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ELEMENTI FONDAMENTALI DEI RAPPORTI DI DIRITTO PRIVATO

Diritto privato: strumento necessario per comprendere la realtà che ci circonda. Per poter
comprendere appieno il significato del “diritto privato”, bisogna aver chiaro anche in concetto di
ORDINAMENTO, ovvero un complesso di norme dettate facendo riferimento agli interessi della
società presente su un determinato territorio (= insieme di regole). [NON esiste un solo
ordinamento e, all’interno di questo, possono esistere vari DIRITTI]
Il nostro ordinamento (l’ordinamento italiano) prevede una serie di ordinamenti sovrastatali (ad
esempio l’ordinamento europeo o l’ordinamento internazionale) e ordinamenti micro (ad esempio
ordinamenti regionali). Tutti questi sono da considerare provvedimenti previsti dalla Costituzione
Italiana che, in particolare agli articoli 10, 11 e 117 fa riferimento agli ordinamenti stessi.
 Art.10//comma 1: l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute. È dunque l’ordinamento italiano a doversi
“adattare” a quelli sovrastatali.
 Art.11//comma 1: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. L’Italia consente, in
condizioni di parità con altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Dunque, l’ordinamento italiano consente limitazioni di sovranità, permette quindi che ci
siano regole attuabili all’interno del paese che non provengano direttamente dallo Stato
italiano.
 Art.117//comma 1: la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto
della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali […]. Ritorna qui il tema dei rapporti tra ordinamento
statale/regionale e ordinamento comunitario/internazionale.

Una volta avuto chiaro il concetto di ORDINAMENTO, è necessario riflettere sul ruolo che ha il
diritto privato in questi ordinamenti, facendo però prima una distinzione tra:
- DIRITTO PUBBLICO: disciplina che e gestisce i rapporti diretti tra lo Stato e altri enti
pubblici con singoli o rapporti dello stato con enti pubblici estranei. Riguarda pertanto lo
sviluppo e l’applicazione dei pubblici poteri, (diritto costituzione, penale, amministrativo,
tributario) Il DIRITTO PUBBLICO svolge quindi un ruolo fondamentale per l’esplicazione di
pubblici poteri (ad esempio condannare o gestire rapporti tra Stato ed enti pubblici).

- DIRITTO PRIVATO: complesso di norme che disciplina gli interessi complessi della società,
realizzati tramite la disciplina di specifici rapporti tra privati (singoli individui). Vengono
dunque approfondite e relazioni tra soggetti privati che possono essere singoli cittadini o enti.
Diritto CIVILE è oggi un espressione usata come sinonimo del diritto privato, oppure per
indicare tutte quelle parti del diritto privato che non rientrano nel diritto commerciale.

Sembrerebbe dunque netta la separazione tra le due materie. Separazione che, in realtà, netta non è
per una duplice ragione:
1. Il confine della distinzione tra pubblici e privati è mutevole ed è stata oggetto di molte
variazioni nel corso del tempo. Ad esempio, la trattazione di temi considerati inerenti al diritto
pubblico sono col tempo diventati problemi dei rapporti di diritto privato. Ad esempio, l’età
delle privatizzazioni con le LEGGI AMATO degli anni ’90. È quindi il legislatore (il
Parlamento) che decide di spostare alcune materie dall’alveo del diritto pubblico a quello
privato. Altri esempi possono essere le TELECOMUNICAZIONI o la PRODUZIONE E
DISTRIBUZIONE DI ENERGIA (facenti parte prima del Diritto Amministrativo e quindi
pubblico e poi privato). Questo movimento dipende dal momento storico. Gli anni ’90 hanno
segnato un forte passaggio generale dal pubblico al privato, ma si tratta ancora una volta di
episodi mutevoli nel tempo; Il periodo fascista è segnato da un tipo di economia di stampo
pubblico durante il quale si tende a spostare l’ambito delle regolazioni dell’economia e delle sue
norme dal privato al pubblico.
Quindi, la distinzione tra il pubblico e il privato nell’ambito del diritto è un tipo di distinzione
problematica, variabile nel corso del tempo. In questa precisa fase storica è difficile prescindere
da una riflessione del diritto privato, che ha sicuramente un ruolo rilevante nell’economia
moderna.

2. La distinzione è INCERTA perché: alcuni casi di quotidianità vengono risolti con strumenti e
norme di diritto sia pubblico che privato. Ad esempio, un incidente stradale può comportare
l’esecuzione di norme del diritto penale (e quindi pubblico) oppure, nella maggioranza dei casi,
all’avvio di norme del diritto privato (come ad esempio il risarcimento dei danni). Talvolta però,
possono scattare, a seguito di uno stesso evento, sia norme di diritto pubblico che di diritto
privato. Questo comporta l’incertezza nel delineare il confine che separa il diritto pubblico da
quello privato.
Bisogna anche fare presente che alcuni enti, che sono enti pubblici come ad esempio
l’Università, possono agire secondo le norme del diritto pubblico (es. concorsi pubblici), ma allo
stesso modo possono agire secondo il diritto dei privati (es. contratti di locazione dei privati). Si
può concludere dicendo che la distinzione tra il pubblico e il privato è una distinzione di
massima e non vincolante.

Il diritto è un insieme di regole che servono a risolvere problemi. Non è escluso che diversi sistemi
di regole diano una risposta per lo stesso problema, e può darsi che queste risposte differiscano tra
di loro. Abbiamo dunque appurato l’esistenza di una pluralità di ordinamenti che attraverso le loro
norme disciplinano l’assetto degli interessi di una determinata società. Per distinguere le regole di
un determinato ordinamento si fa riferimento al diritto pubblico e al diritto privato (con le relative
difficoltà annesse).

Le regole giuridiche, o per meglio dire le norme giuridiche si possono ricavare dalle fonti del
diritto, cioè atti o fatti a cui si deve guardare per comprendere qual è la soluzione di un certo
problema conforme al diritto. Come è facile comprendere il diritto non è lo stesso in ogni luogo e in
ogni tempo: noi facciamo riferimento al diritto italiano, che anche se è a sua volta determinato da
fonti sovrannazionali o imitato nella legiferazioni, che è stato creato nel 1942 e da allora mantiene il
suo scheletro pur essendo cambiato.
MA QUALI SONO LE FONTI DEL DIRITTO?
Queste fonti di distinguono in fonti di produzione e fonti di cognizione:
- Le fonti di produzione si preoccupano di cercare l’origine del diritto e di far derivare un
determinato diritto e determinate regole. In un determinato senso “producono” il diritto.
- Le fonti di cognizione invece sono quelle fonti da cui dobbiamo partire per fare riferimento
alle esigenze di conoscenza del diritto. Non sono come quelle di produzione, cioè che
sviluppano determinate regole, ma sono atti volti a far conoscere una determinata regola. Ad
esempio, la Gazzetta Ufficiale (che pubblica atti legislativi, bandi pubblici e una serie di
regole e discipline che possono interessare al cittadino).
Tuttavia, pur essendo decisamente rilevanti le fonti di cognizione, l’attenzione viene posta
prevalentemente sulle fonti di produzione, cioè quegli atti volti a creare e sviluppare delle
regole.

Tra le fonti del diritto dobbiamo individuare una sorta di GERARCHIA, perché le fonti di
produzione possono prevedere una varietà di fonti, discipline e regole che nella maggioranza dei
casi possono essere di comune accordo e quindi coerenti tra loro, ma possono creare anche delle
problematiche relative a delle antinomie (contrasti), ovvero ipotesi in cui queste fonti del diritto
possono essere e in contrasto tra loro. COME RISOLVERE QUESTO PROBLEMA? Il diritto è
una scienza pratica, ma non meccanica, quindi ogni ricostruzione deve essere funzionale. A
risolvere i contrasti vengono chiamati in causa gli interpreti del diritto, che hanno il compito di
dare veste giuridica al fatto, per sciogliere eventuali note interpretative, per sciogliere antinomie
tra fonti del diritto.

Le fonti sono scritte, come ad esempio legge ordinaria, insieme di atti normativi che vengono
legiferati dal parlamento. Non è scontato sia scritta anche perché inizialmente la consuetudine era
molto importante, in cui facevano parte usi orali, finche con il passare del tempo la fonte scritta
diviene centrale. La legge ordinaria (approvata dal parlamento) è una delle fonti del diritto, non
l’unica. Non si ha una sola fonte del diritto quindi. Tradizionalmente quando si parla di fonti del
diritto si intende la gerarchia delle fonti del diritto (piramide) cioè un ideale ranking delle fonti
del diritto per evitare che eventuali contrasti legati alle regole e discipline provenienti da queste
norme possano non trovare soluzione, in cui quindi i rapporti tra le fonti, antinomie, vengono risolti
alla luce della diversa gerarchia tra queste. (Vale anche l’aspetto territoriale).

Si fa dunque riferimento alla GERARCHIA DELLE FONTI: è necessario capire quali fonti
prevalgano nel caso di specie: se prevalga la legge o un determinato regolamento, se una normativa
di stampo europeo o una normativa di stampo italiano, se una normativa regionale o una statale. A
cosa possiamo richiamarci per riscontrare una gerarchia? C’è una norma in particolare, l’articolo 1
delle disposizioni sulla legge in generale (anche dette preleggi) che è espressamente dedicata alle
fonti del diritto. In particolare, dice che sono fonti del diritto:
1. Le leggi
2. I regolamenti
3. Le norme corporative
4. Gli usi
Quindi, una prima risposta al nostro tema (come risolvere eventuali contrasti tra norme produttive
di discipline giuridiche rilevanti) si trova nell’articolo 1 delle disposizioni delle leggi in generale
che sono state anteposte al Codice civile. Sono del 1942 e prevede la suddetta gerarchia. In altri
termini, qualora una legge o una disciplina di origine giuridica, vada in contrasto con una disciplina,
ad esempio, di origine regolamentare, va fatta prevalere la prima. Tuttavia, questo ranking è stato
oggetto di rivisitazioni a causa dell’evoluzione del diritto dovuta all’adattamento alla società.
Scopriamo immediatamente quindi tre macro-fenomeni:

1. L’emanazione, successiva alle preleggi e al Codice civile, della Costituzione (1948), che si
va a porre in cima alla gerarchia delle fonti. Avremo quindi una gerarchia diversa da quella
prevista dall’art.1 perché troveremo sovraordinata a tutto la Costituzione, o meglio, ancora
al di sopra della Costituzione stessa, i principi fondamentali che sono espressione della
Costituzione. La nuova gerarchia sarà quindi:

1. Principi fondamentali costituzionali;


2. Costituzione;
3. Le leggi
4. I regolamenti
5. Le norme corporative
6. Gli usi

2. L’abolizione delle corporazioni. Queste furono (oltre che tipiche della tradizione storica)
un fenomeno sviluppato e valorizzato nell’ambito del regime fascista. È chiaro però, che con
la caduta del regime fascista (durante il quale fu emanato il Codice civile), le norme
corporative chiamate dall’articolo 1 all’articolo 3 delle preleggi furono abolite. Con
l’eliminazione della Camera delle corporazioni, e poi delle corporazioni stesse, furono
eliminate le norme corporative.

3. Assunzione di un ruolo centrale della Comunità internazionale e ancora di più da parte


della comunità europea. Abbiamo visto come agli articoli 10, 11 e 117 si faccia espresso
riferimento alle norme internazionali consuetudinarie nonché ad altre norme comunitarie di
origine europea. L’Unione Europea ha previsto queste normative, che si vanno ad inserire
nell’ambito legislativo attraverso la Costituzione, collocandosi ad un livello che è appena,
per alcuni versi, superiore alle leggi statali.

Il sistema che oggi si presenta, alla luce delle tre macro-novità presentate, è quindi così formato:
1. Principi fondamentali della Costituzione
2. Costituzione
3. Leggi statali di origine europea e leggi di origine consuetudinaria internazionale concepite
nel nostro ordinamento
4. Regolamenti
5. Usi o consuetudini

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La costituzione del 1948 è una fonte del diritto sovraordinata, perché delinea i principi e le regole
fondamentali. Conseguentemente fonti primarie e secondarie devono rispettare le fonti
costituzionali. I PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA COSTITUZIONE reggono l’intero
ordinamento. Ad esempio, l’articolo 1, 2 e 3 della Costituzione Italiana che richiama espressamente
i diritti inviolabili.
- Art. 1: L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al
popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
- Art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
- Art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese.
Si parla quindi di eguaglianza formale (art.3 comma 1) nell’individuare tutti i cittadini come aventi
pari diritti essendo uguali davanti alla legge, e di eguaglianza sociale (art.3 comma 2) di cui lo Stato
stesso si propone garante in quanto si impegni ad eliminare qualsiasi impedimento possa ostacolare
tale eguaglianza. I principi fondamentali però, ovviamente, richiamano una serie di altri oggetti
quali il diritto al lavoro, la libertà personale, la libertà di opinione, nonché tutta una serie di diritti
che hanno per oggetto le formazioni sociali. Al di sotto si hanno tutti i principi previsti dalla
Costituzione nell’ambito dei vari articoli.

La Costituzione fu emanata a seguito della Seconda Guerra Mondiale come frutto dell’Assemblea
costituente che fissò i principi su cui si deve regolare la vita della società italiana. Ci sono poi una
serie di regole fondamentali che riguardano la produzione delle norme (come si creano le leggi),
norme che regolano i rapporti tra gli organi dello Stato (Parlamento, Magistratura, Corte
costituzionale ecc.) e una serie di norme specifiche.
La formula tradizionale (ordinaria) affinché una legge possa essere promulgata prevede
l’accettazione da parte della Camera e del Senato, dopodiché può essere emanata dal Presidente
della Repubblica e pubblicata in Gazzetta Ufficiale.

Abbiamo anche altri Atti aventi forza di legge che sono posti allo stesso livello gerarchico delle
leggi ordinarie, ma sono approvate dal governo, decreto-legge e il decreto legislativo, che sono di
origine governativa e quindi spettano al governo che, in particolari condizioni di urgenza o per
ragioni legate alla specificità e tecnicità della materia, preferisce usare questi strumenti per poi
passare all’approvazione parlamentare attraverso una legge di conversione o legge delega
(preventiva perché il Parlamento delega al governo l’esercizio dell’attività legislativa con
riferimento a specifiche materie). Distinguiamo:
- Decreti Legislativi: su delega del parlamento, che delinea i principi fondamentali, mentre il
governo delinea il dettaglio. Si usano per competenze tecniche particolari, invece di investire di
tale compito il parlamento che potrebbe rallentarlo. Un esempio sono i codici, strumento molto
importante attraverso i quale si disciplinano molto ampi e articolati tra loro.
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- Decreti Legge conversione ex post dal parlamento, per urgenze. Non passa dalle camere ma
deve essere convertito in legge entro 60 giorni dal parlamento, per mantenere lo stesso livello di
fonte diritto.
Allo stesso livello degli atti aventi forza di legge ci sono le leggi territoriali.

Questo quindi per quanto riguarda le diverse forme di legge ordinaria e di decreto-legge/legislative
pari ordinate alle leggi ordinarie; così come sono pari ordinarie (se non prevalenti) le
NORMATIVE DI ORIGINE INTERNAZIONALE, in cui si recepiscono (negli articoli 10/11) le
disposizioni del diritto internazionale consuetudinario, ma anche le ipotesi del diritto comunitario e
in particolare quella delle diverse legislazioni comunitarie. L’Unione Europea tende a strutturarsi
come un vero e proprio ordinamento che prevede delle norme fondamentali contenute nei trattati di
funzionamento dell’UE stessa, che conseguentemente prevedono degli strumenti (come ad esempio
quelli legati agli ordinamenti, alle direttive e alle decisioni).

Ci sono diversi strumenti organizzativi:


- Strumenti legislativi generali: vanno ad incidere direttamente su ciascun Stato membro (come
le direttive). Uno strumento molto rilevante e molto utilizzato, che vincola gli Stati membri a
realizzare una successiva legge con la quale recepiscono gli obbiettivi posti dalle direttive.
L’Unione Europea quindi fissa con delle direttive degli obbiettivi in maniera specifica. Il
singolo stato membro è poi tenuto a seguire queste indicazioni attraverso una propria legge
nazionale;
- Decisioni: sono pari agli ordinamenti direttamente vincolanti solo con riferimento a ipotesi
specifiche. Questo permette di sottolineare un aspetto rilevante, ovvero il fatto che solitamente
le leggi sono generali e astratte, costituite da norme, le quali sono generali e astratte. Possono
quindi valere per una serie di casi che hanno in comune determinate caratteristiche per le quali
viene attuata una certa norma, ma, la norma in sé è generale e astratta.
In relazione alle disposizioni e alle decisioni particolari si fa riferimento a ipotesi piuttosto
specifiche e individuate, che intervengono direttamente a risolvere quei temi. Si hanno poi una
serie di altri strumenti dell’UE, come ad esempio le raccomandazioni o i pareri, ipotesi di
strumenti legislativi che hanno una funzione di orientamento del legislatore, ma che non hanno una
funzione vincolante nei confronti del paese membro.

I REGOLAMENTI sono al disotto e sono approvati da organi del P.A. col fine di fornire una
normativa al dettaglio della disciplina di legge. Sono disposizioni per lo più amministrative (quindi
derivano dalla pubblica amministrazione, come i regolamenti ministeriali) che servono a regolare in
maniera piuttosto specifica ambiti limitati e sono subordinati alle leggi ordinarie che, come abbiamo
visto, individuano una disposizione generale. Il regolamento invece indaga la disposizione generale,
specificandone un determinato ambito.

Infine, nell’ipotesi in cui non vi siano state disposizioni legislative chiare, è possibile ricorrere agli
USI (consuetudini): una fonte del diritto che ricopre l’ultimo scalino nell’ottica della gerarchia
delle fonti. È tutt’oggi fonte del diritto, ma semplicemente è una fonte recessiva, subordinata alle
fonti scritte, subiscono quindi l’influenza delle altre fonti del diritto scritto, ma in assenza di altre
disposizioni avrà un ruolo rilevante e dovrà essere pienamente considerato. In passato aveva più
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rilevanza data la scarsa quantità di leggi scritte. Le caratteristiche di questa ultima fonte del diritto,
per essere ritenuta tale, sono fondamentalmente due:
1. La considerazione che un dato comportamento sia ripetuto nel tempo;
2. La percezione di un dato comportamento ripetuto nel tempo come doveroso e corretto
(valido) da parte della comunità nel suo complesso, in corrispondenza al diritto.
Si richiamano questi ambiti, per esempio, nei profili legati agli usi della locazione (in che modo
dev’essere lasciato l’appartamento, ecc).

A questo punto, è necessario fare riferimento al CODICE CIVILE, testo generale di riferimento in
ambito civile e del diritto privato. Il nostro sistema è del cosiddetto “diritto scritto”, che ha, a
partire dall’800, seguito le norme della codificazione. In alcuni paesi (soprattutto dell’Europa
continentale) si è prediletta la forma di giungere a un sistema codicistico che contenga tutte (o
almeno al massimo) il sistema del diritto privato, consentendo una panoramica complessiva alla
disciplina del diritto privato attraverso il Codice.

MA COS’È IL CODICE E COME SI INSERISCE NELLA GERARCHIA DELLE FONTI?


Il Codice è una legge ordinaria con una tendenza alla sistematicità della materia del diritto privato. Il primo codice di rilievo in ambito
continentale è sicuramente il codice napoleonico, approvato nel 1804 (per altro di recente profondamente rivisto e modificato) che
ha per primo assunto l’importanza di un testo che raggruppasse tutte le discipline relative al diritto privato. Anche il nostro Codice
civile è stato oggetto di una serie di modifiche nel corso della storia. Il primo risale al 1865 di ispirazione napoleonica e fu affiancato,
dal 1882 in avanti, da un codice di commercio (riguardante nello specifico i rapporti di natura commerciali). Entrambi furono superati,
con l’emanazione nel 1942, dal nuovo Codice Civile. Chiaramente anche questo ultimo codice è stato oggetto di significative
modifiche prima di tutto a causa dei cambiamenti storici (come la caduta del regime fascista, durante il quale fu promulgato il codice
stesso, o i vari cambiamenti che hanno toccato l’ambito del diritto di famiglia). Tuttavia, si dice in realtà che, malgrado tutte le
modifiche subite da questo codice, esso mantenga fondamentalmente l’impianto generale di quello del ’42. Nonostante sia stato
emanato in epoca fascista, il codice ha fondamentalmente l’ispirazione e il background teorico di presupposti liberali, tipici della
formazione dei giuristi che si sono poi impegnati nella relazione del codice, ma che si erano formati in epoca precedente all’avvento
del regime fascista e che ha quindi permesso al nostro codice di rimanere in vigore fino ai giorni nostri. Ciò non significa però che,
nell’odierna legislatura (nello specifico sia nell’ambito del Governo Conte uno che nell’ambito del Governo Conte-bis) non siano state
presentate una serie di disegni di legge volti a modificare alcuni profili del codice del ’42. È quindi vero che l’impianto rimane quello
originario del primo codice, ma sussistono necessità sociali ed economiche di prevedere nuove regole, parzialmente diverse e
distinte, che possano adattarsi al meglio alla realtà attuale. Abbiamo accennato all’influenza del codice napoleonico, ma non fu
sicuramente l’unico a fungere d’ispirazione. Si pensi ad esempio alla KGB tedesca (nel 2002 soggetto ad una riforma di
“modernizzazione” nell’ambito delle obbligazioni) o all’ABGB austrico che, seppur leggermente successivi al codice napoleonico,
hanno sicuramente influenzato il nostro diritto privato seppure in misura minore.

Interpretazione del diritto:


strumento necessario, complicato o meno, che viene dato per agevolare la comprensione/dare
significato e il passaggio dalle fonti del diritto/dalle disposizione (frasi contenute nel testo
normativo) alle norme giuridiche. La norme è quindi il risultato dell’attività dell’interprete.
- Interpretazione letterale
- Interpretazione sistematica: che si avvale di una lettura e di una comprensione di diverse
norme, da cui è possibile desumere diverse possibili soluzioni (ES: litigio tra minori).

La distanza tra interpretazione del diritto e semplice lettura delle disposizion è aumentata dal fatto
che il diritto ammette quella che si chaiama interpretazione analogica o Analogia: (art 12 e 14 delle

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preleggi, disposizioni sulla legge in generale che precedono il codice civile): quando si ha una
lacuna del diritto (casi non esplicitamente codificati). Si basa a questo punto su casistiche simili
(come faccio a dire che sono simili? Devo valorizzare l’aspetto della ragione della tutela, se è
similare posso ipotizzare un’applicazione analogica. Es: coppie di fatto-coppie sposate).
Nell’ambito del diritto penale si prevedono delle sanzioni solo in caso di norme, non si ha quindi
analogia di sanzione con altre norme penali. Sono escluse dalla sanzione analgiche anche le norme
eccezionali (distinte da una norma generale).???????????????????
Nel diritto non esistono lacune. Non c’è mai un caso che non è decidibile secondo il diritto: anche
se non è oggetto di disposizioni dirette, o applicabili per analogia, si deve pur sempre ricercare
quale soluzione appare meglio conforme ai principi generali ricavabili dall’insieme
dell’ordinamento.

Analogia Legis (Analogia classica)????????????? vs Analogia Iuris???????????????

L’applicazione del diritto:


cioè adoperare un comportamento conforme ad una norma. Quando vi è una controversia tra due
soggetti, decide il giudice, conformemente alle norme giuridiche, quale parte deve prevalere. Il
giudice:
1. ricostruisce i fatti;
2. interpreta il diritto per ricavare norme applicabili;
3. applica le norme al fatto come l’ha ricostruito.

L’iniziativa volta a provocare l’intervento del giudice si chiama Azione, promossa dall’Attore
contro il Convenuto. L’attore ha l’onere di provare i fatti della pretesa e se il convenuto non
contesta ma sostiene siano avvenuti altri fatti allora propone un’eccezione, che a sua volta dovrà
provare.
Molte norme giuridiche hanno un a struttura composita di due parti. Esse stabiliscono che se si
verifica un certo fatto si avranno certi effetti (conseguenza). Si parla di fattispecie ed effetti. La
fattispecie è un certo modello di fatto, un modello nel senso che si potranno ricondurre molti diversi
fatti concreti. Se si realizza un fatto che rientra in quel modello il giudice ne deve far discendere gli
effetti.

La ricostruzione del fatto e della norma applicabile non sono due operazioni mentali indipendenti.
È ovvio che anche quando si selezionano gli aspetti rilevanti del fatto da accertare si tiene conto
quanto meno di una prima ipotesi sulle norme applicabili. Il giudice, dunque, dovrà applicare la
norma giuridica al fatto.
Giudice  applicazione della norma giuridica al fatto  Motivazione.
Cioè il giudice dovrà ricostruire i fatti accertati chiarendo l’interpretazione del diritto che ha
condotto il giudice ad una certa norma applicata (e ad una determinata decisione) [non è una
decisione arbitraria]
Per tutela del cittadino vi sono i metodi di impugnazione: cioè si può ricorrere a diversi gradi di
giudizio
1. Giudice di pace; Tribunale (nel caso di minori: tribunale per minorenni)

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2. Corte d’Appello (giudice e giudizio di merito, compie i tre atti del giudice, ricostruisce i
fatti, intrepreta il diritto e applica la norma)
3. Corte di Cassazione (giudizio di legittimità, non prevede ricostruzione ma giudica le
norme applicabile, valuta l’interpretazione, giudica il diritto)
Si parla di giudizio di legittimità contrapposto al giudizio di merito.

Una visione realistica del diritto e delle sue fonti:


L’attività ermeneutica del diritto non è un’operazione meccanica.
(esempio dei vari casi con sfumature diverse sul libro pagina 12,13) la soluzione dei casi può
apparire dubbia, nel corso degli anni si è riscontrata la Formazione di diversi orientamenti
giurisprudenziali nel tempo (es: caso Meroni 1971) e ampi margini interpretativi (importante il
carattere temporale, cambio leggi, modo d’interpretazione e contesto). Dunque anche se un giurista
deve pur sempre confrontarsi con le fonti de diritto ese lasciano spesso spazio a risultati diversi,
nella scelta giocano un ruolo anche la sensibilità valoriali, che a loro volta variano nel tempo. (es:
coppie di fatto). In alcuni casi si ha la delega del legislatore all’interprete tramite disposizione
caratterizzate da particolare vaghezza ed elasticità: clausole generale e principi. Si fornisce perciò
una direttiva molto ampia che spetterà agli interpreti concretizzare in norme giuridiche di maggiore
dettaglio. (es: buona fede)
 Giurisprudenza (l’insieme delle sentenze dei giudici) come fonte del diritto.
Accanto ad essa spesso si menziona la dottrina, insieme delle opere scritte dagli interpreti
teorici del diritto.

Situazioni giuridiche soggettive


Si definisce diritto oggettivo l’insieme di norme giuridiche. Il diritto soggettivo è invece una
pretesa riconosciuta e garantita al diritto (oggettivo).
Diverse figure (es dibattito tra diritto soggettivo e interessi legittimi).
Il ruolo centrale del diritto soggettivo: una pretesa riconosciuta e garantita dal diritto, cioè il
diritto riconosce che una mia pretesa, meramente soggettiva, deve essere garantita e riconosciuta.
Se la pretesa tali caratteristiche si parla di diritto soggettivo, ha quindi una veste giuridica.
Il diritto soggettivo si articola in diritti assoluti e relativi:
- I diritti soggettivi assoluti sono diritti che posso fare valere nei confronti ad una generalità
di persone, a cui corrisponde quindi un dovere che grava nei confronti di tutti (es: proprietà:
il proprietario è proprietario di un bene nei confronti di tutti); erga omnes
- I diritti soggettivi relativi: è il diritto nei confronti di una o piè persone determinate.
diversi perché possono farsi valere nei confronti di una o più persone determinate, cioè
corrisponde un obbligo di queste persone a garantire un diritto (es: diritto di credito nei
confronti di una persona specifica.). Dovere di rispetto del diritto di proprietà di persona X.

In termini generali possiamo dire che al diritto soggettivo di un soggetto corrispondono doveri di
una o più persone. In termini più precisi si usa chiamare dovere, quello che corrisponde ad un
diritto soggettivo assoluto; obbligo quello che corrisponde ad un diritto soggettivo relativo.

ESEMPIO di Diritti Soggettivi Relativi: Diritti Di Credito: diritto di ricevere una certa
prestazione avente carattere patrimoniale (scambiata per denaro)

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 l’obbligo viene definito obbligazione tra le parti, che altro non sono del rapporto tra le
parti (Creditore, se ho diritto a ricevere una prestazione/ Debitore, se ho obbligo di
prestazione). L’Oggetto dell’obbligazione (rapporto)  Prestazione (oggetto della
obbligazione, cosa le parti s’impegnano a compiere). Lo svolgimento corretto della
prestazione viene definito: Adempimento (al contrario si avrà prestazione il cui
svolgimento è definito Inadempimento). Ad esempio è diritto di credito quello del
venditore a ricevere una certa somma da ha comprato il suo bene, così come è diritto di
credito quello del committente verso l’appaltatore che si è impegnato a ristrutturare.
Cosa significa che la prestazione ha carattere patrimoniale? Una prestazione è
patrimoniale quando secondo il nostro diritto può essere scambiata per denaro
(lecitamente). (esempi pagina 18)
ESEMPIO di Diritti Soggettivi Assoluti: Diritti Reali: Diritti Sulle Cose (Res, Cosa):
- Diritti Reali Su Cosa Propria (proprietà di un bene, diritto di godere e di disporre di tale
bene).
- Diritti Reali Su Cosa Altrui (diritti reali minori): diritti su dei beni che sono di proprietà di
altri soggetti. diritti reali di Godimento (Limitazione dei diritti del proprietario di
uso/godimento del bene, es diritto di usufrutto) o Garanzia (limitazione del diritto del
proprietario di disporre, es: pegno o ipoteca).

Beni: (art 810 CC) i beni sono delle cose che possono essere oggetto di diritti. (es cadavere è una
cosa ma non si hanno diritti su di esso) affinché si parli di bene ci deve essere un aspetto legato alla
corporeità, ma deve essere una cosa che sia oggetto di diritti.
Distinzione e riflessi pratici (il diritto stabilisce norme giuridiche diverse). Conseguentemente la
vita di questi beni è disciplinata in maniera diversa, a fronte di una loro diversità concreta, es:
- Beni MOBILI (non ineriscono stabilmente, sono spostabili. Ci sono distinzioni interne,
sono previste discipline specifiche per beni mobili registrati, inseriti in registri pubblici, es:
automobili.) vs beni IMMOBILI (suolo o qualunque altro bene che inerisce stabilmente al
suolo. Conseguentemente richiedono la forma scritta specifica dell’atto pubblico che può
essere redatta solo da notaio o pubblici ufficiali);
- Beni MATERIALI (beni che hanno una loro corporeità) vs IMMATERIALI (beni che non
hanno una loro corporeità. Capacità di conoscere un determinato processo.
Dematerializzazione, processo degli ultimi secoli, come il denaro).

AUTONOMIA PRIVATA:
in molti campi il diritto privato muove dal riconoscimento dell’autonomia privata, da
un’impostazione liberale statale, cioè la libertà dell’individuo, la possibilità riconosciuta agli
individui di regolare nel modo desiderato le situazioni che li riguardano, ciò perché si ritiene che
ognuno sia il miglior giudice dei proprie interessi. Possibilità di ciascun individuo di regolare nel
modo che desidera la situazione che lo riguarda (es libertà contrattuale, testamentaria). Nel rapporto
tra soggetti vi è esigenza di accordo tra parti, altrimenti un soggetto si ritroverebbe a subire
conseguenza non desiderate. Funzioni del diritto di fronte all’autonomia privata:
1. Il diritto può assumere di fronte all’autonomia privata Ruolo SUPPLETIVO: cosa succede
se le parti non decidono nulla, entra in gioco il diritto. (norme dispositive, regole
derogabili); (es: locazione appartamento, cosa accade con danneggiamento etc..)

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2. Limite all’esercizio dell’autonomia privata, ciò può avvenire in due modi: 1) vietanto o
imponendo certi contenuti; 2) fissare condizioni necessarie per avere determinati effetti,
altrimenti l’atto sarà invalido (norme imperative, regole inderogabili);
3. Eventuale revoca e suo rapporto con il principio dell’affidamento, vincolando almeno in
qualche misura il soggetto alla propria stessa manifestazione di volontà per esigenze di
stabilità e certezza dei rapporti e del sistema (art 1372 CC) il contratto ha forza di legge
tra le parti (anche una dichiarazione unilaterale può essere vincolante) Si vincola il
soggetto alla propria stessa manifestazione di volontà. La tutela dell’affidamento impone
talvolta che sull’effettiva volontà dei soggetti prevalga il significato obiettivo della loro
dichiarazione (art 1394, 1428 CC). L’altra parte deve potersi fidare della mia dichiarazione
senza essere pregiudicata (specie da circostanze a lei non conoscibile).

Esempio: diritto di successione


Il diritto da ampio spazio all’autonomia privata attraverso il testamento, cioè “l’atto revocabile con
il quale talune dispone per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di
parte di esse” (art. 587 c.c.). il testamento è sempre revocabile e perciò è impedito l’affidamento
(ognuno può cambiare idea). Dunque il testamento è un atto di autonomia, che però non ha libertà
di forma: esiste un primo gruppo di norme imperative che disciplinano la forma del testamento. Per
essere valido deve essere olografo (scritto per intero e firmato dal testatore) o fatto attraverso un
notaio. A sua volta il notaio può o redigere il testamento davanti a due testimoni (testamento
pubblico) oppure può ricevere davanti a due testimoni il testamento in una busta sigillata
(testamento privato).  è evidente che perché il diritto riconosca il testamento deve porre in essere
certe regole che ne garantiscano l’autenticità e la datazione.
Se non vi è testamento il diritto interviene a svolgere un ruolo suppletivo successione legittima:
cioè quelle regole che si applicano quando manca un testamento o eventualmente che integrano il
testamento se il testatore ritiene di disporre solo una parte delle proprie sostanze.
Quando vi è un valido testamento entrano in gioco altre norme imperative, che pongono dei limiti
sostanziali alla libertà testamentaria attribuendo delle quote ai c.d. legittimari (successione
necessaria), cioè stabilisce che certi soggetti abbiano comunque diritto a ricevere una determinata
quota del patrimonio. Se il testamento ledere i diritti di un legittimario, egli può esercitare l’azione
di riduzione per recuperare la parte di sostanza che gli spetta. Le quote sono diverse a seconda della
situazione e la loro smma è sempre inferiore ad uno […]
Come si vede è un campo in cui l’autonomia privata attraverso il testamento è centrale; essa
incontra però limiti variabili a garanzia delle esigenze di solidarietà all’interno della famiglia e in
ogni caso incontra limiti quanto alle forme con cui si esercita a garanzia delle esigenze di certezza
del diritto.

Principio di responsabilità
Se l’autonomia privata è la possibilità per un soggetto di provocare gli effetti voluti. Il principio di
responsabilità implica invece che a un soggetto si imputino certi effetti, non voluti. In particolare,
la responsabilità prevede che un soggetto debba farsi carico delle proprie azioni, laddove queste
possano provocare pregiudizi a terzi. La principale manifestazione di tale principio consiste in
norme giuridiche che obblighino i soggetti a risarcire i danni provocati. Tuttavia, al principio di
responsabilità possono ricondursi anche altre norme giuridiche che comportano effetti diversi.

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Contratto simulato  quando le parti non hanno davvero voluto concludere un certo contratto. La
simulazione non può essere proposta a terzi.
Dunque la responsabilità può assumere diverse forme: ad esempio l’impossibilità di opporre la reale
situazione di fatto quando si è contribuito a creare indici di apparenza che possonoo ingannare altri
soggetti.
Tuttavia l’applicazione più importante del principio di responsabilità è costituita dalle norme
giuridiche che obbligano a risarcire il danno che si è provocato a terzi. Da qui distinguiamo
responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale. La prima (responsabilità
contrattuale) si ha quando non si adempi un’obbligazione, il debitore dovrà dunque risarcire i danni
che derivano dal suo inadempimento. Ma si parla di responsabilità anche in assenza di contratto
(responsabilità extracontrattuale). Il diritto pone un obbligo a risarcire il danno in capo a chiunque
provoca un danno ingiusto: cioè lede una situazione considerata meritevole di tutela. Tuttavia in
termini generali la responsabilità presuppone che il danno o sia volontario o almeno sia causato in
modo colpevole (comportamento negligente o imprudente). Norma che serve a spingere i soggetti
per non arrecare danni ad altri.

Gli elementi della fattispecie (fatti, atti, negozi giuridici)


Fattispecie modello di fatto al realizzarsi del quale si realizzano certi effetti. Possiamo osservare
una fattispecie semplice (composta da un solo fatto) o complessa (composta da più fatti). [Anche
fatti negativi?????]
Fatto qualsiasi avvenimento o situazione che sono presi in considerazione a prescindere dal fatto
che siano voluti o anche solo imputabili ad un essere umano (umani o naturali). Un fatto particolare
è il tempo, da cui in Italia abbiamo l’usucapione (un particolare modo di acquisto della proprietà in
cui il tempo entra nella fattispecie insieme al possesso) e la prescrizione (cessazione dei diritti
dopo 10 anni).
Atti quando la fattispecie include comportamenti umani o volontari oppure quanto imputabili a
chi li pone in essere, nel senso di essere potenzialmente controllabili.
Negozi giuridici atti che sono specificatamente rivolti a produrre quegli effetti che il diritto ne fa
scaturire. Atti di esercizio dell’autonomia privata, mentre dai semplici atti scaturisce una
responsabilità
(effetto non volontario: atto; testamento/matrimonio: negozio)

I RAPPORTI DEL DIRITTO PRIVATO

Nello specifico si tratta dei rapporti tra il singolo soggetto o tra il soggetto ed enti che costituiscono formazioni sociali (ai quali si
riferisce l’art.2 della nostra Costituzione). Si cercherà quindi di capire innanzitutto quali sono i soggetti di questi rapporti, di valutare
le caratteristiche delle varie relazioni e l’oggetto delle relazioni stesse (quindi le discipline, i diritti e i doveri posti in capo a questi
soggetti) e quindi i rapporti di tipo relativo o assoluto che intercorrono tra essi. Si avanzerà fino a considerare il contratto come tipo di
origine di questi rapporti, con tutte le sue problematiche legate alle fasi di formazione e di gestione del rapporto contrattuale e infine
le fattispecie di distinzioni di rapporti contrattuali.

IL SOGGETTO
I soggetti sono i titolari di situazioni giuridiche soggettive, cioè i titolari di diritti, obblighi, doveri e
oneri che fanno capo proprio ai soggetti stessi. I soggetti di un ordinamento giuridico sono tutti
quegli enti che possono essere titolari di diritti e di doveri. Tutti gli esseri umani, secondo l’odierno
nostro sistema, hanno soggettività giuridica (soggetti di diritto). Si parla dunque di soggettività
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giuridica o anche di capacità giuridica, che nell’ordinamento italiano si dà a tutti gli esseri umani
dal momento della nascita (art 1 c.c. conseguentemente alla docimasia polmonare, no necessaria
vitalità) e fino alla morte (cessazione delle funzionalità encefaliche). Inoltre, si dà anche a soggetti
artificiali come enti pubblici o privati, società e fondazioni. Diversa è la capacità di agire. Capacità
di intendere e di volere che si acquisisce alla maggiore età e può essere revocata.

Questi soggetti, in realtà, sono da considerarsi tali nel momento in cui acquisiscono una capacità giuridica, quindi sono idonei ad
essere titolari di situazioni giuridiche soggettive. L’idoneità a situazioni giuridiche soggettive è propria sicuramente della persona
fisica, quindi degli individui che acquisiscono la capacità giuridica alla nascita (ai sensi all’art.1//comma 1 della Costituzione). Di
conseguenza, non vi è quindi dubbio che tutti i nati siano soggetti del rapporto giuridico. Non solo le persone fisiche possono essere
soggetti però, questa idoneità è difatti propria anche di tutti gli enti, i quali si possono distinguere in persone giuridiche ed enti non
dotati di personalità giuridica. La differenza sta nel fatto che gli enti possono essere persone giuridiche nella misura in cui
l’ordinamento gli attribuisca la cosiddetta autonomia patrimoniale perfetta, cioè la possibilità di tenere distinto il patrimonio dei singoli
partecipanti all’ente e il patrimonio dell’ente stesso. Ma, come abbiamo detto, può trattarsi anche di enti NON dotati di personalità
giuridica, e dunque di soggetti che non hanno autonomia patrimoniale perfetta che quindi non prevede una netta distinzione tra il
patrimonio del singolo e il patrimonio dell’ente.
Posto il fatto che le persone fisiche siano titolari di personalità giuridica, come sostenuto dalla Costituzione, ciò che oggi ci sembra
scontato ed ovvio non è sempre stato così. Questo è importante riconoscerlo e saperlo nell’ottica dell’evoluzione del diritto nel corso
dei tempi. In particolare, basti pensare che in passato esistevano distinzioni fondamentali in base alle religioni: gli ebrei, ad esempio,
non avevano la stessa considerazione di altri cittadini appartenenti ad altre religioni; lo schiavo era addirittura una “cosa”, non era
soggetto nel diritto romano; fino all’Ancien Régime, in cui l’ordinamento era diviso in Stati e il clero non aveva gli stessi diritti della
nobiltà, ma soprattutto il Terzo Stato non aveva gli stessi diritti del clero e della nobiltà. Solo con l’avvento della Rivoluzione
Francese, quindi con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, si supera il principio della diversità di stati per aderire alla
visione che oggi è univoca nel nostro sistema, quindi che tutti hanno capacità giuridica e che tutti l’hanno allo stesso modo. Quindi,
da questo punto di vista, come dice l’art.3 della Costituzione, tutti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri senza distinzione di stesso,
razza o religione. È quindi fondamentale mantenere vivo il presidio dell’uguaglianza dell’attività giuridica per tutti i consociati. Questo
anche, e forse soprattutto, per quanto riguarda i diritti dello straniero. In generale era applicato un sistema, fino a non molto tempo
fa, cosiddetto “principio di reciprocità degli stranieri”, cioè si applicavano agli stranieri gli stessi diritti che la loro legge avrebbe
concesso ai cittadini italiani. Questo però rischiava, nel caso dei paesi esterni all’UE e lontani geograficamente e culturalmente, di
limitare fortemente le possibilità degli stranieri. Pertanto, si scelse di garantire sempre i diritti fondamentali di tutti colori i quali
potessero essere in qualche modo discriminati in paesi stranieri.

La regola per la quale tutti acquisiamo capacità giuridica alla nascita però non è sempre applicata. Questa è sicuramente la regola
generale, ma vi sono dei casi in cui non è possibile compiere certi atti od operazioni per cui non si è pienamente capaci. Prima di
vedere nel dettaglio questa particolare eccezione, bisogna prima comprendere l’esito della ricostruzione dell’art.1 del Codice civile
(quindi il fatto che la capacità giuridica si acquisisca con la nascita) e quindi capire quando un soggetto può essere definito “nato”. Il
momento esatto della nascita, quindi quando effettivamente si diventa soggetto giuridico, è solitamente quello della prima
respirazione polmonare. Sono poi i genitori, o chi per essi, a dover dichiarare la nascita entro dieci giorni per la formulazione dell’atto
di nascita. Così come è l’ingrato compito di eventuali congiunti dichiarare, entro le 24 ore, il decesso del caro ai fini della
formulazione dell’atto di morte. Un soggetto è da considerarsi effettivamente deceduto nel momento in cui cessa l’attività
dell’encefalo (attività cerebrale). In realtà esiste anche qualcosa attorno a tutto ciò, perché bisogna considerare che nel nostro
ordinamento il soggetto diventa tale nel momento della nascita, ma ci si è chiesti anche del tema a considerazione delle valutazioni
di tipo etico e il tema del “concepito”, che dev’essere preso in considerazione dal diritto privato. È quindi vero che sia stato sostenuto
che il soggetto è generalmente idoneo alla capacità giuridica dal momento della nascita, ma vi sono dei diritti che in realtà il
concepito può avere già prima di venire alla nascita. Non si tratta di una capacità generalmente intesa, ma sono capacità speciali
che vengono riservate al concepito durante quella fase. Sono dei diritti che sono stati dati in parte dal codice, in altra parte sono
diritti giunti a seguito di un’applicazione giurisprudenziale di una serie di norme che col tempo sono divenute regole che non
possono essere confutate. Da un lato si ha la possibilità per il concepito di ricevere, tramite successione a causa di morte o tramite
donazione, un diritto. Anche dal punto di vista giurisprudenziale al concepito sono stati riconosciuti dei diritti, eccezionalmente
previsti dal Codice civile, che prevedono il diritto del concepito di essere titolare di risarcimento del danno o rispetto a danni a lui
(seppur indirettamente) provocati o a ipotesi di danni riflessi (legati ad esempio all’uccisione di uno dei genitori). In questi casi si può
quindi prevedere a diritti risarcitori a favore del concepito. Tuttavia, questa capacità giuridica può essere oggetto di specifiche
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incapacità ad essere titolari di determinati diritti e doveri. Sono incapacità che possono essere distinte in incapacità speciali e
incapacità assolute.
L’incapacità assoluta riguarda essenzialmente l’ipotesi in cui la persona non possa compiere un determinato atto e quindi
l’impossibilità di essere titolare di determinati rapporti. Un esempio può essere quello dell’infra-quattordicenne che decide di
contrarre matrimonio. Così come per accedere al testamento è necessario avere almeno diciotto anni. Tali limiti sono applicabili
anche alla stipulazione di contratti di lavoro.
Le incapacità speciali riguardano invece certi soggetti nei rapporti con altri. Un esempio è quello del tutore, quindi di un soggetto che
è stato in qualche modo affiancato ad uno incapace di agire, che non può succedere nel patrimonio familiare dell’interdetto, a patto
che non abbia dei rapporti specifici che lo pongano nell’ambito di coloro i quali hanno diritto ad una quota della successione. Un
chiaro riferimento va fatto a ciò che riguarda la cosiddetta capacità di agire: è vero che il soggetto ha una capacità giuridica al
momento della nascita, ma questa riconosce soltanto a tale soggetto l’idoneità ad essere titolare di diritti, doveri e obblighi. I soggetti
acquistano soltanto a partire dalla maggiore età la capacità di agire e quindi porre in essere atti che comportino degli effetti nel
mondo del diritto. Non è quindi sufficiente la nascita per poter ottenere la capacità di agire, ma è necessario il compimento della
maggiore età (al momento fissata al compimento del diciottesimo anno). Questo è quello che dichiara l’art.2 del Codice civile, con il
quale viene fatto presente che si acquisisce la capacità di agire per atti che non prevedano un’età diversa. Com’è noto, infatti, ci
sono tutta una serie di altri limiti per cui viene previsto un limite di età maggiore o minore. Bisogna però fare attenzione perché, in
realtà, il nostro ordinamento prevede una serie di strumenti che assicurano una protezione del soggetto incapace, cioè una tutela di
colui il quale sia capace giuridicamente, ma non sia capace di agire o che non sia reputato tale. Si tratta dunque di strumenti posti A
TUTELA dell’incapace, a protezione di tale soggetto, hanno per cui lo scopo di non aggravare una posizione che già di per sé è una
condizione di fragilità, cioè un sistema in cui il soggetto non sia in grado di compiere atti che modifichino la realtà. Si tratta di istituti
volti a proteggere che comprendono:
- la minore età. Un soggetto nato, che ha quindi capacità giuridica, ma non avendo raggiunto la maggiore età non è ancora in
grado di agire;
- l’interdizione giudiziale, che prevede la nomina di un tutore;
- l’inabilitazione per cui viene nominato un curatore per l’assistenza nelle attività;
- l’emancipazione (piuttosto limitato) è legato all’ipotesi volta a superare il problema della minore età di contrarre il matrimonio;
- l’amministrazione di sostegno a protezione dell’incapace (introdotto a metà degli anni 2000) volto tutelare in maniera diversa
rispetto agli strumenti tradizionali dell’inabilitazione e dell’interdizione;
- l’incapacità naturale (incapacità di intendere e di volere) che coglie nello specifico la conclusione di determinati atti.
Bisogna sottolineare però che a questa logica si sottrae una figura che periodicamente ritorna: l’interdizione legale. Non segue la
logica degli altri istituti di protezione dell’incapace perché non rappresenta uno strumento a protezione, ma uno strumento di tipo
sanzionatorio per cui un legislatore civilistico (quindi nell’ambito del diritto privato) prevede, per alcuni soggetti, che in questi casi sia
possibile una sanzione ulteriore data dall’incapacità che viene combinata alla sentenza di condanna, di concludere degli atti che
siano capaci di modificare la realtà giuridica. La realtà di fondo di questo istituto è molto lontana risetto a quelle sopra citate perché
ha una funzione di pena accessoria, per cui al netto (dopo aver già provveduto ad una significativa pena – ergastolo o pena
detentiva superiore ai cinque anni), viene aggiunta questa interdizione legale che rende impossibile portare a compimento atti
giuridici. A dimostrazione della diversa funzione di questa interdizione legale, anche gli effetti sono diversi. Mentre gli effetti di tutti gli
altri strumenti a protezione dell’incapace comportano l’annullabilità del singolo atto del singolo soggetto, per lo strumento
dell’interdizione legale l’annullabilità del negozio potrà essere esercitata in senso lato dai soggetti interessati e quindi esponendo il
soggetto ad una possibile risoluzione.

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IL CONTRATTO
Bisogna dire innanzitutto che il contratto è disciplinato nel Codice civile a partire dall’art.1321 (e
seguenti), nei quali si definisce cosa sia un contratto, le seguenti regolamentazioni previste dai
contratti in generale; per poi passare alle discipline specifiche di ciascun modello contrattuale.
Art.1321: “Il contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere
tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”
Il contratto è quindi un accordo di natura patrimoniale; l’incontro della volontà di due o più parti
(intesi come soggetti), caratterizzato da una natura patrimoniale. È importante capire come il
contratto rappresenti uno strumento fondamentale, tramite cui i soggetti definiscono il loro assetto
di interessi e attraverso il quale si realizzano degli effetti giuridici necessari nella quotidianità.
È importante precisare che il contratto può avere solo effetti patrimoniali. Nel diritto sono presenti
altre tipologie di accordi che hanno effetti non patrimoniali come il matrimonio, ma il contratto ha
solo natura patrimoniale. È importante perché il contratto è l’unico accordo a cui il nostro diritto
riconosca effetti vincolanti che può avere contenuto tendenzialmente libero, salvi i limiti specifici
posti da norme giuridiche imperative.
Come detto precedentemente, il contratto è espressione di un accordo che evidenzia la centralità
dell’autonomia tra le parti, le quali producono gli effetti contrattuali. Com’è ovvio, questa
autonomia è però limitata da tutta una serie di elementi posti dall’ordinamento giuridico. Il fatto
che il contratto rappresenti l’espressione dell’autonomia e della volontà delle parti non lo rende di
per sé diverso dal concetto di negozio giuridico, il quale può comportare diversi effetti che però
non sono in alcun modo attinenti alla stipulazione di un contratto. Il testamento, ad esempio, è
l’effetto della volontà di più parti e produce effetti giuridici, ma non è un contratto. Per individuare
la figura legata al ruolo della volontà delle parti si fa riferimento all’istituto del negozio giuridico
(una figura prevalentemente dottrinale, che non è stata pienamente recepita dal Codice civile, il
quale non vi attribuisce una parte apposita). Contrariamente, lo stesso Codice tende a valorizzare
molto – nell’ambito degli atti di espressione della volontà dei privati – il ruolo del contratto;
sottolineando come esso rappresenti uno tra i negozi più rilevanti.
Art.1324: “Salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si
osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto
patrimoniale”.
Questa norma è espressione della centralità sistematica che viene assunta dal contratto. Ciò
significa che queste regole sono di ampia portata, pensate in primo luogo per disciplinare i contratti,
ma che possono trovare applicazione ad una serie di situazioni specifiche che non trovano discipline
altrettanto specifiche.

Per quanto riguarda alla figura centrale del contratto, non possiamo che fare riferimento
all’art.1322, che disciplina specificamente l’autonomia contrattuale: “Le parti possono
liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge e dalle norme
corporative.
Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina
particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento
giuridico”
- Al primo comma si prevede come l’espressione di autonomia privata e della volontà delle
parti possa determinare il contenuto dei contratti.

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- Il secondo comma è legato fondamentalmente al fatto che le parti possono scegliere – per
compiere la loro operazione economica – fra i diversi tipi contrattuali (già previsti dalla
legge) oppure possono avvalersi – se un modello non è stato espressamente previsto dalla
legge – di modelli ATIPICI
Contratto atipico  contratti che sono espressione dell’autonomia privata che delineano
operazioni economiche diverse, ancora non conosciute dalla legge, ma che possono essere oggetto
di diffusione nella prassi negoziale. Questi contratti atipici possono essere del tutto ignoti alla legge,
ma noti nella prassi sociale. Dunque, il circuito che si prevede è quello di delineare un’operazione
economica e (se tale operazione risulta rispondere ad interessi meritevoli di tutela  ai contratti
atipici si applicano le stesse disposizioni dei contratti in generale) stipulare un contratto di forma
atipica, il quale diverrà socialmente tipico (cioè diffuso nella società, basta pensare al leasing o al
franchising), pur non espressamente disciplinato dal legislatore. A seguito della diffusione nella
società, si prevedono generalmente dei modelli di contratti socialmente tipici, in quanto molto
spesso vengono tipicizzati dal legislatore e disciplinati dall’ordinamento (es l’affiliazione
commerciale).
Dunque, abbiamo visto come l’autonomia dei privati agisca su molteplici livelli: 1)
Determinazione del contenuto; 2) Scelta dell’eventuale tipo contrattuale; 3) possibilità di
stipulare contratti atipici (socialmente tipici e poi tipici). I Contratti inoltre possono essere a titolo
oneroso o a titolo gratuito (vendita o donazione). È un contratto la locazione ma anche il
comodato, prestito gratuito (art 1809, in cui il comodato può chiedere la restituzione in caso di
urgente e impreveduto bisogno).

Distinguiamo:
- contratti tipici e contratti atipici a seconda che il contratto sia disciplinato espressamente dal legislatore o meno;
- contratti tra due parti o con più parti (plurilaterali);
- contratti con prestazioni corrispettive e contratti con obbligazioni a carico di una parte sola;
- contratti a titolo oneroso (il sacrificio venga fatto da entrambe le parti) e contratti a titolo gratuito (sacrificio fatto soltanto da un
soggetto a titolo gratuito);
- contatti di scambio (contratti in cui ciascuna parte da all’altra qualcosa, ognuna delle quali ricava un vantaggio) e contratti
associativi (attraverso il quale si costituisce un’associazione, diretta ad uno scopo comune);
- contratti commutativi (contratti in cui le prestazioni dovute dalle parti sono certe) contratti aleatori (vi è incertezza dei singoli
sacrifici);
- contratti di esecuzione istantanea (la prestazione è concentrata in un dato momento. Possono essere, a loro volta, di
esecuzione immediata o esecuzione differita) e contratti di durata (la prestazione è continua nel tempo o – comunque – si
ripete);
- contratti a forma libera (contratti che non prevedono una modalità di manifestazione della volontà precisa) e contratti a forma
vincolata (la legge prevede la modalità di manifestazione della volontà);
- contratti consensuali (si concludono con il semplice consenso delle parti) e contratti reali (oltre all’accordo tra le parti
necessitano della consegna del bene). Non vanno confusi i contratti con effetti reali e contratti con effetti obbligatori, perché
essi non si perfezionano nel momento in cui si conclude il contratto, ma riguardano gli effetti: contratti che hanno come effetto la
il trasferimento, l’acquisizione o la distinzione di un diritto reale e contratti che hanno l’effetto di far sorgere obbligazioni

GLI ELEMENTI FONDAMENTALI DEL CONTRATTO sono previsti all’art.1325:


“I requisiti del contratto sono:
1) l'accordo delle parti; 4) la forma, quando risulta che è prescritta
2) la causa; dalla legge sotto pena di nullità”
3) l'oggetto;
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L’ACCORDO
Requisito essenziale del contratto, da cui deriva – in caso di assenza – l’effetto di nullità. Il
contratto è un accordo, ciò significa che può essere preceduto da trattative volte a definire l’oggetto
del contratto. A livello logico il contratto si conclude quando una delle due parti arriva a fare una
proposta a cui corrisponde un’accettazione dell’altra parte. Esse devono essere conformi e deve
contenere gli elementi essenziali del contratto (non va bene dire accetto). Altri aspetti saranno più o
meno regolati dalle parti e nel caso essi non prevedono nulla, si applicheranno le norme dispositive
dettate per i contratti in generale o per quello specifico tipo contrattuale.

Quando si ha unità di spazio e tempo nella conclusione del contratto non si incontrano problematiche particolari, perché – nel caso
dei contratti consensuali – il momento in cui si incontra la volontà delle parti è molto semplice. La cosa si complica nelle ipotesi in cui
l’unità di contesto, luogo e tempo non sussiste.
Solitamente, si ritiene che il contratto sia perfezionato quando proposta e accettazione si fondono per dare vita ad un’unica volontà
contrattuale. Bisogna però capire quando questi due fattori si incontrano effettivamente: il Codice civile prevede uno schema
generale e due schemi speciali di conclusione del contratto.
La regola generale di conclusione del contratto è prevista dall’art.1326:
“Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte.
L'accettazione deve giungere al proponente nel termine da lui stabilito o in quello ordinariamente necessario secondo la natura
dell'affare o secondo gli usi.
Il proponente può ritenere efficace l'accettazione tardiva, purché ne dia immediatamente avviso all'altra parte.
Qualora il proponente richieda per l'accettazione una forma determinata, l'accettazione non ha effetto se è data in forma diversa.
Un'accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta”

La regola fondamentale contenuta al comma 1 presuppone un’opzione chiara del legislatore per il principio di cognizione: si ritiene
che l’accettazione sia un atto che segue questo principio. Dunque, si ritiene concluso il contratto quando l’accettazione venga a
conoscenza del soggetto che ha fatto la proposta. L’articolo però non si limita a prevedere questo, ma una serie di altre regole che
assicurino che l’incontro tra proposta e accettazione sia valido ed efficace. Prevede quindi che l’accettazione si avveri entro i termini
stabiliti dal proponente o in mancanza di questa scadenza secondo quanto previsto dalla natura degli affari o degli usi. Ancora,
l’accettazione dev’essere conforme alla proposta; in caso contrario quest’ultima varrà come “nuova proposta”. Infine, la forma
dev’essere quella prevista e richiesta dal proponente.
Tuttavia, lo schema tradizionale di conclusione del contratto non si ferma qui: si pone il problema di quando il soggetto venga a
conoscenza dell’avvenuta proposta. A questo proposito, all’art.1335, il Codice individua la presunzione di conoscenza:
“La proposta, l'accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel
momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di
averne notizia”
In altri termini, si prevede il momento in cui il soggetto si presume a conoscenza dell’avvenuta proposta o accettazione. Chiaramente
si tratta di una presunzione, dunque è possibile verificare il contrario. In questo caso, il proponente dovrà provare di essere stato
senza sua colpa nell’impossibilità di averne notizia. La regola generale, comunque, è quella dell’art.1326 e 1335.

Come già accennato, questo non è l’unico schema valido nell’ambito del perfezionamento del contratto. Possiamo conoscere altre
due modalità:
Proposta e inizio dell’esecuzione: contratti che non prevedono espressamente una formale accettazione. In questi casi, a seguito
della proposta può essere seguire l’esecuzione di un ordine ricevuto dal proponente. Questa figura è disciplinata all’art.1327:
“Qualora, su richiesta del proponente o per la natura dell'affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una
preventiva risposta, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l'esecuzione.
L'accettante deve dare prontamente avviso all'altra parte della iniziata esecuzione e, in mancanza, è tenuto al risarcimento del
danno”. In altre parole, il contratto si conclude nel tempo e nel luogo in cui si svolge l’esecuzione. Lo stesso articolo, al comma 2,
prevede una specificazione: se il contratto si può concludere con proposta e inizio dell’esecuzione, il proponente rischierebbe di non
essere a conoscenza di aver concluso un contratto e pertanto potrebbe muoversi nell’ottica di concluderne altri; dunque si richiede
che – ammesso sia un’ipotesi disciplinata dall’art.1327 – sarà necessario che l’accettante dia prontamente avviso dell’esecuzione.
Se ciò non accade sarà dovuto, da parte del soggetto accettante, un risarcimento del danno;
Proposta e mancato rifiuto: disciplinata all’art.1333, si applica solo in caso di obbligazioni a carico del proponente: “La proposta
diretta a concludere un contratto da cui derivino obbligazioni solo per il proponente è irrevocabile appena giunge a conoscenza della
parte alla quale è destinata.
Il destinatario può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell'affare o dagli usi. In mancanza di tale rifiuto il contratto è
concluso”. In queste ipotesi, per concludere il contratto è possibile che il mancato rifiuto espresso dalla controparte, vincoli le parti al
contratto. Viceversa, un rifiuto o un qualunque atto volto a chiarire la contrarietà dell’accettante sarà sufficiente ad evitare la
conclusione del contratto. Questa modalità è assicurata solo alla luce del fatto che il contratto in questione preveda obbligazioni a
carico del solo proponente, quindi è richiesta una minore partecipazione ad esprimere la propria volontà da parte dell’accettante.

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Si può comunque prevedere la possibilità che le due parti possano revocare l’effetto dell’atto di proposta e accettazione. La
disciplina della revoca è prevista all’art.1328: “La proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso. Tuttavia, se
l'accettante ne ha intrapreso in buona fede l'esecuzione prima di avere notizia della revoca, il proponente è tenuto a indennizzarlo
delle spese e delle perdite subite per l'iniziata esecuzione del contratto.
L'accettazione può essere revocata, purché la revoca giunga a conoscenza del proponente prima dell'accettazione”.
Ai sensi della prima parte dell’articolo, sembrerebbe che – se il contratto è concluso – sarà sufficiente mandare all’indirizzo
dell’accettante la revoca della proposta prima di aver avuto contezza dell’avvenuta accettazione. In altre parole, basterà che la
revoca dell’accettazione giunga al proponente prima dell’accettazione stessa. In entrambi i casi, il momento decisivo è quello in cui il
contratto viene concluso. Il che significa che – da parte del proponente – la proposta potrà essere revocata fino a quando sarà in
grado di spedirla prima di venire a conoscenza prima dell’avvenuta accettazione; per l’accettante invece, la revoca varrà nel
momento in cui questa giungerà al proponente prima dell’accettazione stessa.

 LA FORMA
Come previsto dall’art.1325, la forma è essenziale nel contratto solo nel caso in cui sia richiesta
dalla legge a pena di nullità. La forma è la modalità con cui le parti manifestano il loro consenso e
si accordano rispetto al contenuto del contratto. Questa manifestazione di volontà può avvenire
secondo diverse modalità. La regola generale è quella della libertà delle forme, secondo cui
ciascuno può perfezionare l’accordo secondo le modalità preferite. Dunque in teoria possono
concludere un contratto per iscritto a voce ma anche a gesti. Tuttavia, vi sono ipotesi in cui
l’ordinamento impone delle forme solenni e specifiche. In questi casi, questa forma può essere
richiesta per due ragioni:
1. A pena di nullità dell’atto (richiesta ad substantia actus): in assenza della forma richiesta
dall’ordinamento il contratto è nullo;
2. Per ragioni di prova del contratto (ad probationem tantum): modalità richiesta per provare
un contratto, ma il contratto in sé è perfettamente valido. Il rischio è – nel caso di mancato
rispetto della forma – di avere problemi rispetto alla prova stessa.
La regola generale, comunque, rimane la libera scelta delle forme.
I due principali tipi di forma sono: la scrittura e l’atto pubblico.

Di recente la forma ha assunto un ruolo rilevante perché assicura la possibilità – anche per il soggetto debole del rapporto
contrattuale – di una maggiore riflessione sulle modalità del contratto, una maggiore trasparenza sul contenuto e, di conseguenza,
una maggiore tutela complessiva. Oltre agli elementi finora analizzati, come abbiamo accennato, esistono anche degli elementi
accidentali, cioè elementi la cui presenza dà rilevanza a determinati motivi. Questi elementi sono fondamentalmente tre:
Condizione, Termine e Modo.

- La condizione: è un avvenimento futuro e incerto dal quale dipende la produzione o l’eliminazione degli effetti del contratto.
Possiamo, pertanto, avere una: condizione sospensiva: dal verificarsi dell’avvenimento futuro dipende la produzione degli effetti
del contratto; condizione risolutiva: da essa dipende l’eliminazione degli effetti del contratto.
Attenzione però, perché gli effetti della condizione retroagiscono: cioè tendono a valere dal momento in cui viene stipulato il
contratto.
Ci sono dei negozi e degli atti che non sopportano l’apposizione di termini e condizioni: si tratta degli actus legittimi.
Le condizioni possono ancora essere distinte tra condizioni casuali, condizioni potestative e condizioni miste a seconda che il
suo avverarsi dipenda dal caso, dalla volontà o da un mix delle due cose. Dobbiamo ricordare però che - mentre quelle appena
elencate sono tutte condizioni possibili - viene preclusa la condizione meramente potestativa, cioè quella condizione il cui
verificarsi non dipende solamente dalla volontà di un soggetto, ma anche dal suo capriccio.
La condizione può essere rilevante anche se illecita (contraria alle regole di buon costume) o impossibile (l’evento è
semplicemente irrealizzabile). In caso di condizione illecita, nei confronti dei negozi inter vivos, la condizione comporta la nullità;
nei negozi mortis causa la condizione è considerata non apposta, perché si ritiene voglia dare maggior peso alla volontà di chi
non può più esprimerla (favor testamenti). Il discorso è similare per la condizione impossibile: nei negozi mortis causa si ritiene
non apposta; nei negozi inter vivos se la condizione è sospensiva sarà da considerarsi nulla, se la condizione è risolutiva si
considera non apposta.
La condizione ha due fasi: una fase di pendenza (ovvero l’incertezza per cui non si sa se si verificherà o meno l’evento) e una
fase di avveramento (cioè la condizione si avvera perché si verifica l’evento). Sugli effetti – come già detto – retroagiscono: per

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cui in caso di condizione sospensiva gli effetti si produrranno dal momento in cui verrà stipulato il contratto; inversamente –
nella condizione risolutiva – vengono meno gli effetti come se non si fossero mai verificati.

- Il termine, invece, è un evento futuro ma certo. Possiamo avere anche qui una serie di classificazioni:
Termine finale o iniziale: si ha un evento a partire dal quale o fino al quale si verificano certi effetti;
Termine determinato o indeterminato; In questo ambito non si ha più la distinzione tra pendenza e avveramento, ma tra
pendenza e scadenza, poiché si tratta – in questo caso – semplicemente di far decorrere il termine. Nel caso del termine però –
a differenza della condizione – gli effetti si verificano ma non sono retroattivi.

- Il modo è .n onere posto nell’ambito di una liberalità allo scopo di limitarla. Si può avere un modo di dare, un modo di fare e un
modo di non fare. Chiaramente si tratta di ipotesi significative che possono rilevare anche nei casi di modi impossibili o illeciti,
perché in questi casi il modo – sia inter vivos che mortis causa – viene considerato come non apposto; a meno che non sia il
modo stesso ad essere rilevante alla liberalità.

 LA CAUSA
All’art.1342 (e seguenti) non si disciplina la visione della nozione di causa. Pertanto, la dottrina si è arrovellata negli anni, cercando
di individuare diverse definizioni. Oggi, prevale la tesi per cui la causa di un contratto debba essere considerata in funzione del
contratto, ma con riferimento al caso concreto. Ovviamente, la valutazione della causa è più agevolata nei contratti tipici, proprio
perché la funzione economica-sociale viene prevista dallo stesso legislatore che in qualche modo la regola; diversamente, per
quanto riguarda gli interessi meritevoli di ordinamento, la valutazione è molto ampia ed è legata all’ipotesi di un approccio – più o
meno – liberale. In questa logica, nell’ambito dei contratti in generale, possiamo avere una disciplina piuttosto articolata di contratti
tipici e contratti atipici.
È importante distinguere tra difetto sopravvenuto e momento originario dell’elemento essenziale, cioè la mancanza di causa (la
quale – nel secondo caso - comporta la nullità del contratto). Il tema diviene più complesso circa ciò che accade nell’ipotesi di difetto
sopravvenuto, cioè di possibili venir meno di funzioni originariamente previste per un determinato contratto, che si rileva non
eseguito. In questi casi, il difetto funzionale (sopravvenuto) porta a conseguenze diverse: non la nullità, ma lo scioglimento del
contratto.

I negozi giuridici astratti sono validi solo nei casi previsti dal nostro ordinamento (es. l’assegno).
In termini generali i negozi giuridici sono causali, cioè richiedono che si indichi qual è l’operazione
complessiva realizzata. (ES è una vendita o è una donazione?) il diritto richiede che la causa sia
illecita, cioè vietata da norme giuridiche o da regole di morale sociale ampiamente condivise, buon
costume (es non accordo corruttivo, prostituzione). Dunque il contratto non è valido se la causa
manca, cioè non è ricostruibile. Si considera illecita la causa anche quando il contratto costituisce
il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa (contatto in frode alla legge, previsto
all’art.1344:
“Si reputa altresì illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere
l'applicazione di una norma imperativa”
Attraverso questa disciplina si impedisce il contratto illecito, ma si rende anche illecita la causa del
contratto che rappresenta uno strumento per eludere l’applicazione di una norma imperativa.
L’ordinamento dunque tutela il rischio di un superamento indiretto di norme imperative. )

La causa deve avere alcune caratteristiche, previste dall’art.1343:


“La causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon
costume”
Ciò significa che, in realtà, si ritiene di poter distinguere tra ipotesi di contratto illegale (cioè
quando un contratto viola norme imperative) e contratto immorale (cioè quando viola limiti di
buon costume).
Questa distinzione potrebbe avere una conseguenza dal punto di vista dell’eventuale restituzione:
nell’ipotesi di contratto immorale unilaterale (in cui solo un soggetto è oggetto di immoralità), è
ammessa la restituzione (ad esempio, i casi di sequestro in cui l’immoralità deriva dal solo soggetto
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sequestratore); nel caso di immoralità bilaterale (ad esempio, corruzione) i soggetti non avranno la
possibilità di richiedere la restituzione della cifra, perché ambo le parti sono ritenute immorali. In
questi casi prevale la situazione di possesso (cioè la situazione di fatto). Nel contratto illegale,
invece, è sempre prevista la restituzione.
Un’altra distinzione è data dal fatto che il contratto illecito, solitamente, non è oggetto di
conversione (cioè il modo con cui si cercano di salvare degli effetti del contratto nullo): se la nullità
deriva da illiceità della causa o dell’oggetto la conversione è esclusa.
Rispetto alla causa, altra fonte di distinzione sono i MOTIVI: le ragioni che portano ciascun
contraente a concludere un determinato contratto, dunque ragioni strettamente personali. L’assenza
di questi motivi non è considerata giuridicamente rilevante; tuttavia, un motivo può essere reso
rilevante in almeno due ipotesi fondamentali:
1. Rilevanza data da parte dei contraenti: se i contraenti subordinano gli effetti del contratto ad
un motivo dedotto in condizione;
2. Rilevanza prevista dall’ordinamento: previsto dall’art.1345: “Il contratto è illecito quando le
parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad
entrambe”.

 L’OGGETTO

l’oggetto del contratto s’identifica con la prestazione dovuta dalle parti. Le norme che presentono
la disciplina del contratto sono previste all’art1246: “L'oggetto del contratto deve essere possibile,
lecito, determinato o determinabile”. cioè:
- Possibile, nel senso di materialmente suscettibile all’esecuzione. Si faccia attenzione però –
nell’ambito della possibilità negata (impossibilità) – alla distinzione tra impossibilità
originaria (che comporta la nullità del contratto in quanto l’oggetto non sia possibile) e
impossibilità sopravvenuta (la quale può portare all’estinzione dell’obbligazione);
- Lecito cioè deve rispettare le norme imperative, l’ordine pubblico e il buon costume, cioè
quelle norme imperative che non possono essere derogate dalle parti in quanto espressione di
principi ritenuti non negoziabili;
Determinato o determinabile: è necessario che le parti definiscano l’oggetto del contratto, o comunque che – se anche non
espressamente definito – questa prestazione sia determinabile nel corso dello svolgimento del contratto. Con riferimento a questo
profilo, si ritiene – ad esempio - che la prestazione di cose future sia ammessa, a meno che non vi siano limiti specifici. L’oggetto
dev’essere determinato dalle parti come espressione della loro volontà autonoma; tuttavia, non si esclude la possibilità di delegare la
determinazione dell’oggetto ad un soggetto terzo, definito arbitratore (la cui capacità determinativa viene definita arbitraggio).
Bisogna fare attenzione a non confondere questa figura con quella dell’arbitro che compie un arbitrato: mentre il primo è il soggetto
terzo che determina la prestazione in un contratto, il secondo è una sorta di giudice privato che ha il compito di risolvere una
controversia nell’ambito del contratto (attraverso un lodo arbitrale). L’arbitratore compie un’attività che può essere demandata al
terzo in due modi:
- Si può chiedere al terzo di procedere con equo apprezzamento;
- Si può chiedere al terzo di determinare l’oggetto alla luce del suo mero arbitrio.
È chiaro che le parti potranno impugnare (cioè rivolgersi al giudice lamentandosi della determinazione dell’oggetto) in modo diverso:
nel primo caso potranno lamentare la determinazione iniqua o erronea; nel secondo caso – invece – potranno a lamentarsi solo in
caso di comprovata malafede del terzo.

L’incapacità e i vizi del consenso

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Esistono circostanze in presenza delle quali un contratto, che pur presenta tutti i requisiti previsti
dalla legge, è comunque invalido  contratto NO atto di autonomia, cioè la volontà di concludere il
contratto è viziata in quanto frutto di insufficiente comprensione delle circostanze o coartazione.
Incapacità  in caso di incapacità legale di agire, il contratto è sempre invalido (salvo il
minore abbia con raggiri occultato la sua minore età)
Vizi del consenso violenza, dolo ed errore
- Violenza: è la minaccia utilizzata per costringere un altro a concludere un contratto
(anche minaccia di far valere un diritto).
- Dolo: raggiro utilizzato per convincere l’altra parte a concludere il contratto. Se il
raggiro è solo su alcune condizioni, il contratto è valido ma è previsto un
risarcimento danni.
- Errore: l’errore è di due tipi

I tipi di invalidità
Se un contratto è invalido ciò significa che i suoi efffetti possono essere posti nel nulla (es contratto
di compravendità è nulla ciò significa che non è avvenuto nessun trasferimento). Detto questo, chi
può agire davanti al giudici per far valere l’invalidità del contratto? Entro quali limiti? È possibile
sanare l’invalidità? Le questioni sono le stesse in tutte le ipotesi di invalidità, mentre le risposte
non sono uguali. Il diritto ha costruito due grandi modelli di invalidità, applicate in modo
tendenzialmente coerente nelle diverse ipotesi. Distinguiamo: nullità e annullabilità

NULLITÀ: casi in cui mancano gli elementi essenziali oppure è illecito o comunque impossibile da
eseguire.
- Quando manca uno dei requisiti essenziali;
- Quando l’oggetto è illecito, impossibile, indeterminato o indeterminabile;
- Quando la causa è illecita;
- Quando vi è un motivo illecito esclusivo e comune alle due parti;
- Tutte le altre volte in cui un contratto è contrario a norme imperative o comunque la legge lo
preveda;
Ecco perché in questi casi si prevede che:
- La nullabilità possa essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (legittimazione ad
agire) eventualmente anche terzi o dal giudice d’ufficio.
- Non esistano limiti di tempo (Prescrizione).
- Il contratto nullo non possa essere reso valido (sanabilità dell’invalidità) al massimo
rinnovarlo, pur producendo effetti solo a partire dalla data della nuova conclusione.
- La nullità sia sempre opponibile (opponibilità ai terzi).

ANNULLABILITÀ:
- In caso di incapacità;
- In casi di vizi del consenso;
In caso di annullabilità si prevede che:
- Il contratto possa essere annullato solo su richiesta della parte nel cui interesse
l’annullabilità è stabilità (legittimazione ad agire).

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- L’azione si prescriva in cinque anni (prescrizione).
- L’annullabilità possa essere sanata attraverso la c.d. convalida, una volta venute meno le
ragioni annullabilità ed essendo a conoscenza dell’annullabilità, la parte che potrebbe agire
dia volontariamente esecuzione (sanabilità dell’invalidità).
- L’annullamento non pregiudichi i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, ad
eccezione dell’annullabilità per incapacità legale, trattata come la nullità (opponibilità ai
terzi).
Come si comprende le risposte sono collegate tra loro. Nel momento in cui solo una delle due parti
ha il diritto di chiedere l’annullamento, ha senso consentire a quella stessa parte di rinunciare
all’annullamento attraverso la convalida e un termine di prescrizione, per non lasciare
nell’incertezza l’altra parte.

Invalidità che riguarda singole previsioni del contratto: ovviamente il problema non si pone per
l’annullabilità ma solo per la nullità  nullità parziale, quando solo alcune previsioni del contratto
sono vietate da norme imperative. Come regola generale è previsto che “la nullità di singole
clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero
concluso senza quella parte del contratto che è colpita dalla nullità” anche se “la nullità di singole
clausole non importa la nullità del contratto quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da
norme imperative” (art. 1419 c.c.). (es: interessi usurai; limiti di tempo per contratti di locazione)

Gli effetti del contratto e le conseguenze dell’inadempimento


Il contratto è vincolante tra le parti (ha forza di legge). Può essere sciolto solo d’accordo tra le parti
o nei casi previsti dalla legge. Precisa il codice che il contratto “obbliga le parti a tutto quanto è nel
medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in
mancanza, secondo gli usi e l’equità” (art 1374 c.c.). D’altra parte, il contratto “deve essere
eseguito secondo buona fede” (art. 1375 c.c.). Dunque, alle previsioni previste tra le parti si
aggiunge quanto previsto dalle norme giuridiche ricavabili dalla legge, e, in quanto compatibili,
anche dagli usi praticati in quel luogo e in quel settore degli affari. Inoltre, il richiamo ad equità e
buona fede implica che il nostro diritto non pretende tra le parti sol quanto strettamente ricavabile
dal testo del contratto e dalle leggi ma anche un atteggiamento ragionevolmente collaborativo, volto
a proteggere gli interessi dell’altra parte quando questo non pregiudichi seriamente i propri.
Il contratto può essere fonte di obbligazioni a carico di una o entrambe le parti e può determinare il
trasferimento della proprietà o di altri diritti reali. Come tutte le obbligazioni, anche quelle che
nascono dal contratto devono essere adempiute con “la diligenza del buon padre di famiglia” (art
1175 c.c.), cioè propria dell’uomo medio, pur con la precisazione che in caso di attività
professionali, “la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”.
Si avrà inadempimento in diverse ipotesi: ad esempio ritardo nello svolgimento della prestazione,
ma anche se la prestazione è eseguita in modo scorretto o inadeguato. Di fronte all’inadempimento,
l’altra parte può scegliere se chiedere: l’adempimento o la risoluzione del contratto (art 1453 c.c.).
La legge precisa però, che la risoluzione non può avvenire se l’inadempimento ha “scarsa
importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte” (art 1455 c.c.), quindi per la risoluzione
ci vuole un inadempimento di una certa gravità. Lo strumento per risolvere questo problema si
chiama diffida ad adempiere (art 1454 c.c.), per cui dopo che si è realizzato l’inadempimento,
l’altra parte può intimare per iscritto di adempiere in un congruo tempo, di norma non inferiore a 15
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giorno, con la precisazione che se questo non avviene, il contratto s’intenderà senz’altro risolto.
D’altra parte, le parti possono inserire nel contratto una c.d. “clausola risolutiva espressa” (art
1456), in cui precisano che una determinata forma di inadempimento comporterà la risoluzione del
contratto, o un “termine essenziale” (art 1457 c.c.) cioè quando risulti dall’oggetto del contratto o
da specifica indicazione delle parti che queste hanno inteso considerare assolutamente inderogabile
il termine, escludendo l’utilità di una prestazione tardiva. In caso di inadempimento si può chiedere
inoltre il risarcimento del danno (responsabilità contrattuale).

Contratti che comportano il trasferimento della proprietà di una cosa (es vendità).
Si potrebbe pensare che una volta trasferità la proprietà e consegnato il bene, non si possa più
parlare di inadempimento, ma esistono norme apposite che attribuiscono ulteriori tutele al
compratore. In particolare:
- È previsto che se la cosa presenta dei vizi cioè dei difetti, che “la rendano inidonea all’uso a
cui è destinata o ne riducano in modo apprezzabile il valore” (art. 1490 c.c.), il compratore
possa chiedere la risoluzione del contratto o una congrua riduzione del prezzo, oltre al
risarcimento del danno. Questa tutela però è esclusa se il compratore conosceva i vizi della cosa
o erano facilmente riconoscibili. Si noti che il diritto non riconosce il diritto di ottenere una
riparazione o sostituzione della cosa difettosa a meno che le parti non lo prevedano
espressamente (es: diritti consumatori). Inoltre, il diritto pone dei limiti di tempo rigorosi per
reagire ai vizi: il compratore deve segnalare i vizi a venditore entro 8 giorni e agire contro di lui
entro un anno.

Risoluzione per impossibilità sopravvenuta.


Cosa succede se una delle prestazioni diventa impossibile? “la obbligazione si estingue quando per
causa non imputabile al debitore la prestazione diventa impossibile” (art 1256 c.c.). “nei contratti
con prestazioni corrispettive la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione
dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta” (art
1463 c.c.). si deve trattare però di una causa non imputabile al debitore, un evento incontrollabile e
indeterminabile, che quindi esclude ogni responsabilità contrattuale.

I contratti dei consumatori

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LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE
Nell’analisi delle obbligazioni e del contratto, siamo partiti da una riflessione circa la lettura dell’art.1173 del Codice civile. In
particolare, abbiamo visto come siano fonti delle obbligazioni: il contratto, il fatto illecito e ogni altro atto idoneo a costituire rapporti
obbligatori nel nostro sistema. Abbiamo visto come il contratto abbia una serie di caratteristiche tali da renderlo uno strumento utile
nella società e diffuso per consentire tutta una serie di attività economiche e di trasferimento di beni. A partire da questo momento
focalizzeremo la nostra attenzione sulla fonte del fatto illecito, in particolare in riferimento alla responsabilità extracontrattuale,
ovvero l’ipotesi in cui un soggetto subisca un danno a seguito di una condotta tenuta da un altro consociato, a prescindere
dall’esistenza di un precedente rapporto tra le parti.
La responsabilità extra contrattuale sorge in presenza di un fatto illecito che danneggia un soggetto
con cui non si aveva precedentemente rapporto. La conseguenza normale è l’obbligo di risarcire il
danno, o in alcuni casi l’obbligo di ripristinare la situazione precedente all’illecito o altre forme di
riparazione. (responsabilità contrattuale  inadempimento di un’obbligazione). Alcune
disposizioni sono simili alla responsabilità contrattuale, per alcune ipotesi (art 2056 c.c.).

Le norme di riferimento sono molto poche, in particolar modo le si ritrova dall’art.2043 fino
all’art.2059: sono quindi solamente quindici articoli che regolano una disciplina molto più ampia e
frequente della quotidianità. Si tratta, generalmente, di argomenti molto trattati in dottrina e oggetto
di moltissima giurisprudenza, proprio perché si parla di ipotesi in cui si richiede un danno senza un
precedente rapporto obbligatorio e dunque spesso si richiamano queste norme per cercare di capire
effettivamente i rapporti di responsabilità tra le parti, al punto che tale responsabilità viene definita
extracontrattuale (per distinguerla dalla responsabilità per inadempimento, ai sensi dell’art.1218),
oppure civile (definizione impropria, ma che dà l’idea della rilevanza di questa responsabilità).

La norma fondamentale in materia di responsabilità extracontrattuale è l’art 2043 c.c.:


“qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha
commesso il fatto a risarcire il danno”.
Da questa norma possiamo derivare la centralità di alcuni elementi: la centralità di un fatto (illecito)
imputabile al danneggiante che cagioni un danno ad altri; il dolo o la colpa del danneggiante; il
nesso causale tra fatto ed evento dannoso e il danno. Solo in presenza di tutti questi elementi
necessari si potrà parlare di responsabilità extracontrattuale (dunque perché si possa avere diritto al
risarcimento del danno).

 Quando un fatto può definirsi doloso o colposo? (volontarietà o imputabilità danneggiante).


 In quali limiti si può dire che un fatto ha causato un danno? (rapporto di causalità
giuridicamente rilevante?)
 Quando un danno è ingiusto?
 Quando si può dire che esiste un danno rilevante e come si quantifica il risarcimento?

Il fatto è ciò che materialmente cagiona il danno, il quale può essere derivante dal comportamento
dell’uomo (in tal caso parleremo di atto) o un fatto materiale/naturale (cui la legge imputa la
responsabilità ad un soggetto). La condotta (ovvero l’atto) può essere, a sua volta, di due tipi:
condotta commissiva (quando materialmente un soggetto compie un’attività di facere), oppure una
condotta omissiva (quando si ha un’attività di non facere). Quest’ultima diviene rilevante laddove

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sia posta in essere in violazione di un obbligo giuridico imposto dall’ordinamento, oppure qualora si
vìolino regole di diligenza e correttezza previste dall’ordinamento.
Tuttavia, tale fatto non dev’essere solamente presente, ma dev’essere anche illecito: vi sono una
serie di casi in cui il fatto illecito è espressamente tipizzato dalla legge. Per esempio, l’art.182//c.2
del Codice Penale, dispone che ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non
patrimoniale, obbliga al risarcimento del danno. Si intende pertanto che, in casi di illecito penale,
sia previsto conseguentemente l’illecito civile (risarcimento del danno).

La definizione di dolo e colpa è fornita dal codice penale (40c.p.) e può essere applicata anche ai
fini della responsabilità civile. Un fatto è doloso quando l’evento danno è dall’agente “preveduto e
voluto come conseguenza della propria azione od omissione”. Un fatto è invece colposo se l’evento
dannoso “non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia,
ovvero inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Dunque si ha dolo se l’evento è previsto e voluto (qui voluto significa accettato, non deve essere il
fine specifico della mia azione); colposo sempre in caso di violazione di leggi, regolamenti ordini o
discipline  colpa specifica. Ma anche se non violo alcune regola specifica il fatto è comunque
colposo se si può ritenere che il soggetto non sia stato sufficientemente attento e prudente  colpa
generica. Il dolo e la colpo in qualche modo presuppongono che vi sia la capacità di intendere e di
volere infatti “non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva capacità
d’intendere o di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d’incapacità derivi
da sua colpa” (art. 2046)
La colpa generica è configurata da tre ipotesi: negligenza, imprudenza e imperizia che, a differenza
dell’inosservanza delle leggi previste dall’ordinamento, non sono specifiche.
- Negligenza: è l’assenza dell’attenzione richiesta da una certa attività;
- Imprudenza: è la mancanza delle necessarie misure di cautela;
- Imperizia: è l’inosservanza delle regole tecniche che disciplinano una certa attività.
Il parametro di valutazione delle tre categorie è ritenuto essere quello del bonus pater familia,
ovvero di un uomo mediamente coscienzioso, accorto e preparato nell’ottica anche della
professionalità richiesta in certe attività.
Ciò che è rilevante è solitamente il livello della colpa: dunque il comportamento colposo (e quindi
la prova del comportamento negligente, imprudente o imperito o dell’inosservanza di una norma
prevista dall’ordinamento) per far scattare la responsabilità extracontrattuale. La prova del dolo o
della colpa del danneggiante dev’essere fornita dal danneggiato e, a seguito di un’eventuale prova
positiva, si avrà la possibilità di richiedere un risarcimento integrale (si deve cioè cercare di
compensare pienamente il danno subito).
Quanto detto vale per la cosiddetta responsabilità per colpa, cioè l’ipotesi in cui è richiesto
perlomeno un elemento soggettivo (di dolo nei casi in cui la condotta abbia l’intento specifico di
produrre un danno; e di colpa laddove la condotta derivi dall’inosservanza di leggi e normative
previste dall’ordinamento o da un comportamento negligente, imprudente ed imperito).
Tuttavia, l’ordinamento non configura una responsabilità extracontrattuale solo nei casi di
responsabilità per colpa, perché conosce – ad esempio – le ipotesi di responsabilità oggettiva.
Sono soggetti a responsabilità oggettiva quegli individui che sono ritenuti responsabili anche in
assenza di dolo o colpa. Ne è un esempio l’art.2049:
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“I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici
e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”.
Ciò significa che – in questo caso – i datori di lavoro saranno ritenuti responsabili a prescindere da
dolo o colpa per una condotta dei loro dipendenti, purché essa sia stata posta in essere nell’esercizio
delle incombenze a cui sono adibiti. In questo caso si vuole quindi riconoscere la responsabilità ai
datori di lavoro, per il solo fatto di usufruire dei servigi dei lavoratori dipendenti. Si pone pertanto a
carico di questi soggetti una responsabilità soggettiva, cioè che – per essere fatta valere – non
richiede la prova del dolo o della colpa dei datori di lavoro.
Il tema delle figure diverse della responsabilità per colpa non si esaurisce con la responsabilità
oggettiva, infatti conosciamo ipotesi in cui si ha una responsabilità aggravata, ovvero una serie di
fattispecie in cui la posizione del danneggiato viene fortemente tutelata rispetto all’ipotesi della
regola generale (per cui spetta al danneggiato provare la colpa del danneggiante). In questo caso
non è il danneggiato a dover fornire la prova della colpa del danneggiante, ma è il danneggiante
stesso a dover fornire una prova liberatoria, cioè che l’evento si sarebbe prodotto a prescindere
dall’assenza di prova. Un esempio può essere fatto con riferimento all’art.2048//c.3:
“Il padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli
minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi. La stessa
disposizione si applica all'affiliante.
I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un'arte sono responsabili del danno cagionato
dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza.
Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di
non aver potuto impedire il fatto”.

Bisogna dire però che, in realtà, nell’ambito del diritto civile non abbiamo a che fare con un
illecito tipico (come nel caso degli illeciti penali, i quali sono espressamente previsti dalla legge),
ma vige l’atipicità dell’illecito civile. Un riscontro sembra essere dato proprio dall’art.2043,
laddove ci si riferisce a “qualunque fatto doloso o colposo”, esprimendo una sorta di clausola
generale con cui si cerca di comprendere quando effettivamente un fatto è illecito. È necessario
dunque capire quando un danno può essere ritenuto ingiusto. A riguardo vi è stata un’ampia
evoluzione dottrinale e giurisprudenziale. In particolare, si è ritenuto – già da tempi piuttosto
risalenti – che il danno ingiusto fosse il danno arrecato contra ius (violando un diritto del
danneggiato) e non iure (non giustificato da altre ragioni). Conseguentemente si è cercato di
comprendere quando un danno fosse contra ius, ritenendo che comportasse un danno ingiusto la
lesione di diritti assoluti (diritti della persona e diritti riguardanti lo status della persona) e diritti
reali. Solo a seguito di un’importante pronuncia dei primi anni Settanta, si è ammessa la
risarcibilità dei diritti di credito, ovvero ipotesi in cui si prevede la possibilità di configurare una
responsabilità extracontrattuale a seguito di un fatto che ha cagionato l’estinzione del diritto di
credito (si veda il “caso Meroni”).
L’evoluzione giurisprudenziale, nell’ottica di ampliare la configurazione del danno ingiusto non si
fermò a questa prima pronuncia. Dunque, oggi non si ritiene più danno ingiusto solamente la
violazione dei diritti assoluti e reali, ma si reputano risarcibili anche la lesione di situazioni di
fatto e – ancor più recentemente – le ipotesi di lesione di interesse legittimo: ipotesi in cui,
indirettamente, si tutela l’interesse del privato ad un’attività espressa nell’interesse generale da parte
della pubblica amministrazione. Dopo la sentenza 500 del ’99 si attribuisce a questo privato un
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diritto al risarcimento del danno (ai sensi dell’art.2043) per violazione del suo interesse.
Conseguentemente dobbiamo dire che la nostra giurisprudenza si è sempre più ampliata, ritenendo
il concetto del danno ingiusto una figura comprensiva di qualsiasi interesse che – pur non essendo
protetto come un vero e proprio diritto soggettivo – può essere tutelato dall’ordinamento. In questi
casi è possibile rintracciare una serie di indici normativi che, nel nostro sistema, tutelano certe
posizioni e interessi e - riconoscendoli - ne garantiscono la risarcibilità.
Tuttavia, per risarcire il danno (ai sensi dell’art.2043) non basta che il fatto sia compiuto contra ius,
ma dev’essere anche un danno realizzato non iure, cioè non dev’essere compiuto come
espressione di un diritto. Si intravedono così quelle che vengono dette cause di giustificazione
[alcune delle quali sono disciplinate agli art.2044 (in materia di legittima difesa) e 2045 (in
materia di stato di necessità)], le quali fanno venir meno l’antigiuridicità della condotta del
soggetto, dunque la condotta non è più contra ius, ma diviene iure (ovvero giustificata
dall’ordinamento). Queste cause sono rappresentate dall’esercizio del diritto. Vi sono però anche
altre cause di giustificazione: si pensi, ad esempio, alla figura legata all’adempimento del dovere,
cioè l’ipotesi in cui da una norma di pubblica utilità deriva l’obbligo di compiere una certa attività.
In questo caso, il soggetto danneggiante si limita a realizzare l’attività richiesta dalla pubblica
autorità e, nel recare un danno, viene giustificato dall’ordinamento stesso.
All’art.2044 viene poi fatta menzione della figura della legittima difesa: in questa ipotesi si
realizza la fattispecie per cui, a fronte di una lesione illegittima alla persona o ai beni di un
consociato, la legge assicura alla vittima (o ad un testimone) di intervenire al fine di sventare o far
venir meno l’aggressione. Così facendo si possono cagionare dei danni all’aggressione, di cui però
la vittima dell’aggressione non risponderà in via risarcitoria. Ne deriva che – affinché si realizzino
gli estremi dell’art.2044 – saranno necessari: un’illegittima aggressione ad un soggetto o al
patrimonio del consociato; una situazione di pericolo attuale (derivata dall’aggressione stessa);
l’inevitabilità della situazione di pericolo (cioè che questa non fosse in alcun modo evitabile); la
non-imputabilità al soggetto aggredito della situazione di pericolo; la strumentalità dell’offesa (che
dev’essere stata volta a neutralizzare l’aggressione) e, infine, la proporzionalità fra difesa ed offesa.
Se ricorrono questi presupposti, l’aggressione del soggetto aggredito, potrà essere giustificata
dall’ordinamento.
Un’ulteriore ipotesi riguarda il consenso dell’avente diritto, il cui caso tipico è rappresentato dal
paziente sottoposto ad operazioni. Nel caso in cui si riceva il consenso dell’avente diritto,
l’eventuale condotta volta a recare un danno, può essere giustificata dall’ordinamento.
Inoltre, vi sono tutta una serie di altre ipotesi rappresentate soprattutto dalla partecipazione ad
attività pericolose. In questi casi i soggetti giustificano automaticamente gli eventuali danni che si
possono subire a seguito di questa attività, per cui non saranno dovuti risarcimenti.
L’ultima ipotesi da evidenziare, con riferimento all’art.2045, è lo stato di necessità, ovvero l’ipotesi in cui il soggetto che ha compiuto
il fatto dannoso è costretto a compierlo dalla necessità di salvare sé o altri dalla situazione di pericolo attuale di un danno grave alla
persona. Si tratta di un’ipotesi che può essere – per alcuni tratti – similare alla legittima difesa. In realtà non è espressamente così:
in particolar modo, non si tratta – in questo caso – di ricevere un’aggressione, ma è data dalla necessità di salvare sé o altri da un
pericolo attuale con conseguente danno grave. In altri termini, saranno necessari determinati presupposti: il pericolo alla vita, alla
salute e all’integrità fisica del danneggiante o di un terzo; la situazione di pericolo dev’essere seria, attuale e imprevedibile, nonché
inevitabile ed involontaria; infine, ci dev’essere una proporzionalità fra il fatto dannoso e il pericolo.
Tuttavia, nell’ipotesi di stato di necessità – a differenza della legittima difesa – il terzo è innocente: ne deriva che sarà dovuto al terzo
danneggiato un’indennità. Ciò comporta che – mentre nelle ipotesi finora osservate si esclude l’ingiustizia del danno e l’antigiuridicità
della condotta, comportando la giustificazione del comportamento e conseguentemente configurando una causa di giustificazione –
vi è un qualche dibattito riguardo l’effettiva riconduzione dello stato di necessità alle cause di giustificazione, proprio perché in ogni
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caso è dovuta un’indennità la cui assenza comporterebbe (senza colpa) un danno al terzo innocente. Ai fattori sopra elencati, che
comportano la dichiarazione dello stato di necessità, è necessario aggiungere anche l’imputabilità del fatto, cioè è essenziale che il
soggetto – nel momento in cui ha commesso il fatto – fosse capace di intendere e di volere. In altri termini, il danneggiante
dev’essere in grado di comprendere quale fosse la portata della propria condotta (e per questo dev’essere imputabile). Ciò che è
rilevante, quindi, è la capacità naturale del soggetto, che coincide con quella delittuosa (non è un problema legato alla capacità di
agire). Chiaramente, qualora il soggetto non sia capace di intendere e di volere, non potrà essere ritenuto responsabile e dunque
tenuto al risarcimento del danno. Non può però essere considerata una valida causa per escludere l’imputabilità del danneggiante
l’ipotesi in cui l’incapacità sia stata determinata dal soggetto stesso (ad esempio, i casi di droga e alcool), in casi del genere il
soggetto viene comunque ritenuto consapevole e dunque imputabile del danno arrecato. Tuttavia, sempre all’art.2043, si richiama
espressamente l’elemento soggettivo. In altri termini, richiede che il soggetto danneggiante fosse in dolo o in colpa (quindi che
avesse un comportamento doloso o colposo) per essere ritenuto responsabile. Ciò significa che, in questo caso, si parla di un dolo
molto diverso: mentre nel caso dei vizi della volontà il dolo è rappresentato da raggiri funzionali volti a creare una volontà distorta,
nell’ottica della responsabilità extracontrattuale il dolo è rappresentato dall’intenzionalità della condotta, cioè il soggetto compie un
atto con il fine specifico di produrre un determinato evento dannoso. Non è però necessario che abbia espressamente il fine di
danneggiare, ma è sufficiente che vi sia l’intenzionalità della condotta e quindi che il soggetto abbia – ad esempio – accettato il
rischio che, a seguito della sua condotta, può verificarsi un certo danno. Sono molto rare le ipotesi di illecito doloso, cioè i casi in cui
è sufficiente la colpa del soggetto per far scattare il risarcimento del danno. Vi sono però ipotesi in cui non è materialmente possibile
agire secondo una condotta di colpa. Queste sono le ipotesi degli atti emulativi: cioè i casi in cui un soggetto che voglia arrecare un
danno ad un terzo, se configura un atto emulativo (il cui elemento fondamentale è la volontà di recare un danno), l’illecito che si crea
è necessariamente doloso. In altri termini, la colpa rileva nelle ipotesi in cui vi è una mancata correlazione tra condotta e standard di
comportamento richiesto dall’ordinamento.

Il nesso di causalità
Nell’indicare gli elementi fondamentali della responsabilità extracontrattuale, abbiamo fatto
espresso riferimento al nesso di causalità: la connessione che si stabilisce tra il fatto e l’evento
lesivo; Quando possiamo dire che il fatto A causa è causa del fatto B? Il tema, però, non è semplice
dal momento che da una causa principale possono originarsi una serie di concause. Il nesso viene
poi distinto in materiale e giuridico. Ciò che è rilevante, ai fini del nesso materiale, è che si realizzi
la conditio sine qua non, cioè l’ipotesi per cui – senza il verificarsi di una data causa – si sarebbe
potuto in qualche modo verificare un certo atto. Il codice civile richiede che i danni siano
“conseguenza immediata e diretta” (art 1223 c.c.)
La giurisprudenza fa riferimento al giudizio sulla causalità materiale, valutando se l’evento si
sarebbe verificato o meno in assenza di una determinata condotta. Una volta dimostrato che
l’evento sia conditio sine qua non, si richiede anche che rispetti il criterio del “più probabile che
non”. In altri termini, non si ritiene come dall’ipotesi del diritto penale, che debba valere il
principio “dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio”. Nell’ambito del diritto civile vige un criterio
meno rigoroso, per cui è sufficiente che si realizzi il criterio del “più probabile che non” (art 533
c.p.p.), ovvero: è più probabile che, in assenza di quella condotta, non si sarebbe verificato un
certo effetto. Tuttavia, è importante capire come questo attenga alla causalità materiale, cioè a
quella casualità che deve avvenire tra il fatto e l’evento.
Un altro profilo è quello della logica di comprendere se, in caso di diverse condotte che sono state
collegate ad un certo evento per via della causalità materiale, quali tra le condotte che hanno
comportato l’evento sono giuridicamente rilevanti, per questo si parla di causalità giuridica. La
valutazione, a questo punto, viene compiuta attraverso il criterio della causalità adeguata o della
regolarità causale: ovvero, si valuta se una determinata condotta sia normalmente adeguata a
comportare un determinato evento dannoso. Solo nel caso in cui la condotta sia conditio sine qua
non dell’evento e che normalmente comporti un determinato danno; allora, solo all’esito

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positivo di questo doppio giudizio (di causalità materiale e causalità giuridica, in particolare
adeguata), sarà possibile ipotizzare un risarcimento del danno.

Sono poi interessanti le discipline che possono derivare dal rinvio della disciplina per
inadempimento (o responsabilità contrattuale). In particolare, con riferimento agli articoli
2055/2056, si torna su alcune regole che possono essere inserite nel contesto:

2055: “Se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento
del danno.
Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura
determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall'entità delle conseguenze che ne sono
derivate.
Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali”.

2056: “Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli
articoli 1223, 1226 e 1227.
Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso”.

All’art.2055//c.1 torna la regola delle obbligazioni solidali, laddove il fatto dannoso sia imputabile a
più persone. In particolare, si evidenzia la necessità di configurare – nell’ottica dei rapporti interni
dei soggetti che hanno compiuto il fatto dannoso – una misura determinata in base alla gravità della
rispettiva colpa e dell’entità delle conseguenze derivate. In ogni caso, le singole colpe – ove non vi
siano elementi per desumerle – si presumono uguali. Inoltre, l’art.2056 rinvia – e in alcuni casi non
rinvia – ad alcune norme fondamentali in materia di risarcimento dei danni. Ciò significa che in
materia di responsabilità extracontrattuale valgono le regole sul nesso di causalità (si risarciscono
solo le conseguenze immediate e dirette); il giudice può valutare equitativamente – in assenza di
strumenti specifici per quantificare il danno – e valgono le regole del concorso di colpa del
danneggiato (se il soggetto danneggiato concorre al verificarsi del danno, il risarcimento potrà
essere ridotto o azzerato). Fra gli articoli richiamati, però, non si fa riferimento all’art.1225 in
materia di prevedibilità del danno. L’articolo prevede che, in caso di mancato adempimento,
saranno risarcibili solo i danni prevedibili, a meno che non si tratti di un inadempimento doloso. Ciò
significa che il mancato richiamo sia stato interpretato in modo che, nell’ipotesi di responsabilità
extracontrattuale, siano risarcibili tutti i danni (prevedibili e non).

- Il danno
Abbiamo visto come un danno richiamato più volte sia il danno che rappresenta sostanzialmente
l’evento dannoso (danno-evento), altro discorso va fatto invece per il danno-conseguenza, il quale
dev’essere oggetto di risarcimento. Questo danno rappresenta pertanto l’alterazione negativa della
situazione del soggetto danneggiato, quindi ciò che si evidenzia come violazione (e quindi
riduzione) della situazione pregressa.

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La perdita di chances, invece, è sostanzialmente la perdita di un’occasione concreta ed effettiva di
conseguire un determinato bene o un risultato utile. Secondo la moderna giurisprudenza, in questi
casi si ritiene che – se vi è un’elevata probabilità di avveramento dell’occasione – sia risarcibile
anche la semplice perdita di chances.
Il danno è da distinguere in un danno patrimoniale e non patrimoniale, a seconda che vi sia la
lesione di interessi giuridici ed economici del danneggiato (danno patrimoniale), oppure di interessi
della persona non connotati da rilevanza economica (danno non patrimoniale). Questa distinzione
può risultare centrale perché, come vedremo, i due danni vengono disciplinati diversamente: il
primo (patrimoniale) fa riferimento alle normative finora osservate, il secondo (non patrimoniale) fa
riferimento ad un’unica norma all’art.2059 (“Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo
nei casi determinati dalla legge”). Vedremo poi come, in realtà, questa disposizione sia stata
largamente superata dalla giurisprudenza, la quale ha previsto una risarcibilità più ampia anche per
il danno non patrimoniale.
Il risarcimento del danno (che può essere prevedibile e non) può avvenire per equivalente o in
forma specifica: per equivalente è il risarcimento rappresentato dalla compensazione tramite il
versamento di una somma di denaro al soggetto in grado di compensare il pregiudizio subito; in
forma specifica, invece, è rappresentato dalla rimozione diretta del pregiudizio verificatosi.
Statisticamente, l’ipotesi più diffusa è quella del risarcimento per equivalente, mentre il
risarcimento in forma specifica è assai meno diffuso. Quest’ultimo viene disciplinato all’art.2058:
“Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte
possibile.
Tuttavia, il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la
reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”.
Da ciò deriva che il risarcimento per eccellenza venga rilevato nel risarcimento per equivalente
(cioè nel versamento della somma di denaro al fine di compensare i pregiudizi sofferti dal
danneggiato), perché il risarcimento in forma specifica è sottoposto a due ordini di limiti: il primo
legato alla possibilità (o meno) di realizzarlo; in secondo luogo questo risarcimento può risultare
eccessivamente oneroso per il debitore rispetto al risarcimento per equivalente.
In ogni caso, la regola generale è quella di un risarcimento integrale: si deve cioè cercare di mettere
la vittima dell’illecito in una condizione per cui questi non riceva né più né meno di quanto
necessario per reintegrarlo nella situazione che si sarebbe avuta qualora l’evento non si fosse mai
verificato.
Se questa è la regola generale, non sono da escludersi però ipotesi in cui la vittima possa ricevere un
risarcimento maggiore (eventualità piuttosto limitate, come nei casi punitivi).

Un ultimo riferimento va fatto ai danni non patrimoniali (cioè che riguardano la lesione di
interessi non aventi rilevanza economica). L’art.2059 è l’unica norma che disciplina espressamente
questi profili e si limita a prevedere che il danno non patrimoniale debba essere risarcito solo in casi
determinati dalla legge. Questo ha a lungo significato che fossero risarcibili i danni non patrimoniali
a seguito di reato, perché si prevedeva espressamente che – dal momento che il reato comportava un
illecito civile – il danno poteva essere risarcito; o i danni morali soggettivi, cioè legato alla
sofferenza transeunte dell’anima della vittima (una sorta di cifra data per il fatto stesso di subire
danni di tipo morale). In realtà, per un verso, sono letteralmente esplose le ipotesi in cui si
prevedono in diversi ambiti possibili disposizioni di legge che comportino risarcimento di danni

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non patrimoniali e, d’altra parte, la giurisprudenza si è molto evoluta con riferimento al risarcimento
di tutti i casi in cui si abbia lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.
Nel caso di violazione di questi diritti, infatti, dalle Sezioni Unite di San Martino del novembre
2008, si è riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale in tutti i casi previsti dalla legge e
in tutti i casi in cui si abbia la lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla legge.
Inoltre, si prevedeva un unico danno non patrimoniale: una nozione unitaria legata alla lesione di
valori che riguardano in senso lato la persona e non caratterizzati da rilevanza economica. Tuttavia,
si continuano a distinguere delle sottocategorie di danno non patrimoniale, cui si attribuiscono
soltanto delle funzioni di tipo descrittivo (cioè non si dovrebbero espressamente risarcire in modo
autonomo): il danno morale, il danno biologico (rappresentato da lesioni temporanee o permanenti
dell’integrità psicofisica del soggetto, che è però suscettibile di accertamento medico legale); e il
danno esistenziale (rappresenterebbe una compromissione della dimensione esistenziale della
persona, quindi un danno tale da sconvolgere le abitudini e lo stile di vita della persona). In questo
ambito ci si muove nell’ottica di sottocategorie descrittive, prevedendo però la risarcibilità
solamente di un unico danno non patrimoniale. Inoltre, in ogni caso, questo danno andrà allegato e
provato dal danneggiato (o colui il quale ne invoca il risarcimento). Il danno crea una serie di
ulteriori problemi con riferimento ai danni di futili o modeste dimensioni, si prevede infatti la
risarcibilità del danno non patrimoniale solo in caso di danni non bagatellari, cioè solo in caso di
danni gravi e significativi. Il problema maggiore, però, riguarda la liquidazione del danno: cioè
come procedere, una volta accertata la presenza di un danno non patrimoniale, alla quantificazione.
Un ruolo significativo in quest’ambito è da riconoscere alla valutazione equitativa del giudice, al
quale spetta stabilire la determinazione di un danno. Un contributo rilevante in tema di liquidazione
del danno non patrimoniale, e in particolare in tema di liquidazione di danno biologico, può essere
riconosciuto all’applicazione delle tabelle del tribunale di Milano: tabelle che agevolano il
difficile compito di liquidazione del danno non patrimoniale.

L’azione della responsabilità extracontrattuale, differentemente dalla responsabilità per


inadempimento (prescrizione ordinaria di dieci anni), si prescrive in cinque anni.

Un quadro generale

Una prima differenza tra responsabilità contrattuale (o per inadempimento) e responsabilità


extracontrattuale è che la prima fa riferimento soltanto alla capacità di agire (quindi alla capacità
legale), la seconda presuppone invece la capacità di intendere e di volere del danneggiante.
Nell’ipotesi di responsabilità per inadempimento il risarcimento del danno è limitato ai danni
prevedibili (per i casi prevedibili, ai sensi dell’art.1225, sono riconosciute solo le ipotesi di
inadempimento doloso), nel campo della responsabilità extracontrattuale, invece, sono risarcibili i
danni prevedibili e imprevedibili (quindi un quantum risarcibile astrattamente più ampio).
L’azione con la quale si chiede il risarcimento del danno, nel campo della responsabilità
contrattuale, è soggetta a prescrizione ordinaria decennale; nell’ambito di responsabilità
extracontrattuale – invece – la prescrizione sarà di soli cinque anni (vi sono poi ipotesi in cui questa
può restringersi ulteriormente).

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Inoltre, nell’ambito della responsabilità per inadempimento e in quello della responsabilità
extracontrattuale cambia l’onere della prova: in un caso, il soggetto creditore si limita a dover
provare il credito (il danno di cui chiede il risarcimento) e il nesso causale tra danno e
inadempimento, mentre l’altra parte dovrà provare di aver correttamente eseguito la prestazione;
mentre, nell’altro caso – invece – il danneggiato deve provare il danno, il nesso causale (tra danno
lamentato e fatto illecito) ma anche il fatto illecito stesso e la colpa (il dolo del danneggiante – a
meno che non si tratti di una colpa oggettiva) [vedi sopra].
Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, poi, non possono – secondo una giurisprudenza
consolidata – essere ritenute cumulabili: si è ritenuto che in ipotesi in cui si possa scegliere se, a
seguito di un evento, il soggetto possa avvalersi di un’azione di responsabilità o meno. Quindi nel
caso di un soggetto trasportato questo può agire avvalendosi di strumenti di tipo contrattuale
(quindi agire con azioni legate al contratto di trasporto o, in generale, con azioni di risarcimento
legate all’art.1218 e seguenti), oppure può avvalersi di uno strumento di tipo extracontrattuale,
dunque ai sensi dell’art.2043. In questi casi, viene data questa possibilità perché il soggetto
potrebbe – per una qualche ragione – preferire agire con un’azione anziché con l’altra. In ogni caso,
si dovrà espressamente indicare di quale azione il soggetto abbia intenzione di avvalersi.
Nell’ipotesi di una mancata scelta, il giudice opterà automaticamente per la responsabilità
extracontrattuale. Ovviamente, di qualsiasi responsabilità il soggetto scelga di avvalersi, i
risarcimenti non saranno cumulabili.

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La rappresentanza

Si fa riferimento ad un istituto, alla luce del quale un soggetto detto rappresentante assume il potere
di sostituirsi ad un altro soggetto detto rappresentato nel compimento di un’attività giuridica, con
effetti diretti nella sfera giuridica di quest’ultimo. Occorre distinguere questa figura da quella del
nuncius o portavoce, colui il quale si limita a dar voce ad un soggetto che viene “rappresentato” ma
– a differenza del rappresentante – non esprime una propria volontà negoziale, ma si limita a
replicare e riferire la volontà altrui. Il matrimonio per procura è un chiaro esempio di nuncius,
poiché colui al quale viene affidato il compito di presenziare, non viene data la possibilità di
manifestare la propria volontà – ma si limita a riferire la volontà del soggetto inabilitato a
partecipare.

Viene poi distinta una rappresentanza diretta: il soggetto rappresentato applica il suo potere di
esercitare attività giuridica per nome e per conto del rappresentato. Ciò significa che agisce
nell’interesse dell’altra persona, ma anche che ne spende il nome; da una rappresentanza
indiretta: pur essendo un’attività svolta per conto del rappresentato, non si ha la spendita del nome.
Ciò significa che sarà necessario un atto successivo a seguito del quale si trasferiscono questi effetti
dalla sfera giuridica del rappresentante a quella del rappresentato.
In altri termini, mentre nel caso di rappresentanza diretta il soggetto - spendendo il nome del
rappresentato e agendo per conto suo – compie una determinata attività i cui effetti si verificano
direttamente nella sfera giuridica del rappresentato; nel caso di rappresentanza indiretta a seguito
dell’attività, gli effetti si verificano nella sfera giuridica del rappresentate, per cui sarà necessario un
ulteriore atto con il quale il soggetto trasferisca gli effetti del primo negozio al rappresentato.
In qualche modo si tratta di strumenti con cui sostanzialmente si cerca di assolvere funzioni legate
alla necessità di formare un contratto laddove uno dei soggetti sia impossibilitato ad essere presente.
In questa logica, l’istituto della rappresentanza consente al soggetto di agevolare la diffusione dei
rapporti economici, garantendo un avvantaggiamento complessivo dell’economia.

È importante tenere conto del fatto che vi sono atti giuridici che non consentono di adottare figure
come la rappresentanza: il matrimonio – come abbiamo visto – è uno di questi (in quanto in
matrimonio in sé non rappresenti un contratto, il quale è invece volto ad atti di tipo patrimoniale).
Con riferimento alla rappresentanza, bisognerebbe comprendere quali sono le fonti di questa
rappresentanza. Esistono diverse origini del potere di rappresentanza, il quale può derivare:
- Dalla legge: in questo caso avremo una rappresentanza legale
- Dall’interessato: si tratta, in questo caso, di rappresentanza volontaria.
Se queste sono le due figure più note, non dobbiamo trascurare la particolare figura che da sempre è
stata rinvenuta nella rappresentanza organica: la rappresentanza che si realizza nell’ambito degli
enti. Si tratta del potere di rappresentare un ente, un’associazione, una fondazione, che spetta
all’organo dell’ente che ha il potere di compiere l’attività giuridica in ottica esterna all’interesse
dell’ente, che non va confusa con gli organi gestori.

Dobbiamo ora considerare alcune caratteristiche fondamentali che possono riguardare la


rappresentanza volontaria perché, in questa ipotesi, va compreso in quale modo sia possibile
realizzarla. La rappresentanza volontaria si realizza tramite uno strumento specifico definito

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procura, tramite il quale si conferisce ad un’altra persona il potere di rappresentare un soggetto in
un contratto, i cui effetti saranno diretti alla sfera giuridica del rappresentato. La procura può avere
forma espressa o forma tacita, in altri termini può essere espressamente conferita: un soggetto può
dare procura per iscritto; oppure può essere attribuita a seguito di comportamenti concludenti dai
quali si possa dedurre il fatto di aver affidato un incarico ad un certo soggetto. Nel caso di contratti
solenni, la procura deve avere la stessa forma necessaria per l’atto che dev’essere concluso.

Altri profili che devono essere considerati riguardano la capacità di rappresentato e


rappresentante. Dal momento che ciò che rileva sono gli effetti in capo al rappresentato, il
soggetto dev’essere capace legalmente; mentre per il rappresentante rileva solamente la soggett. La
procura, a sua volta, può essere speciale (per un unico o più determinati atti), oppure può essere
generali (per tutti gli affari del soggetto). Il soggetto può, ovviamente, revocare la procura tramite
un negozio unilaterale che ha l’effetto di far cessare gli effetti della procura stessa. Normalmente,
un altro atto che fa venir meno gli effetti della procura è la morte del rappresentante o del
rappresentato. Ovviamente, gli effetti della procura devono essere portati a conoscenza dei terzi: i
soggetti facenti parte del negozio sono tenuti ad essere consapevoli della venuta meno del
rappresentante. In caso contrario, il contratto stipulato continuerà ad essere vincolante per il
rappresentato.

È necessario poi richiamare che, se la volontà è espressa dal rappresentante, l’elemento psicologico
rilevante è proprio quello di questo soggetto. Gli eventuali vizi della volontà (che comportano
l’annullabilità del contratto) rilevano con riferimento alla volontà del rappresentante. La regola
generale è che ciò che è rilevante – eccetto casi eccezionali – è la volontà del rappresentante. Vi
possono essere casi in cui questi profili rilevano nel rappresentato, ma si tratta di casi marginali che
riguardano le ipotesi in cui sono le istruzioni (del rappresentato al rappresentante) ad essere oggetto
di questi vizi.

Il contratto concluso in conflitto di interessi e il contratto concluso con se stessi sono due ipotesi
in cui possiamo riconoscere un ruolo centrale all’istituto della rappresentanza.
Il primo si realizza nell’ipotesi in cui vi è un’oggettiva incompatibilità tra l’interesse del
rappresentato e quello del rappresentante: ovvero un contrasto ineliminabile tra l’interesse dell’uno
e quello dell’altro. La disciplina specifica di queste due ipotesi è prevista dagli articoli 1394/1395,
nei quali si prevedono regole specifiche che riguardano in particolar modo il ruolo dell’affidamento
del terzo:

- “Il contratto concluso dal rappresentante in conflitto d'interessi col rappresentato può
essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o
riconoscibile dal terzo”. Viene evidenziato come il contratto sia normalmente valido, risulta
però annullabile se il conflitto d’interessi è conosciuto o riconoscibile dal terzo. Ciò viene
fatto perché si vuole tutelare il terzo, colui il quale non è nella dinamica che ha portato al
conflitto di interessi, ma che ha pienamente diritto – nella logica del legislatore – a vedere
tutelati i propri interessi.

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Nel caso di contratto concluso con se stesso, in realtà, il soggetto che svolge l’attività di
rappresentate finisce per essere al contempo espressione di entrambe le parti e dunque diviene – per
esempio – compratore e venditore. In questo caso la regola è molto diversa:

- “È annullabile il contratto che il rappresentante conclude con se stesso, in proprio o come


rappresentante di un'altra parte, a meno che il rappresentato lo abbia autorizzato
specificamente ovvero il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la
possibilità di conflitto d'interessi. L'impugnazione può essere proposta soltanto dal
rappresentato”. In altri termini, la regola sostanzialmente si inverte. Se la norma prevista
dall’art.1394 disciplina la fattispecie prevedendo un contratto valido che può divenire
annullabile se l’incompatibilità tra i due interessi è conosciuta o riconoscibile, nell’ipotesi
del contratto con se stesso si prevede – viceversa – che il contratto con se stesso sia
regolarmente annullabile (perché si presume concluso in chiaro conflitto di interessi in
quanto il soggetto sia al contempo espressione di due parti). Tuttavia, vi sono casi in cui il
contratto rimane valido.

Un ulteriore problema legato alla rappresentanza riguarda la rappresentanza senza potere,


l’ipotesi in cui un soggetto agisca come rappresentante ma non gli sia stato dato alcun potere o
ecceda i limiti della procura. In questo caso, il contratto stipulato dal rappresentante (il quale non ne
aveva il potere, dunque concluso da un falsos procurator) produce un effetto di inefficacia in capo
al soggetto rappresentato. Tuttavia, il rappresentato - con una propria dichiarazione di volontà - può
compiere un atto in grado di convalidare quanto stipulato dal falsos procurator e dunque permette
di esplicare gli effetti del contratto. Si tratta della cosiddetta ratifica. La ratifica, anche in questo
caso, potrà essere espressa o tacita e avrà un effetto retroattivo, cioè a partire da quando il falsos
procurator ha concluso il contratto in falsa rappresentanza. Nell’ipotesi in cui il contratto non venga
ratificato, si pone il tema del risarcimento del danno, che viene affrontato all’art.1398:
“Colui che ha contrattato come rappresentante senza averne i poteri o eccedendo i limiti delle
facoltà conferitegli, è responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per avere confidato
senza sua colpa nella validità del contratto”. In altri termini, l’articolo dispone che il falsos
procurator sarà responsabile e farà scattare un risarcimento del danno nei confronti del terzo.
Chiaramente, sarà possibile effettuare questo risarcimento soltanto se tale soggetto non era a
conoscenza del fatto che il soggetto con cui aveva concluso il contratto non fosse rappresentante. Il
terzo, però, non potrà chiedere il risarcimento del danno di interesse positivo, ma dovrà limitarsi a
richiedere il rimborso delle spese sostenute e l’eventuale perdita di ulteriori contratti nel sostenere le
trattative del negozio in oggetto.

Gli effetti del contratto

Si tratta sostanzialmente delle ragioni ultime per cui si è deciso di concludere un dato accordo. La
disciplina del codice si trova agli articoli 1372 e seguenti:
“Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per
cause ammesse dalla legge.

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Il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge”

Prima di tutto, l’articolo dice che il contratto “ha forza di legge tra le parti”, ciò significa che si dà
l’idea di vincolatività del contratto stesso e a ciò è legato il fatto che esso non potrà essere sciolto
normalmente, ma solo se vi sia mutuo consenso (un accordo uguale e contrario delle parti che
decidono di comune accordo di modificare o sciogliere l’accordo) o se vi siano cause ammesse
dalla legge. La regola generale viene riassunta da un brocardo latino che dice che pacta sunt
servanda (i patti devono essere rispettati). L’articolo, però, dice anche che il contratto “ha effetti tra
le parti”. Ciò impone delle riflessioni sia per quanto riguarda l’integrazione del contratto, sia per
l’effetto ai terzi (solo nei casi previsti dalla legge).
All’art.1373 il Codice dispone del primo caso previsto dalla legge: il recesso unilaterale.
“Se a una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto, tale facoltà può essere
esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione.
Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, tale facoltà può essere esercitata anche
successivamente, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di
esecuzione.
Qualora sia stata stipulata la prestazione di un corrispettivo per il recesso, questo ha effetto
quando la prestazione è eseguita.
È salvo in ogni caso il patto contrario”.
In altre parole, le parti possono sciogliere unilateralmente il contratto in casi eccezionali; perché se
la regola è la vincolatività, il recesso non può che essere un’eccezione e tale eccezione si potrà
avere in casi previsti dalla legge o nell’ipotesi di un comune accordo, come nel caso del recesso
convenzionale: le parti si accordano per sciogliere unilateralmente il rapporto.
L’art.1373 ci fornisce un quadro piuttosto chiaro: il soggetto può prevedere il diritto di sciogliere un
contratto unilateralmente (recesso convenzionale), ma può essere anche previsto dalla legge. In
questo caso il recesso viene istituito per ipotesi specifiche: ad esempio contratto a tempo
indeterminato o periodico. A questo proposito, l’articolo specifica che in questi casi il recesso può
essere esercitato non per forza prima dell’esecuzione del negozio, ma anche durante se l’effetto è
valido nel futuro. Dice inoltre che esiste un corrispettivo per il recesso, specificato all’art. 1386:
“Se nel contratto è stipulato il diritto di recesso per una o per entrambe le parti, la caparra ha la
sola funzione di corrispettivo del recesso.
In questo caso, il recedente perde la caparra data o deve restituire il doppio di quella che ha
ricevuta”.
Si può prevedere dunque una caparra penitenziale, cioè uno strumento con il quale un soggetto –
dietro il versamento di una somma a titolo di caparra – si riconosce il diritto di sciogliere il
contratto.
Da distinguersi dalla caparra penitenziale è la multa penitenziale, la quale non realizza un
corrispettivo al recesso, ma si limita a pagare una somma nel momento in cui il soggetto decide di
recedere. questo ci permette di aprire una parentesi rispetto ad alcuni temi che riguardano
espressamente la caparra. Dobbiamo considerare altre figure: la caparra confirmatoria e la
clausola penale. La prima consiste in una somma di denaro che viene data tradizionalmente per
confermare la propria volontà di concludere un determinato contratto. Se il soggetto adempiente
versa la sua caparra con la quale effettivamente conclude il contratto, la caparra diventerà un
acconto; viceversa, se il soggetto è inadempiente (e dunque non conclude il contratto) la caparra

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avrà la funzione di quantificazione del risarcimento del danno poiché l’altra parte avrà diritto a
trattenere presso di sé la caparra. Se ad essere inadempiente è l’altra parte, questa dovrà restituire la
somma della caparra al soggetto che l’ha versata e un ulteriore acconto corrispondente al doppio
della caparra ricevuta. Questo meccanismo funziona esattamente con l’ipotesi del recesso, quindi –
ancora una volta- se recede colui il quale ha versato la caparra, quest’ultima verrà persa; viceversa,
se a recedere sarà l’altra parte, questa dovrà restituire il doppio della caparra penitenziale ricevuta.
Se il funzionamento è il medesimo, ciò che cambia è la funzione: nel primo caso ha la funzione di
confermare la volontà delle parti a stipulare un contratto; nel secondo ha la funzione di
rappresentare un corrispettivo della caparra penitenziale. Ancora distinta è la clausola penale, la
quale rappresenta un vero e proprio contratto che si prevede per liquidare convenzionalmente il
danno. In altri termini, le parti si accordano e stabiliscono una clausola exante, con la quale le parti
convengono che - in caso di inadempimento – sarà dovuta una certa cifra a titolo di penale. Dal
punto di vista pratico, quindi, la penale ha il ruolo di pre-quantificare la caparra. Si può stabilire,
però, anche una caparra per il semplice ritardo: in questo caso si prevede una caparra per cui ogni
giorno di ritardo dalla consegna del manufatto, farà scattare la penale di una somma stabilita. La
sostanziale differenza con il risarcimento del danno sta nel fatto che – come abbiamo visto – il
risarcimento del danno dev’essere provato e una volta provata, si dovrà quantificare l’entità del
danno subito; diversamente, con la penale ci si limiterà a stabilire l’inadempimento della parte, ma
non si sarà tenuti a quantificare il danno e a provarlo. In questo senso, con la penale si quantifica il
danno al momento della conclusione del contratto, limitandolo (poiché la penale è prevista per
l’inadempimento assoluto, con cui si va incontro al divieto di cumulo: cioè non si può poi
richiedere il risarcimento del danno e la penale). Viceversa, però, si potrà chiedere la penale per il
ritardo e, se provato, l’eventuale risarcimento dell’ulteriore danno.
La regola generale è quella stabilita dall’art.1383: “Il creditore non può domandare insieme la
prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice ritardo”. Dunque,
non si ha la possibilità di richiedere entrambe, ma di richiedere l’adempimento della prestazione e la
penale nel caso di ritardo.
La penale può essere eccessiva ma vige la possibilità di ridurla, come disciplinato all’art.1384: “La
penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in
parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo
all'interesse che il creditore aveva all'adempimento”.
Le ipotesi in cui una penale può essere ridotta sono essenzialmente due: se l’obbligazione principale
è stata eseguita in parte; oppure se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo. In questi
casi è possibile – per il giudice – prevedere una riduzione. Il tema posto in dottrina è con
riferimento alla richiesta di tale penale: si ritiene che il giudice possa, anche autonomamente,
ridurre la penale considerata assolutamente eccessiva. È chiaro che la penale differisca dalla
caparra, perché - mentre quest’ultima risulta come accordo tra le parti per quantificare il
risarcimento del danno – la prima è meramente una dazione di denaro.

Nell’analizzare le altre norme in materia di effetti delle parti, occorre richiamare il tema
dell’integrazione. Abbiamo visto come il contratto abbia determinate caratteristiche, si stipula in un
certo modo e i cui effetti esprimono gli accordi tra le parti. Bisogna però in qualche modo
interpretare la volontà delle parti per disciplinare il singolo contratto e interpretarlo. Tuttavia, in
alcuni casi, bisogna essere consapevoli del fatto che tutto ciò comprende solo una parte del grande

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macro-tema dei contratti che, come previsto dall’art.1374: “Il contratto obbliga le parti non solo a
quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la
legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità”, il quale va interpretato in accordanza con
l’art.1374: “Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”.
Queste norme sono volte a disciplinare l’integrazione del contratto e perfezionano gli effetti del
contratto stesso alla luce della volontà delle parti, ma anche di quanto previsto dalla legge. Ciò
significa che la legge - e in particolar modo i riferimenti che vengono fatti in rapporto
all’integrazione - possono integrare il contratto ove siano previste lacune o discipline poco chiare,
possono aggiungere delle previsioni di legge. Vi sono delle ipotesi in cui questi effetti possono
essere tali da sostituirsi a quelli previsti dalle parti, cioè si sostituisce il diritto di fonte legislativa al
diritto di fonte convenzionale (frutto dell’accordo tra le parti). Questo è possibile, ovviamente, in
casi molto limitati perché riguardano una logica di mercato piuttosto recessiva.

All’art.1376 viene affrontato il tema dei contratti con effetti reali: “Nei contratti che hanno per
oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento
di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e
si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato”.
In questo ambito vige il principio consensualistico, rivolto al fatto che – solitamente – i contratti si
concludono a seguito del semplice consenso. Vi sono tuttavia dei contratti specifici (detti, appunto,
reali) che richiedono in particolare – oltre al semplice consenso – anche la consegna del bene. Così
facendo si richiede il consenso traslativo, ma anche la vera e propria traditio, cioè il trasferimento
del bene che costituisce il momento vero e proprio di conclusione del contratto.

In conclusione, con riferimento all’art.1372 e alla forza di legge dei contratti, occorre constatare che
esistano casi rilevanti di effetti su terzi. Questo è quanto previsto all’art.1411:
“È valida la stipulazione a favore di un terzo, qualora lo stipulante vi abbia interesse.
Salvo patto contrario, il terzo acquista il diritto contro il promittente per effetto della stipulazione.
Questa però può essere revocata o modificata dallo stipulante, finché il terzo non abbia dichiarato,
anche in confronto del promittente di volerne profittare.
In caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo di profittarne, la prestazione rimane a
beneficio dello stipulante, salvo che diversamente risulti dalla volontà delle parti o dalla natura del
contratto”.

In generale, si prevede la possibilità di stipulare un contratto che abbia effetti a favore di un terzo,
quando lo stipulante abbia un interessa a favore di ciò. Tuttavia, non si deve prevedere un generico
vantaggio; ma si attribuisce al terzo un vero e proprio diritto che prescinde dalla rappresentanza,
tant’è che – affinché vi sia perfezionamento del contratto – il terzo deve dichiarare di approfittarne.
Inoltre, il soggetto che promette una determinata prestazione si assume un rischio: chi acquisisce i
diritti entra nel contratto e – di conseguenza - nella dinamica contrattuale. L’atra parte si ritroverà
quindi a poter usare solo una parte degli strumenti contro il terzo, poiché - chiaramente – non gli si
potranno imputare tutte le cose che invece si sarebbero potute imputare ad un eventuale promittente.
FIGURE DELLA FASE INIZIALE DEL CONTRATTO

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 Proposta irrevocabile: è una proposta che non è suscettibile di revoca. È disciplinata
all’art.1329: “Se il proponente si è obbligato a mantenere ferma la proposta per un certo
tempo, la revoca è senza effetto.
Nell'ipotesi prevista dal comma precedente, la morte o la sopravvenuta incapacità del proponente
non toglie efficacia alla proposta, salvo che la natura dell'affare o altre circostanze escludano tale
efficacia”
Nel caso di proposta irrevocabile, l’effetto è il fatto che l’eventuale revoca sia inefficace se la
proposta è dichiarata irrevocabile, ovvero nell’eventualità in cui il proponente si sia obbligato a
mantenere ferma la proposta per un certo tempo. Vi sono effettivamente casi in cui un proponente si
mostri propenso a rendere la sua richiesta irrevocabile: si tratta dei casi in cui il soggetto voglia
mostrarsi particolarmente interessato ad un affare e voglia dare la massima serenità decisionale
all’accettante. Chiaramente, il problema si pone con riferimento ad una serie di casi:
1. Tema legato al vincolo delle parti per un tempo relativo: un soggetto può vincolare la
controparte, obbligandola a bloccare una proposta senza consentire alcuna forma di
revoca solo per un tempo stabilito: per cui l’eventuale proposta irrevocabile senza
previsione di un termine specifico, vale come proposta semplice;
2. Temi legati all’ipotesi di morte o incapacità del proponente: disciplinato al comma 2
dell’art.1329, si riferisce ai casi in cui la proposta irrevocabile ha le caratteristiche per
essere valida, per cui questa varrà anche nei casi estremi di morte del proponente o
incapacità dello stesso. Ovviamente, la proposta resta valida in questa logica a meno che
il contratto di per sé non riguardi profili che escludono l’efficacia della proposta stessa.

 Offerta al pubblico: disciplinata all’art.1336, è un particolare tipo di proposta indirizzata –


anziché ad uno o più determinati destinatari – a dei soggetti indeterminati. Questa ipotesi
prevede anche una revoca particolare, che dev’essere fatta nelle stesse forme con cui è stata
fatta l’offerta al pubblico.

 Contratto aperto all’adesione: ipotesi di contratti (plurisoggettivi) in cui l’altro soggetto si


limita ad accettare tramite l’adesione a contratti che hanno scopi prestabiliti. La figura è
disciplinata all’art.1332: “Se ad un contratto possono aderire altre parti e non sono
determinate le modalità dell'adesione, questa deve essere diretta all'organo che sia stato
costituito per l'attuazione del contratto o, in mancanza di esso, a tutti i contraenti
originari”.

La responsabilità precontrattuale
Si ritiene che tutti questi incontri di proposte e accettazioni, prima che queste si incontrino, si
prestino ad una fase precedente – relativamente lunga - caratterizzata dalle trattative. L’estesa
durata di queste trattive può costringere le parti ad una fase precontrattuale piuttosto prolungata,
che trova disciplina agli art.1337/1338 con riferimento a due fattispecie della responsabilità
contrattuale:

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“Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi
secondo buona fede”: una formula generale che dottrina e giurisprudenza hanno cercato di
comprendere;

“La parte che, conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa di invalidità del contratto,
non ne ha dato notizia all'altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere
confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto”: delinea una fattispecie già di per sé
chiaramente individuata e specifica, laddove sostiene che – in un’ipotesi di esistenza di una causa di
invalidità del contratto (sia di annullabilità che di invalidità) – l’altra parte deve informare la
controparte. La mancata informazione il contratto comporterà una responsabilità precontrattuale.

La clausola generale espressa all’art.1337 è la fattispecie dell’abbandono ingiustificato delle


trattative: si ritiene che violi le regole generali di buonafede il fatto che il soggetto avviatore del
contratto, ad un certo punto, interrompa le trattative e abbandoni il contratto. Anche in questo caso,
secondo le normative generali, si prevede una responsabilità precontrattuale: il soggetto sarà quindi
tenuto al risarcimento del danno.

Nel corso degli ultimi anni a queste fattispecie generali si è affiancata un’ulteriore possibilità, legata
all’ipotesi in cui il contrente fosse legato ad obblighi di informazione ma - a seguito della violazione
di tali obblighi – si concludono contratti validi. Cioè: la mancata comunicazione di informazioni
non comporta – come nell’ipotesi precedente – un risarcimento del danno; il contratto che si
conclude sarà perfettamente valido, ma molto sconveniente.

Dobbiamo dire, però, che la responsabilità contrattuale ci pone una serie di ulteriori interrogativi
non indifferenti:
qual è la natura della responsabilità contrattuale? Come si quantifica il risarcimento del danno?
Natura della responsabilità contrattuale
A proposito di questo tema, dottrina e giurisprudenza hanno a lungo dibattuto in cerca di
argomentazioni. La visione tutt’oggi prevalente in giurisprudenza sembra essere quella della
responsabilità precontrattuale avente natura extra-contrattuale. Chi sostiene che la responsabilità
precontrattuale derivi da inadempimento, suppone implicitamente che ci sia un contratto, che nella
fase di trattative però non è ancora stato concluso, dunque non si può attribuire una responsabilità
precontrattuale. Questo ha ovviamente delle conseguenze pratiche importanti dal punto di vista
della prescrizione e della quantificazione del danno.
Dunque: chi sostiene che la responsabilità precontrattuale di natura extra-contrattuale si avvale del
fatto che il contratto non esista e quindi derivi da una responsabilità precontrattuale per fatto
illecito; viceversa, chi sostiene la visione della natura contrattuale, evidenzia come in realtà non ci
dobbiamo interessare di una responsabilità contrattuale vera e propria. Parliamo di responsabilità
per inadempimento nel momento in cui si dice che esiste un obbligo giuridico – previsto dagli
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articoli 1337 e 1338 – dove si prevede chiaramente che le parti debbano comportarsi secondo le
regole di buonafede e in mancanza di questa qualità si ha responsabilità per inadempimento di
obblighi previsti: che deriva dagli articoli 1218 e seguenti.

Dobbiamo ora considerare le problematiche della responsabilità precontrattuale dal punto di


vista dei profili del risarcimento del danno.
La questione puntigliosa è cercare di capire quale sia il danno risarcibile nei casi di responsabilità
precontrattuale. Non c’è dubbio che nelle ipotesi di responsabilità contrattuale cambi l’interesse
giuridicamente protetto: nei casi già esplicati di inadempimento dell’obbligazione, normalmente,
abbiamo un interesse (cosiddetto positivo) all’esecuzione di una determinata prestazione. Cioè
risarciamo l’interesse positivo che il danneggiato ha riscontrato dalla mancata esecuzione della
controparte. Nell’ipotesi di responsabilità precontrattuale, invece, il problema è legato al
risarcimento di un interesse negativo, perché il contratto di interesse della parte è diverso e non si è
configurato (e se si è configurato è un contratto invalido o comunque destinato ad esserlo). In altri
termini: se l’interesse della parte non è positivo ad ottenere l’esecuzione della prestazione dovuta,
ma è un interesse negativo; si risarcisce l’interesse negativo. In quest’ottica la perdita subita non
sarà la stessa della responsabilità per inadempimento, ma sarà rappresentata dalle spese e dalle
perdite legate al fatto che ci si è – per lungo tempo – incentrati su delle trattative rivelatesi
fallimentari; quindi si risarciranno le spese e le perdite subite nel passare tempo prolungato nelle
trattative (come danno emergente). Il lucro cessante sarà rappresentato dal fatto che non si abbia
avuto un guadagno perché impossibilitati al dedicarsi ad altre contrattazioni. È chiaro che per avere
il risarcimento sarà necessario provare di aver perso altre occasioni e altre contrattazioni per
perseguire queste trattative. Il risarcimento dell’interesse negativo legato alla responsabilità
precontrattuale è molto diverso dal risarcimento positivo legato alla responsabilità per
inadempimento: il danno emergente sarà rappresentato dalle spese e dalle perdite subite durante le
trattative e il lucro cessante sarà rappresentato dall’eventuale tempo (e quindi energie) perse per
seguire la contrattazione e che avrebbero potuto essere impiegate ad altre contrattazioni.
Questo ragionamento però non può valere per il contratto valido ma sconveniente, perché in questo
caso un contratto (peraltro valido) è stato concluso, semplicemente in maniera sconveniente.
L’interesse in questo caso non può essere negativo, dunque si ritiene che in questi casi il
risarcimento sarà commisurato al minor vantaggio o al maggior aggravio economico determinato
dal comportamento sleale dell’altra parte.

Il contratto preliminare: è un contratto da cui nascono delle obbligazioni. In particolare, è un


contratto attraverso cui le parti si obbligano vicendevolmente a stipulare un ulteriore contratto che
verrà definito definitivo. Questo tipo di contratto è molte volte necessario, perché consente alle
parti – ad esempio – di prendere tempo per recuperare le cifre o le documentazioni necessarie.
Sostanzialmente il contratto preliminare blocca l’affare (che poi sarà concluso con il contratto
definitivo), cioè realizza una procedimentalizzazione della formazione del contratto; ma è un
contratto a tutti gli effetti. Va distinto pertanto dalle minute o dalle puntuazioni, perché il contratto è
un accordo a tutti gli effetti; mentre le altre sono dichiarazioni preparatorie attraverso cui le parti
raggiungono un’intesa di massima e creano un programma contrattuale, senza un accordo vero e
proprio. Il contratto preliminare prevede come contenuto tutti gli elementi essenziali del contratto
definitivo, dunque dev’essere delineato in maniera abbastanza chiara. Al contratto preliminare
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(preliminare dei preliminari) ne può seguire un altro (a cui seguirà quello definitivo) che non
dev’essere una mera replica, ma deve cercare di avanzare e specificare ulteriormente l’operazione
economica che si vuole affrontare. La natura esecutiva del contratto viene riflessa anche dalla
forma: prevede – all’art.1351 – che il contratto preliminare abbia la stessa forma del contratto
definitivo: “Il contratto preliminare è nullo se non è fatto nella stessa forma che la legge prescrive
per il contratto definitivo”.
L’’ipotesi di inadempimento del contratto preliminare comporta la responsabilità contrattuale per
inadempimento che però prevede un rimedio specifico legato alle sue specificità: dà la possibilità –
ai sensi dell’art.2932 – di far scattare l’esecuzione in forma specifica:
“Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte,
qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti
del contratto non concluso.
Se si tratta di contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa
determinata o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, la domanda non può essere
accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di
legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile”
Ovvero: si dà alla parte la possibilità alla parte di richiedere una sentenza attraverso la quale si
esegue in forma specifica l’obbligo derivante dal preliminare; cioè il giudice – con una sentenza
costitutiva – produce gli stessi effetti del contratto preliminare e dunque realizza gli effetti del
contratto definitivo (concludendo a tutti gli effetti il contratto). Questo rimedio peculiare potrà
essere escluso dalle parti se materialmente impossibile o per accordo tra i contraenti. Nel caso in cui
si escluda l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare sarà sempre possibile procedere
per la richiesta del risarcimento del danno.
Nell’ambito di questo tema ha avuto luogo un dibattito riguardo la possibilità di trascrivere o meno
il contratto preliminare. La trascrizione era dapprima preclusa perché non rientrava negli atti
soggetti a trascrizione (previsti dall’ordinamento agli art.2643 e seguenti) il cui elenco è tassativo.
Questo però costituiva spesso un problema di doppia alienazione, per cui – intorno agli anni
Novanta – la legislatura ha stabilito che anche i contratti preliminari fossero soggetti a trascrizione.

Opzione: è uno strumento che ha sostanzialmente le stesse funzioni della proposta irrevocabile, la
quale però consiste in un atto unilaterale; l’opzione invece è un contratto di accordo a tutti gli
effetti, all’esito del quale una delle parti si vincola a tenere ferma una proposta. Solitamente prevede
un corrispettivo, dunque si ritiene che questo patto sia oneroso. La disciplina cambia quando non è
previsto un tempo stabilito, per cui il tempo di efficacia verrà stabilito da un giudice.
All’esito dell’opzione un soggetto conclude immediatamente un contratto, il che lo rende diverso
dal preliminare (il quale prevede la necessità di un contratto definitivo).

Prelazione: è una figura attraverso la quale due parti concordano di preferire un certo soggetto – a
parità di condizioni – nel caso in cui questo decida di concludere un contratto. Questa è l’opzione
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che si presenta nel caso di prelazione volontaria. Per rispettare il diritto di prelazione, il soggetto
sottoposto ad essa dovrà compiere la cosiddetta denuntiatio, cioè dovrà invitare il soggetto titolare
del diritto a concludere il contratto. Nell’ipotesi di inadempimento l’effetto sarà l’obbligo
risarcitorio: il prelazionario avrà diritto ad un risarcimento del danno. Ci sono poi ipotesi di
prelazione legale in cui il diritto di essere preferito viene conferito dalla legge (ad esempio: ritratto
successorio; affittuario coltivatore diretto di un fondo agricolo; coltivatore diretto del fondo
confinante; prelazione allo Stato nei casi di vendita di beni culturali). In questo caso si ritiene che ci
siano interessi superiori tali per cui l’ordinamento si propone di preferire determinati soggetti. A
questa visione di prelazione legale (a tutela di interessi pubblici) è data tutela reale, cioè la
possibilità per il soggetto avente diritto di prelazione di poter riscattare direttamente il bene che a lui
è preferito.

Interpretazione del contratto: (dall’art.1362 fino all’art.1371) sono le regole dell’ermeneutica,


cioè regole che servono ad attribuire e precisare un determinato significato al testo contrattuale.
Possiamo distinguere diverse regole: in particolar modo ci sono norme che configurano le regole di
interpretazione soggettiva (dall’art.1362 all’art.1365); regole di interpretazione oggettiva
(dall’art.1367 all’art.1371). L’idea è che le prime siano quelle volte a ricercare l’intento comune
dei soggetti nell’accordo, cioè quale fosse la volontà dei soggetti; quelle successive sono previste
nell’ottica ipotetica di prevedere – laddove non siano sufficienti le regole soggettive – regole volte a
desumere l’intento dei soggetti da un dato oggettivo. L’art.1366 è invece destinato alla disciplina
dell’intenzione di buona fede, cioè la regola generale che vale sia in ottica soggettiva che oggettiva,
volta a tutelare l’affidamento. Si ritiene che – anche nell’ambito dell’interpretazione – l’interprete
debba cercare di comprendere il significato adottando un approccio secondo buona fede. Le regole
di interpretazione soggettiva sono legate a quanto prevede l’art.1362, volto ad indagare quale sia
l’intenzione comune delle parti, senza limitarsi al significato letterale delle parole. Ciò significa che
indubbiamente il testo contrattuale originario sia fondamentale; ma l’interprete non deve limitarsi al
senso letterale delle parole che lo compongono; per ricostruire l’intenzione della volontà deve
avvalersi tanto del testo quando del comportamento assunto dalle parti (prima e dopo lo
svolgimento del contratto). Ancora, è necessario interpretare tutte le clausole le une per mezzo delle
altre, realizzano un’interpretazione più complessiva possibile.

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07/04/20
I rimedi contrattuali
Nell’analisi dei rimedi contrattuali, solitamente di distinguono quelli che riguardano la validità
(dunque il contratto come atto) e quelli che riguardano invece i rapporti contrattuali (l’accordo
tra le parti legato al profilo degli effetti).
Nell’ambito del contratto come atto si considerano, come figura generale, i rimedi dell’invalidità,
che si distingue in nullità e annullabilità. Per quanto riguarda i rapporti contrattuali si analizzano
generalmente i rimedi della rescissione e risoluzione (la prima, a sua volta, si distingue in
rescissione per lesione – o in stato di bisogno - e rescissione in stato di pericolo; la seconda, invece,
si distingue in risoluzione per inadempimento, per impossibilità sopravvenuta e per eccessiva
onerosità sopravvenuta).

I rimedi dell’invalidità
Sono quelle figure che si realizzano nell’ipotesi in cui determinati presupposti e requisiti richiesti
dalla legge – previsti come limiti alla libertà delle parti o al procedimento di formazione tra la
volontà delle parti - non vengono effettivamente rispettati. Si può assistere a due figure generali di
invalidità: la prima è quella della nullità, la seconda è – invece – dell’annullabilità. In entrambe i
casi si tratta dell’espressione della figura dell’invalidità del contratto.
Un riferimento può essere fatto anche alla figura dell’inesistenza, la quale non è una categoria
prevista dal Codice, ma è per lo più dottrinale. Si ritiene che possano essere oggetto di inesistenza i
contratti – e in generali gli atti giuridici – che non hanno minimamente i caratteri fondamentali
dell’atto valido, per cui si abbia difficoltà a ricostruire e considerare quell’atto (o contratto).
È importante avere presente, invece, la distinzione tra invalidità e inefficacia: se l’invalidità è quel
fenomeno che si realizza a seguito del superamento o dell’assenza di presupposti e limiti legati al
procedimento di formazione della volontà, l’efficacia rappresenta la mera idoneità del contratto a
produrre determinati effetti. Ciò significa che molto spesso invalidità ed inefficacia possono
coincidere. Tuttavia, si tratta di profili di per sé diversi, categorie distinte ma connesse (che possono
dunque non sovrapporsi): l’uno volta ad assicurarsi che non vengano superati determinati profili
legati ai limiti di requisiti necessari alla formazione della volontà contrattuale, l’altro legato invece
alla produzione di determinati effetti.
Nella figura dell’invalidità rientrano, in realtà, due figure disciplinate dal Codice: nullità ed
annullabilità.
1. La nullità: è sicuramente la figura più “forte” di invalidità, in quanto il contratto affetto da
nullità risulta assolutamente inidoneo a produrre gli effetti per i quali è stato stipulato. Le
cause di nullità sono previste espressamente dall’art.1418:
“Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga
diversamente.
Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'articolo 1325,
l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo 1345 e la
mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346.
Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”.
Il primo comma si riferisce in modo esplicito a quelle che vengono chiamate nullità
virtuali, cioè nullità dove la legge non prevede necessariamente la nullità, ma sono ritenute
valide (quindi nulle) proprio per il fatto di violare norme imperative. Il comma due prevede

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un ulteriore caso di nullità: le nullità strutturali. Queste riguardano elementi essenziali e
presupposti fondamentali del contratto.
Infine, il comma tre individua le nullità testuali, ovvero quelle espressamente previste dalla
legge.
Nel corso del tempo queste figure di nullità si sonno ampliate con diverse categorie per
diverse ragioni. In primo luogo, perché - è vero che le nullità possono essere fatte valere da
chiunque abbia un interesse, ma – come vedremo – conosceremo ipotesi di nullità relative,
dove solo determinati soggetti possono farla valere. Altre categorie, a seguito della
normativa europea, sono le cosiddette nullità di protezione, cioè volte a tutelare non solo
l’interesse generale, ma anche una parte specifica. Questa ipotesi riguarda soprattutto i
contratti conclusi dal consumatore, i quali prevedono – in particolare nell’individuare delle
clausole vessatorie – delle ipotesi di nullità di protezione, in cui è interesse del sistema
tutelare specificamente l’individuo consumatore, ritenuto più debole.
Queste figure si sono poi andate a moltiplicare: conosciamo figure di nullità specificamente
previste con caratteristiche volte a tutelare determinate categorie contrattuali anche nei
contratti di impresa, ove – per esempio - si prevede la nullità in caso di abuso di dipendenza
economica di patti stipulati dal contraente più forte (cioè un titolare in un rapporto in
posizione di forza) rispetto ad un soggetto posto in condizione di dipendenza economica.
Questi patti sono soggetti a nullità – secondo l’art.9 della legge 192 del ’98 in materia di
sub-fornitura.
L’idea di fondo della nullità di protezione – in ogni caso - è quella di tutelare una specifica
parte. Questo costituisce uno degli elementi di ibridazione della distinzione tra nullità e
annullabilità, cioè una distinzione forte nell’idea originaria dell’ordinamento che tende –
attraverso alcune figure (tra cui la nullità di protezione) ad ibridarsi, ovvero vedere profili in
cui una fattispecie viene avvicinata all’altra categoria. Tuttavia, bisogna aver presente come
la nullità possa essere sicuramente un vizio che impatta sull’intero negozio, ma questo vizio
può riguardare soltanto una o più clausole del contratto. In questo caso si avrà a che fare con
una nullità parziale, figura disciplinata espressamente dall’art.1419: “La nullità parziale di
un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto, se
risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che
è colpita dalla nullità.
La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle
sono sostituite di diritto da norme imperative”.
Una prima valutazione viene quindi effettuata in base all’ipotesi che il contratto sia stato
concluso senza la parte del contenuto colpita da nullità. Se i contraenti non avrebbero
concluso il contratto senza la parte affetta da nullità, la conseguenza sarà la nullità
dell’intero contratto. Viceversa, nel caso in cui il contratto può continuare a svolgere una
funzione apprezzabile anche in assenza della parte affetta da nullità, l’atto rimane valido
per la parte non colpita da nullità. Il tema successivo che si pone è disciplinato in parte
dall’art.1419 comma due: cioè, nell’ipotesi in cui la nullità non sia totale (dunque non renda
invalido l’intero contratto). in questo caso, la parte di contratto affetta da nullità può subire
due effetti: un’ipotesi di integrazione secondo norme dispositive (cioè le parti desumono una
regola che si possa applicare al caso concreto; un’ipotesi in cui le clausole nulle vengono
direttamente sostituite da clausole imposte dalla legge (disciplinata all’art.1339).

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L’azione di nullità ha determinate caratteristiche: in primo luogo, a seguito della nullità,
viene dichiarato nullo il contratto e – conseguentemente – sono dovute le restituzioni di
quanto compiuto. Tuttavia, in alcuni casi – come abbiamo visto - si ha restituzione solo in
casi di contratti immorali unilaterali, cioè in cui solo una parte assume comportamenti
immorali. Viceversa, nei contratti immorali bilaterali, non è prevista alcuna restituzione.
L’azione specifica di nullità è un’azione imprescrittibile, dunque non è soggetta a
prescrizione. Ciò viene dichiarato in maniera chiara all’art.1422. L’azione di nullità è, però,
anche insanabile, cioè – di base – viene esclusa ogni sanatoria. In altri termini, come
espresso all’art.1423, l’azione di nullità comporta l’impossibilità di convalida, quindi il
contratto nullo non può essere convalidato (e dunque sanato). Si tratta inoltre di un’azione di
mero accertamento, cioè l’azione di nullità si limita ad accertare – accogliendo o meno –
ciò che viene richiesto dalla parte.
In termini generali viene riconosciuta a tutti la possibilità di far valere la nullità del
contratto, a previsione dell’art.1421, destinato propriamente a disciplinare la legittimità
dell’azione di nullità:
“Salvo diverse disposizioni di legge la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha
interesse e può essere rilevata d'ufficio dal giudice”.
Dunque, un’altra caratteristica dell’azione di nullità è il fatto che possa essere rilevata
d’ufficio anche dal giudice: non è perciò necessario che sia richiesta dalle parti (chiaramente
in questi casi è necessaria una controversia derivante dal contratto).
È necessario, a questo punto, valutare se il contratto nullo possa essere oggetto di
conversione, cioè – a seguito di un processo di trasformazione – possa essere reso un atto
diverso, capace di produrre ugualmente determinati effetti. Ciò è possibile nel caso in cui si
abbia a che fare con un contratto nullo che abbia i requisiti di forma e di sostanza per essere
un contratto valido di caratteristiche diverse. Inoltre, è necessario che il contratto stipulato
non sia nullo per illiceità, ma per altre cause (ad esempio la mancanza di determinati
elementi).
In presenza di questi presupposti, sarà possibile che la parte interessata alla conversione
chieda espressamente e realizzi una trasformazione del contratto.

2. L’annullabilità: il contrasto con l’ordinamento giuridico è meno significativo e le regole


tendono a proteggere soprattutto uno dei contraenti. L’annullabilità del contratto scatta in
presenza di incapacità legale o naturale del contraente. Altre ipotesi rilevanti sono quelle
legate ai vizi della volontà del contratto: dell’errore, della violenza o del dolo. Questi sono –
al pari dell’incapacità – cause di annullamento del contratto.
L’effetto dell’annullamento è un’azione di tipo costitutivo, cioè con la quale si annulla il
contratto, il quale sviluppa i suoi effetti fino al momento in cui – con l’azione di
annullamento – si dichiara, per un verso, l’invalidità del contratto e la si modifica. In questi
casi si ha una riduzione della legittimità dell’azione: non tutti colori i quali hanno interesse
possono ricorrere all’azione, ma solo la parte nel cui interesse l’invalidità è stata prevista
dalla legge (dunque la parte che ha subito violenza, raggiri o incapacità). Ciò non toglie che
vi siano casi in cui si restringe la legittimazione attiva (come nelle ipotesi di nullità relativa):
esistono infatti ipotesi di annullabilità assoluta in cui chiunque può agire per
l’annullamento del contratto.

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Nello stesso senso va a dimostrare la minore gravità della figura dell’annullabilità rispetto
alla nullità, la previsione che la prima non possa essere rilevata d’ufficio e la prescrittibilità
dell’azione (entro i cinque anni); ma l’eccezione è imprescrittibile: dunque il soggetto può
agire per la prescrizione del contratto entro cinque anni dalla scoperta del vizio. Scaduto il
termine la richiesta non potrà essere presentata, ma potrà essere contrastata la rivendicazione
di adempimento delle prestazioni contrattuali tramite lo strumento processuale
dell’eccezione. Questo duplice sistema è volto ad evitare che le parti si limitino ad aspettare
la scadenza del termine di prescrizione per richiedere gli effetti del contratto.
Infine, a differenza della nullità, l’annullabilità è convalidabile: è possibile chiedere la
sanatoria degli effetti del contratto, come disciplinato all’art.1444. Affinché la convalida
esplichi i suoi effetti è necessario che la parte legittimata ad agire per l’annullamento
dichiari di voler concludere ugualmente il contratto (e quindi di convalidarlo), senza però
essere affetto dallo stesso vizio di cui era soggetto nel momento in cui il contratto era
annullabile. Questa richiesta può avvenire in forma espressa o in forma tacita (come
nell’ipotesi di chi dà volontariamente esecuzione di un contratto annullabile).
È necessario però sottolineare come gli effetti della sentenza di annullamento siano
retroattivi (cioè come se il contratto non avesse prodotto alcun effetto), chiaramente nella
tutela dei terzi. Anche nell’ottica del contratto annullabile sarà ammessa la ripetizione, cioè
la restituzione delle prestazioni previste.

Le cause dei vizi di volontà

Come precedentemente osservato, i vizi del consenso sono tre: errore, violenza e dolo e
sono capaci di portare all’annullamento del contratto.
Errore: è un vizio che considerando giuridicamente rilevante nell’ipotesi in cui il soggetto
cada in errore realizzando una situazione che sia, al contempo, essenziale e riconoscibile.
Che l’errore sia riconoscibile è piuttosto semplice, consistendo nell’ipotesi in cui l’altra
parte sia in grado (o meno) di rendersi conto. Le ipotesi in cui un errore sia essenziale
vengono esposte all’art.1429:
“L'errore è essenziale:
1) quando cade sulla natura o sull'oggetto del contratto;
2) quando cade sull'identità dell'oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello
stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi
determinante del consenso;
3) quando cade sull'identità o sulle qualità della persona dell'altro contraente, sempre che
l'una o le altre siano state determinanti del consenso;
4) quando, trattandosi di errore di diritto, è stata la ragione unica o principale del
contratto”.
Sia nel caso di errore essenziale che nel caso di errore riconoscibile, ciò che è importante è il
ruolo del terzo: il fatto che l’altra parte si possa affidare al contratto, rendendolo valido; a
meno che non sia in grado di riconoscere l’errore, di comprendere la causa di invalidità, di
sapere o conoscere la situazione. In realtà l’errore che abbiamo appena analizzato è un
errore specifico, generalmente- in realtà – conosciamo due figure di errore: l’errore vizio

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(appena visto, è l’errore sulla formazione della volontà) e l’errore ostativo (si ha nel
dichiarare la propria volontà, non riguarda dunque la fase di formazione).
Dolo: è anch’esso causa di annullamento del contratto. Sostanzialmente è causato dai raggiri
che un soggetto pone in essere nell’ambito di un contratto nei confronti dell’altro contraente.
È chiaro che questi raggiri sono rilevanti nel momento in cui sono determinanti, cioè se il
soggetto si convince a concludere il contratto all’esito di questi raggiri. In questo caso si
avrà un’ipotesi di contratto annullabile per dolo determinante: se il soggetto non fosse stato
raggirato non avrebbe concluso il contratto. il dolo, però, può essere anche incidente, cioè i
raggiri non sono stati tali da causare il consenso del soggetto, il quale avrebbe concluso il
contratto anche se non fosse stato edotto dai raggiri stessi ma a condizioni diverse. Ciò
significa che non vi sarà la possibilità di annullare il contratto, ma di chiedere il risarcimento
del danno. Nel caso di dolo del terzo (cioè la conclusione di un contratto con un soggetto A,
essendo stato raggirato da un soggetto B) il contratto, come previsto dall’art.1439, è
annullabile soltanto se il contraente A era consapevole dei raggiri perpetrati dal soggetto B.
Violenza: è causa, anche in questo caso, di annullamento del contratto. Sostanzialmente di
distingue una violenza fisica da una morale: il primo è un caso piuttosto raro poiché questo
tipo di violenza porterebbe alla nullità del contratto perché non sarebbe un vizio della
volontà ma questa verrebbe totalmente negata; il secondo è il caso più rilevante.
Sostanzialmente è rappresentata da minacce in grado di far pressione su una persona in
modo da farle temere – per sé o per i propri beni – un male ingiusto, poste in essere da un
soggetto contraente. In questa logica – che chiaramente va commisurata in base all’età, al
sesso e alle condizioni delle persone – le condizioni sono tali da comportare l’annullabilità
del contratto. Nel caso di violenza, il vizio è ritenuto più incisivo rispetto all’ipotesi di dolo,
dunque è ritenuto direttamente annullabile anche il contratto concluso sotto violenza del
terzo. In questo caso, quindi, non si richiede l’affidamento particolare richiesto nel caso del
dolo, ma anche se il contraente non sia a conoscenza delle minacce del terzo, la semplice
violenza posta in atto è condizione sufficiente a rendere il contratto annullabile. Bisogna
prestare attenzione, però, a non confondere la violenza come minaccia sensata con il timore
reverenziale il quale consiste in un profilo che – per quanto rilevante nella prassi – non ha
una significatività tale da incidere in maniera rilevante nella formazione della volontà
contrattuale.

I rimedi del contratto come rapporto

Sono essenzialmente due profili patologici: rescissione e risoluzione.


Rescissione: a sua volta si distingue in rescissione per pericolo o per lesione, che fanno
riferimento agli art.1447/1448. Quando si parla di rescissione, si tratta di riflettere sul fatto
che il contratto sia oggetto di autonomia privata e dunque sono i contraenti a concordare
quanto disciplinato dal punto di vista del contenuto del loro rapporto, quindi saranno loro a
determinare le prestazioni reciproche. Tuttavia, con lo strumento della rescissione, si
prevedono delle ipotesi eccezionali rispetto al sistema, in cui l’eventuale squilibrio – in
termini economici – dell’operazione, se dovuta a determinate condizioni, diventa rilevante.

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In questi casi non risulta più veritiero che il contratto sia un affare e pertanto può essere
oggetto di rimedi specifici.
Il contratto concluso in stato di pericolo è rilevante come possibile causa di rescissione in
caso di danno grave alla persona, a seguito del quale si prevede un corrispettivo esorbitante.
Altri due fattori rilevanti in questa ipotesi sono il fatto che lo stato di pericolo sia noto
all’altra parte e l’iniquità delle condizioni. Se si presentano queste tre condizioni il contratto
risulta rescindibile in stato di pericolo, ai sensi dell’art.1447.
Ipotesi diversa è quella della rescissione in caso di lesione (o per bisogno). In questi casi,
l’art.1448 lascia intendere che si richiedano altri presupposti: lo stato di bisogno della
controparte (profilo che riguarda lo stato di bisogno economico); una sproporzione
significativa tra le prestazioni (l’iniquità è quantificata espressamente: si richiede che la
prestazione sia superiore al doppio della controprestazione); l’altra parte deve approfittare
della situazione.
Entrambe le situazioni hanno caratteristiche comuni: in particolare, prevedono la possibilità
di agire per lo scioglimento del contratto entro un anno dalla conclusione del negozio; la
rescissione vale per il futuro (non ha effetto retroattivo), quindi dopo lo scioglimento del
contratto le parti non avranno un rapporto contrattuale; infine, si dà la possibilità - alla parte
avvantaggiata – di riequilibrare il contratto attraverso l’offerta di riconduzione del
contratto ad equità, espressamente disciplinata all’art.1450:
“Il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla offrendo una
modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità”.
Se il problema è l’eccessiva iniquità del contratto, l’ordinamento prevede che la parte
avvantaggiata possa riportarlo ad equità offrendo una modifica contrattuale: così facendo,
evita lo scioglimento del rapporto.
Risoluzione: consiste essenzialmente in tre figure: per inadempimento, per eccessiva
onerosità e per impossibilità sopravvenuta con riferimento ad anomalie funzionali, cioè
che intervengono tra il momento della conclusione del contratto e il momento in cui il
contratto viene definitivamente eseguito. In questa fase può intervenire un’anomalia
funzionale, dunque non più generica.
A fronte dell’inadempimento di una parte, se questo è – come previsto dall’art.1455 – di
non scarsa rilevanza, il soggetto potrà richiedere la risoluzione per inadempimento di
contratti a prestazioni corrispettivi (cioè in cui il sacrificio di una parte è giustificato dal
rispettivo sacrificio della controparte). In alternativa, in questi casi è possibile richiedere
l’adempimento delle prestazioni dovute. In entrambe i casi si potrà richiedere un
risarcimento del danno che dipenderà dal tipo di domanda: nell’ipotesi di scioglimento del
contratto il risarcimento non si aggiungerà alla prestazione, ma vi si sostituirà; nell’ipotesi di
richiesta di adempimento, il risarcimento si aggiungerà all’esecuzione della prestazione.
Occorre ora comprendere in che rapporto sono le due azioni fra di loro: cioè come può un
soggetto scegliere tra una e l’altra. Il soggetto può liberamente richiedere la risoluzione
piuttosto che l’adempimento; tuttavia, nel caso di richiesta di adempimento – se
l’inadempimento persisterà – si potrà richiedere, in un secondo momento, lo scioglimento
del contratto. Non sarà possibile, invece, richiedere prima la risoluzione del contratto e
successivamente ravvedersi e chiedere l’inadempimento, perché si vuole tutelare anche la
controparte. Dal momento che l’azione di risoluzione per inadempimento sottintende un

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disinteresse dell’altra parte ad ottenere la prestazione originaria, l’altra parte potrà ritenersi
libera dal contratto e quindi potrebbe interessarsi ad altri profili giuridici. Non si ritiene
opportuno, dunque, dare la possibilità alla parte adempiente, di chiedere prima lo
scioglimento e poi l’adempimento.
Le azioni di risoluzione possono essere richieste per inadempimento giudiziale (cioè
davanti ad un giudice il quale, con sentenza costitutiva, scioglie il contratto), o di
risoluzione autonoma che prevede tre forme: la clausola risolutiva espressa (quando il
soggetto ritiene una certa prestazione fondamentale e nel caso di inadempimento il contratto
di scioglie automaticamente), il termine essenziale (quando un soggetto è interessato ad una
certa prestazione in un termine reputato essenziale) e la diffida ad adempiere (una parte fa
espressa comunicazione all’altra di adempiere entro un termine prestabilito – che non potrà
essere minore a 14 giorni. Se, dopo la diffida, l’altra parte continuerà ad essere
inadempiente, si potrà giungere allo scioglimento del contratto di diritto). In queste tre
ipotesi la risoluzione, dunque lo scioglimento del contratto, avviene automaticamente; ma le
controversie tra le parti potranno essere risolti dal giudice, la cui sentenza sarà dichiarativa:
cioè si limiterà ad accertare l’avvenuto scioglimento del contratto (avvenuto di per sé alla
luce delle tre ipotesi).
La risoluzione in caso di inadempimento e il risarcimento del danno per inadempimento
(analizzato nelle lezioni precedenti) sono due facce della stessa medaglia: il risarcimento
rileva dal punto di vista delle obbligazioni (quindi dei rapporti obbligatori), ma – come
abbiamo visto – diritto delle obbligazioni e diritto dei contratti sono strettamente connessi
perché, ai sensi dell’art.1373, i contratti sono fonti delle obbligazioni, dunque nell’ambito
dei contratti si avranno dei rimedi contrattuali e dei rimedi obbligatori. Non a caso – nelle
ipotesi di inadempimento - si possono avere, per un verso lo scioglimento del contratto o
l’adempimento (o risoluzione), dall’altro il risarcimento del danno.
Esistono poi le figure di autotutela, cioè nei casi di rapporti sinallagmatici (con prestazioni
corrispettive) i soggetti possono tutelarsi senza necessariamente richiedere l’intervento di un
giudice. Questo è previsto agli art.1460/1461:
- Eccezione di inadempimento: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei
contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non
offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per
l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto.
Tuttavia, non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è
contrario alla buona fede”;
- Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti: “Ciascun contraente può
sospendere l'esecuzione della prestazione da lui dovuta, se le condizioni patrimoniali
dell'altro sono divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della
controprestazione, salvo che sia prestata idonea garanzia”.
La risoluzione per impossibilità sopravvenuta è legata al diritto delle obbligazioni (uno
dei modi di estinzione dell’obbligazione diversa dall’adempimento). Nei casi di contratti a
prestazioni corrispettive, laddove vi sia un’impossibilità totale della prestazione, la parte è
liberata e il contratto si risolve automaticamente. Nell’ipotesi di impossibilità sopravvenuta
parziale (in cui a divenire impossibile è solo una parte della prestazione dovuta), l’altra parte
– ai sensi dell’art.1464 – può chiedere la riduzione della prestazione dovuta o, in alternativa,

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se non ha più interesse nella prestazione, lo scioglimento del contratto (e quindi la
risoluzione). La risoluzione per impossibilità sopravvenuta dev’essere poi richiamata
rispetto alla fattispecie di impossibilità di contratti plurilaterali, poiché - anche in questo
caso – i contratti si basano sull’essenzialità, cioè alla funzionalità: se il singolo vincolo si
sarebbe potuto risolvere senza problemi, il contratto sarebbe rimasto valido per le altre
prestazioni; in caso di contratto essenziale sarebbe venuto meno il contratto anche sulle altre
prestazioni.
La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta è disciplinata all’art.1467 (e
seguenti):
“Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la
prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di
avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare
la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'articolo 1458.
La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea
normale del contratto.
La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare
equamente le condizioni del contratto”.
Abbiamo a che fare, anche in questo caso, con contratti a prestazioni corrispettive in
particolar modo nei casi di prestazioni continuate o periodiche o a esecuzione differita (ove
l’esecuzione non è immediata o istantanea, ma differita o prolungata). In queste ipotesi è
possibile che – a seguito di eventi imprevisti – si crei un’eccessiva onerosità della
prestazione dovuta. In questi casi, se si supera un limite rappresentato dal rischio che –
ragionevolmente – le parti si sono assunte in un determinato contratto, sarà possibile
richiedere la risoluzione del contratto.
A questa risoluzione potrà rispondere la parte avvantaggiata, offrendosi di ricondurre a
equità le condizioni del contratto.

Questi rimedi, come quelli della rescissione, non si applicano ai contratti aleatori (dove si ha
assoluta incertezza sui sacrifici reciproci), poiché le prestazioni non sono state determinate
in modo certo, ma le parti hanno lasciato al rischio e all’incertezza la determinazione delle
singole prestazioni. I rimedi – e in particolar modo la risoluzione – valgono per contratti con
prestazioni corrispettive, ma nel caso di eccessiva onerosità, il rimedio proposto
dall’ordinamento non sarà quello della risoluzione – e quindi dello scioglimento -, ma la
riduzione della prestazione dovuta.

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