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DIRITTO PUBBLICO e DELL’INFORMATICA

14 Settembre

Introduzione al concetto di “diritto”

Il diritto può essere inteso come oggettivo (insieme di regole e norme giuridiche) o soggettivo (il mio
diritto/pretesa nei confronti di qualcuno).
Il diritto oggettivo non è tipico solo dell’ordinamento giuridico dello stato, ma anche dello statuto o
regolamento di una qualsiasi federazione sportiva, o di un comune o di una qualsiasi organizzazione sociale.
Ogni gruppo sociale, inteso come insieme di individui (es: condominio, associazione sportiva, comune, ecc.),
prestabilisce delle regole che disciplinano ciò che si può e non si può fare. L’insieme di regole ha lo scopo di
regolamentare e disciplinare una convivenza comune per renderla pacifica ed evitare contrasti tra gli individui
(evitando l’anarchia e il “tutti vs tutti”).
Esistono vari sistemi di regole, che diventano giuridiche quando producono effetti nella collettività, essendo a
favore di qualcuno e a sfavore di qualcun altro. In questo caso, vi è un organo che protegge e fa rispettare tale
regola (es: amministratore condominio), e quindi tali regole non assumono un valore unicamente etico.
Quando l’individuo non rispetta una regola e va in contro a effetti derivanti dall’esterno, allora la regola
assume una forza di natura giuridica. Coloro che non si adeguano a queste regole sono costretti con la forza a
rispettarle, rischiando infatti di finire davanti a un giudice (che condannerà o meno che infrange la regola).
REGOLA GIURIDICA = regola fatta rispettare dall’esterno, a differenza di una regola etica (a cui rispondiamo
solo noi stessi), garantendo anche un diritto (es: rapporto creditore-debitore. Il debitore è obbligato
giuridicamente a adempiere al suo debito, garantendo così al creditore il risarcimento del debito).
Caratteristiche del diritto oggettivo

Il diritto oggettivo (detto anche “ordinamento giuridico”) è definito come un insieme ordinato, completo e
coerente di norme. Le norme sono infatti ordinate (da qui “ordinamento”) poiché c’è una gerarchia fra esse,
che ci permette di capire quale ha valore superiore rispetto ad un’altra, nel caso si realizzi un conflitto tra
norme giuridiche (in questo caso si crea un disordine e un’incoerenza, ma esistono dei criteri che risolvono
questi conflitti, rendendo l’intero ordinamento nuovamente coerente e ordinato).
Potenzialmente l’insieme di norme è creato per disciplinare e risolvere tutti i casi che si possono verificare
nella realtà, esistono però delle lacune normative (ossia delle situazioni che non sono espressamente trattate
dalle norme). Infatti, soprattutto in ambito tecnologico, mancano spesso delle norme che stiano al passo con
le nuove tecnologie (es: monopattini elettrici = innovazione tecnologica non ancora regolamentata), poiché ci
vuole tempo per comprendere a fondo un fenomeno, anche da un punto di vista etico (biotecnologie,
intelligenza artificiale, ecc..). Nonostante ciò, l’ordinamento giuridico è definito COMPLETO, poiché qualsiasi
caso si verifichi nella realtà, il giudice DEVE risolverlo, deve fare giustizia, nonostante l’assenza di una specifica
norma (appellandosi a criteri esistenti che possono essere interpretati andando a colmare eventuali lacune).
Dibattito sulla nascita del diritto (Kelsen vs Santi Romano)

Sorge prima un gruppo sociale che si dà delle regole o esiste già un ordine normativo a cui il gruppo sociale si
adegua?
Kelsen sostiene che l’ordinamento normativo e giuridico già esiste in natura, e la società vi si adegua. Secondo
lui c’è una norma che sta sopra e governa gli individui (NORMATIVISMO KELSENIANO = c’è una norma, dei
valori fondamentali a cui la società si adegua), a cui poi seguono tutte le altre.
Secondo Santi Romano è il gruppo sociale a creare la norma e le regole: prima avvengono gli individui, e nel
momento in cui si aggregano socialmente creano delle regole di comportamento (ISTITUZIONISMO). Legato a
questa concezione si sviluppa il POSITIVISMO GIURIDICO. POSITIVISMO GIURIDICO: guarda alle norme
giuridiche imposte e positivizzate all’interno di una determinata organizzazione sociale, portando una
concezione secondo la quale è norma tutto ciò che l’ordinamento afferma che è norma (es: per noi è legge
tutto ciò che la Costituzione definisce come legge, identificando organi, poteri e processi giuridici). È legge
quindi tutto ciò che l’ordinamento stesso identifica come legge, è diritto tutto ciò che il diritto dice essere tale.
Il diritto è autoreferenziale, poiché si alimenta attraverso ciò che esso stesso dice di essere diritto. Ciò
contrasta il giusnaturalismo, secondo il quale le norme esistono spontaneamente già in natura.
Sovranità statale
Tra il XV e il XVII si passa dal Medioevo (caratterizzato da diversi ordinamenti politici, e quindi da un potere
frammentato: partendo dal feudatario, comuni, impero, chiesa; talvolta in contrasto tra loro) allo Stato
moderno: qui il potere inizia ad accentrarsi e concentrarsi, arrivando nelle mani del sovrano (es: Luigi XIV “lo
Stato sono io”). Anche i nobili che avevano poteri e diritti, li avevano per concessione del sovrano, il quale
concepiva lo stato come un suo possesso. Scompare quindi la dispersione del potere tra feudi e comuni, che
si concentra in una persona (si parla infatti di potere sovrano). È un potere originario, che domina tutti gli altri
e non ha nessuno al di sopra.
Questo processo di concentrazione di potere sovrano in un territorio esteso (Stato/nazione) prende il nome di
“formazione dello stato moderno”. Esso è collocabile cronologicamente nel XVII secolo, con il trattato di
Vestfalia che mette fine alla Guerra dei 30 anni e dà inizio al diritto internazionale, che disciplina i rapporti tra
le nazioni. Esso ha come caratteristiche che ciascuno stato si riconosce sovrano del proprio territorio, non
riconoscendo nessun altro al di sopra di sé stesso. Il diritto pubblico inizia quindi con l’esistenza di un
ordinamento giuridico sovrano.
La sovranità dello stato ad oggi non è però più assoluta (il cittadino non è più suddito, ma ha dei diritti), infatti
esistono norme europee che hanno effetti sul territorio italiano, a prescindere dalla volontà dello Stato stesso.
La sovranità statale esclusiva e assoluta ha subito un processo di perforazione, che ha portato brecce
all’interno di essa, dettate appunto dai diritti del cittadino e dalle norme dell’UE che lo Stato è costretto a
rispettare. Inoltre, in un mondo globalizzato, esistono dei rapporti per loro natura transnazionali, regolati
anche da privati che scelgono di non passare per lo Stato. Essenzialmente, la sovranità statale ha subito un
processo di erosione nel suo essere assoluta nel territorio; rimane tuttavia vero che il potere sovrano rimane
l’unico a detenere la forza e la coercizione (forze dell’ordine che agiscono su ordine statale) territoriale. Non
esiste infatti una forza coercitiva internazionale.
Diritto pubblico e privato

Il diritto pubblico guarda al potere pubblico, alla sua organizzazione ed esercizio e ai suoi limiti. Il diritto privato
guarda invece tra i rapporti tra soggetti privati. Cambiano anche i tribunali: i giudici amministrativi regolano il
diritto pubblico (rapporti tra privato e amministrazione), mentre i giudici ordinari si occupano delle dispute
private.
Il confine non è comunque troppo netto (ad oggi) a causa del fenomeno della privatizzazione: un tempo lo
stato aveva molti più compiti (era uno stato-imprenditore: c’erano molte aziende statali, come le Poste, l’Enel,
le linee telefoniche) per assicurare l’accessibilità a tutti a certi servizi ad un costo fisso e uniforme. L’UE, sulla
base del libero mercato e della concorrenza tra privati, ha voluto limitare il monopolio statale ad alcune attività
che sono infatti gestite ora da privati (PRIVATTIZZAZIONE = ridimensionamento delle funzioni e compiti dello
Stato soprattutto in ambito economico e in favore dei privati, e di conseguenza del diritto pubblico). Es: se c’è
una lite tra un dipendente pubblico e il datore di lavoro (es: dipendente statale vs comune), si va davanti al
giudice ordinario, poiché i rapporti di lavoro sono stati privatizzati.
15 Settembre

La norma giuridica è quindi la previsione astratta di una situazione chiamata fattispecie; infatti, essa viene
indicata spesso con un periodo ipotetico (ES: Se A fa *fattispecie*, allora succede B). In questo caso, B è la
sanzione, che può essere diretta (per raggiungere lo stesso risultato che si sarebbe ottenuto con il rispetto
della norma) o indiretta (quando non è in relazione con la violazione).
Conseguenza giuridiche degli atti normativi

Esistono delle conseguenze giuridiche che caratterizzano gli atti normativi:

− Iura novit curia: al sorgere di qualsiasi controversia, nel momento in cui si fa valere un diritto è
necessario trovare un fatto, ma non bisogna trovare o provare una norma giuridica, che DEVE già essere
conosciuta dal giudice.
− L’ignoranza della norma non scusa: nel momento in cui una norma entra in vigore, la scusante del non
conoscere tale norma non giustifica dal mancato adempimento di essa. Infatti, nel momento in cui una
norma (ad esempio statale) entra in vigore, esistono delle pubblicazioni su gazzette ufficiali rivolte alla
collettività che producono effetti Erga Omnes (“verso tutti”).

………….

Un provvedimento non conforme alle norme giuridiche è detto illegittimo: se lo Stato agisse contro la legge,
anch’esso risulterebbe illegittimo

………….

Caratteri interpretativi per capire il significato del criterio della completezza

− Se la norma è chiara e non servono criteri interpretativi, si usa il criterio letterario (ES: il potere di
proporre leggi spetta al governo)
− Se la norma non è chiara serve capire il fine posto dal legislatore che ha scritto tale norma (ES: l’articolo
83 elenca i poteri del presidente della Repubblica, e può sembrare che abbia gli stessi poteri del
presidente USA). Per risolvere questa questione ci sono due criteri: il criterio teleologico (si cerca di
capire le finalità che si proponeva il legislatore) e il criterio sistematico (in coerenza con gli altri articoli,
si nota il carattere della carta, con la norma che si collega in modo sistematico a tutte le altre,
proponendo un’interpretazione diversa, evitando stonature di un articolo nei confronti del resto della
carta).

Inoltre, sempre nel rispetto della completezza, il giudice non può rifiutarsi di risolvere il caso nonostante le
lacune dovute al progresso tecnologico, attraverso il criterio analogico (basato sull’analogia nel cercare una
norma simile per una fattispecie non ancora prevista) che si divide in:
− Legis: segue il principio della ragionevolezza. Quando il giudice trova una norma che disciplina un caso
simile, la estende (ES: l’articolo 2 della Costituzione tutela i diritti inviolabili, ma protegge anche quelli
di nuova generazione).
− Iudex: segue il principio intuitivo. Se non vi è una norma che disciplina un caso simile, il giudice estrae
dei principi dall’?

Paradossi della sovranità dell’ordinamento giuridico

L’ordinamento giuridico è sovrano perché il suo potere è originario e dotato di un apparato autoritario che si
pone in una posizione di supremazia, ma vi sono alcuni paradossi:

− TRANSTERRITORIALITÀ: Coinvolge atti compiuti trasversalmente tra diversi ordinamenti giuridici e non
si esauriscono nel territorio nazionale che hanno una portata extraterritoriale, che portano alla nascita
del diritto internazionale privato, cioè l’insieme delle regole e dei principi volti a disciplinare i apporti
giuridici tra privati che presentano elementi di estraneità rispetto ad un determinato ordinamento
statale, mentre se le parti sono enti pubblici di parla di diritto internazionale pubblico.
− EXTRATERRITORIALITÀ: Esistono situazioni in cui un ordinamento giuridico si “completa” con un
ordinamento giuridico straniero con il rinvio: ad esempio un contratto firmato in Francia che coinvolge
una parte italiana. In questo caso, l’ordinamento italiano porta a rimandare a quello francese. Esistono
2 tipi di rinvio:
• Rinvio mobile: quando si applica la norma prevista dall’ordinamento giuridico
straniero qualsiasi sia l’evoluzione della norma stessa
• Rinvio fisso: quando si rende fisso e si ingloba il contenuto della norma
dell’ordinamento giuridico straniero, qualsiasi possa essere la sua evoluzione.

Gli ordinamenti giuridici, a loro volta, si distinguono in originari, ovvero quelli dello stato sovrano, e derivati,
ossia quelli riconosciuti dall’ordinamento giuridico originario. Questi ultimi a loro volta si distinguono in:
ordinamento giuridico internazionale (che riguarda i rapporti tra stati), sovranazionale (UE, ad esempio) e infra-
nazionale (come le regioni).

Da una disposizione si possono ricavare più norme giuridiche: l’esempio è l’articolo 90 comma 1 della costituzione. Una norma è che il presidente della repubblica non è
responsabile, ma lo è in due frangenti (alto tradimento e attacco alla costituzione). Qui una disposizione genera due norme giuridiche.

Può essere anche che una disposizione abbia bisogno di essere unita con altre disposizioni per dare un’unica norma giuridica
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Diritti soggettivi

Sono così definiti perché spettano al soggetto: noi soggetti possiamo essere titolari di situazioni giuridiche (sono
le norme giuridiche che ce le attribuiscono). Noi per il nostro ordinamento siamo titolari di una posizione
giuridica perché fin dalla nascita ci appartengono delle norme. Questa posizione giuridica, che ci è cucita
addosso dal diritto, può essere di natura attiva o passiva.

noi siamo titolari di una situazione giuridica attiva quando siamo portatori di diritti soggettivi (che appartengono
al soggetto) oppure di interessi legittimi, poiché ci possiamo attivare per pretendere qualcosa, ovvero queste
situazioni di vntaggio per l’individuo che può far valere una pretesa. Gli interessi legittimi godono di una tutela
più tenue e affievolita ruspetto ai diritti soggettivi. Se sono titolare di diritto lo posso sempre far valere,
ottendendo la tutela davanti al giudice. Se invece sono portatore di un interesse legittimo, tale intresse è
protetto solo nei temrini in cui coincida con l’interesse pubblico (non ho una tutela completa della mia posizione
di vantaggio, a differenza dei diritti soggettivi). Questa condizione affievolisce la forza della mia posizione
giuridica attiva. (ES: quando io agisco pe ottenere un provvedimento a mio favore da una punbblica
amministrazione, io sono portatore di un interesse legittimo: se non ho tutti i requisiti previsti dalla legge, allora
il mio interesse non sarà soddisfatto poiché non è conforme alle norme giuridiche).

Quando si parla di diritti fondamentali si parla sempre di diritti soggetti, e alcuni tra questi sono riferiti al
cittadino dalla nostra costituzione, anche se appartengono all’uomo in quanto tale (diritti universali). L’esistenza
di diritti umani e non del cittadino, che spettano a noi in quanto individui (indipendentemente da cittadinanza
e nazionalità) è il valore fondamentale della dignità umana: sono essenziali per il rispetto della dignità dell’uomo
(pietra miliare del costituzionalismo moderno).

Le situazioni giuridiche possono però essere anche passive: in questo caso l’individuo è in una poszione di
svantaggio, poiché l’ordinamento giuridico mi imputa degli obblighi o dei doveri (che sono tenuto a rispettare).
I doveri sono quelli che legano il cittadino nel suo rapporto con il potere pubblico: la costituzione parla di “diritti
e doveri”. Quando l’ordinamento mette l’individuo in una situazione giuridica pasiva, si parla di “dovere”
(pagare le tasse, essere fedeli alla repubblica, dovere di voto). Gli obblighi riguardano più il rapporto tra privati:
l’obbligo di adempiere al proprio debito, di consegnare un bene, ecc.
21 Settembre

Caratterizzazione dello Stato

La caratteristica di un ordinamento giuridico imposto dallo Stato (e quindi statale) è la sovranità: tale
ordinamento si definisce originario, perché ha origine da sé stesso e non deriva da altri ordinamenti. La
sovranità si esprime in due direzioni:

• Sovranità interna: consiste nel potere di imporre i comandi e le regole scelti dallo Stato sul proprio
territorio attraverso la forza e la coercizione (entrambe legittimate).
• Sovranità esterna: consiste nel rispetto agli altri Stati. Tutti gli stati sono infatti sovrani, nessuno
prevale sull’altro. La caratteristica della sovranità consiste nell’esclusività del potere: lo Stato è
l’unico a potersi imporre con la forza sul proprio territorio, escludendo l’influenza di altri stati.
Questa esclusività ha origine teologica: “non avrai alcun Dio a di fuori di me”, “non adorare altri Dei
al di fuori di me”.
Le “forme di Stato”

Quali sono gli elementi fondamentali dello stato?

− Una superficie, un territorio sul quale lo Stato impone il proprio ordinamento


− Un popolo che abita tale territorio, anch’esso sotto le imposizioni dell’ordinamento statale.
− Potere coercitivo: consiste di fatto nella sovranità e nella possibilità di decidere le regole che tale
popolo deve seguire su tale territorio.

I tre elementi sono quindi un governo (avente forza coercitiva), un territorio su cui governare e un popolo da
governare.

Nel tempo, i rapporti di potere tra governo e popolo, tra governanti e governati, si sono modificati. Questi
rapporti prendono il nome di “forme di stato”, ossia di forme che guardano al rapporto tra il potere pubblico,i
governanti, e il popolo, i governati (coloro sui quali si impongono le regole decise dai governanti).

Questo rapporto si esplica in diverse forme a seconda dei vari modi di atteggiarsi del potere verso il popolo.
A queste differenti forme seguono quindi differenti forme di stato:

• STATO ASSOLUTO: È la forma di Stato che si è imposta per prima, e ha come cui emblema Luigi XIV,
il “Re Sole”. Infatti, tutto il potere si concentra nelle sue mani. In questa tipologia di Stato, il territorio
e il popolo (composto da sudditi, e non da cittadini) sono tutti elementi di proprietà del sovrano, così
come lo Stato stesso.
Il sovrano esercita un potere arbitrario, non ha limiti esterni/interni al suo potere.
• STATO di DIRITTO: Tra fine ‘700 e inizio ‘800, a partire da Francia (con la Rivoluzione Francese) e Stati
Uniti (con la Dichiarazione d’Indipendenza e la successiva Costituzione), vi è un’evoluzione dello Stato
volta a porre dei limiti al potere del sovrano. Dallo Stato assoluto si passa infatti allo Stato di diritto.
Il sovrano si trova ora limitato dal riconoscimento ai cittadini (non più sudditi) di libertà e diritti che
non possono essere scavalcati. Egli si trova in primis sottoposto alla legge, ed è quindi vincolato ad
essa.
È qui che si crea una rottura nell’assolutezza del potere: infatti, se nello Stato assoluto era il sovrano
a creare la legge e a farla rispettare, nello Stato di diritto si introduce il principio di separazione dei
poteri (teorizzato da Montesquieu). Il potere legislativo non appartiene infatti più al sovrano, ma a
un’assemblea (parlamento) eletta direttamente dal popolo e quindi rappresentante di esso. Questo
è un principio democratico: coloro che decidono le leggi, sono rappresentati del popolo in quanto
eletti da esso (il sovrano non era eletto, ma governava per dinastia). Nonostante ciò, la democrazia
negli Stati di diritto è limitata: il diritto di voto era riconosciuto unicamente in base al genere e al
censo. Lo Stato di diritto era per questo definito “monoclasse” (privilegiava la borghesia).
Il sovrano, oltre al potere legislativo, “perde” anche il giudiziario e giurisdizionale (potere di “ius
dicere”, ossia di applicare la legge laddove sorgano controversie e conflitti). I giudici, a cui
appartengono tali poteri, dovrebbero comportarsi nelle controversie come “terzi” ed essere così
imparziali (“Il giudice è la bocca della legge” – Montesquieu), oltre che indipendenti dagli altri poteri.
In tutto questo, il sovrano rimane detentore unicamente del potere esecutivo, che consiste nel far
rispettare concretamente le leggi. Le leggi sono per natura generali ed astratte (guardano in modo
uguale a tutti), perciò hanno la necessità di essere attuate con norme e regole concrete. Tale potere
apparterà poi al governo, un organo collegiale.

Lo stato di diritto è, inoltre, uno stato liberale in quanto garantisce e protegge le libertà del cittadino
(tra cui quelle economiche attraverso il Laissez-faire), che prendono il nome di libertà negative. Esse
sono quelle libertà che trovano attuazione nei confronti dello Stato, che si astiene dall’incidere su
esse. Sono negative perché presuppongono un comportamento passivo dello Stato, non necessitano
infatti di nessun comportamento attivo da parte sua. Per realizzarsi, queste libertà hanno bisogno
solo del riconoscimento dello Stato.

− STATO COSTITUZIONALE: Nasce nel Secondo Dopoguerra. In questa forma di Stato, la prima garanzia
aggiuntiva che possiamo notare rispetto allo Stato di diritto è l’esistenza di una norma suprema
(costituzione) che viene detta “rigida” perché si impone allo stesso parlamento. Lo Statuto Albertino
del 1848 è, invece, una costituzione flessibile poiché il parlamento la può modificare semplicemente
adottando una legge. Lo Statuto Albertino inoltre era una costituzione ottriata (ossia “concessa dal
sovrano”), e non ha quindi un fondamento democratico vero e proprio. Le costituzioni del
Dopoguerra sono invece state approvate da assemblee (le Costituenti) elette democraticamente dal
popolo e, a differenza delle costituzioni flessibili, devono essere rispettate dal potere legislativo.

Se nello Stato diritto vigeva solo il principio di legalità a vincolare soprattutto il potere esecutivo, che
doveva infatti agire in conformità alle leggi promulgate dal potere legislativo che non aveva limiti,
nello Stato costituzionale non si parla solo del principio di legalità, ma anche del principio di
costituzionalità (tutela aggiuntiva): non sono più solo l’esecutivo e il giudiziario a dover muoversi nei
limiti della legge, ma anche il parlamento deve agire in conformità alla costituzione (infatti, se il
parlamento adottasse una legge in contrasto con la costituzione, tale legge sarebbe invalidata dalla
Corte Costituzionale).

Inoltre, nel passaggio tra Stato di diritto e Stato costituzionale, vi è un’ulteriore garanzia aggiuntiva:
se nello Stato di diritto sono garantite le libertà negative (chiamate anche libertà DALLO stato, poiché
non dipendono da esso), nello Stato costituzionale i diritti vengono incrementati, prendendo il nome
di “diritti positivi” poiché, per potersi realizzare appieno, necessitano di un intervento dello Stato, il
quale deve predisporre e organizzare tutte quelle strutture e quei servizi necessari affinché un diritto
divenga effettivo (non basta il “dover essere” garantito dalla legge, ma è necessario che lo Stato
rimuova gli ostacoli sociali che rendano quel “dover essere” effettivo, concretizzandolo in “essere”).
Questa categoria di diritti prende anche il nome di “diritti sociali”: sono quel plus che caratterizza lo
Stato costituzionale, che infatti è uno stato sociale. Il passaggio da Stato di diritto a Stato
costituzionale equivale al passaggio da uguaglianza formale a sostanziale.

Dietro a questo passaggio, a questo salto in avanti, c’è un motivo: l’Assemblea costituente che ha
approvato la costituzione è stata eletta a suffragio universale (senza alcuna discriminazione). Ciò ha
fatto sì che l’assemblea fosse rappresentativa di tutte le anime della società, facendosi portatrice di
tutti gli interessi (anche di quelli dei più svantaggiati). Lo stato costituzionale non è monoclasse, ma
pluralista. È una democrazia compiuta, perché all’interno delle assemblee trovano rappresentanza
tutti gli interessi di cui sono portatori i cittadini, a prescindere dalla classe a cui appartengono.
L’uguaglianza sostanziale implica una spesa da parte dello stato: la spesa sociale. Quest’ultima spesso
è vincolata dai tagli di bilancio, imposti dallo stato per mantenere equilibrio di bilancio (per evitare
che lo stato non sia più in grado di pagare il debito pubblico, venendo così penalizzato dai mercati).
Gli stati economicamente più forti, come quelli scandinavi, hanno infatti più garanzie sui diritti sociali.

Il filo rosso che lega tutte queste forme di stato è che nel passaggio tra una forma di stato all’altra, noi
assistiamo un crescendo delle garanzie a favore del cittadino. Se nello stato assoluto eravamo sudditi, in
quello liberale siamo cittadini possessori di diritti e libertà negative.

LE FORME DI GOVERNO

Se le Forme di stato guardano al rapporto tra potere pubblico e i cittadini, le forme di governo guardano al
modo in cui viene organizzato e distribuito il potere pubblico.

La distribuzione del potere può essere verticale, orizzontale o entrambe.

Verticale: La ripartizione verticale del potere politico avviene su livelli territoriali diversi, in particolare negli
stati federali, in cui una parte del potere appartiene alla federazione e l’altra parte alle singole federazioni
(come negli Stati Uniti. In Italia, stato regionale e non federale, il potere è comunque suddiviso su 2 livelli:
livello statale e regionale. In questi due casi si parla di “stati composti”. In uno Stato unitario (Francia, ad
esempio) c’è un decentramento amministrativo, che consiste nel dare a province e regioni attuazione ed
esecuzione a decisioni politiche prese a livello statale, ma il potere di decisione politica è notevolmente
accentrato a livello statale.

Orizzontale: La ripartizione orizzontale del potere politico riguarda poteri di decisione politica che si collocano
sullo stesso livello e guardano allo stesso territorio. Il potere deve chiaramente essere diviso tra più organi,
la forma di governo guarda al rapporto tra essi. Qui troviamo principalmente la forma di governo
presidenziale, semipresidenziale, parlamentare, direttoriale e neoparlamentare.
Forma di governo presidenziale

La forma di governo presidenziale è quella degli Stati Uniti, ed è costituita da due organi eletti direttamente
dal popolo: il Congresso (bicamerale: Camera dei Rappresentanti, composta dai rappresentanti dei cittadini
in carica due anni e Senato, composto da 2 senatori per ogni stato degli USA e in carica sei anni) che ha potere
legislativo e il Presidente che ha potere esecutivo e rimane in carica quattro anni. Avendo Congresso e
Presidente diverse durate del mandato, c’è la possibilità che essi si trovino in opposizione di partito
(repubblicani/democratici); in questo caso si parla di governo diviso. Tra questi due organi e il giudiziario si
instaura la logica dei checks and balances (un potere controlla e condiziona l’altro), ossia dei pesi e
contrappesi: il potere legislativo spetta al Congresso, ma il Presidente ha potere di veto (può bloccare una
legge approvata dal congresso) che può essere superato con una grande maggioranza del Congresso. Invece
il Presidente ha potere di nomina dei giudici della corte suprema e dei segretari di stato (fiduciari del
presidente, scelti e revocati da lui), che devono però ottenere il consenso del Senato. Inoltre, le leggi
approvate dal Congresso e gli atti del Presidente possono essere annullate dal potere giudiziario. Per questo
si parla di ripartizione orizzontale del potere politico. Un ulteriore elemento a differenziare la forma di
governo presidenziale da quella parlamentare è la durata fissa del mandato: il Congresso non può essere
sciolto dal Presidente per indire nuove elezioni, ma esso non può a sua volta rimuovere il Presidente dal suo
incarico per motivi politici, ma solo per motivi penali/giuridici (attraverso l’impeachment).
Forma di governo semipresidenziale

La forma di governo semipresidenziale (come quella della Francia) prende alcune caratteristiche dalla
formadi governo presidenziale e alcune da quella parlamentare. In Francia, infatti, il Capo di Stato e il
parlamento (diviso in Senato e Assemblea Nazionale) sono eletti direttamente dal popolo. Negli Stati Uniti
il potere esecutivo appartiene al presidente che lo esercita con i suoi segretari, mentre in Francia il Capo
di Stato è tenuto a nominare il Presidente del Consiglio che a sua volta nomina i suoi ministri. Il potere
esecutivo in Francia spetta al Capo di Stato ma anche al governo. Il governo, una volta ricevuta la nomina
dal Capo di Stato, non ha bisogno della fiducia per salire al potere, ma può essere sfiduciato durante
l’operato dall’Assemblea Nazionale, e in quel caso il Capo di Stato nominerà un altro primo ministro.
L’assemblea di stato non può comunque sfiduciare il presidente, che a sua volta non può sciogliere
l’assemblea.
Forma di governo direttoriale

La forma di governo direttoriale (come quella della Svizzera) è costituita da due elementi: il Direttorio,
ossiaun organo collegiale costituito da 7 membri rappresentativi dei vari cantoni che detiene il potere
esecutivo. Il secondo elemento che distingue la forma di governo direttoriale da quella presidenziale è
dato dal fatto che il Direttorio non è eletto direttamente dal popolo ma dal Parlamento svizzero (che è
l’unico organo elettodirettamente dal popolo svizzero). Entrambi questi organi (Direttorio e Parlamento)
hanno una durata prestabilita e non possono sciogliersi e sfiduciarsi l’un l’altro.
22 Settembre
Forma di governo parlamentare
È nata in Inghilterra con la Magna Carta (1215), documento volto a limitare i poteri del sovrano. Inizialmente
il Parlamento era riservato a clero e nobili, ma piano piano il suffragio si è allargato. Con il Bill of Rights
(1689) viene ufficialmente riconosciuto il Parlamento, a cui viene affiancato un terzo organo, ovvero il
Governo. Quest’ultimo, composto da primo ministro e i suoi ministri, si frapponeva tra sovrano e
parlamento. Una volta che il parlamento ha sfiduciato il governo, è nata la prassi secondo la quale il sovrano
non può liberamente nominare chiunque come primo ministro, ma deve rispettare la volontà politica del
parlamento. In caso contrario, il governo sarà appunto sfiduciato fino a che non ne verrà nominato uno
condiviso anche dal parlamento.
Possiamo quindi capire che l’elemento cardine di una forma di governo parlamentare non è il parlamento
(esso è semplicemente un’espressione del diritto democratico, ed è infatti presente anche nelle altre forme
di governo, tra cui anche quella presidenziale), ma il rapporto di fiducia che esiste tra potere esecutivo e
potere legislativo.
Il Parlamento è l’unico organo eletto direttamente dal popolo, mentre l’esecutivo e il Presidente della
Repubblica sono eletti dal Parlamento. C’è quindi una rappresentanza dei cittadini, seppur indiretta. In
Italia, esecutivo e Capo di Stato sono derivazioni del parlamento, poiché entrambe devono ottenere il voto
di fiducia da esso (inoltre, nel nostro sistema bicamerale, è necessaria la fiducia di entrambe le camere).
Forma di governo neoparlamentare
Questa forma di governo si trova a metà strada tra il governo presidenziale e quello parlamentare. Ha
trovato applicazione per un decennio (1992-2001) in Israele e attualmente trova applicazione nelle regioni
italiane a statuto ordinario (la costituzione configura per le regioni questa forma di governo, ma le lascia
comunque libere di scegliere una forma di governo diversa).
A differenza di quello parlamentare, il governo neoparlamentare è costituito da due organi eletti dal popolo.
Infatti, alle elezioni regionali noi votiamo il Consiglio Regionale (organo detentore del potere legislativo) e
il Presidente della giunta (ovvero il presidente della regione), con potere esecutivo. È il Presidente della
giunta a scegliere i suoi assessori che compongono la giunta (esattamente come negli Stati Uniti, nei quali
il Presidente nomina i suoi segretari di Stato). La giunta regionale scelta dal Presidente, investita quindi
direttamente da lui, può però essere sfiduciata dal consiglio regionale. In una forma di governo
parlamentare, il governo per entrare in carica deve ottenere il voto di fiducia iniziale dal parlamento, ma a
livello regionale (e quindi neoparlamentare) non è così: la giunta entra in funzione nel momento in cui è
nominata dal presidente, ma può comunque decadere se le viene votata la sfiducia dal consiglio regionale.
C’è un altro vincolo nella costituzione, posto a causa delle frequenti crisi politiche delle giunte, che facevano
cadere l’esecutivo: si tratta della clausola “SIMUL STABUNT SIMUL CADENT”, che significa che il potere
esecutivo e legislativo cadono insieme. Se il Consiglio regionale sfiducia la giunta, in automatico si scioglie
anche il Consiglio stesso e si torna a nuove elezioni (vale anche l’opposto: se il Presidente scioglie
anticipatamente il Consiglio regionale, anche lui cade e si va a nuove elezioni per entrambe le cariche).

Specificità della nostra forma di governo


L’Italia ha adottato una forma di governo parlamentare, simile a quella del Regno Unito, che si differenzia
però per il suo bipartitismo: il Parlamento è infatti composto solo da laburisti e conservatori. Questo rende
la maggioranza molto più solida e stabile. In Italia la dinamica è diversa: c’è sempre stato un multipartitismo
esasperato, che ha impedito ai tanti partiti di ottenere una maggioranza assoluta. Ciò ha comportato la
necessità di creare delle coalizioni in modo da poter sostenere un governo. La vita di quel governo è sospesa
a livello della stabilità interna della colazione: se i partiti della coalizione sono in contrasto tra loro, il governo
avrà vita breve.
Infatti, fino al ’93, i governi italiani duravano meno di un anno, e ciò ha comportato la difficoltà di portare
avanti riforme e iniziative di medio e lungo termina, poiché il governo nuovo disfaceva tutto ciò che aveva
fatto il precedente. Con il cambio del sistema elettorale del ‘93, la media è passata a 1-2 anni. Nel corso
della storia italiana, i governi sono durati così poco per dimissioni spontanee (escluso il governo Prodi del
1998) avvenute appena prima che il Parlamento presentasse la sfiducia, poiché il governo capiva che la sua
maggioranza non era più in grado di governare.
Ad oggi siamo alla diciottesima legislatura. Esse hanno una durata di 5 anni (a meno che il Parlamento non
venga sciolto prima), durante i quali si sono succeduti molti governi che non sono arrivati a fine mandato.
La nostra costituzione pone poche regole che disciplinano la nostra forma di governo: infatti si dice che è
una forma di governo parlamentare a debole razionalizzazione. La Germania, invece, ha una costituzione
che prevede alcuni mezzi che rafforzano il governo attraverso la mozione di sfiducia costruttiva: il
Parlamento tedesco può sfiduciare il Cancelliere e i suoi ministri solo se è in grado di sostituirli
immediatamente con un nuovo governo che abbia la maggioranza nel Parlamento stesso.
Divieto di mandato imperativo
Articolo 67 della Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzione senza vincolo di mandato”. Questo articolo afferma il divieto di mandato imperativo. Infatti, i
parlamentari non devono fare gli interessi del cittadino che li ha votati, ma quelli dell’intera Nazione. Il
singolo interesse dell’elettore va ponderato all’interesse degli altri, che di conseguenza diventa interesse
pubblico.
Non si può quindi prendere di votare un parlamentare e pretendere che egli faccia l’interesse particolare
dell’elettore. Questo comporta che il parlamentare è libero di esercitare le sue funzioni senza vincolo di
mandato: ciò significa che gli elettori non sono i mandatari dei parlamentari che votano, i quali non sono
quindi vincolati alle volontà degli elettori stessi. Gli elettori non possono avere pretese giuridicamente
azionabili nei confronti dell’eletto.
Il parlamentare potrebbe anche cambiare partito dopo essere stato eletto, ma non deve rendere conto a
nessuno per questa scelta poiché è tutelato dalla costituzione. Nel movimento 5 stelle i Parlamentari
vengono però espulsi quando agiscono o votano in Parlamento senza seguire la decisione presa dagli iscritti
o dagli organi del movimento. Viene spontaneo chiedersi se ciò è in contrasto o no con l’articolo 67 della
costituzione.
I SISTEMI ELETTORALI
I sistemi elettorali sono dei meccanismi che, attraverso formule matematiche che cambiano a seconda del
sistema elettorale adottato, consentono di trasformare i nostri voti in seggi. L’input è il nostro voto, l’output
è il seggio (o meglio, il parlamentare eletto che si guadagna un seggio in parlamento). I sistemi elettorali si
dividono in due grandi famiglie: maggioritari e proporzionali:
• MAGGIORITARIO: sistema nel quale il territorio viene suddiviso in collegi a cui vengono assegnati
seggi da occupare, uno ad ogni collegio. Si guadagna tale seggio il candidato che ottiene più voti
(first past the post: basta un solo voto in più), come accade in Inghilterra (first past the post: basta
un solo voto in più per ottenere il seggio). In Francia invece c’è una soglia di voti da superare, se
nessun candidato la supera si passa a un secondo turno, che consiste in una sorta di ballottaggio,
tra i 2 candidati più votati del primo turno. Questo vantaggio assicura in parlamento una
maggioranza sicura, penalizzando però la rappresentanza democratica: se in un collegio è in palio
un unico seggio, basta un solo voto in più per guadagnare il seggio, mentre tutti gli altri voti cadono
nel vuoto, non ottenendo alcuna rappresentanza in parlamento). Questo sistema va nella direzione
di scolpire il numero di partiti, obbligati ad unirsi per ottenere il maggior numero di voti.
• PROPORZIONALE: sistema in cui i seggi sono distribuiti in modo proporzionale rispetto ai voti, e ciò
fa sì che esso sia un sistema maggiormente democratico del maggioritario. Tutti i voti hanno un
peso nel determinare i seggi da attribuire ai candidati. Quando il sistema è proporzionale, i seggi in
palio sono contesi tra liste di candidati, in modo da coprire tutti i seggi se una lista vince. Il rischio
però è che arrivino in parlamento tanti partiti diversi, che non riescono a formare governi stabili.
Per correggere questa dinamica è stato introdotto lo sbarramento: ottengono seggi in parlamento
solo i partiti che superano un certo numero di voti. Un altro correttivo è quello del premio di
maggioranza: il partito che ottiene più voti ottiene un premio di maggioranza, meccanismo che però
ciò riduce la rappresentanza.
Quando il sistema è proporzionale, le liste di candidati possono essere bloccate: in questo caso
l’elettore vota la lista ma non può esprimere una preferenza sul singolo candidato. La lista bloccata
è decisa dal singolo partito. In caso le liste non siano bloccate, l’elettore può esprimere una
preferenza sui candidati in lista.
Il diritto di voto
Per le elezioni comunali l’elettorato attivo non spetta solo ai cittadini italiani, ma anche a quelli europei che
risiedono in quel comune. Altrimenti, per il voto è necessario avere la cittadinanza italiana (sono inclusi
anche i cittadini italiani residenti all’estero, a cui è data la possibilità di votare per corrispondenza).
La nostra costituzione attribuisce al diritto di voto alcune caratteristiche, esso deve infatti essere:
− Personale: non è possibile per un cittadino delegare qualcuno per votare al suo posto;
− Uguale: tutti i voti pesano e contano allo stesso modo;
− Libero: ciascun cittadino può votare come meglio crede, non ci sono costrizioni. Anche per questo
motivo, il periodo di campagna elettorale viene disciplinato: ad esempio, attribuendo a ciascun
partito determinati tempi in cui può comparire in televisione. In questo modo viene assicurata la
par condicio tra tutti i partiti, impedendo (ad esempio) al partito al governo di colonizzare i mezzi
di comunicazione nazionali (es: scandalo Cambridge analitica: Facebook ha utilizzato i dati degli
utenti per mirare la pubblicità elettorale in base alle preferenze politiche. Fenomeno del “micro-
targeting elettorale”);
− Segreto: la segretezza del voto ne garantisce la libertà, evitando il clientelismo elettorale. Questo
fenomeno vuole essere evitato, infatti se ci sono segni sulla scheda elettorale, il voto viene
annullato perché potrebbe avere segni di riconoscimento.
La Costituzione Italiana qualifica il voto come un dovere civico: non è un obbligo giuridico ma nella coscienza
di ogni cittadino deve essere necessario partecipare attivamente alla comunità anche attraverso il voto.
Nonostante ciò, non siamo passibili di pene giuridiche se non si fa.
L’articolo 48 della Costituzione afferma che sono elettori tutti i cittadini di maggiore età, uomini e donne
(dal ’46). È fondamentale la maggiore età perché c’è la presunzione giuridica secondo la quale con essa si
acquista la consapevolezza per votare. In realtà, con la maggiore età si possono votare solo i deputati della
Camera, mentre per il Senato bisogna aspettare i 25 anni. Inoltre, se si è condannati per reati molto gravi o
indennità morali, si può essere privati del diritto di voto.
L’elettorato passivo
L’elettorato passivo consiste nella possibilità, per il cittadino, di candidarsi per ricoprire una carica elettiva.
I requisiti per essere eletto al Parlamento sono: avere la cittadinanza italiana e avere almeno 25 anni d’età
per la Camera dei deputati e almeno 40 per il Senato. Con il referendum per la riduzione dei parlamentari,
i deputati della Camera passeranno (dalla prossima legislazione) da 630 a 400, 8 dei quali riservati ai cittadini
che risiedono all’estero, mentre i senatori da 315 a 200, 4 dei quali riservati per lo stesso motivo.
Ciascuna regione non può avere un numero di senatori attribuiti minore di tre, con l’eccezione di Molise e
Valle d’Aosta che ne hanno rispettivamente 2 e 1.
I parlamentari eleggibili alla camera sono ora 400 (dai 630), 8 dei quali riservati ai cittadini che risiedono
all’estero. I senatori sono 200 (dai 315), 4 dei quali riservati ai cittadini abitanti all’estero. A ciascuna regione
non può avere un numero di senatori attribuito minore di tre (eccezione di Molise, 2, e valle d’aosta, 1).
L’elettorato passivo può comunque essere limitato da alcune condizioni:
− Ineleggibilità: impedisce di essere eletti a coloro che occupano determinate posizioni dalle quali
potrebbero avere maggiore influenza sull’elettorato (es: il sindaco di un paese con più di ventimila
abitanti è ineleggibile in quanto potrebbe ottenere i voti dei suoi cittadini). Questo criterio vale
anche per chi ha rapporti economici con lo Stato, per i prefetti, per chi ha rapporti di pubblico
impiego con altri Stati. Questa regola permette di far “combattere” i candidati ad armi pari,
escludendo chi ha strumenti in più per incidere sull’elettorato. Nel caso un soggetto ineleggibile
venga eletto, tale elezione sarà considerata nulla.
− Incompatibilità: protegge la carica che si va a ricoprire, la funzione in sé e per sé, affinché essa venga
assolta al meglio. Questa condizione impedisce infatti al soggetto di occupare altre posizioni
considerate incompatibili, che potrebbero potenzialmente creare conflitti di interesse. Se un
individuo viene eletto, verrà rimossa la causa che porta incompatibilità (dovrà scegliere quale carica
ricoprire e quale abbandonare). Un deputato non può essere eletto a senatore, così come il
Presidente della Repubblica non può assolvere altre cariche.
− Incandidabilità: chiamata anche “impresentabilità”, riguarda i condannati per reati molto gravi
(terrorismo, mafia, associazione a delinquere). Questi, non posso nemmeno comparire nelle liste
dei candidati.
LEGGI ELETTORIALI IN ITALIA
Il territorio nazionale è diviso in collegi, i quali si differenziano in uninominali o plurinominali. Quelli
uninominali riguardano unicamente il sistema maggioritario, infatti a un pezzo di territorio corrisponde un
unico seggio. Nei collegi plurinominali competono liste di candidati dei diversi partiti, e vanno assegnati più
seggi. Questi appartengono sia al sistema proporzionale che a quello maggioritario, nel caso in qui le liste
possano vincere anche di un solo punto.
I sistemi elettorali in Italia sono cambiati nel tempo, seguendo questa sequenza:
o 1948-1993: il sistema adottato era un proporzionale con sbarramento al 4% (non entrano in
parlamento partiti con meno del 4% di voti)
o 1993-2005: il sistema qui era un proporzionale misto, chiamato “Mattarellum”. In questo caso, il
75% dei seggi venivano assegnati con sistema elettorale maggioritario (l’Italia era divisa in collegi
uninominali con in palio un unico seggio), il restante 25% era assegnato su base proporzionale (con
liste di candidati bloccate con sbarramento al 4%). Questo sistema fu proposto per porre un rimedio
al multipartitismo esasperato: si voleva obbligare i partiti a coalizzarsi per vincere l’unico collegio.
o 2005: fu adottata la legge n. 270 (definita anche Porcellum), proposta dal senatore leghista
Calderoli. Questo sistema consiste in teoria in un proporzionale, ma in pratica è corretto da un
grosso premio di maggioranza. Infatti, alla Camera dei deputati, la lista che prende più voti (anche
solo uno in più sulle altre liste), ottiene in blocco 340 seggi, che consistono nella maggioranza
assoluta. Al senato, la lista che prende più voti ottiene il 55% dei seggi (quindi, la maggioranza
assoluta), con la differenza che al Senato era a livello regionale. Si rischiava quindi di creare
situazioni a macchie di leopardo: una lista poteva avere la maggioranza alla Camera ma magari non
al Senato, poiché quest’ultimo era votato a livello regionale e non nazionale. Potrebbe così esserci
una maggioranza chiara alla Camera (visto il premio di maggioranza), ma risicata al Senato.
Le liste, inoltre, erano bloccate e perciò presero il nome di “liste di partito”: era infatti il partito a
decidere chi presentare e in che ordine (senza quindi che l’elettorato potesse esprimere una
preferenza). In più il capolista veniva iscritto in tutte le liste, e sceglieva lui a quale prendere parte
e in quali cedere il posto in caso di elezione.
28 settembre
Questa legge fu dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale, ossia dall’organo che fa da
garante della nostra costituzione, a causa delle liste bloccate e del premio di maggioranza. La legge
fu quindi annullata con la sentenza n.1 del 2014 (nei materiali c’è la sentenza con le parti sottolineate).
La sentenza è così strutturata:
− Ritenuto in fatto: in questa parte viene spiegato e analizzato il fatto, che consiste nel
giudice che ha sospeso il giudizio e portato il caso davanti alla Corte costituzionale.
− Considerato in diritto: il giudice si addentra nell’analisi delle norme che qualificano
tale fatto. In altre parole, si tratta delle argomentazioni giuridiche del giudice.
A questo punto, la Corte costituzionale isola la prima questione, ovvero il premio di maggioranza. Si
pone la domanda se questo premio è conforme alla costituzione, o si trova in contrasto con essa. In
questo caso la Corte si rifà ai seguenti articoli della costituzione: 1 (la sovranità appartiene al popolo),
3 (principio di uguaglianza, che riguarda anche i voti), 48 (diritto all’elettorato attivo: il voto è libero,
uguale, personale e segreto) e 67 (i parlamentari rappresentano la nazione). Presi questi riferimenti,
la Corte costituzionale ha concluso che il dubbio che era apparso (sulla costituzionalità della legge
n.270) era fondato: la legge n.270 non è conforme alla costituzione, e di conseguenza
“costituzionalmente illegittima”.
Si tratta poi di capire in che termini questa legge viola gli articoli sopra elencati: la Corte costituzionale
si impegna infatti a motivare, attraverso argomentazioni giuridiche, le motivazioni che hanno portato
a tale conclusione. Infatti, il fine della legge n.270 (che consiste nel voler creare una maggioranza più
ampia per dare vita a un governo più stabile) è considerato legittimo da parte della Corte. Nonostante
ciò, il sistema su cui si basava tale legge era un proporzionale, ed esso presuppone che sia garantita
una certa rappresentanza tipica del sistema proporzionale (che si traduce nell’espressione “voti in
entrata = voti in uscita”). Tale rappresentanza fu però distorta dal grosso premio di maggioranza
riconosciuto alla lista che ottiene il maggior numero di voti, a prescindere da quanti essi siano. Un
premio di maggioranza così grande sproporzionalizza in eccesso il voto in entrata: quest’ultimo si
trova infatti ad avere un peso specifico eccessivo laddove sia stato dato al partito che ha ottenuto la
maggioranza. Di conseguenza, il partito vincente sarà sovradimensionato in parlamento, ed è qui che
sta la sproporzione.
Quindi, nonostante il fine perseguito dalla legge elettorale fosse legittimo (la governabilità), esso era
in contrasto con la rappresentatività, elemento più che mai tutelato dalla costituzione, e che non può
essere quindi sacrificato.
L’altro punto che la Corte costituzionale ha attaccato riguarda le liste estremamente lunghe di
candidati, che tra l’altro sono bloccate: è il partito che decide infatti chi occupa i posti parlamentari,
e in che ordine. La corte annulla questa previsione di legge sull’impossibilità di esprimere una
preferenza per l’elettore.
La legge che ne esce è una legge privata del premio di maggioranza, che accetta liste lunghe di
candidati, purché l’elettore possa esprimervi la sua preferenza (punto 6 della sentenza). Si ha così un
effetto implementativo della legge (che dà all’elettore la possibilità di esprimere una preferenza), ma
anche restrittivo (in quanto viene rimosso il premio di maggioranza). La legge finale prende il nome
di Consultellum, da “consulta”, termine che identifica la Corte costituzionale.
o 2015: Il governo Renzi intervenne a modificare la legge elettorale, rendendola conforme alla
costituzione. Nel 2015 viene introdotto l’Italicum, che prevede che per accedere al premio di
maggioranza, la lista o la coalizione di liste devono aver raggiunto almeno la soglia del 40% dei voti
(la soglia, essendo molto alta, rende legittima e ragionevole l’assegnazione del premio alla lista che
la raggiunge). Questa legge introduce inoltre delle liste più brevi, che sono però ancora bloccate:
non è prevista la possibilità per l’elettore di esprimere una preferenza. Inoltre, i capilista (che
occupavano il primo posto in più liste), se fossero stati eletti avrebbero dovuto scegliere in quale
collegio andare a occupare il seggio, scegliendo di fatto quale del successivo in lista bloccare.
Nel caso in cui nessun partito avesse ottenuto il 40%, si sarebbe andati a un secondo turno: il
ballottaggio tra le due liste più votate. In questo caso, il premio di maggioranza sarebbe stato
assegnato alla lista più votata del ballottaggio, indipendentemente dal numero di voti. Questa
soluzione non è però ragionevole, anche secondo ciò che deliberò la Corte costituzionale: il
problema, che la corte aveva censurato al Porcellum, è di fatto spostato solo al secondo turno. La
corte costituzionale, infatti, interviene di nuovo nel 2017, attaccando la legge sulla stessa base della
sentenza del 2014.
o 2017: La legge elettorale attualmente in vigore è il Rosatellum bis (da Ettore Rosato, esponente del
PD) del 2017. Questa legge introduce un sistema che per i 2/3 è proporzionale, e per il restante 1/3
è maggioritario. I collegi dove opera il maggioritario sono uninominali, in essi concorrono singoli
candidati (per l’1/3 dei seggi in palio). Nei collegi plurinominali concorrono invece delle liste di
candidati (liste corte: da due a quattro candidati).
Ci sono inoltre dei vincoli di genere: per ciascuna lista, uno dei due generi non può essere più del
60%.
MECCANISMO DI ESPRESSIONE DEL VOTO: la scheda elettorale presenta il nome e cognome del
candidato del collegio uninominale, che può essere sostenuto da massimo quattro liste. Si può
votare il candidato del collegio uninominale o direttamente la lista. Nel primo caso, il voto non va
solo al candidato, ma anche a tutte le liste che lo sostengono (il voto sarà diviso pro-quota). Nel
secondo caso il voto è contato solo per la lista barrata e non per tutte le altre, ma è comunque
contato anche per il candidato sostenuto da tale lista. Si può anche barrare sia il candidato
uninominale che una delle liste collegate. Non è ammesso comunque il voto disgiunto: non si può
votare il nome di un candidato e una lista che ne sostiene un altro candidato.
È presente una soglia di sbarramento: le liste singole devono superare il 3%, mentre le coalizioni il
10%. Inoltre, sono ammesse e pluricandidature: ciascun candidato può presenziare in più collegi
plurinominali per lo stesso partito, per un massimo di 5. Invece, il candidato uninominale può essere
incluso anche in una lista.
Questa legge presenta comunque degli aspetti critici: in primis, non è rispettato il principio di
singolarità e di uguaglianza del voto (infatti, un voto in entrata conta come due voti in uscita, uno
al candidato uninominale e uno alla/e lista/e).
Inoltre, la presenza delle pluricandidature si pone in contrasto con il principio del voto diretto: colui
che si candida in più collegi dovrà decidere (nel caso venga eletto in più di uno) in quale collegio
occupare il seggio. I seggi corrispondenti agli altri collegi saranno assegnati al secondo candidato in
lista. Ne consegue che spesso vengono posti come capilista personaggi con più appeal, che trainino
i voti in quella direzione. Essi, se eletti, occuperanno solo uno dei cinque seggi. Coloro che hanno
votato per lui nei restanti quattro collegi troveranno vincente il secondo candidato, e non colui per
cui hanno votato: per questo motivo il voto non è troppo diretto.
IL PARLAMENTO ITALIANO
Il Parlamento, organo espressione della democrazia rappresentativa, è descritto nella parte II, titolo I della
Costituzione. In Italia, il Parlamento è strutturato in due camere (per questo si dice “bicamerale”): la Camera
dei deputati e il Senato della Repubblica, entrambi eletti direttamente dal popolo. La durata in carica dei
parlamentari (definita “mandato parlamentare”) è detta legislatura, e dura 5 anni.
Ciascuna camera è l’esclusivo giudice dei suoi componenti: i candidati eletti sono verificati dalle camere
stesse, che ne verificano l’eleggibilità e la compatibilità. Questa verifica, fatta all’interno delle camere e non
da un’autorità giudiziaria esterna, prende il nome di “verifica dei poteri” ed è una prerogativa assicurata al
Parlamento dall’articolo 66 della Costituzione. Un’altra prerogativa di cui gode è l’autodichia: Camera e
Senato risolvono le controversie per sé stessi, senza il la necessità che intervenga un giudice. Ad esempio,
se tra i dipendenti delle due camere (funzionari, questori, …) e le camere stesse sorge qualche controversia,
quest’ultima sarà risolta internamente e non sarà portata in tribunale.
La Costituzione propone un bicameralismo perfetto: Camera e Senato sono perfettamente identiche nei
loro poteri, non ce n’è infatti una che prevale sull’altra. In Inghilterra, ad esempio, non è così: la camera dei
Lord è esclusa dal rapporto fiduciario tra governo e camera bassa. Negli Usa il Senato ha poteri diversi dalla
Camera dei rappresentanti (come l’assenso per la nomina dei giudici della Corte Suprema, potere che alla
Camera non spetta). Da noi c’è invece un perfetto equilibrio, e la ragione è la ricerca di ponderazione della
decisione: la seconda camera, nell’idea dei costituenti, doveva operare da camera “di raffreddamento”,
rallentando e meditando sulle questioni proposte dall’altra camera (e viceversa).
Ciascuna delle due camere rimane comunque autonoma e indipendente rispetto all’altra. Ognuna di esse
adotta infatti un differente atto monocamerale (detto “regolamento parlamentare”) che disciplina
l’organizzazione interna della rispettiva assemblea e il modo in cui essa agisce. Esso è sancito nell’articolo
64 della Costituzione. I due regolamenti parlamentari sono adottati in maniera indipendente da Camera e
Senato, a maggioranza assoluta. Esso può essere modificato, ma regolamenta le due camere a prescindere
dalla legislatura. L’indipendenza tra Camera e Senato è resa anche dai differenti regolamenti parlamentari
che adottano.
Le funzioni del Parlamento
Il Parlamento esercita diverse funzioni, tra cui:
o LEGISLATIVA: Il fatto che il potere di promulgare leggi spetti al Parlamento è conseguenza del
principio democratico su cui si fonda la nostra Repubblica: le leggi che impongono ai cittadini come
comportarsi è fondamentale che siano approvate dai rappresentanti eletti direttamente da loro.
Per questo si parla di democrazia indiretta: i cittadini decidono indirettamente, tramite i
rappresentanti da loro scelti. Il potere legislativo è inesauribile, limitato unicamente dalla
Costituzione.
o DI INDIRIZZO POLITICO: Consiste negli obiettivi e nel programma che un Parlamento si prefigge di
raggiungere. Questa funziona viene esercitata con vari mezzi, ma in primis quello di fare leggi: un
Parlamento che promulga molte leggi a indirizzo sociale sarà orientato in un certo modo, mentre
uno che si concentra su leggi legate al bilancio, sarò orientato differentemente. Attraverso mozioni
e risoluzioni, il Parlamento indirizza il Governo nella sua politica.
o DI CONTROLLO: In primis, il Parlamento si concentra nel controllo del Governo, organo esecutivo
che deve la sua vita alla fiducia dell’assemblea. Può controllare anche il bilancio consultivo, che
prova se effettivamente il Governo ha utilizzato i fondi nei modi concordati. Il controllo può però
invadere anche materie di pubblico interesse, attraverso le inchieste.
Il Parlamento può controllare il Governo attraverso interrogazioni e interpellanze. L’elemento in
comune tra le due è quello di ottenere dal Governo delle risposte: i suoi membri dovranno
rispondere direttamente al Parlamento. Le interrogazioni sono richieste di spiegazioni e
delucidazioni su un fatto o un comportamento del Governo, al fine di capirne meglio le dinamiche.
Nel caso delle interpellanze il fatto è già noto e chiaro al Parlamento, il quale si limita a chiedere al
Governo quali sono le sue intenzioni di azione rispetto a tale fatto.
o ELETTORALE: Il Parlamento elegge, in seduta comune, alcuni soggetti tra cui il Presidente della
Repubblica, una parte dei giudici della Corte costituzionale e una parte del CSM (Consiglio Superiore
della Magistratura).
Il Parlamento in seduta comune, che vede unirsi Camera e Senato, è detto anche “collegio imperfetto”
poiché delibera senza discussioni. Esso si riunisce a Montecitorio (sede della Camera), e ha come presidente
in carica il presidente della Camera (attualmente Fico, per il senato invece è la Casellati), e vengono applicati
i regolamenti di essa per disciplinare la seduta.
L’unica funzione NON elettorale esercitata dal Parlamento in seduta comune è il procedimento di revoca
del Presidente della Repubblica, ma solo in ipotesi prestabilite. L’assemblea può deliberare la messa in stato
di accusa del Capo di Stato solo in caso di alto tradimento o di attentato alla costituzione. È quindi il
Parlamento a iniziare il procedimento, ma sarà poi la Corte costituzionale a giudicare. A quest’ultima
saranno assegnati in questo caso dei membri aggiuntivi: giudici aggregati eletti dal Parlamento (sempre in
seduta comune) che integrano la composizione della Corte solo per celebrare il processo di giudizio del
Presidente della Repubblica.
Organizzazione delle due camere
Ciascuna delle due camere ha un presidente, che ha diverse funzioni:
o Convocare l’assemblea fissando l’ordine del giorno, ossia le questioni che devono essere trattate
dall’assemblea;
o Mantenere l’ordine, sanzionando o addirittura allontanando chi disturba la seduta parlamentare;
o Assicurare che la seduta rispetti quanto stabilito nel regolamento, per quanto riguarda le modalità
operative;
o Decidere l’ammissibilità degli emendamenti, ossia delle modifiche proposte dai parlamentari alle
proposte di legge;
o Nominare alcune autorità indipendenti.
Il presidente della Camera, fino al ’93, era per convenzione un membro dell’opposizione. Dal ’94 tale
tradizione si è persa, così entrambe le camere hanno acquisito come presidenti esponenti del partito (o
coalizione) di maggioranza. Nell’attuale legislatura i presidenti sono stati assegnati al partito (Camera) e alla
coalizione (Senato) di maggioranza, poiché a inizio legislatura non c’era effettivamente una maggioranza.
I presidenti di Camera e Senato, nell’esercizio delle rispettive funzioni, sono assistiti da un Ufficio di
Presidenza, composto da questori (che aiutano a mantenere l’ordine e gestire il bilancio della camera),
vicepresidenti (coloro che sostituiscono il presidente in casi di assenza temporanea) e segretari (che
verbalizzano la seduta, da cui risulta la discussione e l’eventuale votazione).
29 Settembre
I gruppi parlamentari
Camera e Senato presentano ulteriori organi interni ad essi, delle ripartizioni interne: i cosiddetti gruppi
parlamentari. Essi sono le proiezioni in Parlamento dei partiti e movimenti politici, ma non possono essere
definiti come tali. Un partito è un’associazione che vive nella società civile, mentre il rispettivo gruppo
parlamentare è un vero e proprio organo istituzionalizzato delle due camere, frutto appunto della
proiezione del partito stesso.
Nel momento in cui un candidato viene eletto e ottiene il seggio, ha l’obbligo di dichiarare a quale gruppo
parlamentare intende entrare a far parte. Ciò è fondamentale in quanto i gruppi parlamentari hanno poteri
che il singolo deputato o senatore non ha (come presentare una mozione). Detto questo, è importante
sottolineare come, secondo l’articolo 67 della Costituzione, non ci sia il vincolo di mandato: colui che si
candida per un partito non è costretto a entrare in parlamento con lo stesso gruppo parlamentare, ma può
sceglierne uno differente (anche durante il corso della legislatura; questo fenomeno è detto
“trasformismo”). Nel caso in cui un parlamentare non si riconosca in nessun gruppo, egli avrà la possibilità
di aderire al gruppo misto, all’interno del quale vi sono coloro che non si sentono rappresentati dagli altri
gruppi parlamentari.
Ciascun gruppo parlamentare ha un presidente, detto capogruppo, che è l’unico ad accedere alla
“Conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari”: essa è un organo collegiale a cui partecipano il
Presidente della camera e tutti i capigruppo. Quest’organo ha una competenza importante, che è quella di
organizzare il calendario e il programma dall’assemblea. In questa sede sono stabilite, programmate e
calendarizzate le questioni che devono venire trattate. L’ordine del giorno non è quindi a discrezione del
Presidente di camera, ma è già prestabilito.
Commissioni e giunte parlamentari
Un altro organo interno alle camere sono le commissioni parlamentari: esse sono composte rispettivamente
da deputati e senatori nelle stesse proporzioni in cui siedono in parlamento, ma in numero chiaramente
minore. All’interno delle camere ci sono 13-14 commissioni permanenti, che si distinguono tra di loro in
base alla sfera di competenza (affari costituzionali, agricoltura, sanità, affari esteri, …). Esse, esattamente
come le camere, hanno una durata di 5 anni. La loro funzione gioca un ruolo importante nell’ambito di
formazione della legge.
Oltre alle commissioni permanenti, ci sono anche le commissioni temporanee. Esse vengono istituite a doc
per affrontare determinate questioni. Ad esempio, la Costituzione prevede le commissioni d’inchiesta che,
monocamerali o bicamerali (ossia costituite insieme da Camera e Senato), sono strumenti attraverso i quali
il Parlamento esercita la sua funzione di controllo. Esse hanno la caratteristica di godere degli stessi poteri
di cui gode l’autorità giudiziaria inquirente (ossia il pubblico ministero che indaga); possono così acquisire
ed esaminare prove e chiamare a testimoniare. Le commissioni d’inchiesta sono istituite per indagare
materie di pubblico interesse (come la mafia, le associazioni criminali, il riciclo di rifiuti).
Le giunte parlamentari, così come le commissioni, sono permanenti (durano tutta la legislatura) e
rispecchiano le proporzioni parlamentari. Esse sono 2 al Senato e 3 alla Camera. La giunta per le elezioni si
occupa della verifica dei poteri: coloro che vengono eletti, in caso di contestazione, non vanno davanti ad
un giudice ma la questione viene risolta direttamente dalla camera di appartenenza (autodichia). Inoltre,
esiste anche la giunta per le immunità parlamentari e quella per il regolamento, che può proporre ai
presidenti delle camere delle proposte inerenti al regolamento parlamentare, e offre ai presidenti delle
interpretazioni sulle norme dello stesso.
Funzionamento del parlamento
L’articolo 61 della Costituzione afferma che finché le nuove camere non sono in grado di iniziare l’operato,
rimangono in carica quelle precedenti, con il fine di evitare vuoti di potere. NON si tratta di una proroga,
ma di una prorogatio: il Parlamento non viene prorogato, ma l’esercizio dei suoi poteri sì. Ciò accade poiché
il processo elettivo e di insediamento richiede tempo, anche a causa della verifica dei poteri. La proroga
invece, come afferma l’articolo 60, è disposta solo in caso di guerra dal Parlamento attraverso legge.
Affinché le camere si possano ritenere validamente ritenute, è necessario che vi siano presenti la
maggioranza dei deputati alla Camera (315+1, anche detto quorum strutturale) e dei senatori in Senato. Nel
caso la presenza in aula non raggiunga tale quorum esiste una regola secondo la quale si presume che il
quorum strutturale (metà+1) sia effettivamente raggiunto e che di conseguenza la seduta sia validamente
costituita. Ci può però essere la richiesta da parte dei capigruppo di verificare il numero legale dei presenti;
se esso risulta minore del quorum, le camere non possono operare. Esiste inoltre il quorum funzionale o
deliberativo, che consiste nella maggioranza necessaria per prendere decisioni: esso corrisponde alla
maggioranza dei votanti effettivi.
Le votazioni in aula avvengono, dal 1988, con voto palese e non segreto. Il voto segreto è l’eccezione,
concessa solo in caso di votazioni che riguardano direttamente le persone e, se ne viene fatta richiesta,
anche quelle su materie sensibili (come quelle etiche e di coscienza, che riguardano ad esempio i diritti
fondamentali). La regola del voto palese favorisce la disciplina di gruppo, evitando che un parlamentare
prometta al suo gruppo di votare qualcosa, e segretamente ne voti poi un’altra (questi parlamentari erano
detti “franchi tiratori”).
Per le leggi di bilancio non è mai ammessa la richiesta di scrutinio segreto: è garantito così che ciascun
deputato si assuma la propria responsabilità per ciò che vota, rendendo pubblica la sua scelta. Per lo stesso
motivo, le sedute all’interno delle camere sono pubbliche. Sono infatti pubblicati i resoconti per sintesi (ma
anche stenografici interi) di tutto quanto è accaduto in una seduta della camera, nonché le dirette e le
registrazioni della stessa. In Parlamento è quindi garantita la massima trasparenza, conseguenza del
principio democratico.
Le immunità parlamentari
Le immunità parlamentari, di cui godono senatori e deputati, sono previste dall’articolo 68 della
Costituzione. Esse sono due e prendono il nome di insindacabilità e inviolabilità personale.
L’insindacabilità fa sì che un parlamentare non sia sindacabile (e quindi non sia responsabile civilmente e
penalmente) delle opinioni che esprime e dei voti che dà durante l’esercizio delle sue funzioni. Questa è
una protezione funzionale, perché protegge la funzione del parlamentare. Il problema che sorge è il
seguente: un parlamentare è considerato immune anche per le opinioni che esprime in TV o sui social
(quindi non in sede di Parlamento)? La Corte costituzionale afferma che ciò che il parlamentare dichiara
all’esterno della sua camera di appartenenza è tutelato dall’insindacabilità solo nel caso vi sia un’identità
sostanziale tra le suddette dichiarazioni esterne e ciò che egli ha già detto durante un intervento in
Parlamento (ciò limita la copertura dell’insindacabilità).
L’inviolabilità personale, tutelata nell’articolo 68 comma 2, sancisce che il parlamentare non può essere
limitato nella sua libertà personale prima che ci sia un’autorizzazione della camera a cui appartiene: non
basta quindi il mandato di un giudice. Per limitazione della libertà personale si intende l’arresto, ma anche
le perquisizioni domiciliari, le intercettazioni. Nel caso di un’intercettazione indiretta (scoperta mentre
magari si indagava un'altra persona), è comunque necessaria l’autorizzazione successiva della camera per
utilizzare tale intercettazione come prova. Nel caso in cui il parlamentare è colto in fragranza di reato o sia
stato condannato con una sentenza definitiva (in quanto è già passata per i tre gradi di giudizio), detta
“passata in giudicato”, non è necessaria l’autorizzazione della camera di appartenenza per violarne la libertà
personale.
A protezione dei parlamentari c’è anche il divieto di mandato imperativo e l’autodichia. Inoltre, tutti gli atti
promulgati dal Parlamento sono detti “interna corporis”. Gli atti sono interni e rimangono interni, e su essi
la Corte costituzionale non può esprimersi, anche se un regolamento fosse in contrasto con la Costituzione.
La ragione è l’esigenza di proteggere il parlamento dalle intrusioni del potere esecutivo (ragione storica: in
passato i giudici erano nominati dal sovrano).

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