
stesso c.c. che però ci fornisce una serie di eccezioni a questo principio generale: sono casi in cui
si risponde di un fatto dannoso anche se lo si è commesso senza dolo e senza colpa, vengono
classificate come ipotesi di responsabilità oggettiva. Tante sono queste eccezioni che, nella
pratica, son diventate la regola e il principio generale diventa principio residuale.
La responsabilità si basa sulla sola esistenza di un rapporto di causalità tra il fatto e il
danno, si risponde se il danno appare conseguenza immediata e diretta del fatto commesso; ci
si libera se si prova la manza del rapporto di causalità.

In epoca anteriore alle codificazioni, valeva il principio per cui non vi era alcuna
responsabilità senza colpa. L’espansione dell’area della responsabilità oggettiva è da
attribuire all’odierna società industriale, basata sull’impiego di mezzi di produzione e di vita
che sono di per se stessi pericolosi, ma è un tipo di pericolo ormai socialmente accettato.

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Nasce quindi l’esigenza di un diverso sistema di responsabilità per danni, per cui chi ha
subito un danno è giusto che riceva risarcimento, indipendentemente dal dolo o dalla colpa
del suo autore.
I casi più importanti di responsabilità oggettiva sono:

a) Esercizio di attività pericolose.



Chi cagiona danno ad altri nello svolgimento di una attività pericolosa, per sua natura o
per i mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, a meno che non provi di aver adottato
tutte le misure idonee ad evitare il danno (art. 2050).

Vale, soprattutto, per le imprese che svolgono attività industriali di per sé suscettibili di
recare danno alle persone. Chi ha cagionato il danno, ne risponde indipendentemente da
ogni sua colpa, anche se al momento del fatto ha usato diligenza, prudenza e perizia.
Per liberarsi dalla responsabilità bisogna dimostrare di aver adottato tutte le misure
idonee a evitare il danno. La prova liberatoria verte sulle modalità di
organizzazione dell’attività pericolosa, che devono apparire idonee a prevenire
l’eventualità di eventi dannosi. Se l’evento dannoso, benché siano state adottate tutte le
misure di sicurezza si verifica lo stesso, apparirà come un evento inevitabile, perciò non
in rapporto di causalità con lo svolgimento dell’attività pericolosa. 

b) Animali o cose in custodia.

In questo caso se un animale o una cosa in custodia (es. gasolio dell’impianto di
riscaldamento che esplode) cagionano ad altri un danno, ci si potrà liberare dalla
responsabilità solo con la dimostrazione del caso fortuito: uno specifico avvenimento
inevitabile che ha, da solo, creato le condizioni dell’evento dannoso (es. il fulmine che
spezza la catena del cane) (artt. 2052, 2051). Se abbiamo una causa ignota, il
soggetto è comunque tenuto a rispondere del danno.
La differenza tra questi due criteri sta nel fatto che chi esercita attività pericolose può
essere chiamato a rispondere anche in ipotesi di caso fortuito (se non ha adottato tutte le
misure idonee a prevenire il danno). Chi custodisce cose che hanno provocato danni, se la
causa del danno resta ignota, è tenuto a rispondere anche se aveva adottato tutte le misure
di sicurezza per evitarlo.
c) Rovina di edificio.

Se un edificio o un’altra costruzione crolla e provoca danni a persone o cose, il
proprietario è tenuto al risarcimento del danno, salvo che non provi che il crollo era
prodotto di un difetto di manutenzione o di un vizio di costruzione (art. 2053).
d) Circolazione di veicoli.

Il conducente di veicoli (che siano senza rotaie), è responsabile del danno provocato dalla
circolazione del veicolo anche se non ne ha colpa, ossia nonostante la guida prudente,
diligente ed esperta del mezzo. Ci si libera dalla responsabilità dimostrando di aver fatto
tutto il possibile per evitare il danno (art. 2054 comma I). È una prova diretta ad
eliminare il rapporto di causalità tra fatto e danno: se il conducente dimostra di aver fatto
tutto il possibile per evitare il danno, dimostra che non lo ha cagionato; è una prova assai
ardua, non basta dimostrare di aver tenuto l’ordinaria diligenza, bisogna dimostrare di aver
fatto tutto ciò che era umanamente possibile per evitare il danno, e si risponde anche se il
conducente medio non lo avrebbe evitato. La responsabilità è

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aggravata dal fatto che si risponde del danno, anche se questo è stato cagionato da
difetti di produzione o manutenzione del veicolo (art. 2054 comma IV). 

Per il caso di scontro tra veicoli vale una presunzione: si presume, fino a prova
contraria, che ciascuno dei contraenti abbia concorso ugualmente a cagionare il danno
subito dai singoli veicoli (art. 2054 comma II). Spetta quindi a ciascuno dei contraenti
l’onere di provare la maggiore colpa dell’altro. Se alla guida vi era soggetto diverso dal
proprietario, per il danno cagionato risponde anche questi, insieme al conducente
(responsabilità indiretta), salvo provi che la sua circolazione è avvenuta nonostante la
sua contraria volontà. Conducente e proprietario rispondono in solido fra loro. 

19.4 Il risarcimento del danno

Chi è responsabile del danno a titolo di dolo o di colpa, oppure a titolo di responsabilità
indiretta o responsabilità oggettiva, deve risarcirlo: deve corrispondere al danneggiato una
somma di denaro calcolata secondo i principi generali sulla valutazione dei danni. L’art. 2056
nel rinviare questi principi, omette di richiamare l’art. 1225, per cui si ritiene risarcibile
anche il danno non prevedibile al momento del compimento dell’illecito.
Al posto del risarcimento in denaro si può ottenere, se possibile, una reintegrazione in forma
specifica (art. 2058), ossia il ripristino della preesistente situazione, come la demolizione di
un edificio o la restituzione di una cosa uguale a quella distrutta.

Il danno permanente alle persone, come una definitiva inabilità al lavoro, totale o parziale,
può essere liquidata nella forma di una rendita vitalizia (art. 2057).

Il danno risarcibile è, di regola, solo il danno patrimoniale, ossia quello suscettibile di
valutazione economica, comprendente danno emergente e lucro cessante. L’art. 2056
specifica che, in caso di fato illecito, il lucro cessante è calcolato dal giudice con equo
apprezzamento delle circostanze del caso. La norma è applicata secondo un principio guida,
per cui, il lucro cessante è risarcibile quando appare ragionevole pensare che il danno si
protrarrà nel futuro.
Esistono anche danni non patrimoniali (c.d. danni morali), consistenti nelle sofferenze
psichiche e fisiche sofferte dal danneggiato, sono risarcibili, ex art. 2059, solo nei casi
espressamente previsti dalla legge, e vengono liquidati dal giudice in via equitativa. Il caso
più importante espressamente previsto dalla legge è quello del danno provocato dal fatto che,
oltre costituire un illecito civile, costituisce anche reato penale.
Altra specifica figura è il danno biologico, riconosciuto dalla giurisprudenza. Si considera
tale il danno psico-fisico alla persona, qualificandolo come lesione di bene protetto in sé per
sé (art. 32 Cost.), indipendentemente dalla capacità della persona di produrre ricchezza.

Se più persone sono responsabili del medesimo danno esse ne rispondono solidalmente. Il
contenuto che avrà pagato fruirà di diritto di regresso verso gli altri, e solo in questa sede si
potranno valutare i diversi gradi di colpa di ciascuno (art. 2055).
19.5 Espansione della responsabilità oggettiva: il danno da prodotti

Un requisito che si richiede ad ogni prodotto industriale è la possibilità di essere utilizzato in


condizioni di sicurezza. A questo principio, già presente all’art. 41 comma della Costituzione,
è stata data applicazione dalla direttiva UE del 374/1985 in materia di danno cagionato da
prodotto difettoso. Secondo tale direttiva il produttore è responsabile per il danno causato dal
difetto del suo prodotto (Art.1), precisa inoltre che è difettoso il prodotto che non offre la
sicurezza che ci si può legittimamente attendere date le circostanze (Art.5).

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Il produttore è responsabile in modo oggettivo, poiché tale responsabilità prescinde dalla sua
colpa. L’onere della prova è però a carico del consumatore, il quale deve provare non il
difetto di progettazione, bensì l’insicurezza del prodotto. Tale forma di responsabilità quindi
si differenzia da quella per rischio di impresa, dato che quest’ultima non ammette la prova
liberatoria, il cod. d. cons., infatti, ammette che il produttore possa liberarsi in vari modi.

Capitolo ventesimo

ALTRI ATTI O FATTI FONTE DI OBBLIGAZIONE
20.1 Altri atti: le promesse unilaterali

Secondo l’art. 1173, oltre al contratto e ai fatti illeciti, sono fonte di obbligazioni «ogni atto o
fatto idoneo a produrle in conformità con l’ordinamento giuridico».

Per ciò che riguarda gli atti l’obbligazione sorge da una dichiarazione di volontà, ma non
occorre, a contrario del contratto, la concorde dichiarazione di volontà, è sufficiente solo
quella dell’obbligato. Per ciò che riguarda i fatti, in modo analogo ai fatti illeciti, producono
obbligazione a prescindere dalla volontà dell’obbligato.

Gli atti che producono obbligazione si collocano rientrano tra gli atti unilaterali tra vivi aventi
contenuto patrimoniale (art. 1324). Questi possono produrre effetti reali, come l’atto
unilaterale di concessione dell’ipoteca, o contenuto obbligatorio. In questo secondo caso
assumono il nome di promesse unilaterali: un soggetto, detto promittente, è tenuto ad
eseguire una data prestazione per il solo fatto di averla unilateralmente promessa,
indipendentemente dall’accettazione del soggetto a favore del quale deve essere eseguita.
Le promesse unilaterali sono rette da un principio di tipicità: sono produttive di effetti solo
nei casi previsti dalla legge (art. 1987), differendo dai contratti che, ex art. 1322, sono retti
dal principio dell’atipicità.

Nella categoria delle promesse unilaterali rientrano la promessa di pagamento e la
ricognizione (riconoscimento) di debito (art. 1998). Alcuni ritengono che questi due atti non
siano di per sé produttivi di obbligazione ma solo una prova dell’esistenza di una
obbligazione che trova altrove la propria fonte.
La qualificazione legislativa di tali atti, però, implica conseguenze giuridiche importanti. Il
promittente può neutralizzare le pretese del promissario eccependo la mancanza del rapporto
fondamentale; tuttavia se non può o non vuole provarne la mancanza, egli è obbligato ex
promissa, e il suo inadempimento è inadempimento sottoposto alle stesse regole della
responsabilità contrattuale, anche se il rapporto traeva origine da atto illecito (es. prometto
che ti pagherò i 100 che ti dovevo. Se viene fuori che in realtà i 100 non te li dovevo, la
promessa perde di efficacia, ma solo se riesco a provarlo). La promessa inoltre attribuisce al
promissario un diritto di credito suscettibile di una propria circolazione.
Una indiscussa fonte di obbligazione è la promessa al pubblico (art. 1989). È la
dichiarazione di chi, rivolgendosi al pubblico, promette una prestazione a chi si trova in una
determinata situazione o compie una data azione: il promettente è vincolato dalla sua
dichiarazione appena questa è resa pubblica (es. pagherò 100 a chi ritrova il mio cane). 

Il promettente è vincolato per un anno, salvo che alla promessa non sia posto un termine
diverso (art. 1989 comma II). Finché il termine non è scaduto il promettente può revocare la
promessa per giusta causa, la revoca va' resa pubblicata nella stessa forma in cui si era
pubblicata la promessa (art. 1990).

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20.2 Altri fatti: la gestione di affari

Ai fatti produttivi di obbligazione, al di là degli illeciti, anzitutto vi è la gestione di affari


altrui. È il caso di chi si comporta come mandatario altrui, senza avere ricevuto alcun
mandato: il che può accadere quando, in assenza dell’interessato, altri si preoccupa di gestire
i suoi interessi (es. raccogliendo i frutti dal fondo di chi è ricoverato).

Come il mandatario, il gestore può agire in nome suo o in nome dell’interessato, assumendo
nel secondo caso, la posizione di mandatario con rappresentanza.
Da questo fatto discendono due serie di obbligazioni:
• Il gestore, per il puro fatto di aver iniziato, pur senza essere obbligato, è tenuto a
continuare la gestione degli affari dell’interessato (art. 2030), fino a che questi non sia in
grado di provvedere da solo (art. 2028).
• L’interessato è invece tenuto ad adempiere alle obbligazioni assunte dal gestore in suo
nome e al rimborso delle spese da questi sostenute (art. 2031).
È sufficiente, affinché sorgano le obbligazioni, che la prestazione sia utilmente iniziata:
non occorre che abbia prodotto il risultato sperato. Se poi l’interessato ratifica la gestione
altrui si producono gli stessi effetti di un contratto di mandato, con la conseguenza che il
gestore avrà diritto ad un compenso per l’opera svolta (art. 2032).
20.3 Continua: il pagamento di indebito, l’arricchimento senza causa

Il pagamento di indebito è l’esecuzione di una prestazione non dovuta.



Può trattarsi di indebito oggettivo: il pagamento, o la prestazione eseguita, non ha
oggettivamente alcuna valida giustificazione (es. esecuzione di prestazioni derivanti da
contratto poi dichiarato nullo). In questi casi il pagamento eseguito, si rivela un fatto privo di
causa e come tale produce l’obbligazione di restituire ciò che si è indebitamente ricevuto
e il relativo diritto di ripetere, ossia di riottenere quanto indebitamente dato (art. 2033).


Il diritto di ripetere quanto indebitamente dato viene meno in due ipotesi:

• Il primo è quello della prestazione eseguita in adempimento alle obbligazioni


naturali: si tratta di doveri morali o sociali, sono naturali poiché nessuna legge ne
impone l’adempimento, ma sono obbligazioni dato che chi vi adempie lo fa con la
convinzione di esservi obbligato. ( es. il mantenimento della convivente in una unione di
fatto).
 Le obbligazioni naturali non sono irrilevanti per il diritto, però assumono
rilevanza giuridica solo se adempiute (art. 2034). Di tali obbligazioni non si può
pretendere l’adempimento in giudizio, tuttavia chi vi adempie non può chiedere la
ripetizione di ciò che dato sostenendo la mancanza dell’obbligo giuridico ad adempiere
(art. 2034). L’art. 2034 fa salva l’ipotesi che la prestazione sia stata eseguita da un
incapace: in questo caso egli potrà chiedere la ripetizione.

Tipica obbligazione naturali sono i debiti di gioco: chi ha vinto al gioco o ad una
scommessa non ha azione per ottenere il pagamento della vincita, ma il perdente che
spontaneamente paga non può ripetere quanto pagato, a meno che non vi sia stata frode a
suo danno (art. 1933 comma II). A questa regola sono poste due eccezioni: le
competizioni sportive attribuiscono azione per ottenere il pagamento della posta in
gioco, stessa cosa vale per le lotterie autorizzate (art. 1935).

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• Un secondo ordine di ipotesi in cui viene meno il diritto di ripetere l’indebito è quello delle
prestazioni contrarie al buon costume (il buon costume si ricava implicitamente dal
sistema legislativo, rilevano l’onestà e la moralità), ad esempio è contrario al buon costume
corrompere un calciatore. Il contratto contrario al buon costume è nullo, e come tale non è
tutelato da azione per l’adempimento, ma chi ha eseguito la prestazione non fruisce del
diritto di ripetizione. La ripetizione è ammessa solo quando lo scopo contrario al buon
costume non è comune ma proprio solo di una delle parti (art. 1235).

Si ha invece indebito soggettivo quando, per errore scusabile, si paga un debito altrui
credendolo proprio. In questo caso, a differenza dell’indebito oggettivo, il debito esiste, ma è
stato pagato da una persona diversa dal debitore. Anche in questo caso si ha il diritto di
ripetizione (art. 2036).

Se tra due soggetti avviene uno spostamento patrimoniale, senza alcuna giustificazione, tale da
arricchire uno a danno dell’altro, il danneggiato non ha azione verso chi si è arricchito a suo
danno. È il caso, ad esempio, dell’avulsione, in cui un pezzo di terra si sposta da un fondo
all’altro. Spostamenti patrimoniali ingiustificati, possono essere causati o da fatti naturali, come
l’avulsione, o da fatti dell’uomo, come chi in buona fede consuma la cosa altrui; entrambi vanno
sotto il nome di arricchimento senza causa, ossia arricchimento privo di titoli che lo
giustifichino. Nasce da questo fatto una specifica obbligazione a carico dell’arricchito: egli è
tenuto, nei limiti del suo arricchimento, a indennizzare il danneggiato della
diminuzione patrimoniale che egli ha subito (art. 2024). Ciò significa che non è
contemplato un risarcimento del danno, ma un indennizzo limitato all’entità dell’altrui
arricchimento (il minor valore tra l’arricchimento e la diminuzione patrimoniale).
L’azione di arricchimento è una azione generale e sussidiaria: generale perché esperibile
in una serie illimitata di ipotesi, sussidiaria perché è esperibile solo quando il danneggiato
non può servirsi di altre azioni per farsi indennizzare del pregiudizio subito (art. 2042).

Capitolo ventunesimo 

RESPONSABILITÀ DEL DEBITORE E GARANZIA DEL CREDITORE
21.1 La responsabilità patrimoniale

La fonte che genera il rapporto obbligatorio determina a carico del debitore una generale
conseguenza che investe il suo intero patrimonio, è il principio della responsabilità
patrimoniale del debitore: « il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con
tutti i suoi beni presenti e futuri» (art. 2740). Il debitore dunque risponde non solo con i beni
che possiede al momento alla conclusione del contratto, ma anche con quelli che in futuro
entreranno nel suo patrimonio. Una corrispondente conseguenza si verifica a favore del
creditore: tutti i beni del debitore, presenti e futuri, costituiscono la garanzia del suo credito.
Dal debito si deve quindi distinguere la responsabilità: il primo ha per oggetto la prestazione
dovuta dal debitore al creditore, la seconda ha invece per oggetto l’intero patrimonio del
debitore. Allo stesso modo, dalla parte del creditore, si distingue tra credito e garanzia: con
credito si identifica il diritto di esigere la prestazione dedotta in obbligazione, la garanzia è
costituita dall’intero patrimonio del debitore.
L’art. 2740 stabilisce che le limitazioni della responsabilità sono ammesse solo nei
casi stabiliti dalla legge, ma per regola generale, la responsabilità del debitore è illimitata.

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Il rapporto tra debito e responsabilità, e conseguentemente tra credito e garanzia, si manifesta


in varie fasi del rapporto obbligatorio.
a) In caso di obbligazione da contratto, nella fase costruttiva del rapporto. È evidente
che si fa credito ad una persona se questo dispone di un patrimonio tale che possa
rappresentare una idonea garanzia per il debito contratto. 

b) Nella fase estintiva del rapporto obbligatorio. La responsabilità patrimoniale del
debitore è preordinata all’eventualità che il debitore non esegua la prestazione dovuta.
In questo caso il creditore potrà procedere all’esecuzione forzata, che può essere in
forma generica o in forma specifica. 

Sarà esecuzione forzata in forma generica quando la prestazione ha per oggetto una
somma di denaro o beni fungibili, in questo caso il debitore potrà soddisfarsi sul
patrimonio del debitore facendo pignorare e vendere di un suo bene. 

Se l’obbligazione ha invece per oggetto un fare, un non fare o un consegnare sarà
esecuzione in forma specifica: ossia il creditore mira ad ottenere per provvedimento
dal giudice la prestazione che il debitore non ha spontaneamente eseguito (es. un terzo
incaricato dal giudice eseguirà la prestazione di fare, con spese a carico del debitore). 

Nel caso in cui l’esecuzione in forma specifica non è possibile, perché ad esempio la
prestazione è un fare infungibile, il creditore potrà ottenere solo l’esecuzione forzata in
forma generica. L’esecuzione in forma specifica può determinare anche una esecuzione
in forma generica consistente nel rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione in
forma specifica.
c) Si manifesta anche nella fase intermedia fra quella costitutiva e quella estintiva.
Assumono importanza in questa fase le vicende che riguardano il patrimonio del
debitore: questo può ridursi in modo tale da pregiudicare le possibilità di conseguire la
garanzia del creditore. In tale caso il creditore è legittimato ad esperire diverse misure
di tutela preventiva del credito [21.6].
21.2 Garanzie reali: il pegno

Il patrimonio del debitore è la garanzia del creditore, ma è solo una garanzia generica. Il
creditore infatti non ha la certezza di potersi soddisfare, in caso di inadempimento, su un
determinato bene del debitore. Una garanzia specifica, ossia una garanzia che dia al
creditore la certezza di potersi soddisfare su un dato bene, è rappresentata dalla costituzione
del pegno o dell’ipoteca.
Pegno ed ipoteca hanno la funzione di vincolare un dato bene a garanzia di un dato
credito: il bene può appartenere o al debitore o ad un terzo (terzo datore di pegno o ipoteca),
che acconsenta di garantire per un debito altrui. 

Tra pegno ed ipoteca, riguardo l’oggetto, c’è questa differenza: il pegno si costituisce su cose
mobili, universalità di mobili oppure su diritti di credito (art. 2784), l’ipoteca si costituisce su
beni immobili, su diritti reali immobiliari e su beni mobili registrati (art. 2810).
Pegno ed ipoteca sono garanzie reali, e li si definisce come diritti reali di garanzia su cosa
altrui: il bene resta in proprietà di chi lo ha dato in pegno o in ipoteca e può essere
liberamente alienato.


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Il creditore pignoratizio (o ipotecario), acquista però sul bene un duplice diritto:


a) Diritto di seguito: è il diritto di procedere all’esecuzione forzata del bene anche nei
confronti del terzo acquirente. Pegno ed ipoteca seguono la cosa in tutti i suoi passaggi
di proprietà fino a quando il debito non sia estinto.
b) Diritto di prelazione: è il diritto di soddisfarsi sul prezzo della vendita forzata del
bene, con preferenza rispetto agli altri creditori del medesimo debitore. 

Il creditore pignoratizio è il primo a poter soddisfare i propri crediti dalla vendita
forzata del bene. Se il ricavato dovesse risultare superiore all’ammontare del debito
l’eccedente verrà ridistribuito tra gli altri creditori, e solo se tutti saranno soddisfatti il
restante andrà al proprietario della cosa data in pegno. 

La cosa data in pegno o in ipoteca spesso ha un valore superiore all’ammontare del credito
che garantisce, per questa ragione è vietato il patto commissorio, ossia l’accordo che
prevede che, in caso di inadempimento, la cosa data in pegno o in ipoteca diventi di proprietà
del creditore (art. 2744).
Il pegno si costituisce per contratto che deve risultare da atto scritto: nel caso di pegno
di cose mobili è un contratto reale che si perfeziona con la consegna della cosa in pegno al
creditore o ad un terzo designato dalle parti (art. 2786), se si tratta di pegno di crediti il
contratto si perfeziona solo con la notificazione del pegno al debitore del credito dato in
pegno oppure con accettazione da parte di questo (art. 2800).
La realità del pegno comporta lo spossessamento del proprietario e assolve, in tal modo,
la funzione di porre i terzi cui il proprietario voglia alienare la cosa nella condizione di
rendersi conto che si tratta di cosa su cui è costituito pegno. Allo stesso modo la notificazione
del pegno di crediti vale ad impedire che il debitore paghi nelle mani del proprio creditore,
rendendo inutile così la funzione di garanzia del pegno.

Il pegno e l’ipoteca non possono costituire oggetto di usucapione, poiché questo è modo di
acquisto di diritti reali di godimento, ma può acquistarsi, il pegno, a titolo originario, da non
proprietario mediante il possesso di buona fede (art. 1153 comma III).
Se il debitore paga il credito garantito il creditore dovrà restituirgli la cosa data in pegno. Se
il debitore è inadempiente, il creditore può far vendere la cosa o chiedere al giudice che la
cosa gli venga assegnata in proprietà. Nel primo caso, l’eventuale eccedenza ricavata dal
prezzo della vendita spetterà al debitore (o agli altri suoi creditori); nel secondo caso
occorrerà una stima del bene che accerti un valore non superiore al credito (artt. 2796-2798).
Il discorso è diverso per il pegno di crediti, qui il creditore pignoratizio è tenuto a riscuotere il
credito alla scadenza, tratterrà la somma corrispondente al suo debito e darà l’eventuale
eccedenza al suo debitore (art. 2803).
Si parla di pegno irregolare, quando la cosa data in pegno è una somma di denaro o altri
beni fungibili di cui è stata conferita al creditore la facoltà di disporre. Le cose date in pegno
passano in proprietà del creditore: in caso di adempimento è tenuto a restituirle; in caso di
inadempimento le tratterrà restituendo solo l’eccedente.

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21.3 Continua: l’ipoteca

L’ipoteca differisce dal pegno perché ha ad oggetto beni immobili, o beni mobili registrati,
e la sua costituzione richiede l’iscrizione in pubblici registri.
L’ipoteca può avere tre diverse fonti:

a) Ipoteca volontaria: si basa su un contratto su un atto unilaterale (escluso il


testamento) che devono avere forma scritta a pena di nullità (art. 2821).
b) Ipoteca giudiziale: si basa su una sentenza di condanna al pagamento di denaro o
all’adempimento di una data obbligazione o al risarcimento del danno (art. 2818).
c) Ipoteca legale: può essere iscritta anche contro la volontà del debitore nei casi
previsti dalla legge. Hanno diritto ad essa:
• L’alienante di un immobile o di un bene mobile registrato che non sia stato pagato
dall’acquirente. In questo caso l’ipoteca si costituisce sul bene alienato e
garantisce il pagamento del prezzo (art. 2817).
• Ciascun coerede sugli immobili dell’eredità, a garanzia del pagamento della parte
che gli spetta (art. 2817).
L’ipoteca giudiziale si costituisce per iniziativa, meramente facoltativa, del creditore.
Per i casi sopra citati, l’ipoteca legale, si costituisce d’ufficio, a meno che non vi ci sia
stata espressa rinuncia.

I modi in cui si può costituire ipoteca rappresentano soltanto il titolo per ottenerla, l’ipoteca si
costituisce soltanto al momento dell’iscrizione nei registri. L’iscrizione dell’ipoteca ha
quindi efficacia costituiva: l’ipoteca esiste solo se è trascritta nei registri e solo dal momento
dell’iscrizione (art. 2852). L’ipoteca è comunque inefficace se, benché sia trascritta, il titolo
sulla base del quale l’ipoteca è stata costituita è nullo.

Su un medesimo bene si possono costituire più ipoteche a garanzia di crediti diversi. Ogni
successiva ipoteca è, in ordine di tempo, contrassegnata da un grado: in caso di esecuzione
forzata sul bene ipotecato, verrà soddisfatto prima il creditore di primo grado, poi quello di
secondo, ecc.
L’ipoteca conserva il suo effetto per venti anni, dopo l’ipoteca si estingue, salvo che su
richiesta del creditore l’iscrizione non venga rinnovata prima della scadenza (art. 2847). Se la
rinnovazione avviene dopo la scadenza, questa avrà valore di nuova iscrizione, producendo
effetti e prendendo grado dalla nuova data (art. 2848).
L’ipoteca è garanzia reale e ha diritto di seguito. La realità dell’ipoteca vale se l’iscrizione
è rinnovata in tempo, la nuova iscrizione sarà inefficace nei confronti del terzo acquirente che
abbia trascritto il suo titolo di acquisto (art. 2848 comma II). Il diritto di ipoteca non è
sottoposto a prescrizione, tuttavia si estingue con il decorso di venti anni dalla trascrizione
del titolo di acquisto da parte del terzo acquirente (art. 2880).

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Alla scadenza del credito, a garanzia del quale l’ipoteca era stata costituita, il creditore non
pagato ha diritto di promuovere la vendita forzata del bene anche in confronto del terzo
acquirente (art. 2808). Questi, per evitare la vendita forzata del proprio bene ha tre
possibilità:
a) Paga lui stesso il creditore, liberando il bene dall’ipoteca
b) Effettua il rilascio del bene ipotecato, ossia rinuncia alla proprietà (art. 2861)
c) Libera il bene dall’ipoteca (purgazione dell’ipoteca): offrirà al creditore una somma
pari al prezzo di acquisto del bene, se nessun creditore si offre di acquistare ad un
prezzo superiore di almeno un decimo, il bene è liberato dall’ipoteca (art. 2889).
Il terzo acquirente che subisca l’esecuzione forzata del bene ipotecato, o che paghi i creditori
liberando il bene ipotecato o che rilasci il bene, ha azione di regresso nei confronti del
debitore principale (art. 2866).

Anche il terzo datore di ipoteca può pagare i creditori ipotecari per evitare la vendita forzata,
ed anche questi ha azione di regresso nei confronti del debitore (art. 2871).
L’ipoteca è, in linea di principio, speciale ed indivisibile: grava solo sui beni
specificamente indicati e solo per una somma determinata di denaro (art. 2809 comma I); e
grava per intero su tutti i beni ipotecati e su ogni loro parte (art. 2809 comma II).
Il principio della specialità esige che il bene sia «specificatamente designato».
Il principio di indivisibilità comporta che l’ipoteca sussista anche quando il credito sia stato
parzialmente soddisfatto o quando il valore del bene ipotecato sia aumentato dalla data di
iscrizione. Tuttavia con consenso del creditore o con sentenza, si può ottenere la riduzione
dell’ipoteca: può consistere o nella riduzione della somma per la quale l’ipoteca fu iscritta o
nella riduzione dell’iscrizione ad una parte soltanto dei beni inizialmente ipotecati (art. 2872).
L’estinzione dell’ipoteca avviene a seguito della cancellazione dai registri di iscrizione,
formalità altrettanto necessaria per estinguerla, quanto lo è l’iscrizione per costituirla. 
 Anche
per la cancellazione occorre un titolo: o l’estinzione dell’obbligazione, o la rinuncia espressa
da parte del creditore redatta per iscritto (art. 2879) o la vendita forzata del bene ipotecato, o
il perimento del bene o il raggiungimento del termine ventennale (art. 2878 ss.). Il
conservatore dei registri non può procedere d’ufficio alla cancellazione: occorre o la
domanda della parte interessata, corredata dal consenso del creditore ipotecario, o una
sentenza o altro procedimento giurisdizionale, che accerti una causa di estinzione dell’ipoteca
e ne ordini la cancellazione (art. 2884).

21.4 Garanzie personali: la fideiussione

Nelle garanzie personali, garante è una persona che garantisce, con il proprio
patrimonio, l’adempimento di una obbligazione altrui.

Figura tipica di garanzia personale è la fideiussione: è il contratto con il quale il fideiussore
garantisce l’adempimento di una obbligazione altrui obbligandosi personalmente verso il
creditore (art. 1936 comma I). Al contratto il debitore è estraneo e ha efficacia anche se
questi non ne è al corrente (art. 1936 comma I).
L’effetto prodotto dalla fideiussione è la responsabilità solidale del debitore principale e
del fideiussore nei confronti del creditore. Questi può, a sua scelta, esigere il pagamento
dall’uno o dall’altro, salvo che ciò non sia previsto dal contratto (beneficio di escussione)
(art. 1944). Il diritto del creditore nei confronti del fideiussore decade se, dopo che è scaduta

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l’obbligazione principale, il creditore non ha agito in giudizio contro il debitore principale o


contro il fideiussore, entro sei mesi dalla scadenza (art. 1957).

La volontà di assumere una obbligazione fideiussoria deve essere espressa (art. 1937).
Il fideiussore diventa egli stesso debitore del creditore e la sua è tuttavia, una obbligazione
accessoria rispetto all’obbligazione garantita:è valida solo se è valida l’obbligazione
principale (art. 1939). Sostanziante la causa della fideiussione è la garanzia di un
debito altrui, perciò la fideiussione non può eccedere il valore del debito garantito (art.
1941), il fideiussore inoltre può presentare le stesse eccezioni che spettano al debitore
principale. Se il creditore si rivolge al debitore principale e questi paga, si estingue
l’obbligazione principale, e di conseguenza anche la fideiussione.
Se invece il creditore si rivolge al fideiussore, questi ha azione di regresso nei confronti
del debitore per quanto ha pagato (art. 1950), ma perde l’azione di regresso se paga senza
dare notizia al debitore principale (art. 1952), ha però azione di ripetizione verso il creditore.

Anche prima di aver pagato il fideiussore, può agire nei confronti del debitore principale
perché gli procuri la liberazione o gli presti idonee garanzie per il regresso se è stato
convenuto in giudizio o se il credito è diventato esigibile. Può agire anche se il debitore
principale è divenuto insolvente (art. 1953) (rilievo del fideiussore).
Si può prestare fideiussione anche per una obbligazione futura, purché sia stabilito un
importo massimo garantito (art. 1938), si parla di fideiussione omnibus: con essa si
garantiscono tutte le future obbligazioni di un soggetto. Un’applicazione della fideiussione
futura è il mandato di credito: è un contratto con cui un soggetto incarica un altro di fare
credito ad un terzo, chi assume le vesti di fideiussore del terzo (art. 1958).
21.5 Il concorso dei creditori e le cause di prelazione

Nei rapporti tra creditori di un medesimo debitore vale la regola generale della parità di
trattamento: i creditori hanno uguale diritto a rifarsi sui beni del debitore (art. 2741 comma
I); se più creditori promuovono la vendita forzata dei beni del debitore comune, ciascuno si
trattiene il ricavato della vendita in proporzione con l’ammontare del proprio credito.
Questa è però una regola generale, a cui fanno eccezione le cause di prelazione, queste
consistono nel diritto di preferenza che è riconosciuto dalla legge a determinati crediti. Sono
cause di prelazione il pegno, l’ipoteca e i privilegi (art. 2741 comma II).

I privilegi sono diritti di preferenza accordati dalla legge a determinati crediti in ragione
della causa del credito, ossia della natura del rapporto dal quale il credito deriva, questa è
una valutazione riservata solo alla legge (art. 2745).
Il privilegio può essere generale o speciale: il primo spetta su tutti i beni mobili del debitore,
il secondo solo su determinati beni mobili o immobili (art. 2746). I creditori non muniti di
cause di prelazione sono detti creditori chirografari, quelli invece muniti di pegno, ipoteca
o privilegi, si dicono creditori privilegiati.

Il privilegio generale, spettante su tutti i beni mobili del debitore, è riconosciuto in ragione
dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento prioritario di categorie professionali che dal
credito traggono sostentamento o considerando l’esigenza di prelievo fiscale dello Stato.
Il privilegio speciale si basa invece su una specifica connessione fra il credito e la cosa (es. il
credito dell’albergatore ha privilegio sulle cose portate in albergo dai clienti). Il privilegio
speciale ha diritto di seguito: segue la cosa anche se questa sia stata alienata a terzi.

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Tra i vari privilegi è stabilito un ordine di preferenza all’art. 2777 (vedi pag. 425).
Il pegno e l’ipoteca si collocano nell’ordine generale delle cause di prelazione.
21.6 I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale

Il creditore nella fase intermedia, quella tra il momento costitutivo del rapporto e
l’adempimento, può fruire di specifici mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale.
a) Azione revocatoria.

Qualora il debitore abbia disposto del proprio patrimonio in maniera pregiudizievole per i
creditori, il giudice può dichiarare inefficaci (o revocati), gli atti di disposizione che hanno
prodotto questi effetti (art. 2901). L’inefficacia è solo relativa, l’atto dispositivo perde
di efficacia esclusivamente nei confronti dei creditori, questi infatti potranno rifarsi sul
bene in questione come se non fosse mai uscito dal patrimonio del debitore (art. 2902). Fra
gli atti suscettibili di revoca rientrano anche i pagamenti di debiti non scaduti; non vi
rientrano i pagamenti di debiti scaduti poiché rappresentano atti doverosi, e non di
disposizione del patrimonio. 

L’azione revocatoria è di difficile esperimento, il creditore deve provare:
1. Il fatto oggettivo del pregiudizio che l’atto di disposizione del debitore ha arrecato
alle sue ragioni (eventus damni), ossia la sua impossibilità di soddisfarsi agendo sul
restante patrimonio del debitore.
2. Il fatto soggettivo della conoscenza di questo pregiudizio (scientia fraudis) da
parte del debitore e, se l’atto di disposizione è a titolo oneroso, anche da parte del terzo
acquirente; deve dimostrare che entrambe le parti erano a conoscenza del pregiudizio
che tale atto avrebbe arrecato alla garanzia patrimoniale del creditore. 

3. Se l’atto è anteriore al sorgere del credito, il creditore dovrà provare anche il fatto
soggettivo della dolosa preordinazione dell’atto (consilium fraudis), e se
l’atto è a titolo oneroso, anche da parte del terzo acquirente (es. vendo oggi la mia casa
sapendo che domani prenderò 500.000€ in mutuo). 

Le prestazioni di garanzia se contestuali al sorgere del credito, si presumono a titolo
oneroso (art. 2903), in caso contrario si presumono a titolo gratuito, non avendo
rappresentato una condizione per la concessione del credito.

L’azione revocatoria si prescrive a cinque anni dalla data dell’atto (art. 2903).
b) Azione surrogatoria.

Se il debitore trascura di esercitare i propri diritti (es. non esigendo i propri crediti),
ledendo la garanzia patrimoniale dei propri creditori, questi possono sostituirsi al debitore
ed esercitare le azioni che spettano al debitore contro terzi. Sono esclusi solo i diritti e le
azioni a carattere strettamente personale, es. rapporti di famiglia (art. 2900).
Chi agisce in surrogatoria reintegra il patrimonio del debitore a vantaggio di tutti i creditori, i
quali, una volta che un bene è rientrato nel patrimonio della controparte, possono concorrere
su di esso secondo le regole di preferenza.

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21.7 Altri mezzi di tutela preventiva del credito

• Decadenza del debitore insolvente dal beneficio del termine.



Se nella fase intermedia, tra il sorgere del rapporto e la scadenza del termine pattuito per
l’adempimento, il debitore diventa insolvibile e non può più far fronte a tutti i suoi
pagamenti, il creditore, il cui debito non è ancora scaduto, per prevenire un
prosciugamento del patrimonio del debitore ad opera degli altri creditori, può esigere
immediatamente la prestazione dovutagli, concorrendo così sul patrimonio del debitore
(art. 1186). Emerge il rapporto tra debito e responsabilità: una vicenda che riguarda il
patrimonio del debitore, può produrre effetti direttamente sul debito (diminuendone il
termine)

La stessa norma vale anche quando il creditore abbia diminuito, per fatto proprio, le
garanzie date, o non abbia prestato le garanzie promesse.
• Diritto di ritenzione.

Il creditore che detiene una cosa del debitore può rifiutarsi di restituirla fino a quando il
suo credito non sia stato soddisfatto (es. il meccanico non mi dà il motore finché non lo
pago). Il diritto di ritenzione è opponibile ai terzi. 

Possiamo avere ritenzione semplice o privilegiata: la ritenzione privilegiata è quella
che permette al creditore di soddisfarsi sulla cosa con preferenza rispetto agli altri
creditori (es. il meccanico), quella semplice è quella che non lo permette.
• Pegno gordiano.

Il creditore pignoratizio, dopo essere stato pagato per il credito garantito da pegno, può
non riconsegnare il pegno se vanta altri crediti nei confronti del debitore ed esercitare il
diritto di ritenzione sulla cosa già trattenuta in pegno (art. 2794 comma II).
• Sequestro conservativo.

È un mezzo giudiziario (art. 2905) che consente al creditore di chiedere il sequestro di
tutti o alcuni beni del debitore, quando tema che egli possa occultare il suo patrimonio. Il
giudice consente tale provvedimento quando, dopo una rapida indagine, pensa che il
debito probabilmente esista. I beni sequestrati vengono dati in custodia dati ad un
sequestratario fino a quando non sia concluso il giudizio, ogni atto di alienazione dei
beni è del tutto inefficace nei confronti del creditore sequestrante (art. 2906). 

Se non viene provata l’esistenza del debito il presunto debitore avrà diritto alla
restituzione dei beni e ad un risarcimento per danni, se il debito invece esiste il creditore
potrà convertire il sequestro in pignoramento e soddisfarsi dalla vendita forzata dei beni.

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Capitolo ventiduesimo

CIRCOLAZIONE ED ALTRE VICENDE DEL CREDITO E DEL CONTRATTO
22.1 La cessione del credito

Anche i crediti, come i beni, possono circolare, ossia possono passare da un soggetto ad un
altro, tramite vendita, donazione ed ogni altro atto di alienazione, con l’effetto di sostituire al
creditore originario un nuovo creditore, e queste operazioni di cessione possono continuare
finché l’obbligazione non viene estinta.
Questa è la cessione dei crediti, tramite cui il creditore trasferisce ad altri, a titolo oneroso
o gratuito, il proprio credito, senza il necessario consenso del debitore (art. 1260). Il
creditore originario è detto cedente, il secondo è detto cessionario, il terzo è detto debitore
ceduto. Il debitore ceduto è comunque tenuto al pagamento ed è indifferente che adempia
verso un soggetto o un’altro, per questo non serve il suo consenso.
La cessione dei crediti si inserisce nel più generale fenomeno della circolazione della
ricchezza, con una differenza essenziale rispetto alla circolazione dei beni. La circolazione
dei beni attua la circolazione di una ricchezza presente, la cessione dei crediti invece, attua la
circolazione di una ricchezza futura, poiché la realità della ricchezza, derivante dal credito, è
posticipata al momento dell’adempimento del debitore. Il sistema produttivo, in questo modo,
funziona sulla base della circolazione di una ricchezza futura.
I concetti di vendita, permuta e donazione sono infatti formulati ammettendo non solo il
trasferimento della cosa, ma anche il trasferimento di un altro diritto (artt. 1470, 1552, 769).
Esistono crediti incedibili, sono infatti esclusi quelli di carattere strettamente personale
(art. 1260 comma I) per i quali non può dirsi indifferente che il debitore adempia a favore di
un soggetto o di un altro. In alcuni casi la cessione è vietata in assoluto: magistrati, avvocati,
notai, non possono rendersi cessionari di diritti sui quali è sorta contestazione giudiziaria
nella cui giurisdizione esercitano la loro funzione (art. 1261). Sono incedibili anche i crediti
alimentari e, in genere, quelli inerenti ai rapporti di famiglia.
La cessione del credito è efficace nei confronti del debitore ceduto, solo dal momento in cui è
stata notificata a questo. Fino a quel momento il debitore si libera adempiendo nelle mani
del cedente, salvo che il cessionario non provi che ne era comunque a conoscenza. Dopo il
momento della notifica, se il debitore paga nelle mani del cedente, paga male, e può essere
costretto dal cessionario a pagare una seconda volta (art. 1264). Se il medesimo credito è
stato ceduto a più persone prevale il cessionario che prima ha notificato il suo diritto al
debitore ceduto (art. 1265).
La cessione del credito fa acquistare diritti a titolo derivativo, questa pratica è quindi retta
dal principio secondo cui il dante causa non può trasferire diritti maggiori di quelli che ha,
per questo il cessionario è esposto alle stesse eccezioni che il debitore ceduto avrebbe potuto
opporre al cedente, (es. eccezione di compensazione), salvo che non abbia accettato la
cessione (art. 1248). Questi inconvenienti all’acquisto del credito sono eliminati nei casi di
acquisto a titolo originario, possibili solo quando il credito sia rappresentato da titoli di
credito, beni mobili sottoposti alle stesse regole sull’acquisto a titolo originario.

Può presentarsi l’ipotesi che il credito ceduto sia inesistente, (es. perché nascente da contratto
nullo), o può accadere che il debitore non adempia. Nel primo caso si ha una disciplina simile
all’evizione nel trasferimento di cose, il cedente, se cede a titolo oneroso, deve garantire

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l’esistenza del credito, se invece la cessione è gratuita, la garanzia è dovuta, come nella
donazione di cose, solo se espressamente pattuita (art. 1266).
Nel caso invece che il debitore ceduto non adempia, per regola generale il cedente non
garantisce la solvenza del debitore, addossando il rischio al cessionario. Si può porre
rimedio a questa eventualità, applicando al contratto la clausola “salvo buon fine”, con la
quale il cedente garantisce la solvenza del debitore ceduto, con la conseguenza che se questio
non adempie il cessionario potrà esigere il pagamento dal cedente (art. 1267).
22.2 La delegazione, l’accollo, l’espromissione

Si può essere allo stesso tempo creditori di un soggetto e debitori di un altro. A è debitore di
C ed A è creditore di B. È un rapporto che interessa tre soggetti, il debitore-creditore A, il
creditore C e il debitore B. Questi rapporti però legano in modo obbligatorio solo due
soggetti, e cioè A e C, e A e B, non esiste alcun rapporto che leghi B e C. Alcune operazioni
comunque mirano ad istaurare un simile rapporto.
Prima fra tutte vi è la delegazione, che si presenta in due forme:

a) Delegazione di debito.
Il debitore (delegante) A, assegna al proprio creditore (delegatario) C, un nuovo debitore
(delegato) B. Perché questa operazione sia possibile, è necessaria la sussistenza di un
rapporto che leghi il delegante al delegato, di modo che il primo sia creditore del secondo.
Il rapporto tra il delegante e delegatario è detto rapporto di valuta, quello che intercorreva tra
delegante e delegato si dice rapporto di provvista. La funzione della delegazione è fare in
modo che l’unico adempimento del delegato al delegatario, estingua due rapporti obbligatori.
Perché l’operazione sia possibile occorre:
1. L’invito del delegante A al proprio debitore B, che è la delegazione in senso stretto (es.
“si vuole obbligare nei confronti di C a pagare a lui la somma che deve a me?”)
2. La promessa con cui il delegato B dichiara di volersi obbligare nei confronti del
delegatario C (es. “su invito di A, mi obbligo a pagare a lei C la somma che devo ad A”)
3. L’accettazione del delegatario C. Questi può limitarsi alla semplice accettazione, che
può risultare tacitamente dal mancato rifiuto espresso (art. 1333), ma deve essere una
accettazione espressa se con essa si dichiara di voler liberare il delegante (art. 1268). 

Se il delegatario dichiara espressamente di voler liberare il delegante, questo è sostituito dal
nuovo debitore, si ha quindi una delegazione privativa. Si produce una novazione
soggettiva che da vita ad una nuova obbligazione che ha di diverso la persona del debitore
(art. 1235), e se il delegato non paga il creditore non potrà rivolgersi al delegante (art. 1274).

Se il delegatario, non libera l’originale debitore si avrà una delegazione cumulativa, per
cui se il delegato non adempie il creditore può rivolgersi al debitore originario (art. 1268).

La delegazione può essere causale (o titolata), oppure può essere astratta (o pura). Nel caso di
delegazione causale il delegato menziona il di rapporto di provvista che lo lega al
delegante, o il rapporto di valuta che lega delegante e delegatario, o entrambi (es. “su invito
di A mi impegno a pagarle quanto A originariamente le doveva”). Nella delegazione
astratta, invece, nessuno dei due rapporti è menzionato.
La conseguenza è che se la delegazione è causale, il delegato può rifiutarsi di pagare
eccependo al delegatario le eccezioni relative al rapporto di provvista o sul rapporto di valuta
(es. se uno dei due risultasse poi nullo). Nella delegazione astratta, invece, le eccezioni sulla

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mancanza del rapporto di valuta o sulla mancanza del rapporto di provvista, non possono
essere opposte dal delegato, salvo il caso che manchino entrambi i rapporti (art. 1271).
b) Delegazione di pagamento.

In questo caso il delegato non istaura un rapporto con il delegatario, bensì è semplicemente
inviato a pagare al delegatario quanto gli deve il delegante. Il delegato, anche se è debitore
delegante, non è tenuto ad accettare l’incarico (art. 1269 comma II).
 Può essere, come la
delegazione di debito, causale o astratta, ed è sottoposta alle medesime norme. Ne sono
applicazioni pratiche i mandati di pagamento (es. un ente che ha un deposito presso una
banca, da mandato alla banca di pagare un proprio creditore).

Simili alla delegazione sono l’accollo e l’espromissione.


L’espromissione differisce dalla delegazione: l’iniziativa non è assunta da A bensì da B. 



L’espromittente B (delegato), si obbliga spontaneamente nei confronti dell’espromissario C
(il creditore delegatario) a pagare il debito dell’espromesso A (il delegante). L’espromissione,
come la delegazione, può essere privativa o cumulativa, ma può essere solo parzialmente
astratta, si può astrarre solo il rapporto di provvista, non il rapporto di valuta, e
l’espromittente può sempre rifiutarsi di pagare eccependo la mancanza del rapporto di valuta
(art. 1272 commi II e III).
L’espromissione è un contratto fra B e C.


L’accollo è diverso, poiché l’accollante B si obbliga verso l’accollato A ad assumere il suo


debito verso l’accollatario C. Valgono i principi del contratto a favore di terzi. Può essere
causale o astratto, privativo o cumulativo, ma l’accollante può sempre opporre le eccezioni
relative al contratto di accollo (art. 1273).
L’accollo è un contatto fra A e B.
22.3 La cessione del contratto

La cessione del credito, da un lato, e la delegazione o l’espromissione o l’accollo, dall’altro,


sono vicende che toccano rispettivamente dal lato attivo e dal lato passivo singoli rapporti
obbligatori, nascenti da contratto o da altri atti o fatti.

È però possibile che una vicenda circolatoria investa globalmente la posizione di parte
di un contratto, determinando il trasferimento di tutti i rapporti, sia di credito sia di debito,
che dal rapporto derivano. Si parla dunque di cessione del contratto: una parte (il
cedente), sostituisce a sé un terzo (il cessionario), nei rapporti derivanti da un contratto a
prestazioni corrispettive, con la conseguenza che il cessionario assumerà la stessa posizione
del cedente, nei confronti dell’altro contraente (il contraente ceduto).
Per perfezionare la cessione del contratto occorre però il consenso del contraente ceduto
(art. 1406). Ciò in ragion del fatto che il cessionario, nei confronti del contraente ceduto, non
è solo un nuovo creditore, ma è anche un nuovo debitore le cui qualità personali e condizioni
patrimoniali non sono indifferenti.
La cessione del contratto è, a sua volta, l’oggetto di un nuovo contratto. Tale operazione è
possibile solo se le prestazioni contrattuali devono essere ancora eseguite (art. 1406). Bisogna
distinguere tra contratti ad esecuzione istantanea o differita e contratti ad esecuzione
continuata o periodica.

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• Nei contratti ad esecuzione istantanea o differita se una delle parti ha già eseguito
la sua prestazione la cessione del contratto non può avere luogo (al massimo la cessione
del credito). Le prestazioni quindi devono essere ancora ineseguite, se ad esempio un
commerciante compra merci per rivenderle, ed ha già trovato un compratore, anziché
concludere un contratto per comprare ed uno per vendere, realizzerà il suo guadagno dalla
cessione del contratto al compratore.
• Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica la cessione del contratto è
possibile anche se una o entrambe le parti abbiano già dato inizio all’esecuzione, e la
cessione e possibile fino a quando il contratto non sia sciolto, fino a quando, cioè, il
contratto è ancora suscettibile di esecuzione (es. cessione del contratto di locazione).

Generalmente il cedente è liberato dagli obblighi verso il ceduto, salvo che, nell’accettare
la cessione, dichiari di non voler liberarlo dagli obblighi contrattuali. In tal caso, se il
cessionario è inadempiente, il contraente ceduto potrà rivolgersi al cedente (art. 1408).
Il contraente ceduto può opporre al cessionario solo le eccezioni relative al contratto,
non quelle derivanti da altri rapporti con il cedente (es. eccezione di compensazione) (art.
1409).
 Le garanzie dovute dal cedente al cessionario sono analoghe a quelle relative alla
cessione dei crediti: il cedente garantisce la validità del contratto ceduto ma, salvo patto
contrario, non garantisce l’adempimento del contraente ceduto (art. 1410 commi I e II).
22.4 Il pagamento con surrogazione

Una ulteriore forma di successione nel credito è la surrogazione (=cessione dei diritti).

Si caratterizza per il fatto che la successione del credito è collegata al pagamento: in tre ordini di
casi il pagamento soddisfa il creditore ma non estingue l’obbligazione, determina invece il
subingresso di chi ha pagato il debito nei diritti del creditore. Questo accade in tre casi:
a) Surrogazione per volontà del creditore: il creditore che riceve il pagamento da un
terzo può surrogarlo nei suoi diritti vesrso il debitore purché lo faccia contestualmente al
pagamento (adempimento del terzo) (art. 1201).
b) Surrogazione per volontà del debitore: questi, se prende una somma a mutuo da un
terzo per pagare un debito, può surrogare il mutuante nei diritti del suo creditore, anche
senza il consenso di questo, purché nel contratto sia indicata la destinazione della somma
presa a prestito e la quietanza di pagamento contenga la dichiarazione del debitore
riguardo la provenienza della somma impiegata per il pagamento (art. 1202).
c) Surrogazione legale: opera senza il consenso della volontà delle parti, nei casi
menzionati all’art. 1203.

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PARTE QUINTA
I SINGOLI CONTRATTI
Capitolo ventottesimo

I CONTRATTI PER LA CIRCOLAZIONE DEI BENI 


28.1 La vendita e la permuta

Art.1470: La vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una
cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo.
Il contratto di vendita può avere ad oggetto, oltre che il trasferimento della proprietà di beni
mobili o immobili, il trasferimento di diritti (reali o di credito), l’espressione “altri diritti”,
comprende anche il, più complesso, caso di trasferimento del contratto, che è traslativo della
posizione di parte di un contratto, con tutti i diritti ed obblighi derivanti.
La vendita è un contratto a titolo oneroso, attua il trasferimento di un diritto verso un
corrispettivo in denaro detto prezzo: la causa è lo scambio tra un diritto e una somma di
denaro. Il prezzo in denaro è la caratteristica che distingue la vendita dalla permuta, nella
quale al trasferimento corrisponde il trasferimento di un altro diritto (art. 1552). Alla permuta
si applicano, se compatibili, le stesse norme previste per la vendita (art.1555)
Il contratto di vendita produce due ordini di effetti:
Effetti reali: la vendita è un contratto ad effetti reali, la proprietà o l’altro diritto si trasferisce dal
venditore al compratore per effetto del solo consenso (regola generale ex art. 1376).

Effetti obbligatori: la vendita è fonte d’obbligazione per il compratore e per il venditore.

L’obbligazione del compratore è quella di di pagare il prezzo (art. 1498). Il prezzo può
essere determinato dal contratto o può essere affidato alla determinazione di un terzo, eletto
nel contratto o da eleggere successivamente (art. 1473 comma I), se le parti non raggiungono
un accordo la determinazione è fatta, su richiesta di una delle parti, dal presidente del
tribunale (art. 1473 comma II). In mancanza di diversa pattuizione il prezzo deve essere
pagato al momento della consegna della cosa venduta (art. 1498). 

Sul venditore grava una serie più complessa di obblighi:
1. L’obbligazione di consegnare la cosa al compratore. La cosa da consegnare però è
già in proprietà del compratore, dato che si acquista per solo effetto del consenso.
2. L’obbligazione di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto, qualora
l’acquisto non sia effetto immediato del contratto (art. 1476 n. 2). Ad esempio, quando
si vende un bene fungibile, l’acquisto può avvenire solo in seguito alla identificazione.

3. l’obbligazione di garantire il compratore dall’evizione (art. 1476 n. 3). 

Si ha evizione quando, dopo la vendita, un terzo rivendichi con successo la proprietà
della cosa, e il compratore, perciò, ne perde la proprietà. Sul venditore incombe
l’obbligazione di garantire di essere proprietario di ciò che vende (o
comunque titolare del diritto che trasferisce). Se il compratore subisce l’evizione, il
venditore dovrà restituirgli il prezzo e risarcirgli il danno subito (art. 1483). La garanzia
per evizione non è dovuta quando il contratto sia stato concluso con la clausola “a
rischio e pericolo del compratore” (art. 1488).

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4. L’obbligazione di garantire il compratore dei vizi occulti della cosa (art. 1476 n. 3).

Si tratta di vizi materiali della cosa, che la rendono inidonea all’uso cui è destinata o
che ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore (art. 1490 comma I). Devono
essere poi vizi “occulti”, cioè che il compratore, al momento della vendita, non
conosceva o che non poteva facilmente riconoscere(art. 1491).

Ai vizi occulti la legge equipara la mancanza delle qualità promesse o delle
qualità essenziali della cosa (art. 1497). La garanzia per vizi occulti può essere esclusa o
limitata dal contratto, ma il patto che la esclude o la limita non ha effetto a favore del
venditore che, in malafede, li avesse volontariamente taciuti al compratore (art. 1490).
 Il
venditore, salvo diverso accordo, ha solo otto giorni dalla scoperta per denunciare i vizi
occulti o la mancanza di qualità della merce (art. 1495 comma I). Effettuata la denuncia,
il termine di prescrizione dell’azione è di un anno dal momento della consegna (art.
1495 comma III). Questi brevi termini non valgono nel caso aliud pro alio, l’ipotesi in
cui la cosa difetti delle qualità essenziali per assolvere la sua funzione economica (es. un
appartamento inabitabile).

Il compratore in giudizio può esercitare due azioni:
• Azione redibitoria: si richiede la risoluzione del contratto e la restituzione del prezzo,
deve a sua volta restituire la cosa se non è perita a causa dei vizi (art. 1493).
• Azione estimatoria: si domanda la riduzione del prezzo o, se fosse già stato pagato, il
suo parziale rimborso (art. 1492 comma I). 

Una vola che è stata scelta l’azione con domanda giudiziale il compratore non può più
esercitare l’altra (art. 1492 comma II).
In ogni caso il compratore ha diritto al risarcimento dei danni subiti, se il venditore non prova
di aver senza colpa ignorato i vizi della cosa (art. 1494 comma I). Al venditore è così imposta
la specifica obbligazione di controllare che la cosa posta in vendita sia immune da vizi,
liberandosi da responsabilità dimostrando di aver esercitato, con la dovuta diligenza, gli
opportuni controlli sulla cosa. Il venditore risponde anche degli eventuali danni causati dalla
cosa, se dovuti a suoi vizi (es. crollo dell’edificio costruito male).

A maggior tutela dei consumatori, le garanzie nella vendita dei beni di consumo sono
regolate da norme speciali contenute nel codice di consumo. 

Per consumatore si intende solo la persona fisica che comperi il bene per utilizzarlo, non per
rivenderlo o produrre altri beni. Per bene di consumo si intende «qualsiasi bene mobile
adatto al diretto soddisfacimento di bisogni propri del compratore o della sua famiglia» (sono
escluse ad esempio le azioni e i titoli di borsa). 

La fattispecie regolata è quella descritta come difetto di conformità del bene consegnato al
consumatore rispetto al contratto di vendita. Corrisponde alle figure dei vizi occulti e della
mancanza di qualità essenziali o di qualità promesse. Il prodotto manca di conformità al
contratto quando: non è idoneo all’uso al quale servono beni dello stesso tipo; non è
conforme alla descrizione fatta dal venditore; non è conforme al campione presentato dal
venditore al consumatore; non presenta le caratteristiche abituali di un bene dello stesso tipo,
che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi.

Il venditore finale è responsabile nei confronti del consumatore anche quando gli eventuali
vizi della cosa non dipendano da lui (ma ad esempio da un errore del produttore), il venditore
finale ha però diritto di regresso nei confronti del soggetto responsabile. Il venditore non
può liberarsi affermando che il difetto preesisteva all’acquisto del prodotto da parte sua e che
non era a lui noto.

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La vendita di cose mobili ammette l’esecuzione coattiva: se il compratore non paga il


prezzo il venditore può far rivendere la cosa, a spese dell’altro contraente, da un soggetto
autorizzato; se è inadempiente il venditore, il compratore può dare esecuzione coattiva al
contratto facendo rivendere le cose dagli stessi soggetti (art. 1516).
Il venditore che abbia consegnato la cosa prima del pagamento del prezzo, può (se il
pagamento del prezzo non era sottoposto a termine) chiedere in giudizio, entro quindici
giorni, che la cosa venduta gli sia restituita, purché questa si trovi ancora presso il compratore
(art. 1519). È l’azione di restituzione, non implica la domanda di risoluzione del contratto
e con questa il compratore mira solo a recuperare il possesso della cosa al fine di poter
esercitare il suo diritto di ritenzione.
La vendita di cose mobili può essere fatta con riserva di gradimento: la vendita non si
perfeziona fino a che il compratore non comunica al venditore il proprio gradimento (a.1520).

Nella vendita di cose per le quali è stato emesso un titolo rappresentativo (documento che
rappresenta la vendita), il venditore adempie l’obbligazione di consegnare la cosa rimettendo
al compratore il titolo che la rappresenta (art. 1527). Al momento della consegna del titolo
dovrà essere pagato il prezzo.

Altre norme particolari riguardano la vendita di immobili. Queste possono avvenire a
misura (es. quel determinato terreno a x euro all’ettaro), oppure a corpo (es. quel
determinato terreno segnato da quei determinati confini). Nel primo caso, se la misura
effettiva dell’immobile eccede o è in difetto rispetto alla misura indicata sul contratto, il
compratore o deve pagare un supplemento o ha diritto ad una riduzione del prezzo (oppure ha
facoltà di recedere dal contratto se l’eccedenza supera la 1/20 della misura dichiarata). Nel
caso della vendita a corpo la differenza tra misure effettive e misure dichiarate è ininfluente
sul prezzo, a meno che non sia superiore alla ventesima parte (art. 1538).

La vendita in generale può essere conclusa con patto di riscatto: il venditore si riserva il
diritto di riacquistare la cosa venduta allo stesso prezzo (art. 1500), entro un termine che non
può superare due anni per i mobili e cinque anni per gli immobili (art. 1501). La facoltà di
riscatto è un diritto potestativo del venditore, si esercita con un atto unilaterale di per sé
produttivo dell’effetto giuridico della retrocessione della proprietà. Il patto di riscatto crea
sulla cosa venduta un vincolo reale, ha diritto di seguito sulla cosa e quindi il venditore
potrà opporlo a terzi. Il riscattante riacquista la proprietà della cosa libera da pesi ed ipoteche,
ma è tenuto a rispettare la locazione (art. 1504-1505).

Diversa è la vendita con patto di retrovendita: qui il compratore si obbliga a rivendere la
cosa al venditore con un nuovo contratto di vendita. Non valgono in questo caso i limiti di
tempo e di prezzo, ma neppure si produce il vincolo reale, il patto di retrovendita ha solo
effetti obbligatori: non potrà essere opposto a terzi e il venditore potrà pretendere dal
compratore solo il risarcimento dei danni.

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28.2 Continua: La vendita obbligatoria

Si parla di vendita obbligatoria quando il trasferimento della proprietà non è effetto


immediato del contratto, e il venditore ha l’obbligo di far acquistare la proprietà
della cosa al compratore (art. 1476). L’effetto traslativo della proprietà rimane sempre un
effetto reale della vendita, con la differenza che invece che prodursi immediatamente, alla
conclusione del contratto si produrrà in un momento successivo.
Il momento di acquisto della proprietà e il contenuto dell’obbligazione di trasferire la
proprietà, si possono definire solo in relazione ai singoli casi di vendita obbligatoria:
1. Vendita di cose determinate nel genere. 

La proprietà passa solo al momento dell’individuazione delle cose. L’obbligazione del
venditore di far acquistare la proprietà consiste nell’individuare della cosa nei modi
stabiliti della legge o del contratto.
2. Vendita di cose future. 

Le cose future sono cose che ancora non esistono al momento della conclusione del
contratto, ma che si spera vengano ad esistere (es.vendita del futuro raccolto). La proprietà
passa quando la cosa viene ad esistere (es. nel caso dei frutti naturali con la separazione)
(art. 1472).

La vendita della cosa futura può essere vendita della speranza (emptio spei), oppure
vendita della cosa sperata (emptio rei speratae). La vendita della speranza è un
contratto aleatorio: il compratore dovrà pagare il prezzo indipendentemente dal fatto
che la cosa venga o meno ad esistere. Il secondo è un contratto commutativo, nullo (o
meglio inefficace), se la cosa non viene ad esistenza (art. 1472 comma II). 

L’obbligazione del venditore di far acquistare la proprietà al compratore ha per oggetto i
comportamenti che sono necessari per far sì che la cosa venga ad esistenza (es. coltivare il
fondo, se non lo coltiva è inadempiente).
3. Vendita di cosa altrui. 

Per vendere un bene non occorre esserne proprietario: è valida la vendita di cose al
momento della conclusione contratto non appartengono al venditore. 

Naturalmente la vendita di cosa altrui non trasferisce la proprietà della cosa al compratore,
fa sorgere in capo al venditore l’obbligo di acquistare la proprietà del bene. Il
compratore acquista la proprietà nel momento stesso in cui il venditore diventa
proprietario della cosa (art. 1478), senza un nuovo atto di trasferimento. Se il
venditore non riuscirà a procurarsi la proprietà del bene altrui risulterà inadempiente e
subirà le ordinarie conseguenze: risoluzione del contratto e risarcimento dei danni. 

Per aversi una valida vendita di cosa altrui non occorre che il compratore abbia la
consapevolezza dell’altruità della cosa, ci sono però diverse conseguenze a seconda
che lo sappia o meno: se il compratore è consapevole dell’altruità del bene, in assenza di
termine entro cui adempire, il compratore potrà chiedere al giudice la fissazione di un
termine (art. 1183), e solo una volta decorso potrà chiedere la risoluzione del contratto; nel
caso in cui non sia a conoscenza dell’altruità del bene il compratore potrà domandare
subito la risoluzione del contratto, se nel frattempo il venditore non gli avrà procurato la
proprietà della cosa (art. 1479).

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4. Vendita a rate con riserva di proprietà. 



Si basa su tre principi (art. 1523):
d) Il venditore è obbligato a consegnare immediatamente la cosa al compratore,
che ne acquista subito la facoltà di godimento.
e) Il compratore diviene proprietario della cosa solo con il pagamento dell’ultima rata
del prezzo (in deroga al principio secondo cui il venditore può rifiutarsi di
consegnare prima di aver ricevuto il pagamento del prezzo) 

f) Il compratore si assume i rischi relativi alla cosa venduta (in deroga al
principio secondo cui i rischi relativi alla cosa incombono sul proprietario). Quindi
se la cosa dovesse perire, il compratore dovrebbe comunque continuare a pagare.
Se il compratore non paga le rate entro i termini stabiliti, il venditore può ottenere la
risoluzione del contratto (non può ottenerla per il mancato pagamento di una rata inferiore
ad 1/8 del prezzo complessivo) (art. 1525). Risolto il contratto il venditore potrà esigere la
restituzione della cosa, ma a sua volta dovrà restituire le rate già riscosse, salvo il diritto di
trattenere una quota a titolo di compenso per l’uso (art. 1526). 

La cosa venduta con pagamento a rate con riserva di proprietà, appartenendo al venditore
fino al pagamento dell’ultima rata, non può essere aggredita dai creditori del
compratore. Se per errore venisse pignorata, il venditore può opporsi al pignoramento
mostrando un atto scritto avente data anteriore al pignoramento che accerti la vendita (art.
1524 comma I).
28.3 Il contratto estimatorio

L’acquisto di un bene da parte consumatore finale è un’operazione di trasferimento che è


stata preceduta da una più intensa circolazione del bene (dal produttore al grossista, al
commerciante e infine al consumatore). Sui soggetti che acquistano un bene per rivenderlo
grava il rischio dell’invenduto, ciò dovuto al fato che per la distribuzione si utilizza il
contratto di vendita.
È però possibile utilizzare una diversa figura contrattuale che ha proprio la funzione di
sgravare il rivenditore dal rischio dell’invenduto: il contratto estimatorio.
Frequentemente utilizzato dalle edicole/librerie per l’acquisto di giornali, esso consente di
addossare al produttore il rischio dell’invenduto: è il contratto mediante il quale una parte (es.
l’editore), consegna all’altra (es. il giornalaio), una o più cose mobili, e l’altra parte può, nel
termine pattuito, pagare il prezzo delle cose oppure restituirle (art. 1556).
Chi ha consegnato le cose ne resta proprietario ma non può disporne, chi le ha ricevute, pur
non essendone proprietario, può disporne, ad esempio vendendole (art. 1558 comma I). Se al
termine pattuito il venditore avrà venduto le cose ne pagherà il prezzo, altrimenti le potrà
restituirle (tutte o solo l’invenduto, eventualmente pagandone una parte).

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28.4 La somministrazione, la concessione di vendita, il franchising, il factoring

Somministrazione
La somministrazione è un contratto che si inserisce nello schema della vendita obbligatoria,
assume i caratteri del contratto ad esecuzione periodica o continuata: è il contratto con il
quale una parte si obbliga, verso il corrispettivo di un prezzo, ad eseguire a favore dell’altra
prestazioni periodiche o continuative di cose (art. 1559) (es. gas o luce alle case).
Se l’entità della somministrazione non fosse indicata nel contratto il somministrante fornirà
quantità di beni corrispondenti al fabbisogno normale del somministrato (art. 1560 comma I).
Spesso è stabilito nel contratto un limite minimo o massimo della somministrazione, spetta
allora somministrato stabilire quanto dovutogli (art. 1560 comma II).
Il prezzo, se non è stabilito dal contratto, si determina secondo le norme sulla vendita. Se si
tratta di somministrazione periodica è corrisposto all’atto delle singole prestazioni; se si tratta
di somministrazione a carattere continuativo alla scadenze d’uso (art. 1562). 

Assume rilievo la somministrazione tra produttore e rivenditore, il primo come
somministrante e il secondo come somministrato: il produttore si obbliga a rifornire
continuativamente il rivenditore.
Al contratto possono essere apposti dei patti di esclusiva a favore di una o dell’altra parte.
Con l’esclusiva in favore del produttore, il rivenditore si obbliga a vendere solamente i beni
del produttore, con esclusione di altri prodotti simili. Con esclusiva in favore del rivenditore,
il produttore si impegna a non vendere i propri prodotti ad altri, ma solo nella zona assegnata
al venditore (non è protetto dalle «importazioni libere»).
Concessione di vendita
Dalla somministrazione con esclusiva a fare del somministrante nasce una figura chiamata
concessione di vendita. Il produttore si impegna ad ordinare una quantità minima
periodica del prodotto e ad eseguirne la vendita in una zona determinata, offrendo assistenza
ai clienti prima e dopo la vendita. Differisce dalla ordinaria somministrazione per le
particolari regole interne di organizzazione dell’impresa che il produttore impone al
rivenditore (es. modo in cui i prodotti devono essere esposti, organizzazione interna, ecc.). Il
produttore ha anche la facoltà di stabilire il prezzo cui devono essere venduti i prodotti.
Franchising
Il franchising (“privilegio”) è un contratto tra produttore e rivenditore dove l’influenza del
primo sul secondo si manifesta in modo maggiore rispetto rispetto la concessione di vendita.
 Il
produttore è il franchusor, il rivenditore il franchusee: il primo è l’elaboratore del piano di
mercato dei propri prodotti, il secondo si presenta invece come mero esecutore del piano
proposto dal primo e si presenta al pubblico con la stessa immagine imprenditoriale del
produttore, fino a generare nei consumatori il convincimento che sia lo stesso produttore ad
agire come distributore dei suoi prodotti (es. MacDonald) .

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Factoring
Nel factoring viene in considerazione lo specifico rischio per l’imprenditore
dell’insolvenza dei clienti. Il factor è un imprenditore che si interpone tra il fornitore e i
suoi clienti, stipulando un contratto di factoring, secondo cui:
a) Il fornitore si obbliga a sottoporre al factor i contratti conclusi o da concludere con i
clienti, il factor, valutata la solvibilità dei clienti, si riserva la facoltà di approvare o meno i
crediti nascenti da tali contratti.
b) Il fornitore si obbliga a cedere al factor i crediti da questo approvati, e il factor si
obbliga a sua volta a versare al fornitore, alla scadenza dei crediti, il pattuito corrispettivo
della cessione (l’importo dei crediti meno il compenso per il factor). 


Capitolo ventinovesimo

I CONTRATTI PER IL GODIMENTO DEI BENI 


29.1 La locazione

Art. 1571: «La locazione è il contratto con cui una parte (il locatore) si obbliga a far godere
all’altra parte (il locatario o conduttore) una cosa mobile o immobile, per un dato tempo,
verso un dato corrispettivo».

È un contratto consensuale: si perfeziona con il solo consenso delle parti; è un contratto con
soli effetti obbligatori: il conduttore non ottiene alcun diritto reale sulla cosa locata, bensì un
diritto di credito nei confronti del locatore avente per oggetto il godimento della cosa stessa; è
infine un contratto a titolo oneroso: poiché è essenziale, ai fini di una locazione valida, la
pattuizione di un corrispettivo per il godimento della cosa.

Il godimento della cosa è parte del contenuto del diritto di proprietà (e usufrutto/enfiteusi),
il proprietario (o l’enfiteuta/usufruttuario) concede il diritto di godimento al conduttore ma
solo per un dato periodo di tempo e solo per un uso determinato. Il locatario continua
a godere della cosa, non tramite l’uso, ma tramite i frutti civili derivanti dalla locazione. 

La causa della locazione sta appunto nello scambio tra concessione di godimento di un bene
e corrispettivo del godimento.
La locazione può avere ad oggetto una qualsiasi cosa mobile o immobile, può trattarsi di
una cosa produttiva (cosa di per sé idonea a produrre frutti es. miniera, fondo rustico), in
questo ultimo caso la locazione assume lo specifico nome di affitto, e ha una diversa
disciplina. Norme particolari sono inoltre previste per la locazione di immobili urbani.
Per la conclusione del contratto di locazione, non è necessaria la forma scritta, neanche nei
casi di locazione immobiliare. È necessaria la forma scritta, a pena di nullità, per le locazioni
immobiliari ultranovennali (art. 1305), le quali sono soggette a trascrizione (art. 2643).

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Le OBBLIGAZIONI DEL LOCATORE sono (art. 1575):

a) Consegnare la cosa al conduttore

b) Mantenere la cosa in condizioni tali da servire all’uso convenuto nel contratto.



Spetta al locatore eseguire le riparazioni necessarie a tal fine (straordinaria amm.), al
conduttore spettano le piccole riparazioni ordinarie (ordinaria amm.) (art. 1576)
c) Garantire il pacifico godimento della cosa al conduttore. 

Questa garanzia opera qualora terzi arrechino molestie che diminuiscano l’uso o il
godimento della cosa del locatario, ma opera solo nel caso in cui i terzi pretendono di
avere diritti sulla cosa (es. terzo che pretende servitù) (art. 1585 comma I). Il locatore
per adempiere l’obbligazione di garanzia dovrà agire nei confronti del terzo affinché sia
dichiarato inesistente il diritto da lui preteso, ed ordinata la cessazione delle molestie
(azione negatoria), nel caso sia il terzo ad agire contro il conduttore, il locatore dovrà
assumere la lite (art. 1586). 

Contro le molestie di un terzo che non pretende diritti sulla cosa il conduttore dovrà
difendersi da sé agendo in proprio nome (art. 1585 comma II) esercitando l’azione di
manutenzione, eccezionalmente concessa al locatario come detentore.
Le OBBLIGAZIONI DEL CONDUTTORE sono (art. 1587):

a) Prendere la cosa in consegna ed osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel
servirsene per l’uso determinato nel contratto o che si può presumere dalle circostanze. 

Se la cosa ricevuta in locazione perisce o subisce deterioramento il conduttore ne risponde,
a meno che non provi che ciò è dovuto a causa a lui non imputabile (art. 1588). Non
risponde del logoramento dovuto a vetustità, ossia derivante dal tempo. 

Se apporta miglioramenti alla cosa non ha diritto di farsi indennizzare dal locatore, può
però opporre il loro valore in compensazione di eventuali danni (art. 1592). Se ha eseguito
addizioni separabili dalla cosa, alla fine della locazione potrà toglierle (salvo che il
locatore non voglia tenerle pagando la minor somma fra il valore e la spesa); se le
addizioni non sono separabili vale la stessa norma per i miglioramenti (art. 1593).
b) A dare il corrispettivo nei termini stabiliti (art. 1587 n. 2). Il corrispettivo consiste in
una somma di denaro commisurata alla durata della locazione. I corrispettivi determinati
ad anno o a mese, sono detti canoni, e vengono corrisposti periodicamente; gli altri sono
dati di generalmente alla fine del contratto.
c) A restituire la cosa al termine della locazione, nel medesimo stato in cui l’ha ricevuta,
salvo il deterioramento derivato dall’uso (art. 1590). 

Se la restituisce in ritardo dovrà pagare il corrispettivo anche per il periodo di ritardo,
salvo l’obbligo di risarcire il locatore per il maggior danno: il più alto prezzo che il
locatore avrebbe ottenuto, date le variazioni di mercato, da altro conduttore (art. 1591).
Essenziale per la locazione è la temporaneità del godimento, non è possibile stipulare una
locazione di durata superiore a trenta anni, se stipulata per durata superiore si riduce
automaticamente (art. 1573).

La locazione può essere a tempo determinato, in questo caso cessa con il raggiungimento del
termine, oppure a tempo indeterminato e cessa con la disdetta: il recesso unilaterale di una

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delle parti comunicato all’altro contraente con il preavviso stabilito nel contratto (art.
1596).La locazione a tempo determinato è suscettibile di rinnovazione tacita: se dopo la
scadenza il conduttore rimane in detenzione della cosa con il consenso del locatore, il
contratto si ritiene tacitamente rinnovato a tempo indeterminato (art. 1597).
Il diritto del conduttore è opponibile al terzo acquirente, purché la locazione abbia data
certa anteriore al trasferimento (art. 1599). Il nuovo proprietario resta a sua volta vincolato
dalla locazione e subentra nei diritti e negli obblighi derivanti dal contratto (art. 1602).

Il conduttore può sublocare la cosa, cioè darla a sua volta in locazione, senza il consenso
del locatario, salvo che la sublocazione non sia vietata dal contratto. Il consenso del locatore
occorre per la sublocazione di cose mobili (art. 1594). Il locatore, non pagato dal conduttore,
può agire direttamente contro il subconduttore (art. 1595).
29.2 Continua: la locazione di immobili urbani

L’ammontare del canone della locuzione è rimesso all’accordo delle parti secondo i principi
generali sull’autonomia contrattuale. Esso dipenderà di fatto, dalla legge di mercato, della
domanda e dell’offerta. Sugli opposti interessi delle parti influisce anche la durata della
locazione, in quanto il conduttore pagherà sempre lo stesso canone, per tutta la durata della
locazione: il canone pattuito è invariabile, anche se le condizioni di mercato mutano.

Ai principi generali sono sottratte le locazioni di immobili urbani, valgono regole particolari
che riguardano:
a) Le case per abitazione.

Leggi del ’78 e del ’92 concependo la casa come un bisogno primario, avevano stabilito il
c.d. equo canone, per cui il canone non poteva superare il 3,85% del valore
dell’immobile e avevano stabilito inoltre che la durata minima era di 4 anni rinnovabile
tacitamente.
 La legge nel ’98 ha soppresso definitivamente l’equo canone ed è stato
introdotto un duplice regime:
• Locazione a libero mercato, con canone rimesso all’autonomia contrattuale; ma
la durata della locazione non può essere inferire a quattro anni, con rinnovo per altri
quattro anni, in mancanza di disdetta.
• Locazioni in base agli accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della
proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori, aventi per oggetto l’entità dei
canoni e della durata dei contratti di locazione. 

b) Immobili urbani ad uso diverso dall’abitazione. 

Si ha una parziale sospensione delle leggi di mercato, in modo tale che la rendita
immobiliare non incida sulle attività economiche o sociali, aumentandone i costi. Non c’è
un criterio di legge per determinare il valore iniziale del canone che è rimesso alle leggi di
mercato. È sottratta all’autonomia negoziale le parti la durata del contratto: non può essere
inferiore a sei anni e si rinnova di sei anni in sei anni, salvo disdetta.

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29.3 L’affitto

La locazione che ha per oggetto una cosa produttiva prende il nome di affitto (art. 1615).
È necessario, perché non si parli di affitto, che la cosa sia di per sé produttiva di frutti, come
un fondo rustico o un’azienda (art. 2562), non si tratta di affitto se la cosa locata è uno
strumento produttivo (es. impianti o macchinari).
L’affittuario ha l’ulteriore obbligo di curare la gestione della cosa produttiva, secondo
la sua destinazione economica (art. 1615), diversamente dal semplice conduttore che può
anche astenersi dall’uso. Ciò va sia a favore del locatore, la cui cosa se sfruttata in modo
adeguato non perde valore economico, sia a favore della produzione nazionale. L’affittuario
ha il diritto di fare propri i frutti che derivano dalla cosa produttiva (art. 1615).
Il locatore ha un diritto di controllo, anche con accesso in luogo, sull’osservanza degli
obblighi dell’affittuario (art. 1619). Il locatore può chiedere la risoluzione del contratto se
l’affittuario non destina al servizio della cosa i mezzi necessari per la sua gestione, non
osserva le regole della buona tecnica o muta la destinazione economica della cosa (art. 1618).
L’affittuario non può subaffittare senza il consenso del locatore (art. 1624).
L’affitto dei fondi rustici può riguardare anche le scorte del fondo: le scorte vive, come il
bestiame da lavoro, e le scorte morte, come macchine e attrezzi (art. 1640 1641).

Un particolare tipo di affitto del fondo rustico è l’affitto al coltivatore diretto: l’affittuario
è un piccolo imprenditore agricolo che coltiva il fondo prevalentemente con il proprio lavoro
o di membri della propria famiglia (art. 1647).
La legge, riguardo l’affitto di fondo rustico, ha introdotto nuove norme per la determinazione
dell’equo canone e per la disciplina dei miglioramenti, mentre ha fissato a quindici anni la
durata minima dell’affitto a coltivatore diretto. L’affittuario può sempre recedere dal
contratto, il locatore può, solo in caso di inadempimento dell’affittuario, richiedere al giudice
la risoluzione.
29.4 Il leasing o locazione finanziaria

Il leasing è un contratto atipico largamente utilizzato in Italia. L’impresa di leasing si


interpone tra due categorie di imprenditori: da un lato gli imprenditori produttori attrezzature,
dall’altro gli imprenditori utilizzatori di tali strumenti. L’impresa di leasing compra il bene
dal produttore su indicazione dell’utilizzatore, ne resta proprietaria e concede tale bene in
godimento all’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi.
In forza del contratto di leasing:
• Il CONCEDENTE si obbliga a consentire all’utilizzatore il godimento della cosa
per un tempo determinato. 

Può essere pattuita a favore dell’utilizzatore, o la facoltà di proroga al termine del
contratto, oppure l’opzione di acquisto dei beni al termine del contratto.
• L’UTILIZZATORE assume i rischi inerenti alla cosa e si obbliga a corrispondere al
concedente un canone periodico. 

Il contratto assolve essenzialmente una funzione di finanziamento, equivalendo nella
sostanza ad un prestito. La garanzia dell’impresa di leasing sta nel fatto di rimanere
comunque proprietaria del bene dato in godimento all’utilizzatore.

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Capitolo trentesimo
I CONTRATTI PER LA PRODUZIONE DI BENI O L’ESECUZIONE DI SERVIZI
30.1 L’appalto

Art.1655:« L'appalto è il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei
mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio
verso un corrispettivo in danaro »
A volte l’imprenditore non produce in serie, bensì provvede alla vendita operando su
commissione del cliente. È il caso questo degli appaltatori di opere (es. costruzione di un
edificio o di una diga) o servizi (es. pulizia di un locale o manutenzione di un macchinario).

Per l’art.1655 l’appalto è il contratto mediante il quale l’appaltatore si obbliga verso il
committente, dietro corrispettivo in denaro, a compiere un opera o un servizio, con
propria organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio.
L’appaltatore inoltre, per eseguire l’opera o il servizio utilizza propri materiali (art. 1658), ed
assume il rischio dell’affare:
a) Il rischio di non coprire i costi di costruzione dell’opera o esecuzione del servizio
con il corrispettivo pattuito. Questo rischio è attenuato dall’art.1664: se i costi dei
materiali o della manodopera aumentano dopo la conclusione del contratto, per oltre il
dieci per cento del compenso pattuito, l’appaltatore può chiedere una revisione del
corrispettivo (nell’ipotesi inversa può chiederla anche il committente). 

b) Il rischio di non ricevere il compenso pattuito se nonostante l’attività da lui svolta
e le spese affrontate, non riesce a realizzare l’opera (salvo che la sua esecuzione sia
diventata impossibile per causa a lui non imputabile), oppure se la realizza ma non
secondo il progetto convenuto (art. 1667) o se, infine, l’opera perisce prima della
consegna al committente (art. 1673). 

L’obbligazione assunta dall’appaltatore non è una obbligazione di mezzi, ma una obbligazione
di risultato, per cui l’appaltatore risulta inadempiente in tutti i casi in cui non procura al
committente il risultato pattuito. Solo qualora l’impossibilità della prestazione non sia imputabile
a nessuna delle due parti, l’appaltatore ha diritto a chiedere il compenso per la parte d’opera
svolta, nella misura in cui la sua attività sia utile al committente (art. 1672).
L’appaltatore è inadempiente anche quando l’opera da lui realizzata sia difforme dal progetto
convenuto o presenti vizi. Il committente ha sessanta giorni dalla scoperta (1 anno in caso di
immobili) per denunciare le difformità o i vizi, ed invocare la garanzia dell’appaltatore
(art. 1667): può chiedere che gli eventuali vizi o difformità siano eliminate, oppure può
chiedere una proporzionale riduzione del corrispettivo, salvo il risarcimento del danno per
colpa dell’appaltatore (art. 1668). La garanzia non è dovuta dall’appaltatore se il committente
aveva accettato l’opera ed era a conoscenza delle difformità o i vizi oppure erano da lui
conoscibili con ordinaria diligenza.
Se l’appalto ha per oggetto edifici o altri immobili destinati a lunga durata, all’ordinaria
responsabilità si aggiunge la responsabilità per rovina, o per pericolo di rovina o gravi
danni. Tale forma di responsabilità ha durata decennale e l’azione può essere esercitata sia
dal committente sia dai suoi futuri ed eventuali aventi causa.

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È protetta anche l’aspettativa di profitto dell’appaltatore: il committente può recedere


dal contratto in qualsiasi momento, ma deve corrispondere all’appaltatore il rimborso delle
spese da lui sostenute e risarcirlo del mancato guadagno (art. 1671).
Il corrispettivo dell’appalto può essere determinato a corpo (per l’opera nel suo complesso)
o a misura (es. per ogni km di strada costruito). È dovuto, di regola, solo alla conclusione
dell’opera e solo dopo che sia avvenuto il collaudo (la verifica e accettazione dell’opera da
parte del committente).
L’appaltatore può avere per oggetto prestazioni continuative o periodiche di servizi, sono i
casi del c.d. appalto-somministrazione: ad esso si applicano anche le norme, perché
compatibili, sulla somministrazione (art. 1677).
30.2 Il contratto d’opera

Il contratto d’opera ha la stessa struttura dell’appalto: il prestatore d’opera si obbliga verso il


committente a compiere, dietro corrispettivo, un’opera o un servizio. Differisce dall’appaltatore
poiché compie l’opera con lavoro prevalentemente proprio (art. 2222). In linea generale
si può dire che l’appalto è il contratto del grande/medio imprenditore, il contratto d’opera è quello
del piccolo imprenditore, e in particolare dell’artigiano.
Affinché si possa parlare di contratto d’opera il lavoro deve essere necessariamente lavoro
autonomo: non ci deve essere un vincolo di subordinazione nei confronti del committente
(art. 2222), altrimenti saremmo in presenza di un contratto di lavoro subordinato. Il criterio di
differenziazione dei due contratti risiede nella esenzione del prestatore d’opera all’altrui
potere direttivo circa le modalità di esecuzione della prestazione.
Non è sempre facile distinguere ill contratto d’opera da quello di vendita, il criterio
distintivo sta nello stabilire se le parti abbiano in prevalente considerazione l’opera oppure la
materia. Ad esempio non è contratto d’opera quello con cui chiediamo al barista di farci un
caffè (prevale la materia); è, invece, contratto d’opera quello con cui chiediamo alla sarta di
farci un vestito misura (prevale l’opera).
Il contratto d’opera sembrerebbe volto a retribuire il lavoro dell’artigiano, ma il corrispettivo
non si calcola in base al lavoro svolto dal lavoratore, ma, se questo non sia stabilito nel
contratto (e non ci siano usi o tariffe professionali), in relazione al risultato ottenuto e dal
lavoro normalmente necessario per ottenerlo. Il codice civile, in questo modo, addossa al
prestatore d’opera il rischio del lavoro, trattandolo come l’appaltatore. Infatti, se per causa
non imputabile né a lui né al committente l’esecuzione dell’opera diventa impossibile, al
punto tale da non portare alcun risultato utile al committente, avrà lavorato invano. Come per
l’appaltatore in questi casi, al lavoratore autonomo spetta un compenso nei limiti
dell’utilità che la parte del lavoro svolto porta al committente (art. 2228).
Dal normale contratto d’opera manuale si distingue il contratto d’opera intellettuale (art.
2230): ha per oggetto una prestazione svolta dagli esercenti le professioni liberali (avvocati,
medici, ingegneri, ecc.). L’obbligazione del prestatore d’opera intellettuale, al contrario
dell’appalto e del contratto d’opera manuale, è una obbligazione di mezzi avente per
oggetto una condotta professionale diligente ed esperta, l’impiego di mezzi idonei a
conseguire un risultato, ma non ha per oggetto la realizzazione del risultato. 

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Il rischio del lavoro incombe sul cliente: il prestatore d’opera intellettuale sarà
adempiente ed avrà diritto al corrispettivo anche quando, agendo con la perizia e la diligenza
richiesta, il suo lavoro non avrà prodotto i risultati sperati dal committente.
Se la prestazione implica la risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore
d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave (art. 2236).
30.3 Il trasporto


Art. 1678: «Col contratto di trasporto il vettore si obbliga, verso corrispettivo, a trasferire
persone o cose da un luogo all’altro»
Il trasporto è il contratto in cui il servizio consiste nel trasferire persone o cose da un luogo
all’altro, il committente nel trasporto di persone è il viaggiatore, nel trasporto di cose il
mittente; e chi si obbliga, verso corrispettivo, al trasporto è il vettore. L’obbligazione del
vettore è una obbligazione di risultato, che consiste nel portare, fino alla destinazione
convenuta, le cose intatte o le persone incolumi.
Il vettore è inadempiente e risponde del danno:
1. Per la mancata esecuzione del trasporto o il ritardo, salvo provi che il mancato
trasporto o il ritardo sono dovuti a causa a lui non imputabile.
2. Per il sinistro che hanno subito i passeggeri durante il trasporto e per le perdite o
avarie delle cose trasportate.
La prova liberatoria è differente seconda che si tratti di trasporto di cose o di persone

a) Nel trasporto di cose il vettore è responsabile dal momento in cui le riceve al momento
in cui le consegna, a meno che non dimostri che la perdita o l’avaria sono derivate da
caso fortuito, oppure da vizi della cosa trasportata o, in genere, per fatto del mittente. 

È una responsabilità gravosa, conseguente alla obbligazione di risultato: per liberarsi deve
fornire la prova positiva che identifichi la specifica causa a lui non imputabile della perdita
o del danno, con la conseguenza che sono a suo rischio le cause ignote. Questa
responsabilità è mitigata dalla presunzione contrattuale di caso fortuito (art. 1694), con cui
si prevedono altre specifiche cause di esonero da responsabilità.
b) Nel trasporto di persone la prova è più rigorosa: il vettore si libera soltanto
dimostrando di «aver adottato tutte le misure idonee per evitare il danno» (Art.
1681 comma I). Il vettore è liberato solo se dimostra che il danno era inevitabile, benché
egli avesse assunto tutte le misure di prevenzione adatte. Il vettore quindi, se non aveva
assunto tutte le misure idonee ad evitare il danno, risponde anche per i danni cagionati da
caso fortuito. Al viaggiatore basta provare l’esistenza del contratto di trasporto e del danno
subito durante il viaggio, spetta invece al vettore dimostrare l’inevitabilità del danno. Non
sono ammesse nel trasporto di persone clausole che limitino la responsabilità del vettore
(art. 1681 comma II).
Il vettore può anche chiamato a rispondere del sinistro subito dal viaggiatore e del danno alle
sue cose anche a titolo di responsabilità extracontrattuale, applicando gli artt. 2043ss.,
e non l’art. 1618. L’opzione per l’azione extracontrattuale si giustifica per il più ampio
termine di prescrizione, due anni dal fatto (art. 2947 comma II) anziché un anno (art. 2951).

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Diverso trattamento previsto per trasporto ferroviario: il vettore si libera dalla


responsabilità dimostrando che il danno è stato cagionato da causa a lui non imputabile.
Le disposizioni dell’art. 1681 si applicano anche al trasporto gratuito, che è pur sempre un
contratto, ma non al trasporto di cortesia, come nel caso in cui passeggero sia un
autostoppista: in questo caso non sorge alcuna obbligazione in capo al vettore, dell’eventuale
sinistro risponde solo per responsabilità extracontrattuale.

Il trasporto marittimo è regolato dal codice della navigazione in modo diverso da quello
terrestre sulla base dell’idea che ogni viaggio per mare esponga a gravi pericoli e quindi non
sia giusto addossare tutti i rischi al vettore. 

Nel trasporto marittimo di persone, infatti, trova applicazione il principio della comune
responsabilità del debitore ex. art. 1218: il vettore risponde dei sinistri subiti dal passeggero
dipendenti da fatti verificatisi durante il trasporto, oppure dalla inesecuzione o del ritardo del
trasporto, salvo non provi che il fatto deriva da causa a lui non imputabile.
Nel trasporto marittimo di cose la responsabilità che il vettore ha nei confronti del
mittente (qui detto caricatore) è assai meno gravosa. Ciò si coglie sotto due aspetti: nella
previsione dei pericoli eccettuati e nel limite al risarcimento dovuto al vettore.
• Riguardo i pericoli eccettuati assume rilievo la distinzione tra colpa del vettore
verificatasi prima oppure dopo l’inizio del viaggio; e dopo l’inizio del viaggio la
distinzione tra colpa nautica e colpa commerciale dell’equipaggio. È colpa nautica la
negligenza, l’imperizia o imprudenza del comandante o dell’equipaggio della nave nella
conduzione e nella manutenzione di questa; è colpa commerciale la loro negligenza,
imprudenza o imperizia nella utilizzazione della nave per il trasporto. 

Il vettore risponde della perdita o dell’avaria della merce o del ritardo del trasporto solo se
dipende da sua colpa manifestatasi prima dell’inizio del viaggio (art. 412), o durante il
viaggio, per colpa commerciale. Non risponde dei vizi occulti, né per colpa nautica. 

Non risponde inoltre per tutta una serie di altri pericoli eccettuati (tempesta, fatti di guerra,
pirateria, ecc.): di fronte ad un pericolo eccettuato il vettore può essere comunque
chiamato a rispondere, ma spetta al caricatore l’onere di provare la colpa del vettore.
• La responsabilità del vettore marittimo è limitata al valore della merce dichiarato dal
caricatore al momento dell’imbarco, non risponde se prova che la dichiarazione del
caricatore era inesatta (art. 423).

Sono ancora diverse le norme riguardo la responsabilità del vettore nel trasporto aereo. La
responsabilità è molto più rigorosa.
Il vettore aereo risponde: nel trasporto di cose delle perdite e delle avarie del carico e del
ritardo del trasporto (art. 951), nel trasporto di persone dei sinistri che colpiscono il
passeggero (art. 942). In entrambi i casi per liberarsi deve provare che i suoi dipendenti
abbiano adottato tutte le misure necessarie e possibili per evitare il danno, secondo
la normale diligenza. Nel trasporto aereo di cose il vettore si libera dimostrando che il danno
è stato dovuto da colpa nautica lieve.
La responsabilità del vettore aereo è illimitata se il danno è dovuto a colpa grave sua o dei
suoi dipendenti, altrimenti è limitata nel trasporto di persone, ad una cifra massima
predeterminata per legge e, nel trasporto di cose, al valore delle cose trasportate dichiarato
dal mittente prima del trasporto.

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30.4 Il deposito

Art.1776:«Il deposito è il contratto col quale una parte (depositario) riceve dall’altra
(depositante) una cosa mobile con l’obbligo di custodirla e restituirla in natura»
Nel contratto di deposito il servizio dedotto in contratto consiste nella custodia di una
cosa mobile, cui il depositario si obbliga nei confronti del depositante, con l’obbligo del
depositario di restituirla in natura (art. 1766) a richiesta del depositante, e con l’obbligo del
depositante di ritirarla alla scadenza del termine, se previsto quando viene previsto, altrimenti
a richiesta del depositario (art. 1771).
Il deposito è un contratto reale, si perfeziona cioè con la consegna della cosa, ed è un
contratto che si presume gratuito, salvo che il depositario non eserciti professionalmente
l’attività dedotta in contratto (art. 1767) (es. gestori di parcheggi custoditi). Ma anche quando
il deposito è oneroso non c’è rapporto di corrispettività fra obbligazione al deposito e
obbligazione al compenso: il depositario non può, di fronte al depositante inadempiente,
avvalersi dell’eccezione di inadempimento e lasciare incustodita la cosa (comportamento
contrario alla buona fede, art. 1460).
Il deposito ha per oggetto, generalmente, cose infungibili delle quali il depositario non
può servirsi (art. 1770) e che deve restituire in natura. È però ammesso il deposito
irregolare, avente ad oggetto cose fungibili delle quali il depositario diventa proprietario,
con facoltà di servirsene (art. 1782). Il deposito irregolare assolve una duplice funzione: è
interesse del depositante la custodia delle cose fungibili, è interesse del depositario la
funzione di credito che questo contratto assolve. Al deposito irregolare si applicano, in
quanto compatibili, le norme sul mutuo (art. 1782 comma II).
Per l’art. 1768 il depositario deve custodire la cosa con media diligenza. L’art. 1780 specifica
che il depositario è liberato dall’obbligo di restituzione, se la cosa gli è tolta «in conseguenza di
un fatto a lui non imputabile» (ma con l’obbligo di farne immediata denuncia al depositante). Il
depositario è inadempiente se non prova che uno specifico fatto, a lui non imputabile, gli ha
fatto perdere la detenzione della cosa (o ne ha determinato la distruzione o il deterioramento).
Vale anche qui la norma generale ex art. 1218, il criterio della media diligenza si applica solo
dopo che il depositario ha fornito la prova (es. l’incendio del magazzino da parte dei ladri libera
non il depositario se era evitabile con dei sistemi anti-incendio). In caso di deposito gratuito la
responsabilità per colpa è valutata con meno rigore.

Diverse regole valgono per il deposito in albergo. L’albergatore ha responsabilità
limitata riguardo la perdita o il deterioramento delle cose portate dai clienti, per un limite
massimo di 100 volte il prezzo dell’alloggio giornaliero.
È però illimitata la custodia dell’albergatore, rispetto alle cose portate dai clienti:
a) Quando la sottrazione, perdita o deterioramento riguardino cose consegnate in custodia
all’albergatore o cose che egli si è illegittimamente rifiutato di ricevere (art. 1784)
b) Quando la perdita, sottrazione o la perdita siano imputabili a colpa sua o dei suoi ausiliari. La
responsabilità riguarda anche le cose portate in albergo e non consegnate all’albergatore: non
deriva quindi dall’inadempimento ad un contratto di deposito, bensì da un’obbligazione
accessoria di garantire l’integrità e la sicurezza dei propri clienti e dei loro beni.
I magazzini generali sono imprese di custodia di merci che operano nei centri di maggiore
traffico. La loro responsabilità per la conservazione delle merci è eguale a quella del vettore
di cose.

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Capitolo trentunesimo

I CONTRATTI PER IL COMPIMENTO O PER LA PROMOZIONE DI AFFARI
31.1 Il mandato

Art.1703:«Il mandato è il contratto col quale una parte (mandatario) si obbliga a compiere
uno o più atti giuridici per conto dell’altra (mandante)».
Ognuno può provvedere da sé ai propri affari oppure affidarne la cura ad altri, occorre,
naturalmente, che colui il quale viene incaricato per svolgere queste mansioni accetti
l’incarico, ed il mandato è il contratto con il quale una parte, detta mandatario, si obbliga nei
confronti dell’altra, detta mandante, a compiere uno o più atti giuridici per conto di
quest’ultima (art. 1703).
L’oggetto del mandato è una prestazione di fare: il compimento di un servizio, nel senso
più ampio di questa espressione.

Differisce dal contratto d’opera per la specifica natura del servizio che il mandatario si
obbliga a svolgere, il quale non consiste nello svolgimento di una qualsiasi attività materiale
o intellettuale, ma nel compimento di atti giuridici per conto altrui. E sono atti
giuridici, agli effetti dell’art. 1703, quegli atti che vengono in considerazione esclusivamente
per le loro conseguenze giuridiche, come i contratti, l’esecuzione di pagamenti, ecc.
Il mandatario si obbliga a compiere atti giuridici per conto altrui: non nel proprio interesse
ma nell’interesse del mandante.

Il mandato può essere con rappresentanza o senza rappresentanza, nel primo caso il
mandatario è investito da una procura e, oltre che per conto, agisce anche in nome del
mandante: gli atti giuridici da lui compiuti produrranno effetti direttamente nei confronti del
mandante (art. 1704).
Il mandato può essere speciale oppure generale. Il mandato speciale riguarda il
compimento di uno o più atti giuridici determinati; il mandato generale riguarda, invece,
la cura di tutti gli interessi del mandante (o di tutti gli interessi di un certo tipo, es. tutti gli
affari all’estero). Il mandato generale comprende però solo gli atti di ordinaria
amministrazione, quelli di straordinaria amministrazione possono essere compiuti solo se
espressamente menzionati nel mandato (art. 1708 comma II).
Il mandato è, di regola, un contratto a titolo oneroso, ma le parti possono pattuire un
mandato gratuito. Se il corrispettivo del mandatario non è stabilito dal contratto, dalle tariffe
professionali o dagli usi, sarà deciso dal giudice (art. 1709).

In ogni caso il mandatario deve eseguire il contratto con la diligenza del buon padre di
famiglia; in caso di mandato gratuito la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore
(art. 1710). Il mandante deve fornire al mandatario i mezzi necessari all’esecuzione del
contratto, rimborsargli le spese e pagargli il corrispettivo (artt. 1719-1720).
Il mandato si basa sulla fiducia che il mandante ripone nel mandatario. Ne consegue:

a) Che il mandatario non può farsi sostituire da altri nell’esecuzione del mandato,
salvo che non sia stato autorizzato dal mandante oppure la sostituzione sia necessaria
per la natura dell’incarico; altrimenti risponde dell’operato del suo sostituto (art. 1717). 


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b) Il mandato si estingue per morte di uno dei contraenti (art. 1722) 


c) Il mandante può, in ogni momento, revocare il mandato e recedere dal contratto,


risarcendo i danni al mandatario se si tratta di mandato oneroso (art. 1725). 

Occorre una giusta causa di revoca, ossia una giusta causa di recesso, se si tratta di
mandato qualificato dalle parti come irrevocabile o di mandato conferito anche
nell’interesse del mandatario o di terzi (c.d. mandato in rem propriam) (art. 1723). 

Si ha mandato in rem propriam quando tra il mandate e il mandatario esiste un precedente
rapporto per cui il primo è creditore del secondo, tale rapporto potrebbe essere estinto con il
compimento del mandato, ragion per cui il mandante non può revocarlo a piacimento.
Il mandatario può rinunciare al mandato, dovrà però risponderà però dei danni che il suo
recesso provoca al mandante.

Esistono casi di mandato collettivo:
• Il mandato può essere affidato da più mandanti ad un unico mandatario per un affare di
interesse comune, in tal caso la revoca deve provenire da tutti i mandanti, salvo che
ricorra una giusta causa (art. 1726).
• Il mandato può anche essere affidato dallo stesso mandante a più mandatari, in questo caso
ognuno da solo può concludere l’affare (mandato disgiuntivo), salvo che il contratto non
obblighi i mandatari ad operare insieme (mandato congiuntivo). In mandato si estingue
anche se la causa di estinzione riguarda un solo mandatario (art. 1716, 1730).
31.2 La commissione e la spedizione

Art.1731:«Il contratto di commissione è un mandato che ha per oggetto l’acquisto o la


vendita di beni per conto del committente e in nome del commissionario»
Il contratto di commissione è una sottospecie di mandato, in particolare è un mandato a
vendere o a comprare per conto del committente ed in nome del commissionario; il
mandato è revocabile finché la vendita non sia stata conclusa (art. 1734).

Rispetto al mandato la commissione si caratterizza sotto un duplice aspetto:
a) Gli atti giuridici che il commissionario si obbliga a compiere sono contratti di vendita.
b) È un mandato senza rappresentanza (art. 1705), per cui il commissionario acquista
o vende per conto altrui ma in nome proprio. Alla conclusione della vendita il
commissionario è obbligato a trasferire al committente le cose acquistate o il prezzo
delle cose vendute in esecuzione del contratto. 

Il commissionario compra e vende le cose per il committente, perciò non ha il rischio
dell’invenduto, ma partecipa comunque al rischio della distribuzione: viene, infatti,
retribuito a provvigione (art. 1733), cioè con una percentuale sul valore dell’affare.

Egli ha anche a proprio carico i rischi di agire in nome proprio, ad esempio risponde per
i vizi della cosa venduta, salvo il suo diritto di essere risarcito dal committente (art. 1720). Di
regola non è responsabile per l’esecuzione degli affari conclusi, non risponde
dell’inadempimento del terzo contraente. Solo se viene pattuito il «star del credere», in forza
del quale il commissionario garantisce di persona dell’adempimento del terzo (art. 1736).


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La spedizione è sempre un mandato per conto altrui ma in nome proprio, ma si distingue


perché è un contratto a concludere, dietro provvigione. un contratto di trasporto ed a
compiere le operazioni accessorie (art. 1737); mandato revocabile fino a che il contratto di
trasporto non sia stato concluso (art. 1738).
30.3 I contratti per la promozione di affari: la mediazione e l’agenzia

Sono contratti che mirano alla promozione degli affari, cioè nel predisporre tutto affinché le
parti in possano concludere affari fra loro.

Il mediatore è una figura neutrale, definita dall’art.1754: colui che mette in relazione
due o più parti, per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da
rapporti di collaborazione, dipendenza o rappresentanza. 

È retribuito con provvigione da entrambe le parti, ma solamente se l’affare viene concluso
(art. 1755), altrimenti gli spetta solo il rimborso per le spese sostenute (art. 1756).
È essenziale, perché si parli di mediazione, che il mediatore sia indipendente ed
imparziale. Il mediatore conserva piena libertà di azione, in quanto egli è spinto a
promuovere l’affare solo con riguardo al proprio interesse a percepire la provvigione.
Sul mediatore gravano alcune responsabilità nei confronti delle parti: deve comunicare le
circostanze a lui note relative alla valutazione ed alla sicurezza dell’affare e risponde
dell’autenticità della sottoscrizione delle scritture (art. 1759).

Il mediatore è tenuto ad iscriversi ad un apposito ruolo dei mediatori, istituito presso la
camera di commercio, pena la perdita del diritto alla provvigione.
L’agente di commercio differisce dal mediatore per la parzialità e dipendenza del suo
ruolo e per il stabilità del suo incarico. Secondo l’art. 1742 con il contratto di agenzia
l’agente assume stabilmente l’incarico di promuovere, nei confronti di un determinato
preponente, la conclusione di contratti in una determinata zona.
Egli ha dunque un rapporto stabile con l’imprenditore preponente, basato su un contratto di
durata. Al contratto d’agenzia inerisce il dritto d’esclusiva di entrambi i contraenti: il
preponente dà in esclusiva una determinata zona, per la promozione degli affari, solo a
quell’agente, il quale a sua volta si obbliga a proporre solo i contratti del suo preponente.
L’agente procura e trasmette le ordinazioni dei clienti al preponente, il quale si occuperà della
conclusione dei contratti, salvo non sia dotato di rappresentanza e possa stipulare contratti.

L’agente assume tutto il rischio della sua attività, viene pagato con provvigione e non ha
diritto al rimborso delle spese (art. 1748 comma II). La provvigione, inoltre, gli spetta solo
per gli affari regolarmente eseguiti: non riceve la provvigione anche quando un cliente da lui
procurato, pur avendo concluso il contratto, si dimostra inadempiente.
L’agente di commercio è un imprenditore (in quanto assume il rischio del suo operato), ma la
sua posizione di sostanziale subordinazione al preponente ha comportato un sia parziale
assimilazione al lavoratore subordinato: gli agenti, alla stregua dei subordinati, formano una
categoria sindacale che stipula accordi collettivi e hanno diritto al TFR.
Cessato il rapporto con l’imprenditore può essere stipulato un patto di non concorrenza.
Gli agenti devono essere iscritti in un apposito ruolo pubblico, pena la nullità del contratto.

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Capitolo trentaduesimo

I CONTRATTI DI PRESTITO
32.1 Il comodato

Art.1803:«Il comodato è il contratto col quale una parte (comodante) consegna all’altra
(comodatario) una cosa mobile o immobile, affinché sene serva per un tempo o per uso
determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. Il comodato è essenzialmente
gratuito.».

Il prestito, giuridicamente, assume due forme distinte: quella del comodato che ha per oggetto
cose immobili o cose mobili infungibili, e quella del mutuo che ha per oggetto somme di
denaro o determinate quantità di cose fungibili.

Il comodato è un contratto reale, si perfeziona con la consegna di una cosa dal comodante al
comodatario, affinché questi se ne serva per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la
stessa cosa ricevuta (art. 1803 comma I). La consegna della cosa non è un’obbligazione
che sorge dal contratto, è requisito necessario per la conclusione del contratto. La legge
protegge solo l’interesse del comodante alla restituzione della cosa poiché questa è l’unica
obbligazione del contratto.
È un contratto a titolo gratuito (art. 1803 comma II), la causa è, di solito, lo spirito di
liberalità del comodante (es. concedo in comodato un oggetto ad un amico), ma può anche
trattarsi di un prestito gratuito giustificato dai rapporti di affari intercorrenti tra le parti. Nel
caso in cui fosse pattuito un corrispettivo non si avrà più un comodato, ma una locazione: la
gratuità è criterio distintivo tra comodato e locazione. Al comodatario però può essere
imposto un onere, come al donatario.
Il comodatario può servirsi della cosa solo per l’uso convenuto, deve custodirla con la
diligenza del buon padre di famiglia e non può darla in subcomodato senza il consenso del
comodante (art. 1804). Se la cosa perisce per caso fortuito è responsabile solamente se
potendo scegliere tra salvare la cosa in comodato o una propria, salva la propria (art. 1805).
La restituzione della cosa deve avvenire alla scadenza pattuita o, in assenza di termine, a
richiesta del comodante oppure quando il comodatario se ne sarà servito per l’uso convenuto,
salvo che nel frattempo non sia intervenuto un bisogno urgente ed imprevisto del comodante
(art. 1809 -1810).

Si parla di precario quando sia stato espressamente previsto che il comodatario deve
restituire la cosa appena il comodante ne faccia richiesta.
32.2 Il mutuo

Art.1813:«Il mutuo è il contratto col quale una parte (mutuante) consegna l’altra (mutuatario)
una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili, e l’altra si obbliga a restituire
altrettante cose della stessa specie e qualità».
Il mutuo è il prestito di determinate quantità di denaro o di altre cose fungibili. La
conseguenza del mutuo è che le cose consegnate dal mutuante al mutuatario passano in
proprietà di quest’ultimo (art. 1814), il quale è obbligato a restituire al mutuante, altrettante
cose della stessa specie e qualità (art. 1813).

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Il mutuo può essere un contratto sia reale che consensuale. Normalmente è un


contratto reale che si perfeziona con la consegna e il passaggio di proprietà della cosa
(art.1814). Il c.c. ammette però la promessa di mutuo (o contratto di finanziamento), che
ha la specifica funzione di tutelare non solo l’interesse del mutuante alla restituzione della
cosa ma anche l’interesse del mutuatario a riceverla. Chi ha promesso un mutuo può rifiutare
l’adempimento se, fra il momento della promessa e quello pattuito per l’esecuzione, le
condizioni patrimoniali del mutuatario sono diventate tali da rendere difficile la restituzione e
non gli sono offerte idonee garanzie (art. 1822). L’inadempimento della promessa può dare
luogo solo al risarcimento del danno, mai ad una esecuzione in forma specifica.
Il mutuo è, salvo non sia espressamente voluto come gratuito, un contratto a titolo oneroso: il
corrispettivo che il mutuatario deve al mutuante consiste negli interessi, questi sono dovuti
secondo il tasso legale del 10%, un tasso maggiore deve essere pattuito per iscritto. Se gli
interessi sono usurari la relativa clausola è nulla e non sarà dovuto alcun interesse.

Il mutuatario ha quindi una duplice obbligazione: deve restituire la somma ricevuta a
mutuo (il capitale) e i relativi interessi.
Il termine è pattuito, di regola, a favore di entrambe le parti (art. 1816), il mutuatario non
può restituire il denaro prima della scadenza se il contratto non lo consente. Se il termine non
è fissato dalle parti è stabilito dal giudice (art.1817). Può essere prevista restituzione a rate, in
caso di mancato pagamento di una sola rata il mutuante può esigere l’intero (art.1819).
Si parla di mutuo di scopo quando il finanziamento è erogato, solitamente a tasso agevolato, in
funzione della realizzazione di specifici obiettivi (es. l’acquisto di una prima casa). In questo caso
la realizzazione dello scopo diventa una prestazione aggiuntiva per il mutuatario.

Capitolo trentacinquesimo

I CONTRATTI NELLE LITI
35.1 La transazione

Art. 1965: «La transazione è il contratto col quale le pari, facendosi reciproche concessioni,
pongono fine ad una lite già cominciata o pervengono una lite che può sorgere tra loro». 

Per «lite» si intende una controversia giudiziaria, si ricorre a questa figura contrattuale per
eliminare l’incertezza sull’esito della lite o per non dover attendere la fine del processo.
L’essenza di questo contratto sta nelle reciproche concessioni delle parti, in quanto ciascuna
di esse rinuncia parzialmente alla propria pretesa o alla propria contestazione. Le reciproche
concessioni possono anche consistere nella costituzione, modificazione o estinzione di rapporti
diversi da quelli che formano oggetto della lite (art. 1965 comma II), ad esempio chi agisce in
rivendica di un bene può accettare una somma di denaro e porre fine alla lite.
Le parti, transigendo, dispongono dei propri diritti, quindi non è possibile effettuare una
transazione se questa riguarda diritti indisponibili (es. diritti della personalità o di
famiglia) (art. 1966). La legge vieta inoltre di transigere in materia di diritti del lavoratore
derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo (art. 2113).
La transazione presuppone l’incertezza della lite, è annullabile la transazione su una lite già
decisa con sentenza passata in giudicato (art. 1974). Non si può chiedere l’annullamento per
errore di diritto sulle questioni oggetto della transazione poiché ciò equivarrebbe a riaprire

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la lite. (art. 1969). Salvo patto contrario, la transazione non determina la novazione del
precedente rapporto, quello per cui è nata la lite, quindi se una parte non adempie gli obblighi
derivanti dalla transazione, l’altra parte può chiederne la risoluzione e riaprire la lite
originaria. La transazione deve essere approvata per iscritto (art. 1967).

35.2 Il sequestro convenzionale, la cessione dei beni ai creditori e l’anticresi

Art.1798:«Il sequestro convenzionale è il contratto con cui due o più parti affidano ad
un terzo una o più cose, rispetto alle quali sia nata fra esse una controversia, perché le
custodisca e restituisca a quella fra le parti litiganti cui la cosa o le cose spetteranno quando la
controversia sarà definita».
Il terzo è detto sequestratario ed è sottoposto alle norme sul deposito (art. 1800).
Art.1977:« La cessione dei beni ai creditori è il contratto col quale il debitore incarica i
suoi creditori o alcuni di essi di liquidare (ossia di convertire in denaro) tutte o alcune sue
attività e di ripartirne il ricavato per soddisfare i loro crediti» (art. 1977).
La cessione di beni ai creditori si ricollega alla esecuzione forzata che può subire il
patrimonio del creditore, la sua funzione è sia di evitare che il debitore sostenga le spese per
l’esecuzione forzata, sia garantire ai creditori in più rapido soddisfacimento dei crediti.
Il debitore è liberato solo quando i creditori incassano il ricavato della liquidazione dei suoi
beni e nella misura di quanto essi realizzano (art. 1984), le eventuali eccedenze della
liquidazione spetteranno al debitore (art. 1982). È però valido il patto contrario, implicante
l’immediata liberazione del debitore, con gli effetti della prestazione in luogo del pagamento.
Dalla data del contratto il debitore non può più disporre dei beni ceduti e i creditori non vi
possono esercitare azioni esecutive, ne possono agire su altri beni del debitore non ceduti
prima della liquidazione di quelli oggetto del contratto. L’amministrazione dei beni ceduti
spetta ai creditori cessionari, ma il debitore ha diritto di controllarne la gestione.
Il contrattino vincola gli altri creditori del debitore, che possono agire esecutivamente anche
sui beni ceduti.
Art.1960:«L’anticresi è il contratto col quale il debitore si obbliga a consegnare un
immobile al creditore a garanzia del credito, affinché questi ne goda e ne percepisca i frutti,
imputandoli al pagamento del proprio credito, prima per gli interessi e poi per il capitale ».
L’anticresi presuppone l’esistenza di un precedente rapporto avente per oggetto il pagamento
di una somma di denaro. Il contratto non attribuisce nessun privilegio al creditore, poiché la
sua funzione è solo satisfattiva. Non può eccedere la durata di 10 anni, se stipulato per un
termine maggiore, questo si riduce (art. 1962).
L’anticresi richiede, a pena di nullità, la forma scritta, è soggetto a trascrizione ed è
quindi opponibile ai terzi acquirenti dell’immobile e verso i creditori del debitore che
vogliano soddisfarsi sull’immobile oggetto del contratto.

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PARTE SESTA
LE ORGANIZZAZIONI COLLETTIVE
Capitolo trentaseiesimo

LE ASSOCIAZIONI
36.1 Il concetto di associazione

Le associazioni altro non sono che istituzioni, o formazioni sociali, nelle quali s’instaurano
rapporti fra individui che perseguono scopi comuni. È la stessa Costituzione all’art.2 che
evidenzia come sia compito della Repubblica tutelare i diritti inviolabili dell’uomo «sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». Ma l’espressione
“formazione sociale” è molto più ampia di “associazione”: comprende sia le organizzazioni
volontarie, come le associazioni o le società, sia quelle necessarie, come la famiglia.
L’associazione prende vita da un contratto: le parti, e le eventuali nuove adesioni, sono unite
da un contratto di associazione. Il contratto di associazione caratterizza come:
a) Contratto plurilaterale con comunione di scopo: le prestazioni delle parti sono
dirette al conseguimento di uno scopo comune, in antitesi ai contratti di scambio (es.
vendita), dove le parti perseguono scopi differenti.
b) Contratto di organizzazione: le prestazioni che ciascuna delle parti esegue non vanno a
vantaggio di altre parti, ma sono destinate allo svolgimento dell’attività comune, cui sono
preposti appositi organi.
Queste caratteristiche sono però comuni a diverse tipologie di contratti (società, cooperative,
associazioni, ecc.), le associazioni si distinguono ulteriormente per due caratteri specifici:
1. Devono perseguire uno scopo di natura ideale, o quantomeno non di natura
economica, in antitesi con le società e le cooperative. Sono associazioni i partiti politici,
con cui i cittadini concorrono a determinare la politica nazionale (art.49 cost), e i sindacati,
il cui scopo è quello di ottenere migliori condizioni di vita per i lavoratori (art.39 cost).
2. Sono organizzazioni a struttura aperta: l’associazione è, per sua natura, aperta alla
possibilità di nuove adesioni, nuovi membri possono entrare senza che ciò implichi una
modificazione del contratto.
Collegato a questi criteri è la differenza tra organizzazioni che si prepongono un interesse di
categoria (o di serie) oppure un interesse di gruppo. L’interesse di gruppo è perseguito da
società lucrative che, appunto, agiscono nell’interesse di un gruppo chiuso di persone
(ripartire gli utili); l’interesse di categoria è invece uno scopo più ampio, non limitato ai
soli membri dell’associazione, ma a tutte le persone che ne abbiano interesse e anche altre
associazioni che perseguono il medesimo scopo (es. partiti di un determinato colore politico
fanno l’interesse di tutti coloro credano in tali ideali).

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36.2 Associazione riconosciuta e associazione non riconosciuta come persona giuridica

Il codice civile distingue le associazioni riconosciute come persone giuridiche (artt.12-14ss.)


e associazioni non riconosciute (artt. 36ss.), le due tipologie di associazioni appartengono in
ogni caso ad un medesimo tipo contrattuale.
Il riconoscimento si ottiene a seguito della registrazione dell’associazione presso i registri in
prefettura o in regione. Dire che un’associazione ha personalità giuridica equivale a considerarla
come un soggetto di diritto a sé stante; al contrario, considerare un’associazione priva di
personalità giuridica dovrebbe equivalere a considerarla un soggetto non autonomo per il diritto.
Ma non è cosi: la condizione giuridica delle due diverse tipologie di associazioni è, per molti
versi, parificata, e anche quelle non riconosciute hanno personalità giuridica. Dal
riconoscimento della personalità giuridica derivano delle altre prerogative, non la qualità di
“soggetto di diritto”, che compete ad entrambe. Evidenziamo tratti comuni e differenze:
a) Le associazioni non riconosciute hanno un «patrimonio», quelle non riconosciute hanno
un «fondo comune», oltre la denominazione non c’è altra differenza. In entrambi i casi
il patrimonio dell’associazione può essere aggredito solo dai creditori dell’associazione,
non dei singoli associati.
b) Entrambe le associazioni possono effettuare acquisti di beni immobili o mobili, sia a
titolo oneroso sia a titolo gratuito
c) Delle obbligazioni assunte da un’associazione riconosciuta risponde solamente
l’associazione, con esclusione di una personale responsabilità dei singoli membri. 

Per le associazioni non riconosciute, invece, è espressamente stabilito che: 1) per le
obbligazioni assunte da persone che rappresentano l’associazione i terzi possono far valere i
loro diritti sul fondo comune; 2) delle obbligazioni rispondono anche, personalmente e
solidamente, le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione (art.38).
L’elemento essenziale di differenziazione sta nel fatto che gli amministratori di
associazioni non riconosciute, qualora si obblighino in prestazioni che il fondo
comune non è in grado di assolvere, sono personalmente responsabili.

Questo elemento di differenziazione ha una precisa ratio: il riconoscimento viene disposto
solamente se si dimostra che il patrimonio risulti adeguato al raggiungimento dello scopo,
viene in questo modo tutelato il credito a scapito dell’autonomia degli amministratori. 
 I
patiti e i sindacati sono soliti aggirare questo divieto istituendo le c.d. associazioni
parallele: essi enunciano nello statuto dell’associazione maggiore che non rispondono
delle obbligazioni assunte dalle loro interne federazioni, sezioni, ecc. e le fanno figurare
come associazioni giuridicamente distinte, quindi responsabili dei debiti contratti.
d) Anche l’associazione non riconosciuta ha rappresentanti che agiscono in nome e per conto
di questa, possono persino agire in giudizio a nome dell’associazione: anche la materia
processuale è parificata tra le due tipologie di associazione.
e) le associazioni riconosciute sono sottoposte al controllo dell’autorità pubblica (al
momento del riconoscimento e di eventuali modifiche dell’atto costitutivo), mentre quelle
non riconosciute non sono sottoposte a nessun controllo pubblico. Per questa ragione la
forma di associazione non riconosciuta è di gran lunga preferita.
f) Solo le associazioni riconosciute sono registrate presso i registri prefettizi o regionali.

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36.3 Il contratto di associazione e le sue vicende

L’atto costitutivo dell’associazione è un contratto. La natura contrattuale dell’atto non viene


meno seppur questo sia «l’accordo tra due o più parti per costituire, modificare o estinguere
un rapporto giuridico patrimoniale» e l’associazione si fonda sul presupposto non lucrativo
delle parti. La natura dell’interesse infatti può anche essere non patrimoniale, l’importante è
che le prestazioni dedotte in contratto siano suscettibili di una valutazione economica. L’atto
costitutivo dell’associazione è, quindi, un contratto perché le parti si obbligano ad eseguire
rapporti economicamente valutabili.
Il contratto ha natura consensuale e serve la forma scritta, a pena di nullità, per il
conferimento di immobili. L’accordo è reso pubblico se l’associazione intende richiedere la il
riconoscimento della personalità giuridica.
Spesso il contratto di associazione si scompone nell’atto costitutivo e nello statuto: essi
formano, tuttavia, un unico atto.
I requisiti essenziali del contratto sono: lo scopo dell’associazione, le condizioni di
annessione di nuovi associati e le regole sull’ordinamento interno. Non sono essenziali gli
altri requisiti (patrimonio, sede e denominazione), che sono utili solo ed esclusivamente
qualora si voglia fare domanda di riconoscimento.
Le associazioni sono contratti aperti, ammettono nuove adesioni in un momento
successivo a quello della costituzione dell’associazione, senza che vi sia la necessità di
modificare il precedente contratto.
Il nuovo aderente si pone nella stessa posizione di parte del contratto chi lo aveva
originariamente sottoscritto, senza disparità di diritti e doveri. L’adesione si compie al
momento dell’incontro della volontà delle parti.
L’atto costitutivo o lo statuto devono, a norma di legge, indicare le condizioni per
l’ammissione degli associati (art.16): in queso passaggio emerge la struttura aperta
dell’associazione che, da un lato non può arbitrariamente vietare l’accesso di nuovi associati,
dall’altro non può permettere l’adesione a chi non sia in possesso dei requisiti necessari. Tutti
coloro soddisfino le condizione possono entrare a far parte dell’associazione, però non
esiste un diritto all’ammissione, gli associati possono anche rigettare la domanda.
I diritti e gli obblighi degli associati sono rinvenibili all’interno del contratto di
associazione. Può però che accadere che il contratto lasci agli organi dell’associazione la
possibilità di gestire l’esercizio dei diritto (es. l’orario di apertura, i contributi annuali, ecc.).
I soci devono avere parità di diritti e doveri: poiché animati da interessi affini e desiderosi
di raggiungere un ideale comune, gli associati hanno uguali diritti e doveri. Nella realtà sono
però introdotte clausole che introducono disuguaglianze tra i soci (es. «soci onorari», «soci
sostenitori», ecc.). Alcune disuguaglianze sono illecite, ad esempio quelle norme che
dispongono disuguaglianza di voto o quelle volte a creare disuguaglianze formali.
La qualità di associato designa la parte nel rapporto contrattuale, sono disciplinate anche le
vicende di recesso ed esclusione dall’associazione, in modo eguale per associazioni
riconosciute e non riconosciute.
Il recesso consiste alla risoluzione del contratto, la facoltà di recesso è riconosciuta
all’associato in deroga al principio dell’art.1372 secondo cui «il contratto non può essere

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sciolto se non per mutuo consenso». Qui alle parti è consentito, con dichiarazione unilaterale,
provocare lo scioglimento del contratto, a tutela della libertà di associazione.
L’esclusione dell’associato è subordinata alla ricorrenza di gravi motivi (art.24), è vietata
la possibilità di esclusione arbitraria ed è riconosciuto implicitamente un diritto alla
permanenza nell’associazione. La deliberazione con cui l’associato viene escluso deve essere
puntualmente e precisamente motivata, l’escluso può, entro sei mesi, fare ricorso all’autorità
giudiziaria per l’accertamento di gravi motivi comprovanti la sua esclusione
L’estinzione dell’associazione può avvenire in vari modi: per deliberazione dell’assemblea,
per il raggiungimento dello scopo prefissato, per impossibilità sopravvenuta di
raggiungimento dello scopo, per recesso di tutti gli associati.
Non è sufficiente, per l’estinzione dell’associazione, il verificarsi di uno di questi motivi,
infatti in quel momento l’associazione entrerà in stato di liquidazione: il presidente
dell’associazione o il tribunale nominerà un liquidatore che esigerà i crediti e pagherà i debiti
dell’associazione, solo a quel momento l’associazione potrà estinguersi.
In caso di un avanzo di patrimonio, esso dovrà essere devoluto ad associazioni perseguenti
uno scopo simile o allo stato, non potrà mai essere ripartito fra gli associati.
36.4 Gli organi dell’associazione

Le associazioni hanno una propria organizzazione interna, esse sono costituite da diversi
organi che, ognuno nell’ambito della propria competenza da’ attuazione al contratto. Gli
associati compongono costituisco l’assemblea, a questa si affianca necessariamente un
altro organo, formato dagli amministratori, che costituiscono l’organo esecutivo
dell’associazione. Lo statuto, infine, può prevedere un altro organo di controllo, definito
come collegio dei probiviri.
L’assemblea ha competenza necessaria e inderogabile per alcune materie, come
l’approvazione dello statuto e dell’atto costitutivo, lo scioglimento anticipato e nella nomina
degli amministratori; a questi ultimi, invece, spettano competenze esclusive per ciò che
attiene alle decisioni operative dell’associazione. Essi sono responsabili di eventuali danni
cagionati da loro atti.
L’assemblea è composta di tutti gli associati e decide, alla presenza di almeno la metà dei
soci, nelle materie che rientrano nella sua competenza. Nella prassi non è raro che
l’assemblea sia formata da delegati eletti da delegati eletti da assemblee parziali, altresì è
frequente che siano costituiti altri organi più ristretti (es. comitato centrale, consiglio, ecc.), in
ragion del fatto che posso essere convocati più spesso.
L’assemblea è convocata dagli amministratori almeno una volta l’anno per approvare il
bilancio o quando «se ne ravvisa la necessità»; può inoltre essere convocata, per ragioni
motivate, da un decimo degli associati. L’assemblea decide a maggioranza alla presenza della
metà degli associati: le decisioni si adottano a seguito del dibattito. Gli associati possono farsi
rappresentare da altri associati mediante delega scritta. Al termine di ogni consiglio deve
essere redatto un verbale avente valore di dichiarazioni di scienza.
Sono annullabili le deliberazioni contrarie alle norme di legge, all’atto costituivo
o allo statuto. L’azione di annullamento spetta, in primo luogo, agli amministratori e ai
probiviri, in secondo luogo, è nelle facoltà dell’associato vigilare sulla loro legittimità e,
infine, può intervenire il pubblico ministero.

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Gli amministratori sono l’altro organo necessario all’associazione. L’assemblea non può
astenersi dal nominare gli amministratori, non c’è bisogno di stipulare alcun contratto per
attribuire agli amministratori i loro poteri. La nomina degli amministratori non è un mandato,
è l’atto che designa le persone preposte all’amministrazione dell’associazione.
Gli amministratori sono responsabili del loro operato, devono risarcire il danno che
abbiano, con l’inadempimento dei loro doveri, cagionato all’associazione (art.18). La
responsabilità degli amministratori è regolata dalle norme sul mandato (quindi si applica
l’art.1710). Affinché sorga sorga responsabilità non è sufficiente che il danno subito
dall’associazione sia dovuto alla condotta degli amministratori; è necessario, altresì, che si sia
verificato inadempimento di un obbligo, occorre altresì che il danno sia «conseguenza
immediata e diretta» dell’inadempimento. Gli amministratori sono responsabili in ragione di
aver partecipato all’atto che ha costituito il danno o, se non vi hanno partecipato, di non
essersi espressi in modo contrario pur essendone a conoscenza.
Gli amministratori di società riconosciute sono anche responsabili anche nei confronti dei
creditori, essi rispondono in particolare della pregiudicazione delle loro ragioni in merito alla
convezione del patrimonio dell’associazione.
Infine, incombe su di essi anche la responsabilità per eventuali fatti illeciti commessi.
36.5 Libertà dell’associazione e libertà nell’associazione

Il tema delle associazioni trova protezione all’interno della Costituzione che all’art. 2
riconosce la tutela da parte della Repubblica, dei diritti inviolabili sia al soggetto nella sua
individualità sia nelle «formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». L’art. 18, inoltre,
consente la facoltà di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini non vietati ai
singoli dalla legge penale.
Storicamente lo stato nei confronti delle associazioni ha assunto atteggiamento diversi:
penalmente perseguitate durante l’epoca degli stati assoluti, sono poi state riconosciute
(anche se non viste di buon occhio) dagli stati di matrice liberale, tra cui il Regno d’Italia,
dove erano sostanzialmente irrilevanti per lo stato, salvo quelle che venivano riconosciute.
Tale riconoscimento avveniva però “per decreto”: lo stato si riservava, caso per caso,
l’opportunità politica del riconoscimento.
Grandi passi avanti sono stati compiuti nel secolo scorso, in particolare dal c.c. nel 1942 e
nella costituzione repubblicana nel 1948. Il c.c., accettando la teoria della pluralità degli
ordinamenti giuridici, ha riconosciuto le associazioni come enti a sé stanti dotando, anche
quelle non riconosciute, di capacità negoziale, processuale e personalità giuridica, ed ha
inoltre formulato una disciplina dell’ordinamento interno delle associazioni non riconosciute.
La tutela interna dei diritti degli associati (es. espulsione legittima solo per «gravi motivi»)
era però subordinata al riconoscimento, il quale veniva ancora concesso arbitrariamente, il
che si traduceva sostanzialmente in una negazione della libertà di associazione.
La cost. del ’48 ha invece fatto grandi passi avanti, con i principi di cui al art.2 e art.18 ha
assegnato allo stato la funzione di garantire i diritti del cittadino in ogni formazione sociale,
opera quindi un generale riconoscimento di rilevanza delle associazioni, riconosciute o meno.
Ciò ha prodotto due serie di conseguenze:
• Una evoluzione della considerazione delle associazioni non riconosciute: le situazioni
giuridiche interne devono sempre essere sottoposte al diritto dello stato e gli associati
tutelati.
• Il riconoscimento non può essere concesso secondo un criterio di mera discrezionalità
politica: oggi, infatti, il riconoscimento è accordato in funzione del patrimonio per
tutelare i creditori dell’associazione.

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Capitolo trentasettesimo

LE FONDAZIONI E I COMITATI
37.1 Le fondazioni
La fondazione può essere definita come:«la stabile organizzazione predisposta per la
destinazione di un patrimonio privato ad un determinato scopo di pubblica utilità», tale scopo
può essere il più vario (culturale, assistenziale, ecc.), però deve essere utile alla collettività.
Le fondazioni, come le associazioni, sono istituzioni, ossia organizzazioni collettive che
perseguono scopi superindividuali. Si costituiscono mediante un atto di autonomia privata,
l’atto di fondazione (che non è un contratto!!!). Tra l’atto di fondazione e il contratto di
associazione esistono notevoli differenze:
a) L’atto di fondazione è un atto unilaterale, produttivo di effetti giuridici in forza della
sola dichiarazione di volontà del fondatore, conserva la struttura di atto unilaterale anche
quando venga formato da più persone.

L’atto di fondazione ha una duplice caratteristica: si tratta, in primo luogo, di un atto di
disposizione patrimoniale mediante il quale il fondatore si spoglia, definitivamente e
irrevocabilmente, della proprietà dei beni che destina ad uno scopo pubblico; in secondo
luogo è, come il contratto di associazione, un atto di organizzazione mediante il quale
il fondatore predetermina la struttura organizzativa che dovrà assume la fondazione. 

La fondazione può essere costituita per atto tra vivi o per testamento: nel primo caso per è
richiesta la forma dell’atto pubblico; nel secondo, invece, essa diventerà efficace solo al
momento dell’apertura della successione.
b) Un’altra differenza sta nelle modalità di attuazione dell’atto: il fondatore in quanto
tale non partecipa, a differenza degli associati, all’esecuzione dell’atto di fondazione, egli
concede i propri beni ma non concorre nella loro amministrazione. Il compito è affidato ad
altre persone, gli amministratori della fondazione.

La posizione degli amministratori della fondazione è diversa tanto da quella degli associati
quanto da quella degli amministratori di un’associazione. Per evidenziare la differenza con gli
associati si usa dire che l'associazione ha “organi dominanti”, mentre la fondazione ha
“organi serventi”. L’esecuzione dell’atto di fondazione rappresenta per gli amministratori
l’adempimento di un compito: essi sono vincolati dal perseguimento dello scopo impresso dal
fondatore. Nell’associazione, al contrario, la destinazione del patrimonio è impressa da un atto
di autonomia contrattuale e i membri dell’associazione possono liberamente modificare il
contenuto del contratto, e deliberare lo scioglimento dell’associazione.
 Riguardo le
differenze tra amministratori nelle due istituzioni: gli amministratori delle fondazioni
possono essere nominati a vita, godono di notevole autonomia sulla gestione del patrimonio e
la pubblica autorità attua un semplice controllo di legittimità sul loro operato; gli
amministratori delle associazioni, invece, hanno un’autonomia più ristretta in quanto sono
vincolati dalle attribuzioni dell’assemblea e in considerazione del giudizio degli associati e di
una loro eventuale riconferma (è l’assemblea che nomina gli amm.).
c) Altra differenza è quella riguardante la gamma di scopi perseguibili: se lo scopo delle
associazioni avere i fini più disparati (purché non abbia natura economica e non sia vietato
dalla legge penale), lo scopo delle fondazioni deve necessariamente essere di utilità
pubblica. Lo scopo delle fondazioni, finché sia attuabile, non può essere modificato né dal
fondatore, né dagli amministratori né per provvedimento dell’autorità giudiziaria. Come
tutti i vincoli perpetui, anche le fondazioni non son favorite dall’ordinamento in ragion del

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fatto che non sposano il principio della libera circolazione delle risorse economiche. Cosa
che, peraltro, non accade nelle associazioni, caratterizzate da possibilità di modificazione.
d) Anche le fondazioni hanno la possibilità di conseguire la personalità giuridica tramite il
riconoscimento nelle stesse modalità delle associazioni. Se, però, queste ultime hanno
la possibilità di costituirsi come organizzazioni riconosciute o non riconosciute ciò
comportando solo una diversa disciplina legislativa, per le fondazioni, pur godendo della
stessa possibilità, non è prevista una altrettanto generale possibilità di operare come
organizzazione non riconosciuta dato il vincolo perpetuo impresso sullo scopo e sui beni.
37.2 I comitati

Se le fondazioni si costituiscono mediante un atto di fondazione quale atto unilaterale per


volontà dal fondatore che conferisce perpetuamente i propri beni, è, altresì, possibile che
anche persone non dotate di una tale disponibilità patrimoniale si facciano promotori di una
pubblica sottoscrizione di raccolta fondi per raggiungere lo scopo da loro desiderato.
L’attività si scompone, giuridicamente, in due fasi: inizialmente i componenti del comitato,
detti promotori, annunciano al pubblico lo scopo da perseguire invitando la collettività a
partecipare con donazioni, successivamente i fondi raccolti, detti oblazioni, vengono
destinati allo scopo per il quale erano stati raccolti. Coloro che provvedono
all’amministrazione dei fondi, siano o meno i promotori, sono detti organizzatori e sono
personalmente e solidamente responsabili del loro operato.
Il vincolo di destinazione impresso alle oblazioni raccolte può essere modificato solo se:
• I fondi racconti siano insufficienti al perseguimento dello scopo annunciato
• Lo scopo risulti impossibile da realizzare
• Dopo la realizzazione si ha un residuo di fondi
Siamo davanti ad un vincoli eguale a quello imposto alle fondazioni: gli organizzatori, come
gli amministratori, non possono disporre dei fondi se non per realizzare lo scopo annunciato.
È possibile che i promotori richiedano il riconoscimento della personalità giuridica:
se ottenuto il comitato si trasformerà in una fondazione, se non concesso (o non richiesto) i
promotori e gli organizzatori assumono responsabilità illimitata e solidale per le
obbligazioni obbligazioni contratte, in modo analogo ad un’associazione non riconosciuta.
Anche il comitato, come le associazioni, può stare in giudizio.
Il comitato può, anche dopo lungo tempo, richiedere il riconoscimento della personalità
giuridica: se concessa si attua continuità di rapporti tra il comitato e la fondazione, ora
riconosciuta come persona giuridica.

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PARTE SETTIMA
LA FAMIGLIA E LE SUCCESSIONI
Capitolo quarantatreesimo

LA FAMIGLIA
43.1 Famiglia in senso stretto e famiglia in senso ampio

Parlando di “famiglia” è necessaria la distinzione tra famiglia in senso stretto e famiglia in


senso ampio. Di famiglia nel senso stretto del termine si fa riferimento al nucleo famigliare: i
coniugi e i figli minori, fra questi intercorre una fitta serie di rapporti giuridici: l’obbligo dei
coniugi alla coabitazione; l’obbligo all’assistenza morale e materiale; l’obbligo alla fedeltà
coniugale; l’obbligo dei coniugi a mantenere, educare e istruire la prole, ecc. Con famiglia,
nel senso ampio, ci si riferisce alle persone legate da rapporti di parentela e di affinità:
• Per parentela (artt.74-77) s’intende il rapporto di sangue che unisce persone discendenti
l’una dall’altra (linea retta, babbo-figlio, nonno-nipote, ecc.) o discendenti da uno
stipite comune (linea collaterale, zio-nipote, cugini, ecc.). Non è riconosciuta dalla
legge la parentela oltre il sesto grado.
• Per affinità (art.78) s’intende il rapporto che intercorre fra una persona e i parenti del suo
coniuge, anche se morto.
43.2 La famiglia legittima

Tradizionalmente per famiglia legittima si intende la famiglia fondata sul matrimonio (le
si contrappone la famiglia naturale che è quella senza matrimonio). Questa è l’unica forma di
famiglia cui fa riferimento la Costituzione. Questa infatti afferma al art.29 che «La
Repubblica riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».
L’espressione «società naturale» significa che:
a) La Repubblica riconosce, ossia considera a sé preesistenti i diritti della famiglia
b) La disciplina legislativa della famiglia deve prima assecondare i bisogni di questa forma
sociale, passano quindi in secondo piano esigenze politiche ed economiche.
La Costituzione riconosce alla famiglia specifici compiti tra cui il dovere-diritto dei genitori
ad educare istruire e mantenere i figli (art.30). Tra i compiti della famiglia rientrano anche
l’assistenza morale e giuridica dei coniugi e l’obbligo di prestare gli alimenti.
I diritti che la costituzione riconosce sono però riservati alla famiglia legittima (ora anche
unioni civili), infatti al tempo della costituzione era impensabile una famiglia non basata sul
matrimonio. È stata la costituzione stessa ad introdurre la distinzione tra famiglia legittima
e famiglia di fatto: la prima si costituisce con atto solenne (matrimonio o unione civile), la
seconda è la stabile convivenza tra uomo e donna senza impegno giuridicamente vincolante.
Circa l’evoluzione del diritto di famiglia e della famiglia di fatti il legislatore ha provveduto
recentemente con due diverse riforme:
• Riforma del 2012: fondata sul principio dell’unitarietà dello stato di figlio, ha eliminato
tutte le differenze che riguardavano la diversa condizione giuridica dei figli nati all’interno o
all’esterno del matrimonio. Le differenze rimangono, invece, fra coniugi e semplici
conviventi, poiché solo per i primi il matrimonio produce effetti giudici, mentre ai conviventi
di fatto erano riconosciuti diritti da leggi qua e là, senza un disciplina completa.

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• Riforma del 2016: si è provveduto ad una disciplina normativa delle convivenze. La


legge innanzitutto le definisce, sono «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite
stabilmente da legami affettivi coppia dei reciproca assistenza morale e materiale, non
vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, matrimonio o unione civile.
 Requisito
essenziale è quindi la stabilità del legame e l’assistenza morale e giuridica.
La famiglia di fatto al giorno d’oggi occupa una posizione tutt’altro che irrilevante per diritto,
anche se la famiglia legittima è certamente vista in modo migliore nel sistema costituzionale.
Il favore per il matrimonio si manifesta sotto due aspetti in costituzione: l’art. 30 afferma che
la repubblica deve agevolare con misure economiche la formazione della famiglia, e che la
tutela dei figli nati fuori dal matrimonio deve essere «compatibile con i diritti dei membri
della famiglia», ciò si traduceva, prima del 2012, in un un diritto di veto appartenente ai
membri della famiglia riguardo l’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima.
Sotto l’aspetto successorio c’era già una sostanziale equiparazione tra figli nati all’interno
all’interno e all’esterno del matrimonio, era però possibile la c.d. commutazione:
consentiva ai figli legittimi la facoltà di soddisfare in denaro o beni immobili la porzione di
eredità spettante ai figli naturali, sempre che questi acconsentissero. La riforma del 2012 ha
abrogato la commutazione sulla base del principio dell’unitarietà dello stato di figlio.
43.3 La famiglia di fatto

La famiglia di fatto, costituita da persone non unite in matrimonio tra loro è una situazione
lecita e per certi versi protetta dal diritto. Bisogna però distinguere due ordini di rapporti:
a) I rapporti tra i conviventi di fatto hanno, nel nostro diritto, scarsa rilevanza: fra i
conviventi non esistono obblighi e diritti come quelli dei coniugi. Gli obblighi di
assistenza, coabitazione, ecc. si configurano come obbligazioni naturali, non tutelate
dall’ordinamento giuridico. Tuttavia la morte del convivente cagionato da terzi (o il fatto
illecito in generale) che impedisca l’assistenza materiale, presuppone che il responsabile
risarcisca il convivente rimasto in vita.

La riforma del 2016 attribuisce ai conviventi di fatto una una serie di diritti che sono
propri dei coniugi: assistenza in caso di ricovero, visita in caso di reclusione, diritti sulla
casa familiare, ecc. I rapporti patrimoniali, invece, devono essere regolati da appositi
contratti di convivenza, per i quali è richiesta la forma scritta a pena di nullità.
b) I rapporti tra genitori e figli nati fuori dal matrimonio sono totalmente equiparati
a quelli dei figli legittimi, art.315:«tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico».
43.4 Gli alimenti

La famiglia in senso ampio assume rilievo giuridico per quanto riguarda il reciproco dovere
di assistenza nei confronti dei suoi membri. Una persona che versi in uno stato di bisogno,
cioè priva di quanto sia necessario per la vita, e che non sia in grado di provvedere al proprio
mantenimento ha il diritto di richiedere mezzi di sussistenza alla propria famiglia, i c.d.
alimenti, in denaro o in natura, per quanto sia necessario per la vita (non è configurabile un
diritto al mantenimento, ma solo a quanto sia strettamente necessario es. vestiti, cibo, casa).
Il diritto agli alimenti spetta a chi versi in uno stato di bisogno, indipendentemente dalle
cause che hanno determinato questo stato. Esiste un ordine secondo cui i membri della
famiglia sono obbligati a versare gli alimenti (pag.849), gli obbligati dello stesso grado
concorrono ognuno alla propria prestazione economica, il loro obbligo ha natura parziaria.

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Anche tra affini vige l’obbligo degli alimenti. L’obbligato può sottrarsi alla prestazione
qualora dimostri impossibilità economiche. L’obbligo di prestare gli alimenti incombe
anche sul donatario a cui l’alimentando avesse in precedenza donato alcuni suoi beni, nei
limiti del valore di questi, indipendentemente dalle sue condizioni economiche.
Il diritto agli alimenti è definito un diritto personalissimo: non può essere ceduto, si
estingue con la morte dell’obbligato, non si estingue per compensazione, non può essere
sottoposto ad esecuzione forzata. È irrinunciabile ed imprescrittibile.

Capitolo quarantaquattresimo
IL MATRIMONIO
44.1 Il matrimonio come atto
Innanzitutto è opportuno distinguere fra il matrimonio come atto e il matrimonio come
rapporto: il matrimonio come atto è il consenso che, nelle forme proprie del matrimonio,
marito e moglie si scambiano, il matrimonio come rapporto è l’insieme dei diritti e dei
doveri reciproci dei coniugi insorti dopo la celebrazione dell’atto.
Il matrimonio è certamente un atto giuridico, ma NON È UN CONTRATTO, e non è
sottoposto alle relative norme, poiché non costituisce tra le parti quel rapporto giuridico
patrimoniale che caratterizza il contratto.
Il contenuto del matrimonio è totalmente determinato dalla legge, diversamente
dall’autonomia negoziale di cui godono le parti di un contratto, coloro che dichiarano di voler
contrarre matrimonio non possono sottoporre lo stesso a patti o a termine: il contenuto del
matrimonio è tipico, ossia determinato dalla legge, le parti non possono cambiarlo.
La promessa di matrimonio è ammessa ma non è vincolante: le parti possono revocare il
loro consenso (anche qui si nota la differenza rispetto il diritto dei contratti in cui il
preliminare è vincolante). Tuttavia la promessa di matrimonio non è irrilevante: il promittente
può chiedere, entro un anno dal rifiuto, la restituzione dei doni fatti a causa della promessa, o
se la promessa fosse stata pubblicata, la parte che è sottratta matrimonio è tenuta al
risarcimento delle eventuali spese.
L’atto di matrimonio deve essere preceduto dalle pubblicazioni dell’ufficiale di stato civile,
il matrimonio è però valido anche se non è preceduto dalle pubblicazioni, ci sarà solamente
una sanzione amministrativa.
Per la validità del matrimonio è necessaria che la celebrazione avvenga dinanzi all’ufficiale
di stato civile e alla presenza di almeno due testimoni. Tra il momento delle dichiarazioni e la
pronuncia dell’ufficiale le parti possono ancora revocare il loro consenso; così, qualora una
delle parti muoia in quei brevi instanti, il matrimonio non può considerarsi celebrato. Chi
residente all’estero può contrarre matrimonio per procura.
La prova del matrimonio può essere solo tramite l’atto di celebrazione del matrimonio.

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44.2 Le condizioni per contrarre matrimonio

Per contrarre matrimonio è necessaria l’assenza di una serie di impedimenti. Esistono due
categorie di impedimenti:
• Impedimenti dirimenti: sono condizione per la validità del matrimonio, la loro presenza
rende il matrimonio (o l’unione civile) nullo. Sono:
- Maggiore età: i minorenni non possono contrarre matrimonio; per «gravi motivi» il
tribunale può, su istanza dell’interessato, ammettere al matrimonio chi abbia 16 anni.
- Sanità mentale: non può contrarre matrimonio l’interdetto per infermità mentale e
anche chi sia incapace naturale al momento della celebrazione.
- Libertà di stato: non può contrarre matrimonio chi sia vincolato da un precedente
matrimonio
- Presenza di rapporti di parentela, affinità, adozione (v.tab. pag. 856).
- Tentato omicidio nei confronti del coniuge
• Impedimenti impedienti: la loro presenza rende il matrimonio irregolare e impone
all’ufficiale di stato di non celebrarlo; ma se viene ugualmente celebrato è valido. Sono:
- Omissione delle pubblicazioni
- Lutto vedovile: la vedova non può contrarre matrimonio se non sono trascorsi
almeno 300 giorni dalla cessazione del precedente matrimonio.

L’esistenza di uno degli impedimenti legittima terzi a fare opposizione al matrimonio;
l’esecuzione dell’atto sarà sospesa sino a sentenza definitiva.
44.3 La nullità del matrimonio

Produce nullità del matrimonio la presenza d’impedimenti dirimenti, vizi del consenso
(incapacità naturale, violenza, errore, timore simulazione) ed è nullo anche il matrimonio
contratto dal coniuge di chi, dopo la dichiarazione di morte presunta, torna a farsi vivo.
In questo ambito si parla sempre di nullità, mai di annullabilità. In caso di impedimenti
dirimenti l’azione di nullità può essere richiesta da chiunque ne abbia un interesse legittimo o
dal pubblico ministero; in altri casi solo dal coniuge o da entrambi i coniugi.
Per regola generale l’azione di nullità non ha termine, può essere richiesta sempre, anche
dopo la morte del coniuge; in alcuni casi esiste un termine di decadenza di un anno.
La nullità, in certe ipotesi, è sanabile: dal raggiungimento della maggiore età del minore; in
diversi casi da un anno di coabitazione: dalla revoca dell’interdizione, dal riacquisto
della capacità naturale di chi fu incapace al tempo della dichiarazione, dalla cessata violenza
o timore, dalla simulazione di matrimonio.
La sentenza che dichiara nullo il matrimonio ha efficacia retroattiva fra le parti, ma non
rispetto ai figli, che sono considerati legittimi. Se i coniugi avevano contratto matrimonio in
buona fede, ossia non essendo a conoscenza di eventuali impedimenti (matrimonio putativo) o
se lo avevano contratto per violenza o timore, il matrimonio produce fra i coniugi gli stessi effetti
di un matrimonio valido sino a quando non è dichiarata la sentenza di nullità (la sentenza non ha
effetto retroattivo). Se solamente uno dei coniugi aveva contratto il matrimonio in buona fede gli
effetti del matrimonio valido si producono solo su di lui.

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La sentenza che dichiara nullo il matrimonio ha gli stessi effetti di una sentenza di divorzio: il
giudice decide riguardo l’affidamento della prole e può disporre l’obbligo del coniuge di
corrispondere un assegno all’altro coniuge che versi in stato di bisogno e che non sia passato
a nuove nozze. Qualora il giudice rinvenga in una delle parti la colpa della nullità del
matrimonio, potrà obbligare questa a corrispondere una indennità per il mantenimento (di
almeno 3 anni) e per il tempo successivo gli alimenti.
44.4 Continua: i vizi del consenso matrimoniale

Altre cause di nullità del matrimonio attengono a vizi del consenso, sono:

a) L’incapacità naturale, anche solamente temporanea, di uno dei due coniugi;


b) La violenza: il consenso estorto con violenza, ossia prestato sotto minaccia di un male
ingiusto e notevole (minaccia di essere cacciati di casa, minaccia della denuncia di
violenza carnale, minaccia di suicidio, ecc.);
c) Il timore di eccezionale gravità, ad esempio derivante da persecuzioni razziali o politiche
(frequente per le donne ebree durante il regime, si sposavano per cambiare cognome);
d) L’errore sull’identità del coniuge; è il caso dello scambio di persona;
e) L’errore essenziale sulle qualità personali del coniuge, l’errore deve però
essere espressamente previsto dall’art.122 e deve necessariamente essere ignoto al
momento in cui si contrae matrimonio, i casi sono:
- Malattia fisica o psichica del coniuge tale da impedire lo svolgimento della vita
coniugale, ad esempio l’impotenza;
- Il coniuge condannato per gravi reati o dichiarato delinquete abituale giudicato
delinquente;
- Stato di gravidanza della donna cagionato da altri;
f) La simulazione del matrimonio, ossia la dichiarazione di non voler adempiere gli
obblighi e di non esercitare i diritti (es. donna straniera si sposa per la cittadinanza).
La nullità è in ogni caso sanata se i coniugi hanno coabitato per almeno un anno (non si
intende la mera condivisione di casa ma la convivenza come coniugi).
45.5 Gli effetti civili del matrimonio religioso

Per molto tempo il matrimonio è stato celebrato solamente dalla chiesa, ora in tanti paesi si è
instaurato un regime di separazione tra il diritto della chiesa e il diritto dello stato. In Italia in
regime di separazione è venuto meno con i patti lateranensi del 1929, modificati nel 1984.
Il matrimonio può essere civile oppure cattolico, nel primo caso è disciplinato dal c.c., nel
caso in cui il matrimonio sia celebrato seguendo il rito cattolico bisogna distinguere:
a) L’atto di matrimonio: la sua validità e le sue forme di celebrazione sono regolate dal
diritto canonico. Il celebrante è tenuto a compilare un duplice originale dell’atto di
celebrazione del matrimonio e inviarne una copia all’ufficio di stato civile affinché possa
trascriverlo nei registri civili. Per effetto della trascrizione avrà efficacia civile dalla
data di celebrazione. Il matrimonio cattolico non può essere trascritto nei registri dello
stato qualora presenti impedimenti dirimenti. 

Qualora il matrimonio sia dichiarato nullo con sentenza dell’autorità ecclesiastica, la
sentenza sarà resa esecutiva tramite ordinanza della corte d’appello.

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b) Il rapporto matrimoniale: è disciplinato dalle disposizioni del codice civile.


L’ufficiale di stato civile può consentire ai promittenti di sposarsi dinanzi a un ministro del
culto diverso da quello cattolico; gli effetti civili rimangono invariati.

Capitolo quarantacinquesimo
IL RAPPORTO MATRIMONIALE
45.1 Diritti e doveri che derivano dal matrimonio (o da unione civile)

L’art. 29. cost. stabilisce che «il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica
dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare». Sulla base di
questo principio costituzionale, la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha abolito la potestà
maritale, i coniugi hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri: hanno entrambi la facoltà di
decidere l’indirizzo della vita matrimoniale, la residenza della famiglia, ecc.
Qualora essi discordino, potranno rivolgersi al giudice che potrà, sentiti entrambi i coniugi ed
i figli conviventi, prendere decisioni “a tutela dell’unità familiare”. Il giudice può intervenire
solamente se sono i coniugi a rivolgersi a lui: ciò a tutela dell’autonomia della conduzione
della vita familiare.
I doveri dei coniugi sono reciproci, spettano ad entrambi in egual misura (spettano eguali
doveri anche alle persone unite da unione civile, tranne quello di fedeltà). Sono (art. 143):
a) Dovere di fedeltà: astenersi dal chiavare con altri (però non costituisce più reato);
b) Dovere di assistenza morale e materiale: in merito all’assistenza morale non c’è una
precisa disciplina, per assistenza morale, invece, s’intende provvedere al mantenimento, ossia
a tutti bisogni della vita dell’altro coniuge che non sia in grado di procurarseli da sé;
c) Dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia: contribuire a tutti ciò che
serve per lo svolgimento della vita familiare;
d) Dovere di coabitazione: viene meno per giusta causa, ossia in presenza di circostanze
che rendano non tollerabile la coabitazione, dando luogo ad una separazione di fatto.
Col vincolo del matrimonio la moglie acquista il cognome del marito e lo conserva anche
se vedova; lo perde qualora giunga a nuove nozze o in caso di divorzio.
Il matrimonio influisce sulla cittadinanza: il coniuge di cittadino italiano acquista la
cittadinanza quando risieda da almeno due anni in territorio italiano o dopo tre anni dalla data
di matrimonio (cittadinanza per estensione).
Entrambi i genitori hanno il dovere di mantenere, educare e istruire i figli in relazione alle loro
capacità, aspettazioni e inclinazioni naturali (art.315 bis). All’adempimento di questi doveri è
preordinata la responsabilità dei genitori. Prima della riforma del 2012 vigeva la potestà
genitoriale, la quale aveva a sua volta, nel 1975, preso il posto della patria potestà.

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45.2 La separazione personale dei coniugi

I doveri reciproci tra coniugi si affievoliscono in caso di separazione personale: viene meno il
dovere della coabitazione o della fedeltà reciproca; il dovere di assistenza si riduce a un
mantenimento economico del coniuge che versi in stato di bisogno e non abbia reddito
proprio (art.156). La separazione può essere:
• Separazione giudiziale: uno dei coniugi può ricorrere al giudice per chiedere la
separazione dall’altro coniuge quando siano sopraggiunti fatti che rendano la convivenza
intollerabile o dannosa per i figli. 

Il giudice dichiara, se richiesto, a quale dei due coniugi sia addebitabile la
separazione, in considerazione della violazione dei doveri matrimoniali. Chi subisce
l’addebitabilità non ha diritto al mantenimento ma, in caso, soltanto agli alimenti. 

Nel pronunciare la separazione il giudice stabilisce a quale genitore debbano essere affidati
i figli e in quale misura l’altro coniuge debba provvedere al loro mantenimento, tenuto
conto che i figli hanno il diritto di mantenere un rapporto continuativo con ciascun
genitore. Il giudice adotta tali provvedimenti nell’esclusivo interesse dei figli.
• Separazione consensuale: è decisa di comune accordo dai coniugi, che decidono anche
riguardo i modi di mantenimento della prole e sulle relative condizioni di conduzione della
separazione. La separazione consensuale ha effetto solo dopo l’omologazione del giudice. 
 È
possibile anche un procedimento di separazione consensuale semplificato, ci sono due
ipotesi: a) negoziazione assistita dagli avvocati di ciascuna parte, la negoziazione è poi
trasferita al tribunale che, se non riscontra irregolarità, la concede; b) i coniugi concludono
un accordo di separazione davanti al sindaco, eventualmente assistiti da un avvocato.
Presupposti necessari per i procedimenti semplificati sono l’assenza di figli in comune e la
mancanza di contenuto patrimoniale all’interno dell’accordo.
La separazione può cessare senza bisogno di alcun provvedimento per volontà dei coniugi,
(tacita o espressa) che tornino a convivere.
45.3 Lo scioglimento del matrimonio

Lo scioglimento del matrimonio avviene o a causa della morte di un coniuge o con il


divorzio (art.149 comma I).
Lo scioglimento attiene al rapporto matrimoniale: produce effetti solo dal momento in cui
si veridica la causa che lo determinata (dalla data o morte o dalla sentenza di divorzio);
differisce dall’annullamento, che attiene all’atto ed elimina ab origine ogni effetto
giuridico, fatti salvi gli effetti del matrimonio putativo e verso i figli.
Il divorzio, introdotto in Italia nel 1970, può essere richiesto da uno dei coniugi quando:
a) Sia trascorso un periodo di separazione personale: 12 mesi per la separazione giudiziale,
6 per quella consensuale. Il termine decorre dalla comparizione dei coniugi in tribunale.
b) Ci sia stata condanna dell’altro coniuge all’ergastolo, al carcere superiore a 15 anni o per
gravi reati commessi (anche prima del vincolo matrimoniale);
c) Non ci sia stata consumazione del matrimonio;
d) L’altro coniuge straniero abbia contratto all’estero nuovo matrimonio o abbia ottenuto lo
scioglimento del vincolo.

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Anche il matrimonio cattolico può essere sciolto negli stessi casi. Sebbene la Chiesa consideri il
matrimonio cattolico indissolubile lo Stato considera cessato il vincolo matrimoniale.
Il giudice, prima di emettere la sentenza di divorzio, deve tentare di riconciliare i coniugi (è
una cosa formale, la prassi non lo impone). Nel nostro paese non è consentito lo scioglimento
consensuale del matrimonio, basato sulla sola volontà delle parti.
Il giudice nel pronunciare il divorzio può stabilire che uno dei coniugi debba corrispondere
all’altro un assegno periodico (che cessa in caso di nuove nozze). L’entità dell’assegno è
determina in base a diversi criteri: criterio assistenziale, basato sulle condizioni
economiche dei coniugi; criterio risarcitorio, basato sulle ragioni della decisione (simile
addebitabilità); criterio compensativo, ossia in ragione del contributo dato da ciascuno
dei coniugi al mantenimento della famiglia. L’assegno non spetta al coniuge che abbia mezzi
sufficienti per mantenersi o le possibilità per procurarsi il proprio sostentamento.
Lo scioglimento del matrimonio può anche essere determinato dalla rettifica di sesso di
uno dei due coniugi. Se i coniugi esprimono la volontà di non sciogliere il matrimonio
consegue automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso (non è
previsto lo stesso per le persone civilmente unite).

Capitolo quarantaseiesimo

I RAPPORTI PATRIMONIALI NELLA FAMIGLIA
46.1 Comunione e separazione dei beni

Tra il marito e la moglie può esserci comunione o separazione dei beni. Il regime
legale è quello della comunione dei beni (art.159), per instaurare un regime di separazione
occorre una specifica dichiarazione dei coniugi. La comunione legale comprende:
a) I beni acquistati dai coniugi, anche separatamente, durante il matrimonio. Sono quindi
esclusi i beni acquistati prima del matrimonio e i beni personali (es. i vestiti e i beni che
servono all’esercizio della professione);
b) I frutti dei beni propri di ciascuno dei coniuge, percepiti ma non ancora consumati al
momento dello scioglimento della separazione dei beni;
c) I proventi dell’attività lavorativa di ciascun coniuge, percepiti ma non ancora consumati
al momento dello scioglimento della comunione;
d) Le aziende costituite durante il matrimonio e gestite da entrambi.
I beni alle lettere a) e d) sono in comunione già durante il matrimonio (comunione
attuale), i beni alle lettere b) e c) sono oggetto di una comunione eventuale:
appartengono al singolo coniuge e solo in caso di scioglimento della comunione, e solo
qualora non fossero già stati consumati, verranno suddivisi.
L’ordinaria amministrazione dei beni spetta disgiuntamente a ciascuno dei coniugi; gli atti di
straordinaria amministrazione, invece, spettano congiuntamente ai coniugi. Gli atti di
straordinaria amministrazioni compiuti senza il consenso dell’altro coniuge sono annullabili,
purché riguardino beni immobili o mobili registrati, e purché la domanda di annullamento
avvenga entro un anno dall’avvenuta conoscenza o dalla loro trascrizione nei pubblici registri.
L’annullabilità è esclusa nel caso in cui gli atti riguardino beni mobili non registrati.

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Sui beni in comunione grava un vincolo di destinazione: essi sono destinati in modo
prioritario al mantenimento della famiglia e ai bisogni dei figli. Questo vincolo di
destinazione ha efficacia esterna: è opponibile ai creditori. Bisogna quindi distinguere
due tipologie di creditori:
- Creditori le cui ragioni dipendano da obbligazioni assunte dai coniugi (anche
separatamente) nell’interesse della famiglia.
- Creditori particolari di ciascun coniuge, le cui ragioni creditorie non dipendano da
obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia.
I primi possono soddisfarsi sulla totalità dei beni comuni e, se non bastano, sui patrimoni dei
singoli coniugi, ma solo per la metà del credito (c’è responsabilità parziaria e limitata).
I secondi devono agire prima sul patrimonio del singolo coniuge, successivamente possono
agire sul patrimonio comune, ma solo per la quota del coniuge loro debitore (onere di
preventiva escussione, in deroga ai principi generali sulla comunione).
Si verifica lo scioglimento della comunione dei beni, e si procede alla divisione del
patrimonio in parti uguali nei casi di: annullamento o scioglimento del matrimonio,
separazione personale dei coniugi, mutamento del regime patrimoniale, di fallimento di uno
dei coniugi. 

I coniugi possono anche optare per un regime di separazione dei beni, la dichiarazione
può essere inserita già negli atti di celebrazione del matrimonio, o effettuata in seguito: in
questo caso il singolo coniuge rimane proprietario e amministratore individuale dei suoi beni,
resta tuttavia obbligato all’adempimento degli obblighi familiari.
I coniugi possono adottare anche regimi patrimoniali atipici non previsti dalla legge, fermo
restando l’inderogabilità degli obblighi e dei diritti che discendono dal matrimonio. Il regime
patrimoniale è l’unico aspetto del matrimonio che ammette una disciplina atipica. Si possono
anche apportare modifiche ai modelli convenzionali, ad esempio ampliando o restringendo le
categorie di beni soggette alla comunione (i beni strettamente personali o per l’esercizio della
professione non possono in ogni caso cadere in comunione). Sono inderogabili le norme
sull’amministrazione dei beni comuni e il principio dell’eguaglianza delle quote.
I coniugi possono costituire un fondo patrimoniale formato da beni vincolati al
soddisfacimento dei bisogni dei creditori (art.167). Il fondo cade in comunione ed è
aggredibile solo per i debiti contratti nell’interesse della famiglia (art. 168).
Le convenzioni matrimoniali possono essere liberamente mutate durante il matrimonio,
occorre però il consenso di entrambi i coniugi.
Le convenzioni matrimoniali sono dei contratti sottoposti alle norme sui contratti in
generale, è richiesta a pena di nullità la forma dell’atto pubblico.

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46.2 L’impresa familiare

È impresa familiare (art.230bis):«l’impresa nella quale prestano una continua attività


lavorativa il coniuge dell’imprenditore, o l’altra parte di un unione civile, o i sui parenti entro
il terzo grado o gli affini entro il secondo grado». L’impresa familiare ammette anche
lavoratori esterni ed è per certi aspetti simile al lavoro subordinato, per certi altri simile alla
società, senza però configurare né l’uno né l’altro caso. 

Ai familiari lavoratori spetta una serie di diritti, definiti complessivamente come diritto di
partecipazione all’impresa familiare, sono:
a) Diritto al mantenimento, secondo la condizione patrimoniale della famiglia;
b) Diritto di partecipazione agli utili dell’impresa in proporzione alla quantità e alla
qualità del lavoro prestato;
c) Diritto su una quota dei beni acquistati con gli utili, sempre in proporzione alla
qualità/quantità del lavoro prestato;
d) Diritto su una quota degli incrementi dell’impresa, sempre secondo la stessa
proporzione (sono incrementi d’impresa ad esempio l’ampliamento del locale o l’acquisto
di nuovi impianti o macchinari).
L’impresa familiare mantiene il carattere di impresa individuale, non diventa società: i
familiari concorrono alla divisione degli utili e al rischio d’impresa (in caso di perdita
dovranno rinunciare allo stipendio o a parte delle loro quote sui beni). Solo l’imprenditore,
però, risponde con tutto il suo patrimonio nei confronti dei creditori e solamente lui fallisce in
caso di insolvenza.
La gestione ordinaria spetta al titolare dell’impresa, cui spetta anche il potere direttivo sui
lavoratori (compresi i familiari); la gestione straordinaria spetta, invece, a tutti i familiari
partecipanti, i quali decidono a maggioranza in materia di: reinvestimento degli utili, gestione
straordinaria, cessazione dell’impresa.
Il diritto di partecipazione, in caso di cessazione dell’attività lavorativa, può essere liquidato
in denaro oppure essere ceduto ad un altro membro della famiglia (con il consenso unanime
di tutta la famiglia), è escluso il trasferimento ad estranei.

Capitolo quarantasettesimo
LO STATO DI FIGLIO
47.1 La riforma sullo stato di figlio rispetto la disciplina anteriore: sguardo d’insieme

La riforma sullo stato di figlio è stata introdotta con la legge 10/2012, il principale scopo
perseguito dal legislatore è consistito nell’attuare pienamente i principi costituzionale
contenuti agli articoli 2, 3 e 30.
Principio cardine della riforma è stato quello dell’unicità dello stato di figlio, l’art.315 infatti
recita:«Tutti figli hanno lo stesso stato giuridico». Prima si distingueva tra figli legittimi e
naturali (e tra i naturali, riconosciuti e non riconosciuti) ed ad ogni categoria di figlio apparteneva
una disciplina legislativa differente. Oggi, anche strutturalmente, il codice riflette l’unitarietà
dello stato di figlio: tutte le norme sono contenute nel titolo IX libro 1° del codice.

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Una ulteriore differenza rispetto al regime anteriore alla riforma del 2012 riguarda la
parentela. La disciplina precedente faceva sì che il rapporto di parentela si costituisse
solamente nei confronti del figlio legittimo, escludendolo per i figli naturali (con
conseguenze gravi in materia successoria). Oggi l’art.74 stabilisce espressamente che il
vincolo fra le persone che discendono da uno stesso stipite si costituisce «sia nel caso in cui
la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di
esso, sia in caso di adozione». Coerentemente l’art.258 afferma che il riconoscimento
produce effetti confronto il genitore e i suoi parenti.
Logica conseguenza di tale regola è stata l’abrogazione dell’istituto della legittimazione, il
cui scopo era quello di attribuire al figlio naturale lo status di figlio legittimo nei confronti dei
parenti (e non solo del genitore, come accadeva per il riconoscimento).
La riforma del 2012 ha anche provveduto a rimuovere il divieto di riconoscimento dei figli
incestuosi, ossia nati da un rapporto tra parenti o affini. La ratio del divieto stava nella
malafede dei genitori, i quali avevano posto in essere un comportamento contrario alla
morale e al buon costume, si trattava però di una sanzione che aveva come diretto
destinatario il figlio. Oggi la legge permette il riconoscimento del figlio incestuoso previa
autorizzazione del giudice, il quale deve agire nell’interesse del figlio (art.251)
Altro aspetto significato della riforma sta nel riconoscimento al minore del diritto ad
essere ascoltato (attinente ai procedimenti in cui è coinvolto indirettamente anche il
figlio). La norma fondamentale a riguardo è l’art. 336bis, relativo alla disciplina delle
modalità di ascolto del figlio. Lo scopo è attribuire centralità ai diritti dei figli minori e agire
nel loro interesse. L’ascolto dei figli minori che abbiano compiuto almeno 12 anni (ma anche
più piccoli se la situazione lo consente) è obbligatorio in tutti i procedimenti che lo
riguardano (si pensi ai frequenti casi di divorzio), salvo che il giudice non lo ritenga
“manifestamente superfluo” oppure in contrasto con l’interesse del minore.
47.2 I diritti e doveri del figlio

La condizione giuridica di figlio è oggi unica e indifferenziata in forza dell’art.315. La


disciplina fondamentale sui diritti e doveri del figlio è contenuta nell’art. 315bis ed è volta
alla valorizzazione della posizione del figlio, cui sono riconosciuti una serie di diritti:
• Diritto al nome: il figlio coniugale assume il cognome del padre secondo una regola non
scritta da sempre ritenuta implica nel nostro sistema. Il figlio nato fuori dal matrimoni
assume il cognome del genitore che per primo lo riconosce, quello del padre in caso di
riconoscimento simultaneo.
• Diritto all’assistenza morale: è una misura volta a conferire generale rilievo giuridico
alle modalità con cui si deve caratterizzare la relazione genitore-figlio, volutamente non
specificatamente e precisamente determinata.
• Diritto al mantenimento: si riferisce all’insieme delle esigenze di sviluppo della
personalità dei figli e della loro vita sociale (istruzione, spese mediche, sportive, ricreative,
ecc.), variabili a seconda del contesto. 

I genitori devono adempiere a tale obbligo in proporzione alle relative capacità di lavoro.
Qualora i genitori non riuscissero a provvedervi sono tenuti a farlo gli altri ascendenti,
corrispondendo ai genitori i mezzi finanziari necessari. Il diritto al mantenimento non
viene meno con la maggior età, rimane fino a quando il figlio non sia autonomo.
• Diritto all’istruzione: menzionato anche agli artt. 30 e 34 cost., è compito sia dei
genitori sia dello stato e delle istituzioni garantire ai figli una corretta istruzione.

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• Diritto all’educazione: va’ considerato in riferimento all’interesse del figlio, con


riguardo alla sua personalità e alle sue aspirazioni.
• Diritto a crescere in famiglia: è riconosciuto ai figli il diritto a crescere in famiglia e
mantenere rapporti significativi e continuativi con i parenti, lasciando in via del tutto
marginale la possibilità di formarsi all’esterno del nucleo familiare.
L’art. 315bis attribuisce ai figli anche due specifici doveri: contribuire per quanto possibile
al mantenimento della famiglia e non abbandonare la casa dei genitori.
47.3 La responsabilità genitoriale
La riforma del 2012 ha introdotto il concetto di responsabilità genitoriale, in sostituzione
delle precedenti potestà. Mentre il concetto di “potestà” voleva intendere una sorta di potere,
la responsabilità riflette l’idea secondo cui ai diritti dei figli corrispondono obblighi di
genitori sono responsabili. La disciplina è contenuta nel titolo IX del c.c., e l’art.316
stabilisce che la responsabilità genitoriale è esercitata «di comune accordo» tra i genitori,
considerando interessi ed aspirazioni del figlio.
Non esiste più un limite temporale di durata di tale responsabilità, non viene meno con la
maggior età e perdura finché il figlio non sia autonomo.
In caso di contrasto riguardo situazioni rilevanti ciascun genitore può ricorrere al giudice,
indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Il giudice, sentiti i genitori ed ascoltato il
figlio, suggerisce la scelta che ritiene migliore. Il procedimento è quindi articolato in due fasi:
la prima, di carattere conciliativo, in cui il giudice offre una soluzione di per sé non
vincolante con lo scopo di evitare di sostituirsi ai genitori; la seconda, cui eventualmente si
ricorrerà se la soluzione offerta non soddisfa i genitori, in cui il giudice conferisce il potere
decisionale al genitore ritenuto più idoneo a soddisfare l’interesse del figlio.
Il caso di lontananza di uno dei genitori che renda impossibile l’esercizio della responsabilità,
questa è esercitata esclusivamente dall’altro. Il genitore perde la responsabilità, però,
mantiene un potere di vigilanza sull’istruzione e condizioni di vita del figlio.
I genitori hanno la rappresentanza legale dei figli minori(art.320): possono, in caso di
assenza, gestire la loro impresa; hanno diritto di usufrutto sui loro beni (esclusi quelli
comprati con propri soldi), ma di tali beni devono destinare i frutti al soddisfacimento dei
bisogni del figlio.
La responsabilità genitoriale non appartiene ai genitori di figlio non riconosciuti e
giudizialmente non accertabili. Questi possono solo ottenere che il genitore biologico
provveda al loro mantenimento o, in stato di bisogno, agli alimenti.
47.3bis L’esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione,
scioglimento, nullità del matrimonio.
Con la riforma del 2012 si è sistematizzata la disciplina relativa all’esercizio della
responsabilità genitoriale in caso di disgregazione della coppia. I profili oggetto di intervento
sono stati sopratutto l’affidamento della prole e la responsabilità genitoriale, per qualsiasi
controversia il giudice adotta provvedimenti nell’esclusivo interesse del figlio,
considerando ovviamente il diritto del figlio minatorie a mantenere un rapporto equilibrato e
continuativo con entrambi i genitori.

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Per quanto riguarda l’affidamento della prole, la regola prioritaria è quella


dell’affidamento condiviso (già introdotta nel 2006), rimane dunque del tutto residuale la
scelta di affidamento ad un solo genitore: viene disposta solo se l’affidamento condiviso sia
contrario all’interesse del figlio. Il giudice, inoltre, definisce le modalità e i tempi in cui i
genitori vedono i figli e la misura in cui devono contribuire al mantenimento. L’affidamento
condiviso implica la spartizione del ruolo genitoriale e i diritti/doveri che ne discendono.
Qualora sia disposto l’affidamento esclusivo ad un solo genitore l’altro perde la responsabilità
genitoriale, ma conserva il diritto di vigilanza: le decisioni di “ordinaria amministrazione” sono
lasciate interamente al genitore responsabile, quelle di straordinaria devono essere prese di
comune accordo (il genitore non-affidatario può adire il giudice qualora ne abbia bisogno).
Nel caso di affidamento condiviso in seguito alla disgregazione della coppia, la
responsabilità genitoriale è esercitata da ambedue i genitori. La formula legislativa non
riprende totalmente l’art.316, che sancisce un esercizio «di comune accordo», è dubbio
quindi se per in certi casi la responsabilità possa essere esercitata disgiuntamente. Nella
prassi però l’esercizio congiunto è la normalità, e lo si trae anche da una interpretazione
sistematica della norma.
È consentito ai genitori mantengono sempre il diritto di chiedere, in ogni momento, la
revisione dei provvedimenti riguardo l’affidamento dei figli, l’esercizio della responsabilità
genitoriale e le misure dei contributi da versare.
47.4 L’attribuzione dello status di figlio e la disciplina delle prove dello status

Anche se lo stato di figlio è unico (art.315), sono diverse le regole costitutive di tale status a
seconda che si tratti di figlio naturale (legittimo o meno) oppure figlio adottato.
Per i figli nati nel matrimonio è la generazione da persone tra loro coniugate che determina
automaticamente tale status, per quelli nati all’esterno del matrimonio l’attribuzione dello
status di figlio deriva da un atto giuridico: il riconoscimento (o un accertamento giudiziale). 

Lo stato di figlio di prova con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato; in mancanza è
sufficiente la prova del possesso di stato, occorre che: 1) il genitore abbia trattato la
persona come figlio e adempiuto i correlativi doveri; 2) che tale persona sia considerata come
figlio sia nei rapporti sociali sia all’interno della famiglia. Il possesso di stato ha una funzione
meramente probatoria in mancanza dell’atto di nascita. In caso manchi anche il possesso di
stato, la prova può essere fornita con ogni mezzo (oggi importanti le analisi del DNA).
Lo stato di figlio spetta, in linea di principio, a chiunque sia nato o sia stato concepito durante
il matrimonio (non importa se il matrimonio era nullo).
A) Concepimento in costanza di matrimonio 

Il principio generale è posto dall’art.231:«il marito è padre del figlio concepito o nato
durante il matrimonio». Questa regola però non è sufficiente in quanto non sempre è certa
la data del concepimento, valgono allora altre due regole:
aa) Si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando ancora non siano
trascorsi 300 giorni dall’annullamento o scioglimento del matrimonio.

La presunzione ammette prova contraria attraverso l’esperimento di un’azione di

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disconoscimento della paternità, sono ammessi provare che non sussiste rapporto di
filiazione il presunto padre, la madre e il figlio quando maggiorenne (art.243b).
aa) Si presume non concepito all’interno del matrimonio il figlio nato 300 giorni dopo
l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio. 

I coniugi o i loro parenti sono però ammessi a provare il contrario (art.234).
B) Nascita in costanza di matrimonio

Vale la regola secondo cui si reputa figlio del marito della madre il figlio nato durante il
matrimonio, indipendentemente dalla data di concepimento. Il figlio è considerato sempre
legittimo, occorrerà, eventualmente, esperire un’azione di disconoscimento.
47.5 Le regole sulla costituzione dello stato di figlio nato fuori dal matrimonio:
il riconoscimento
Il figlio nato fuori dal matrimonio può restare tale o essere riconosciuto da uno o da entrambi
i genitori, oppure può ottenere l’accertamento giudiziale della paternità o maternità.
Il figlio non riconosciuto assume il nome che gli viene dato dall’ufficiale di stato, è iscritto
nei registri come figlio di ignoti (o di madre che non vuole essere nominata aka Voldemort).
Il riconoscimento del figlio è una libera dichiarazione del genitore o dei genitori, con il
necessario assenso del figlio se ha compiuto 14 anni o dell’altro genitore che lo ha già
riconosciuto (quest’ultimo non può rifiutare il consenso se è nell’interesse del figlio). Il
genitore il cui riconoscimento è stato rifiutato dall’altro genitore può rivolgersi al giudice, il
quale lo negherà ancora solamente se il rifiuto è palesemente fondato, il giudice, in ogni caso,
decide tendendo conto esclusivamente dell’interesse del figlio. 

Il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio è un diritto della personalità del
genitore (art.30 cost.), può trovare ostacolo solo se rechi pregiudizio allo sviluppo del figlio,
ossia contrasti con un altro diritto costituzionalmente rilevante.
Il riconoscimento può essere fatto o all’atto di nascita con dichiarazione successiva, ma il
genitore non può, anziché il riconoscimento, chiedere l’accertamento giudiziale.
Ha natura di dichiarazione di scienza, può essere impugnato per difetto di veridicità con
azione imprescrittibile da parte del figlio, di colui che lo ha effettuato e da chiunque ne abbia
interesse. Una volta fatto è irrevocabile.
Sono riconoscibili anche i figli adulterini e quelli incestuosi (anche se per quest’ultimi serve
l’autorizzazione del giudice). In nessun caso è ammesso riconoscimento il contrasto con lo
stato di figlio in cui si trova una persona (non posso riconoscere il figlio d’altri).
47.6 Segue: la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità

Il figlio (se minore colui che esercita la responsabilità genitoriale) o, se morto, i suoi
discendenti possono chiedere al tribunale la dichiarazione giudiziale di paternità o di
maternità, fornendone la prova, che può essere data con ogni mezzo. La domanda va
proposta nei confronti del presunto genitore o, in sua mancanza, dei suoi eredi. L’azione è
imprescrittibile per il figlio; i discendenti possono esercitarla entro due anni dalla sua morte.
La sentenza che dichiara la filiazione produce gli stessi effetti del riconoscimento.

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47.6 La filiazione non riconoscibile

Nonostante sia stato introdotta la condizione unitaria di figlio, è diversa la situazione del
figlio nato fuori dal matrimonio non riconoscibile e non giudizialmente accertabile (anche se
i casi sono molto limitati, es. figlio che non abbia dato il consenso al riconoscimento).
Egli è privo dello status di figlio: può solo ottenere che il genitore provveda al suo
mantenimento, istruzione ed educazione o, se maggiorenne e in stato di bisogno, gli
corrisponda gli alimenti (art.279). Alla morte del genitore ha diritto ad un assegno vitalizio
pari alla quota di eredità che gli spetterebbe se fosse figlio, salvo che il genitore non abbia
disposto per testamento o donazione a suo favore (art. 580-584).
47.8 La procreazione medicalmente assistita

La fecondazione artificiale ha posti nuovi problemi, è regolata secondo i seguenti principi:


• È vietata la fecondazione eterologa, qualora venisse praticata è vietato alla coppia
disconoscere il figlio;
• È severamente punita la clonazione (reclusione fino a 20 anni);
• È ammessa la fecondazione artificiale omologa medicalmente ma solamente in assenza di
terapie volte a rimuovere le cause di sterilità e solo a favore di coppie eterosessuali,
sposate o conviventi, in eta fertile;
• È vietata la fecondazione artificiale a favore si single;
• È vietata la maternità surrogata;
• È vietato il commercio di embrioni.
Secondo la legge la procreazione medicalmente assistita è ammissibile solo sul presupposto
di un’accertata impossibilità di rimuove in altro modo le cause che impediscono la
procreazione, quali sterilità o inferitilità. È attualmente in corso un dibattito tra corti nazionali
e internazionali.
47.9 Le azioni in materia di status

Venute meno le diversità tra le categorie di figli è stata anche attuata una disciplina più
omogenea riguardo le azioni in materia di status, volte a contemperare due interessi opposti:
il favor veritatis rispetto l’accertamento dello stato biologico e la certezza della condizione
già acquistata dal figlio.
Esistono diverse azioni: l’azione di disconoscimento, volta a dimostrare che il figlio nato nel
matrimonio non è figlio del marito della madre; l’azione di contestazione di stato, finalizzata
a far dichiarare l’inesistenza dello stato di figlio; l’azione di reclamo dello stato di figlio, per
consentire al figlio di ottenere l’accertamento dello stato di figlio non risultante dagli atti di
stato civile.
Azione di disconoscimento
È diretta a provare che non sussiste rapporto di filiazione fra il figlio ed il presunto padre, in
nessun caso è sufficiente la dichiarazione della madre.
Sono legittimati il marito, la madre e il figlio:
• L’azione esercitata personalmente dal figlio è imprescrittibile, la ratio è che solo il figlio
può decidere se far prevalere il principio di favor veritatis o il principio di certezza del
rapporto giuridico.

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• Il marito deve esercitare l’azione entro un termine di decadenza di un anno, che decorre
dal giorno della nascita del figlio, o se il marito era assente, dal giorno del suo ritorno o
dal momento in cui ne è venuto a conoscenza.
• La madre può proporre l’azione di disconoscimento entro 6 mesi dalla nascita.
In ogni caso l’azione per madre e marito si prescrive in 5 anni.
L’impugnazione del riconoscimento, mira a dimostrare che colui che ha compiuto il
riconoscimento non è il padre. Ne sono legittimati il figlio che è stato riconosciuto, l’autore
del riconoscimento o chiunque ne abbia interesse. Per il figlio l’azione è imprescrittibile, per
l’autore del riconoscimento il termine è di un anno dall’annotazione del riconoscimento.
Azione di contestazione di stato
È l’azione che mira a contestare lo stato di figlio (art.248): è esperibile da chi, in base all’atto
di nascita, risulti genitore oppure da chiunque ne abbia interesse.
Azione di reclamo dello stato di figlio
È imprescrittibile e spetta solo al figlio (art.249). Può essere esercitata anche da chi è nato nel
matrimonio ma fu iscritto come figlio di ignoti, salvo nel frattempo sia stato adottato.
47.10 L’adozione

I figli nati nel matrimonio o poi riconosciuto sono legati da vicolo di sangue coi genitori, tale
vincolo manca nei figli adottivi, che diventano tali solo a seguito di una provvedimento del
tribunale. Esistono due forme di adozione:
• Adozione di persone di maggiore età: l’adozione di maggiorenni ha la specifica
funzione di rendere possibile una discendenza elettiva, attributiva del cognome e della
qualità di erede. Occorre il consenso dell’adottato, dei suoi genitori e dell’eventuale
coniuge. L’adottato resta nella famiglia di origine e ne conserva diritti e doveri (art.300).
L’adottato ottiene diritti successori verso l’adottante, l’adottante non li acquista verso
l’adottato. 
 L’adozione può essere revocata con provvedimento del tribunale per
indegnità, dell’adottante o dell’adottato (per indegnità si intende l’aver commesso o
tentato un delitto nei confronti dei parenti dell’adottante/adottato). In caso di adozione di
maggiorenni non sorge vincolo di parentela.
• Adozione dei minori: ha la funzione di dare una famiglia a minori che siano in stato
di abbandono perché privi di assistenza morale o materiale. Richiede che i coniugi
siano fisicamente e moralmente idonei ad educare, istruire e mantenere il figlio minore.

L’adozione si svolge in tre fasi:
1. Il tribunale dei minori dichiara lo stato di adottabilità del minore.
2. I coniugi che abbiano i requisiti chiedono al tribunale l’affidamento preadottivo.
3. Passato almeno un anno i coniugi possono richiedere la dichiarazione di
adozione. L’adozione spezza ogni vincolo con la precedente famiglia e l’adottato
acquista il titolo di figlio nato nel matrimonio, con effetto che retroagisce alla data
dell’affidamento preadottivo. Ogni atto deve escludere qualsiasi riferimento alla famiglia
di sangue; lo stesso rapporto di adozione deve restare occulto.
L’adottato una volta compiuti 25 anni può ricercare i genitori di sangue, salvo il loro
diritto all’oblio.

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47.11 L’affidamento dei minori

I minori che non sono stati adottati da alcuno o che sono temporaneamente privi di una
famiglia vengono affidati ad un altra famiglia o ricoverati negli istituti di assistenza; l’istituto
esercita poteri tutelari. L’affidamento ha solo funzione assistenziale: l’affidatario deve
accogliere il minore e provvedere al suo mantenimento. Il minore resta sottoposto alla potestà
dei genitori e l’affidatario deve tenere conto della loro opinione nell’educare il figlio,
agevolare i rapporti coi genitori e favorire il rientro nella famiglia d’origine.

Capitolo quarantottesimo

LE SUCCESSIONI A CAUSA DI MORTE
48.1 I rapporti trasmissibili a causa di morte

Alla morte della persona alcuni suoi diritti e alcune sue obbligazioni si estinguono; altri,
invece, si trasmettono ai suoi successori (lo stesso vale per i contratti).
Si estinguono i diritti e gli obblighi non patrimoniali, ad esempio i diritti e gli obblighi
familiari e i diritti della personalità, in quanto strettamente legati alla persona del titolare.
Per contro i diritti patrimoniali assoluti si trasmettono ai successori: sono questi la
proprietà, i diritti reali minori e le garanzie reali, comprensivi delle relative situazioni
negative (es. terreno gravato da usufrutto), non si trasmettono i diritti reali legati alla persona
del titolare: l’usufrutto, l’uso e l’abitazione.
Anche i diritti patrimoniali relativi, ossia crediti e i debiti del defunto si trasmettono ai
successori, salvo i casi in cui si tratti di obbligazioni di carattere strettamente personale
(es. mandato, obbligazione di fare).
In linea di principio il contratto non si estingue con la morte di uno dei contraenti e il
successore subentra nell’esercizio dei diritti e nell’adempimento dei doveri; così se muore il
compratore prima dell’esecuzione della vendita, il successore avrà diritto alla consegna della
cosa e dovrà pagare il prezzo; stessa cosa nei casi di locazione, mutuo, preliminare di
vendita… si nota come si trasmettano anche contratti avente carattere personale,
ossia contratti in cui l’identità della persona è determinante per il consenso. Non si
trasmettono, invece, in nome della libertà del successore, alcuni contratti:
• I contratti aventi a oggetto una prestazione di fare, inesigibile a carico degli eredi, così
il mandato, l’agenzia, ecc.
• I contratti che riflettano propensioni del tutto personali del contraente defunto, così
l’adesione ad un’associazione.
Si trasmette, invece, la quota di partecipazione alle s.p.a.
Qualora il contratto non sia stato concluso prima della morte di uno dei due contraenti, in
linea di principio, la proposta perde ogni efficacia; di contro, è vincolante per gli eredi la
proposta irrevocabile (art.1329).
Il favore legislativo è dunque per la continuità dei rapporti, reali ed obbligatori, del defunto.

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48.2 L’eredità e le diverse forme della successione

L’insieme dei rapporti giuridici che alla morte del loro titolare si trasmettono ai suoi
successori prende il nome di asse ereditario o di eredità. Il defunto è detto ereditando o, più
comunemente, “de cuius”; il suo successore, invece, è detto erede o, se più di uno, coerede.
L’apertura della successione avviene nel momento della morte ed essa si apre nel
luogo dell’ultimo domicilio del de cuius.
La sola morte del soggetto produce una situazione che è detta delazione(art.457 comma I ):
il patrimonio è destinato alla successione, ma ancora non si sa se e quali eredi accetteranno,
quindi chi succederà.
La delazione può assumere due forme: «l’eredità si devolve per legge o per testamento»(art.
457 comma II). La devoluzione per legge opera in due casi: nel caso in cui l’ereditando non
aveva fatto testamento, e allora succederanno gli eredi legittimi; nel caso in cui
l’ereditando, disponendo del suo patrimonio aveva pregiudicato i diritti chela legge riserva a
determinati parenti, detti legittimari.
Si usa quindi individuare tre forme di successione:
a) Successione testamentaria: Se il de cuius aveva fatto testamento l’eredità si devolve
secondo questo. È un’articolazione del diritto di disporre delle cose di cui si è proprietari.
b) Successione legittima: Se il de cuius non aveva fatto testamento l’eredità si devolve a
suoi parenti secondo i parametri indicati dalla legge.
c) Successione necessaria: Opera in due casi: 1) se il de cuius aveva fatto testamento
ma aveva pretermesso determinati parenti cui la legge riconosce il diritto ad una quota di
eredità; 2) se, essendo morto senza testamento, in vita aveva donato suoi beni in modo da
ledere il diritto di successione dei suoi legittimari. I parenti possono esperire l’azione di
riduzione delle donazioni o disposizioni testamentarie. 

È una forma di successione che pone un limite alla facoltà di disporre dei propri diritti:
questa facoltà può essere liberamente esercitata per una quota (quota disponibile), per
un’altra quota (riserva) è la legge che determina a chi spetti, anche contro la volontà
dell’ereditando.
La morte di una persona determina la vocazione (o chiamata) dei successori: la vocazione è
il titolo in base al quale l’erede è chiamato a succedere (testamento o qualità di parente).
Delazione e vocazione sono due aspetti entrambi provocati dalla morte di una persona.
Si distingue, ancora, tra due forme di successori:
1)Successore a titolo universale: è colui che succede, per intero o per una quota, alla
totalità dei rapporti trasmissibili. Succede sia nei crediti sia nei debiti.
2)Successore a titolo particolare: è colui al quale vanno, per legato contenuto nel
testamento, uno o più beni determinati. Non è erede ma legatario e non risponde dei debiti
del de cuius.
48.3 Capacità a succedere e successione per rappresentazione

In realtà, non tutti quelli che sono chiamati a succedere ne hanno le qualità per farlo. Per
succedere, infatti, occorre che i successori siano capaci di succedere e non siano indegni. Sono
capaci di succedere sia le persone fisiche sia gli enti (riconosciuti o no), purché vi sia
disposizione testamentaria. È capace di succedere anche il figlio concepito del defunto. Per
testamento è possibile che succeda anche il figlio non ancora concepito di una data persona.

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Sono indegne alla successione quelle persone che abbiano commesso o tentato gravi
reati nei confronti del de cuius o dei suoi parenti, o che abbiano alterato, nascosto o
manomesso il testamento o che abbiano, ancora, con violenza, costretto l’ereditando nella
stesura di testamento. Gli indegni possono partecipare alla successione ereditaria solo se
riabilitate dal defunto.
Si ha successione per rappresentazione quando il successore non voglia o non possa
succedere (non voglia: il successore rinuncia o rifiuta l’eredità; non possa: è indegno o
incapace). La rappresentazione fa subentrare nella successione i discendenti di chi non
voglia/possa succedere. La divisione dell’eredità si fa per stirpi, non per capi.
Colui che non vuole/può accettare l’eredità prende il nome di rappresentato, colui che
subentra di rappresentante. Il rappresentante ha un proprio ed autonomi diritto a succedere:
può accettare l’eredità anche se in precedenza avesse rinunciato a quella del rappresentato o
se nei confronti di questo ultimo fosse stato incapace o indegno di succedere.
48.4 L’accettazione dell’eredità e la separazione dei beni
Abbiamo fin qui detto della delazione, ossia la destinazione dell’eredità. L’altro aspetto
fondamentale riguarda l’atteggiamento che assumono i chiamati alla successione: è
l’accettazione dell’eredità, atto senza cui la successione non sia attua.
L’accettazione produce effetti retroattivamente dal momento della morte dell’ereditando.
Prima dell’accettazione il chiamato alla successione può, a tutela dei beni ereditari, esercitare
azioni possessorie in loro difesa (anche se non ne ha il possesso), compiere atti conservativi e
di amministrazione temporanea, senza che ciò configuri una tacita accettazione.
L’accettazione è necessaria solo per gli eredi, i legati si acquistano immediatamente (salvo la
possibilità di rinunciarvi). Il legatario deve chiedere all’erede la consegna del bene legatogli.
Se l’erede non prende possesso dei beni lasciatigli in eredità si parla di eredità giacente e
per la sua amministrazione viene nominato un curatore, il quale deve amministrare e
custodire i beni fino al momento dell’accettazione dell’eredità.
L’erede ha 10 anni di tempo per accettare, l’accettazione può essere espressa o tacita.
L’accettazione espressa è un atto unilaterale consistente nella sola dichiarazione dell’erede,
non può essere parziale o condizionata. L’accettazione tacita si ha quando si ha quando
l’erede si comporta di fatto come tale compiendo atti che presuppongono la volontà di ereditare
(es. paga i debiti o riscuote i crediti). Implica accettazione tacita la rinuncia all’eredita fatta verso
corrispettivo o a favore di altri: è un atto di disposizione della quota.
All’accettazione è atto unilaterale tra vivi avente contenuto patrimoniale e ad essi si
applicano, in quanto compatibili, le norme sui contratti. Tuttavia, può essere impugnato solo
per dolo o violenza, non per errore.
L’accettazione può essere pura e semplice oppure con beneficio di inventario.
L’accettazione pura e semplice fa si che i beni dell’ereditando si uniscano ai beni
dell’erede con la conseguenza che egli dovrà pagare i debiti e i legati anche con il suo
patrimonio qualora non basti l’eredità. Per evitare questo si ricorre spesso all’accettazione
con beneficio di inventario, produce i seguenti effetti:
a) I creditori del defunto e i legatari potranno pretendere al massimo il valore dell’eredità;
b) I creditori del morto e i legatari avranno preferenza sull’eredità rispetto i creditori
dell’erede;
c) L’erede non può alienare o ipotecare i beni ereditari, pena la decadenza del beneficio.
Questa accettazione si fa per atto del notaio e affinché abbia effetto è necessario che l’erede
compia l’inventario dei beni entro tre mesi.

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Il pagamento dei creditori e legatari può avvenire in tre modi:


a) L’ereda paga man mano che si presentano, esaurita l’eredità i creditori del de cuius
potranno agire contro i legatari (le liberalità del morto non possono andare contro i
debitori).
b) L’erede può (deve se richiesto) aprire una procedura concorsuale analoga al fallimento, in
cui i creditori sono preferiti rispetto i legatari.
c) L’erede può rilasciare i beni e nominare un curatore che provvede a soddisfare creditori e
legatari.
Se l’erede è in pessime condizioni economiche, anche i creditori del del defunto e i legatari
possono avere interesse affinché i patrimoni restino divisi, possono richiedere la separazione,
con la conseguenza che sul patrimonio ereditario possono soddisfarsi crediti e legatari
separatisti (che hanno richiesto la separazione), con preferenza rispetto i creditori dell’erede.
La separazione investe solo i beni su cui sia stata espressamene richiesta, non tutti.
L’erede può rinunciare all’eredita con le stesse modalità con cui si richiede beneficio d’inv.
La rinuncia è un atto unilaterale, non può essere sottoposta a condizione o termine e può
essere impugnata per violenza o dolo. I creditori pregiudicati dall’erede rinunciante possono
impugnare la rinuncia, ma solo per quanto gli spetta.
All’erede che abbia accettato l’eredita è concessa un’azione, la petizione di eredità,
esperibile nei confronti del possessore dell’eredità. L’erede chiede l’accertamento della sua
qualità di erede e la consegna dell’eredità. L’azione imprescrittibile.
Se nel frattempo il possessore aveva alienato i beni l’erede può agire nei suoi confronti. Sono
fatti salvi i diritti di chi aveva acquistato in buona fede, a condizione che l’acquisto sia stato a
titolo oneroso e che l’acquirente, in deroga al principio generale, provi la propria buona fede
al momento dell’acquisto (art.534)
48.5 La comunione ereditaria e la divisione

Qualora gli eredi siano due o più di due si parla di comunione ereditaria, regolata dalle
norme sula comunione, con delle particolarità:
a) I crediti e i debiti ereditari danno luogo a obbligazioni parziarie: ciascun erede può
esigere i crediti e deve pagare i debiti solo per la quota a lui spettante;
b) Il coerede può alienare la sua quota, ma gli altri fruiscono di un diritto di prelazione. Se
non ne tiene conto, gli altri coeredi possono riscattare la cosa venduta dall’acquirente
(retratto successorio)
c) Il coerede può chiedere la divisione; questa non avrà luogo se il testatore l’ha vietata
(divieto massimo per cinque anni) o se un erede non è ancora nato.

La divisione può essere:
• Divisione amichevole: è fatta col consenso di tutti gli eredi, è un contratto, ma può
essere impugnata solo per dolo o violenza
• Divisione giudiziale: se non si raggiunge un accordo la divisione è fatta dal giudice.
• Divisione fatta dal testatore: è il testatore designa cosa spetta a ciascuno degli eredi.

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In ogni caso qualora a un soggetto spetti un’eredità di valore inferiore ai 3/4 della sua quota
può rivolgersi all’autorità giudiziaria per la risoluzione della divisione (art.763). La divisione
ha effetto retroattivo al momento dell’apertura della successione.

Se i coeredi sono discendenti o coniuge del de cuius, nell’assegnare a ciascuno la sua quota si
tiene conto delle donazioni che aveva ricevuto quando il de cuius era in vita, è la
collazione, che mira ad evitare disparità di trattamento tra coeredi in quanto si considera ciò
che il de cuius aveva donato mentre era in vita come anticipazione sulla futura successione.
L’ereditando può inserire nel testamento la dispenda della collazione, per inibirne gli effetti.
La collazione però giova solo a coniuge e discendenti, non a tutti i coeredi, infatti la
collazione opera solo nei confronti dei primi, per la generalità dei coeredi la quota di eredità
spettante si calcola solo sul patrimonio rimasto all’ereditando nel momento in cui è morto.
Il concetto di donazione qui va inteso in senso ampio, si intende ciò che si è ricevuto «per
donazione direttamente o indirettamente» (art. 737). La collazione può essere fatta:
1) In natura: il coerede restituisce il bene che gli era stato donato;
2) Per imputazione: il valore del bene viene detratto dalla quota spettante al coerede.
Per gli immobili si possono fare entrambe le collazioni, per i mobili solo quella per
imputazione. Per il denaro non si tiene conto dell’inflazione (principio nominalistico).

Capitolo quarantanovesimo

LA SUCCESSIONE PER LEGGE
49.1 La successione legittima

L’eredità si devolve per legge o per testamento: si parla di successione legittima quando la
devoluzione opera in assenza di testamento; di successione necessaria quando le disposizioni
del testamento o altri atti di liberalità abbiano pregiudicato gli interessi dei legittimari. Il
fondamento della successione per legge risiede nel rapporto familiare che unisce
l’ereditando e i suoi successori, dal 2016 l’unito civilmente ha gli stessi diritti del coniuge. 

Qualora la persona muoia senza aver fatto testamento, si attua la successione legittima
disciplinata dalla legge nel seguente ordine:
1. Se ci sono figli, i beni vanno a questi in parti uguali; al coniuge, se ancora in vita, spetta
metà del patrimonio oppure un terzo se concorre con più figli;
2. Se non ci sono figli, due terzi vanno al coniuge e un terzo a genitori, fratelli e sorelle;

3. Se non ci sono né figli né coniuge superstite, succedono i genitori, i fratelli e le sorelle;

4. Se nessuno di questi sia vivo, i beni vanno ai parenti fino al sesto grado di parentela.

Ciascun grado esclude il successivo grado di parentela, fatte salve le norme sulla
rappresentazione.
Qualora non vi siano parenti entro il sesto grado succede lo Stato, il quale non ha bisogno di
accettare l’eredità e risponde dei debiti solo fino al valore del patrimonio ereditato.

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49.2 La successione necessaria dei legittimari

Se l’ereditando ha un coniuge, discendenti o ascendenti, una quota del patrimonio spetta a


loro, anche contro la sua volontà, questa quota è detta legittima o riserva . Qualora il de
cuius muoia lasciando un coniuge e più figli, la legittima può arrivare a coprire sino a tre
quarti del patrimonio. Ciò non pregiudica solo la volontà dell’ereditando ma anche la sue
libertà di donare, dato che diritti dei legittimari possono essere lesi anche da donazioni fatte
quando era in vita. I parenti cha hanno diritto ad ereditare la legittima sono: il coniuge, i figli
e gli ascendenti (unito civilmente=coniuge). Essi succedono in questo ordine:
• Al coniuge spetta la metà del patrimonio, un terzo se concorre con un figlio, un quarto se
con più figli;
• Al figlio (se non può/vuole, ai loro ascendenti) spetta un mezzo, ai figli i due terzi;
• Agli ascendenti spetta un terzo del patrimonio, un quarto se concorrono con il coniuge. 

La quota viene determinata detraendo dal patrimonio i debiti ed aggiungendovi le eventuali
donazioni elargite dall’ereditando in vita (collazione).
La lesione dei diritti dei legittimari non influisce sulla validità del testamento, questo è valido
e può trovare piena attuazione se i legittimari rinuncino ad esercitare i loro diritti. Al
legittimario che non ha ricevuto la quota che gli spetta compete una specifica azione,
l’azione di riduzione: ha diritto a conseguire dagli eredi la quota che gli è dovuta,
chiedendo la riduzione della loro. Le quote degli altri eredi si riducono proporzionalmente.
L’esercizio dell’azione di riduzione provoca una totale o parziale inefficacia della
disposizione impugnata (donazione o testamento). L’azione spetta al legittimario, suoi eredi o
aventi causa. La rinuncia preventiva all’azione è nulla, può essere effettuata solo dopo
l’apertura della successione. Il legittimario che voglia esperire l’azione di riduzione deve
agire prima verso gli eredi e i legatari, solo dopo verso i donatari (partendo dalla più recente).
All’inefficacia della disposizione impugnata consegue l’obbligo del beneficiario di
restituire il bene, le soluzioni possono essere:
a) Separazione del bene in natura, se questo è divisibile;
b) Totale acquisizione del bene all’eredità, se non è divisibile e il donatario/legatario ha
un’eccedenza maggiore di 1/4 della quota disponibile;
c) Se l’eccedenza non supera 1/4 il donatario può liquidare in denaro e tenere il bene.
Se il donatario aveva costituito sul bene diritti reali altrui o garanzie reali (pegno/ipoteca) il
legittimario lo ottiene libero da pesi.
Il legittimario che sia stato interamente pretermesso dal de cuius acquista il titolo di erede
solo in forza della sentenza che accoglie la sua domanda di riduzione, la sua quota però si
calcola al netto dei debiti sull’asse ereditario.
Il legittimario non diventa erede se manchino i presupposti della riduzione: o perché aveva
ricevuto donazioni superiori al valore della sua quota o perché l’eredità è passiva.
Il de cuius può anche lasciare un “legato in sostituzione di legittima”, ossia un legato che
sostituisce la quota che spetterebbe ad un erede. Il legatario può reclamare la propria quota ,
qualora il legato abbia un valore inferiore, solo se rinuncia al legato stesso.

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Capitolo cinquantesimo

LA SUCCESSIONE TESTAMENTARIA E LA DONAZIONE
50.1 Il testamento 


L’art. 587 definisce il testamento come: «un atto revocabile con il quale, per il tempo in cui
avrà cessato di vivere, taluno dispone di tutte le proprie sostanze o di parte di esse». Bisogna
analizzare ogni parte della definizione:
a) Il testamento come atto unilaterale
Il testamento anzitutto un atto giuridico unilaterale che consiste nella dichiarazione di
volontà del testatore attraverso cui dispone delle proprie sostanze. È un atto
personalissimo: non può compiuto mediante rappresentate. Per fare testamento è
necessaria la capacità di agire, non possono fare testamento i minori o gli interdetti.
b) Testamento come atto revocabile
Peculiarità del testamento è la sua revocabilità: in ogni momento, sino all’ultimo istante della
sua vita, il testatore può revocarlo o modificarlo. Ciò a tutela della libertà testamentaria,
secondo cui ognuno deve essere pienamente libero di fare, non fare o revocare il testamento.
È una libertà a cui neanche il testatore può rinunciare: qualsiasi clausola che dichiari
irrevocabile/immodificabile il testamento è inefficace. 

Sono nulli eventuali patti successori: contratti con cui si dispone della propria successione
(la disposizione in quanto contenuta in un contratto sarebbe vincolante), è nulla anche la
donazione a causa di morte. 

Vige il divieto di testamento congiuntivo, con cui due persone dispongono assieme della
propria successione, e di testamento reciproco, con cui due persone si istituiscono
reciprocamente l’una erede dell’altra. Il testamento è necessariamente un atto
unipersonale. Sono, invece, validi i patti di famiglia, con i quali si anticipa, in tutto o in
parte, la trasmissione della ricchezza familiare.
La revoca del testamento può essere fatta in modo espresso (mediante atto pubblico o con
dichiarazione di revoca contenuta in un nuovo testamento); oppure in modo tacito
(distruggendolo o con un nuovo testamento le cui disposizioni risultano incompatibili).
c) Testamento come atto a causa di morte
Col testamento un soggetto dispone del proprio patrimonio «per il tempo in cui avrà cessato
di vivere»: è dunque un atto mortis causa. La “causa di morte” non significa solo che la
morte è il momento in cui il testamento produrrà effetti, ma la morte attiene alla causa
dell’atto: il testamento ha la funzione di regola la successione in modo diverso dalla
successione legittima e nei limiti della successione necessaria. 

Si differenzia cosa dagli atti tra vivi post mortem , in cui l’esecuzione dell’atto è subordinata
alla morte di una persona (es. assicurazione sulla vita).
d) Testamento come atto di liberalità
Il testamento è un atto di liberalità con il quale taluno dispone in tutto o in parte delle proprie
sostanze. Come nella donazione si arricchisce qualcuno per spirito di liberalità, ma
diversamente dalla donazione (che il donatario è libero di fare o non fare e di decidere a chi
donare), la successione si aprirà comunque e il testamento è solamente una deroga alla
successione legittima, nei limiti della successione necessaria.

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Diversamente dalla donazione, che può essere revocata per sopravvenienza di ascendenti, il
testamento è revocato di diritto per sopravvenienza di discendenti, ossia di altri legittimari.
Il testamento è un atto formale, non è valido il testamento orale. Per essere valido esso deve
presentarsi in una delle seguenti forme:
• Testamento olografo: è scritto, datato e sottoscritto interamente di mano del testatore;
può avere aggiunte successive, i codicilli (art.602);
• Testamento pubblico: è scritto dal notaio dopo che il testatore ha espresso le sue
ultime volontà davanti a due testimoni; è sottoscritto dal testatore dai due testimoni e dal
notaio, che lo rilegge e l’annota luogo, data e ora (art.603);
• Testamento segreto: è scritto dal testatore o da persona da lui delegata, a mano o a
stampa, in un qualunque foglio. Il testatore deve, assieme a due testimoni, consegnarlo
sigillato al notaio; dovrà poi essere sottoscritto dal notaio, dal testatore e dai testimoni.
Il testamento può avere anche contenuto non patrimoniale, ad esempio riconoscimento del
figlio. Si distingue quindi tra contenuto tipico (disposizioni patrimoniali) e contenuto
atipico (disposizioni non patrimoniali), per il contenuto tipico il testamento è un atto mortis
causa, per il contenuto atipico è semplicemente un atto post mortem. Il testamento è valido
anche se contiene solamente disposizioni atipiche (art.587 comma II).
50.2 L’istituzione di erede ed i legati

Il contenuto tipico del testamento contiene disposizioni patrimoniali che possono riguardare:

a) Istituzione di uno o più eredi, ossia di successori a titolo universale. Il testatore
determina i suoi successori e in quali parti essi succedono;
b) Istituzione di un legato, ossia di un successore a titolo particolare. Il legato può essere
di specie (quando ha per oggetto la proprietà o altro diritto di una cosa determinata), oppure
di genere (quando ha per oggetto cose determinate solo nel genere). L’adempimento del
legato spetta agli eredi o a un determinato erede (detto onerato); gli eredi rispondono
illimitatamente del legato, salvo non abbiano accettato con beneficio di inventario;

c) Costituzione di una fondazione, sempre nei limiti dei diritti dei legittimari.

Un’eventuale diseredazione, ossia l’esclusione dalla successione di una persona che
altrimenti sarebbe chiamata a succedere, ha valore solo se non pregiudica i diritti dei
legittimari, i quali non succedono solo se indegni.
Gli eredi o i legatari devono essere persone determinate o determinabili: ogni incertezza
renda nulla la disposizione (art.628). Possono essere utilizzare altre fonti, diverse dal
testamento, solo nel caso in cui siano espressamente richiamate dal testamento, ad esempio è
valido il legato a favore di persona da scegliersi da parte di un terzo tra una data categoria di
persone (es. gli studenti più meritevoli). È nulla la disposizione che dipenda dal mero arbitrio
del terzo.
L’art.625 fornisce i criteri per l’interpretazione del testamento: all’erronea indicazione
dell’erede, del legatario o della cosa oggetto di disposizione, non consegue l’inefficace della
disposizione se dal testamento o da altre fonti risulti in modo certo a chi o cosa il testatore
intendeva riferirsi (es. se il testatore sbaglia il nome di suo nipote, ma è chiaro si riferisse
proprio a quel nipote, la disposizione è valida).
Si nota qui una chiara contrapposizione con l’interpretazione dei contratti, la quale si basa
esclusivamente sulla dichiarazione espressa dalle parti (e non sulla ricerca della volontà).

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Alcune persone sono incapaci di ricevere per testamento: il tutore del testatore, salvo non
fosse suo parente stretto, il notaio, i redattori del testamento segreto (art. 596 ss).
È nulla la disposizione fiduciaria, ossia la disposizione con cui il testatore designi come
erede o come legatario una determinata persona che si era in precedenza, e con patto
separato, impegnato verso il testatore a trasferire i beni ottenuti in eredità ad un terzo. Questo
separato patto è nullo e il terzo non ha azione in giudizio.

50.3 La condizione, il termine, l’onere

L’efficacia dell’istituzione di erede o di legatario possono dipendere dal verificarsi di una


condizione sospensiva (in attesa, sarà nominato un amministratore; ad es. sei erede a
condizione che ti laurei) o risolutiva (al verificarsi dell’evento l’eredità e i legati devono
essere restituiti, eccetto i frutti maturati; ad es. sei erede alla condizione che non prendi
residenza all’estero) (art.633) .
Solo i legati possono essere sottoposti a termine, iniziale o finale (art.637).
Le condizioni impossibili o illecite si considerano non apposte (art.634), si considerano
illecite le condizioni che limitano eccessivamente la libertà altrui (es. erediti a condizione che
sposi quella determinata persona).
La condizione illecita rende nulla la disposizion in caso di condizione di reciprocità (art.635).
A volte, l’eredità e i legati sono vincolati da oneri (o modo): l’onere è una prestazione di
dare, fare o non fare imposta al beneficiario di un atto di liberalità (es. lascio tutti i miei beni
a Tizio che dovrà però provvedere al mantenimento di Caio). La disposizione testamentaria
gravata da onere è chiamata disposizione modale, il successore tenuto ad adempierla prende
il nome di onerato, colui nel favore del quale è s tata disposta è detto onorato.
Nell’istituzione di erede l’onere può anche superare il valore dell’eredità, in questo caso
l’onerato è tenuto ad eseguirlo anche con utilizzando il suo patrimonio; il legatario, invece, è
tenuto alla disposizione solo nel limite del valore del legato. L’onere impossibile o illecito si
considera non opposto.
L’onere è una obbligazione personale dell’onerato, regolata dalle norme sulle
obbligazioni in generale. L’inadempimento non da luogo, in linea di principio, alla
risoluzione della disposizione, tuttavia la risoluzione può essere chiesta se l’onere costituiva
il motivo determinate della disposizione o se fosse stato previsto dal testatore.
50.4 Le sostituzioni e l’accrescimento

Qualora la persona istituita erede o legataria non possa o non voglia succedere subentreranno
altre persone secondo le norme sulla rappresentazione. Il testatore, tuttavia, può prevenire
l’applicazione di queste norme e indicare dei sostituti, destinati a succedere nell’ipotesi in
cui l’istituito erede o legatario non voglia succede. I sostituti succederanno direttamente al
testatore, ma la loro istituzione di erede o legatario è sottoposta a condizione.
Qualora non sia prevista la sostituzione e qualora le norme sulla rappresentazione non siano
applicabili, può aver luogo l’accrescimento: se più persone sono state istituite eredi
congiuntamente e nell’universalità dei beni o per quote uguale, o se è stato legato uno stesso
oggetto, la quota dell’erede che no può/vuole accettare si devolve agli altri, salvo non sia

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stato escluso dal testamento (art. 674-675).



L’accrescimento, quindi, opera solo in presenza di due condizioni: 1) che più eredi siano
stati istituiti nel medesimo testamento 2) e senza determinazione di quote o per quote uguali;
nel legato opera solo se c’è identità di oggetto. L’accrescimento opera di diritto (art.676),
qualora non possa aver luogo la quota si devolve tra i legittimari (mentre la quota del
legatario va’, se istituito, all’erede onerato).
In conclusione, la quota dell’erede che non può/vuole succedere si devolve in ordine:
1) Per sostituzione, se prevista dal testatore;
2) Per rappresentazione, se possibile;
3) Per accrescimento, se ci sono i presupposti e non è escluso dal testatore;
4) Per successione legittima (o in caso di legato all’erede onerato).
Stessa cosa accade nelle successioni legittime: la quota che un erede non può/vuole ricevere
si devolve tra coloro che concorrevano assieme a lui a spartirsi l’eredità.
Si parla di sostituzione fedecommissaria quando gli ascendenti o il coniuge di un
interdetto istituiscono questo come erede, con l’obbligo di conservare il patrimonio e di darlo
alle persone o all’ente che si sono prese cura di lui (art. 692).
50.5 Invalidità del testamento

Il testamento, o sue singole disposizioni, possono risultare nulle o annullabili. Come per i
contratti la nullità è la forma generale: il testamento è nullo quando è contrario a norme
imperative, salvo che la legge non preveda espressamente l’annullabilità.
Comporta nullità la violazione delle norme imperative e la violazione del divieto di
testamento congiuntivo o reciproco; sono, invece, nulle quelle disposizioni a favore di
persone incapaci di ricevere (anche per interposizioni di terzi), a favore di persone non
determinabili o rimesse all’arbitrio altrui.
Il motivo illecito rende nulla la disposizione se risulta dal testamento ed è il solo che ha
spinto il testatori a disporre (es. lascio un bene a Tizio perché mi ha aiutato ad uccidere Caio).
I difetti di forma producono nullità solo se rendono incerta l’autenticità delle disposizioni,
gli altri difetti di forma rendono il testamento solamente annullabile.
L’azione di nullità può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse ed è imprescrittibile.
Essa, tuttavia, non può essere esercitata da chi abbia dato conferma del testamento, ossia da
chi pur conoscendo la causa di nullità ha dato attuazione alle disposizioni testamentarie,
espressamente o tacitamente. Differente dalla conferma è la conversione, ad esempio un
testamento segreto che presenti vizi di forma può essere convertito in testamento olografo, se
ne ha i requisiti.
Le cause di annullabilità del testamento sono:
a) Annullabilità per difetti di forma (v. sopra)
b) Annullabilità per incapacità di disporre: è annullabile il testamento dell’incapace
legale, dell’interdetto e dell’incapace naturale. L’incapacità naturale può essere provata
con ogni mezzo.
c) Annullabilità per vizi della volontà: il testamento, come i contratti e gli atti
unilaterali tra vivi, è annullabile per errore, violenza o dolo. Non sono però richiesti i
requisiti di essenzialità e riconoscibilità che sono previsti per i contratti. 

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È consentito l’annullamento della disposizione per errore sul motivo, oltre che diritto,
anche di fatto, purché l’errore risulti dal testamento e sia stato il solo determinante del
volere del testatore (es. lascio la mia farmacia a mio nipote che si è laureato in farmacia,
ma il nipote si è laureato in altra disciplina). In caso di errore ostativo, quindi, prevale la
volontà sulla dichiarazione.
L’azione di annullamento spetta a chiunque ne abbia interesse e si prescrive in cinque anni
che decorrono: dall’esecuzione testamentaria per i casi di di incapacità di disporre, dalla loro
scoperta per i vizi della volontà.
50.6 La donazione e le altre liberalità fra vivi

A differenza del testamento la donazione è un contratto, l’art.769 la definisce come «il


contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte (donante) arricchisce l’atra (donatario),
disponendo a suo favore di un diritto o assumendo verso la stessa un obbligazione ».
L’oggetto del contratto può essere essere un qualsiasi diritto o obbligazione (es. la proprietà
di un bene, somma di denaro, usufrutto, ecc.).
Per la donazione è richiesta, a pena di nullità, la forma dell’atto pubblico. La proposta del
donante e l’accettazione del donatario possono risultare da un medesimo atto o da due atti
separati, in tal caso la donazione si perfeziona quando l’accettazione arriva al donante.
È un contratto consensuale: si perfeziona nel momento stesso in cui si forma il consenso
delle parti: il trasferimento del diritto è effetto reale del contratto, l’eventuale consegna della
cosa è effetto obbligatorio. Donazione con soli effetti obbligatori è quella con cui il donante
assume un’obbligazione a favore del donatario. Ogni contratto a titolo gratuito può essere un
atto di liberalità, ma ogni atto di liberalità è una donazione: è tale solo la liberalità che
consiste in un dare o in un’assunzione di una obbligazione (prestazioni di fare a titolo gratuito
possono essere fatte senza la forma della donazione, es. deposito gratuito).
Lo spirito di liberalità che è causa della donazione esprime anzitutto l’assenza di
costrizione, sicché non è donazione l’adempimento di obbligazioni naturali (es. il
pagamento di debiti di gioco). Allo stesso modo non sono obbligazioni le donazioni che si
fanno in conformità con gli usi, le c.d. liberalità d’uso, ad esempio i regali di natale o la
mancia che si lascia al cameriere, pur non essendoci un’obbligazione c’è conformità agli usi,
ragion per cui manca spirito di liberalità.
Esistono tuttavia altri atti animati da spirito di liberalità che non configurano una donazione,
(es. la remissione del debito), si parla in questo caso di liberalità atipiche, ma l’atipicità
non va intesa nel senso comune del termine, il concetto di atipicità qui è assunto nel senso di
liberalità differenti dalla donazione. Queste liberalità sono equiparate alla donazione per due
specifici effetti: l’assoggettazione all’azione di riduzione e la disciplina della revoca.
Ogni atto di liberalità è a titolo gratuito, ma non tutti gli atti a titolo gratuito sono atti di
liberalità, il criterio di distinzione utilizzato è quello che dà rilievo all’interesse del
donante, tale interesse, affinché si possa configurare un atto di liberalità, deve essere non
patrimoniale (es. la remissione del debito fatta dal socio in favore della propria società non
è atto di liberalità poiché c’è interesse patrimoniale).
In definitiva per identificare il concetto di liberalità devono sussistere due elementi: l’assenza
di costruzione (che distingue atti di liberalità e obbligazioni naturali/liberalità d’uso) e la
natura non patrimoniale (che distingue atto di liberalità e mero atto a titolo gratuito).

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La donazione che ha per valore beni «di modico valore» è valida anche in assenza dell’atto
pubblico, purché vi sia stata la consegna (art. 783 comma I), è la c.d. donazione manuale.
Il modico valore deve essere valutato in rapporto alle condizioni economiche del donante
(art. 783 comma II), quindi per una persona facoltosa anche la donazione di una macchina
può essere di modico valore.
Il disporre dei propri diritti per spirito di liberalità è il tratto comune tra testamento e
donazione, ciò differenzia le due figure è che la donazione è un contratto ed è tra vivi, il
testamento è un atto ed è mortis causa. Tra le due figure è identico il trattamento della
donazione all’incapace, al tutore, al concepito e del motivo illecito. È ammesso, anche nella
donazione, l’onere, sottoposto alle stesse norme dell’onere al legatario, sono permesse le
sostituzioni e l’azione di nullità non può essere fatta valere da chi ne abbia dato conferma.
La revoca della donazione può avvenire in due casi:
a) Per sopravvenienza di figli o ascendenti: in questo caso la revoca non è, come il
testamento, automatica ma deve essere richiesta dal donante entro 5 anni.
b) Per ingratitudine del donatario: può essere richiesta entro un anno dal fatto, i fatti
che integrano ingratitudine sono gli stessi che rendono indegni di succedere.

Sono significative anche le deviazioni rispetto la disciplina sul contratto in generale:


non è ammessa la donazione di beni futuri ed è esclusa la donazione, da parte del
rappresentante, dei beni di persona incapace. Il donante è responsabile del proprio
inadempimento solo per dolo o colpa grave (art. 789). Il donante è tenuto alla garanzia
dell’evizione solo se espressamente promessa o se il vizio dipende da dolo. La
garanzia per vizi occulti è dovuta solo se pattuita.
Concludendo si può dire che la donazione non attua il trasferimento del diritto o
assunzione di obbligazione con l’efficacia dei contratti a titolo oneroso. Il donatario è
potenzialmente esposto alla revoca fino a 10 anni dalla morte del donante, infatti la
donazione può essere revocata: per sopravvenienza di figli o ascendenti, per
ingratitudine, per stato di bisogno del donante, tramite azione di riduzione esperita
dagli eredi, tramite collazione, se il donatario è erede.

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PARTE OTTAVA
LA TUTELA DEI DIRITTI
Capitolo cinquantunesimo

LA TRASCRIZIONE
51.1 La pubblicità dei fatti giuridici in genere

La legge offre determinati mezzi per rendere conoscibili i fatti giuridici da chiunque:
• I registri dello stato civile, che rendono conoscibile lo stato della persona fisica:
nascita, morte, matrimonio, figli, ecc.
• Il registro delle persone giuridiche, che rende disponibili le informazioni
relative alle associazioni e alle fondazioni riconosciute.
• Il registro delle imprese, che dà pubblicità alle vicende inerenti le imprese e le
società commerciali.
• I registri immobiliari, che danno pubblicità ai fatti costitutivi, estintivi e traslativi
della proprietà e degli altri diritti reali sugli immobili.
• I registri dei beni mobili registrati (es. registro automobilistico, navale, ecc.) il
registro degli aeromobili.

La pubblicità dei fatti giuridici svolge diverse funzione, se ne individuano tre fondamentali:
I. Pubblicità-notizia. 

Vale a rendere i fatti giuridici conoscibili a chiunque ne abbia interesse, è funzione
assolta da ogni mezzo di pubblicità. Ad esempio chi fa credito ad un soggetto può capire
se questo è proprietario di beni immobili, e se i suoi beni sono liberi da ipoteche o altri
diritti reali altrui. I registri dello stato civile, ad esempio, assolvono solo questa funzione.
Il fatto produce le medesime conseguenze a prescindere dalla registrazione. 

II. Pubblicità dichiarativa.

Ha la funzione di rendere opponibile ai terzi il fatto giuridico del quale è stata data
pubblicità, indipendentemente dal fatto che i terzi ne abbiano avuto effettiva conoscenza.
Essa trasforma la conoscibilità del fatto in conoscenza legale: una volta che è stata
data pubblicità nessuno può eccepire di ignorare il fatto. 

Entro la pubblicità dichiarativa occorre però distinguere due casi, rilevanti in caso non
sia stata data pubblicità del fatto giuridico:
• In alcuni casi la pubblicità e mezzo sufficiente ma non necessario per l’opponibilità
del fatto giuridico a terzi. Se il fatto è iscritto nel registro ciò basta a renderlo
opponibile a terzi, se il fatto non era iscritto esso è comunque opponibile ma solo
con la prova che essi, pur in mancanza di pubblicità, erano a conoscenza del fatto.
• In altri casi la pubblicità è mezzo necessario per rendere opponibile a terzi il fatto.
Così è, ad esempio, per la trascrizione nei registri immobiliari: se non avviene la
trascrizione della una vendita di un immobile, questo atto non sarà opponibile ai
terzi, senza possibilità di provare altrimenti la conoscenza del fatto.
III. Pubblicità costitutiva.

Ricorre in casi in cui l’iscrizione di un fatto giuridico nel registro è requisito
necessario affinché si producano i suoi effetti giuridici. È il caso della
iscrizione di ipoteca, che è l’atto con cui l’ipoteca acquista validità giuridica.

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51.2 La trascrizione immobiliare

Si debbono rendere pubblici per mezzo della iscrizione nei registri immobiliari i contratti che
trasferiscono la proprietà di beni immobili, i contratti che costituiscono, trasferiscono,
modificano o estinguono diritti reali su immobili, le locazioni ultranovennali e tutto ciò che
attiene agli immobili in generale.
La trascrizione ha funzione di pubblicità dichiarativa: il contratto o l’atto soggetto a
trascrizione è valido ed efficace tra le parti anche se non trascritto; la trascrizione risolve il
conflitto tra più acquirenti dello stesso bene dallo stesso dante cause, a favore di colui che per
primo l’ha trascritto (principio di priorità).

Sono atti soggetti a trascrizione, sempre agli effetti dell’opponibilità a terzi, le domande
giudiziali riguardanti atti soggetti a trascrizione (art. 2652). Si parla di effetto
prenotativo della trascrizione, la quale fa retroagire al momento della trascrizione della
domanda giudiziale l’effetto della eventuale sentenza di accoglimento della domanda. Se la
domanda sarà accolta, quindi, la sentenza di accoglimento potrà essere opposta ai terzi dalla
data di trascrizione della domanda.

È una regola, questa, che non vale però per il contratto nullo, in quanto la sentenza che dichiara
la nullità travolge anche i diritti dei terzi acquistati in buona fede, indipendentemente
dall’avvenuta trascrizione. Esiste un’eccezione, nel caso in cui sia stato trascritto il contratto
nullo, e siano trascorsi cinque anni senza che sia trascritta la domanda giudiziale di nullità, una
successiva sentenza che dichiari nullità dell’atto non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in
buona fede (art. 2652 n. 2). Si parla quindi di trascrizione sanante, non nel senso che viene
sanata la nullità, ma nel senso che la sentenza di nullità non è opponibile al terzo che
abbi acquistato in buona fede (è comunque pienamente efficace tra le
parti). 

Una ulteriore forma di pubblicità con effetto prenotativo esiste per i contratti preliminari
traslativi, costitutivi o modificativi di diritti reali sugli immobili (art. 2645 bis). La
trascrizione del preliminare fa si che la successiva trascrizione del contratto definitivo, o della
sentenza che accoglie la domanda giudiziale di esecuzione in forma specifica, prevalga sulle
trascrizioni eseguite contro il promettente alienante dopo la trascrizione del contratto
preliminare (art. 2645 bis, comma II).

Per altri atti la trascrizione è richiesta dalla legge a fini di pubblicità notizia (accettazione di
eredità, sentenze che accertano l’acquisto per usucapione, ecc.). La loro trascrizione interessa
essenzialmente i futuri aventi causa, secondo il principio della continuità delle trascrizioni.
 Il
nostro sistema delle trascrizioni immobiliari è a base personale, non reale: i registri cioè
fanno riferimento a persone, non a beni. Il conservatore dei registri immobiliari esegue la
trascrizione degli atti «a favore» dell’avente causa e «contro» il loro dante causa. Le ricerche
dunque si eseguono per nomi di persone, e non per unità immobiliari.
Diverso dai registri immobiliari è il catasto, che è l’inventario generale degli immobili situati
nel territorio dello Stato. Ha la funzione di consentire l’identificazione dei singoli beni e
l’accertamento della loro proprietà. Il catasto serve essenzialmente a fini fiscali e urbanistici. I
dati catastali non hanno efficacia come prova della proprietà degli immobili, né efficacia di
pubblicità dichiarativa, nei loro trasferimenti. Solo in mancanza di altre prove, i dati catastali
possono essere utilizzati, ma solo per l’identificazione dei confini tra fondi (art. 950).

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Il sistema della trascrizione immobiliare è basato sul principio della continuità delle
trascrizioni: ad ogni trascrizione contro una persona deve corrisponderne una a favore della
medesima persona (es. se vendi una casa devi prima averla acquistata). La trascrizione
dell’acquisto di un soggetto è inefficace se non figura la trascrizione del precedente
acquirente; in sostanza per rendere l’acquisto di un immobile opponibile a terzi non è
sufficiente trascrivere il proprio atto di acquisto ma è necessario, nel caso non sia ancora stato
fatto, trascrivere anche l’atto d’acquisto del proprio dante causa. Una volta ristabilita la
continuità delle trascrizioni gli atti producono effetti dalla propria data.
La trascrizione si esegue presso gli uffici dei registri immobiliari nelle cui circoscrizioni sono
situati i beni (art. 2663). L’atto da trascrivere deve presentare specifici requisiti formali
idonei a farne un titolo per la trascrizione, deve trattarsi di una sentenza, di un atto
pubblico di una scrittura privata autenticata.

La trascrizione degli atti che la legge dichiara soggetti a trascrizione è solo un onere per le
parti, che in assenza di questa non potranno opporre l’atto a terzi, e può essere fatta anche da
un qualsiasi altro terzo interessato (art. 2666), ma è un obbligo per il notaio che abbia redatto
l’atto pubblico o autenticato la scrittura privata (art. 2671).

La cancellazione della trascrizione può avvenire per le domande giudiziali e per i contratti
preliminari, ma nel soli casi in cui le parti siano d’accordo o per ordine dal giudice con
sentenza passata in giudicato (art. 2668 comma I).

Il conservatore dei registri immobiliari è direttamente responsabile dei danni che cagiona a
privati per l’illegittimo rifiuto di trascrizione, per il ritardo con il quale la esegue o per le
omissioni o gli errori nei quali incorre.

Qualora emergano gravi dubbi sulla trascrivibilità di un atto, il conservatore, su istanza di
parte, esegue la formalità con riserva, la parte deve quindi presentare domanda all’autorità
giudiziaria perché sciolga il dubbio (art. 2674 bis). 

51.3 La trascrizione mobiliare

Gli atti che sono devono essere trascritti quando hanno per oggetto beni immobili, devono
ugualmente essere trascritti quando hanno per oggetto beni mobili registrati. Il Pubblico
registro automobilistico, il registro navale e quello per gli aeromobili, assolvono la medesima
funzione dei registri immobiliari (art. 2683).

La trascrizione mobiliare ha la medesima funzione di quella immobiliare (artt. 2685 ss.),
rappresenta un onere per le parti interessate, è un dovere per il notaio ed anche qui vale il
principio della continuità delle trascrizioni. La più grande differenza è che il sistema delle
trascrizioni mobiliari è a base reale, per semplificare le ricerche nei registri mobiliari. Gli
elementi di identificazione del bene (n. di matricola), permettono, a chiunque, di accertare a
chi il bene appartenga, quale sia la sua condizione giuridica e le sue precedenti vicende.

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Capitolo cinquantaduesimo
LE PROVE
52.1 L’onere della prova

Nel VI libro del codice civile - “Della tutela dei diritti” - sono enunciati i principi
fondamentali sulla tutela giurisdizionale dei dritti, in particolare figura il principio della
domanda: alla tutela dei diritti il giudice provvede, di regola, solo su domanda di parte.
Tale principio è un derivato de più ampio principio principio dispositivo che caratterizza
il processo civile: le parti sono libere di esercitare i propri diritti, oppure le proprie eccezioni,
transigere, ecc. Inoltre, il giudice civile, non può rilevare d’ufficio alcun fatto: spetta alle
parti darne la prova. Traiamo da ciò il principio dell’onere della prova: i diritti ricevono
protezione giurisdizionale solo se e solo in quanto chi li fa valere in giudizio fornisce la prova
dei fatti sui quali si fondano (non provare il proprio diritto equivale a non averlo).
Chi fa valere in giudizio in diritto, ossia l’attore, deve provare i fatti che ne costituiscono
fondamento; chi contrasta la pretesa dell’atto, ossia il convento, deve provare i fatti sui
quali l’eccezione si fonda. Ad esempio l’attore A rivendica la proprietà di un bene in
possesso di B, ad A spetterà dimostrare la proprietà ad es. tramite il contratto di vendita con
cui l’ha acquistata, a B spetterà dimostrare la fondatezza dell’eccezione, ad es. l’invalidità di
tale contratto.
La ripartizione dell’onere della prova, così impostata dalla legge, può essere modificata
dalle parti tramite appositi atti o clausole:
• Può essere modificata da appositi atti, ad esempio la promessa di pagamento e la
ricognizione di debito sono atti la cui funzione è quella di invertire l’onere della prova
riguardo l’esistenza del rapporto fondamentale (ad es. a seguito della la promessa spetterà
al debitore dimostrare l’infondatezza del rapporto originario, al creditore basterà provare
l’avvenuta promessa di pagamento).
• La ripartizione dell’onere della prova può anche essere modificata da apposite clausole
poste nel contratto, l’art.2698 pone però un duplice limite, la clausola è nulla se: ha ad
oggetto diritti indisponibili (disporre della prova sarebbe come disporre del diritto) o rende
ad una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del diritto (così facendo la clausola
modificativa dell’onere della prova si tradurrebbe in un esonero da responsabilità).
La prova dei fatti deve essere resa tramite specifici mezzi di prova, si distingue tra: prove
storiche, quelle che hanno direttamente ad oggetto il fatto da provare, e sono tutte le prove
tranne le presunzioni; prove critiche, si muove dalla prova di un fatto diverso da quello che
si vuole provare per arrivare alla prova del fatto, è solo la presunzione.
Generalmente il giudice valuta liberamente le prove: è libero di ritenere attendibile o
meno un testimone, libero di indurre da un fatto noto un fatto ignoto, ecc. Ma ci sono delle
prove che sono vincolanti per il giudice, si parla allora di prova legale: le prove
documentali, le confessioni, i giuramenti, ecc.

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52.2 La prova documentale

Sono prove documentali, o prove scritte:

c) L’atto pubblico è i documento redatto, con le richieste formalità, da un pubblico


ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede (art.2699). Gli atti pubblici fanno
prova fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale
oppure di ciò che attesta essere dichiarato dalle parti in sua presenza (art.2700). 

L’atto pubblico prova ciò che le parti hanno dichiarato in presenza del pubblico ufficiale,
non la corrispondenza al vero della dichiarazione.
d) La scrittura privata, fa pieno prova contro chi l’ha sottoscritta, salvo che questi non la
disconosca con querela di falso. La scrittura privata può essere autenticata dal notaio, il
notaio attesta che l’atto è stato sottoscritto alla sua presenza. 

La sottoscrizione deve essere, in linea di principio, autografa, ossia fatta di pugno dalle
parti. A tale regola sono però poste diverse eccezioni (es. firma digitale). 

Quando di vuol far valere un documento contro persone estranee alla sua redazione serve
che questo abbia data certa, un documento ha data certa quando è stato autenticato o
quando è stato registrato presso un apposito ufficio.
e) Hanno il medesimo valore delle scritture private i telegrammi, i documenti informatici, le
fotocopie delle scritture e le fotografie degli atti.
f) Le scritture contabili delle imprese commerciali «fanno prova contro l’imprenditore»
(art. 2709). Queste possono essere utilizzate dal giudice anche d’ufficio (art.2711). Le
scritture contabili sono tenute dall’imprenditore per soddisfare un interesse altrui: così a
chi vanta un credito nei suoi confronti basterà richiedere l’esibizione delle scritture
contabili da cui risulta. Però, dato che le scritture contabili attengono alla prova dei diritti,
l’imprenditore può servirsene anche a sua difesa: potrà fornire, ad esempio, la prova
dell’infondatezza del credito altrui. Quindi non fanno prova solamente contro
l’imprenditore ma anche a favore di questo.
52.3 La prova testimoniale, la confessione, il giuramento, le presunzioni

Prova testimoniale
La prova di un fatto può essere data per testimoni: questo attestano davanti al giudice che il
fatto si è verificato alla loro presenza o che di essi hanno avuto notizia. 

La prova per testimoni è esclusa:
1) Per i contratti, per il pagamento e per la missione del debito il cui valore sia superiore a
5mila lire, salvo che il giudice non ritenga ammissibile la prova. Il limite di 5mila lire,
non essendo stato rivalutato, è liberamente riconsiderato dal giudice.
2) Quando si vuole provare l’esistenza di un patto aggiunto (es. condizione sospensiva) o di
un patto in senso contrario al contenuto di un documento (es. patto di risoluzione di un
contratto per mutuo consenso).
In questi due casi la testimonianza è pero ammessa se:
a) C’è un principio di prova scritta che faccia apparire verosimile il fatto da provare (es.
lettera tra debitore e creditore);
b) Se la prova scritta è andata perduta senza colpa del debitore (es. incendio nel suo studio);

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c) Se il debitore era nella impossibilità morale o materiale di procurarsi la prova. Si ha


impossibilità morale, ad esempio, in caso di contratto tra parenti stretti; materiale, ad
esempio ne caso di contratto indifferibile (biglietto per una nave che sta per partire.
d) Quando le circostanze fanno apparire al giudice verosimile che il patto sia stato aggiunto.
Confessione
La confessione è una dichiarazione che una parte fa in giudizio (confessione giudiziale) o
fuori dal giudizio (confessione extragiudiziale) della verità di fatti a sé sfavorevoli e
favorevoli alla controparte (art.2730).
La confessione ha sempre per oggetto fatti, non rapporti giuridici. La distinzione è
importante perché la confessione che ha ad oggetto fatti è una dichiarazione di scienza e in
quanto tale può essere impugnata solo per errore di fatto o per violenza.
La confessione può avere ad oggetto solamente fatti relativi a diritti disponibili, poiché
data la sua efficacia di prova legale equivale ad un atto di disposizione del diritto, per questa
ragione deve provenire da chi ha la capacità di disporre del diritto (art.2733).

La confessione stragiudiziale non può essere provata per testimoni se riguarda un
oggetto per cui la prova testimoniale non è ammessa (art. 2735). Fa piena prova se è rivolta
alla controparte, è discrezionalmente apprezzata dal giudice se è contenuta in un testamento o
rivolta a terzi.
Giuramento
Il giuramento è una dichiarazione di verità pronunciata in giudizio con una formula solenne.
A differenza della testimonianza, che proviene da un terzo, il giuramento è effettuato da una
delle parti del processo. La parte che giura il falso commette un reato ed in ciò sta
l’importanza di questa prova: il giudice penale può indagare sulla veridicità della
testimonianza, quindi chi giura il falso in sede civile può essere punito in sede penale. Il
giuramento può essere decisorio oppure suppletorio:
a) È decisorio se una parte invita l’altra a giurare (le deferisce il giuramento) per farne
dipendere la decisione della causa. La parte che è invitata a giurare può, a sua volta, riferire il
giuramento, ossia chiedere all’avversario di giurare con le stesse conseguenze.
b) È suppletorio se è il giudice che invita una delle parti a giurare per completare una
prova insufficiente.
Il giuramento fa piena prova anche se falso: l’eventuale successivo accertamento penale
non ha alcuna influenza sul giudizio civile in corso.
Presunzioni
Le presunzioni sono mezzi di prova critici, o indiretti, e consistono nell’indurre da un fatto
noto l’esistenza di un fatto ignoto (art. 2727). Possono essere legali o semplici:
a) Sono presunzioni legali le conseguenze probatorie che la stessa legge trae da un fatto noto
(es. il figlio nato 300 giorni dopo lo scioglimento del matrimonio si presume concepito fuori
dal matrimonio). Le presunzioni legali possono essere assolute o relative: le presunzioni
assolute (iuris et de iure) sono quelle che non ammettono prova contraria; le presunzioni
relative (iuris tantum), di contro, sono quelle che ammettono prova contraria.
b) Le presunzioni semplici sono le induzioni che il giudice trae da fatti provati per formare il
proprio convincimento circa i fatti non provati (es. una macchina investe un pedine e non si sa
a che velocità viaggiava, ma la lunga traccia della frenata fa supporre viaggiasse molto
veloce). Le presunzioni semplici sono sono lasciate alla prudenza del giudice, e

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devono essere «gravi, precise e concordanti» (art. 2729): deve esserci cioè un preciso
rapporto di consequenzialità logica fra premessa e conclusioni. Le presunzioni non sono
ammesse nei casi in cui il fatto da provare esclude la prova per testimoni.

Capitolo cinquantatreesimo

LA PRESCRIZIONE E LA DECADENZA
53.1 La prescrizione

Art.2934: ”Ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il totale non lo esercita per il
tempo determinato dalla legge.”
La prescrizione è l’estinzione dei diritti a causa del loro mancato esercizio per un tempo
prolungato, determinato dalla legge (art. 2934 comma I). Il termine ordinario di prescrizione,
che vale per ogni diritto per il quale non sia stato stabilito dalla legge un termine diverso è di
dieci anni (art. 2936). Un termine maggiore, ventennale, è previsto per i diritti reali su cosa
altrui, un termine di prescrizione minore è previsto per le prescrizioni brevi.
La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto poteva essere fatto
valere (art. 2935); se a partire da quel giorno il titolare del diritto non lo ha esercitato per
dieci anni (o per il periodo diverso stabilito dalla legge), il diritto si estingue. La possibilità di
esercitare il diritto che si prende in considerazione è la possibilità legale, per cui gli ostacoli
materiali che impediscono l’esercizio del diritto sono di regola irrilevanti.
Per i contratti sottoposti a termine o a condizione sospensiva, il termine di prescrizione
comincia a decorrere dal momento in cui si verifica la condizione o viene raggiunto il
termine, essendo questi i momenti da cui è possibile l’esercizio del diritto. Non impedisce il
decorso del termine di prescrizione l’ignoranza del titolare circa l’esistenza del diritto, salvo
che l’ignoranza non derivi da dolo del debitore (art. 2941 n. 8).
L’art. 1442 fa decorrere il termine di prescrizione dell’azione di annullamento per vizi del
consenso o per incapacità legale dal giorno in cui è cessata la violenza o è stato scoperto
l’errore o il dolo o è cessata l’incapacità, negli altri casi il termine decorre dal momento della
conclusione del contratto.
Il fondamento teorico dell’istituto della prescrizione sta nel fatto che il mancato esercizio di
un diritto determina - e con il passare del tempo tende ad accentuare - un contrasto tra la
situazione di diritto (A deve 1000 a B) e la situazione di fatto (A non chiede 1000 a
B). Questo contrasto è economicamente controproducente e comporta l’inutilizzazione delle
risorse, la prescrizione impedisce che questa situazione si protragga all’infinito nel tempo.
L’interesse generale che è alla base della prescrizione, comporta la nullità di tutti i patti
volti ad inibire gli effetti della prescrizione (art. 2936). Ad essa si può rinunciare, ma
solamente quando è compita (art. 2937).

Esistono dei diritti imprescrittibili: non sono sottoposti a prescrizione i diritti indisponibili
(art. 2934 comma II), come i diritti della personalità o i diritti di famiglia, questi restano in
vigore anche se il loro titolare non li abbia mai esercitati. Non è sottoposto a prescrizione il
diritto di proprietà, infatti l’azione di infatti non si estingue (la proprietà si estingue per
mancato utilizzo solo in caso di acquisto per usucapione). Allo stesso modo non è soggetta a

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prescrizione l’azione di nullità del contratto, salvi gli effetti della trascrizione sanante, e salva
la prescrizione ordinaria dell’azione di ripetizione (art.1422).
Si ha interruzione del termine di prescrizione se:
• Il titolare del diritto compie un atto formale di esercizio dello stesso: l’atto con cui si
inizia un giudizio o la costituzione in mora del debitore
• Il soggetto passivo riconosce l’esistenza del diritto (art. 2944)
Conseguenza dell’atto interruttivo della prescrizione è che questa ricomincia a decorrere dal
principio (art. 2945).
Diversa dall’interruzione è la sospensione della prescrizione: il decorso del termine di
prescrizione si arresta con il verificarsi di una causa di sospensione e ricomincia a decorrere,
per la parte residua, quando la causa di sospensione è cessata.
La prescrizione è sospesa: fra i coniugi (se il debitore e creditore si sposano la prescrizione
riprende a decorrere con lo scioglimento del matrimonio); fra i genitori esercenti la
responsabilità genitoriale e i figli minori; fra tutore e pupillo; fra società o enti e i loro
amministratori (finché sono in carica) e vi sono altri casi (artt. 2941-2942). Un caso è stato
introdotto dalla Consulta: fra lavoratore e datore di lavoro, per il diritto alla retribuzione la
prescrizione è sospesa finché dura il rapporto di lavoro.
Alcuni diritti si prescrivono in un termine minore di dieci anni, si parla di prescrizione
breve. In cinque anni si prescrivono:
• L’azione di annullamento del contratto
• Il diritto al risarcimento da fatto illecito
• L’azione revocatoria
• I diritti derivanti dal contratto di società
In due anni si prescrive il diritto al risarcimento da danno prodotto dalla circolazione dei
veicoli. Si prescrivono in un anno i diritti derivanti da contratti di mediazione, spedizione,
trasporto, assicurazione.

Se il fatto illecito è considerato dalla legge penale un reato si applica all’azione di
risarcimento del danno il più lungo termine di prescrizione previsto per il reato (art. 2954).

Vi sono crediti che, benché sottoposti a prescrizione decennale, si presumono estinti, salvo
prova contraria, se è trascorso un certo tempo da quando sono sorti, si parla di prescrizioni
presuntive, sono: 6 mesi per il conto dell’albergo e del ristorante (art. 2954), 1 anno per la
retribuzione dei lavoratori e per il prezzo delle merci vendute dai commercianti ai
consumatori (art. 2955), 3 anni per la prestazione dei liberi professionisti (art. 2956). La
prova contrario è però molto ardua: si può fornire o con la confessione del debitore o con il
giuramento in giudizio (art. 2959- 2960).

In ogni caso la prescrizione deve essere eccepita dalla parte che vi ha interesse: il giudice
non mai può rilevarla d’ufficio (art. 2938).

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53.2 La decadenza

Anche la decadenza, come la prescrizione, è l’estinzione di un diritto per mancato esercizio


per un dato tempo (art. 2964).
Differisce dalla prescrizione per la funzione che assolve, la quale consiste nel limitare in un
tempo breve o brevissimo, lo stato di incertezza delle situazioni giuridiche.

Sono sottoposti a termine di decadenza ad esempio il diritto del compratore di denunciare,, i
vizi della cosa vendutagli (8 giorni), il diritto del comproprietario dissenziente di impugnare
le delibere della maggioranza (30 giorni). Termini di decadenza sono poi tutti i termini
perentori previsti per il compimento degli atti processuali.
Per questa sua specifica funzione la decadenza non ammette ne sospensione
interruzioni, a meno che non siano espressamente ne previste. La decadenza può essere
impedita solo dal compimento dell’atto (art. 2966).

La decadenza ha natura eccezionale: un diritto è sottoposto a decadenza solo se
espressamente previsto (la regola generale è la prescrizione, l’eccezione la decadenza).
A differenza della prescrizione, che è regolata solamente dalla legge, la decadenza può
essere pattuita: il contrato può sottoporre a termine di decadenza l’esercizio dei diritti che
da esso derivano. È però nullo il patto con cui si stabiliscono termini di decadenza che
rendano eccessivamente difficili l’esercizio dei diritti a una delle parti (art. 2965). La
decadenza non può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 2969).

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