Sei sulla pagina 1di 145

a02/03/20

ELEMENTI FONDAMENTALI DEI RAPPORTI DI DIRITTO PRIVATO

Diritto privato: strumento necessario per comprendere la realtà che ci circonda.


Per poter comprendere appieno il significato del “diritto privato”, bisogna aver chiaro
anche in concetto di ORDINAMENTO, ovvero un complesso di norme dettate facendo
riferimento agli interessi della società presente su un determinato territorio (= insieme di
regole).
NON esiste un solo ordinamento e, all’interno di questo, possono esistere vari DIRITTI.

Il nostro ordinamento (l’ordinamento italiano) prevede una serie di ordinamenti


sovrastatali (ad esempio l’ordinamento europeo o l’ordinamento internazionale) e
ordinamenti micro (ad esempio ordinamenti regionali). Tutti questi sono da considerare
provvedimenti previsti dalla Costituzione Italiana che, in particolare agli articoli 10, 11 e
117 fa riferimento agli ordinamenti stessi.

 Art.10//comma 1: l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto


internazionale generalmente riconosciute.

È dunque l’ordinamento italiano a doversi “adattare” a quelli sovrastatali.

 Art.11//comma 1: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà


degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
L’Italia consente, in condizioni di parità con altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni;
promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Dunque, l’ordinamento italiano consente limitazioni di sovranità, permette quindi


che ci siano regole attuabili all’interno del paese che non provengano direttamente
dallo Stato italiano.

 Art.117//comma 1: la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel


rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali […].

Ritorna qui il tema dei rapporti tra ordinamento statale/regionale e ordinamento


comunitario/internazionale.
Una volta avuto chiaro il concetto di ORDINAMENTO, è necessario riflettere sul ruolo che
ha il diritto privato in questi ordinamenti, facendo però prima una distinzione tra
DIRITTO PUBBLICO: DIRITTO PRIVATO:
disciplina e gestisce i rapporti diretti complesso di norme che disciplina gli
tra lo Stato e altri enti pubblici con i interessi complessivi della società, ma
singoli o i rapporti dello Stato con realizzati tramite la disciplina di
enti pubblici estranei. Riguarda specifici rapporti tra privati (singoli
pertanto lo sviluppo e l’applicazione individui).
dei pubblici poteri. Vengono dunque approfondite le
(es. Diritto Costituzionale, relazioni tra soggetti privati che
Diritto Penale, Diritto Amministrativo possono essere singoli cittadini
e Diritto Tributario). oppure enti.

Il DIRITTO PUBBLICO svolge quindi un ruolo fondamentale per l’esplicazione di pubblici


poteri (ad esempio condannare o gestire rapporti tra Stato ed enti pubblici).

Sembrerebbe dunque netta la separazione tra le due materie. Separazione che, in realtà,
netta non è per una duplice ragione:
1. Il confine della distinzione tra pubblici e privati è mutevole ed è stata oggetto di
molte variazioni nel corso del tempo. Ad esempio, la trattazione di temi considerati
inerenti al diritto pubblico sono col tempo diventati problemi dei rapporti di diritto
privato.
Ad esempio, l’età delle privatizzazioni con le LEGGI AMATO degli anni ’90.
È quindi il legislatore (il Governo) che decide di spostare alcune materie dall’alveo
del diritto pubblico a quello privato. Altri esempi possono essere le
TELECOMUNICAZIONI o la PRODUZIONE E DISTRIBUZIONE DI ENERGIA (facenti
parte prima del Diritto Amministrativo e quindi pubblico e poi privato). Questo
movimento dipende dal momento storico.
- Gli anni ’90 hanno segnato un forte passaggio generale dal pubblico al privato, ma
si tratta ancora una volta di episodi mutevoli nel tempo;
- Il periodo fascista è segnato da un tipo di economia di stampo pubblico durante il
quale si tende a spostare l’ambito delle regolazioni dell’economia e delle sue norme
dal privato al pubblico.
Quindi, la distinzione tra il pubblico e il privato nell’ambito del diritto è un tipo di
distinzione problematica, variabile nel corso del tempo. In questa precisa fase
storica è difficile prescindere da una riflessione del diritto privato, che ha
sicuramente un ruolo rilevante nell’economia moderna.
2. La distinzione è INCERTA perché:
- alcuni casi di quotidianità vengono risolti con strumenti e norme di diritto sia
pubblico che privato. Ad esempio, un incidente stradale può comportare
l’esecuzione di norme del diritto penale (e quindi pubblico) oppure, nella
maggioranza dei casi, all’avvio di norme del diritto privato (come ad esempio il
risarcimento dei danni). Talvolta però, possono scattare, a seguito di uno stesso
evento, sia norme di diritto pubblico che di diritto privato. Questo comporta
l’incertezza nel delineare il confine che separa il diritto pubblico da quello privato.
Bisogna anche fare presente che alcuni enti, che sono enti pubblici come ad esempio
l’Università, possono agire secondo le norme del diritto pubblico (es. concorsi pubblici), ma
allo stesso modo possono agire secondo il diritto dei privati (es. contratti di locazione dei
privati).
Si può concludere dicendo che la distinzione tra il pubblico e il privato è una distinzione di
massima e non vincolante.
03/04/20
Abbiamo dunque appurato l’esistenza di una pluralità di ordinamenti che attraverso le loro
norme disciplinano l’assetto degli interessi di una determinata società.
Per distinguere le regole di un determinato ordinamento si fa riferimento al diritto
pubblico e al diritto privato (con le relative difficoltà annesse).

MA QUALI SONO LE FONTI DEL DIRITTO?


Queste fonti di distinguono in FONTI DI PRODUZIONE e FONTI DI COGNIZIONE.
Le prime si preoccupano di cercare l’origine del diritto e di far derivare un determinato
diritto e determinate regole. In un determinato senso “producono” il diritto.
Le fonti di cognizione invece sono quelle fonti da cui dobbiamo partire per fare riferimento
alle esigenze di conoscenza del diritto. Non sono come quelle di produzione, cioè che
sviluppano determinate regole, ma sono atti volti a far conoscere una determinata regola.
Ad esempio, la Gazzetta Ufficiale (che pubblica atti legislativi, bandi pubblici e una serie di
regole e discipline che possono interessare al cittadino).
Tuttavia, pur essendo decisamente rilevanti le fonti di cognizione, l’attenzione viene posta
prevalentemente sulle fonti di produzione, cioè quegli atti volti a creare e sviluppare delle
regole.
Tra queste dobbiamo individuare una sorta di gerarchia, perché le fonti di produzione
possono prevedere una varietà di fonti, discipline e regole che nella maggioranza dei casi
possono essere di comune accordo e quindi coerenti tra loro, ma possono creare anche
delle problematiche relative a delle antinomie (contrasti), ovvero ipotesi in cui queste fonti
del diritto possono essere e in contrasto tra loro.

COME RISOLVERE QUESTO PROBLEMA? È ovvio, come è sempre stato, che sia necessario
prevedere una gerarchia delle fonti, cioè un ideale ranking delle fonti del diritto per evitare
che eventuali contrasti legati alle regole e discipline provenienti da queste norme possano
non trovare soluzione.

Si fa dunque riferimento alla GERARCHIA DELLE FONTI: è necessario capire quali fonti
prevalgano nel caso di specie: se prevalga la legge o un determinato regolamento, se una
normativa di stampo europeo o una normativa di stampo italiano, se una normativa
regionale o una statale.
A cosa possiamo richiamarci per riscontrare una gerarchia? C’è una norma in particolare,
l’articolo 1 delle disposizioni sulla legge in generale (anche dette preleggi) che è
espressamente dedicata alle fonti del diritto.
In particolare, dice che sono fonti del diritto:
1. Le leggi
2. I regolamenti
3. Le norme corporative
4. Gli usi
Quindi, una prima risposta al nostro tema (come risolvere eventuali contrasti tra norme
produttive di discipline giuridiche rilevanti) si trova nell’articolo 1 delle disposizioni delle
leggi in generale che sono state anteposte al Codice civile. Sono del 1942 e prevede la
suddetta gerarchia.
In altri termini, qualora una legge o una disciplina di origine giuridica, vada in contrasto con
una disciplina, ad esempio, di origine regolamentare, va fatta prevalere la prima. Tuttavia,
questo ranking è stato oggetto di rivisitazioni a causa dell’evoluzione del diritto dovuta
all’adattamento alla società. Scopriamo immediatamente quindi tre macro-fenomeni:
1. L’emanazione, successiva alle preleggi e al Codice civile, della Costituzione (1948),
che si va a porre in cima alla gerarchia delle fonti. Avremo quindi una gerarchia
diversa da quella prevista dall’art.1 perché troveremo sovraordinata a tutto la
Costituzione, o meglio, ancora al di sopra della Costituzione stessa, i principi
fondamentali che sono espressione della Costituzione. La nuova gerarchia sarà
quindi:
1. Principi fondamentali costituzionali;
2. Costituzione
3. Le leggi
4. I regolamenti
5. Le norme corporative
6. Gli usi

2. L’abolizione delle corporazioni. Queste furono (oltre che tipiche della tradizione
storica) un fenomeno sviluppato e valorizzato nell’ambito del regime fascista. È
chiaro però, che con la caduta del regime fascista (durante il quale fu emanato il
Codice civile), le norme corporative chiamate dall’articolo 1 all’articolo 3 delle
preleggi furono abolite. Con l’eliminazione della Camera delle corporazioni, e poi
delle corporazioni stesse, furono eliminate le norme corporative.

3. Assunzione di un ruolo centrale della Comunità internazionale e ancora di più da


parte della comunità europea. Abbiamo visto come agli articoli 10, 11 e 117 si
faccia espresso riferimento alle norme internazionali consuetudinarie nonché ad
altre norme comunitarie di origine europea. L’Unione Europea ha previsto queste
normative, che si vanno ad inserire nell’ambito legislativo attraverso la Costituzione,
collocandosi ad un livello che è appena, per alcuni versi, superiore alle leggi statali.

Il sistema che oggi si presenta, alla luce delle tre macro-novità presentate, è quindi così
formato:
1. Principi fondamentali della Costituzione
2. Costituzione
3. Leggi statali di origine europea e leggi di origine consuetudinaria internazionale
concepite nel nostro ordinamento
4. Regolamenti
5. Usi o consuetudini

I PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA COSTITUZIONE reggono l’intero ordinamento. Ad


esempio, l’articolo 1, 2 e 3 della Costituzione Italiana che richiama espressamente i diritti
inviolabili.
- Art. 1: L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione.

- Art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come


singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

- Art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale
del Paese.
Si parla quindi di eguaglianza formale (art.3 comma 1) nell’individuare tutti i cittadini come
aventi pari diritti essendo uguali davanti alla legge, e di eguaglianza sociale (art.3 comma 2)
di cui lo Stato stesso si propone garante in quanto si impegni ad eliminare qualsiasi
impedimento possa ostacolare tale eguaglianza.
I principi fondamentali però, ovviamente, richiamano una serie di altri oggetti quali il
diritto al lavoro, la libertà personale, la libertà di opinione, nonché tutta una serie di diritti
che hanno per oggetto le formazioni sociali.
Al di sotto si hanno tutti i principi previsti dalla Costituzione nell’ambito dei vari articoli.
La Costituzione fu emanata a seguito della Seconda Guerra Mondiale come frutto
dell’Assemblea costituente che fissò i principi su cui si deve regolare la vita della società
italiana. Ci sono poi una serie di regole fondamentali che riguardano la produzione delle
norme (come si creano le leggi), norme che regolano i rapporti tra gli organi dello Stato
(Parlamento, Magistratura, Corte costituzionale ecc.) e una serie di norme specifiche.
La formula tradizionale (ordinaria) affinché una legge possa essere promulgata prevede
l’accettazione da parte della Camera e del Senato, dopodiché può essere emanata dal
Presidente della Repubblica e pubblicata in Gazzetta Ufficiale.
Vi sono poi altre formule pari-ordinarie come il decreto-legge e il decreto legislativo, che
sono di origine governativa e quindi spettano al governo che, in particolari condizioni di
urgenza o per ragioni legate alla specificità e tecnicità della materia, preferisce usare questi
strumenti per poi passare all’approvazione parlamentare attraverso una legge di
conversione o legge delega (preventiva perché il Parlamento delega al governo l’esercizio
dell’attività legislativa con riferimento a specifiche materie).
Questo quindi per quanto riguarda le diverse forme di legge ordinaria e di
decreto-legge/legislative pari ordinate alle leggi ordinarie; così come sono pari ordinarie
(se non prevalenti) le NORMATIVE DI ORIGINE INTERNAZIONALE, in cui si recepiscono
(negli articoli 10/11) le disposizioni del diritto internazionale consuetudinario, ma anche le
ipotesi del diritto comunitario e in particolare quella delle diverse legislazioni comunitarie.
L’Unione Europea tende a strutturarsi come un vero e proprio ordinamento che prevede
delle norme fondamentali contenute nei trattati di funzionamento dell’UE stessa, che
conseguentemente prevedono degli strumenti (come ad esempio quelli legati agli
ordinamenti, alle direttive e alle decisioni).
Ci sono diversi strumenti organizzativi:
- strumenti legislativi generali che vanno ad incidere direttamente su ciascun Stato
membro (come le direttive). Uno strumento molto rilevante e molto utilizzato, che vincola
gli Stati membri a realizzare una successiva legge con la quale recepiscono gli obbiettivi
posti dalle direttive. L’unione europea quindi fissa con delle direttive degli obbiettivi in
maniera specifica. Il singolo stato membro è poi tenuto a seguire queste indicazioni
attraverso una propria legge nazionale;
- decisioni: sono pari agli ordinamenti direttamente vincolanti solo con riferimento a
ipotesi specifiche. Questo permette di sottolineare un aspetto rilevante, ovvero il fatto che
solitamente le leggi sono generali e astratte, costituite da norme, le quali sono generali e
astratte. Possono quindi valere per una serie di casi che hanno in comune determinate
caratteristiche per le quali viene attuata una certa norma, ma, la norma in sé è generale e
astratta.
In relazione alle disposizioni e alle decisioni particolari si fa riferimento a ipotesi piuttosto
specifiche e individuate, che intervengono direttamente a risolvere quei temi.
Si hanno poi una serie di altri strumenti dell’UE, come ad esempio le raccomandazioni o i
pareri. Sono ipotesi di strumenti legislativi che hanno una funzione di orientamento del
legislatore, ma che non hanno una funzione vincolante nei confronti del paese membro.
I REGOLAMENTI sono disposizioni per lo più amministrative (quindi derivano dalla pubblica
amministrazione, come i regolamenti ministeriali) che servono a regolare in maniera
piuttosto specifica ambiti limitati e sono subordinati alle leggi ordinarie che, come abbiamo
visto, individuano una disposizione generale. Il regolamento invece indaga la disposizione
generale, specificandone un determinato ambito.
Infine, nell’ipotesi in cui non vi siano state disposizioni legislative chiare, è possibile
ricorrere agli USI (consuetudini): una fonte del diritto che ricopre l’ultimo scalino nell’ottica
della gerarchia delle fonti. Subiscono quindi l’influenza delle altre fonti del diritto scritto,
ma in assenza di altre disposizioni avrà un ruolo rilevante e dovrà essere pienamente
considerato.
Le caratteristiche di questa ultima fonte del diritto sono fondamentalmente due:
1. La considerazione che un dato comportamento sia ripetuto nel tempo;
2. La percezione di un dato comportamento ripetuto nel tempo come doveroso e
corretto da parte della comunità.
Si richiamano questi ambiti, per esempio, nei profili legati agli usi della locazione (in che
modo dev’essere lasciato l’appartamento, ecc).

A questo punto, è necessario fare riferimento al CODICE CIVILE, il quale che viene
considerato il testo generale di riferimento in ambito civile e del diritto privato.
Il nostro sistema è del cosiddetto “diritto scritto”, che ha, a partire dall’800, seguito le
norme della codificazione. In alcuni paesi (soprattutto dell’Europa continentale) si è
prediletta la forma di giungere a un sistema codicistico che contenga tutte (o almeno al
massimo) il sistema del diritto privato, consentendo una panoramica complessiva alla
disciplina del diritto privato attraverso il Codice.

MA COS’E’ IL CODICE E COME SI INSERISCE NELLA GERARCHIA DELLE FONTI?


Il Codice è una legge ordinaria con una tendenza alla sistematicità della materia del diritto
privato.
Il primo codice di rilievo in ambito continentale è sicuramente il codice napoleonico,
approvato nel 1804 (per altro di recente profondamente rivisto e modificato) che ha per
primo assunto l’importanza di un testo che raggruppasse tutte le discipline relative al
diritto privato.
Anche il nostro Codice civile è stato oggetto di una serie di modifiche nel corso della storia.
Il primo risale al 1865 di ispirazione napoleonica e fu affiancato, dal 1882 in avanti, da un
codice di commercio (riguardante nello specifico i rapporti di natura commerciali).
Entrambi furono superati, con l’emanazione nel 1942, dal nuovo Codice Civile.
Chiaramente anche questo ultimo codice è stato oggetto di significative modifiche prima di
tutto a causa dei cambiamenti storici (come la caduta del regime fascista, durante il quale
fu promulgato il codice stesso, o i vari cambiamenti che hanno toccato l’ambito del diritto
di famiglia). Tuttavia, si dice in realtà che, malgrado tutte le modifiche subite da questo
codice, esso mantenga fondamentalmente l’impianto generale di quello del ’42.
Nonostante sia stato emanato in epoca fascista, il codice ha fondamentalmente
l’ispirazione e il background teorico di presupposti liberali, tipici della formazione dei
giuristi che si sono poi impegnati nella relazione del codice, ma che si erano formati in
epoca precedente all’avvento del regime fascista e che ha quindi permesso al nostro
codice di rimanere in vigore fino ai giorni nostri. Ciò non significa però che, nell’odierna
legislatura (nello specifico sia nell’ambito del Governo Conte uno che nell’ambito del
Governo Conte-bis) non siano state presentate una serie di disegni di legge volti a
modificare alcuni profili del codice del ’42. È quindi vero che l’impianto rimane quello
originario del primo codice, ma sussistono necessità sociali ed economiche di prevedere
nuove regole, parzialmente diverse e distinte, che possano adattarsi al meglio alla realtà
attuale.
Abbiamo accennato all’influenza del codice napoleonico, ma non fu sicuramente l’unico a
fungere d’ispirazione. Si pensi ad esempio alla KGB tedesca (nel 2002 soggetto ad una
riforma di “modernizzazione” nell’ambito delle obbligazioni) o all’ABGB austrico che,
seppur leggermente successivi al codice napoleonico, hanno sicuramente influenzato il
nostro diritto privato seppure in misura minore.

I RAPPORTI DEL DIRITTO PRIVATO


Nello specifico si tratta dei rapporti tra il singolo soggetto o tra il soggetto ed enti che
costituiscono formazioni sociali (ai quali si riferisce l’art.2 della nostra Costituzione). Si
cercherà quindi di capire innanzitutto quali sono i soggetti di questi rapporti, di valutare le
caratteristiche delle varie relazioni e l’oggetto delle relazioni stesse (quindi le discipline, i
diritti e i doveri posti in capo a questi soggetti) e quindi i rapporti di tipo relativo o assoluto
che intercorrono tra essi. Si avanzerà fino a considerare il contratto come tipo di origine di
questi rapporti, con tutte le sue problematiche legate alle fasi di formazione e di gestione
del rapporto contrattuale e infine le fattispecie di distinzioni di rapporti contrattuali.

1. IL SOGGETTO
I soggetti sono i titolari di situazioni giuridiche soggettive, cioè i titolari di diritti,
obblighi, doveri e oneri che fanno capo proprio ai soggetti stessi. Questi soggetti, in
realtà, sono da considerarsi tali nel momento in cui acquisiscono una capacità giuridica,
quindi sono idonei ad essere titolari di situazioni giuridiche soggettive. L’idoneità a
situazioni giuridiche soggettive è propria sicuramente della persona fisica, quindi degli
individui che acquisiscono la capacità giuridica alla nascita (ai sensi all’art.1//comma 1
della Costituzione). Di conseguenza, non vi è quindi dubbio che tutti i nati siano soggetti
del rapporto giuridico. Non solo le persone fisiche possono essere soggetti però, questa
idoneità è difatti propria anche di tutti gli enti, i quali si possono distinguere in persone
giuridiche ed enti non dotati di personalità giuridica. La differenza sta nel fatto che gli
enti possono essere persone giuridiche nella misura in cui l’ordinamento gli attribuisca
la cosiddetta autonomia patrimoniale perfetta, cioè la possibilità di tenere distinto il
patrimonio dei singoli partecipanti all’ente e il patrimonio dell’ente stesso. Ma, come
abbiamo detto, può trattarsi anche di enti NON dotati di personalità giuridica, e dunque
di soggetti che non hanno autonomia patrimoniale perfetta che quindi non prevede una
netta distinzione tra il patrimonio del singolo e il patrimonio dell’ente.
Posto il fatto che le persone fisiche siano titolari di personalità giuridica, come
sostenuto dalla Costituzione, ciò che oggi ci sembra scontato ed ovvio non è sempre
stato così. Questo è importante riconoscerlo e saperlo nell’ottica dell’evoluzione del
diritto nel corso dei tempi. In particolare, basti pensare che in passato esistevano
distinzioni fondamentali in base alle religioni: gli ebrei, ad esempio, non avevano la
stessa considerazione di altri cittadini appartenenti ad altre religioni; lo schiavo era
addirittura una “cosa”, non era soggetto nel diritto romano; fino all’Ancien Régime, in
cui l’ordinamento era diviso in Stati e il clero non aveva gli stessi diritti della nobiltà, ma
soprattutto il Terzo Stato non aveva gli stessi diritti del clero e della nobiltà. Solo con
l’avvento della Rivoluzione Francese, quindi con la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, si supera il principio della diversità di stati per aderire alla visione che oggi è
univoca nel nostro sistema, quindi che tutti hanno capacità giuridica e che tutti l’hanno
allo stesso modo. Quindi, da questo punto di vista, come dice l’art.3 della Costituzione,
tutti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri senza distinzione di stesso, razza o
religione. È quindi fondamentale mantenere vivo il presidio dell’uguaglianza dell’attività
giuridica per tutti i consociati. Questo anche, e forse soprattutto, per quanto riguarda i
diritti dello straniero. In generale era applicato un sistema, fino a non molto tempo fa,
cosiddetto “principio di reciprocità degli stranieri”, cioè si applicavano agli stranieri gli
stessi diritti che la loro legge avrebbe concesso ai cittadini italiani. Questo però
rischiava, nel caso dei paesi esterni all’UE e lontani geograficamente e culturalmente, di
limitare fortemente le possibilità degli stranieri. Pertanto, si scelse di garantire sempre i
diritti fondamentali di tutti colori i quali potessero essere in qualche modo discriminati
in paesi stranieri.

La regola per la quale tutti acquisiamo capacità giuridica alla nascita però non è sempre
applicata. Questa è sicuramente la regola generale, ma vi sono dei casi in cui non è
possibile compiere certi atti od operazioni per cui non si è pienamente capaci. Prima di
vedere nel dettaglio questa particolare eccezione, bisogna prima comprendere l’esito
della ricostruzione dell’art.1 del Codice civile (quindi il fatto che la capacità giuridica si
acquisisca con la nascita) e quindi capire quando un soggetto può essere definito
“nato”. Il momento esatto della nascita, quindi quando effettivamente si diventa
soggetto giuridico, è solitamente quello della prima respirazione polmonare. Sono poi i
genitori, o chi per essi, a dover dichiarare la nascita entro dieci giorni per la
formulazione dell’atto di nascita. Così come è l’ingrato compito di eventuali congiunti
dichiarare, entro le 24 ore, il decesso del caro ai fini della formulazione dell’atto di
morte. Un soggetto è da considerarsi effettivamente deceduto nel momento in cui
cessa l’attività dell’encefalo (attività cerebrale). In realtà esiste anche qualcosa attorno
a tutto ciò, perché bisogna considerare che nel nostro ordinamento il soggetto diventa
tale nel momento della nascita, ma ci si è chiesti anche del tema a considerazione delle
valutazioni di tipo etico e il tema del “concepito”, che dev’essere preso in
considerazione dal diritto privato. È quindi vero che sia stato sostenuto che il soggetto è
generalmente idoneo alla capacità giuridica dal momento della nascita, ma vi sono dei
diritti che in realtà il concepito può avere già prima di venire alla nascita. Non si tratta di
una capacità generalmente intesa, ma sono capacità speciali che vengono riservate al
concepito durante quella fase. Sono dei diritti che sono stati dati in parte dal codice, in
altra parte sono diritti giunti a seguito di un’applicazione giurisprudenziale di una serie
di norme che col tempo sono divenute regole che non possono essere confutate. Da un
lato si ha la possibilità per il concepito di ricevere, tramite successione a causa di morte
o tramite donazione, un diritto. Anche dal punto di vista giurisprudenziale al concepito
sono stati riconosciuti dei diritti, eccezionalmente previsti dal Codice civile, che
prevedono il diritto del concepito di essere titolare di risarcimento del danno o rispetto
a danni a lui (seppur indirettamente) provocati o a ipotesi di danni riflessi (legati ad
esempio all’uccisione di uno dei genitori). In questi casi si può quindi prevedere a diritti
risarcitori a favore del concepito. Tuttavia, questa capacità giuridica può essere oggetto
di specifiche incapacità ad essere titolari di determinati diritti e doveri. Sono incapacità
che possono essere distinte in incapacità speciali e incapacità assolute.
L’incapacità assoluta riguarda essenzialmente l’ipotesi in cui la persona non possa
compiere un determinato atto e quindi l’impossibilità di essere titolare di determinati
rapporti. Un esempio può essere quello dell’infra-quattordicenne che decide di
contrarre matrimonio. Così come per accedere al testamento è necessario avere
almeno diciotto anni. Tali limiti sono applicabili anche alla stipulazione di contratti di
lavoro.
Le incapacità speciali riguardano invece certi soggetti nei rapporti con altri. Un esempio
è quello del tutore, quindi di un soggetto che è stato in qualche modo affiancato ad uno
incapace di agire, che non può succedere nel patrimonio familiare dell’interdetto, a
patto che non abbia dei rapporti specifici che lo pongano nell’ambito di coloro i quali
hanno diritto ad una quota della successione. Un chiaro riferimento va fatto a ciò che
riguarda la cosiddetta capacità di agire: è vero che il soggetto ha una capacità giuridica
al momento della nascita, ma questa riconosce soltanto a tale soggetto l’idoneità ad
essere titolare di diritti, doveri e obblighi. I soggetti acquistano soltanto a partire dalla
maggiore età la capacità di agire e quindi porre in essere atti che comportino degli
effetti nel mondo del diritto. Non è quindi sufficiente la nascita per poter ottenere la
capacità di agire, ma è necessario il compimento della maggiore età (al momento
fissata al compimento del diciottesimo anno). Questo è quello che dichiara l’art.2 del
Codice civile, con il quale viene fatto presente che si acquisisce la capacità di agire per
atti che non prevedano un’età diversa. Com’è noto, infatti, ci sono tutta una serie di
altri limiti per cui viene previsto un limite di età maggiore o minore. Bisogna però fare
attenzione perché, in realtà, il nostro ordinamento prevede una serie di strumenti che
assicurano una protezione del soggetto incapace, cioè una tutela di colui il quale sia
capace giuridicamente, ma non sia capace di agire o che non sia reputato tale. Si tratta
dunque di strumenti posti A TUTELA dell’incapace, a protezione di tale soggetto, hanno
per cui lo scopo di non aggravare una posizione che già di per sé è una condizione di
fragilità, cioè un sistema in cui il soggetto non sia in grado di compiere atti che
modifichino la realtà. Si tratta di istituti volti a proteggere che comprendono:
- la minore età. Un soggetto nato, che ha quindi capacità giuridica, ma non avendo
raggiunto la maggiore età non è ancora in grado di agire;
- l’interdizione giudiziale, che prevede la nomina di un tutore;
- l’inabilitazione per cui viene nominato un curatore per l’assistenza nelle attività;
- l’emancipazione (piuttosto limitato) è legato all’ipotesi volta a superare il problema
della minore età di contrarre il matrimonio;
- l’amministrazione di sostegno a protezione dell’incapace (introdotto a metà degli
anni 2000) volto tutelare in maniera diversa rispetto agli strumenti tradizionali
dell’inabilitazione e dell’interdizione;
- l’incapacità naturale (incapacità di intendere e di volere) che coglie nello specifico la
conclusione di determinati atti.
Bisogna sottolineare però che a questa logica si sottrae una figura che periodicamente
ritorna: l’interdizione legale. Non segue la logica degli altri istituti di protezione
dell’incapace perché non rappresenta uno strumento a protezione, ma uno strumento di
tipo sanzionatorio per cui un legislatore civilistico (quindi nell’ambito del diritto privato)
prevede, per alcuni soggetti, che in questi casi sia possibile una sanzione ulteriore data
dall’incapacità che viene combinata alla sentenza di condanna, di concludere degli atti che
siano capaci di modificare la realtà giuridica. La realtà di fondo di questo istituto è molto
lontana risetto a quelle sopra citate perché ha una funzione di pena accessoria, per cui al
netto (dopo aver già provveduto ad una significativa pena – ergastolo o pena detentiva
superiore ai cinque anni), viene aggiunta questa interdizione legale che rende impossibile
portare a compimento atti giuridici. A dimostrazione della diversa funzione di questa
interdizione legale, anche gli effetti sono diversi. Mentre gli effetti di tutti gli altri strumenti
a protezione dell’incapace comportano l’annullabilità del singolo atto del singolo soggetto,
per lo strumento dell’interdizione legale l’annullabilità del negozio potrà essere esercitata
in senso lato dai soggetti interessati e quindi esponendo il soggetto ad una possibile
risoluzione.
04/04/20
Tornando a considerare le figure A PROTEZIONE dell’incapace, bisogna iniziare ad
analizzare gli istituti richiamati:

 Istituto a protezione del minore d’età


Come già detto, un soggetto con capacità di agire è un soggetto che abbia la capacità di
porre in essere un atto giuridico in grado di modificare la realtà giuridica a lui circostante.
Questa capacità di agire, a differenza della capacità giuridica, non si acquista con la nascita,
ma con la maggiore età perché il presupposto stesso della capacità di agire è la
consapevolezza di poter realizzare questi atti in modo consapevole per poter ponderare i
propri interessi. Se questa è quindi la ratio della capacità di agire e conseguentemente di
porre un determinato limite alla maggiore età, bisogna capire cosa prevede l’istituto della
minore età. Questo istituto considera come incapaci di agire tutti colori i quali sono al di
sotto del limite della maggiore età (disposto dall’art.2 al compimento dei diciotto anni). Al
compimento del diciottesimo anno allora si va a sommare la preesistente capacità giuridica
alla capacità di agire. Questo perché l’ordinamento presume che il soggetto sia capace e
consapevole di prendere atto dei propri interessi e fronteggiarli con atti validi anche dal
punto di vista del diritto. Nell’ipotesi della minore età, quindi per quei soggetti che non
hanno ancora raggiunto la maggiore età, possono concludere dei contratti, dei negozi e
avere una vita giuridicamente rilevante (dall’acquisto del giornale all’acquisto di un
immobile, o concludere un contratto di trasporto pubblico, ecc). Il problema è cercare di
capire COME si possa gestire questa situazione e cosa fare in riferimento al minore, e
dunque qual sia la funzione di questi istituti. L’idea è quella di proteggere gli incapaci. Dal
punto di vista tecnico si cercano soluzioni che assicurino questo obbiettivo.
Intanto bisogna dire che la minore età, nel caso di un contratto stipulato da minore, può
comportare un annullamento del contratto. Questo è importante nell’ottica del legislatore:
si dà al minore (poi divenuto maggiorenne o chi per lui) la possibilità di annullare un
contratto ritenuto pregiudizievole. Dunque, ciò che si cerca di garantire è di evitare che un
soggetto possa compiere degli atti in grado di precludergli delle possibilità e che vadano
contro i suoi interessi. Sarà quindi impossibile ipotizzare l’annullamento, ad esempio,
dell’acquisto di un giornale, poiché non costituirà un problema né rappresenterà un’ipotesi
in cui si può realizzare un pregiudizio per il minore. Il discorso cambia rispetto all’acquisto
o alla vendita di un immobile. Chi può agire per l’annullamento del contratto concluso dal
minore? O il minore stesso divenuto maggiorenne o chi esercita la potestà del minore,
entro cinque anni dal termine del contratto. La richiesta può essere fatta SOLO da parte del
minore interessato (o chi ne fa le veci). Per questa ragione si parla solitamente di negozi
claudicanti, cioè di contratti da non considerare, di per sé, non validi. Per essere certi della
validità del contratto bisogna far riferimento ad altre figure, solitamente i genitori o, in casi
meno fortunati, i tutori.
Occorre fare prima di tutto una macro-distinzione di questi atti:
- atti di ordinaria amministrazione e quindi capaci di incidere in maniera non
particolarmente significativa nel patrimonio del minore;
- atti di straordinaria amministrazione che invece incidono in maniera significativa
sul patrimonio del minore.
Per queste ragioni si tende a considerare valido l’atto di ordinaria amministrazione se
concluso da un minore, anche disgiuntamente da uno dei genitori, mentre sono invece
considerati validi gli atti di straordinaria amministrazione solo se conclusi congiuntamente
da entrambi i genitori. Queste regole possono ovviamente essere soggette a modifiche,
come nel caso della presenza di un solo genitore superstite o nell’ipotesi dell’assenza dei
due genitori. In questo caso, un ruolo centrale sarà quello del tutore.
Dunque: questa è la situazione complessiva riguardo al minore, nei confronti di un
soggetto che per l’ordinamento risulta minore in quanto non abbia ancora raggiunto la
maggiore età. In questo caso si tende a proteggere il soggetto attraverso uno strumento di
annullabilità del contratto, che può provenire soltanto da una delle due parti, ovvero dal
minore o da chi ne esercita la potestà o la tutela. Anche nella vita normale, per assicurarsi
la piena validità degli atti, è necessaria la distinzione tra atti di ordinaria e atti di
straordinaria amministrazione con la conseguente distinzione tra intervento disgiunto o
intervento congiunto (nelle ipotesi più significative).

 L’interdizione giudiziale
È, al pari degli altri istituti sopra elencati, uno strumento posto a protezione dell’incapace.
Per prima cosa, per distinguerla dall’interdizione legale, oltre alla funzione e agli effetti già
visti, si ricorda che si parla di un’interdizione che viene combinata espressamente dal
giudice che riscontra, o meno, determinati presupposti. Si avvia quindi un vero e proprio
procedimento specifico, volto ad accertare, alla fine, uno stato tale da comportare la
dichiarazione di interdizione giudiziale. Se i presupposti vengono riscontrati, il giudice può
predisporre una sentenza tale da tutelare e proteggere l’incapace. In sostanza è quindi un
giudice che, con sentenza, cerca di comprendere e rispondere nel caso in cui ricorrano
congiuntamente determinati presupposti. Questi presupposti comprendono:
- che il soggetto risulti affetto da un’infermità di mente;
- che si tratti di infermità abituale;
- che il soggetto sia incapace di provvedere ai propri interessi;
- che ci sia la necessità di un’adeguata protezione del soggetto.
Questi requisiti vengono ritrovati all’art. 414 del Codice civile: Il maggiore di età e il minore
emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende
incapaci di provvedere ai propri interessi (2), sono interdetti quando ciò è necessario per
assicurare la loro adeguata protezione (3) (4).
L’articolo evidenzia il riferimento a soggetti che non sono incapaci legalmente.
È importante capire quali siano i presupposti di questo strumento, dal momento che si
tratta di presupposti estremi. Questi presupposti non sono minimi: intanto devono
concorrere congiuntamente, inoltre sono onestamente molto gravi. Vogliono quindi essere
dei requisiti “limite”, volti alla necessità di quei casi che si propongono, appunto, come casi
limite. Questo istituto si sviluppa come un vero e proprio procedimento davanti ad un
giudice, il quale assicura un ruolo importante anche allo stesso interdicendo, ovvero il
soggetto del quale si discute al fine di assicurare, o meno, una protezione. Chiaramente,
qualora il giudice si convinca prima della conclusione, che sia necessaria una tutela, potrà
nominare un tutore provvisorio, quindi qualcuno che inizi a preoccuparsi degli atti e della
vita giuridica del soggetto prima della formale sentenza di interdizione e la conseguente
norma di un tutore. A seguito dell’interdizione, infatti, viene nominato un tutore registrato
nel registro delle tutele in modo tale che sia presente a chiunque si interfacci con il
soggetto. Tale interdizione viene poi annotata anche nell’atto di nascita proprio per
assicurare una maggiore tutela dell’interdetto. Il tutore nominato va a sostituire
l’interdetto nel compimento degli atti giuridicamente rilevanti.
Con riferimento agli atti, è importante tenere a mente l’art. 427 del Codice civile: Nella
sentenza che pronuncia l’interdizione o l’inabilitazione, o in successivi provvedimenti
dell’autorità giudiziaria, può stabilirsi che taluni atti di ordinaria amministrazione possano
essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento ovvero con l’assistenza del tutore, o che
taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato
senza l’assistenza del curatore.
Gli atti compiuti dall’interdetto dopo la sentenza di interdizione possono essere annullati su
istanza del tutore, dell’interdetto o dei suoi eredi o aventi causa. Sono del pari annullabili
gli atti compiuti dall’interdetto dopo la nomina del tutore provvisorio, qualora alla nomina
segua la sentenza d’interdizione. […]
Si ricava quindi, al contrario da quanto previsto dall’art. 427, che il tutore si sostituisca
interamente alle attività di ordinaria e straordinaria amministrazione. Questo conferma la
natura particolarmente invasiva dell’istituto, cioè un istituto che coglie il massimo livello di
protezione del soggetto, esautorando l’interdetto e attribuendo il compimento degli atti al
tutore; fermo restando che taluni atti possono essere compiuti dall’interdetto senza
l’intervento o con la semplice assistenza del tutore. Addirittura, talvolta, per gli atti di
straordinaria amministrazione è richiesta la previa autorizzazione del giudice tutelare,
proprio nell’ottica di proteggere al massimo il soggetto interdetto, perché si ritiene che
questi limiti siano particolarmente significativi e l’interdizione sia particolarmente
rilevante, quindi deve passare necessariamente dall’intervento sostitutivo del tutore. Deve
anche essere dato atto anche che, qualora questi presupposti vengano meno, il giudice
possa procedere con una revoca dell’interdizione. Quindi nel momento in cui si riscontra
che siano venuti meno i requisiti, si potrà procedere con una revoca.
L’istituto dell’interdizione è generalmente un istituto che gode di pessima fama dal
momento che si tratta di un organismo che limita moltissimo le capacità di agire
dell’interdetto (ad eccezione di casi rarissimi). Soprattutto in tempi passati veniva visto
come un sistema, più che per tutelare, per tutelarsi dai soggetti che potevano essere
interessati in qualche modo a tutelare la posizione familiare e quindi il patrimonio, più che
il singolo soggetto. Bisogna dire, tuttavia, che (nonostante siano limitazioni significative) in
alcuni casi non è possibile procedere diversamente. Si tratta di modalità in cui difficilmente
il soggetto può effettivamente compiere questi atti e questo va a sottolineare l’indubbia
necessità di questo istituto proprio a tutela del soggetto interessato.
Possono avviare il procedimento di interdizione giudiziale: il coniuge, il convivente stabile, i
parenti entro il quarto grado o gli affini entro il secondo. L’idea di fondo è quella di
assicurare che possano agire coloro i quali siano particolarmente vicini al soggetto da
tutelare. A questi si aggiunge, per esigenze di interesse, pubbliche il pubblico ministero.
Per parenti entro il quarto grado si intendono quei soggetti che, risalendo al capostipite,
hanno un numero di passaggi escluso il capostipite. Essere parenti entro il quarto grado in
realtà è molto semplice, perché il procedimento che si applica al conteggio è quello del
seguente esempio:
PADRE + FIGLIO = primo grado (perché non si conta il padre, ovvero il capostipite)
PADRE + FIGLIO MAGGIORE + FIGLIO MINORE = secondo grado (perché figlio maggiore 1,
figlio minore 2).
Gli affini sono invece quei soggetti che hanno rapporti di parentela con il coniuge del
soggetto interessato. Il processo di conteggio poi è il medesimo dei parenti entro il quarto
grado.
Si parla quindi, in linea generale, di parenti molto vicini proprio per evitare un eccessivo
abuso di questi istituti. È molto importante tenere questo a mente, perché la distinzione
tra parenti e affini ci permette di inserirci nella scena fondamentale della protezione
dell’incapace. Questa protezione la si realizza attraverso procedimenti avviati da soggetti
vicini all’individuo da proteggere.

 L’inabilitazione
Si parla in questo caso del soggetto che non sarà interdetto ma sarà inabilitato.
Banalmente l’inabilitazione rappresenta uno strumento meno invasivo, meno significativo
dal punto di vista delle limitazioni che pone al soggetto interessato. Se nell’ipotesi
dell’interdetto i presupposti dovevano essere congiuntamente:
- che il soggetto risulti affetto da un’infermità di mente;
- che si tratti di infermità abituale;
- che il soggetto sia incapace di provvedere ai propri interessi;
- che ci sia la necessità di un’adeguata protezione del soggetto
nell’ipotesi meno grave dell’inabilitazione si può procedere, sempre con sentenza del
tribunale, se ricorrono alternativamente fra loro diversi presupposti, che sono
obbiettivamente da considerarsi meno gravi rispetto a quelli che ricorrono in caso di
interdizione. In questo caso i requisisti sono:
- che vi sia un’infermità di mente che però non sia tanto grave da far scattare
l’interdizione;
- che un soggetto che soffra di prodigalità (impulso patologico a spendere i propri
beni e con pregiudizi economici per il proprio patrimonio);
- che un soggetto faccia abuso di sostanze stupefacenti o alcoliche;
- che il soggetto sia sordo o cieco
In questo caso la protezione viene data a soggetti che si trovano in condizioni meno gravi
degli interdetti, che ricoprono una sfera più ampia perché è necessaria la presenza di uno
solo di questi presupposti. Tutto questo viene espresso all’art. 415 del Codice civile:
“Il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo
all'interdizione, può essere inabilitato.
Possono anche essere inabilitati coloro che, per prodigalità o per abuso abituale di
bevande alcooliche o di stupefacenti, espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi
economici.
Possono infine essere inabilitati il sordo e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, se
non hanno ricevuto un'educazione sufficiente, salva l'applicazione dell'articolo 414 quando
risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi.”
Il procedimento dell’inabilitazione è sostanzialmente similare a quello dell’interdizione: i
soggetti che possono fare istanza sono sempre gli stessi (il coniuge, il convivente stabile, i
parenti entro il quarto grado o gli affini entro il secondo); si attua un processo attraverso il
quale il giudice chiede l’ascolto del soggetto direttamente coinvolto nella fase
fondamentale e all’esito di questo ascolto si può nominare un curatore provvisorio con
l’intento di coprire eventuali esigenze dell’inabilitato fino al momento della nomina del
curatore definitivo al termine dell’intero procedimento con sentenza. La nomina di questa
figura permette comunque all’inabilitato di concludere autonomamente gli atti di ordinaria
amministrazione (quindi non particolarmente incisivi sul patrimonio del soggetto), ma si
impegna ad assistere la volontà dell’inabilitato negli atti di straordinaria amministrazione.

 L’emancipazione
Gli effetti della figura dell’emancipazione sono sostanzialmente del tutto assimilabili a
quelli dell’inabilitato. L’emancipazione, come abbiamo visto, prevede il caso in cui un
minore ultra-sedicenne venga autorizzato dal tribunale a contrarre matrimonio. A seguito
di questa autorizzazione automaticamente si viene emancipati. Quindi, da un punto di vista
degli effetti, l’emancipato è assimilabile all’inabilitato: il soggetto può concludere in
autonomia gli atti di ordinaria amministrazione, ma si richiede l’assistenza di un curatore
con una eventuale autorizzazione dell’autorità giudiziaria per gli atti di straordinaria
amministrazione. Questi ultimi atti saranno poi annullabili nel caso in cui vengano conclusi
senza l’assistenza del curatore. Questi provvedimenti sono volti a dare la certezza che i
soggetti siano consapevoli delle problematiche e dei rischi sottesi alla conclusione di atti
così impegnativi, dal punto di vista dell’impatto patrimoniale.

 L’amministrazione di sostegno
È stata immessa solo in un secondo momento rispetto all’originaria versione del Codice
civile del ’42 e rispetto agli strumenti finora analizzati. Fu introdotta negli anni 2000 con
l’intenzione espressa di configurare un istituto diverso dall’interdizione e
dall’inabilitazione, dando uno strumento più flessibile a protezione dell’incapace. È
importante ricordare, per la comprensione di questo particolare istituto nel ruolo che
questo ha anche rispetto alla comprensione degli altri, che si tratta di uno strumento che
assicura l’innovazione legata ad uno strumento flessibile. Non è un problema di maggiore o
minore gravità dei presupposti, quanto un discorso di assicurare uno strumento adattabile
di tutela. Gli effetti quindi non sono sempre categorici, non hanno sempre una tutela fissa
e questo assicura una maggiore flessibilità allo strumento. Questo spiega anche perché sia
stato introdotto solo nel 2004 e perché sia possibile proteggere in maniera quasi
“personalizzata” di volta in volta il soggetto.
Intanto bisogna dire che le norme relative all’amministrazione di sostegno si trovano a
partire dall’art. 404 e seguenti del Codice civile:
La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si
trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi,
può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del
luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio.
I requisiti specifici richiesti per avviare un procedimento di amministrazione di sostegno,
come espresso dall’art., sono:
- Sussistenza congiunta di fenomeni di menomazione fisica o psichica della persona;
- Impossibilità per il soggetto, a causa di questa menomazione, di provvedere ai
propri interessi.
Abbiamo quindi un presupposto sostanzialmente oggettivo rappresentato dalla
menomazione (fisica o psichica) e un presupposto invece soggettivo che è legato
all’impossibilità del soggetto di provvedere ai propri interessi. Questi due presupposti, che
devono congiuntamente ricorrere, sono entrambi necessari. Non si tratta però di requisiti
particolarmente estremi, come quelli dell’interdizione, ma sono onnicomprensivi. La
diversa formazione dell’istituto, quindi, ci induce ad una logica che chiaramente si
differenzia per l’onnicomprensività dei presupposti che sono molto più ampi e quindi
danno la possibilità di accedere potenzialmente all’amministrazione di sostegno all’ipotesi
che possono rientrare nell’alveo dell’interdizione o in quello dell’inabilitazione. A questo si
affianca un’altra novità importante: mentre nel caso di interdizione e inabilitazione si
procede con sentenza, nel caso dell’amministrazione la grande flessibilità è data dal fatto
che non abbiamo a che fare con uno strumento dagli effetti univoci, ma con uno strumento
quale quello del decreto con cui il giudice può individuare i provvedimenti (all’interno di
questo stesso decreto) e gli atti da assegnare all’amministratore in via esclusiva e gli atti in
cui l’amministratore si limita ad affiancare il soggetto da tutelare, fino a configurare una
serie di atti per cui sarà possibile per il soggetto compiere tranquillamente i propri atti
senza far fronte ad un intervento di mera assistenza da parte dell’amministratore. Quindi,
dal punto di vista degli effetti, il giudice ha, attraverso lo strumento del decreto, la
massima possibilità di scegliere, di volta in volta, quali atti assoggettare all’intervento di
stampo sostitutivo dell’amministratore, in quali casi questo intervento possa essere
assistenziale e infine in quali altri dare la possibilità al soggetto di svolgere i propri interessi
autonomamente.
Il procedimento è molto similare agli altri. I soggetti che possono fare istanza sono sempre
gli stessi (il coniuge, il convivente stabile, i parenti entro il quarto grado o gli affini entro il
secondo). Il riferimento, ancora una volta, è quello dell’art. 417:
L'interdizione o l'inabilitazione possono essere promosse dalle persone indicate negli
articoli 414 e 415, dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il
quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o curatore ovvero dal pubblico
ministero.
Se l'interdicendo o l'inabilitando si trova sotto la responsabilità genitoriale o ha per
curatore uno dei genitori, l'interdizione o l'inabilitazione non può essere promossa che su
istanza del genitore medesimo o del pubblico ministero.
Ancora una volta la procedura prevede l’ascolto del soggetto direttamente coinvolto e
l’eventuale possibilità di nominare un amministratore temporaneo, prima dell’effettiva
nomina, non di un tutore o un curatore, ma di un assistenze di sostegno i cui poteri
saranno specificati nel decreto, configurando così uno strumento capace di modellarsi al
caso concreto.

 L’incapacità naturale
È sostanzialmente la cosiddetta incapacità di intendere e di volere. Questa incapacità può
essere:
- Permanente: è un’ipotesi possibile anche se non frequente. Riguarda quelle
condizioni, ad esempio, di demenza senile. In questo caso non si è in nessun modo
oggetto di pronunce quali quelle delle inabilitazioni, proprio per evitare determinati
effetti. Le condizioni sono permanenti e quindi comportano un’impossibilità
durevole di intendere e di volere;
- Transitoria: è frutto di un caso legato al singolo atto in cui il soggetto conclude un
negozio, ma non era capace di intendere e di volere, per esempio a causa dell’abuso
di alcool o sostanze stupefacenti.
È chiaro, quindi, che questo rende la prova dell’incapacità naturale il tema del tutto. L’atto
concluso sarà annullabile solo nella misura in cui sia possibile provare che il soggetto
avesse concluso il negozio in stato di incapacità naturale. Questo è ovviamente più
semplice nel caso di incapacità permanenta, ma risulta più complesso nell’ipotesi
temporanea. Tuttavia, vige il solito discorso perché si tratta sempre di uno strumento a
tutela del soggetto che viene considerato fragile e quindi incapace.

Tutto questo riguarda, ovviamente, un panorama completo circa la persona fisica.


10/03/20

 LE FONDAZIONI

Sono l’esempio più emblematico di enti a struttura istituzionale, cioè non a struttura
associativa come quelli visti finora. Pertanto, questi enti riconoscono come loro elemento
centrale e caratterizzante il patrimonio sull’insieme degli aderenti. Questo si può notare
già quando ci occupiamo di analizzare gli organi costitutivi di questo ente, perché l’organo
fondamentale della fondazione è l’organo gestorio, in particolare gli amministratori (senza
i quali non esisterebbero le fondazioni). Può invece esistere una fondazione in assenza di
un’assemblea: le cosiddette fondazioni di erogazione, il modello originariamente più
diffuso di fondazione; ovvero enti che non erano caratterizzati da un luogo di dibattito che
fosse diverso dall’organo gestorio stesso e che avesse come principale obbiettivo quello di
erogare somme di denaro poste a giungere alla finalità dell’oggetto della fondazione
stessa. In realtà, a questo primo modello di fondazione ne è stato affiancato un altro che è
(almeno in parte) regolato dalle stesse normative seppure richiedendo un’integrazione.
Esso infatti non è caratterizzato solo da un organo gestorio, ma anche da un’assemblea:
parliamo della fondazione di partecipazione. Se quindi, con riferimento alle fondazioni
abbiamo questo duplice modello (uno tradizionale e uno più recente), non bisogna
trascurare il fatto che - genericamente – il nostro sistema vede nelle fondazioni un ente
istituzionale: non caratterizzato solamente o prevalentemente da caratteri associativi, ma
anche da caratteri basati sul patrimonio.
Tutto ciò è già visibile dalla creazione dell’ente “fondazione”, il quale nasce attraverso un
atto di dotazione che viene disposto in una logica molto legata al singolo individuo. Infatti,
il soggetto compie un atto di fondazione unilaterale (che può essere inter vivos o mortis
causa) che costituisce la fondazione stessa. A seguito, poi, dell’atto di dotazione, la si dota
– appunto – di un patrimonio.
Ipotizziamo una fondazione volta allo sviluppo di attività culturali in memoria di un illustre
letterato. In questa logica, un facoltoso parente del letterato potrebbe compiere un atto di
fondazione (ipotizziamo sempre inter vivos). Compie quindi un atto pubblico (tramite
notaio) col quale costituisce la fondazione e, contestualmente, le attribuisce un patrimonio
per erogare somme di denaro al fine di rafforzare lo sviluppo culturale di un determinato
territorio.

L’attribuzione del patrimonio è fondamentale perché costituisce il metodo attraverso il


quale si consente il raggiungimento di tale finalità e dunque degli obbiettivi che sono posti
alla base dell’atto di fondazione.
Questo atto, come già accennato, può essere inter vivos o mortis causa (e quindi previsto
da un testamento). In quest’ultimo caso si prevede l’istituzione di una fondazione che
avverrà nel momento in cui entrerà in gioco la successione e la contestuale designazione di
un patrimonio per il conseguimento delle finalità.

Quindi il cuore delle fondazioni si trova nell’atto di fondazione e nell’atto di dotazione:


non è possibile riflettere sulle fondazioni senza prendere atto dell’importanza del
patrimonio. Il riconoscimento, con riferimento alle fondazioni, è altrettanto importante e
riguarda temi che abbiamo già affrontato. Anche in questo caso si tratta di un aspetto
fondamentale perché non può esistere una fondazione che non sia riconosciuta.
A tutte quelle fondazioni a cui è stato rifiutato il riconoscimento o che non lo abbiano mai
richiesto, si deve far riferimento come “associazioni non riconosciute”. Questo perché,
proprio per la natura centrale del patrimonio, si autorizzerebbero – nei fatti – dei
patrimoni separati. Il rischio sarebbe quello di prevedere patrimoni separati, quando
questa possibilità esiste solo in condizioni specifiche. Per questa ragione non possono
esistere fondazioni non riconosciute.
D’altra parte, il riconoscimento è una pratica che abbiamo già analizzato nell’ambito delle
associazioni e che fondamentalmente non ha nulla di diverso se calato nel contesto delle
fondazioni.
I punti considerati sono dunque sempre i soliti: viene valutato l’atto costitutivo; l’atto
notarile; le caratteristiche; lo scopo e la sua liceità nonché l’adeguatezza del patrimonio
per il conseguimento dello scopo. Contestualmente si verifica l’iscrizione al registro delle
persone giuridiche, acquisendo anche fattualmente la personalità giuridica. In questo
modo si ha una fondazione a tutti gli effetti.

Le attività che può svolgere una fondazione sono diverse. Bisogna però sottolineare come
valga un principio generale similare per tutti gli enti senza scopo di lucro: è possibile lo
svolgimento dell’attività economica, facendo attenzione al lucro soggettivo.

Da un punto di vista organizzativo, un ruolo centrale non può essere attribuito


all’assemblea (proprio per la struttura di questo ente), ma piuttosto al patrimonio.
Conseguentemente, l’organo fondamentale sarà il luogo in cui ci si confronta sulle attività
da svolgere con riferimento al patrimonio: l’organo gestorio, ovvero gli amministratori. Il
patrimonio stesso può peraltro alimentarsi e quindi essere soggetto a rinnovamenti (può
essere investito, reiterato, ecc). Le conseguenze di tutto ciò sono piuttosto semplici perché,
essendo un ente con personalità giuridica, sarà disposto di autonomia patrimoniale
perfetta.

Un tema legato a quanto detto finora è lo scioglimento delle fondazioni, che si ha a seguito
di esaurimento; di impossibilità; di scarsa utilità dello scopo o di insufficienza patrimoniale.
Anche in sede di scioglimento, dunque, emerge la centralità del patrimonio.
Tuttavia, l’ipotesi più diffusa è quella della modifica dello scopo (a seguito, per esempio, di
una riduzione del patrimonio o del venir meno dell’interesse per lo scopo stesso). A
seguito di provvedimenti dell’autorità governativa è possibile modificare lo scopo senza
discostarsi troppo da quello originario.

Se da una parte l’associazione è stata, a partire dalla Costituzione, un ente molto diffuso; lo
stesso non si può dire delle fondazioni. Anzi, queste ultime sono sempre state viste come
strumenti peculiari utilizzabili in caso di grandi interessi economici, ma non molto diffusi
nella prassi.
Questi profili della fondazione sembravano destinati ad una rivisitazione non soltanto per
ragioni giuridiche, ma anche per ragioni legate in larga parte al contesto sociale ed
economico. In particolar modo bisogna rilevare la crisi del cosiddetto Wellfare State, la crisi
dello stato sociale e di tutta una serie di enti pubblici che garantivano funzioni di stampo
non egoistico. Vi sono state poi una serie di trasformazioni legate agli enti pubblici che
venivano “trasformati” in fondazioni, le quali divennero uno strumento pubblico per
realizzare fini non discostanti da quelli originari. O ancora, sono state fatte ipotesi legate
alle casse di previdenza dei liberi professionisti.
Infine, sono state oggetto di rivisitazioni gli enti che per ragioni culturali hanno istituito
fondazioni di tipo universitario.
Quindi, un istituto che relativamente fino a poco tempo fa (parliamo della fine degli anni
’80) ha iniziato ad occupare un ruolo sempre più centrale, possiamo dire essere oggi uno
degli enti più rilevanti del nostro panorama.

Non bisogna però dimenticare che esistono tutta una serie di enti che sono associazioni né
fondazioni ma che ricoprono ruoli rilevanti nella nostra società:
 COMITATI

Anche questi si dividono in riconosciuti e non (in questo sono similari alle associazioni). Da
questa distinzione deriva un discorso a noi già noto: per il conseguimento del
riconoscimento è necessario presentare un’istanza alla prefettura, vengono valutati l’atto
di costituzione; lo scopo e la sua liceità; la proporzionalità e l’adeguatezza del patrimonio e
la conseguente autonomia patrimoniale perfetta. Con riferimento al comitato bisogna dire
che lo scopo è solitamente ricondotto a ragioni di pubblico interesse o comunque di
stampo altruistico.
Il comitato fondamentalmente si sviluppa in due fasi:

1. Formazione del comitato: avviene a seguito di un atto di natura contrattuale


(accordo di tipo associativo) con cui i soggetti si vincolano a svolgere una
determinata attività che, in una prima fase, consiste in una raccolta fondi. Durante
questa fase i promotori raccolgono fondi attorno ad un programma con l’intenzione
di pubblicizzare un evento di pubblico interesse (a scopo altruistico). Dietro questo
programma di fondo si sviluppa la prima fase: il recupero di fondi grazie a dei
sottoscrittori che, versando il denaro, configurano un patrimonio sostanziale che poi
viene fruito per il raggiungimento dello scopo di pubblico interesse. Il patrimonio
donato dai sottoscrittori ai promotori è sostanzialmente vincolato perché è in larga
parte raccolto pubblicamente ai fini di raggiungere uno scopo noto a tutti;
2. Erogazione dei fondi per il raggiungimento dello scopo di interesse comune.

Gli enti ovviamente non si limitano a quelli da noi elencati. Vi sono numerosissimi altri enti
che costituiscono formazioni di carattere sociale, di diversissima natura tra loro: da quelli
tradizionali presenti nelle società precedenti come gli enti religiosi, a quelli più recenti e
strutturalmente innovativi che hanno trovato la principale ragione della loro diffusione
nelle crisi che hanno colpito il nostro sistema economico e sociale. Per recuperare tutta
una serie di attività che per molto tempo sono state sviluppate dallo Stato, sono stati creati
enti che hanno poi assunto l’appannaggio di tali attività, rientrando nella grande categoria
del TERZO SETTORE. Sia chiaro, però, che non è solo un discorso di crisi di Stato, ma è
anche legato ad una serie di attività che prima erano relative al mercato ma che non
possono essere dislocate a quest’ultimo: ci sono una serie di attività e beni che devono
essere tutelati a causa della precarietà proprio del mercato.
È stato quindi necessario un intervento che, seppur realizzato da privati, avesse l’interesse
di perseguire scopi di interesse pubblico.

La diffusione del Terzo Settore è stata stravolgente: c’è stata una dimensione di sviluppo
esponenziale soprattutto negli ultimi anni. Le ragioni sono le più disparate: una è di sicuro
di carattere sociale ed economico, altre sono – per esempio – legate a determinate
agevolazioni fiscali (e sono quindi indotte).
Nel corso degli anni lo Stato ha puntato molto sul terzo settore con agevolazioni fiscali
(anche molto generose) che facevano leva sul profilo tributario fiscale e che potevano,
talvolta, essere indirette. È quindi una “galassia” che si è cercata di sviluppare anche da un
punto di vista normativo.

Oggi il fenomeno del terzo settore è molto conosciuto e molto diffuso (seppure in maggior
misura nelle regioni settentrionali). Basti pensare, per esempio, alle ONLUS: organizzazioni
non lucrative di utilità sociale.
Tuttavia, una serie di questi enti è stata oggetto di un importante intervento normativo
perché – sostanzialmente – ad un certo punto il legislatore si è reso conto che tutta questa
“galassia” di enti con l’obbiettivo di scopi d’interesse pubblico si sviluppava sempre di più e
necessitava dunque di un intervento che prevedesse un testo (che sarebbe poi diventato
una delle più importanti novità legislative degli ultimi anni): il CODICE DEL TERZO SETTORE.

Il legislatore ha quindi previsto una legge (il Codice) che, nella sua metodicità, è più limitata
e focalizzata su un certo ambito, ma che ha alcune caratteristiche che la rendono unica nel
suo tentativo di dare sistematicità alla materia.
Il riferimento normativo è il decreto legislativo 3 luglio 2017 numero 117, all’interno del
quale si trovano una serie di discipline in cui si regolamentano e si mettono a sistema tutte
le numerose e articolate norme specifiche di tutti gli enti. Il codice si richiama ad una serie
di enti a cui cerca di dare una disciplina richiamando una serie di forme già viste: profili di
associazioni che svolgono attività nel terzo settore; fondazioni di partecipazione; ecc.
Si prevedono dunque una serie di discipline di tipo privatistico legate ai rapporti di diritto
privato contenute nel codice solo, però, in modo parziale (ovvero solo in parte riguardano
strettamente la disciplina privatistica).
Un altro importante dato di cui tener conto quando si parla di terzo settore è la definizione
di ente del terzo settore, la quale si prevede grazie agli articoli 4, 8-9, 5-45 del
dec.leg.117/2017.
Negli articoli di riferimento si evidenzia come siano enti del terzo settore quegli enti di
carattere privato che, senza scopo di lucro, perseguono finalità civiche, solidaristiche e di
attività sociale mediante lo svolgimento di una delle attività contenute nell’art.5 e che
risultino iscritte al REGISTRO UNICO NAZIONALE DEL TERZO SETTORE.
Quindi la nuova definizione di ente del terzo settore è una definizione normativa
composita, perché composta da una serie di caratteri: il fatto che l’ente sia di carattere
privato; che l’ente sia senza scopo di lucro; il fatto che debba perseguire scopi con finalità
civiche, solidaristiche e di utilità sociale; e che lo faccia tramite attività specifiche dichiarate
all’art.5 del codice.

Bisogna fare attenzione però, perché esiste un appiglio di ordine formale di tipo
tecnico/pratico: è vero che siano necessarie tutte queste caratteristiche affinché si possa
parlare di ente del terzo settore, ma è necessario anche un profilo tecnico e pratico, ovvero
che questi enti siano iscritti al registro unico nazionale del terzo settore; il registro istituito
dal Ministro del lavoro e che contiene tutti gli enti che possano essere considerati del terzo
settore. È un’iscrizione obbligatoria fondamentale, perché in assenza di questa non si può
essere considerati enti del terzo settore, con il rischio di avere effetti pratici molto
significativi per quanto riguarda la possibilità di accedere ai vantaggi fiscali. Questo registro
ha peraltro la funzione (oltre di garantire a chi possibile l’erogazione di agevolazioni) di
recuperare una serie di altri registri precedenti, che hanno la possibilità di trasferire un
numero di enti che erano già oggetto e di specifiche normative e agevolazioni.
Tutta questa normativa trova un suo riscontro non solo nella disciplina civilistica pura, ma
anche nella disciplina costituzionale, perché il principio richiamato dal codice del terzo
settore è quello della sussidiarietà (art.18/comma 4 della Costituzione):

“Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio
unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei
principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari


di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale,
secondo le rispettive competenze.

La legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui
alle lettere b) e h) del secondo comma dell'articolo 117, e disciplina inoltre forme di intesa
e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali.

Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa


dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla
base del principio di sussidiarietà”.

Il terzo settore, quindi, altro non è che un riflesso dei principi espressi in questo articolo.

Per concludere, va fatto riferimento al fatto che la riforma del terzo settore non è una
riforma isolata. Com’è vero che il codice civile liberale del ’42 sia stato parzialmente
modificato, è vero anche che tra le possibili modifiche troviamo quella degli enti (nella
parte specificatamente espressa nelle nostre lezioni).
Una delle possibilità è stata quella di fare attenzione alle norme previste proprio dal codice
del terzo settore per modificare l’intero codice civile nell’ambito degli enti, soprattutto in
alcuni specifici profili quali il riconoscimento, il profilo della democraticità e della porta
aperta.
11/03/20

I DIRITTI DEI RAPPORTI DI DIRITTO PRIVATO

Prima di addentrarci nell’ambito dei diritti dei soggetti nei rapporti di diritto privato, è
necessario affrontare un macro-tema (che di articola in una serie di ulteriori temi)
nell’ottica di comprendere poi una serie di istituti che riguardano i diritti reali di tutti i
soggetti.

Questo macro-tema riguarda il ruolo svolto, nell’ambito del diritto privato, dal tempo. Il
tempo ha un ruolo rilevante nel diritto, in cui ha funzioni e caratteristiche diverse che
possono essere distinte in base ai vari settori del diritto coinvolto (nel nostro caso
nell’ambito dei rapporti del diritto privato).
Prima di considerare quelli che sono i principali istituti disciplinato volti a governare il
tempo nei rapporti del diritto privato, bisogna affrontare il tema in termini generali. Il
problema generale dei rapporti del diritto privato sta nel come computare i termini, in
altre parole come misurare il trascorrere del tempo. La prima risposta che si può dare a
questo quesito è forse la più banale, ma non per questo scorretta: la considerazione del
calendario comune. Ovvero, per valutare i termini, come prima cosa si considera il
calendario che già di per sé disciplina la vita dell’uomo. Per mera notazione storica, il
calendario comune in uso oggi è il calendario gregoriano, ma non è sempre stato quello di
riferimento. Al netto della valutazione del calendario, bisogna andare più nello specifico
per poter comprendere effettivamente il ruolo del tempo: quando sorge un determinato
diritto, quando si estingue e che caratteristiche si valutano nel dettaglio. Rispetto a queste
domande ci soccorre uno speciale articolo del Codice Civile: l’art.2963.

“I termini di prescrizione contemplati dal presente codice e dalle altre leggi si computano
secondo il calendario comune [155, 2 c.p.c.].
Non si computa il giorno nel corso del quale cade il momento iniziale del termine e la
prescrizione si verifica con lo spirare dell'ultimo istante del giorno finale.
Se il termine scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente non festivo.
La prescrizione a mesi si verifica nel mese di scadenza e nel giorno di questo corrispondente
al giorno del mese iniziale.
Se nel mese di scadenza manca tale giorno, il termine si compie con l'ultimo giorno dello
stesso mese.”

28
L’articolo delinea una serie di regole che ci permettono di districare in maniera più
dettagliata nell’ambito del ruolo assunto dal tempo nei rapporti di diritto privato, in
particolare a partire dalla prescrizione. Queste regole sono:
- Riferimento al calendario comune;
- Computo di giorno iniziale e giorno finale (in particolare la necessità di non
conteggiare il giorno iniziale, ma di computare quello finale);
- Qualora la scadenza di un termine cada in un giorno festivo, questa verrà prorogata
al giorno seguente non festivo;
- Necessità di computare i termini in base a concetti nominali (ad esempio la
valutazione viene fatta in un determinato mese).
Sembrano (ed effettivamente sono) nozioni basilari, che sono però necessarie per
comprendere i termini di cui parleremo con riferimento a prescrizioni ed istituti per capire
come il tempo vada effettivamente computato e fatto oggetto di valutazioni. Per esempio,
una regola già più complessa contenuta nell’ultimo comma dell’art.2963 è il riferimento
all’idea che la scadenza si compia con l’ultimo giorno del mese successivo.
Gli effetti rilevanti che queste regole del tempo possono avere sono molto significativi in
termini, ad esempio, di costituzione dei diritti: il trascorrere del tempo può assumere
funzioni importanti nell’ottica della costituzione dei nostri diritti.
Ancora, il tempo può avere un effetto importante dal punto di vista dell’estinzione di un
diritto (come vedremo nella prescrizione estintiva).
Un altro caso ancora sono le prescrizioni presuntive in cui, come vedremo, il trascorrere
del tempo svolge un ruolo rilevante nella presunzione che un diritto sia stato adempiuto e
quindi estinto (senza però distinguere il diritto di per sé).
Lo strumento acquisitivo è uno strumento tramite cui si acquista un nuovo diritto
attraverso lo scorrere del tempo.
Nel corso della lezione presteremo particolare attenzione a:
- Prescrizione estintiva
- Prescrizione presuntiva
- Decadenza
Ovvero istituti che consentono di riflettere sul trascorrere del tempo. In quest’ottica, in
realtà, la distinzione tra prescrizione estintiva (che estingue un diritto) si contrappone alla
figura dell’usucapione (nell’ambito della prescrizione acquisitiva).
 PRESCRIZIONE ESTINTIVA: è caratterizzata dall’inerzia del titolare del diritto.
Attraverso l’istituto della prescrizione estintiva, il legislatore vuole capire coloro i
quali non utilizzano il loro diritto pur essendone titolari. Per evitare che si crei, a
seguito di questa inerzia, una situazione di incertezza giuridica (dovuta ad esempio
alla mancanza di conoscenza), il legislatore prevede l’utilizzo della prescrizione
estintiva per dare l’idea che trascorso un periodo - più o meno lungo - di inerzia del

29
titolare del diritto, tale diritto viene estinto.
Assunto il concetto fondamentale della prescrizione, bisogna ora valutarne
l’operatività.
Se l’obbiettivo della prescrizione è assicurarsi la certezza delle transizioni giuridiche
e commerciali, è chiaro che non si tratti di un interesse strettamente privato. Sono
infatti interessi di ordine pubblico e da questi ne scaturisce il fatto che non occorra
tener conto dell’inderogabilità della disciplina (=non posso non applicarla), perché
dietro la fissazione di questi termini giacciono dei principi di ordine pubblico che – in
quanto tali – non possono essere derogati o modificati da singoli privati. Questa
impossibilità di deroga è vera dal punto di vista dell’indisponibilità generale, ma
concretamente può – in alcuni casi – essere oggetto di rinunce purché siano
successive. Non è dunque possibile rinunciare preventivamente alla prescrizione, né
tantomeno durante la pendenza del termine. La possibilità è valida solo nel caso di
rinuncia successiva perché si mette in luce il fatto che quello che prima era un tema
di ordine pubblico è divenuto di interesse privato. La rinuncia può essere fatta in
forma espressa o in forma tacita, cioè può essere espressamente esplicitata
attraverso un atto, oppure può essere legata ad un comportamento implicito che è
però incompatibile con la necessità di avvalersi di un certo diritto. Per le stesse
ragioni non sarà possibile per il giudice rilevare l’estinzione, perché ci sarà sempre
bisogno di un’istanza.
Con riferimento al tema della prescrizione è importante richiamare la possibilità -
che sostanzialmente rientra in una forma di rinuncia tacita alla prescrizione – di
adempiere un debito o un’obbligazione che sia già prescritta. Questa figura rientra
nell’alveo delle obbligazioni naturali perché non si riferisce all’esecuzione di una
vera e propria obbligazione, ma una parte – pur consapevole dell’avvenuta
prescrizione – decide comunque di adempiere all’obbligazione, facendo scattare
l’unico effetto delle obbligazioni naturali: la possibilità di adempiere e la
consapevolezza che dopo l’adempimento non sia possibile agire con la ripetizione e
quindi chiedere la restituzione. L’oggetto della prescrizione sono i diritti. Il concetto,
in realtà, merita di essere specificato sotto un duplice punto di vista:

1. In primo luogo, merita di essere specificato dal punto di vista di chi ha sostenuto
a lungo che la prescrizione, più che estinguere un diritto, estingueva l’azione con
cui si faceva valere un determinato diritto. A questo proposito, il Codice Civile è
stato piuttosto chiaro, dunque anche a noi spetta essere chiari nel dire che la
prescrizione non estingue l’azione ma il diritto. Tutto questo viene palesato in
maniera netta all’art.2963 del Codice Civile [vedi sopra]. Quindi potenzialmente,
almeno in astratto, tutti i diritti sono oggetto di prescrizione. In realtà non è cosi.

30
Vi possono essere diritti che non possono essere oggetto di prescrizione, si tratta
dei diritti imperscrittibili. Un esempio per tutti è il diritto di proprietà, perché si
ritiene che anche il non uso di un determinato bene sia in realtà un modo di
essere proprietari.

Bisogna ora valutare il profilo strettamente temporale della prescrizione.


Prevalentemente a questo scopo bisogna considerare alcuni profili:
- il primo è quando inizia a decorrere il termine di prescrizione (quando inizia):
inizia a decorrere nel momento in cui il diritto avrebbe potuto essere esercitato.
Anche in questo caso ci sono condizioni discordanti: un diritto può essere
sottoposto a una condizione la cui assenza preclude il diritto stesso. In questi casi
è importante sapere perché il termine di prescrizione decorre dal momento in
cui si può esercitare il diritto. Dobbiamo però riflettere anche su due istituti
interni alla prescrizione e legati tra loro:
1. Sospensione
2. Interruzione

Questi due istituti, seppure simili, sono caratterizzati da fondamenti diversi: la


sospensione è legata al fatto che l’inerzia del titolare - pur esistente- viene
giustificata (ad esempio termini di prescrizione di debito/credito fra coniugi non
legalmente separati). In questi casi non si ritiene che l’inerzia sia cessata, ma che
questa sia inferiore e quindi giustificabile dal fatto che con i coniugi vengano
meno certi interessi patrimoniali da esercitare. Si ha quindi una sospensione che
giustifica l’inerzia del titolare del diritto.
L’interruzione, invece, fa venir meno l’inerzia stessa. Il titolare può agire
espressamente e quindi - per esempio - agisce giudizialmente avviando
procedure legali volte a preparare l’azione in giudizio (o a cercare un accordo);
oppure può agire in termini extragiudiziali (con un tentativo quale quello della
messa in mora.
Sono atti e strumenti con i quali il titolare del diritto manifesta che non è più
inerte ed è quindi interessato ad esercitare il suo diritto. Quest’inerzia, però, può
venir meno anche a causa del soggetto passivo che, per esempio, può
riconoscere il debito. In questi modi si può interrompere il decorso del termine
di prescrizione.
Questo, come intuibile, ha effetti indiscutibili sul periodo precedente alla
sospensione o interruzione, perché - nell’ottica della sospensione - il termine
precedente dell’evento finirà per essere computato ed eventualmente sommato
con il periodo successivo; nell’ipotesi dell’interruzione il termine viene del tutto

31
caducato dall’atto interruttivo.

Qual è il termine di prescrizione? (art. 2946)

Esiste una prescrizione generale rappresentata dal termine di prescrizione


ordinaria pari a 10 anni. Tuttavia, possiamo (e dobbiamo) avere termini molto
diversi e numerosi:
1. Termine di prescrizione lungo: è dovuto al termine per l’estinzione di
determinati diritti privati su cosa altrui, che si prescrivono in 20 anni.
2. Termine di prescrizione breve: è per esempio la disciplina che riguarda il
termine di prescrizione per il risarcimento del danno nell’ambito della
responsabilità extra contrattuale, che si prescrive in 5 anni. Il termine si riduce
ulteriormente a 2 nel caso di prescrizione a seguito di illecito extracontrattuale,
legato a circolazione di autoveicoli.
3. Termine di prescrizione ancora più breve: il termine per la rescissione del
contratto è di, al massimo, un anno.

In realtà però, la prescrizione estintiva, pur essendo la figura largamente più


importante in materia di effetti del tempo sui diritti, è affiancata dalla figura
delle prescrizioni presuntive.

 PRESCRIZIONE PRESUNTIVA: non estingue il diritto, ma si limita a fondare una


presunzione sul fatto che il debito sia stato effettivamente pagato o che
l’obbligazione sia stata in qualche modo estinta. In altri termini, a seguito della
prescrizione presuntiva l’ordinamento di limita a presumere che si sia verificata una
causa estintiva del debito senza che – di per sé – sia la prescrizione ad estinguere il
debito stesso. Sostanzialmente si realizza una presunzione di estinzione del debito.
Dunque, da un punto di vista pratico, il debitore viene esonerato dall’obbligo di
fornire la prova di aver effettivamente adempiuto al pagamento. È chiaro che si
tratti di uno strumento che – seppure presente – consente (in tempi piuttosto brevi)
un’inversione dell’onere e della prova.
Le prescrizioni presuntive finiscono per operare in un ambito ristretto: basti pensare
che NON possono operare in tutte le ipotesi in cui i debiti derivano espressamente
da contratti stipulati in forma scritta.
 DECADENZA: nasce con un fondamento diverso rispetto alla prescrizione. Se per la
prescrizione estintiva il presupposto è tutelare la certezza del diritto contro l’inerzia
del titolare (quindi per evitare l’incertezza giuridica), si prevede una prescrizione che
tuteli l’ordine pubblico. L’istituto della decadenza, invece, si limita a fissare un

32
termine perentorio entro il quale chi ha un determinato diritto deve realizzare una
certa attività. Trascorso questo termine si decade dal diritto, il quale non potrà più
essere esercitato.
Se questo è il senso diverso della decadenza, risulterà evidente come gli istituti di
cui ci siamo occupati non si applichino nello stesso modo: sostanzialmente non si
applicano gli istituti di sospensione e interruzione. L’unico modo per bloccare la
decadenza è proprio il compimento dell’atto richiesto.
La decadenza, poi, è caratterizzata da delle norme di cui si richiede una specifica
applicazione. Non è possibile un’applicazione analogica delle norme sulla decadenza
perché sono norme di termini perentori fissati per una stretta applicazione nel caso
specifico, quindi l’opportunità di applicarle in altri ambiti è evidentemente preclusa;
anche se – a differenza della prescrizione – la decadenza prevista nell’interesse
generale può essere rilevata d’ufficio (dunque espressa direttamente dal giudice).
Tuttavia, bisogna dire che tutto ciò viene fatto quando il termine di decadenza è
previsto dalla legge, cioè in termini di decadenza legale, ed è quindi il legislatore che
ritiene necessario fissare un termine entro il quale fissare una data di scadenza. In
questi casi è possibile dare al giudice il compito di rilevare l’intervenuta decadenza e
sarà anche possibile prevedere l’ipotesi si decadenza convenzionale, cioè l’ipotesi in
cui il termine perentorio può essere previsto non solo nell’interesse individuale, ma
anche nell’interesse delle due parti che si sono accordate tra loro
convenzionalmente (quindi non come effetto della legge, ma come effetto
dell’accordo tra due parti), scegliendo di fissare dei termini di scadenza. È chiaro
però che la decadenza convenzionale potrà essere fissata solo con riferimento ai
diritti disponibili che possono essere utilizzati dalle parti

DIRITTI REALI
(da RES=cosa)
Si parla in generale di diritti reali in riferimento a quei diritti che si riferiscono ad una
“cosa”. In altre semplici parole, sono i diritti sulla cosa. In realtà il diritto romano era - da
questo punto di vista - un sistema molto diverso, basato sulla formulazione di specifiche
aziono che erano appunto a tutela di cose e persone. Di tutto questo è rimasta solo
l’etimologia.
Le caratteristiche generali dei diritti reali sono tre:
1. Immediatezza: significa che il titolare è capace di esercitare subito e
immediatamente il suo diritto sulla cosa;
2. Assolutezza: il diritto può essere esercitato nei confronti di tutti ed è assoluto (nei
confronti di tutti e non solo del singolo);

33
3. Inerenza: a fronte dell’opponibilità di un diritto, può essere fatta valere nei
confronti di tutti coloro i quali hanno rapporti con la “cosa” oggetto del diritto.
Il trasferimento della “cosa”, se si ha un diritto reale su di essa, non preclude di
esercitare il diritto nei confronti del nuovo possessore (diritto di sequela).
Queste caratteristiche non sono necessariamente sempre presenti, tantomeno sono le
uniche dei diritti. Sono però necessarie per capire che, anche in una logica distintiva,
esistono dei tratti generali per la maggioranza di questi diritti.
I diritti reali sono poi caratterizzati da un altro profilo che necessita attenzione: la
tipicità; cioè i diritti sono previsti da un legislatore e sono un numero chiuso (quindi
non è possibile costituire nuovi diritti reali attraverso l’autonomia privata o la volontà
delle parti). Questo sostanzialmente perché si vuole evitare che si creino una
molteplicità di limiti e vincoli una serie di limitazioni che finiscono per comprimere
eccessivamente il diritto del proprietario sul bene. In questo modo si cercano di
tutelare anche i terzi, perché in questo modo essi sono portati a sapere e conoscere
quali limiti e vincoli sono possibili per un determinato bene.
La classificazione dei diritti reali impone una distinzione tra diritti reali su cosa propria e
diritti reali su cosa altrui. Vengono quindi catalogati tutti i diritti che concorrono con il
diritto di proprietà, ma costituiscono altri diritti reali e quindi limitano il diritto del
proprietario sulla cosa stessa.
A loro volta i diritti su cosa altrui sono si distinguono in diritti di godimento
caratterizzati dal fatto di essere volti a trarre una qualche utilità dal bene; e diritti di
garanzia che invece insistono su quella che vedremo essere l’altra facoltà della
proprietà: la disponibilità del bene. I diritti di garanzia dunque limitano la disponibilità
del bene in quanto prevedono un diritto di sequela che garantisce la possibilità di farsi
assegnare, con diritto di prelazione, un determinato bene.

34
16/03/20

DIRITTO DI PROPRIETA’
(diritto reale su cosa propria)

È probabilmente il più importante tra i diritti reali. Attorno al diritto di proprietà ci


sono una serie di riflessioni da compiere, anche alla luce del tema rilevante e della
grande attenzione che ad essa è stata riservata, non solo per la pratica. Ogni giorno
abbiamo a che fare con temi e problemi legati a questo diritto, ma anche a problemi
e ragioni legate all’attenzione dedicata, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza e
dalla letteratura.
Sono state date molte definizioni del diritto di proprietà dal punto di vista giuridico,
ma anche filosofico ed economico, rispetto all’idea del diritto di proprietà - nel
senso di essere proprietari di qualcosa che non è ristretto solo all’ambito giuridico,
ma si esprime nella sua interezza anche in tutti gli altri ambiti.
Basti pensare alla celebre frase di Proudhon, il quale riteneva che la proprietà fosse
un furto. È chiaramente una definizione molto sfidante rispetto a quello che oggi
riteniamo proprietà. Anche in tempo più recenti, come ad esempio la formazione
del privatista Rodotà che, a proposito di proprietà, parla espressamente del
“terribile diritto”.
Queste indicazioni introduttive servono a prendere consapevolezza del fatto che
quello di cui oggi ci occupiamo è un argomento che ha tradizionalmente interessato
gli studiosi. Sicuramente perché interessa molte persone nella quotidianità, ma
anche perché è stato oggetto specifico di riflessioni più complessive. È un tema
classico che però rimane sempre attuale non solo in ambito giuridico, ma anche in
molti altri settori. Ciò che a noi interessa maggiormente è la parte più tecnica,
quindi strettamente legata al diritto reale su cosa propria.
Prima di procedere però bisogna fisiologicamente riflettere sulla prospettiva
giuridica privatistica in una logica anche storica. Si cercherà dunque di capire non
solo cosa sia (e cosa fosse) il diritto di proprietà e quali caratteristiche abbia, ma
anche quale condizione ha avuto nel corso della storia del nostro ordinamento
giuridico.

- L’Italia dell’800: “Lo Statuto Albertino” (1848) era il testo di riferimento nell’Italia
liberale: la carta equivalente alle carte costituzionali prima della Costituzione del
’48. In materia di proprietà lo “statuto Albertino” prevedeva espressamente
all’art.29//c1, che le proprietà fossero inviolabili. Sia chiaro che il testo richiamato è
perfettamente inserito, da questo punto di vista, con gli altri principali testi e
35
costituzioni dell’epoca, alcune delle quali nel XIX secolo definivano il diritto di
proprietà un diritto sacro. D’altronde difficilmente avrebbe potuto essere in modo
diverso: il diritto di proprietà, infatti, è l’espressione più diretta della libertà di
ciascun individuo, cioè l’evidente espressione del fatto che l’uomo - in quanto libero
- possa essere proprietario di un bene. Quindi in qualche modo diventa una sorta di
diritto innato, espressione della libertà dell’uomo. Questa è una visione tipicamente
ottocentesca dove, come periodo storico, il liberalismo ha svolto un ruolo
significativo. È il periodo della cosiddetta “età liberale” che non ha mancato di
svolgere un ruolo rilevante, seppur in misura inferiore, anche nel tessuto
fondamentale del Codice Civile.
Come abbiamo accennato, è vero che i il codice è del ’42, è stato emanato nel
periodo del regime fascista; ma è anche vero che i giuristi che preparavano le
formulazioni del codice erano studiosi formatisi in epoca liberale. Dunque, diventa
l’espressione (nel nostro codice civile) di una visione del diritto di proprietà ancora
abbastanza improntata a caratteri liberali, seppure in maniera piuttosto rivisitata,
ridotta e limitata.

Cod. Civ. Art.832: “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo
pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti
dall'ordinamento giuridico [Cost. 42, 43, 44]”
-
Innanzitutto, il riferimento al diritto di proprietà è riassunto nella formula “diritto di
godere e disporre delle cose”. È dunque il diritto di trarre utilità dal bene posseduto,
ed è anche diritto di disporre delle cose e quindi di cedere ad altri (in tutto o in
parte) dei diritti su quelle cose.
- L’articolo dice anche che il proprietario ha diritto di godere di un bene in modo
pieno ed esclusivo. In modo pieno significa che il proprietario può utilizzare il bene
giungendo a farne ciò che vuole. Può farlo anche in modo esclusivo e quindi
escludendo gli altri dall’uso della cosa.
-
- Occorre ora riflettere seriamente sul contenuto della seconda parte dell’articolo:
cosa si intende quando si dice che “queste facoltà sono proprie del proprietario
entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.
- L’idea originaria, strettamente ottocentesca, era quella che le facoltà del
proprietario fossero molto ampie - d’altronde questo sembra intuibile nella prima
parte dell’articolo. Questo da un lato induce a una visione più tradizionale nel
considerare i limiti e gli obblighi stabiliti dall’ordinamento come eccezionali: è vero
che ci sono degli obblighi, ma sono marginali. La realtà è che il diritto di proprietà è

36
un diritto centrale e molto ampio, seppure con dei limiti.
Questa visione era la più tradizionale perché più vicina all’interpretazione che si può
dare all’art.832, nell’ottica “conseguente” e quella storica del liberalismo
ottocentesco che risulta decisamente più complessa all’esito degli studi successivi,
ma anche delle diverse interpretazioni che ne sono scaturite. Come già detto, nel
’48 viene emanata la Costituzione italiana, che prende in considerazione il diritto di
proprietà, ma non sembra adottare la stessa posizione del passato.
- Il diritto di proprietà non è più, in senso costituzionale, visto come un diritto
invidiabile, tantomeno si parla di sacralità. Il diritto di proprietà è sicuramente visto
come un diritto importante e significativo perché, com’è noto, anche nella
Costituzione della Repubblica italiana, la visione di presupposto liberale ha avuto un
suo ruolo, che però ha assunto una posizione diversa rispetto a quella nello Statuto
Albertino. Innanzitutto, anche solo dal punto di vista sistematico, il diritto di
proprietà non è inserito né tra i principi fondamentali (quindi gli articoli dall’1 al 12),
né fra i diritti di libertà (dall’art. 13 all’art. 28). Il diritto di proprietà è invece
contemplato nella sezione riguardante i rapporti economici, nell’ambito di quella
che da alcuni è stata definita la “Costituzione Economica”. In particolare, gli articoli
da guardare per avere un’idea della diversa visione del diritto di proprietà nella
nostra costituzione sono l’art.42 e seguenti, con particolare interesse proprio per
l’art.42 perché, con alcune formulazioni, si occupa in generale del diritto di
proprietà.
- Iniziando a considerare il diritto di proprietà nella Costituzione, dobbiamo vedere
cosa sostiene soprattutto l’art.42 che si apre dicendo che “la proprietà è pubblica o
privata”.
- Per quanto riguarda la proprietà privata, dal comma 2 si evidenzia come questa sia
garantita dalla legge: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita
dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i
limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla
accessibile a tutti [cfr. artt. 44, 47 c. 2]”
-
- Anche qui dobbiamo considerare nel dettaglio quanto viene detto nella disposizione
della Costituzione: vengono espresse in maniera chiara delle opzioni di fondo fatte
per l’intero ordinamento.

1. In un momento storico in cui si confrontavano diverse visioni costituenti,


l’ordinamento giuridico italiano si preoccupa di garantire il diritto di proprietà,
riconoscendolo come diritto fondamentale in un’ottica liberale. Questo diritto però
viene “controllato” dalla legge, la quale stabilisce e regolamenta il diritto

37
prevedendo i modi di acquisto, ma anche svolgendo un’attività che fino ad ora non
era stata presa in considerazione dal legislatore italiano: “fissa i modi di acquisto, di
godimento e i limiti del diritto di proprietà, allo scopo di assicurarne la funzione
sociale e di renderla accessibile a tutti”.
Si vedono qui, mirabilmente sintetizzate, le diverse posizioni delle tradizioni
politiche che hanno portato alla nostra costituzione.

La proprietà privata è un diritto: è riconosciuta e garantita dalla legge, ma è la legge


che la disciplina nel dettaglio. In altri termini, si vuole realizzare uno sfruttamento
economicamente efficiente dei beni, ma al contempo si vuole cercare di instaurare
rapporti sociali. È in questo modo che riemerge una visione genericamente
socialcomunista: è vero e importante che nel nostro sistema esista il diritto di proprietà
e che ciascuno abbia la possibilità di avvalersene; non è vero che è un furto, ma è un
diritto che va regolato attraverso la legge e, nell’esserlo, dev’essere anche
funzionalizzato per garantire la funzione sociale e la fruibilità da parte di tutti.

È evidente il passaggio significativo dalla visione strettamente ottocentesca a quella


della nostra carta costituzionale. È evidente anche che la formula dell’art.832 acquista,
in questa diversa prospettiva, tutt’altro significato. Non parliamo più di una visione
meramente eccezionale, ma sono profili che - letti alla luce dell’art.832 - conformano in
modo determinante il nostro diritto di proprietà.
L’impostazione della costituzione si distingue per comportare una rilettura dello stesso
Codice civile. L’iter di revisione, però, non può esaurirsi solo con i riferimenti appena
osservati per una molteplicità di ragioni. La prima è legata al fatto che il testo
normativo e costituzionale è suscettibile a diverse interpretazioni. Si è giunti a questa
interpretazione di minor ispirazione liberale da parte di alcuni autori soprattutto a
partire dagli anni ’60.
Da una parte quindi c’è un’evoluzione storica e dottrinale del pensiero, dall’altra c’è
l’intervento di ulteriori eventi economici, istituzionali e, in senso lato, giuridici. Tra
questi la presenza sempre più diffusa di una normativa sovrannazionale che vale su
molti temi.
Sul diritto di proprietà ciò che emerge dalle carte è una nuova valutazione in ottica più
liberale. Viene inserito come argomento e tema specifico. Il diritto di proprietà sembra
quindi tornare ad essere una forma di espressione diretta della libertà e si richiama tra i
principali testi di proprietà. Si tratta ancora oggi di riferimenti piuttosto limitati e
sporadici, ma non c’è dubbio che l’impianto europeo di matrice comunitaria è meno
attento rispetto quanto si è ritenuto essere nella cultura a partire dalla metà degli anni
38
’60 (del testo costituzionale). Cioè, la visione della funzione sociale nella logica europea
sembra essere obiettivamente meno marcata. Tuttavia, in questo ambito si parla di
trend e quindi di profili che sono al momento in continua evoluzione e poco assestati
proprio per la mancanza di testi che li prevedano in termini univoci e specifici.

Oggi la nostra visione di proprietà è ancora molto legata all’art.42 della Costituzione e
in quanto tale si tende ad interpretare il diritto di proprietà come espressione della
libertà (in particolar modo della libertà di iniziativa economica privata) e come
strumento funzionale per assicurare dei rapporti sociali. Questa diversa visione,
orientata dalla diversa interpretazione degli articoli del Codice Civile nella prospettiva
della Costituzione, non si limita solo ai profili di stampo generale, ma ha delle ricadute
pratiche concrete e significative che, attraverso la visione delle norme, proveremo ad
analizzare.

Innanzitutto, bisogna richiamare il fatto che il diritto di proprietà venga limitato dal
Codice Civile già a partire da quanto espresso dall’art. 833 che riguarda gli atti
emulativi: “Il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di
nuocere o recare molestia ad altri”

In particolare, si vuole evitare che - dato un determinato diritto - poi se ne abusi.

In materia di atti emulativi l’articolo ci informa che il proprietario incorre nel divieto di
atti emulativi se riscontra due presupposti:
1. Non avere un vantaggio da un determinato comportamento;
2. Questo comportamento ha l’unico intento di recare molestie e nuocere ad altri
soggetti.

Questo significa che non si possa incorrere nel divieto per degli atti omissivi, ma bisogna
materialmente compiere un atto che faccia scattare questa disposizione, che limita già
nella formulazione del 1942 il diritto del proprietario. Ovviamente parliamo di limiti che
nella prima enunciazione erano eccezionali e marginali, ma in una lettura più complessiva –
oggi - è davvero impossibile definirli tali; sono per lo più strumenti di conformazione del
contenuto del diritto di proprietà.
Le disposizioni che seguono nel Codice Civile riguardano temi davvero disparati: i diversi
tipi di proprietà (per cui il Codice prevede normative specifiche) e temi che prevedono una
continua interazione tra diritto pubblico e privato.

Disposizioni come gli atti emulativi vengono definite di carattere orizzontale, cioè limiti
legati ai rapporti fra privati che siano posti sullo stesso piano: più nel dettaglio c’è chi ha
39
parlato di “rapporti del vicinato”; distinguendoli dai diritti verticali, imposti invece al
singolo proprietario per esigenze legate alla sfera pubblica.
Con riferimento ai limiti orizzontali, oltre al richiamo immediatamente successivo
all’art.832/833, altro tema fondamentale è quello delle immissioni, che si trova all’art.844:
“Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le
esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni(1)derivanti dal fondo(2) del vicino(3),
se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.
Nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della
produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato
uso”

È un articolo molto importante non solo per quanto riguarda la tutela del proprietario, ma
anche per i rapporti tra proprietari. L’articolo riguarda l’emanazione di fumi, esalazioni,
rumori e scotimenti che avvengono su un determinato terreno di cui un soggetto è
proprietario. È evidente come queste immissioni materiali, che possono avvenire da parte
di un soggetto su un fondo vicino, sono vietate.
Il tema è però più complicato nel momento in cui l’attività di immissione avviene sul
proprio bene: il problema è se queste immissioni possano o meno essere tollerate dal
soggetto più vicino. Queste vengono definite immissioni immateriali.
Fondamentale, per avere presente questa disciplina, si fa riferimento alll’idea della soglia
di normale tollerabilità. In altri termini, bisogna comprendere se le immissioni di turno
superino o meno questa soglia, perché è evidente che se le immissioni non la superano –
quasi per definizione – un soggetto è tenuto a tollerare la condotta dell’altro senza alcuno
strumento per poterla contrastare. Se invece la soglia viene superata e il soggetto non è
tenuto a tollerare il comportamento del vicino, bisogna comprendere se vi siano esigenze
per cui il vicino compie queste immissioni.

Come facciamo a comprendere quale sia questa soglia di normale tollerabilità?


Le valutazioni dipendono dal caso specifico e, in larga parte, dalla condizione specifica dei
luoghi.
Alla luce di queste valutazioni concrete dei luoghi stessi si prevedrà se la soglia viene
superata o meno.
Nel caso di superamento subentra una seconda valutazione: se il superamento è
giustificabile da esigenze di produzione. È evidente allora che, in questi casi, la risposta
dell’ordinamento sarà diversa: la condotta potrà proseguire, ma sarà dovuto un indennizzo
al soggetto che ha subito un qualche pregiudizio.

40
L’ipotesi limite è quella in cui il superamento delle soglie di tollerabilità NON è affiancato
da esigenze di produzione: in questi casi l’ordinamento prevedrà la cessazione della
condotta e il risarcimento integrale del danno.
Questo per quanto riguarda la disciplina classica delle immissioni ma, di recente, vi è un
orientamento della cassazione che tende a estendere gli strumenti appena visti anche nei
confronti di immissioni che rischiano di pregiudicare la tutale della salute e dell’ambiente.
La disposizione originariamente nata per regolare i rapporti tra proprietari rappresenta
oggi uno strumento volto a tutelare anche rapporti legati alla salute e all’ambiente e non
solo rapporti di tipo proprietario.

Sempre nell’ottica di disposizioni di limiti orizzontali, dobbiamo richiamare la disciplina che


riguarda da un lato le distanze legali e dall’altro le luci e le vedute. Sono terreni dove, per
eccellenza, si ha una sovrapposizione della disciplina civilistica con quella dei vari piani di
diritto amministrativo (in particolare il diritto urbanistico).
Dal punto di vista delle distanze legali esistono delle disposizioni, in particolare l’art.873 del
Codice civile: “Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere
tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una
distanza maggiore [878]”.
Si tratta però di discipline che vanno sempre coordinate con altre molto più forti perché
espressioni di interesse pubblico di stampo amministrativo.

Con riferimento a luci e vedute (cioè aperture nel muro che divide due fondi), bisogna
valutare se da questa apertura possano passare solo luce ed aria o se invece queste
aperture possano affacciare, avendo quindi una vista. Nel primo caso abbiamo a che fare
con “luci”, viceversa - nel secondo - abbiamo a che fare con “vedute. Tutto questo per
quanto riguarda i rapporti privatistici.

Tuttavia, il richiamo è rivolto non solo ai limiti orizzontali, ma anche a quelli verticali (cioè
di interesse pubblico) che si riscontrano all’art.42 comma 3 della Costituzione: “La
proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata
per motivi d'interesse generale”.

Si prevede dunque un limite significativo al diritto di proprietà che lo orienta ad una


funzione sociale, prevedendo un istituto che è stato poi specificamente disciplinato dal
DPR (decreto del Presidente della Repubblica) 327/2001, il quale regola le espropriazioni.
La visione è quella dell’art.42//3 appena vista.

L’espropriazione - e quindi il trasferimento del diritto di proprietà - può essere di due tipi:

41
1. Trasferimento PURO del diritto di proprietà (ovvero espropriazione traslativa):
qualora ci sia una legge che prevede la possibilità di espropriare e vi sia un
indennizzo, si può trasferire un bene da un soggetto ad un altro;
2. Espropriazione LARVATA (vincolo sostanzialmente espropriativo): la proprietà non
cambia (non si passa da un soggetto ad un altro) ma lo stesso soggetto viene
limitato fortemente nel suo diritto di proprietà.

I tre elementi necessari perché si abbia espropriazione sono:


1. Previsione legislativa che la consenta;
2. Indennizzo in denaro;
3. Motivi di interesse generale

Se è vero ciò che abbiamo detto finora con riferimento alle caratteristiche
dell’espropriazione, bisogna accennare anche alle caratteristiche dell’indennizzo. Il
computo esatto dell’entità dell’indennizzo viene lasciato alla normativa dell’ispettore e ad
un’analisi specifica del caso concreto. L’indennizzo viene ritenuto essere, nella logica
costituzionale e del codice, un “serio ristoro” per il soggetto espropriato dal bene. È chiaro
che questo dipenderà dal caso concreto e da criteri più specifici, ma è altrettanto evidente
che si cercherà di non arrivare a questo ultimo livello così come si cercherà di evitare il
trasferimento di proprietà. Esistono degli strumenti (come ad esempio la cessione
volontaria) con cui volontariamente avviene il trasferimento del bene e il corrispettivo sarà
più consistente senza ricorrere ad un intervento di origine pubblica.

42
17/03/20

Art.42//c.2 della Costituzione: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge,
che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la
funzione sociale e di renderla accessibile a tutti [cfr. artt. 44, 47 c. 2]”.

Abbiamo già riflettuto circa cosa si possa intendere per “funzionalità sociale” della
proprietà privata.
Oggi vedremo invece cosa prevede la legge in osservanza dell’art.42 circa i modi di
acquisto della proprietà, prevedendo essa stessa le regole che vengono poste per
acquistare una proprietà.
Per cercare di comprendere cosa di intende per “modi di acquisto”, dobbiamo considerare
una netta distinzione preliminare tra modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo e
modi di acquisto della proprietà a titolo originario.

I modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo derivano dal diritto dal diritto di
proprietà di un altro soggetto. Questi diritti si limitano dunque a prevedere una
successione di tale diritto da un soggetto ad un altro. Fra questi modi di acquisto, che
rappresentano nella pratica i modi di acquisto più diffusi, sono per esempio: il contratto
(esempio una compravendita: il trasferimento avviene in seguito alla compravendita
dell’oggetto della proprietà) e la successione mortis causa.

Le modalità di acquisto a titolo originario, pur non frequenti nella prassi, sono comunque
rilevanti. Rientrano in questo alveo tutti i modi di acquisto di una proprietà tutti quei
sistemi che consentono non soltanto il trasferimento di un diritto già esistente, ma sono
ipotesi in cui si determina a tutti gli effetti la nascita di un diritto nuovo in capo ad un
nuovo soggetto proprietario.
I modi di acquisto a titolo originario comprendono:

- L’occupazione
- L’invenzione
- L’accessione
- L’usucapione
- Il possesso in buona fede di beni immobili (che viene solitamente definito alla luce
della regola di “possesso vale titolo”).

Cercheremo ora di approfondirne un’analisi in sequenza, nella consapevolezza che i primi


modi di acquisto di proprietà a titolo originario indicati (occupazione, invenzione e
43
accessione) prescindono – in realtà – dal ricorso della figura del possesso come strumento
per divenire proprietari; mentre l’usucapione e il possesso in buona fede sono modi di
acquisto cui presta un ruolo importante il possesso (nel senso si potere di fatto su una
cosa) come strumento funzionale ad acquistare il diritto di proprietà attraverso le loro
regole.

 Occupazione, invenzione e accessione (art. di riferimento del Codice civile nr. 923 e
seguenti; art. 927 e seguenti; art.934 e seguenti)

1. Occupazione: è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario applicabile


solo ad ipotesi di beni e cose mobili (non incorporate direttamente al suolo); cose di
proprietà di nessuno o abbandonate. Non può scattare l’occupazione come modo di
acquisto per i beni immobili, che spettano invece allo Stato. Sono invece
acquistabili, pur appartenendo in teoria al patrimonio dello Stato (nell’ipotesi in cui
vengano abbattuti nel rispetto delle sue leggi) nella figura dell’usucapione, gli
animali che appartengano alla fauna selvatica;

2. Invenzione: si applica soltanto alle cose mobili smarrite. In questo caso il soggetto
che trova il bene, ove non sia possibile restituirlo al proprietario, sarà tenuto a
consegnarlo al sindaco. Trascorso un anno, si dovrà valutare se il soggetto sia
effettivamente andato a recuperare il bene (in questo caso, ovviamente, il bene
spetterà all’originale possessore e colui che lo ha trovato avrà diritto ad un premio
proporzionale al valore del bene smarrito); in caso contrario - se il legittimo
proprietario non reclamerà il bene - il soggetto che lo ha trovato potrà divenirne
proprietario per invenzione. Un’ipotesi particolare di invenzione è quella del
cosiddetto “tesoro” (legata più ad un profilo fantasioso che giuridico): in questo
caso questo tesoro costituisce una forma di invenzione. Il ritrovamento del tesoro
viene considerato – sotto alcuni punti di vista – una specie particolare di invenzione.
In particolare, si tratta del ritrovamento di cose mobili di pregio nascoste in un
determinato terreno, di cui nessuno possa dirsi legittimo proprietario. In questo
caso le supposizioni sono più di una: la prima è che accidentalmente si trovi un
tesoro nel proprio terreno. In questo caso la soluzione è piuttosto semplice perché il
soggetto proprietario del fondo diviene automaticamente proprietario del tesoro.
Nell’ipotesi in cui il ritrovamento avvenga in modo del tutto casuale in un terreno
che non sia di proprietà del soggetto, la proprietà sarà solo per la metà del
proprietario del fondo; per l’altra metà spetterà materialmente a chi ha trovato il

44
tesoro. Bisogna però fare attenzione a non confondere questa disciplina molto
particolare con quella legata ai beni culturali. Il ritrovamento di beni che possano
essere reputati culturali, tutto ciò che viene trovato non diviene proprietà di
nessuno dei soggetti, perché in quanto tali appartengono allo Stato;

3. Accessione: si applica nel momento in cui vi è una stabile incorporazione fra beni
che appartengono a proprietari diversi. L’accessione di distingue nella sua
fattispecie in tre diverse possibilità: ipotesi di accessione:
- di bene mobile a bene immobile: si riferisce alla proprietà di beni mobili che
vengano posti su un terreno di proprietà di un certo soggetto. Se il soggetto ha un
bene posto sul suolo di sua proprietà, la regola generale dell’accessione (in
mancanza di deroga) è che il proprietario del bene immobile sia proprietario della
cosa principale (quindi del terreno) e contestualmente divenga e proprietario delle
cose mobili poste sul bene immobile. La deroga consiste in un accordo che preveda
che il soggetto proprietario del terreno non divenga proprietario di ciò che sul quel
terreno è posto (=accordo di diritto di superficie). Vi sono anche eccezioni a questo
principio anche da un punto di vista legale. Uno di questi esempi è dato
dall’accessione invertita: ipotesi in cui, piuttosto che divenire proprietario della
cosa mobile posta sul terreno, è il proprietario del bene posto sul suolo a divenire
proprietario del fondo stesso. È una possibilità piuttosto particolare che riguarda le
fattispecie in cui l’opera realizzata su un fondo sconfini in terreno altrui - e la parte
sconfinante non sia funzionalmente autonoma (ma anzi, si pensava essere
integralmente sul suolo del costruttore stesso) e l’altra parte non si fosse opposte
(nei tre mesi successivi alla costruzione). Se ricorrono questi presupposti e si realizza
un pagamento a fronte dell’accessione dell’occupazione del terreno, si può
realizzare un’ipotesi per cui si diviene proprietari di quella parte di terreno su cui
effettivamente si è sconfinato: cioè il proprietario del bene costruito diviene
proprietario del suolo su cui ha sconfinato. In ogni caso, si tratta di una possibilità è
eccezionale.
- di bene immobile a bene immobile: conosciamo due figure: l’ipotesi di accessione
per alluvione (a seguito di reazione naturale di acqua torrente si può realizzare
l’accrescimento con riferimento fondi rivieraschi di acqua corrente. Così facendo, il
proprietario diviene proprietario di un fondo più grande) e accessione per avulsione
(data addirittura dal distaccarsi di un fondo rivierasco che si va a collocare su un
altro fondo – sempre rivierasco – che quindi ne risulta incrementato. Si ritiene
peraltro che a questo distacco, in teoria, sarebbe dovuto un’indennità con
riferimento al presunto valore aggiuntivo creato al proprietario al proprietario del
fondo accresciuto).

45
Ci sono un’altra serie di ulteriori ipotesi previste dal Codice civile che vanno
dall’alveo derelitto (situazione cretesi su terreni abbandonati a seguito del
passaggio di un fiume) che costituiscono possibilità diverse da quelle appena viste,
ma che vengono in realtà ricondotte al demanio pubblico e non riguardano perciò
rapporti tra privati;
- di bene mobile a bene mobile: vi sono due specifiche fattispecie che possono
ricorrere:
1. unione o commissione: si congiungono beni mobili che appartengono a
proprietari diversi e che ne realizzano l’incorporazione, senza però creare una
“cosa” del tutto nuova. Si ha semplicemente una somma di beni mobili che si
uniscono. In questi casi, il proprietario del bene da considerarsi principale (o
comunque di valore maggiore) diviene – per accessione – proprietario dell’intero
bene;
2. specificazione: i beni mobili, che pur appartengono ad altri soggetti, creano una
“cosa” del tutto nuova che non è la semplice unione di beni mobili, ma è la
creazione vera e propria di un nuovo bene. In questi casi, il proprietario del bene
ultimo sarà colui il quale pone l’elemento di maggior valore fra la materia (in questo
caso il soggetto dovrà chiaramente pagare il lavoro) e chi ha prestato il lavoro. Dal
momento che si crea una cosa nuova a partire da beni appartenenti ad altri -
attraverso la specificazione - diviene proprietario della nuova cosa colui che l’ha
lavorata (nell’ipotesi in cui il valore del lavoro sia superiore al valore delle materie
prime - dietro ovviamente il pagamento delle materie) o il proprietario delle
materie prima (dopo aver retribuito chi ha prestato il lavoro per rendere il bene una
“cosa nuova”).

 Il possesso come strumento che concorre alla comprensione di due strumenti di


modi di acquisto a titolo originario: il “possesso vale titolo” e l’usucapione.

1. Il possesso “vale titolo”: è un modo di acquisto della proprietà che nasce come
strumento per evitare che, dall’applicazione degli altri, si finisca per creare più
ostacoli alla circolazione della ricchezza: rappresenta quindi uno strumento che
piuttosto l’agevoli. Il principio di fondo che vale nell’ambito dei modi di acquisto a
titolo derivativo è quello che non si può trasferire un bene che non sia di propria
appartenenza. Se però questa è la regola generale, il rischio sarebbe quello – di
volta in volta – di dover dimostrare la proprietà del bene trasferito. Talvolta questo
può essere complicato, specie nell’ipotesi dei beni mobili che non possono avvalersi

46
di pubblici registri. In questi casi, l’indagine circa la proprietà o meno del bene
potrebbe risultare seriamente confusa. Nel caso della regola “vale titolo”, il
legislatore ha trovato un espediente tramite il quale si sia in grado di far acquistare
la proprietà del bene mobile – in presenza di determinati presupposti – a titolo
originario. Questi presupposti sono:
- che il soggetto acquisti dei beni mobili, con l’esclusione di quelli registrati e delle
universalità di beni mobili (ad esempio, la biblioteca);
- che l’acquirente possa vantare un titolo astrattamente idoneo al trasferimento del
diritto di proprietà (quindi che abbia tutte le caratteristiche tali da trasferire il bene,
senza che il soggetto ne sia proprietario);
- che il soggetto entri in possesso del bene;
- che il soggetto entri in possesso del bene in buona fede al momento in cui gli
venga consegnato il bene, non rilevando la “malafede successiva”.
In presenza di questi presupposti il soggetto acquisterà la proprietà alla luce del
possesso “vale titolo” a titolo originario, senza che nessun altro possa vantare diritti
su quel bene. in questo si può riscontrare la forza di questa modalità di acquisto
come modalità capace di agevolare la circolazione dei beni mobili, senza che si
creino problemi sulla verifica dell’effettivo proprietario.

Questa modalità non vale per l’acquisto di beni mobili registrati e di universalità di
beni mobili per ragioni molto semplici, legate alla possibilità o all’opportunità di
applicare regole diverse a queste fattispecie.
Il caso dei beni mobili registrati (scritti in pubblici registri) è molto banale: esistono
dei registri e conseguentemente lo strumento per controllare in modo
ragionevolmente semplice la provenienza (e quindi la proprietà) di un determinato
bene.
Parzialmente diversa è la ragione per cui si esclude il possesso vale titolo per
l’universalità di beni mobili, a proposito della quale il legislatore ha scelto di
richiedere particolare attenzione – vista la natura significativa di questi beni – per
cui si ritiene sia possibile fare una valutazione circa i principi generali che vigono in
riferimento al trasferimento di questi beni, ponderando l’effettiva titolarità da parte
di chi trasferisce un certo bene. Queste eccezioni si ritrovano sintetizzate
all’art.1153 del Codice civile che disciplina la regola del possesso vale titolo:
“Colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne
acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento
della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà. La
proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa, se questi non risultano dal
titolo e vi è la buona fede dell'acquirente. Nello stesso modo si acquistano i diritti di

47
usufrutto, di uso e di pegno”.

Tuttavia, all’art.1155 dello stesso Codice civile viene segnalata l’ipotesi che riguarda
l’acquisto di buona fede a seguito di precedente alienazione di altri:
“Se taluno con successivi contratti aliena a più persone un bene mobile, quella tra
esse che ne ha acquistato in buona fede il possesso è preferita alle altre, anche se il
suo titolo è di data posteriore”
In virtù delle regole generali, l’articolo evidenza come ciò che viene rilevato sia il
trasferimento del possesso, cioè il trasferimento della materiale apprensione della
cosa, e che questo trasferimento avvenga con la buona fede dell’altro acquirente
(che dunque non può immaginare la doppia alienazione da parte del venditore).

2. Usucapione: è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario che aiuta a


provare la proprietà su certi beni. Questo strumento è stato istituito dal legislatore
con l’idea di cercare di favorire chi, nel tempo, utilizza un determinato bene –
rendendolo produttivo – a discapito del proprietario che, al contrario, lo trascura.
In diversi casi è stato fatto riferimento a questa figura, particolarmente in relazione
alla prescrizione estintiva (ove il tempo svolge un ruolo fondamentale dal punto di
vista delle ricadute giuridiche) richiamando anche il fatto che lo stesso tempo abbia
un effetto rilevante anche in relazione alla figura dell’usucapione, il quale veniva
precedentemente definito prescrizione acquisitiva (quindi volta all’acquisto di un
diritto).
In realtà vi sono delle differenze tra l’istituto dell’usucapione e quello della
prescrizione estintiva: la prima, fondamentale, è che la prescrizione estintiva è
funzionale all’estinzione di un diritto; viceversa l’usucapione è funzionale ad
acquistare il diritto (in particolare di proprietà). L’altra differenza, come abbiamo
visto, è che la prescrizione ha una portata generale (cioè si applica tendenzialmente
alla maggior parte dei diritti); contrariamente l’usucapione riguarda soltanto il
diritto di proprietà ed eventualmente altri diritti reali.
L’usucapione può avere in oggetto tutti i beni materiali corporali (vi è dibattito circa
quelli immateriali). In particolar modo, perché scatti questo istituto, sono richiesti
determinati presupposti:
- il possesso del bene: si deve avere il potere di fatto sul bene;
- il possesso deve essere continuato per un certo lasso di tempo, non individuato in
uno specifico momento. In questo caso soccorrono delle regole come quella della
presunzione del possesso intermedio (art.1142 del Codice civile:
“Il possessore attuale che ha posseduto in tempo più remoto si presume che abbia
posseduto anche nel tempo intermedio”). Per dimostrare la continuità del possesso
48
è sufficiente che il soggetto provi di aver posseduto in un certo momento del
passato e che possegga ora. In virtù dell’articolo appena visto, l’ordinamento
presume che il soggetto abbia posseduto quel determinato bene;
- la non interruzione del possesso (né di ordine naturale, materiale o civile: non ci
dev’essere una domanda giudiziale che provi la proprietà o il riconoscimento altrui
di un determinato diritto);
- possesso di un certo lasso di tempo (pari a vent’anni nel caso dell’usucapione
ordinaria).

In realtà, però, i termini di usucapione possono restringersi, come nei casi diffusi di
usucapioni abbreviate: in cui il possesso continuato e non interrotto può essere
chiamato a durare meno tempo, purché vi siano altri presupposti oltre a quelli
precedentemente esposti:
- che vi sia un titolo idoneo al trasferimento della proprietà;
- che l’acquirente sia in buona fede
- che il bene sia stato trascritto.
In questi casi si possono avere ipotesi specifiche di usucapione abbreviate, dove non
sarà necessario attendere vent’anni di possesso continuato, ma questo stesso lasso
di tempo può essere ristretto (ad esempio, tre anni per i beni mobili; dieci anni per
le universalità di beni mobili che possono avere un titolo a loro volta astrattamente
idoneo).

Bisogna però rilevare come l’usucapione faccia rilevare la proprietà a titolo


originario agli effetti della legge: si può, in questo caso, richiedere un accertamento
del diritto di proprietà per verificare l’effettiva proprietà. È anche vero comunque,
che il soggetto possessore del bene in modo continuato possa scegliere di rinunciare
all’usucapione.

49
18/03/20

A livello introduttivo dobbiamo dire che il diritto di proprietà - così come lo abbiamo visto
nel suo contenuto - è il diritto di godere e disporre di un bene, il possesso è il fatto
effettivamente di esercitare determinati poteri quali quelli di godere e disporre. Questa è
la distinzione fondamentale tra diritto di proprietà e possesso.
Se il diritto di proprietà è disciplinato nel nostro Codice civile all’articolo 832 (da leggersi
con le disposizioni della Costituzione all’art.42 e seguenti), il possesso è invece disciplinato
dall’art.1140: “Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività
corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Si può possedere
direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”.

Capiamo subito da questa definizione quanto il possesso rappresenti una situazione di


fatto, che riflette (o meno) un diritto quale quello di proprietà o uno minore. La domanda
che sorge spontanea, allora, è: perché il nostro sistema sente la necessità di disciplinare e
tutelare il possesso? Le ragioni sono fondamentalmente due:
1. La tutela possessoria consente una difesa rapida ed efficace dei propri diritti. In altri
termini, mentre – come vedremo successivamente – il diritto di proprietà richiede
l’esercizio di azioni petitorie che hanno un procedimento complesso (che si può
protrarre nel tempo), il possesso permette una difesa rapida ed efficace del diritto;
2. Si dice che la tutela del possesso sia funzionale ad assicurare la pace tra i consociati.
Il fatto di tutelare prontamente la situazione di fatto (ciò che viene immediatamente
colto) garantisce una tutela che è chiara a tutti ed evita che i soggetti subiscano
violenze e molestie.
Si tratta quindi di una tutela assicurativa di una situazione concreta.

In realtà, come intuibile dall’art.1140//c.2, non esiste solo il possesso, ma esistono una
serie di altre situazioni possessorie che possono rappresentare diverse forme di tutela
della situazione di fatto che vanno considerate.

Il possesso costituito da due elementi: un elemento obbiettivo (la materiale disposizione


del bene: il corpus) e un elemento soggettivo (lo spirito col quale si detiene il bene:
l’animus). La declinazione di questi elementi consente la variazione tra situazioni
possessorie, per cui un possesso può essere:

- Pieno: caratterizzato dalla presenza di entrambi gli elementi costitutivi del possesso
(sia corpus che animus). Banalmente, può essere la situazione di un soggetto che si

50
ritiene proprietario del bene e si comporta di conseguenza (essendolo o meno).
Questo soggetto HA la disponibilità del bene e la predisposizione d’animo di chi è
proprietario. Ma è anche il caso del ladro, il quale ha la disponibilità del bene e – in
quanto ladro – si comporta come possessore pieno;
- Detenzione: l’elemento oggettivo è sicuramente presente: si ha la materiale
disponibilità del bene; ma si ha una volontà e una logica di rispettare i diritti altrui
sulla cosa stessa. Il soggetto che ha la disponibilità del bene, è consapevole di non
esserne proprietario e quindi di non avere diritti su di esso. Un esempio lampante è
quello dell’inquilino: un soggetto che ha materiale disponibilità di abitare un
appartamento, ma lo fa nella consapevolezza di non esserne proprietario,
rispettando e riconoscendo i diritti dell’originario proprietario. Lo stesso discorso
può essere fatto di un soggetto che prende in prestito un libro dalla biblioteca;
- Mediato: il soggetto che possiede ha solamente l’elemento soggettivo (cioè
l’animus). Il soggetto si ritiene proprietario (ad esempio, di un appartamento) e si
comporta come tale, facendo acquisire la disponibilità materiale del bene ad un
altro (che sarà detentore).

In realtà però la distinzione ufficiale deve riguardare i rapporti che si stabiliscono tra
queste tre situazioni possessorie. Questo perché, a queste diverse classificazioni
nell’ambito delle situazioni di fatto, corrispondono diversi diritti e la conseguente
possibilità di esercitare diverse azioni che sono strumenti di ulteriori disposizioni con una
ricaduta molto pratica nella quotidianità dei soggetti.

Abbiamo già richiamato la distinzione classica tra possesso e detenzione (cioè


essenzialmente per l’elemento soggettivo, mentre non si ha lo stesso animus perché il
detentore riconosce che la proprietà non gli spetti). Questa distinzione, però, non si può
limitare a ricercare l’elemento psicologico. Per questo ci si muove alla luce del titolo: cioè
si valutano gli elementi che esternamente ci informano a quale titolo si abbia la
disponibilità di un bene. valutando la situazione del ladro è obbiettiva la sua condizione di
possessore, perché evidente che non riconosca la possessione altrui; allo stesso modo
l’inquilino riconosce la proprietà del diritto altrui. Dunque, la distinzione tradizionalmente
basata sul diverso animus, è in realtà sostanzialmente superata dal fatto che – pur a parità
di corpus – le differenze dal punto di vista dell’animus, non sono date da un’analisi
psicologica del singolo soggetto, ma dal motivo per il quale si è nella disponibilità di
possedere la cosa.
Ciò non toglie che rimangano ovviamente dei casi dubbi: talvolta non è semplice
individuare il titolo esatto alla luce del quale il soggetto abbia la disponibilità della cosa. In
questi casi l’art.1141 chiarifica la regolamentazione delle situazioni:

51
“Si presume il possesso in colui che esercita il potere di fatto, quando non si prova che ha
cominciato a esercitarlo semplicemente come detenzione.
Se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso finché il
titolo non venga a essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza
di opposizione da lui fatta contro il possessore. Ciò vale anche per i successori a titolo
universale”.

Questo, ancora una volta, per garantire una maggior tutela di chi ha la disponibilità del
bene e per ridurre l’insorgere di controversie. Questo non significa però che non si possano
avere dei mutamenti o che non possa avvenire la cosiddetta interversione del soggetto:
situazione per la quale il detentore di un diritto ne diventi possessore (o viceversa: da
possessore decida di divenire detentore). Bisogna prestare attenzione al fatto che – come
appena detto - questa distinzione non è meramente psicologica, ma deve essere
rappresentata da atti che effettivamente dimostrino il passaggio da una posizione di
possesso ad una di detenzione (e viceversa).
Ad esempio: un soggetto proprietario di bene che dia - ad un altro soggetto - la locazione
dello stesso; una volta che quest’ultimo soggetto abbia acquistato il bene in questione,
all’esito della mutazione del titolo (quindi della stipula del contratto di compravendita col
precedente inquilino e di un nuovo contratto di locazione) il soggetto che prima era
possessore, ne diviene solamente detentore.
Viceversa, l’interversione del possesso da parte di un detentore deve essere eseguita
tramite un atto che manifesti inequivocabilmente al precedente possessore la sua volontà
di continuare a disporre del bene come se ne fosse proprietario (quindi senza riconoscergli
più un diritto di proprietà sul bene). Questo è il caso di cosiddetta opposizione, ovvero di
un detentore che si rivolga al possessore per chiarificare la sua intenzione a disporre del
bene come soggetto che abbia la disponibilità del bene senza riconoscere la proprietà
altrui. Questo stesso scopo può essere raggiunto anche in altri modi: ad esempio, a seguito
di un qualcosa che provenga da parte di un terzo, il quale fa presente che il detentore non
si comporti più in modo tale da riconoscere il diritto altrui, in forza di un atto esterno
(proveniente dal terzo) il detentore si può ritrovare ad essere possessore.

Esistono però anche tutta un’altra serie di distinzioni sulle caratteristiche specifiche del
possesso. Più nel dettaglio, bisogna capire quale ipotesi di possesso possiamo trovare:

1. possesso legittimo: situazione per cui potere di fatto e diritto coincidono. La


situazione di fatto (l’essere possessore) coincide con la situazione di diritto (l’essere
proprietario);

52
2. possesso illegittimo: la situazione di diritto non coincide esattamente con la
situazione di fatto. Questo possesso illegittimo però può essere caratterizzato da
diverse proprietà:
- possesso illegittimo di buona fede: ipotesi in cui un soggetto, che – ad esempio -
non conosce la provenienza furtiva di un bene, lo acquista in totale buona fede;
- possesso illegittimo in malafede: il soggetto può disporre di un bene nonostante
sia consapevole di non esserne proprietario. È l’ipotesi in cui il soggetto – ad
esempio – decide di occupare un terreno. Il soggetto diviene possessore (perché ha
la disponibilità del bene) ma nell’occuparlo non rispetta il diritto altrui. Ne diventa
quindi possessore in malafede;
- possesso illegittimo vizioso: il soggetto ha la disponibilità del bene senza che ciò
corrisponda ad una posizione di diritto; è in mala fede ed è entrato in possesso del
bene a seguito di violenza o di atto clandestino (ad esempio, dopo aver sottratto il
bene attraverso un furto).

Per potersi muovere nell’ambito di questa distinzione, il legislatore ha introdotto


un’ulteriore presunzione volta ad aiutarci a distinguere le diverse ipotesi. Si tratta della
presunzione di buona fede, che possiamo riscontrare all’art.1147//c.3:
“È possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l'altrui diritto.
La buona fede non giova se l'ignoranza dipende da colpa grave.
La buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell'acquisto.”

Come già detto, vale il principio che la buona fede debba sussistere al momento dell’inizio
del possesso.

Oltre al possesso però anche la detenzione si distingue e si articola in diverse figure:


- detenzione qualificata: un determinato soggetto acquista la disponibilità di un bene
all’esito di un titolo che specificamente qualifica la detenzione (come nel caso
dell’inquilino). Questo detentore può detenere il bene e averne la disponibilità nel
proprio interesse (detenzione qualificata autonoma); oppure può esserne detentore
nell’interesse altrui – in particolare – nell’interesse del possessore (detenzione
qualificata non autonoma);
- detenzione non qualificata: un soggetto può avere la disponibilità di un bene, ma
non alla luce di un titolo specifico, quanto per ragioni di ospitalità (ad esempio, un
soggetto ospitato da un amico); servizio (ad esempio, un soggetto che ha
disponibilità del bene di un altro soggetto per ragioni di servizio) o lavoro (ad
esempio, un soggetto al quale affidiamo il nostro veicolo per ripararla. Per ragioni
lavorative però dispongono del nostro bene).

53
Occorre adesso richiamare rapidamente altri profili, prima di poter analizzare gli effetti del
possesso. In particolare: come si acquista e si perde un possesso, nonché un riferimento
alle ipotesi di successione ed accessione del possesso (utili per gli scopi dell’usucapione).
 Acquisto e perdita di un possesso: si può acquistare un possesso in modo
originario, sostanzialmente attraverso l’impossessamento del bene; oppure in modo
derivativo (a seguito di consegna). L’idea di fondo è similare all’acquisto della
proprietà. La situazione di fatto si crea autonomamente a seguito
dell’impossessamento, nel caso dell’acquisto derivativo, si trasferisce con la
consegna del bene da un soggetto ad un altro. Si tenga presente che è possibile che
si creino perdite e acquisti del possesso anche attraverso i metodi accennati prima
(ad esempio, l’ipotesi di compravendita o di cessione del bene). Se questo vale
come riferimento generale all’acquisto del possesso, bisogna far riferimento anche
alla perdita.
Basti pensare che, se sono elementi costitutivi il corpus e l’animus; la perdita del
possesso sarà data dal fatto che venga meno anche uno solo dei due elementi.
 Successione ed accessione del possesso: sono molto utili per il computo del tempo
e quindi ai fini dell’usucapione, nei casi in cui il possesso protratto, continuato e non
interrotto consenta lo svilupparsi di determinati effetti. In questi casi è importante
potersi avvalere di questi strumenti. Con la successione del possesso
sostanzialmente ci si limita a continuare, in campo all’erede - dopo l’avvenuta
successione - trasferendo il possesso (come effetto di legge) al successore a titolo
universale. In questo modo si permette di cumulare gli anni di possesso del defunto
e gli anni di possesso del nuovo possessore.
Nel caso di accessione del possesso il trasferimento non avviene dal defunto al
successore a titolo universale, ma avviene con riferimento ad un singolo bene
trasferito alla luce di un titolo specifico (e con esso il suo possesso). Si può quindi
accedere a titolo particolare al possesso di un bene che sarà, però, nuovo. Resta
anche qui la possibilità di cumulare gli anni precedenti di possesso con quelli
successivi e quindi avere un qualche ruolo nell’ambito di un eventuale usucapione
del bene.

GLI EFFETTI E GLI STRUMENTI A TUTELA DEL POSSESSO


 Gli effetti: sono fondamentalmente riconducibili a tre ambiti:

1. Gli effetti del possesso con riferimento all’acquisto dei frutti e all’eventuale
rimborso delle spese sostenute;

54
2. Gli effetti del possesso come strumento per l’acquisto di proprietà (regole del
possesso vale titolo e usucapione)
3. La previsione di strumenti specifici a tutela della situazione di fatto (azioni
possessorie).

1. Gli effetti del possesso con riferimento all’acquisto dei frutti e al rimborso delle
spese:
Con riferimento all’acquisto dei frutti, dobbiamo far presente come esista una macro-
distinzione – che ormai conosciamo – fra possessore illegittimo di malafede e possessore
illegittimo di buonafede. Mentre nel primo caso saranno dovuti i frutti prodotti dal bene
dal momento stesso in cui ha avuto inizio il possesso in malafede; nella seconda ipotesi, il
possessore sarà tenuto a restituire i frutti percepiti solo dal momento della domanda
giudiziale.
Altre distinzioni sono presenti con riferimento alle spese perché, in questo ambito, occorre
nuovamente applicare un ulteriore distinzione tra:
- spese ordinarie: che materialmente servono per la normale produzione di frutti (civili e
naturali). Il possessore avrà diritto al rimborso solo in riferimento al tempo per cui ha
restituito i frutti. Seguono quindi la disciplina dei frutti del possessore illegittimo di buona o
malafede;
- spese straordinarie: sono sempre rimborsate al possessore perché – appunto –
straordinarie, per cui si ritiene che il possessore si debba addossare delle spese
straordinarie a fronte di un bene che resta ad un altro soggetto;
- spese fatte per i miglioramenti del bene: se i miglioramenti sono presenti al momento in
cui il bene dev’essere restituito e quindi realizzate secondo le corrette normative, si ritiene
che queste spese vadano integralmente rimborsate al possessore per assicurare al meglio
le spese di produzione, che quindi non debbano andare perse ma, al contrario, che
vengano incentivate.

Un altro profilo in cui la distinzione tra i possessori di buona e malafede torna utile, è
quello del diritto di ritenzione: al possessore in buonafede (differentemente da quello di
malafede) viene dato il diritto di non restituire il bene finché non abbia ricevuto le varie
somme dovute per spese, produzioni e miglioramenti.

Abbiamo poi già visto come le distinzioni tra i vari possessori abbiano delle ricadute
rispetto ai modi di acquisto della proprietà nei confronti della figura del possesso vale
titolo e dell’usucapione [vedere lezione precedente].

55
2. Gli strumenti a tutela del possessore e del proprietario
Le azioni possessorie (a tutela del possessore) sono fondamentalmente quattro:

a) L’azione di reintegrazione con spoglio


b) L’azione di manutenzione
c) Le azioni di danno temuto
d) Denunce di nuova opera
Come detto in apertura, si ha un interesse nel tutelare la situazione di fatto attraverso
questo strumento, il quale assicura tempi più celeri dal punto di vista giudiziale ed è più
facile accedervi perché richiedono un onere probatorio ridotto. Mentre le azioni petitorie –
o almeno alcune tra le principali – richiedono una prova impegnativa del diritto di
proprietà – nell’ambito possessorio ci si limita a tutelare provvisoriamente la situazione di
fatto. Ciò è dimostrato anche dal rapporto tra azioni possessorie ed azioni petitorie: le
prima saranno anteposte alle seconde, dunque in caso di giudizio si sospenderà quello
petitorio per sviluppare il giudizio possessorio (quindi per valutare se la situazione di fatto
sia effettivamente stata lesa) e solo all’esito del giudizio possessorio sarà possibile avviare
un giudizio tramite il quale verificare che vi sia la sussistenza o meno di un diritto di
proprietà. Questa regola viene riassunta nella formula del divieto di cumulo del giudizio
possessorio e del giudizio petitorio. Il solo in caso in cui sia possibile evitare questo divieto
di cumulo è l’ipotesi in cui dall’anteporre il giudizio possessorio a quello petitorio
deriverebbe un pregiudizio irreparabile per la parte che si presumerebbe essere il
proprietario. Solo in questo caso si permette il cumulo dei due giudizi.
Non c’è dubbio che, solitamente, si affianchi al giudizio possessorio stretto (quindi al
tentativo di recuperare la disponibilità del bene) un’azione di risarcimento del danno: cioè
si ritiene che a seguito della sottrazione del bene venga subito un danno e quindi, oltre a
prevedere una tutela specifica del possesso, si prevede anche una tutela rappresentata dal
risarcimento del danno.
a) Azione di reintegrazione o spoglio: è l’azione paradigmatica ed esemplare tra le
azioni possessorie, che trova applicazione nel momento in cui un soggetto viene
spogliato del suo bene in modo violento o clandestino. Tramite quest’azione si
richiede la reintegrazione nel possesso del bene. Tale spoglio può essere stato
totale o parziale. Consideriamo che in teoria l’attività di sottrazione dovrebbe essere
obbiettiva e volontaria, ma è ovviamente un duplice presupposto che viene quasi
sempre riassunto nella materiale sottrazione del bene.
Chi è legittimato attivamente ad agire in giudizio per la reintegrazione? Sono
legittimati tutti i soggetti possessori, sia legittimi che non; sia di buona che di
malafede. Oltre ad essi, sono legittimati anche tutti i detentori, con l’unica
esclusione di quelli non qualificati. Si dà quindi la possibilità di agire ad una platea
molto ampia.
56
Chi può subire l’azione giudiziaria di reintegrazione o spoglio? Colui il quale è da
considerarsi autore morale dello spoglio, e chi ne può aver tratto un vantaggio.
Bisogna però fare attenzione, perché proprio per le ragioni prima annunciate non è
possibile contrastare l’azione di spoglio facendo presente di essere il legittimo
proprietario poiché questo può essere fatto valere come titolo solo nel nuovo
giudizio petitorio.
Il termine di decadenza è di un anno: l’azione dello spoglio decade dopo un anno dal
sofferto spoglio. Entro questo termine sarà necessario richiedere di agire per la
reintegrazione del bene.

b) Azione di manutenzione: riguarda due fattispecie fondamentali:


- in caso di spoglio né violento né clandestino;
- in caso di necessaria cessazione di turbative e molestie di cui è vittima un
possessore.
Chiaramente queste molestie e queste turbative possono essere di natura diversa:
possono essere legate solo a profili materiali (tagli di alberi, deflussi di acque);
piuttosto che molestie in via di diritto (attività più o meno giudiziarie volte a
molestare il possessore).
Chi è legittimato ad agire attivamente? La platea è di gran lunga ridotta, perché
sono legittimati ad agire solamente i possessori di beni immobili o di un’universalità
di mobili, a patto di possedere da un anno - in modo continuato - il bene.
Chi può subire l’azione giudiziaria? Ovviamente, come visto prima, i soggetti che
sono stati la causa delle molestie e delle turbative e gli eventuali autori morali che in
qualche modo ne hanno giovato. Anche il questo caso il termine di decadenza è di
un anno.

c) Azioni possessorie di danno temuto e denunce di nuova opera: si tratta, in realtà,


di strumenti di natura tipicamente cautelare (quindi attivati a tutela del possessore
in momenti eccezionali che mirano ad evitare un danno prima che si verifichi).
L’azione di denuncia di danno temuto è più ampia, nel senso che può essere
espedita in tutti i casi in cui si rischia un danno grave derivante da una molteplicità
di ragioni; l’ipotesi di denuncia di nuova opera è invece più specifica ed è legata ai
rischi di costruzione di una nuova opera iniziata da meno di un anno e non ancora
terminata. In questi casi sarà possibile bloccare la continuazione dell’opera per
assicurare le nuove cautele ai possessori (o ai proprietari).

57
Questo per quanto riguarda le azioni possessorie. Dobbiamo però necessariamente
confrontare queste azioni con quelle a tutela del diritto di proprietà, tra cui vi sono
rapporti specifici.
Le azioni petitorie sono:
a) Azioni di rivendicazione: è l’azione paradigmatica di questo ambito. La si trova
all’art.948 del Codice civile, dove viene evidenziato come l’azione di rivendicazione non
si possa prescrivere. Fondamentalmente serve nell’ipotesi in cui il proprietario che non
abbia più il bene, voglia accertare il suo diritto di proprietà e vedere condannato il
soggetto attualmente in detenzione del bene alla restituzione dello stesso.
Chi è legittimato ad agire legalmente? È legittimato ad agire legalmente il proprietario
del bene. La prova da portare a supporto però non è semplice, perché si tratta di
provare il diritto di proprietà, assicurandosi che proprio fin dall’origine. In questo caso
sono di aiuto le regole del possesso vale titolo e dell’usucapione, che attraverso il
possesso assicurano il modo di acquisto della proprietà in modo originario.
Chi può subire l’azione giudiziaria? Possono subire l’azione giudiziaria tutti coloro i quali
hanno la possibilità di restituire materialmente il bene al proprietario.
Bisogna poi dire che l’azione di rivendicazione si distingue da quella di restituzione
perché il fenomeno della rivendicazione ha natura reale (previo accertamento del
diritto di proprietà); mentre la restituzione è data da fattori strettamente personali;

b) Azione di mero accertamento: è l’azione di rivendicazione limitata alla sua prima


parte, cioè l’accertamento del diritto senza rivendicazione del bene. I soggetti
legittimati sono gli stessi e stessa è anche la prova complessa da portare a supporto
circa il fatto di essere l’effettivo proprietario;

c) Azione negatoria: è funzionale a provare un fatto negativo, cioè il fatto che un soggetto
non sia proprietario di un bene. In questo caso l’onere probatorio sarà più leggero
perché non si tratta di una strettamente legata al soggetto che - in prima persona –
vuole dichiararsi possessore; si tratta piuttosto di una sorta di accertamento negativo
nei confronti di un ulteriore soggetto;

d) Regolamento dei confini e apposizione di termini: il regolamento dei confini è volto a


dichiarare l’esatta estensione delle proprietà e dire fin dove arriva la proprietà tra i due
fondi. L’apposizione di termini presuppone la certezza del confine mirando solo a far
apporre dei segnali (che in origine erano pietre specifiche) volti a chiarire la certezza di
un confine.

Si faccia attenzione che quelle descritte finora sono tutte azioni imprescrittibili.
58
23/03/20

I DIRITTI REALI

Nelle lezioni precedenti, abbiamo cominciato a vedere la prima distinzione fondamentale


che riguarda questo grande macro-tema: quella tra diritti reali su cosa propria e diritti reali
su cosa altrui. Fino adesso ci siamo occupati del diritto di proprietà, che rappresenta il
fondamento dei diritti reali su cosa propria. Per quanto riguarda invece i diritti reali su cosa
altrui, come abbiamo precedentemente considerato, abbiamo dovuto osservare
un’ulteriore distinzione tra diritti di garanzia e diritti di godimento.

In via introduttiva dobbiamo cercare di comprendere bene perché ci si occupa prima dei
diritti reali di godimento e poi di quelli di garanzia; cosa li distingue a livello macroscopico e
poi andremo a valutare singolarmente ogni istituto.

 Diritti reali di godimento

Sono quei diritti reali che limitano la facoltà del proprietario rappresentata dal
godimento stesso. Abbiamo già visto come il diritto di proprietà sia caratterizzato
dal diritto di godere e disporre del bene, mentre i diritti di godimento comprimono il
diritto di proprietà dal punto di vista di trarre utilità dal bene, i diritti reali di
garanzia limitano il diritto di disporre del bene.
Sono diritti reali di godimento: la superficie, l’enfiteusi, l’usufrutto, l’uso,
l’abitazione e le servitù prediali.
Mentre superficie, enfiteusi, abitazione e servitù riguardano esclusivamente i beni
immobili, i diritti di uso e usufrutto possono avere in oggetto beni immobili e beni
mobili.

1. Il diritto di superficie: è già stato accennato in riferimento all’accessione, dove –


come modo di acquisto di proprietà – abbiamo visto come tutto ciò che giace su
un suolo, in virtù del principio dell’accessione, diviene di proprietà del detentore
del terreno.
Il caso specifico del diritto di superficie rappresenta essenzialmente una
limitazione del diritto di accessione, perché distingue la proprietà di colui il quale
resta proprietario del suolo, e quella di chi costruisce sul suolo un bene. Sono
due le figure fondamentali: concessione ad edificandum: rappresentata dal
diritto di costruire al di sopra di un terreno altrui un’opera di cui sarà il
59
proprietario – una volta terminata l’opera – colui che l’ha fatta costruire. Così
facendo si distinguerà la proprietà del superficiario da quella del proprietario del
suolo. La seconda figura è quella della proprietà superficiaria: nell’ipotesi di una
costruzione già esistente, materialmente si realizza una proprietà separata tra il
soggetto proprietario del bene che si trova al di sopra del suolo e quella del
proprietario del terreno stesso. Si tratta quindi di due fattispecie: una
sostanzialmente in divenire (ad edificandum) cioè il diritto di costruire e divenire
proprietario di un bene costruito anche su un suolo che non sia di proprietà dello
stesso soggetto; l’altra è la distinzione di una costruzione già esistente rispetto al
terreno.
Si ricordi però come, in realtà, si possano avere diverse figure di superficie: una
superficie perpetua e una superficie a termine, in cui questa distinzione tra
proprietario del terreno e proprietario superficiario sono distinte perennemente
o per un tempo limitato.

Modi di acquisto del diritto di superficie: sono fondamentalmente tre e,


trattando in oggetto beni immobili saranno sempre stipulati in forma scritta:

a) il contratto
b) il testamento
c) l’usucapione
Cosa acquista il superficiario?
il superficiario acquista il diritto di limitare il proprietario nel godimento del suo
bene. In particolare, acquista anche il diritto di disporre del bene datogli in
superficie, perché – tramite questo diritto - si crea una proprietà separata di cui
il soggetto diviene un proprietario a tutti gli effetti; con la conseguenza di poter
comprimere il diritto di godimento del proprietario del suolo con riferimento a
tutto ciò che vi è posto sopra.
Come si estingue il diritto di superficie?
Il diritto può estinguersi: alla scadenza del termine: nelle ipotesi in cui il diritto
sia previsto con un termine specifico temporaneo; per confusione: se il
proprietario del terreno diventa al contempo proprietario del terreno
soprastante e viene dunque meno la differenza tra proprietario del suolo e
proprietà superficiaria, oppure se la stessa confusione è dovuta al fatto che i
due proprietari – del terreno e superficiario - divengano la stessa persona; per
rinuncia da parte del superficiario o – infine - per prescrizione ventennale:
possibile solo nel caso di concessione ad edificandum, in cui si ha il diritto di
costruire e divenire proprietario del bene costruito sul suolo. Il diritto viene
meno se entro venti anni il soggetto resta inerte.
60
È necessario sottolineare il fatto che il diritto di superficie sia molto diffuso nella
prassi: si pensi agli appartamenti o ai palazzi costruiti tipicamente su
fondamenta di proprietà condominiale. Ognuno ha la propria abitazione, ma le
basi sono di proprietà dei condomini. Lo stesso discorso può essere fatto per i
parcheggi sotterranei, in cui si realizza questa proprietà separata proprio come
effetto del diritto di superficie.

2. Il diritto di enfiteusi: è anche esso un diritto reale su beni immobili.


Sostanzialmente si acquista il diritto di godere di un bene nelle stesse forme del
diritto di godimento, ma all’enfiteuta è imposto di migliorare il terreno e di
pagare un canone al proprietario, mutando la destinazione de fondo (decidendo
che da un fondo di tipo agricolo si possa trasformare in un terreno di tipo
edilizio). Anche l’enfiteusi può essere temporanea (ma non inferiore a venti anni
perché è un istituto piuttosto poco utilizzato per i vincoli rilevanti che impone) o
perenne.
I modi di acquisto sono uguali al diritto di superficie (dunque per contratto,
testamento o usucapione). Inoltre, si attribuisce eventualmente all’enfiteuta il
potere di affrancare il terreno, permettendogli di acquisire la piena proprietà del
fondo a seguito del pagamento di un’ulteriore somma di denaro. Può anche
essere esercitato - però - il potere di devoluzione a seguito del mancato
miglioramento del terreno o mancato pagamento del canone imposto: in questo
caso il concedente (il proprietario del terreno), avvalendosi del diritto di
devoluzione, potrà liberare il fondo dal diritto di enfiteusi.

3. Il diritto di usufrutto: è un diritto reale di godimento significativo e rilevante


insieme ai cosiddetti diritti di usufrutto limitati. È sostanzialmente il diritto che
consente all’usufruttuario di godere del bene altrui senza però modificarne la
destinazione economica. In genere, questo diritto deve avere una durata
limitata, deve essere necessariamente temporaneo. Con riferimento a questo
diritto concesso ad una persona fisica, il diritto non può essere trasferito a
seguito di decesso dell’usufruttuario (il tempo massimo è quindi la vita del
soggetto stesso), dopodiché si espande nuovamente il diritto. Questa è una
regola valida, in realtà, per tutti i diritti reali minori, che impongono una durata
massima del diritto pari alla vita del soggetto che ne gode, senza avvalersi della

61
possibilità di trasferirlo per mortis causa. Per la persona giuridica, invece, non
può essere superiore a trent’anni.
Il diritto di usufrutto può avere ad oggetto qualsiasi specie di bene (mobili e
immobili) ma non può avere ad oggetto beni consumabili, i quali – ovviamente -
non potrebbero essere restituiti all’originario proprietario. Al più, si potrebbe
configurare un “quasi usufrutto”: cioè un diritto di godere del bene consumabile,
che verrebbe poi - per definizione - meno a seguito dell’utilizzo. In questo caso il
detentore del diritto sarebbe tenuto alla restituzione di un numero di beni pari al
valore del bene originario. Solitamente però. Il diritto di usufrutto è su beni che
non siano consumabili, proprio per garantire la restituzione.
I modi di acquisto possono derivare dalla legge: una fattispecie di usufrutto
legale dei genitori sui beni del figlio minore per cui genitori mantengono il
godimento dei beni del minore fino alla maggiore età; possono poi essere
costituiti usufrutti a seguito di provvedimento giudiziale in caso di divisione di
beni dopo lo scioglimento di una comunione legale (nell’ambito di separazione e
divorzio) e – infine – possono essere istituiti usufrutti, al pari dei provvedimenti
visti finora, a seguito di atti derivanti dalla volontà dell’uomo: dunque per
contratto (in forma scritta nel caso in cui l’oggetto del diritto siano beni
immobili); per testamento; per usucapione e per possesso vale titolo.
Fino alla riforma del diritto di famiglia, era ancora contemplata la forma
dell’usufrutto uxorio - per cui il coniuge superstite deteneva il diritto sui beni.
Oggi però non è più così: il coniuge superstite ha diritto solamente ad una quota
della proprietà dei beni del defunto, facendo venir meno la figura dell’usufrutto
uxorio.
L’usufruttuario acquista sostanzialmente gli stessi diritti che abbiamo
considerato per gli altri: acquista il diritto di trarre utilità del bene, avrà dunque il
possesso del bene e la conseguente possibilità di acquisirne i frutti,
comprimendo in modo significativo il diritto di godimento del proprietario.
L’usufruttuario avrà poi un diritto di disposizione che sarà integrale con
riferimento al diritto di usufrutto (sempre nel rispetto dei limiti temporali) e il
diritto di disporre del godimento del bene con dei limiti legati alla temporaneità
dell’usufrutto.
A fronte di questi diritti vi sono, ovviamente, anche dei doveri e degli obblighi
che sostanzialmente si restringono in quattro fondamenti:
1. Restituzione del bene;
2. Non modificare la destinazione del bene;
3. Godere del bene secondo la diligenza del buon padre di famiglia senza
eccedere

62
4. Fare l’inventario e prestare garanzia in seguito a eventuali obblighi di
conservazione e restituzione dei beni.
Come si estingue l’usufrutto? L’usufrutto si estingue alla scadenza del termine o
per morte dell’usufruttuario, ma anche per prescrizione estintiva ventennale;
per consolidazione (a seguito di riunione, nello stesso soggetto, del diritto di
usufrutto e diritto di nuda proprietà); per perimento totale del bene o per abuso
del proprietario nell’esercizio del proprio diritto. In tutti questi casi si estingue il
diritto di usufrutto, che viene conseguentemente esteso all’utilizzo di ulteriori
soggetti.

4. Il diritto di uso e abitazione: sono sostanzialmente due tipi limitati di usufrutto


perché si tratta di ipotesi in cui si attribuisce ad un soggetto il diritto di godere di
un determinato bene e quindi di trarne utilità e di goderne dei frutti, ma
limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia. Il diritto di abituazione è
essenzialmente molto similare, con la sola differenza dell’oggetto del diritto:
infatti, in questo caso, l’oggetto è rappresentato dal diritto di abitare in un
immobile o in un’abitazione, sempre limitatamente ai bisogni propri e della
propria famiglia.
Si possono costituire per volontà delle parti (e dunque tramite contratto), ma è
molto significativa l’ipotesi di uso e abitazione anche per volontà della legge:
esiste infatti una disposizione legislativa all’art.540//c2 che prevede la possibilità
per il coniuge superstite convivente di acquisire, oltre la parte di eredità prima
richiamata, anche l’abitazione sulla casa in cui viveva in coniuge defunto e il
diritto su beni mobili e immobili che rappresentano il mobilio della casa stessa. Si
tratta quindi di due diritti caratterizzati da una forte componente personale da
cui deriva il fatto che questi non possano in nessun modo essere ceduti a terzi.

5. Il diritto di servitù prediali: (da predium cioè “fondo, terreno”). Si tratta di un


diritto che ha ad oggetto dei beni immobili, che sono legati ad un rapporto tra
fondi. Questo rapporto consiste nel peso che viene imposto da un primo fondo -
detto fondo dominante - su un secondo, il quale invece viene chiamato fondo
servente; peso che viene posto nell’interesse per l’utilità del fondo stesso. Ciò
che è rilevante a proposito di questo diritto però, come abbiamo appena visto, è
il rapporto tra fondi. Non sono quindi ammesse le cosiddette servitù irregolari:
ovvero le servitù che hanno vincoli posti su un fondo, ma favore di una persona.
È una servitù regolare quella del fondo intercluso, per cui si realizza una servitù
di passaggio tra un fondo (dominante) che non ha accesso ad una strada

63
pubblica se non passando da un altro fondo (servente). Si costituisce quindi un
rapporto tra fondi che garantisce al primo (fondo dominante) un accesso ad una
strada pubblica passando per quello servente. Viceversa, nel caso in cui un
soggetto volesse prevedere un passaggio per scopi soggettivi, il peso sarebbe
posto a favore di un fondo per un’utilità personale.
Dobbiamo ricordare quindi come, nell’ambito delle servitù, il contenuto non
possa essere un contenuto “di fare”. Un soggetto può imporre un “non fare” o
un “soffrire, sopportare”: per esempio sopportare il passaggio del soggetto
stesso, ma non può imporre un vincolo di fare qualcosa al fondo servente.
È chiaro quindi che per avere un diritto reale di servitù siano necessari due
proprietari diversi con due rispettivi fondi differenti e che questi due fondi siano
vicini tra loro.
Come si costituisce questo diritto? Abbiamo diverse figure di servitù:
- Servitù coattive o legali: si costituiscono in attuazione di specifiche
disposizioni legislative: è quindi la legge che dice quando sia possibile avere
una servitù coattiva (ne sono esempi la servitù dell’acquedotto coattivo
all’art.1033 e seguenti; la servitù dell’elettrodotto coattivo all’art.1056 o il
passaggio coattivo all’art.1057, e molti altri).
Materialmente queste servitù si costituiscono per contratto (per il quale il
soggetto rende presente che la legge gli dia un diritto legato alla servitù) da
cui possono scaturire due valide ipotesi: la prima è quella del contratto
volontario; la seconda è il caso in cui il proprietario del fondo servente non
voglia assecondare il proprietario del fondo dominante e quindi neghi
l’esistenza della necessità della servitù. In questo specifico caso queste
servitù danno la possibilità al soggetto di richiedere al giudice una pronuncia
costitutiva che realizzi l’effetto di far nascere la servitù;
- Servitù volontarie: si costituiscono per contratto (in forma scritta) oppure per
testamento. Alcune figure particolari sono quelle di servitù apparenti, che
richiedono la costruzione di opere visibili per poter funzionare ed essere di
utilità al fondo dominante. Queste possono essere stabilite per usucapione o
per destinazione del padre di famiglia.
La costituzione per destinazione del padre di famiglia è fondamentalmente
un’ipotesi in cui si costituisce la servitù come effetto di legge. Nel momento
in cui si realizza la separazione di due fondi (a seguito – ad esempio – della
scomparsa di uno dei proprietari), se non viene specificata la volontà di
distinguere i due fondi senza creare ruoli di asservimento, la servitù si
costituisce per destinazione del padre e quindi si ritiene che l’asservimento
prosegua anche successivamente.

64
Sarà solitamente il titolo con il quale viene costituita una servitù a delineare
come debba essere esercitato il diritto di servitù e come questo debba
funzionare. Il principio generale però è quello di aggravare al minimo la
posizione del fondo servente (tutelandone il titolare).
Come si estingue il diritto di servitù? Anche in questo caso, se la servitù è a
tempo, a termine della scadenza prescritta la servitù può essere estinta; a
seguito di rinuncia da parte del titolare; per confusione (nel caso in cui il
proprietario di fondo dominante diventi proprietario anche del fondo
servente) o per prescrizione estintiva ventennale.
La tutela del diritto di servitù: il diritto di servitù può essere tutelato tramite
un’azione confessoria, ovvero un’azione che fondamentalmente vuole
contrastare colui il quale neghi il diritto di servitù e arrechi delle molestie
all’esercizio di questo diritto. L’azione in sé è volta ad accertare il diritto di
servitù, condannando l’altra parte alla cessazione delle molestie e al
ripristino della situazione originaria, eventualmente consentendo alla parte
lesa di chiedere il risarcimento del danno. Potrà agire per ottenere l’azione di
tutela del diritto colui il quale si ritenga titolare del diritto e che quindi se ne
dovrà dimostrare proprietario. Restano ferme le azioni a tutela della
situazione di fatto (azione di reintegrazione o manutenzione).

 Diritti reali di garanzia


Sono diritti che limitano – non più il godimento – ma il diritto di disporre del bene, perché
caratterizzati dalla inerenza, cioè dal fatto di afferire al bene attribuendo al soggetto
creditore il diritto di sequela (cioè diritto di seguire il bene anche qualora questo venga
trasferito ad un altro soggetto).
Sono diritti che attribuiscono a colui il quale sia titolare di questi diritti, il diritto di far
vendere il bene (ius distraendi) e il diritto di essere preferito rispetto agli altri (sulla somma
ricavata dalla vendita del bene - ius prelationis -). Così facendo, ovviamente, i diritti reali di
garanzia limitano il diritto di disporre del bene. Ad esempio: sono diritti di garanzia il pegno
e l’ipoteca. Questo significa che se un soggetto ha un bene in pegno, anche se già venduto,
il creditore di colui che lo aveva precedentemente venduto al nostro soggetto potrà
espropriarlo e vendere prioritariamente una parte della somma ricavata.
L’effetto ultimo è quello che un soggetto ci penserà bene prima di prendere un bene in
pegno o un immobile ipotecato, perché sa che quel bene può essere venduto in qualsiasi
momento e sulla somma della vendita non potrà essere soddisfatto. Nei fatti, quindi, si
limita il diritto di disposizione del bene.
È chiaro quindi che questi diritti siano caratterizzati da alcuni profili, che valgono sia per
l’ipotesi del pegno che per l’ipotesi dell’ipoteca, ovvero:

65
- attribuiscono lo ius distraendi
- attribuiscono lo ius prelationis
- hanno il diritto di sequela
- sono caratterizzate dall’accessorietà: cioè sono legate ad un altro rapporto. Ad esempio,
se un soggetto ha un rapporto di debito con un altro soggetto; il primo sarà tenuto a dare
in pegno un suo bene - che abbia un valore pressoché uguale al bene di cui è debitore –
come garanzia di pagamento. Il diritto reale di pegno è dunque chiaramente un diritto che
accede ad un altro rapporto di debito-credito tra soggetti. Similare è la situazione
dell’ipoteca: se un soggetto acquista un bene tale per cui gli è concesso un mutuo, per
garantire alla banca il pagamento viene consentito alla stessa di iscrivere ipoteca
sull’immobile.
Queste ipotesi di diritto reale sono quindi legate a rapporti precedenti (nello specifico il
rapporto di pegno nel primo esempio e il rapporto di ipoteca nel secondo).
In entrambe i casi, se il pagamento viene effettivamente adempiuto, si perde l’accessorietà
tale per cui si va a estinguere il debito (di pegno o di ipoteca). In caso di inadempimento –
invece - valgono le garanzie, per cui si permetterà alla parte creditrice di far vendere il
bene che il soggetto debitore ha impegnato o ipotecato, per cui il creditore verrà preferito
rispetto ad altri sulla somma ricavata dalla vendita per soddisfare il proprio credito (in
relazione allo ius distraendi e ius prelationis).
A questi diritti se aggiunge un altro: il diritto di sequela: per cui il diritto di garanzia non si
estingue se il bene viene trasferito ad altri, ma segue il bene. in questo si distinguono i
diritti reali di garanzia da tutte le altre forme di garanzia.

Cosa distingue il diritto reale di pegno dal diritto reale di ipoteca? Fondamentalmente la
differenza sta nell’oggetto, cioè il fatto che il pegno si possa realizzare su beni mobili non
registrati e sull’universalità di beni immobili o crediti; mentre l’ipoteca può avere ad
oggetto solo beni immobili o diritti reali immobiliari e beni mobili registrati.
Inoltre, di solito, il pegno si costituisce con lo spossessamento: cioè è necessario che il
soggetto che dia il bene in garanzia si privi del bene stesso e che il possesso passi al
creditore.
Nell’ipotesi dell’ipoteca invece si utilizzano i registri immobiliari, cioè si iscrive ipoteca sul
mobile a favore di un soggetto, ma il soggetto ipotecante ne resta in possesso.
Di recente, però, sono state introdotte delle figure che derogano questo principio:
ovverosia l’ipotesi di pegno senza spossessamento, a tutela di soggetti imprenditori che
hanno la possibilità di prevedere dei pegni che non prevedano lo spossessamento.
Il meccanismo dello ius distraendi e dello ius prelationis è tutelato in maniera diretta dal
divieto di patto commissorio, sancito all’art.2744 del Codice civile:

66
“È nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel
termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto
è nullo anche se posteriore alla costituzione dell'ipoteca o del pegno”.
Quindi, a seguito dell’inadempimento il bene non passa ad altro possessore, in quanto
esso debba essere venduto, permettendo al creditore di soddisfarsi sul ricavato.
Si ritiene sia ammesso, invece, il patto marciano che consente il passaggio di proprietà in
caso di inadempimento, previa una preventiva stima del bene.

 Abbiamo detto che il pegno si costituisce con lo spossessamento a seguito di un


accordo in forma scritta, che preveda la successiva consegna del bene da
impegnare. Questo contratto stipulato in modo tale da non essere opponibile ai
terzi, dunque perché questi possano essere a conoscenza dei dati sottoscritti (quali:
la data certa; il credito che garantisce il pegno; l’ammontare e il bene impegnato).
Tutto ciò viene fatto affinché - non solo il contratto sia valido e regolare - ma anche
perché non sia opponibile a terzi. Il funzionamento, come abbiamo visto
precedentemente, prevede che in caso di adempimento il bene torni in possesso del
proprietario; o in caso contrario il che possa scattare la duplice fase del diritto
(vendere il bene e di esserne preferito – in fase di acquisto - ad altri creditori).
 Con riferimento all’ipoteca, è fondamentale il profilo della pubblicità. Come abbiamo
visto, nel caso del pegno, solitamente, si prevede uno spossessamento che -
contrariamente – non è previsto in caso di ipoteca. Il profilo centrale diventa dunque la
pubblicità, tramite la quale si rende nota l’iscrizione ipotecaria (anche detta pubblicità
costitutiva). In altre parole, la pubblicità avviene attraverso l’iscrizione ai registri
immobiliari, per cui il soggetto effettivamente iscrive l’ipoteca che verrà poi resa
pubblica.
Generalmente, conosciamo almeno tre figure di ipoteca in base alla ragione per cui
essa viene costituita:
- legale: (nel caso in cui l’ipoteca sia stata costituita a seguito di una norma di legge). Le
ipotesi di ipoteca legale sono fondamentalmente due: ipoteca dell’alienante, tale per
cui un soggetto vende un bene ad un altro soggetto, il quale è tenuto a costituire
un’ipoteca (imposta dalla legge) a suo favore; e l’ipoteca del condividente: per cui un
immobile viene spartito tra diversi soggetti e per garantire l’eventuale conguaglio (cioè
per verificare che i vari soggetti effettivamente paghino a ciascuno quanto devono) si
iscrive un’ipoteca volta a tutelare i soggetti che condividono la proprietà di un bene.
Queste fattispecie di ipoteche sono caratterizzate dall’essere iscritte d’ufficio dal
responsabile dell'ente dell’agenzia delle entrate e dall’eventualità che l’iscrizione
prevalga su tutte quelle già eseguite nei confronti dell’acquirente o degli altri
condividenti;
- giudiziale: (nel caso in cui l’ipoteca sia stata costituita a seguito di una sentenza del
67
giudice). Un soggetto può subire una condanna a seguito della quale potrà essere
prevista un’ipoteca a garanzia della condanna stessa. Similare è il caso l’ipoteca venga
iscritta - non a seguito di una sentenza - ma a seguito di verbali di conciliazione. In
questo caso si tratta di strumenti dati dal giudice, o chi per esso, per garantire
l’adempimento di una prestazione;
- volontaria: (a seguito della volontà delle parti che decidono di garantire un debito).

A seguito dell’iscrizione di ipoteca, questa può prevedere dei gradi: quanto questi sono
più è alti più è alto il grado di soddisfazione.
È chiaro, poi, che se poi un soggetto debba trasferire l’ipoteca a favore di un altro o se
ne debba ridurre l’entità, sarà necessario un altro atto detto atto di annotazione.
Dal punto di vista della pubblicità si può realizzare anche una rinnovazione dell’ipoteca:
trascorso un periodo di vent’anni verrà meno il valore dell’iscrizione dell’ipoteca;
dunque, se ancora non si è adempiuta l’obbligazione accessoria e si vuole mantenere il
diritto di garanzia, sarà necessario rinnovare l’ipoteca per poter – in qualche modo -
rinnovare il diritto di garanzia, perdendo però il grado. La gravità di questo fatto è da
riscontrarsi nella possibilità che il debitore abbia molti creditori, e che quindi il bene
dato in ipoteca un grado inferiore a quello di altri. Da questo dipende il fatto di perdere
il diritto di preferenza e soddisfazione.
Infine, si può cancellare l’ipoteca: a seguito dell’accordo tra creditore e debitore o a
seguito dell’atto giudiziale dell’avvenuto pagamento, si può cancellare l’ipoteca.
Bisogna fare attenzione però ad una differenza importante: una cosa è l’estinzione degli
effetti dell’iscrizione ipotecaria con cui faccio venire meno l’ipoteca, che può essere la
conseguenza del fatto che si sia estinto il diritto di ipoteca stesso; altra cosa è
l’estinzione del diritto di ipoteca in sé, cioè il venir meno il diritto stesso che consenta di
ipotecare.
Ovviamente, l’estinzione del diritto di ipoteca si avrà nei casi in cui venga estinta
l’obbligazione garantita (estinguendo il diritto di ipoteca); se un soggetto creditore
rinunci al diritto di ipoteca o con il perire del bene ipotecato.

68
23/03/20

[Attualità: nella lezione in cui sono state affrontate le “fonti della diritto”, è stato fatto
riferimento alla possibilità - per risolvere eventuali contrasti tra fonti - di circoscrivere una
gerarchia delle fonti che permetta di sciogliere questi contrasti attraverso la prevalenza di
alcune fonti. Nel fare degli esempi erano stati riportati, tra gli strumenti ordinari, i decreti
legge, che sono stati equiparati alla forza della legge. In questi casi era stato, appunto,
riportato l’esempio di alcuni decreti legge emanati nell’ambito dell’emergenza corona-
virus.
In realtà, non si trattava - e non si tratta tuttora - di decreti legge ma di decreti della
presidenza del consiglio, cioè atti normativi che promanano direttamente dalla Presidenza
del Consiglio dei Ministri. Quindi non riguardano il Governo nella sua interezza e non
richiedono un passaggio successivo, ma sono degli atti di origine prevalentemente
regolamentare (quindi gerarchicamente inferiori perché espressi sotto forma di
regolamenti).]

Come già osservato precedentemente, abbiamo detto che non solo le persone fisiche sono
soggetti delle relazioni giuridiche, ma possono esserci anche altri soggetti; in particolare
degli ENTI che svolgono funzioni di soggetti del diritto privato. Questi enti possono essere
divisi in:
• Enti con personalità giuridica: enti dotati di autonomia patrimoniale perfetta;
• Enti senza personalità giuridica: enti dotati di autonomia patrimoniale imperfetta.

Questa è solo una delle distinzioni che riguarda gli enti, ma ci fa comprendere come -
nell’ambito generale dei soggetti del diritto - non esiste solo la persona fisica (con tutte le
problematiche ad essa legate).
Questi enti possono avere caratteristiche molto diverse tra loro, giustificate appunto
dall’esistenza di enti di natura diversa.

• ENTI CON PERSONALITÀ’ GIURIDICA ED ENTI SENZA PERSONALITÀ GIURIDICA:

Ciò che li distingue è la cosiddetta autonomia patrimoniale perfetta: uno strumento


attraverso il quale ci si assicura che sia il soggetto come ente a rispondere dei diritti di
credito con un proprio patrimonio. È il caso, ad esempio, di obbligazioni contratte da un
ente, laddove un ente debba una cifra di denaro ad un soggetto. Se questo ente è dotato di
personalità giuridica e quindi di autonomia patrimoniale perfetta, sarà il creditore a potersi
soddisfare sul patrimonio dell’ente (e solo su di esso); sarà quindi l’ente l’unico soggetto di
questa relazione giudica e a doversi confrontare con essa.

69
Nell’ipotesi di un ente NON dotato di personalità giuridica (caratterizzato dalla mancanza
di autonomia patrimoniale perfetta), gli associati che compongono l’ente e che hanno
concorso al sorgere delle obbligazioni e dei debiti (per esempio, che hanno materialmente
stipulato il contratto) vengono chiamati a rispondere PERSONALMENTE e SOLIDALMENTE
(insieme e per l’intero) delle eventuali obbligazioni di credito dovute all’ente. In questa
seconda ipotesi, quindi, i soggetti sono responsabili in maniera significativa insieme
all’ente, che non sarà più il solo centro di riferimento del rapporto, ma sarà un possibile
centro da prendere in considerazione insieme ai singoli.

In realtà gli enti non corrispondono esattamente al concetto di persona giuridica: non
abbiamo una completa sovrapposizione tra ente, persona giuridica e soggetto. Abbiamo
visto, intanto, come i soggetti possano essere persone giuridiche o enti. A loro volta gli enti
possono essere muniti di personalità giuridica o meno. In ogni caso, però, gli enti sono
sicuramente dei soggetti che però - a differenza delle persone giuridiche - devono avvalersi
di organi. In altre parole questi soggetti, per operare nel mondo giuridico, si devono
avvalere di persone fisiche che sviluppino dei ruoli e delle attività essenzialmente di
gestione e rappresentanza - attività che sono necessarie per la vita dell’ente.
Per questa ragione si parla di un ente che agisce attraverso i propri organi, i quali danno
un’idea della gestione dell’ente e della sua rappresentanza.
Alla luce di ciò, è chiaro che gli enti si dividano in organi interni (che svolgono attività di
gestione e che si sviluppano all’interno stesso) e organi esterni dell’ente (che agiscono per
l’ente in funzioni legate alla rappresentanza).

Le classificazioni degli enti non finiscono qui. Come abbiamo visto in sede introduttiva, il
diritto privato si distingue da quello pubblico. Di conseguenza, abbiamo visto che esistono
degli enti pubblici e degli enti privati. La distinzione, ancora una volta, è molto banale: lo
Stato e gli enti territoriali sono sicuramente pubblici; le associazioni e le fondazioni sono
private.
Tuttavia non è così semplice. Innanzitutto perché ci sono, come nella distinzione tra diritto
pubblico e privato, delle caratteristiche che rendono certi enti degli “ibridi”,
caratterizzandoli per la loro matrice - ad esempio - pubblicistica, ma con poteri anche
privatistici (o viceversa).
Vi possono essere ancora una serie di fenomeni legati alle evoluzioni storiche (ad esempio,
l’evoluzione e lo sviluppo delle cosiddette “autorities”, che hanno sviluppato sempre di più
degli avamposti individuati come enti pubblici), ma anche tutta una serie di privatizzazioni
di enti che erano prima ritenuti indiscutibilmente pubblici (ENI, ENEL, Poste Italiane).
Dunque le distinzioni precedentemente osservate nell’ambito del diritto pubblico e privato
si rispecchiano negli enti pubblici e privati. Queste distinzioni sono peraltro

70
sostanzialmente da inserire in una prospettiva di tipo funzionalistico: quella che si cerca di
far prevalere è una definizione funzionale di ente pubblico, cioè basata sulla funzione
assunta di volta in volta dall’ente. Tuttavia, questa posizione non è unica perché di
potrebbero avere diverse letture di questa distinzione, tutte – però – proiettate a questa
prospettiva funzionale della differenza tra ente pubblico ed ente privato.
Con riferimento ad altre classificazioni degli enti, bisogna richiamare la differenza tra enti
registrati ed enti non registrati: una distinzione che finisce per essere puramente formale,
basata sulla materiale iscrizioni degli enti ad un albo o meno. Chiaramente quelli iscritti
verranno considerati “registrati” e quelli non iscritti “non registrati”. Le due distinzioni che,
insieme a quella originaria tra enti con personalità giuridica e privi di personalità giuridica,
meritano attenzione non possono che essere quelle tra:

- Enti a struttura associativa ed enti a struttura istituzionale: gli enti a struttura


associativa sono quelli caratterizzati da una molteplicità di persone associate e dove
questa organizzazione è caratterizzante. Gli enti a struttura istituzionale sono
caratterizzati dal fatto di essere enti quasi verticistici, caratterizzati dal ruolo assunto
dalla pluralità di soggetti e ancor di più dal ruolo del patrimonio. Non è possibile,
infatti, non attribuire un ruolo principale al patrimonio. Diversamente, negli enti a
struttura associativa, non è possibile non attribuire un ruolo rilevante ai soggetti.

- Enti con finalità economica ed enti senza finalità economica: si tratta, in entrambi i
casi, di enti a struttura associativa (società, associazioni e comitati). In questi casi si
fa riferimento ad enti di cui si occupa prevalentemente il diritto privato, in particolar
modo il diritto civile (per gli enti senza scopo di lucro) ed enti di cui si occupa il
diritto commerciale (per gli enti con finalità economica, ad esempio le società).

Nell’approfondimento del nostro corso ci occuperemo degli enti che non hanno finalità
economiche, quindi degli enti senza scopo di lucro. Questi hanno la possibilità di sviluppare
un profilo economico, ma non comportano lo sviluppo di un lucro soggettivo – cioè
consentono di produrre ricchezza, ma non consentono di dividere tra gli associati il
risultato della ricchezza prodotta. Non è quindi possibile produrre un lucro che non sia solo
oggettivo: questa ricchezza si deve limitare ad essere investita in attività con finalità NON
economiche (non lucrative).
NON ci occuperemo invece delle società, quindi di quegli enti che consentono il lucro
oggettivo e che ammettono quello soggettivo (cioè il lucro diventa un guadagno
dell’associato).
In particolar modo ci occuperemo delle associazioni (distinte in riconosciute e non
riconosciute); delle fondazioni e di altri enti di tipo vario tra cui i comitati (riconosciuti e

71
non riconosciuti), alla luce del fatto che molti di questi enti senza scopo di lucro sono stati
recentemente oggetto della riforma del Terzo Settore (che ha cercato di dare una nuova
struttura, appunto, al Terzo Settore).
 ENTI A STRUTTURA ASSOCIATIVA
Il fenomeno associativo è considerato nel Codice Civile nella duplice forma di associazioni
riconosciute e associazioni non riconosciute. Prima di vedere quali siano le regole che
disciplinano queste associazioni, è opportuno riflettere sul fenomeno associativo in
generale. Si tratta di un fenomeno da un lato piuttosto antico: le assemblee hanno sempre
caratterizzato la vita dell’uomo. L’associazione è quindi un fenomeno risalente, ma che è
stato a lungo malvisto dai legislatori dell’800, che non trovavano nel fenomeno associativo
il loro principale “cavallo di battaglia” (individuato invece nell’individuo come centro del
sistema). L’associazione aveva sicuramente un ruolo importante, per il quale andava
riservato uno spazio, ma non sempre era il centro di interesse del legislatore.
Tanto meno il fenomeno associativo avrebbe potuto ricoprire un ruolo centrale sotto il
regime fascista. È chiaro che questo fenomeno, al pari delle riunioni; delle formazioni
politiche o dei cosiddetti “corpi intermedi” (tutto ciò che sta tra il singolo cittadino e lo
Stato), non fosse visto di buon occhio dalla dittatura fascista – la quale, appunto, non dà
alle associazioni un ruolo fondamentale.
Il momento in cui esso raggiunge una centralità irrevocabile è il momento Costituzionale: è
con la Costituzione che le assemblee assumono una centralità che non conoscevano.
Tuttavia, bisogna considerare che il nostro Codice Civile sia – in realtà – del 1942 (quindi
verso la fine del periodo fascista. L’impianto liberale è solo una visione coperta da un
qualcosa che doveva essere ammesso dall’ideologia dittatoriale del regime fascista. Non si
può assolutamente pensare che tutta questa disponibilità del fenomeno associativo non
abbia avuto una ricaduta. Si vedrà, infatti, che delle ricadute ci sono state ma, grazie alla
lettura costituzionale, anche certe visioni civilistiche assumono una prospettiva diversa. Per
assicurarci di interpretare il fenomeno nella prospettiva appena delineata (quindi che
tenga presente le norme del Codice Civile, ma anche della Costituzione) è importante
prendere in riferimento alcuni articoli della Costituzione stessa:

- Art.2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come
singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”

Dunque i diritti inviolabili dell’uomo sono riconosciuti e garantiti dalla Repubblica sia
come singolo, sia nelle formazioni sociali, ammettendo dunque la centralità di
queste ultime e dei corpi intermedi e della possibilità che l’individuo si sviluppi
come persona all’interno di una famiglia; di un’associazione o di un partito. È su

72
queste figure che poi tornerà il legislatore e permetterà una serie di norme di
grande interesse.

- Art.18: “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per


fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale [cfr. artt. 19, 20, 39, 49].
Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente,
scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”

L’articolo tutela il diritto di associarsi liberamente senza vincoli se non per casi
specifici (ad esempio i fini vietati dalla legge penale, le associazioni segrete, ecc). il
diritto di associazione è quindi considerato centrale nella nostra Costituzione.

- Art.39: “L'organizzazione sindacale è libera [cfr. art. 18].


Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso
uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un
ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati
unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro
con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il
contratto si riferisce”

Ciò che interessa rispetto questo articolo è la tutela prevista direttamente per i
sindacati dalla Costituzione: viene sostanzialmente detto che l’associazione è
importante anche per lo sviluppo del singolo. È chiaro anche qui il riferimento
storico nei rapporti con il regime fascista, che ovviamente non poteva permettere
associazioni sindacali libere o sistemi che dessero ampio margine e centralità a
sindacati o partiti.

- Art.49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per


concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale [cfr.
artt. 18, 98 c. 3, XII c. 1]”

È evidente non solo che il nostro sistema costituzionale sia fondato sulla
valorizzazione significativa di processi associativi (valorizzazione che passa per profili
e discipline generali), ma anche che queste valorizzazioni debbano essere stabilite
secondo l’impostazione costituzionale. In questa nuova prospettiva, possiamo

73
analizzare quanto viene detto dal Codice Civile in riferimento alle associazioni, con
particolare riguardo per le associazioni riconosciute e non.

Il legislatore fascista del ’42 ipotizza due differenti discipline (e conseguentemente


diversi effetti e diverse regole) con riferimento alle associazioni riconosciute e non.
Questo è sicuramente vero tanto quanto è vero che ci sia un favore originario nei
confronti delle associazioni riconosciute proprio perché attraverso il riconoscimento
si poteva in qualche modo valutare e considerare un’idea dell’associazione che si
stava riconoscendo e come questo si poteva sviluppare. È anche vero, però, che si
possono applicare alle associazioni non riconosciute (caratterizzate da un numero di
disposizioni decisamente inferiore) – laddove possibile in via analogica – anche delle
norme delle associazioni riconosciute.

In altre parole: il legislatore generalmente prevede due sistemi di associazioni:


riconosciute e non riconosciute. Le associazioni riconosciute hanno una peculiare
attenzione da parte del legislatore fascista che, attraverso la formula del
riconoscimento, vede una qualche forma di controllo del fenomeno. Pertanto, per
incentivarlo, lo disciplina in maniera chiara nell’ottica di mettere in luce questo tipo
di associazionismo. Tuttavia, alla luce del numero di disposizioni inferiori delle
associazioni non riconosciute, si dà la possibilità di applicare a queste ultime le
stesse norme valide per quelle riconosciute.
È importante sapere però che l’idea originaria sopra scritta non è stata rispettata.
Non c’è stata quella valorizzazione sociale ed economica delle associazioni
riconosciute. Anzi, si è assistito – nel corso degli anni – all’utilizzo di un ampio
numero di strumenti associativi soprattutto per quanto riguarda le associazioni NON
riconosciute. Almeno in un primo periodo questo è stato dovuto soprattutto alla
volontà degli associati (grandi o piccoli) di non voler avere un controllo pubblico
circa le loro gestioni interne; la loro autonomia e le loro regole. Dal momento che
nelle associazioni non riconosciute è possibile regolare in maniera meramente
pattizia (in seguito ad accordi tra privati) molte più cose, nei fatti si è cercato di
realizzare un risultato che in realtà ne ha prodotto un altro. Se il risultato doveva
essere quello di valorizzare soprattutto le associazioni riconosciute, l’effetto ultimo è
stata la centralità assunta da quelle non riconosciute, poiché queste ultime danno
una maggiore libertà di autogestione.
Quindi, grazie a questa prerogativa, si attribuì uno strumento molto utile che nella
prassi si è voluto valorizzare.

74
- Art.11/C.c: Le Province e i Comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone
giuridiche, godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico
(824 e seguenti).
- Art.14/C.c (e seguenti): Le associazioni e le fondazioni devono essere costituite con
atto pubblico [1350, 2699].
La fondazione può essere disposta anche con testamento [600; 3 att.].
- Art.36/C.c (e seguenti): [I]. L'ordinamento interno e l'amministrazione delle
associazioni non riconosciute come persone giuridiche [ 39 Cost.] sono regolati dagli
accordi degli associati.
[II]. Le dette associazioni possono stare in giudizio nella persona di coloro ai quali,
secondo questi accordi, è conferita la presidenza o la direzione.

 ASSOCIAZIONI RICONOSCIUTE
Il riconoscimento avviene attraverso un’istanza alla prefettura del luogo dove
l’associazione ha la sede principale e viene valutata la modalità di costituzione
dell’associazione. Le associazioni vengono poi riconosciute attraverso costituzioni
pubbliche stipulate davanti ad un notaio e devono contenere: nome dell’ente;
caratteristiche; scopo e patrimonio.
Altri profili che vengono valutati ai fini del riconoscimento sono la liceità dello scopo e la
proporzionalità del patrimonio.
Il riconoscimento oggi non è più uno scoglio insuperabile; anzi, è un passaggio
relativamente formale: si valutano profili che di sostanziale hanno ben poco.
Le associazioni hanno tutte un’assemblea che svolge un ruolo centrale e che vota le
principali deliberazioni riguardanti l’atto costitutivo ed eventuali statuti (cioè atti che
costituiscono l’associazione e caratterizzati da contenuti speciali). L’assemblea ha diritti di
modifica così come di approvazione dei bilanci con modalità generalmente maggioritarie.
Esiste poi l’istituto degli organi amministratori e che dunque amministrano l’associazione
con compiti essenzialmente gestori rispetto alla stessa.
Le associazioni riconosciute sono caratterizzate dall’essere, in primo luogo, iscritte al
registro delle persone giuridiche; in secondo luogo dal regime della cosiddetta
autonomia patrimoniale perfetta.
Esattamente come esiste la libertà di associazione, esiste anche la possibilità – per
l’associazione stessa – di recedere, purché venga presentata la richiesta con tre mesi di
anticipo. È importante sapere anche che l’associazione si può estinguere per
raggiungimento dello scopo; per impossibilità della sua realizzazione o per il venir meno di
tutti gli associati.

75
Una volta che si avvia l’estinzione dell’associazione, si deve chiaramente procedere alla
liquidazione del patrimonio e ancora dopo alla cancellazione dal registro delle persone
giuridiche.

 ASSOCIAZIONI NON RICONOSCIUTE


Originariamente partono dall’essere limitate dal legislatore. In realtà, però, assumono e
sviluppano una centralità inimmaginabile. Questa centralità è data dal fatto che questo
tipo di associazioni siano lo state lo strumento maggiormente usato non solo da
associazioni minori, ma anche da quelle di maggior rilievo (quali partiti politici e sindacati)
che oggi – seppure con discipline molto particolari – sono da considerarsi NON
riconosciute poiché non c’è stato un espresso riconoscimento da parte dello Stato (o
quanto meno non avviene attraverso la procedura tradizionale). Sia sindacati che partiti
politici sono oggetto di normative in larga parte ad hoc, che cercano di contemperare la
loro natura di associazioni non riconosciute, ad esempio con regolamenti che – da un
punto di vista di responsabilità – non facciano scattare discipline generali delle associazioni
propriamente non riconosciute (quali l’autonomia patrimoniale imperfetta).
La formazione di un’associazione non riconosciuta è molto meno complicata proprio
perché si struttura su base strettamente contrattuale, senza la previsione di atti
sacramentali da parte di un notaio e dunque senza articolate formalità. Sono caratterizzate
dalla presenza di un’assemblea, insieme ad un eventuale organo di amministrazione. Da un
punto di vista generale, il regime che viene adottato è lo stesso di quello adottato dagli enti
senza personalità giuridica (e quindi con autonomia patrimoniale imperfetta).
Per quanto non espressamente previsto dal codice civile, sono considerate applicabili in via
analogica, una serie di normative (ad esempio quella sul recesso) delle associazioni
riconosciute. È però importante richiamare la norma che più tra tutte sintetizza la struttura
delle associazioni non riconosciute:
Art.36/C.c: [I]. L'ordinamento interno e l'amministrazione delle associazioni non
riconosciute come persone giuridiche [ 39 Cost.] sono regolati dagli accordi degli associati.
[II]. Le dette associazioni possono stare in giudizio nella persona di coloro ai quali, secondo
questi accordi, è conferita la presidenza o la direzione.
Questo articolo consente, con il richiamo espresso agli accordi degli associati, di
sottolineare la natura prettamente negoziale delle associazioni non riconosciute che –
quindi – troveranno l’applicazione (ove non espressamente previsto dal Codice e per un
numero minimale di atti) le disposizioni valide per le associazioni riconosciute. Queste
disposizioni chiaramente mirano a sottolineare le differenze che, almeno in origine,
esistevano tra i due tipi di associazioni.
Vi sono poi una serie di differenze che sono invece osservabili dal codice, come ad esempio
il patrimonio.

76
24/03/20

I DIRITTI RELATIVI

Se fino adesso abbiamo analizzato nel dettaglio i diritti reali, caratterizzati dall’assolutezza
su una “cosa” (una res), cioè la tutela si un soggetto nei confronti di tutti i consociati; ci
occuperemo adesso di analizzare tutti quei diritti che invece vengono definiti relativi (o di
credito). Come vedremo, si tratta di diritti che riguardano una pretesa debitoria nei
confronti di un determinato soggetto. Questo rapporto riguarda solamente determinati
soggetti: se un sottoposto presta una somma di denaro ad un altro, il primo avrà diritto alla
restituzione della somma (più eventuali interessi); dunque il rapporto sarà tra due soggetti
individuati. Lo stesso discorso vale nell’ottica del risarcimento del danno. Dunque, ciò che
distingue i diritti reali da quelli di credito è che, mentre i diritti reali sono assoluti, i diritti di
credito sono relativi, cioè riguardano solamente alcuni soggetti.
In particolare, con i diritti relativi iniziamo a considerare il rapporto obbligatorio (o
obbligazione) è un rapporto che si instaura tra due soggetti: uno passivo (debitore) e uno
attivo (creditore), alla luce del quale il primo è tenuto a compiere una prestazione. Si
instaura così il rapporto obbligatorio tra due soggetti di debito-credito.
Come vedremo, è necessaria non soltanto la volontà e l’impegno del soggetto debitore a
compiere la prestazione; ma è anche richiesta la cooperazione da parte del soggetto
creditore per assicurare l’esito della prestazione.
Nel caso di normale adempimento l’obbligazione viene estinta.
Nel caso di mancato adempimento si incorre in responsabilità patrimoniale: cioè, a
seguito della violazione del vincolo tra debitore e creditore, scatta una responsabilità di
tipo patrimoniale per cui il debitore risponde del suo obbligo nei confronti del creditore in
termini patrimoniali (con il proprio patrimonio). Questa normativa viene espressa
chiaramente all’art.2740 del Codice civile:
“Il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e
futuri.
Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge”.
Dunque, solitamente, nel rispondere all’adempimento dell’obbligazione, sono disposti i
beni presenti e futuri che costituiscono il patrimonio del debitore.
È importante però tenere a mente che non sia sempre stato così. In passato, per esempio,
vi fu chi propose (e c’è chi propone tuttora) eventuali misure penali per debiti non saldati.
Questo, oltre a comportare una sovrapposizione tra rapporti di diritto privato e di diritto
pubblico, rischia di risultare esorbitante (a livello penale) rispetto all’inadempimento di
carattere patrimoniale, cui – conseguentemente – il legislatore ha redatto una
responsabilità patrimoniale legata a quanto previsto dal Codice civile.

77
A seguito dell’eventuale inadempimento quindi, il soggetto risponderà con il proprio
patrimonio - il che significa, dal punto di vista pratico – procedere all’eventuale esecuzione
forzata. Ad eccezione casi specifici però, in cui sarà possibile l’esecuzione forzata in forma
specifica (ad esempio nell’ipotesi in cui un soggetto sia obbligato a consegnare qualcosa di
determinato), in linea generale lo strumento applicato è la possibilità di eseguire
forzatamente un’obbligazione sostanzialmente con il risarcimento del danno.
Il Codice civile è suddiviso in sei libri, ognuno dei quali prevede il trattamento di uno
specifico argomento:
- libro uno: persone della famiglia;
- libro due: le successioni;
- libro tre: la proprietà (con disposizioni in materia di diritti reali);
- libro quattro: obbligazioni (con disposizioni di contratti e di responsabilità civili);
- libro cinque: diritti del lavoro e rapporti di tipo societario;
- libro sei: la tutela dei diritti.

Nell’ambito di cui ci stiamo occupando, il riferimento sarà fatto al libro quarto del Codice
civile.
Data questa premessa, è interessante richiamare la prima norma del libro quarto, che
rappresenta un ottimo strumento per lo studio di tutto ciò che riguarderà questo corso
d’ora in avanti. Il libro si apre con l’art.1173:
“Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo
a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico”
Il riferimento è alle fonti delle obbligazioni asserendo che il rapporto tra debitore, tenuto
a compiere una prestazione nei confronti di un creditore, può derivare da tre macro-fonti:
1. Contratto
2. Fatto illecito
3. Ogni altro atto idoneo a produrre obbligazioni
Sono quindi tre aree molto nitide dei legami fra tutto ciò che verrà analizzato d’ora in
avanti.
Grazie a questo articolo ci è permesso comprendere che obbligazioni e contratti non sono
due atti scollegati tra loro, ma – viceversa – si prevede che le obbligazioni siano il prodotto
di un contratto. In altre parole, da un contratto deriva un’obbligazione.
Per esempio: da un contratto di compravendita derivano delle obbligazioni. Acquistando
un computer derivano delle obbligazioni da parte del venditore (consegnare il computer in
buono stato con caratteristiche specifiche, accertandone la provenienza) e da parte del
compratore (l’obbligo di pagare una certa cifra).
Il contratto è quindi una fonte di obbligazioni.

78
È questa la ragione per cui tutto ciò di cui ci occuperemo sarà tutto interconnesso, perché
le caratteristiche che legano i singoli rapporti obbligatori derivanti da questo contratto,
saranno disciplinati – in parte dalle normative sulle obbligazioni – ma anche
fisiologicamente dal contratto in cui ci si inserisce.
Discorso similare, alla luce dello stesso articolo, vale per le altre fonti delle obbligazioni in
quanto esse derivino non solo dal contratto, ma anche da fatti illeciti (possono ad esempio
derivare dal fatto che, a seguito di un evento quale un sinistro stradale, si realizzino
obbligazioni risarcitorie) e da qualsiasi altro atto o fatto idoneo a produrre obbligazioni
(promesse unilaterali che fanno scattare una fonte di rapporto obbligatorio; gestione di
affari altrui; titoli di credito; pagamento di un debito; arricchimento senza causa, ecc.).
Addirittura, proprio questa terza figura (altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni) è un
profilo innovativo del Codice del ’42 che, così facendo, aderisce ad una tripartizione delle
fonti delle obbligazioni che era presente nelle istituzioni di un noto giurista romano: Gaio.
Non era però la principale classificazione romanista, in quanto – già a partire da
Giustiniano – si diceva che in realtà le fonti delle obbligazioni fossero quattro: contratti,
delitti (legati al fatto illecito), quasi contratti e quasi delitti. Ne derivava sostanzialmente
una quadripartizione, che era stata poi recepita nel Codice napoleonico francese e,
successivamente, dal Codice italiano del 1865. Il nuovo Codice ha sostanzialmente mutato
la classificazione del Codice precedente, passando da una classificazione delle fonti
quadripartita, ad una tripartita.
Alla luce di quanto detto, si realizza una disciplina generale – in materia di obbligazioni –
fermo restando la diversità possibile di fonti (con tutto ciò che ne deriva nella disciplina a
monte delle obbligazioni stesse).
Tutto questo riguarda in maniera generale le obbligazioni civili, cioè obbligazioni che
hanno come effetto quello di vincolare le parti - alla luce delle quali un soggetto debitore,
come abbiamo già visto, è tenuto a compiere una prestazione nei confronti di un soggetto
creditore.
Alle obbligazioni civili si contrappongono (o quanto meno si distinguono) le obbligazioni
naturali. Queste ultime sono caratterizzate dal non essere vincolate alle fonti delle
obbligazioni richiamate, ma da un dovere morale o sociale. In questi casi, il debitore non è
giuridicamente obbligato ad eseguire la prestazione; tuttavia, se la prestazione in
esecuzione del dovere morale o sociale viene compiuta, il soggetto che la compie non può
chiederne la restituzione. L’effetto è quindi la cosiddetta “soluti pretentio”: cioè il fatto che
non si possa richiedere (e conseguentemente si abbia il diritto di non restituire) una
prestazione eseguita in adempimento di una prestazione naturale.
L’obbligazione naturale si verifica quando si abbia l’esecuzione spontanea; il soggetto
risulti legalmente capace e nei casi in cui vi sia proporzionalità tra prestazione eseguita ed
interessi dell’altra parte. Se questi presupposti sono soddisfatti, scatta la possibilità – per il

79
ricevente - di non restituire la prestazione e l’impossibilità di chiederne la restituzione da
parte di chi ha compiuto la prestazione.
Sono esempi di obbligazioni naturali i debiti di gioco così come il debito prescritto.
Quest’ultimo caso si verifica nell’eventualità in cui un soggetto abbia un debito che sia
andato in prescrizione. Se il soggetto ritiene moralmente corretto l’adempimento
dell’obbligazione, non potrà conseguentemente chiederne la restituzione. Il discorso vale
anche nel caso del debito di gioco: il soggetto non è tenuto giuridicamente, ma se adempie
non potrà più richiedere la somma. Un altro caso equivalente possono essere, per
esempio, le prestazioni gratuite che vengono effettuate a favore del convivente uxorio.
Sono tutte ipotesi in cui si realizzano prestazioni che non sono dovute ai sensi del diritto
civile, ma sono espressione di un dovere morale e sociale che, se hanno le tre
caratteristiche sopra citate, producono l’effetto giuridico della soluti pretentio.
La nostra attenzione, come già detto, si focalizzerà sulle obbligazioni civili, quindi sul
rapporto obbligatorio tra un debitore tenuto ad adempiere ad una prestazione nei
confronti di un altro soggetto attivo, definito creditore. Ne deriva dunque, che i soggetti in
questione siano determinati – o per lo meno – determinabili. Questi soggetti, però,
possono non essere singoli. Il rapporto prevede che vi siano almeno due soggetti, ma può
presumerne anche una pluralità. In altri termini, possiamo avere ipotesi di diversi creditori
a fronte di un solo debitore; o ipotesi di più debitori a fronte di un unico creditore. Per
esprimerci meglio: possiamo avere obbligazioni che non siano più semplici, ma
plurisoggettive: per cui si ha una pluralità di debitori (quindi passive) o di creditori (quindi
attive).
Con riferimento alle obbligazioni plurisoggettive si pone un problema dal punto di vista
della modalità di esecuzione di queste prestazioni. Davanti a ciò si apre una possibile
distinzione fra due diverse vie:
1. Obbligazioni solidali;
2. Obbligazioni parziarie.
Ciò implica la possibilità di scegliere la modalità con la quale adempiere all’obbligazione.
Prendiamo come esempio l’eventualità – largamente più diffusa – delle obbligazioni
plurisoggettive passive: nel caso di una pluralità di debitori, l’obbligazione solidale prevede
che un soggetto adempia per tutti gli altri che, successivamente, sarà tenuto a richiedere –
attraverso un’azione di pregresso – a ciascun debitore la propria parte (che si presume
essere uguale). Viceversa, la modalità dell’obbligazione parziaria prevede che ognuno
paghi la propria parte direttamente al creditore.
Rispetto al caso delle obbligazioni plurisoggettive attive, il procedimento è pressappoco
similare. Nell’ipotesi di obbligazioni solidali, un singolo debitore può adempiere per l’intero
– indifferentemente - ad uno dei suoi creditori, con l’effetto che sarà poi l’altro creditore a

80
dover versare l’addebito al suo concreditore. Viceversa, nel caso delle obbligazioni
parziarie, la somma verrà suddivisa tra i concreditori.
Come si capisce con che obbligazione si ha a che fare? Se è vero quanto detto finora e se è
vero che queste rappresentano solamente modalità d’esecuzione della prestazione, ciò
significa che il soggetto – davanti ad un rapporto che ne prevede una pluralità – debba
sapere se adottare un’obbligazione solidale o parziaria. Vi sono, ovviamente, dei casi in cui
la legge può preferire una modalità piuttosto che un’altra; o ancora, la modalità può essere
prevista dalle parti espressamente interessate.
Tuttavia, nell’ipotesi in cui la legge non preveda nulla di specifico o in cui le parti non si
accordino nell’ambito di un titolo generico, ricorre la regola di legge generale prevista
all’art.1294 del Codice civile, che presume la cosiddetta regola di presunzione di
solidarietà passiva. Cioè una regola secondo la quale se le parti nulla hanno concordato e
se non si tratta di un settore specifico per cui la legge abbia previsto qualcosa, per legge si
presume la solidarietà passiva. Dunque, il singolo condebitore sarà chiamato ad adempiere
a nome di tutti.
Questa regola però non vale con riferimento alle obbligazioni plurisoggettive attive, perché
in questo caso non si ha una presunzione di solidarietà attiva ma – al contrario – a ciascun
creditore si dovrà corrispondere la singola cifra. La ragione è piuttosto semplice: è un favor
creditoris per cui si cerca in ogni modo di agevolare il creditore. L’obbiettivo del nostro
ordinamento è assicurarsi l’adempimento delle obbligazioni e che nei rapporti tra soggetti
ciascuno consegni il bene che deve o paghi la somma da pagare. Questo significa che è da
ritenersi preferibile la posizione di chi ha già interesse nell’adempimento delle
obbligazioni: ovvero il creditore, che così facendo assicura il proprio interesse (e di
conseguente l’interesse dell’ordinamento nel suo complesso). Chiaramente questo
comporta un sacrificio da parte del debitore, che sarà poi chiamato a richiedere –
attraverso un’azione di regresso, nel caso dell’obbligazione solidale – a ciascun
concreditore la propria parte di debito.
Si presenta però un ulteriore problema: oltre a dover versare la somma per intero (e
quindi, in un certo senso, anticiparla), il debitore corre un rischio legato al fatto che
qualcuno, tra i singoli debitori, potrebbe sottrarsi. È vero che nel caso di insolvenza del
singolo la perdita viene “spalmata” su tutti gli altri; ma si tratta comunque di un rischio che
si assume chi si è assunto il pagamento del costo totale.
È chiaro che tutto questo tema si pone con riferimento solo alle obbligazioni divisibili,
ovverosia a quelle obbligazioni che sono suscettibili di un adempimento parziale.
Tutto ciò non è applicabile invece alle obbligazioni indivisibili, perché queste saranno
necessariamente obbligazioni solidali.

81
Nell’analizzare le disposizioni che seguono l’art.1173 del Codice civile, ci accorgiamo come
vi siano fondamentalmente due norme caratteristiche legate al contenuto delle
disposizioni:
1. Art.1174: “La prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere
suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere a un interesse, anche
non patrimoniale, del creditore”.
Il rapporto obbligatorio deve avere in oggetto una prestazione, la quale deve avere
essenzialmente due caratteristiche: dev’essere valutabile economicamente e deve
corrispondere ad un interesse dell’altra parte (del creditore), che può essere non
meramente patrimoniale. Queste prestazioni si possono distinguere in obbligazioni
di diverso tipo:
- Obbligazioni di fare;
- Obbligazioni di dare;
- Obbligazioni di NON fare;
Inoltre, possiamo distinguere le prestazioni in: fungibili e infungibili a seconda che
rilevi o meno la qualità personale del soggetto chiamato ad adempiere.
2. Art.1175: “Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della
correttezza”.
Questo articolo riflette il principio di correttezza (o buonafede), asserendo che le
regole della correttezza hanno un ruolo rilevante nelle obbligazioni; ma anche con
riferimento ai contratti in generali. Questo principio è una sorta di espressione dei
doveri inderogabili di solidarietà sociali previsti all’art.2 della Costituzione, si
richiede cioè che entrambe le parti si impegnino. In questo senso si richiama – come
detto prima – la necessità di cooperare.
Ritroveremo questo stesso principio in materia di contratto, con particolare
riferimento alla responsabilità precontrattuale (art.1237); all’interpretazione del
contratto; e al contratto di buonafede (art.1375).
C’è una differenza significativa, ad esempio, rispetto alla regola posta all’art.1176
che richiama la diligenza del buon padre di famiglia:
“Nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di
famiglia.
Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività
professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività
esercitata”.

In altri termini, si prevede che lo standard del buon padre di famiglia sia declinato a
seconda dell’attività che dev’essere compiuta.

82
Sempre in queste norme introduttive, individuiamo un altro profilo molto
importante con riferimento alla prestazione del rapporto obbligatorio, quella tra
obbligazioni generiche, che hanno ad oggetto la consegna di “cose” che sono
determinate soltanto nel genere, ma che non sono ancora state individuate. Per
consentire il passaggio dall’obbligazione generica a quella specifica, è necessaria
un’opera di individuazione. In quest’ottica, l’obbligazione si trasforma attraverso
un’attività che consente una specificazione delle obbligazioni generiche.

Sempre con riferimento all’oggetto dell’obbligazione, dunque alla prestazione,


dobbiamo compiere un’ultima classificazione che distingue:
- Obbligazioni semplici: il soggetto è tenuto ad un’unica prestazione;
- Obbligazioni alternative: hanno ad oggetto due o più prestazioni. Tuttavia, il
soggetto compie una scelta per la quale adempie solo ad una di esse, facendo
venir meno il vincolo obbligatorio;
- Obbligazioni facoltative: hanno anch’esse ad oggetto una sola prestazione, ma il
debitore può decidere di adempiere attraverso un’altra. Quest’ultima possibilità
è un’ipotesi di obbligazione semplice.
Questa distinzione viene rilevata perché da essa possono derivare problemi significativi in
riferimento all’ipotesi di impossibilità sopravvenuta. In altri termini, il problema è cosa
accade se interviene un fatto che renda impossibile la realizzazione di una delle prestazioni
dovute.
Nell’ipotesi di obbligazione semplice, chiaramente, se il bene da consegnare perisce
l’obbligazione si estingue (e il soggetto non è più tenuto ad adempiere); nel caso di
obbligazione alternativa – se diviene impossibile la consegna di una delle due prestazioni –
l’altra parte rimarrà vincolata all’adempimento consegnando l’alternativa rimanente;
nell’ultima ipotesi di obbligazioni facoltative, se diviene impossibile l’obbligazione
principale, l’obbligazione si estingue. Sostanzialmente funziona lo stesso sistema delle
obbligazioni semplici. In altri termini, l’obbligazione facoltativa è un’obbligazione semplice
che offre la possibilità di adempiere alla prestazione in maniera differente; ma nel caso di
mancanza dell’alternativa principale, il debito viene estinto.

83
25/03/20
LE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE
Le obbligazioni pecuniarie sono indubbiamente uno tra gli strumenti più utilizzati nel
nostro ordinamento, necessitano dunque una particolare attenzione in maniera non tanto
asettica (quindi dal profilo meramente tecnico), quanto anche – e soprattutto – in una
logica aperta al mondo, alla società e all’economia. In questa logica, le obbligazioni
pecuniarie rappresentano una finestra sul mondo, poiché si tratta di obbligazioni diffuse
nella prassi.
Le obbligazioni pecuniarie hanno ad oggetto una somma di denaro, sono pertanto
“obbligazioni di dare” attraverso le quali un soggetto debitore è tenuto a dare una somma
di denaro al soggetto creditore. In particolar modo, per considerare la disciplina delle
ordinazioni pecuniarie nel nostro ordinamento, dobbiamo fare riferimento all’art.1277 del
Codice civile:
“I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del
pagamento e per il suo valore nominale.
Se la somma dovuta era determinata in una moneta che non ha più corso legale al tempo
del pagamento, questo deve farsi in moneta legale ragguagliata per valore alla prima”.
L’articolo ci dice fondamentalmente due cose importanti:
1. Per adempiere ed estinguere l’obbligazione, si deve far ricorso ad una moneta che
abbia corso legale: il tema che diviene decisivo è capire quale moneta abbia corso
legale nel nostro Stato oggi. Come noto, nel nostro ordinamento, se si vuole
estinguere ad un’obbligazione pecuniaria, si dovrà ricorrere al pagamento in euro.
Ovviamente, si richiama il fatto che non sia sempre stato così, essendo
precedentemente adottata come moneta autonoma la lira. Dal 2002, la moneta
avente corso legale in Italia, però, è l’Euro. È chiaro che ciò necessiti, talvolta, di
qualche precisazione. In particolare, si intravedono due macro-precisazioni:
a. Il problema di altra moneta, dove si intenda una moneta che non abbia più corso
legale nello Stato al momento del pagamento;
b. Il problema di altra moneta, dove si intenda una moneta estera.
Queste due fattispecie vengono precisate all’art.1277//c.2 e all’art.1278. In
sostanza, si deve ragguagliare, per quanto possibile, il debito avente moneta
diversa, a quella avente corso legale nello stato. L’idea è quindi di convertire
l’importo al valore legale.
Eventuale estinzione di obbligazione pecuniarie tramite strumenti diversi dalla
moneta avente corso legale: si pensi, ad esempio, al pagamento tramite assegno.
Sostanzialmente, il pagamento in moneta costringe il soggetto debitore ad accettare
l’adempimento; ma lo stesso debitore non può rifiutare l’adempimento neanche
nell’ipotesi di pagamento tramite mezzi diversi. Tuttavia, nell’ipotesi di pagamento

84
tramite assegni (con riferimento ad assegni bancari o circolari) potrà evitare
l’adempimento solo per giustificato motivo.
Questo per quanto riguarda solo la prima parte dell’art.1277.
La seconda parte del primo comma, sottolinea anche il fatto che venga richiamato
espressamente il cosiddetto principio nominalistico.
Ipotizziamo un’obbligazione per cui un soggetto debba una somma di denaro ad un
creditore. il problema che si pone, qualora sia trascorso un ampio lasso di tempo, è legato
alla funzione stessa della moneta. Come noto, la moneta non è uno strumento capace di
per sì di soddisfare i bisogni delle persone. La sua unica funzione è quella di pagamento: si
tratta di uno strumento funzionale allo scambio per ottenere, come contropartita, beni e
servizi. Ciò significa che un soggetto possa essere tenuto ad assumere due atteggiamenti:
1. Restituire il valore numerico della cifra dovuta;
2. Si può far valere il valore reale: cioè il potere di acquisto che, nel periodo trascorso,
la moneta ha acquisito (che non per forza coincide al valore numerico/nominale). Si
tratta di un problema che aveva una rilevanza decisiva nel momento in cui il nostro
paese affrontava un periodo di alto tasso di inflazione (che ancora oggi riguarda in
maniera significativa i paesi sud-americani). Tutto ciò diventa rilevante nella misura
in cui un alto tasso di inflazione si riscontra in una netta differenza tra valore
nominale (quindi valore numerico) e valore reale. Ciò che accade sostanzialmente è
un continuo ribasso del valore nominale della moneta. Questo significa, però, che
adottando il valore reale a fronte dell’obbligazione, trascorso un lasso di tempo – a
seguito di inflazione e ribasso del valore della moneta – il soggetto debitore si ritrovi
a dover devolvere il valore reale (e quindi il valore di acquisto). Questo è stato un
tema che ha molto interessato l’Italia ai tempi della lira, perché a quei tempi il tasso
di inflazione era rilevante: dunque l’effetto era che – molto spesso – ci si ritrovava
ad avere valori (in lire) che non corrispondevano a quello degli anni precedenti
(perché la lira veniva continuamente svalutata). Questo aveva limiti significativi
perché, per esempio, rischiava di ridurre il valore di acquisto degli stipendi.
Questi problemi sono però sensibilmente ridotti da quando, nel 2002, è entrato in
vigore l’euro; perché il nostro ordinamento non conosce più – quasi definitivamente
– il fenomeno dell’inflazione. Il che significa che il valore reale (e quindi il valore di
acquisto) – nell’ambito dell’euro – tende a rimanere abbastanza stabile. Ad ogni
modo, resta il fatto che anche l’Euro abbia un minimo di variazione tra valore reale
e valore nominale.
Detto ciò, è chiaro come il legislatore – alla luce di questa riflessione – debba compiere una
scelta: se nelle obbligazioni pecuniarie si deve richiamare il valore reale (il potere di
acquisto) o il valore numerico (il valore nominale) della moneta. L’art.1277//c.1, nella sua
seconda parte, compie una chiara scelta di campo: adotta il principio nominalistico, quindi

85
la centralità del valore nominale. Conseguentemente, nel nostro esempio, il soggetto che
si trovi a dover restituire (dopo un ampio lasso di tempo) la medesima quantità di pezzi
monetari originariamente fissata, a prescindere dal fatto che – nel frattempo – si sia
modificato il valore di acquisto.
La scelta di campo appena osservata, alla luce della sua adozione nel ’42, ha avuto
conseguenze importanti nel nostro ordinamento per tutto il periodo legato alla lira, e
continua ad averlo tutt’oggi. Considerando il fatto che, anche se in misura minore, ci
possano essere delle variazioni del valore nominale rispetto al potere di acquisto, molto
spesso sono previsti dei meccanismi (delle clausole contrattuali) nei quali si indicizzano i
contratti.
Un esempio può essere il caso in cui, in un contratto di locazione, si possa notare la
clausola di indicizzazione del prezzo rispetto a certi parametri dell’ISTAT. Questi non sono
altro che degli strumenti per evidenziare il fatto che - se il canone dovuto è pari a x - il
valore di x può modificarsi se si modificano certi parametri che fanno riferimento, ad
esempio, al valore medio; al tenore di vita; ecc. (strumenti che cercano di vincolare il
valore nominale alla luce di parametri che cercano di tenere conto del costo della vita).
Questo principio nominalistico ha anche un’altra funzione importante, legata alla
possibilità di farci riflettere su una distinzione che è assolutamente centrale in materia di
obbligazioni pecuniarie: obbligazioni di valuta e obbligazioni di valore (altrimenti detta
distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore). Il principio nominalistico si applica,
secondo la giurisprudenza, soltanto alle obbligazioni di valuta; mentre non trova
applicazione nelle ipotesi di obbligazioni di valore.
 Obbligazioni di valuta: sono obbligazioni che hanno ad oggetto, fin dall’origine, una
somma di denaro;
 Obbligazioni di valore: si consideri, ad esempio, il caso delle obbligazioni
risarcitorie. Un soggetto può richiedere il risarcimento di un danno che evidenzia
come - in origine – l’obbligazione non abbia ad oggetto un’esatta somma di denaro,
perché non si può prevedere materialmente una cifra esatta. La moneta, in questo
caso, rappresenta un oggetto che sostituisca il bene del quale il soggetto è stato
privato. In questi casi, com’è evidente, non si applicherà il principio nominalistico
perché sarà prima necessaria la trasformazione dell’obbligazione di valore in
obbligazione di valuta. Bisognerà cioè giungere ad una quantificazione – in termini
monetari – della prestazione; si dovrà pervenire poi ad una eventuale rivalutazione
dell’entità di valore e – infine – bisognerà capire se ci sia stato o meno un ulteriore
danno. Solo all’esito di questa triplice valutazione si potrà giungere ad individuare il
nuovo debito di valuta e così applicare il principio nominalistico.
Se questo è generalmente vero per le obbligazioni pecuniarie, dobbiamo però svolgere
un ulteriore passaggio per l’analisi tecnica degli interessi: una particolare obbligazione

86
pecuniaria, caratterizzata dal fatto di essere accessoria rispetto ad un’altra obbligazione
pecuniaria principale. Un soggetto che debba restituire una certa somma, dovrà
restituire questa somma – detta capitale – a cui se ne aggiungerà una a titolo di
interessi. Si vincolano dunque gli interessi ad un’obbligazione principale.
Le obbligazioni pecuniarie sono fruttifere, cioè producono frutti - rappresentati dagli
interessi - civili.
Gli interessi si distinguono in base alla fonte e alla funzione. In altri termini, si
distinguono in interessi legali, se espressione di una previsione legislativa; oppure in
interessi convenzionali, se espressione di un accordo tra debitore e creditore.
Ma gli stessi interessi possono essere classificati anche – e forse soprattutto – alla luce
della loro funzione:
Corrispettivi: rappresentano una sorta di corrispettivo per l’utilizzo e il godimento – da
parte del debitore – del denaro. Si tratta del caso esemplificato all’inizio: una data
banca permette un mutuo a un soggetto, dandogli una certa somma di denaro e applica
un interesse corrispettivo che il soggetto sarà tenuto, trascorso del tempo, a restituire.
Si vuole, in questo modo, corrispondere alla banca un prezzo, per di aver concesso al
soggetto di godere della somma di denaro. Gli interessi corrispettivi si applicano quindi
ai debiti di valuta (che hanno ad oggetto, fin dall’origine, una somma di denaro);
Compensativi: sono interessi che rappresentano una sorta di compenso/risarcimento
del danno sofferto dal creditore per non aver ottenuto subito la prestazione dovutagli.
Ancora una volta, facciamo un riferimento a ciò che abbiamo già osservato: si applicano
ai debiti di valore. A seguito di incidente stradale, ad esempio, sarà dovuta una somma
rappresentante il danno in sé (cioè il danno effettivamente subito dal danneggiato), in
più saranno dovuti degli interessi a titolo di compenso del danno già subito, poiché il
danneggiato non ha potuto usufruire tempestivamente della prestazione;
Moratori: sono interessi dovuti dal debitore in mora al creditore (cioè sono dovuti da
un debitore in ritardo qualificato).
Come noto, l’ammontare degli interessi si determina con una percentuale (il tasso di
interesse) che si valuta alla luce dell’entità della somma capitale (legata all’obbligazione
principale) e al tempo. Si tratta quindi di un rapporto che si ha tra queste due variabili. Il
tasso di interesse, a sua volta, si può distinguere in tasso di interessi legale e tasso di
interessi convenzionale, distinti sempre in base alla fonte.
Nel primo caso, il tasso di interesse viene previsto dalla legge; in particolar modo ai sensi
dell’art.1284//c.1 del Codice civile e viene sostanzialmente modificato con decreto del
Ministro dell’Economia – di anno in anno – sulla base del rendimento medio annuo lordo
di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso d’inflazione registrato
nell’anno:

87
“Il saggio degli interessi legali è determinato in misura pari al 5 per cento in ragione
d'anno. Il Ministro del tesoro, con proprio decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica italiana non oltre il 15 dicembre dell'anno precedente a quello cui il saggio si
riferisce, può modificarne annualmente la misura, sulla base del rendimento medio annuo
lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di
inflazione registrato nell'anno. Qualora entro il 15 dicembre non sia fissata una nuova
misura del saggio, questo rimane invariato per l'anno successivo”
Nel secondo caso (interesse convenzionale), l’ammontare degli interessi viene stabilito da
un accordo tra le parti, che richiederà la forma scritta nel caso in cui preveda un tasso
superiore a quello legale.
Un altro dato importante è rappresentato dalla possibilità di prevedere degli interessi
usurari, cioè la possibilità di prevedere interessi che superino certe soglie. Se le parti si
accordano e sono dovuti degli interessi esorbitanti rispetto a quanto normalmente previsto
dalla legge, si realizzano gli interessi usurari per cui la clausola che prevede la stipulazione
di questi accordi è nulla; pertanto, a seguito della nullità, non sono dovuti interessi (ma
solo la somma capitale).
Infine, nel nostro ordinamento, non sono tradizionalmente ammessi gli interessi
anatogistici; cioè gli interessi che maturano su altri interessi. La regola generale – anche se
con minime eccezioni – è di non prevedere interessi di questo tipo.
L’ESTINZIONE DELLE OBBLIGAZIONI
L’estinzione dell’obbligazione può avvenire nel caso di morte del debitore nelle ipotesi di
prestazioni infungibili. Come abbiamo visto, possiamo avere delle prestazioni fungibili, che
hanno ad oggetto una prestazione che può essere compiuta indifferentemente da diversi
soggetti, per i quali avere determinate qualità non è rilevante. Nel caso delle prestazioni
infungibili, invece, è richiesta una specifica qualità del soggetto debitore, il quale –
venendo meno – estinguerà automaticamente l’obbligazione.
L’estinzione dell’obbligazione avviene però anche in una serie di altri casi: compensazione;
confusione; novazione; remissione e impossibilità sopravvenuta. Queste sono le cosiddette
modalità di estinzione dell’obbligazione diverse dall’adempimento.
- Estinzione per adempimento: bisogna innanzitutto riflettere sul fatto che non esista
una mera definizione di adempimento nel Codice civile. Questo ci porta a doverla
desumere in maniera indiretta all’art.1218:
“Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento
del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
Ciò che a noi interessa, è che l’articolo individua le caratteristiche fondamentali
dell’inadempimento. Da questo la dottrina ha agevolmente rilevato come, se
l’inadempimento è la non esatta esecuzione della prestazione dovuta, di converso

88
l’adempimento non può che essere rappresentato dall’esatta esecuzione della
prestazione dovuta e – conseguentemente – dobbiamo parlare di esatto
adempimento. Questa disciplina viene confermata dalla disposizione dell’art.1181:
“Il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile,
salvo che la legge o gli usi dispongano diversamente”
Questo articolo ammette, da un certo punto di vista, la possibilità che venga rifiutato
l’adempimento parziale proprio per evidenziare come ciò che rileva, al fine
dell’estinzione dell’obbligazione, è l’esatto adempimento della prestazione dovuta.
Come abbiamo già visto, l’adempimento richiede diligenza da parte del debitore. In
particolare, si richiede – ai sensi dell’art.1176 – la diligenza del buon padre di famiglia.
Il canone di questa diligenza dev’essere poi declinato a seconda dell’attività svolta,
perché in caso di determinate operosità professionali svolte, il parametro muterà
nell’ottica di individuare il parametro corretto in riferimento alla professionalità svolta.
L’adempimento richiede poi una serie di regolamentazioni previste dal Codice civile
(art.1182 e seguenti), dove vengono disciplinati il luogo dell’adempimento [“Se il luogo
nel quale la prestazione deve essere eseguita non è determinato dalla convenzione, o
dagli usi e non può desumersi dalla natura della prestazione o da altre circostanze, si
osservano le norme che seguono.
L'obbligazione di consegnare una cosa certa e determinata deve essere adempiuta nel
luogo in cui si trovava la cosa quando l'obbligazione è sorta.
L'obbligazione avente per oggetto una somma di danaro deve essere adempiuta al
domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza. Se tale domicilio è diverso da
quello che il creditore aveva quando è sorta l'obbligazione e ciò rende più gravoso
l'adempimento, il debitore, previa dichiarazione al creditore, ha diritto di eseguire il
pagamento al proprio domicilio.
Negli altri casi l'obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al
tempo della scadenza”]
Le considerazioni in merito al destinatario dell’adempimento [art.1188: “Il
pagamento deve essere fatto al creditore o al suo rappresentante, ovvero alla persona
indicata dal creditore o autorizzata dalla legge o dal giudice a riceverlo.
Il pagamento fatto a chi non era legittimato a riceverlo libera il debitore, se il creditore
lo ratifica o se ne ha approfittato”].
Un argomento piuttosto complicato è legato al tempo dell’adempimento. Il dato
fondamentale a cui noi facciamo riferimento è contenuto all’art.1183: [“Se non è
determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, il creditore può esigerla
immediatamente. Qualora tuttavia, in virtù degli usi o per la natura della prestazione
ovvero per il modo o il luogo dell'esecuzione, sia necessario un termine, questo, in
mancanza di accordo delle parti, è stabilito dal giudice.

89
Se il termine per l'adempimento è rimesso alla volontà del debitore, spetta ugualmente
al giudice di stabilirlo secondo le circostanze; se è rimesso alla volontà del creditore, il
termine può essere fissato su istanza del debitore che intende liberarsi].
È quindi chiaro – alla luce della seconda parte dell’articolo - come si inizi ad intravedere
la disciplina piuttosto complessa in materia di termine dell’adempimento.
Quello che dev’essere chiaro è che il tempo dell’adempimento, in termini generali, può:

a. essere previsto dalle parti;


b. essere immediato, dando la possibilità al creditore di esigere immediatamente la
prestazione qualora non sia previsto un termine espressamente concordato tra le parti.
Chiaramente, qualora gli usi; la natura; il modo o il luogo dell’esecuzione richiedano la
fissazione di un termine specifico, varranno le regole peculiari che sono previste dal
Codice.
Una volta chiariti tutti i tratti fondamentali fino ad ora delineati, ci occuperemo di tutte
le problematiche che riguardano – in senso lato – la non esatta esecuzione della
prestazione dovuta; cominciando da una figura già vista in relazione agli interessi: la
mora.

90
30/03/20

Abbiamo visto, nel corso dell’ultima lezione, che esistono modi di estinzione
dell’obbligazione diversi dall’adempimento.
Il riferimento normativo sul Codice civile si trova all’art.1230 (e seguenti), in relazione ai
diversi modi di estinzione delle obbligazioni pecuniarie: compensazione; confusione;
novazione; remissione e impossibilità sopravvenuta.
- Compensazione:
Si applica soltanto a rapporti obbligatori reciproci, cioè in cui il creditore sia al contempo
debitore dello stesso soggetto in un altro rapporto. È importante però tenere a mente che
non tutti i crediti possono essere oggetto di compensazione, perché – diversamente – si
rischierebbero conseguenze particolarmente gravi. Si pensi al credito degli alimenti: cioè
un credito previsto nei casi in cui esista un soggetto che venga – tramite specifica
obbligazione – alimentato da un altro soggetto, ovvero il credito posto a sussistenza di un
soggetto. In questo caso si estinguerebbe un debito di alimenti con l’effetto, per il
soggetto, di non potersi alimentare. Normalmente quindi è possibile giungere alla
compensazione di rapporti di obbligazione reciproci, con particolare attenzione a
determinate casistiche: ad esempio il caso di obbligazioni naturali, che – come abbiamo
visto – hanno il solo effetto di soluti pretentio (che però non escludono la possibilità di
equiparare obbligazioni naturali e obbligazioni civili).
Esistono tre figure di compensazione, ognuna caratterizzata da funzionalità diverse:
1. compensazione legale: richiede che i due crediti reciproci siano omogenei (che
siano rappresentati da una somma di denaro o da una quantità di cose fungibili),
liquidi (cioè determinati) ed esigibili (cioè devono poter essere suscettibili di
richiesta). Affinché la compensazione legale operi, è necessario che una parte sia
fatta valere in giudizio; tuttavia, diventa valida – come effetto di legge - dal
momento in cui i due crediti coesistevano;
2. compensazione giudiziale: richiede dei crediti reciproci omogenei ed esigibili nelle
ipotesi di facile e pronta liquidazione, resa tale da parte del giudice attraverso
sentenza;
3. compensazione volontaria: i due crediti reciproci si estingueranno attraverso uno
specifico accordo; non ci sarà bisogno di rispettare i caratteri di omogeneità,
liquidità e esigibilità.

- Confusione:
È l’ipotesi in cui finiscono per riunirsi nella stessa persona le figure di creditore e debitore.
Ipotizziamo, per esempio, che il creditore divenga erede del debitore. In questo caso, il
soggetto si ritroverà ad essere creditore di sé stesso, con l’effetto di estinguere

91
automaticamente l’obbligazione. Chiaramente, insieme all’estinzione, verranno meno le
eventuali garanzie accessorie del credito.
- Novazione:
È il modo di estinzione attraverso il quale le parti sostituiscono al modello originario di
obbligazione un nuovo rapporto. Sostanzialmente, estinguono - per un verso - l’originaria
obbligazione, creandone una nuova. Esistono due differenti tipi di novazione:
1. Soggettiva: prevede la sostituzione del soggetto debitore e segue una serie di regole
che riguardano la modificazione soggettiva dei rapporti (di cui non ci occuperemo).
Attraverso questa novazione un soggetto estingue il rapporto obbligatorio con un
debitore, sostituendolo – tramite accordo tra le parti - con un altro.
2. Oggettiva: prevede la sostituzione dell’oggetto della prestazione con un altro, o la
sostituzione del titolo di un’obbligazione con un altro. Perché vi sia questa
novazione, è necessario che vi sia un elemento oggettivo (una modifica sostanziale
dell’oggetto del rapporto); un elemento soggettivo (la volontà dei contraenti di
modificare la prestazione originaria) e un elemento strutturale (l’intenzione comune
delle parti di realizzare l’effetto).

- Remissione: L’idea è quella di una rinuncia – da parte del creditore – ad esigere il


proprio debito. È evidente come questo atto, proprio per la sua gravità, debba
essere compiuto in modo inequivoco, per cui la volontà debba essere espressa –
anche se tacitamente – in maniera indubbia.
- Impossibilità sopravvenuta: Per considerare questa ipotesi, bisogna chiarire intanto
che questa figura riguarda le obbligazioni ma si ritroverà anche nel contesto dei
rimedi contrattuali; ove svolge un ruolo importante nell’ambito dei contratti a
prestazioni corrispettive. Il rapporto tra i due ambiti è molto rilevante, in quanto – ai
sensi dell’art.1173 – il contratto è una delle fonti delle obbligazioni, per cui i due
temi possono alle volte sovrapporsi. Il caso dell’impossibilità sopravvenuta è uno di
questi. Abbiamo visto che l’obbligazione si estingue solitamente con
l’adempimento. Tuttavia, nel riferirsi all’inadempimento, l’art.1218 asserisce che “Il
debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento
del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo (è stato determinato da
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

Dunque, l’impossibilità si realizza nell’ipotesi in cui la prestazione non possa essere


richiesta perché derivante da una causa non imputabile al creditore. In altre parole, si
realizza una situazione che non consente l’adempimento del debitore perché non tale era
considerata prevedibile e non materialmente superabile con lo sforzo esigibile del
debitore. Si ritiene in particolar modo che – perché vi sia impossibilità sopravvenuta – vi sia

92
una situazione tale per cui il debitore non possa superarla con lo sforzo diligente. Per
questo si dice che la prestazione diviene inesigibile; ovvero: non può essere chiesto al
debitore di superare un certo impedimento. Chiaramente, in questo caso, si tratta di
un’ipotesi di impossibilità definitiva; ma vi possono anche essere casi di impossibilità
temporanea, per cui la disciplina sarà inevitabilmente diversa perché l’impedimento non
ha natura irreversibile ma transitoria. In questo caso in debitore non sarà da considerare
responsabile del ritardo e l’obbligazione si estinguerà solo nell’ipotesi in cui il creditore non
abbia più interesse ad essere vincolato al rapporto obbligatorio.
L’impossibilità però può essere distinta anche in impossibilità totale e impossibilità
parziale. Possiamo infatti avere un’impossibilità ove si precluda del tutto il soddisfacimento
dell’interesse del creditore (dunque ove non sia materialmente consentito soddisfare
questo interesse); oppure possiamo avere un’ipotesi di impossibilità che riguardi solo una
parte della prestazione. A questa particolare situazione si riferisce l’art.1258:
“Se la prestazione è divenuta impossibile solo in parte, il debitore si libera dall'obbligazione
eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile.
La stessa disposizione si applica quando, essendo dovuta una cosa determinata, questa ha
subito un deterioramento, o quando residua alcunché dal perimento totale della cosa”.
È evidente come questa seconda ipotesi (dell’impossibilità parziale) non possa comportare
l’estinzione totale dell’obbligazione, ma si limiterà ad esigere l’estinzione di quella parte
che non sia diventata impossibile da soddisfare.
Questo discorso vale in generale per i modi di estinzione di un’obbligazione diversi
dall’adempimento.
L’INADEMPIMENTO
La normativa di riferimento è prevista all’art.1218 [vedi pagina precedente].
Ciò che in materia di adempimento ci ha interessato particolarmente, in modo da cercare
di riscostruire tale figura, è la definizione che viene data di “inadempimento”: cioè la non
esatta esecuzione della prestazione dovuta (art.1218).
Questo, ovviamente, comporta una serie di considerazioni: la prima – se vogliamo banale –
è che l’inadempimento potrà essere totale o parziale, ovvero inadempimento inesatto
(l’esecuzione c’è, ma non è corretta). L’ipotesi dell’inadempimento parziale può però
coinvolgere molti profili: la quantità; la qualità; il luogo; le caratteristiche con cui viene
eseguito l’adempimento; ecc.
Inoltre, se è vero che si possono avere un inadempimento totale o parziale, è anche vero
che si possono avere un inadempimento assoluto (cioè l’impossibilità di adempiere anche
in futuro) o relativo (cioè essere banalmente in ritardo, il che - alla lunga - può comportare
un inadempimento assoluto).

93
La previsione, in generale, che riguarda l’inadempimento è quella dell’art.1218, che
riguarda la responsabilità del debitore:
“Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del
danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità
della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
Bisogna fare attenzione però, perché nell’ipotesi di inadempimento assoluto il risarcimento
si sostituisce alla prestazione originariamente voluta; mentre nell’ipotesi di
inadempimento relativo, il risarcimento si aggiunge alla prestazione originaria. Dunque, il
risarcimento assume una funzione diversa a seconda delle ipotesi.
Come facilmente intuibile, se consideriamo l’art.1218 e l’art.1256 (articoli che rimandano
alla disciplina dell’impossibilità sopravvenuta e l’inadempimento), ci rendiamo conto del
fatto che in molte ipotesi il tema – più che essere l’adempimento e l’opposizione di un
certo profilo a seguito di un evento impeditivo – diventa proprio “come il debitore cerchi di
eseguire la prestazione”. Molto spesso, il debitore è considerato responsabile solo “per
colpa”, cioè nell’ipotesi in cui non riesca ad adempiere alla prestazione per colpa;
ovverosia non riesca a seguire la prestazione perché si comporta in modo non diligente.
Non è richiesto, in questo caso, semplicemente l’adempimento della prestazione; ma
l’adempimento della prestazione secondo la diligenza, la prudenza, la perizia che il
soggetto deve mettere in campo. In altri termini, l’art.1218 dev’essere coordinato – sì con
l’art.1256 - ma anche con l’art.1176:
“Nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di
famiglia.
Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la
diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata”.

Questo significa che, se nell’adempiere l’obbligazione il soggetto si mostra diligente,


prudente, competente; allora – può darsi – che non risponda del fatto di non aver colto il
risultato. Si pensi all’ipotesi dell’avvocato. Egli non è tenuto a vincere la causa, ma al
contrario è tenuto a prestare un’attività di tutela all’assistito, ricorrendo ai mezzi necessari
affinché questo avvenga; il che non implica ottenere la vittoria del caso. Dunque, lo stesso
avvocato, sarà responsabile di inadempimento nel caso in cui non adempia al suo ufficio il
modo diligente, prudente e perito.
Il parametro della diligenza richiesta, ovviamente, varia a seconda dell’attività che di volta
in volta viene richiesta.
In altre parole, solitamente, bisogna far presente come possano esistere ipotesi di
responsabilità del debitore per inadempimento (ai sensi dell’art.1218), come esistono casi
in cui si risponde di inadempimento per colpa (cioè, oltre ad esserci l’inadempimento il
soggetto è tenuto al risarcimento del danno solo qualora si dimostri che la condotta

94
adottata durante il rapporto sia negligente, imprudente o imperita) o casi in cui sarà
sufficiente non eseguire la prestazione dovuta a causa di impossibilità sopravvenuta.
Come espresso dall’art.1218, la conseguenza dell’inadempimento è il risarcimento del
danno, di cui conosciamo essenzialmente due voci ai sensi dell’art.1223: “Il risarcimento
del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal
creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e
diretta”). Quindi sono risarcibili solo i danni che sono conseguenza immediata e diretta
dell’inadempimento:
1. Danno emergente (perdita subita dal creditore)
2. Lucro cessante (o mancato guadagno)
Il danno può essere patrimoniale e non patrimoniale (in quest’ultimo caso, le ipotesi di
risarcimento sono molto inferiori, tali per cui sia necessaria una lesione di un diritto
inviolabile di una persona).
Inoltre, all’art.1225 si restringe ulteriormente il campo d’azione del risarcimento: “Se
l'inadempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore, il risarcimento è limitato al
danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l'obbligazione”, per cui si limita il
risarcimento solo all’ipotesi di danno prevedibile, a meno che il soggetto sia inadempiente
con dolo (cioè volontariamente inadempiente).
Il risarcimento può essere ulteriormente rivisto alla luce di altri due articoli:
- Art.1226: “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è
liquidato dal giudice con valutazione equitativa”. In altre parole, se un soggetto
riesce a dimostrare l’esistenza di un danno senza riuscire a valutarne l’ammontare; il
giudice può valutarlo in via equitativa;
- Art.1227: “se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il
risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze
che ne sono derivate.
Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare
usando l'ordinaria diligenza”. In altri termini, dal momento che abbiamo visto che il
creditore deve cooperare con il debitore nell’adempimento della prestazione;
qualora egli concorra a cagionare il danno con il suo comportamento, il risarcimento
può essere ridotto o addirittura non dovuto se – all’esito della condotta del
creditore – si sarebbe potuto evitare totalmente il danno.

Esistono poi delle regole specifiche con riferimento all’inadempimento delle obbligazioni
pecuniarie, individuate in particolar modo all’art.1224:
“Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno
della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il
creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti

95
interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa
misura.
Al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore spetta l'ulteriore risarcimento.
Questo non è dovuto se è stata convenutala misura degli interessi moratori”.

In questo caso, solitamente, scattano gli interessi moratori e – insieme ad essi - se si


ritiene di aver subito un danno maggiore – questo andrà provato ed allegato (tramite
apposita domanda).

LA MORA
Possiamo avere:
a. una mora del debitore (mora debendi): è sostanzialmente un’ipotesi di ritardo
qualificato nell’adempimento dell’obbligazione. Affinché scatti questa mora è
necessario che il debitore, oltre ad essere in ritardo nell’adempimento
dell’obbligazione - sia anche imputabile del ritardo stesso. È inoltre necessaria
l’intimazione per iscritto da parte del creditore: cioè un atto attraverso il quale il
soggetto creditore – per iscritto – faccia presente il ritardo al debitore. Questa viene
definita anche mora ex persona;
possiamo avere anche un’altra figura di mora debendi, ovvero la mora ex re (o
automatica): l’ipotesi in cui non sia richiesta l’intimazione. È sufficiente che ci sia un
ritardo e che questo sia imputabile. In questi casi, il soggetto è automaticamente
considerato costituito in mora.
Ci sono poi casi specifici, indicati all’art.1219: “Il debitore è costituito in mora
mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto
Non è necessaria la costituzione in mora:
1) quando il debito deriva da fatto illecito;
2) quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non voler eseguire l'obbligazione;
3) quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio
del creditore. Se il termine scade dopo la morte del debitore, gli eredi non sono
costituiti in mora che mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto, e decorsi
otto giorni dall'intimazione o dalla richiesta”.
Inoltre, si hanno una serie di altri casi in cui è il legislatore speciale ad avvertirci
della messa in mora automatica: è l’ipotesi di un’obbligazione che nasce a favore del
sub-fornitore rispetto ad un committente nei contratti di sub-fornitura o l’ipotesi di
soggetto che deve pagare nell’ambito di transazioni commerciali.
Bisogna anche dire, però, che l’intimazione (cioè l’atto con cui per iscritto si
costituisce in mora) comporta l’interruzione del termine di prescrizione.

96
L’effetto della costituzione in mora è il pagamento degli interessi moratori; o la
perpetuatio obligationis, cioè il fatto che – se la cosa perisce in capo al debitore
costituito in mora – il debitore non potrà ritenersi liberato. In altri termini
l’impossibilità non vale, perché si ritiene che se il soggetto avesse adempiuto la
prestazione in tempo l’impossibilità non avrebbe estinto l’obbligazione.
Conseguentemente, l’unico modo per liberarsi, è dimostrare che l’oggetto della
prestazione avrebbe perito ugualmente presso il creditore.
Questi effetti vanno però distinti da quelli del semplice ritardo, per cui è previsto un
risarcimento del danno che va ad aggiungersi alla prestazione originaria; piuttosto
che il pagamento di un’eventuale clausola penale.

b. una mora del creditore (mora credendi): il problema è molto diverso, poiché è il
creditore a non aver rispettato il dovere di cooperazione nell’adempimento
dell’obbligazione. Dunque, in questi casi non possono scattare gli interessi moratori a
carico del debitore, il quale potrà chiedere il risarcimento dei danni per la mancata
cooperazione. Inoltre, dal punto di vista degli effetti del passaggio del rischio, questo
è posto – e tale rimane – in capo al creditore.
Pertanto, questa mora – disciplinata all’art.1206 (e seguenti) – è un’ipotesi di
violazione dell’obbligo di cooperare. Non si tratta, ovviamente, di un’ipotesi
frequente, ma può comunque verificarsi in determinate circostanze – tali per cui il
debitore può avere interesse a costituire in mora il creditore, affermando di essere
effettivamente pronto all’adempimento.
Vi sono due modi per costituire la mora del creditore:
1. L’offerta solenne: viene fatta da un pubblico ufficiale (ad esempio, un notaio) e
può essere realizzata, a sua volta, in due modi diversi:
a. Offerta reale nell’ipotesi in cui l’obbligazione sia rappresentata dalla dazione
di denaro o di titoli di credito (o altre cose da consegnare al domicilio del
creditore);
b. Offerta per intimazione: si notifica, attraverso un atto di intimazione, la
costituzione in mora.
2. L’offerta secondo gli usi: viene realizzata in base alla prassi (a seconda del luogo
in cui la prestazione deve adempiersi e del tipo di obbligazione), alla luce di una
modalità informale legata alle caratteristiche dell’affare.

Con la costituzione in mora del creditore non si ha l’estinzione dell’obbligazione, la


quale si può avere solamente con il deposito di beni mobili; con l’eventuale
consegna ad un sequestratario di beni immobili (nominato preventivamente da un
tribunale) e l’accettazione di ciò tramite una sentenza con cui si accerta la consegna

97
dell’immobile. La regola generale è che – a seguito dell’offerta (sia essa solenne o
secondo gli usi) – non si estingue l’obbligazione, ma si limita a costituire in mora il
creditore.
Gli effetti quindi può essere solo che il rischio del perimento della cosa resti in capo
al creditore e sarà possibile prevedere un risarcimento del danno a vantaggio del
debitore.
Il creditore può essere messo in mora solo attraverso le modalità di offerte viste
precedentemente e in nessun altro modo.

98
31/03/20
IL CONTRATTO
Bisogna dire innanzitutto che il contratto è disciplinato nel Codice civile a partire
dall’art.1321 (e seguenti), nei quali si definisce cosa sia un contratto, le seguenti
regolamentazioni previste dai contratti in generale; per poi passare alle discipline
specifiche di ciascun modello contrattuale.

Art.1321: “Il contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra
loro un rapporto giuridico patrimoniale”

Il contratto è quindi un accordo; l’incontro della volontà di due o più parti (intesi come
soggetti), caratterizzato da una natura patrimoniale. È importante capire come il contratto
rappresenti uno strumento fondamentale, tramite cui i soggetti definiscono il loro assetto
di interessi e attraverso il quale si realizzano degli effetti giuridici necessari nella
quotidianità.
Come detto precedentemente, il contratto è espressione di un accordo che evidenzia la
centralità dell’autonomia tra le parti, le quali producono gli effetti contrattuali. Com’è
ovvio, questa autonomia è però limitata da tutta una serie di elementi posti
dall’ordinamento giuridico.
Il fatto che il contratto rappresenti l’espressione dell’autonomia e della volontà delle parti,
non lo rende di per sé diverso dal concetto di negozio giuridico, il quale può comportare
diversi effetti che però non sono in alcun modo attinenti alla stipulazione di un contratto.
Il testamento, ad esempio, è l’effetto della volontà di più parti e produce effetti giuridici;
ma non è un contratto. Per individuare la figura legata al ruolo della volontà delle parti si fa
riferimento all’istituto del negozio giuridico: una figura prevalentemente dottrinale, che
non è stata pienamente recepita dal Codice civile, il quale non vi attribuisce una parte
apposita. Contrariamente, lo stesso Codice tende a valorizzare molto – nell’ambito degli
atti di espressione della volontà dei privati – il ruolo del contratto; sottolineando come
esso rappresenti uno tra i negozi più rilevanti.

Art.1324: “Salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si


osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto
patrimoniale”.
Questa norma è espressione della centralità sistematica che viene assunta dal contratto.
Ciò significa che queste regole sono di ampia portata, pensate in primo luogo per
disciplinare i contratti; ma che possono trovare applicazione ad una serie di situazioni
specifiche che non trovano discipline altrettanto specifiche.

99
Per quanto riguarda alla figura centrale del contratto, non possiamo che fare riferimento
all’art.1322, che disciplina specificamente l’autonomia contrattuale:
“Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti
dalla legge e dalle norme corporative.
Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una
disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l'ordinamento giuridico”

Al primo comma si prevede come l’espressione di autonomia privata e della volontà delle
parti possa determinare il contenuto dei contratti.
Il secondo comma è legato fondamentalmente al fatto che le parti possono scegliere – per
compiere la loro operazione economica – fra i diversi tipi contrattuali (già previsti dalla
legge) oppure possono avvalersi – se un modello non è stato espressamente previsto dalla
legge – di modelli atipici, cioè contratti che sono espressione dell’autonomia privata che
delineano operazioni economiche diverse, ancora non conosciute dalla legge; ma che
possono essere oggetto di diffusione nella prassi negoziale.
Questi contratti atipici possono essere del tutto ignoti alla legge, ma noti nella prassi
sociale. Dunque, il circuito che si prevede è quello di delineare un’operazione economica e
- se tale operazione risulta rispondere ad interessi meritevoli di tutela – stipulare un
contratto di forma atipica, il quale diverrà socialmente tipico (cioè diffuso nella società,
pur non espressamente disciplinato dal legislatore). A seguito della diffusione nella società,
si prevedono generalmente dei modelli di contratti socialmente tipici. A questo punto il
passaggio ultimo è, che molto spesso, vengono tipicizzati dal legislatore e disciplinati
dall’ordinamento. È l’ipotesi di quanto accaduto con riferimento a contratti come, ad
esempio, l’affiliazione commerciale.
Dunque, abbiamo visto come l’autonomia dei privati agisca su molteplici livelli: il primo è
quello della determinazione del contenuto; il livello seguente è quello della scelta
dell’eventuale tipo contrattuale; altro livello è quello della possibilità di stipulare contratti
atipici, i quali possono divenire – con il passare del tempo – socialmente tipici e,
conseguentemente, tipici a tutti gli effetti grazie all’azione normativa del legislatore.
Gli elementi essenziali del contratto sono previsti all’art.1325:
“I requisiti del contratto sono:
1) l'accordo delle parti;
2) la causa;
3) l'oggetto;
4) la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità”
Questi requisiti sono ritenuti essenziali perché l’assenza di uno di essi comporta la nullità
del contratto (e quindi non produrrà effetti).

100
Dobbiamo però iniziare ad identificare - con alcune formule - alcune indicazioni e diversi
possibili contratti, proprio per consentirci, nelle prossime lezioni, di muoverci nell'ambito
di concetti più complicati.
Dobbiamo quindi distinguere:
- contratti tipici e contratti atipici a seconda che il contratto sia disciplinato
espressamente dal legislatore o meno;
- contratti tra due parti o con più parti (plurilaterali);
- contratti con prestazioni corrispettive e contratti con obbligazioni a carico di una
parte sola;
- contratti a titolo oneroso (il sacrificio venga fatto da entrambe le parti) e contratti a
titolo gratuito (sacrificio fatto soltanto da un soggetto a titolo gratuito);
- contatti di scambio (contratti in cui ciascuna parte da all’altra qualcosa, ognuna
delle quali ricava un vantaggio) e contratti associativi (attraverso il quale si
costituisce un’associazione, diretta ad uno scopo comune);
- contratti commutativi (contratti in cui le prestazioni dovute dalle parti sono certe)
contratti aleatori (vi è incertezza dei singoli sacrifici);
- contratti di esecuzione istantanea (la prestazione è concentrata in un dato
momento. Possono essere, a loro volta, di esecuzione immediata o esecuzione
differita) e contratti di durata (la prestazione è continua nel tempo o – comunque –
si ripete);
- contratti a forma libera (contratti che non prevedono una modalità di
manifestazione della volontà precisa) e contratti a forma vincolata (la legge
prevede la modalità di manifestazione della volontà);
- contratti consensuali (si concludono con il semplice consenso delle parti) e contratti
reali (oltre all’accordo tra le parti necessitano della consegna del bene).

A prescindere dalle distinzioni viste finora, si deve tenere a mente che il contratto è l’unico
caso in cui si dice che il esso si conclude (intendendo la parte iniziale) con il conseguimento
dell’accordo. Ovvero: nel momento in cui si raggiunge un accordo, il contratto risulta
perfezionato.

Non vanno confusi con l’ultima distinzione vista i contratti con effetti reali e contratti con
effetti obbligatori, perché essi non si perfezionano nel momento in cui si conclude il
contratto, ma riguardano gli effetti: contratti che hanno come effetto la il trasferimento,
l’acquisizione o la distinzione di un diritto reale e contratti che hanno l’effetto di far sorgere
obbligazioni.
GLI ELEMENTI FONDAMENTALI DEL CONTRATTO
 L’oggetto

101
Le norme che presentono la disciplina del contratto sono previste all’art1246:
“L'oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile”

Da una prima analisi desumiamo subito che il Codice non chiarisca cosa sia effettivamente
l’oggetto del contratto, dunque siamo noi a doverlo comprendere. La dottrina largamente
maggioritaria di oggi, ritiene che l’oggetto del contratto sia la prestazione dovuta dalle
parti (secondo un’altra ricostruzione minoritaria l’oggetto coincideva con il bene dovuto
tra le parti).
Ciò che invece il codice dice, è che l’oggetto debba essere:
- Possibile, nel senso di materialmente suscettibile all’esecuzione. Si faccia attenzione
però – nell’ambito della possibilità negata (e quindi di impossibilità) – alla
distinzione tra impossibilità originaria (che comporta la nullità del contratto in
quanto l’oggetto non sia possibile) e impossibilità sopravvenuta (richiamata nelle
lezioni precedenti, la quale può portare all’estinzione dell’obbligazione);
- Lecito cioè deve rispettare le norme imperative, l’ordine pubblico e il buon costume.
In altri termini, deve rispettare: quelle norme imperative che non possono essere
derogate dalle parti in quanto espressione di principi ritenuti non negoziabili; ciò
che viene previsto nell’ottica dello Stato e ciò che viene previsto dalla morale
nell’ottica del buon costume;
- Determinato o determinabile: è necessario che le parti definiscano l’oggetto del
contratto, o comunque che – se anche non espressamente definito – questa
prestazione sia determinabile nel corso dello svolgimento del contratto. Con
riferimento a questo profilo, si ritiene – ad esempio - che la prestazione di cose
future sia ammessa, a meno che non vi siano limiti specifici. L’oggetto dev’essere
determinato dalle parti come espressione della loro volontà autonoma; tuttavia,
non si esclude la possibilità di delegare la determinazione dell’oggetto ad un
soggetto terzo, definito arbitratore (la cui capacità determinativa viene definita
arbitraggio). Bisogna fare attenzione a non confondere questa figura con quella
dell’arbitro che compie un arbitrato: mentre il primo è il soggetto terzo che
determina la prestazione in un contratto, il secondo è una sorta di giudice privato
che ha il compito di risolvere una controversia nell’ambito del contratto (attraverso
un lodo arbitrale). L’arbitratore compie un’attività che può essere demandata al
terzo in due modi:
a. Si può chiedere al terzo di procedere con equo apprezzamento;
b. Si può chiedere al terzo di determinare l’oggetto alla luce del suo mero arbitrio.
È chiaro che le parti potranno impugnare (cioè rivolgersi al giudice lamentandosi
della determinazione dell’oggetto) in modo diverso: nel primo caso potranno

102
lamentare la determinazione iniqua o erronea; nel secondo caso – invece –
potranno a lamentarsi solo in caso di comprovata malafede del terzo.
 La causa
Anche in questo caso ci si pone il problema della definizione, perché ancora una volta
all’art.1342 (e seguenti) non si disciplina la visione della nozione di causa. Pertanto, la
dottrina si è arrovellata negli anni, cercando di individuare diverse definizioni. Oggi, prevale
la tesi per cui la causa di un contratto debba essere considerata in funzione del contratto,
ma con riferimento al caso concreto. Ovviamente, la valutazione della causa è più
agevolata nei contratti tipici, proprio perché la funzione economica-sociale viene prevista
dallo stesso legislatore che in qualche modo la regola; diversamente, per quanto riguarda
gli interessi meritevoli di ordinamento, la valutazione è molto ampia ed è legata all’ipotesi
di un approccio – più o meno – liberale. In questa logica, nell’ambito dei contratti in
generale, possiamo avere una disciplina piuttosto articolata di contratti tipici e contratti
atipici.
È importante distinguere tra difetto sopravvenuto e momento originario dell’elemento
essenziale, cioè la mancanza di causa (la quale – nel secondo caso - comporta la nullità del
contratto). Il tema diviene più complesso circa ciò che accade nell’ipotesi di difetto
sopravvenuto, cioè di possibili venir meno di funzioni originariamente previste per un
determinato contratto, che si rileva non eseguito. In questi casi, il difetto funzionale
(sopravvenuto) porta a conseguenze diverse: non la nullità, ma lo scioglimento del
contratto.
La causa deve avere alcune caratteristiche, previste dall’art.1343:
“La causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon
costume”
In cui ritornano i limiti specificati nell’ambito dell’oggetto.
Ciò significa che, in realtà, si ritiene di poter distinguere tra ipotesi di contratto illegale
(cioè quando un contratto viola norme imperative) e contratto immorale (cioè quando
viola limiti di buon costume).
Questa distinzione potrebbe avere una conseguenza dal punto di vista dell’eventuale
restituzione: nell’ipotesi di contratto immorale unilaterale (in cui solo un soggetto è
oggetto di immoralità), è ammessa la restituzione (ad esempio, i casi di sequestro in cui
l’immoralità deriva dal solo soggetto sequestratore); nel caso di immoralità bilaterale (ad
esempio, corruzione) i soggetti non avranno la possibilità di richiedere la restituzione della
cifra, perché ambo le parti sono ritenute immorali. In questi casi prevale la situazione di
possesso (cioè la situazione di fatto). Nel contratto illegale, invece, è sempre prevista la
restituzione.

103
Un’altra distinzione è data dal fatto che il contratto illecito, solitamente, non è oggetto di
conversione (cioè il modo con cui si cercano di salvare degli effetti del contratto nullo): se
la nullità deriva da illiceità della causa o dell’oggetto la conversione è esclusa.
Rispetto alla causa, altra fonte di distinzione sono i motivi: le ragioni che portano ciascun
contraente a concludere un determinato contratto, dunque ragioni strettamente personali.
L’assenza di questi motivi non è considerata giuridicamente rilevante; tuttavia, un motivo
può essere reso rilevante in almeno due ipotesi fondamentali:
1. Rilevanza data da parte dei contraenti: se i contraenti subordinano gli effetti del
contratto ad un motivo dedotto in condizione;
2. Rilevanza prevista dall’ordinamento: previsto dall’art.1345: “Il contratto è illecito
quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo
illecito comune ad entrambe”. Dunque, è un’ipotesi di motivo illecito comune ad
entrambe le parti, il quale è ragione esclusiva del consenso tra le due.
Per essere rilevante, il motivo non richiede di essere comune nelle ipotesi di donazioni e
testamento. In questi casi è sufficiente che il motivo sia illecito e causa specifica del
consenso.
Un ultimo riferimento nell’ambito della causa va fatto al contratto in frode alla legge,
previsto all’art.1344:
“Si reputa altresì illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere
l'applicazione di una norma imperativa”
Attraverso questa disciplina si impedisce il contratto illecito, ma si rende anche illecita la
causa del contratto che rappresenta uno strumento per eludere l’applicazione di una
norma imperativa. L’ordinamento dunque tutela il rischio di un superamento indiretto di
norme imperative.
 La forma
Come previsto dall’art.1325, la forma è essenziale nel contratto solo nel caso in cui sia
richiesta dalla legge a pena di nullità. La forma è la modalità con cui le parti manifestano il
loro consenso e si accordano rispetto al contenuto del contratto. Questa manifestazione di
volontà può avvenire secondo diverse modalità. La regola generale è quella della libertà
delle forme, secondo cui ciascuno può perfezionare l’accordo secondo le modalità
preferite. Tuttavia, vi sono ipotesi in cui l’ordinamento impone delle forme solenni e
specifiche. In questi casi, questa forma può essere richiesta per due ragioni:
1. A pena di nullità dell’atto (richiesta ad substantia actus): in assenza della forma
richiesta dall’ordinamento il contratto è nullo;
2. Per ragioni di prova del contratto (ad probationem tantum): modalità richiesta per
provare un contratto, ma il contratto in sé è perfettamente valido. Il rischio è – nel
caso di mancato rispetto della forma – di avere problemi rispetto alla prova stessa.
La regola generale, comunque, rimane la libera scelta delle forme.

104
Bisogna fare attenzione però, perché di recente la forma ha assunto un ruolo rilevante
perché assicura la possibilità – anche per il soggetto debole del rapporto contrattuale – di
una maggiore riflessione sulle modalità del contratto, una maggiore trasparenza sul
contenuto e, di conseguenza, una maggiore tutela complessiva.
Oltre agli elementi finora analizzati, come abbiamo accennato, esistono anche degli
elementi accidentali, cioè elementi la cui presenza dà rilevanza a determinati motivi.
Questi elementi sono fondamentalmente tre:
1. Condizione
2. Termine
3. Modo
La condizione: è un avvenimento futuro e incerto dal quale dipende la produzione o
l’eliminazione degli effetti del contratto. Possiamo, pertanto, avere una:
condizione sospensiva: dal verificarsi dell’avvenimento futuro dipende la
produzione degli effetti del contratto;
condizione risolutiva: da essa dipende l’eliminazione degli effetti del contratto.

Attenzione però, perché gli effetti della condizione retroagiscono: cioè tendono a valere
dal momento in cui viene stipulato il contratto.
Ci sono dei negozi e degli atti che non sopportano l’apposizione di termini e condizioni: si
tratta degli actus legittimi.
Le condizioni possono ancora essere distinte tra condizioni casuali, condizioni potestative e
condizioni miste a seconda che il suo avverarsi dipenda dal caso, dalla volontà o da un mix
delle due cose.
Dobbiamo ricordare però che - mentre quelle appena elencate sono tutte condizioni
possibili - viene preclusa la condizione meramente potestativa, cioè quella condizione il
cui verificarsi non dipende solamente dalla volontà di un soggetto, ma anche dal suo
capriccio.
La condizione può essere rilevante anche se illecita (contraria alle regole di buon costume)
o impossibile (l’evento è semplicemente irrealizzabile). In caso di condizione illecita, nei
confronti dei negozi inter vivos, la condizione comporta la nullità; nei negozi mortis causa
la condizione è considerata non apposta, perché si ritiene voglia dare maggior peso alla
volontà di chi non può più esprimerla (favor testamenti). Il discorso è similare per la
condizione impossibile: nei negozi mortis causa si ritiene non apposta; nei negozi inter
vivos se la condizione è sospensiva sarà da considerarsi nulla, se la condizione è risolutiva si
considera non apposta.
La condizione ha due fasi: una fase di pendenza (ovvero l’incertezza per cui non si sa se si
verificherà o meno l’evento) e una fase di avveramento (cioè la condizione si avvera
perché si verifica l’evento). Sugli effetti – come già detto – retroagiscono: per cui in caso di

105
condizione sospensiva gli effetti si produrranno dal momento in cui verrà stipulato il
contratto; inversamente – nella condizione risolutiva – vengono meno gli effetti come se
non si fossero mai verificati.
Il termine, invece, è un evento futuro ma certo. Possiamo avere anche qui una serie di
classificazioni:
- Termine finale o iniziale: si ha un evento a partire dal quale o fino al quale si
verificano certi effetti;
- Termine determinato o indeterminato;
In questo ambito non si ha più la distinzione tra pendenza e avveramento, ma tra
pendenza e scadenza, poiché si tratta – in questo caso – semplicemente di far decorrere il
termine. Nel caso del termine però – a differenza della condizione – gli effetti si verificano
ma non sono retroattivi
Il modo è .n onere posto nell’ambito di una liberalità allo scopo di limitarla. Si può avere un
modo di dare, un modo di fare e un modo di non fare. Chiaramente si tratta di ipotesi
significative che possono rilevare anche nei casi di modi impossibili o illeciti, perché in
questi casi il modo – sia inter vivos che mortis causa – viene considerato come non
apposto; a meno che non sia il modo stesso ad essere rilevante alla liberalità.

106
01/04/20

L’accordo

Al pari di oggetto, causa e forma, l’accordo rappresenta un requisito essenziale del


contratto, da cui deriva – in caso di assenza – l’effetto di nullità.

Quando si ha unità di spazio e tempo nella conclusione del contratto non si incontrano
problematiche particolari, perché – nel caso dei contratti consensuali – il momento in cui si
incontra la volontà delle parti è molto semplice. La cosa si complica nelle ipotesi in cui
l’unità di contesto, luogo e tempo non sussiste.
Solitamente, si ritiene che il contratto sia perfezionato quando proposta e accettazione si
fondono per dare vita ad un’unica volontà contrattuale. Bisogna però capire quando questi
due fattori si incontrano effettivamente: il Codice civile prevede uno schema generale e
due schemi speciali di conclusione del contratto.
La regola generale di conclusione del contratto è prevista dall’art.1326:
Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza
dell'accettazione dell'altra parte.
“L'accettazione deve giungere al proponente nel termine da lui stabilito o in quello
ordinariamente necessario secondo la natura dell'affare o secondo gli usi.
Il proponente può ritenere efficace l'accettazione tardiva, purché ne dia immediatamente
avviso all'altra parte.
Qualora il proponente richieda per l'accettazione una forma determinata, l'accettazione
non ha effetto se è data in forma diversa.
Un'accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta”

La regola fondamentale contenuta al comma 1 presuppone un’opzione chiara del


legislatore per il principio di cognizione: si ritiene che l’accettazione sia un atto che segue
questo principio. Dunque, si ritiene concluso il contratto quando l’accettazione venga a
conoscenza del soggetto che ha fatto la proposta. Ciò che rileva – quindi - è quando il
destinatario (in questo caso il proponente) venga a conoscenza dell’accettazione. L’articolo
però non si limita a prevedere questo, ma una serie di altre regole che assicurino che
l’incontro tra proposta e accettazione sia valido ed efficace. Prevede quindi che
l’accettazione si avveri entro i termini stabiliti dal proponente o – in mancanza di questa
scadenza – secondo quanto previsto dalla natura degli affari o degli usi. Ancora,
l’accettazione dev’essere conforme alla proposta; in caso contrario quest’ultima varrà
come nuova “proposta”. Infine, la forma dev’essere quella prevista e richiesta dal
proponente.

107
Tuttavia, lo schema tradizionale di conclusione del contratto non si ferma qui: si pone il
problema di quando il soggetto venga a conoscenza dell’avvenuta proposta. A questo
proposito, all’art.1335, il Codice individua la presunzione di conoscenza:
“La proposta, l'accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una
determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all'indirizzo del
destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di
averne notizia”
In altri termini, si prevede il momento in cui il soggetto si presume a conoscenza
dell’avvenuta proposta o accettazione. Chiaramente si tratta di una presunzione, dunque è
possibile verificare il contrario. In questo caso, il proponente dovrà provare di essere stato
senza sua colpa nell’impossibilità di averne notizia. La regola generale, comunque, è quella
dell’art.1326 e 1335.

Come già accennato, questo non è l’unico schema valido nell’ambito del perfezionamento
del contratto. Possiamo conoscere altre due modalità:
- Proposta e inizio dell’esecuzione: contratti che non prevedono espressamente una
formale accettazione. In questi casi, a seguito della proposta può essere seguire
l’esecuzione di un ordine ricevuto dal proponente. Questa figura è disciplinata
all’art.1327: “Qualora, su richiesta del proponente o per la natura dell'affare o
secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il
contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l'esecuzione.
L'accettante deve dare prontamente avviso all'altra parte della iniziata esecuzione
e, in mancanza, è tenuto al risarcimento del danno”. In altre parole, il contratto si
conclude nel tempo e nel luogo in cui si svolge l’esecuzione. Lo stesso articolo, al
comma 2, prevede una specificazione: se il contratto si può concludere con
proposta e inizio dell’esecuzione, il proponente rischierebbe di non essere a
conoscenza di aver concluso un contratto e pertanto potrebbe muoversi nell’ottica
di concluderne altri; dunque si richiede che – ammesso sia un’ipotesi disciplinata
dall’art.1327 – sarà necessario che l’accettante dia prontamente avviso
dell’esecuzione. Se ciò non accade sarà dovuto, da parte del soggetto accettante, un
risarcimento del danno;
- Proposta e mancato rifiuto: disciplinata all’art.1333, si applica solo in caso di
obbligazioni a carico del proponente: “La proposta diretta a concludere un contratto
da cui derivino obbligazioni solo per il proponente è irrevocabile appena giunge a
conoscenza della parte alla quale è destinata.
Il destinatario può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell'affare
o dagli usi. In mancanza di tale rifiuto il contratto è concluso”. In queste ipotesi, per
concludere il contratto è possibile che il mancato rifiuto espresso dalla controparte,

108
vincoli le parti al contratto. Viceversa, un rifiuto o un qualunque atto volto a chiarire
la contrarietà dell’accettante sarà sufficiente ad evitare la conclusione del contratto.
Questa modalità è assicurata solo alla luce del fatto che il contratto in questione
preveda obbligazioni a carico del solo proponente, quindi è richiesta una minore
partecipazione ad esprimere la propria volontà da parte dell’accettante.

Si può comunque prevedere la possibilità che le due parti possano revocare l’effetto
dell’atto di proposta e accettazione. La disciplina della revoca è prevista all’art.1328: “La
proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso. Tuttavia, se l'accettante
ne ha intrapreso in buona fede l'esecuzione prima di avere notizia della revoca, il
proponente è tenuto a indennizzarlo delle spese e delle perdite subite per l'iniziata
esecuzione del contratto.
L'accettazione può essere revocata, purché la revoca giunga a conoscenza del proponente
prima dell'accettazione”.
Ai sensi della prima parte dell’articolo, sembrerebbe che – se il contratto è concluso – sarà
sufficiente mandare all’indirizzo dell’accettante la revoca della proposta prima di aver
avuto contezza dell’avvenuta accettazione. In altre parole, basterà che la revoca
dell’accettazione giunga al proponente prima dell’accettazione stessa. In entrambi i casi, il
momento decisivo è quello in cui il contratto viene concluso. Il che significa che – da parte
del proponente – la proposta potrà essere revocata fino a quando sarà in grado di spedirla
prima di venire a conoscenza prima dell’avvenuta accettazione; per l’accettante invece, la
revoca varrà nel momento in cui questa giungerà al proponente prima dell’accettazione
stessa.

FIGURE DELLA FASE INIZIALE DEL CONTRATTO

 Proposta irrevocabile: è una proposta che non è suscettibile di revoca. È disciplinata


all’art.1329: “Se il proponente si è obbligato a mantenere ferma la proposta per un
certo tempo, la revoca è senza effetto.
Nell'ipotesi prevista dal comma precedente, la morte o la sopravvenuta incapacità
del proponente non toglie efficacia alla proposta, salvo che la natura dell'affare o
altre circostanze escludano tale efficacia”
Nel caso di proposta irrevocabile, l’effetto è il fatto che l’eventuale revoca sia
inefficace se la proposta è dichiarata irrevocabile, ovvero nell’eventualità in cui il
proponente si sia obbligato a mantenere ferma la proposta per un certo tempo. Vi
sono effettivamente casi in cui un proponente si mostri propenso a rendere la sua
richiesta irrevocabile: si tratta dei casi in cui il soggetto voglia mostrarsi

109
particolarmente interessato ad un affare e voglia dare la massima serenità
decisionale all’accettante. Chiaramente, il problema si pone con riferimento ad una
serie di casi:
1. Tema legato al vincolo delle parti per un tempo relativo: un soggetto può
vincolare la controparte, obbligandola a bloccare una proposta senza consentire
alcuna forma di revoca solo per un tempo stabilito: per cui l’eventuale proposta
irrevocabile senza previsione di un termine specifico, vale come proposta
semplice;
2. Temi legati all’ipotesi di morte o incapacità del proponente : disciplinato al
comma 2 dell’art.1329, si riferisce ai casi in cui la proposta irrevocabile ha le
caratteristiche per essere valida, per cui questa varrà anche nei casi estremi di
morte del proponente o incapacità dello stesso. Ovviamente, la proposta resta
valida in questa logica a meno che il contratto di per sé non riguardi profili che
escludono l’efficacia della proposta stessa.

 Offerta al pubblico: disciplinata all’art.1336, è un particolare tipo di proposta


indirizzata – anziché ad uno o più determinati destinatari – a dei soggetti
indeterminati. Questa ipotesi prevede anche una revoca particolare, che dev’essere
fatta nelle stesse forme con cui è stata fatta l’offerta al pubblico.

 Contratto aperto all’adesione: ipotesi di contratti (plurisoggettivi) in cui l’altro


soggetto si limita ad accettare tramite l’adesione a contratti che hanno scopi
prestabiliti. La figura è disciplinata all’art.1332: “Se ad un contratto possono aderire
altre parti e non sono determinate le modalità dell'adesione, questa deve essere
diretta all'organo che sia stato costituito per l'attuazione del contratto o, in
mancanza di esso, a tutti i contraenti originari”.

La responsabilità precontrattuale

Si ritiene che tutti questi incontri di proposte e accettazioni, prima che queste si incontrino,
si prestino ad una fase precedente – relativamente lunga - caratterizzata dalle trattative.
L’estesa durata di queste trattive può costringere le parti ad una fase precontrattuale
piuttosto prolungata, che trova disciplina agli art.1337/1338 con riferimento a due
fattispecie della responsabilità contrattuale:

110
“Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono
comportarsi secondo buona fede”: una formula generale che dottrina e giurisprudenza
hanno cercato di comprendere;

“La parte che, conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa di invalidità del
contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa
risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto”: delinea una
fattispecie già di per sé chiaramente individuata e specifica, laddove sostiene che – in
un’ipotesi di esistenza di una causa di invalidità del contratto (sia di annullabilità che di
invalidità) – l’altra parte deve informare la controparte. La mancata informazione il
contratto comporterà una responsabilità precontrattuale.

La clausola generale espressa all’art.1337 è la fattispecie dell’abbandono ingiustificato


delle trattative: si ritiene che violi le regole generali di buonafede il fatto che il soggetto
avviatore del contratto, ad un certo punto, interrompa le trattative e abbandoni il
contratto. Anche in questo caso, secondo le normative generali, si prevede una
responsabilità precontrattuale: il soggetto sarà quindi tenuto al risarcimento del danno.

Nel corso degli ultimi anni a queste fattispecie generali si è affiancata un’ulteriore
possibilità, legata all’ipotesi in cui il contrente fosse legato ad obblighi di informazione ma -
a seguito della violazione di tali obblighi – si concludono contratti validi. Cioè: la mancata
comunicazione di informazioni non comporta – come nell’ipotesi precedente – un
risarcimento del danno; il contratto che si conclude sarà perfettamente valido, ma molto
sconveniente.

Dobbiamo dire, però, che la responsabilità contrattuale ci pone una serie di ulteriori
interrogativi non indifferenti:
qual è la natura della responsabilità contrattuale? Come si quantifica il risarcimento del
danno?
Natura della responsabilità contrattuale

A proposito di questo tema, dottrina e giurisprudenza hanno a lungo dibattuto in cerca di


argomentazioni. La visione tutt’oggi prevalente in giurisprudenza sembra essere quella
della responsabilità precontrattuale avente natura extra-contrattuale. Chi sostiene che la
responsabilità precontrattuale derivi da inadempimento, suppone implicitamente che ci
sia un contratto, che nella fase di trattative però non è ancora stato concluso, dunque non
si può attribuire una responsabilità precontrattuale. Questo ha ovviamente delle

111
conseguenze pratiche importanti dal punto di vista della prescrizione e della
quantificazione del danno.
Dunque: chi sostiene che la responsabilità precontrattuale di natura extra-contrattuale si
avvale del fatto che il contratto non esista e quindi derivi da una responsabilità
precontrattuale per fatto illecito; viceversa, chi sostiene la visione della natura
contrattuale, evidenzia come in realtà non ci dobbiamo interessare di una responsabilità
contrattuale vera e propria. Parliamo di responsabilità per inadempimento nel momento in
cui si dice che esiste un obbligo giuridico – previsto dagli articoli 1337 e 1338 – dove si
prevede chiaramente che le parti debbano comportarsi secondo le regole di buonafede e
in mancanza di questa qualità si ha responsabilità per inadempimento di obblighi previsti:
che deriva dagli articoli 1218 e seguenti.

Dobbiamo ora considerare le problematiche della responsabilità precontrattuale dal


punto di vista dei profili del risarcimento del danno.
La questione puntigliosa è cercare di capire quale sia il danno risarcibile nei casi di
responsabilità precontrattuale. Non c’è dubbio che nelle ipotesi di responsabilità
contrattuale cambi l’interesse giuridicamente protetto: nei casi già esplicati di
inadempimento dell’obbligazione, normalmente, abbiamo un interesse (cosiddetto
positivo) all’esecuzione di una determinata prestazione. Cioè risarciamo l’interesse
positivo che il danneggiato ha riscontrato dalla mancata esecuzione della controparte.
Nell’ipotesi di responsabilità precontrattuale, invece, il problema è legato al risarcimento
di un interesse negativo, perché il contratto di interesse della parte è diverso e non si è
configurato (e se si è configurato è un contratto invalido o comunque destinato ad esserlo).
In altri termini: se l’interesse della parte non è positivo ad ottenere l’esecuzione della
prestazione dovuta, ma è un interesse negativo; si risarcisce l’interesse negativo. In
quest’ottica la perdita subita non sarà la stessa della responsabilità per inadempimento,
ma sarà rappresentata dalle spese e dalle perdite legate al fatto che ci si è – per lungo
tempo – incentrati su delle trattative rivelatesi fallimentari; quindi si risarciranno le spese e
le perdite subite nel passare tempo prolungato nelle trattative (come danno emergente). Il
lucro cessante sarà rappresentato dal fatto che non si abbia avuto un guadagno perché
impossibilitati al dedicarsi ad altre contrattazioni. È chiaro che per avere il risarcimento
sarà necessario provare di aver perso altre occasioni e altre contrattazioni per perseguire
queste trattative. Il risarcimento dell’interesse negativo legato alla responsabilità
precontrattuale è molto diverso dal risarcimento positivo legato alla responsabilità per
inadempimento: il danno emergente sarà rappresentato dalle spese e dalle perdite subite
durante le trattative e il lucro cessante sarà rappresentato dall’eventuale tempo (e quindi
energie) perse per seguire la contrattazione e che avrebbero potuto essere impiegate ad
altre contrattazioni.

112
Questo ragionamento però non può valere per il contratto valido ma sconveniente, perché
in questo caso un contratto (peraltro valido) è stato concluso, semplicemente in maniera
sconveniente. L’interesse in questo caso non può essere negativo, dunque si ritiene che in
questi casi il risarcimento sarà commisurato al minor vantaggio o al maggior aggravio
economico determinato dal comportamento sleale dell’altra parte.

Il contratto preliminare: è un contratto da cui nascono delle obbligazioni. In particolare, è


un contratto attraverso cui le parti si obbligano vicendevolmente a stipulare un ulteriore
contratto che verrà definito definitivo. Questo tipo di contratto è molte volte necessario,
perché consente alle parti – ad esempio – di prendere tempo per recuperare le cifre o le
documentazioni necessarie. Sostanzialmente il contratto preliminare blocca l’affare (che
poi sarà concluso con il contratto definitivo), cioè realizza una procedimentalizzazione della
formazione del contratto; ma è un contratto a tutti gli effetti. Va distinto pertanto dalle
minute o dalle puntuazioni, perché il contratto è un accordo a tutti gli effetti; mentre le
altre sono dichiarazioni preparatorie attraverso cui le parti raggiungono un’intesa di
massima e creano un programma contrattuale, senza un accordo vero e proprio. Il
contratto preliminare prevede come contenuto tutti gli elementi essenziali del contratto
definitivo, dunque dev’essere delineato in maniera abbastanza chiara. Al contratto
preliminare (preliminare dei preliminari) ne può seguire un altro (a cui seguirà quello
definitivo) che non dev’essere una mera replica, ma deve cercare di avanzare e specificare
ulteriormente l’operazione economica che si vuole affrontare. La natura esecutiva del
contratto viene riflessa anche dalla forma: prevede – all’art.1351 – che il contratto
preliminare abbia la stessa forma del contratto definitivo: “Il contratto preliminare è nullo
se non è fatto nella stessa forma che la legge prescrive per il contratto definitivo”.
L’’ipotesi di inadempimento del contratto preliminare comporta la responsabilità
contrattuale per inadempimento che però prevede un rimedio specifico legato alle sue
specificità: dà la possibilità – ai sensi dell’art.2932 – di far scattare l’esecuzione in forma
specifica:
“Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra
parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che
produca gli effetti del contratto non concluso.
Se si tratta di contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa
determinata o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, la domanda non può
essere accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa
offerta nei modi di legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile”
Ovvero: si dà alla parte la possibilità alla parte di richiedere una sentenza attraverso la
quale si esegue in forma specifica l’obbligo derivante dal preliminare; cioè il giudice – con
una sentenza costitutiva – produce gli stessi effetti del contratto preliminare e dunque

113
realizza gli effetti del contratto definitivo (concludendo a tutti gli effetti il contratto).
Questo rimedio peculiare potrà essere escluso dalle parti se materialmente impossibile o
per accordo tra i contraenti. Nel caso in cui si escluda l’esecuzione in forma specifica del
contratto preliminare sarà sempre possibile procedere per la richiesta del risarcimento del
danno.
Nell’ambito di questo tema ha avuto luogo un dibattito riguardo la possibilità di trascrivere
o meno il contratto preliminare. La trascrizione era dapprima preclusa perché non
rientrava negli atti soggetti a trascrizione (previsti dall’ordinamento agli art.2643 e
seguenti) il cui elenco è tassativo. Questo però costituiva spesso un problema di doppia
alienazione, per cui – intorno agli anni Novanta – la legislatura ha stabilito che anche i
contratti preliminari fossero soggetti a trascrizione.

Opzione: è uno strumento che ha sostanzialmente le stesse funzioni della proposta


irrevocabile, la quale però consiste in un atto unilaterale; l’opzione invece è un contratto di
accordo a tutti gli effetti, all’esito del quale una delle parti si vincola a tenere ferma una
proposta. Solitamente prevede un corrispettivo, dunque si ritiene che questo patto sia
oneroso. La disciplina cambia quando non è previsto un tempo stabilito, per cui il tempo di
efficacia verrà stabilito da un giudice.
All’esito dell’opzione un soggetto conclude immediatamente un contratto, il che lo rende
diverso dal preliminare (il quale prevede la necessità di un contratto definitivo).

Prelazione: è una figura attraverso la quale due parti concordano di preferire un certo
soggetto – a parità di condizioni – nel caso in cui questo decida di concludere un contratto.
Questa è l’opzione che si presenta nel caso di prelazione volontaria. Per rispettare il diritto
di prelazione, il soggetto sottoposto ad essa dovrà compiere la cosiddetta denuntiatio, cioè
dovrà invitare il soggetto titolare del diritto a concludere il contratto. Nell’ipotesi di
inadempimento l’effetto sarà l’obbligo risarcitorio: il prelazionario avrà diritto ad un
risarcimento del danno. Ci sono poi ipotesi di prelazione legale in cui il diritto di essere
preferito viene conferito dalla legge (ad esempio: ritratto successorio; affittuario
coltivatore diretto di un fondo agricolo; coltivatore diretto del fondo confinante; prelazione
allo Stato nei casi di vendita di beni culturali). In questo caso si ritiene che ci siano interessi
superiori tali per cui l’ordinamento si propone di preferire determinati soggetti. A questa
visione di prelazione legale (a tutela di interessi pubblici) è data tutela reale, cioè la
possibilità per il soggetto avente diritto di prelazione di poter riscattare direttamente il
bene che a lui è preferito.

114
Interpretazione del contratto: (dall’art.1362 fino all’art.1371) sono le regole
dell’ermeneutica, cioè regole che servono ad attribuire e precisare un determinato
significato al testo contrattuale. Possiamo distinguere diverse regole: in particolar modo ci
sono norme che configurano le regole di interpretazione soggettiva (dall’art.1362
all’art.1365); regole di interpretazione oggettiva (dall’art.1367 all’art.1371). L’idea è che le
prime siano quelle volte a ricercare l’intento comune dei soggetti nell’accordo, cioè quale
fosse la volontà dei soggetti; quelle successive sono previste nell’ottica ipotetica di
prevedere – laddove non siano sufficienti le regole soggettive – regole volte a desumere
l’intento dei soggetti da un dato oggettivo. L’art.1366 è invece destinato alla disciplina
dell’intenzione di buona fede, cioè la regola generale che vale sia in ottica soggettiva che
oggettiva, volta a tutelare l’affidamento. Si ritiene che – anche nell’ambito
dell’interpretazione – l’interprete debba cercare di comprendere il significato adottando
un approccio secondo buona fede. Le regole di interpretazione soggettiva sono legate a
quanto prevede l’art.1362, volto ad indagare quale sia l’intenzione comune delle parti,
senza limitarsi al significato letterale delle parole. Ciò significa che indubbiamente il testo
contrattuale originario sia fondamentale; ma l’interprete non deve limitarsi al senso
letterale delle parole che lo compongono; per ricostruire l’intenzione della volontà deve
avvalersi tanto del testo quando del comportamento assunto dalle parti (prima e dopo lo
svolgimento del contratto). Ancora, è necessario interpretare tutte le clausole le une per
mezzo delle altre, realizzano un’interpretazione più complessiva possibile.

115
06/04/20

La rappresentanza

Si fa riferimento ad un istituto, alla luce del quale un soggetto detto rappresentante


assume il potere di sostituirsi ad un altro soggetto detto rappresentato nel compimento di
un’attività giuridica, con effetti diretti nella sfera giuridica di quest’ultimo. Occorre
distinguere questa figura da quella del nuncius o portavoce, colui il quale si limita a dar
voce ad un soggetto che viene “rappresentato” ma – a differenza del rappresentante – non
esprime una propria volontà negoziale, ma si limita a replicare e riferire la volontà altrui. Il
matrimonio per procura è un chiaro esempio di nuncius, poiché colui al quale viene
affidato il compito di presenziare, non viene data la possibilità di manifestare la propria
volontà – ma si limita a riferire la volontà del soggetto inabilitato a partecipare.

Viene poi distinta una rappresentanza diretta: il soggetto rappresentato applica il suo
potere di esercitare attività giuridica per nome e per conto del rappresentato. Ciò significa
che agisce nell’interesse dell’altra persona, ma anche che ne spende il nome; da una
rappresentanza indiretta: pur essendo un’attività svolta per conto del rappresentato, non
si ha la spendita del nome. Ciò significa che sarà necessario un atto successivo a seguito del
quale si trasferiscono questi effetti dalla sfera giuridica del rappresentante a quella del
rappresentato.
In altri termini, mentre nel caso di rappresentanza diretta il soggetto - spendendo il nome
del rappresentato e agendo per conto suo – compie una determinata attività i cui effetti si
verificano direttamente nella sfera giuridica del rappresentato; nel caso di rappresentanza
indiretta a seguito dell’attività, gli effetti si verificano nella sfera giuridica del
rappresentate, per cui sarà necessario un ulteriore atto con il quale il soggetto trasferisca
gli effetti del primo negozio al rappresentato.
In qualche modo si tratta di strumenti con cui sostanzialmente si cerca di assolvere
funzioni legate alla necessità di formare un contratto laddove uno dei soggetti sia
impossibilitato ad essere presente. In questa logica, l’istituto della rappresentanza
consente al soggetto di agevolare la diffusione dei rapporti economici, garantendo un
avvantaggiamento complessivo dell’economia.

È importante tenere conto del fatto che vi sono atti giuridici che non consentono di
adottare figure come la rappresentanza: il matrimonio – come abbiamo visto – è uno di
questi (in quanto in matrimonio in sé non rappresenti un contratto, il quale è invece volto
ad atti di tipo patrimoniale).

116
Con riferimento alla rappresentanza, bisognerebbe comprendere quali sono le fonti di
questa rappresentanza. Esistono diverse origini del potere di rappresentanza, il quale può
derivare:
- Dalla legge: in questo caso avremo una rappresentanza legale
- Dall’interessato: si tratta, in questo caso, di rappresentanza volontaria.
Se queste sono le due figure più note, non dobbiamo trascurare la particolare figura che da
sempre è stata rinvenuta nella rappresentanza organica: la rappresentanza che si realizza
nell’ambito degli enti. Si tratta del potere di rappresentare un ente, un’associazione, una
fondazione, che spetta all’organo dell’ente che ha il potere di compiere l’attività giuridica
in ottica esterna all’interesse dell’ente, che non va confusa con gli organi gestori.

Dobbiamo ora considerare alcune caratteristiche fondamentali che possono riguardare la


rappresentanza volontaria perché, in questa ipotesi, va compreso in quale modo sia
possibile realizzarla. La rappresentanza volontaria si realizza tramite uno strumento
specifico definito procura, tramite il quale si conferisce ad un’altra persona il potere di
rappresentare un soggetto in un contratto, i cui effetti saranno diretti alla sfera giuridica
del rappresentato. La procura può avere forma espressa o forma tacita, in altri termini
può essere espressamente conferita: un soggetto può dare procura per iscritto; oppure
può essere attribuita a seguito di comportamenti concludenti dai quali si possa dedurre il
fatto di aver affidato un incarico ad un certo soggetto. Nel caso di contratti solenni, la
procura deve avere la stessa forma necessaria per l’atto che dev’essere concluso.

Altri profili che devono essere considerati riguardano la capacità di rappresentato e


rappresentante. Dal momento che ciò che rileva sono gli effetti in capo al rappresentato, il
soggetto dev’essere capace legalmente; mentre per il rappresentante rileva solamente la
capacità naturale. La procura, a sua volta, può essere speciale (per un unico o più
determinati atti), oppure può essere generali (per tutti gli affari del soggetto). Il soggetto
può, ovviamente, revocare la procura tramite un negozio unilaterale che ha l’effetto di far
cessare gli effetti della procura stessa. Normalmente, un altro atto che fa venir meno gli
effetti della procura è la morte del rappresentante o del rappresentato. Ovviamente, gli
effetti della procura devono essere portati a conoscenza dei terzi: i soggetti facenti parte
del negozio sono tenuti ad essere consapevoli della venuta meno del rappresentante. In
caso contrario, il contratto stipulato continuerà ad essere vincolante per il rappresentato.

È necessario poi richiamare che, se la volontà è espressa dal rappresentante, l’elemento


psicologico rilevante è proprio quello di questo soggetto. Gli eventuali vizi della volontà
(che comportano l’annullabilità del contratto) rilevano con riferimento alla volontà del
rappresentante. La regola generale è che ciò che è rilevante – eccetto casi eccezionali – è la

117
volontà del rappresentante. Vi possono essere casi in cui questi profili rilevano nel
rappresentato, ma si tratta di casi marginali che riguardano le ipotesi in cui sono le
istruzioni (del rappresentato al rappresentante) ad essere oggetto di questi vizi.

Il contratto concluso in conflitto di interessi e il contratto concluso con se stessi sono due
ipotesi in cui possiamo riconoscere un ruolo centrale all’istituto della rappresentanza.
Il primo si realizza nell’ipotesi in cui vi è un’oggettiva incompatibilità tra l’interesse del
rappresentato e quello del rappresentante: ovvero un contrasto ineliminabile tra
l’interesse dell’uno e quello dell’altro. La disciplina specifica di queste due ipotesi è
prevista dagli articoli 1394/1395, nei quali si prevedono regole specifiche che riguardano
in particolar modo il ruolo dell’affidamento del terzo:

- “Il contratto concluso dal rappresentante in conflitto d'interessi col rappresentato


può essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o
riconoscibile dal terzo”. Viene evidenziato come il contratto sia normalmente valido,
risulta però annullabile se il conflitto d’interessi è conosciuto o riconoscibile dal
terzo. Ciò viene fatto perché si vuole tutelare il terzo, colui il quale non è nella
dinamica che ha portato al conflitto di interessi, ma che ha pienamente diritto –
nella logica del legislatore – a vedere tutelati i propri interessi.

Nel caso di contratto concluso con se stesso, in realtà, il soggetto che svolge l’attività di
rappresentate finisce per essere al contempo espressione di entrambe le parti e dunque
diviene – per esempio – compratore e venditore. In questo caso la regola è molto diversa:

- “È annullabile il contratto che il rappresentante conclude con se stesso, in proprio o


come rappresentante di un'altra parte, a meno che il rappresentato lo abbia
autorizzato specificamente ovvero il contenuto del contratto sia determinato in
modo da escludere la possibilità di conflitto d'interessi. L'impugnazione può essere
proposta soltanto dal rappresentato”. In altri termini, la regola sostanzialmente si
inverte. Se la norma prevista dall’art.1394 disciplina la fattispecie prevedendo un
contratto valido che può divenire annullabile se l’incompatibilità tra i due interessi è
conosciuta o riconoscibile, nell’ipotesi del contratto con se stesso si prevede –
viceversa – che il contratto con se stesso sia regolarmente annullabile (perché si
presume concluso in chiaro conflitto di interessi in quanto il soggetto sia al
contempo espressione di due parti). Tuttavia, vi sono casi in cui il contratto rimane
valido.

118
Un ulteriore problema legato alla rappresentanza riguarda la rappresentanza senza
potere, l’ipotesi in cui un soggetto agisca come rappresentante ma non gli sia stato dato
alcun potere o ecceda i limiti della procura. In questo caso, il contratto stipulato dal
rappresentante (il quale non ne aveva il potere, dunque concluso da un falsos procurator)
produce un effetto di inefficacia in capo al soggetto rappresentato. Tuttavia, il
rappresentato - con una propria dichiarazione di volontà - può compiere un atto in grado di
convalidare quanto stipulato dal falsos procurator e dunque permette di esplicare gli effetti
del contratto. Si tratta della cosiddetta ratifica. La ratifica, anche in questo caso, potrà
essere espressa o tacita e avrà un effetto retroattivo, cioè a partire da quando il falsos
procurator ha concluso il contratto in falsa rappresentanza. Nell’ipotesi in cui il contratto
non venga ratificato, si pone il tema del risarcimento del danno, che viene affrontato
all’art.1398:
“Colui che ha contrattato come rappresentante senza averne i poteri o eccedendo i limiti
delle facoltà conferitegli, è responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per
avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto”. In altri termini, l’articolo
dispone che il falsos procurator sarà responsabile e farà scattare un risarcimento del danno
nei confronti del terzo. Chiaramente, sarà possibile effettuare questo risarcimento soltanto
se tale soggetto non era a conoscenza del fatto che il soggetto con cui aveva concluso il
contratto non fosse rappresentante. Il terzo, però, non potrà chiedere il risarcimento del
danno di interesse positivo, ma dovrà limitarsi a richiedere il rimborso delle spese
sostenute e l’eventuale perdita di ulteriori contratti nel sostenere le trattative del negozio
in oggetto.

Gli effetti del contratto

Si tratta sostanzialmente delle ragioni ultime per cui si è deciso di concludere un dato
accordo. La disciplina del codice si trova agli articoli 1372 e seguenti:
“Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o
per cause ammesse dalla legge.
Il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge”

Prima di tutto, l’articolo dice che il contratto “ha forza di legge tra le parti”, ciò significa che
si dà l’idea di vincolatività del contratto stesso e a ciò è legato il fatto che esso non potrà
essere sciolto normalmente, ma solo se vi sia mutuo consenso (un accordo uguale e
contrario delle parti che decidono di comune accordo di modificare o sciogliere l’accordo)
o se vi siano cause ammesse dalla legge. La regola generale viene riassunta da un brocardo

119
latino che dice che pacta sunt servanda (i patti devono essere rispettati). L’articolo, però,
dice anche che il contratto “ha effetti tra le parti”. Ciò impone delle riflessioni sia per
quanto riguarda l’integrazione del contratto, sia per l’effetto ai terzi (solo nei casi previsti
dalla legge).
All’art.1373 il Codice dispone del primo caso previsto dalla legge: il recesso unilaterale.
“Se a una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto, tale facoltà può essere
esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione.
Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, tale facoltà può essere esercitata anche
successivamente, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di
esecuzione.
Qualora sia stata stipulata la prestazione di un corrispettivo per il recesso, questo ha
effetto quando la prestazione è eseguita.
È salvo in ogni caso il patto contrario”.
In altre parole, le parti possono sciogliere unilateralmente il contratto in casi eccezionali;
perché se la regola è la vincolatività, il recesso non può che essere un’eccezione e tale
eccezione si potrà avere in casi previsti dalla legge o nell’ipotesi di un comune accordo,
come nel caso del recesso convenzionale: le parti si accordano per sciogliere
unilateralmente il rapporto.
L’art.1373 ci fornisce un quadro piuttosto chiaro: il soggetto può prevedere il diritto di
sciogliere un contratto unilateralmente (recesso convenzionale), ma può essere anche
previsto dalla legge. In questo caso il recesso viene istituito per ipotesi specifiche: ad
esempio contratto a tempo indeterminato o periodico. A questo proposito, l’articolo
specifica che in questi casi il recesso può essere esercitato non per forza prima
dell’esecuzione del negozio, ma anche durante se l’effetto è valido nel futuro. Dice inoltre
che esiste un corrispettivo per il recesso, specificato all’art. 1386: “Se nel contratto è
stipulato il diritto di recesso per una o per entrambe le parti, la caparra ha la sola funzione
di corrispettivo del recesso.
In questo caso, il recedente perde la caparra data o deve restituire il doppio di quella che
ha ricevuta”.
Si può prevedere dunque una caparra penitenziale, cioè uno strumento con il quale un
soggetto – dietro il versamento di una somma a titolo di caparra – si riconosce il diritto di
sciogliere il contratto.
Da distinguersi dalla caparra penitenziale è la multa penitenziale, la quale non realizza un
corrispettivo al recesso, ma si limita a pagare una somma nel momento in cui il soggetto
decide di recedere. questo ci permette di aprire una parentesi rispetto ad alcuni temi che
riguardano espressamente la caparra. Dobbiamo considerare altre figure: la caparra
confirmatoria e la clausola penale. La prima consiste in una somma di denaro che viene
data tradizionalmente per confermare la propria volontà di concludere un determinato

120
contratto. Se il soggetto adempiente versa la sua caparra con la quale effettivamente
conclude il contratto, la caparra diventerà un acconto; viceversa, se il soggetto è
inadempiente (e dunque non conclude il contratto) la caparra avrà la funzione di
quantificazione del risarcimento del danno poiché l’altra parte avrà diritto a trattenere
presso di sé la caparra. Se ad essere inadempiente è l’altra parte, questa dovrà restituire la
somma della caparra al soggetto che l’ha versata e un ulteriore acconto corrispondente al
doppio della caparra ricevuta. Questo meccanismo funziona esattamente con l’ipotesi del
recesso, quindi – ancora una volta- se recede colui il quale ha versato la caparra,
quest’ultima verrà persa; viceversa, se a recedere sarà l’altra parte, questa dovrà restituire
il doppio della caparra penitenziale ricevuta. Se il funzionamento è il medesimo, ciò che
cambia è la funzione: nel primo caso ha la funzione di confermare la volontà delle parti a
stipulare un contratto; nel secondo ha la funzione di rappresentare un corrispettivo della
caparra penitenziale. Ancora distinta è la clausola penale, la quale rappresenta un vero e
proprio contratto che si prevede per liquidare convenzionalmente il danno. In altri termini,
le parti si accordano e stabiliscono una clausola exante, con la quale le parti convengono
che - in caso di inadempimento – sarà dovuta una certa cifra a titolo di penale. Dal punto di
vista pratico, quindi, la penale ha il ruolo di pre-quantificare la caparra. Si può stabilire,
però, anche una caparra per il semplice ritardo: in questo caso si prevede una caparra per
cui ogni giorno di ritardo dalla consegna del manufatto, farà scattare la penale di una
somma stabilita. La sostanziale differenza con il risarcimento del danno sta nel fatto che –
come abbiamo visto – il risarcimento del danno dev’essere provato e una volta provata, si
dovrà quantificare l’entità del danno subito; diversamente, con la penale ci si limiterà a
stabilire l’inadempimento della parte, ma non si sarà tenuti a quantificare il danno e a
provarlo. In questo senso, con la penale si quantifica il danno al momento della
conclusione del contratto, limitandolo (poiché la penale è prevista per l’inadempimento
assoluto, con cui si va incontro al divieto di cumulo: cioè non si può poi richiedere il
risarcimento del danno e la penale). Viceversa, però, si potrà chiedere la penale per il
ritardo e, se provato, l’eventuale risarcimento dell’ulteriore danno.
La regola generale è quella stabilita dall’art.1383: “Il creditore non può domandare insieme
la prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice
ritardo”. Dunque, non si ha la possibilità di richiedere entrambe, ma di richiedere
l’adempimento della prestazione e la penale nel caso di ritardo.
La penale può essere eccessiva ma vige la possibilità di ridurla, come disciplinato
all’art.1384: “La penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione
principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente
eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento”.
Le ipotesi in cui una penale può essere ridotta sono essenzialmente due: se l’obbligazione
principale è stata eseguita in parte; oppure se l’ammontare della penale è manifestamente

121
eccessivo. In questi casi è possibile – per il giudice – prevedere una riduzione. Il tema posto
in dottrina è con riferimento alla richiesta di tale penale: si ritiene che il giudice possa,
anche autonomamente, ridurre la penale considerata assolutamente eccessiva. È chiaro
che la penale differisca dalla caparra, perché - mentre quest’ultima risulta come accordo
tra le parti per quantificare il risarcimento del danno – la prima è meramente una dazione
di denaro.

Nell’analizzare le altre norme in materia di effetti delle parti, occorre richiamare il tema
dell’integrazione. Abbiamo visto come il contratto abbia determinate caratteristiche, si
stipula in un certo modo e i cui effetti esprimono gli accordi tra le parti. Bisogna però in
qualche modo interpretare la volontà delle parti per disciplinare il singolo contratto e
interpretarlo. Tuttavia, in alcuni casi, bisogna essere consapevoli del fatto che tutto ciò
comprende solo una parte del grande macro-tema dei contratti che, come previsto
dall’art.1374: “Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma
anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli
usi e l'equità”, il quale va interpretato in accordanza con l’art.1374: “Il contratto deve
essere eseguito secondo buona fede”.
Queste norme sono volte a disciplinare l’integrazione del contratto e perfezionano gli
effetti del contratto stesso alla luce della volontà delle parti, ma anche di quanto previsto
dalla legge. Ciò significa che la legge - e in particolar modo i riferimenti che vengono fatti in
rapporto all’integrazione - possono integrare il contratto ove siano previste lacune o
discipline poco chiare, possono aggiungere delle previsioni di legge. Vi sono delle ipotesi in
cui questi effetti possono essere tali da sostituirsi a quelli previsti dalle parti, cioè si
sostituisce il diritto di fonte legislativa al diritto di fonte convenzionale (frutto dell’accordo
tra le parti). Questo è possibile, ovviamente, in casi molto limitati perché riguardano una
logica di mercato piuttosto recessiva.

All’art.1376 viene affrontato il tema dei contratti con effetti reali: “Nei contratti che hanno
per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il
trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il
diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente
manifestato”.
In questo ambito vige il principio consensualistico, rivolto al fatto che – solitamente – i
contratti si concludono a seguito del semplice consenso. Vi sono tuttavia dei contratti
specifici (detti, appunto, reali) che richiedono in particolare – oltre al semplice consenso –
anche la consegna del bene. Così facendo si richiede il consenso traslativo, ma anche la
vera e propria traditio, cioè il trasferimento del bene che costituisce il momento vero e
proprio di conclusione del contratto.

122
In conclusione, con riferimento all’art.1372 e alla forza di legge dei contratti, occorre
constatare che esistano casi rilevanti di effetti su terzi. Questo è quanto previsto
all’art.1411:
“È valida la stipulazione a favore di un terzo, qualora lo stipulante vi abbia interesse.
Salvo patto contrario, il terzo acquista il diritto contro il promittente per effetto della
stipulazione. Questa però può essere revocata o modificata dallo stipulante, finché il terzo
non abbia dichiarato, anche in confronto del promittente di volerne profittare.
In caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo di profittarne, la prestazione rimane
a beneficio dello stipulante, salvo che diversamente risulti dalla volontà delle parti o dalla
natura del contratto”.

In generale, si prevede la possibilità di stipulare un contratto che abbia effetti a favore di


un terzo, quando lo stipulante abbia un interessa a favore di ciò. Tuttavia, non si deve
prevedere un generico vantaggio; ma si attribuisce al terzo un vero e proprio diritto che
prescinde dalla rappresentanza, tant’è che – affinché vi sia perfezionamento del contratto
– il terzo deve dichiarare di approfittarne. Inoltre, il soggetto che promette una
determinata prestazione si assume un rischio: chi acquisisce i diritti entra nel contratto e –
di conseguenza - nella dinamica contrattuale. L’atra parte si ritroverà quindi a poter usare
solo una parte degli strumenti contro il terzo, poiché - chiaramente – non gli si potranno
imputare tutte le cose che invece si sarebbero potute imputare ad un eventuale
promittente.

123
07/04/20
I rimedi contrattuali
Nell’analisi dei rimedi contrattuali, solitamente di distinguono quelli che riguardano la
validità (dunque il contratto come atto) e quelli che riguardano invece i rapporti
contrattuali (l’accordo tra le parti legato al profilo degli effetti).
Nell’ambito del contratto come atto si considerano, come figura generale, i rimedi
dell’invalidità, che si distingue in nullità e annullabilità. Per quanto riguarda i rapporti
contrattuali si analizzano generalmente i rimedi della rescissione e risoluzione (la prima, a
sua volta, si distingue in rescissione per lesione – o in stato di bisogno - e rescissione in
stato di pericolo; la seconda, invece, si distingue in risoluzione per inadempimento, per
impossibilità sopravvenuta e per eccessiva onerosità sopravvenuta).

I rimedi dell’invalidità
Sono quelle figure che si realizzano nell’ipotesi in cui determinati presupposti e requisiti
richiesti dalla legge – previsti come limiti alla libertà delle parti o al procedimento di
formazione tra la volontà delle parti - non vengono effettivamente rispettati. Si può
assistere a due figure generali di invalidità: la prima è quella della nullità, la seconda è –
invece – dell’annullabilità. In entrambe i casi si tratta dell’espressione della figura
dell’invalidità del contratto.
Un riferimento può essere fatto anche alla figura dell’inesistenza, la quale non è una
categoria prevista dal Codice, ma è per lo più dottrinale. Si ritiene che possano essere
oggetto di inesistenza i contratti – e in generali gli atti giuridici – che non hanno
minimamente i caratteri fondamentali dell’atto valido, per cui si abbia difficoltà a
ricostruire e considerare quell’atto (o contratto).
È importante avere presente, invece, la distinzione tra invalidità e inefficacia: se l’invalidità
è quel fenomeno che si realizza a seguito del superamento o dell’assenza di presupposti e
limiti legati al procedimento di formazione della volontà, l’efficacia rappresenta la mera
idoneità del contratto a produrre determinati effetti. Ciò significa che molto spesso
invalidità ed inefficacia possono coincidere. Tuttavia, si tratta di profili di per sé diversi,
categorie distinte ma connesse (che possono dunque non sovrapporsi): l’uno volta ad
assicurarsi che non vengano superati determinati profili legati ai limiti di requisiti necessari
alla formazione della volontà contrattuale, l’altro legato invece alla produzione di
determinati effetti.
Nella figura dell’invalidità rientrano, in realtà, due figure disciplinate dal Codice: nullità ed
annullabilità.
1. La nullità: è sicuramente la figura più “forte” di invalidità, in quanto il contratto
affetto da nullità risulta assolutamente inidoneo a produrre gli effetti per i quali è
stato stipulato. Le cause di nullità sono previste espressamente dall’art.1418:

124
“Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge
disponga diversamente.
Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'articolo
1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo 1345 e
la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346.
Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”.
Il primo comma si riferisce in modo esplicito a quelle che vengono chiamate nullità
virtuali, cioè nullità dove la legge non prevede necessariamente la nullità, ma sono
ritenute valide (quindi nulle) proprio per il fatto di violare norme imperative. Il
comma due prevede un ulteriore caso di nullità: le nullità strutturali. Queste
riguardano elementi essenziali e presupposti fondamentali del contratto.
Infine, il comma tre individua le nullità testuali, ovvero quelle espressamente
previste dalla legge.
Nel corso del tempo queste figure di nullità si sonno ampliate con diverse categorie
per diverse ragioni. In primo luogo, perché - è vero che le nullità possono essere
fatte valere da chiunque abbia un interesse, ma – come vedremo – conosceremo
ipotesi di nullità relative, dove solo determinati soggetti possono farla valere. Altre
categorie, a seguito della normativa europea, sono le cosiddette nullità di
protezione, cioè volte a tutelare non solo l’interesse generale, ma anche una parte
specifica. Questa ipotesi riguarda soprattutto i contratti conclusi dal consumatore, i
quali prevedono – in particolare nell’individuare delle clausole vessatorie – delle
ipotesi di nullità di protezione, in cui è interesse del sistema tutelare specificamente
l’individuo consumatore, ritenuto più debole.
Queste figure si sono poi andate a moltiplicare: conosciamo figure di nullità
specificamente previste con caratteristiche volte a tutelare determinate categorie
contrattuali anche nei contratti di impresa, ove – per esempio - si prevede la nullità
in caso di abuso di dipendenza economica di patti stipulati dal contraente più forte
(cioè un titolare in un rapporto in posizione di forza) rispetto ad un soggetto posto
in condizione di dipendenza economica. Questi patti sono soggetti a nullità –
secondo l’art.9 della legge 192 del ’98 in materia di sub-fornitura.
L’idea di fondo della nullità di protezione – in ogni caso - è quella di tutelare una
specifica parte. Questo costituisce uno degli elementi di ibridazione della distinzione
tra nullità e annullabilità, cioè una distinzione forte nell’idea originaria
dell’ordinamento che tende – attraverso alcune figure (tra cui la nullità di
protezione) ad ibridarsi, ovvero vedere profili in cui una fattispecie viene avvicinata
all’altra categoria. Tuttavia, bisogna aver presente come la nullità possa essere
sicuramente un vizio che impatta sull’intero negozio, ma questo vizio può riguardare
soltanto una o più clausole del contratto. In questo caso si avrà a che fare con una

125
nullità parziale, figura disciplinata espressamente dall’art.1419: “La nullità parziale
di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto,
se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo
contenuto che è colpita dalla nullità.
La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole
nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”.
Una prima valutazione viene quindi effettuata in base all’ipotesi che il contratto sia
stato concluso senza la parte del contenuto colpita da nullità. Se i contraenti non
avrebbero concluso il contratto senza la parte affetta da nullità, la conseguenza sarà
la nullità dell’intero contratto. Viceversa, nel caso in cui il contratto può continuare
a svolgere una funzione apprezzabile anche in assenza della parte affetta da nullità,
l’atto rimane valido per la parte non colpita da nullità. Il tema successivo che si
pone è disciplinato in parte dall’art.1419 comma due: cioè, nell’ipotesi in cui la
nullità non sia totale (dunque non renda invalido l’intero contratto). in questo caso,
la parte di contratto affetta da nullità può subire due effetti: un’ipotesi di
integrazione secondo norme dispositive (cioè le parti desumono una regola che si
possa applicare al caso concreto; un’ipotesi in cui le clausole nulle vengono
direttamente sostituite da clausole imposte dalla legge (disciplinata all’art.1339).
L’azione di nullità ha determinate caratteristiche: in primo luogo, a seguito della
nullità, viene dichiarato nullo il contratto e – conseguentemente – sono dovute le
restituzioni di quanto compiuto. Tuttavia, in alcuni casi – come abbiamo visto - si ha
restituzione solo in casi di contratti immorali unilaterali, cioè in cui solo una parte
assume comportamenti immorali. Viceversa, nei contratti immorali bilaterali, non è
prevista alcuna restituzione.
L’azione specifica di nullità è un’azione imprescrittibile, dunque non è soggetta a
prescrizione. Ciò viene dichiarato in maniera chiara all’art.1422. L’azione di nullità è,
però, anche insanabile, cioè – di base – viene esclusa ogni sanatoria. In altri termini,
come espresso all’art.1423, l’azione di nullità comporta l’impossibilità di convalida,
quindi il contratto nullo non può essere convalidato (e dunque sanato). Si tratta
inoltre di un’azione di mero accertamento, cioè l’azione di nullità si limita ad
accertare – accogliendo o meno – ciò che viene richiesto dalla parte.
In termini generali viene riconosciuta a tutti la possibilità di far valere la nullità del
contratto, a previsione dell’art.1421, destinato propriamente a disciplinare la
legittimità dell’azione di nullità:
“Salvo diverse disposizioni di legge la nullità può essere fatta valere da chiunque vi
ha interesse e può essere rilevata d'ufficio dal giudice”.
Dunque, un’altra caratteristica dell’azione di nullità è il fatto che possa essere
rilevata d’ufficio anche dal giudice: non è perciò necessario che sia richiesta dalle

126
parti (chiaramente in questi casi è necessaria una controversia derivante dal
contratto).
È necessario, a questo punto, valutare se il contratto nullo possa essere oggetto di
conversione, cioè – a seguito di un processo di trasformazione – possa essere reso
un atto diverso, capace di produrre ugualmente determinati effetti. Ciò è possibile
nel caso in cui si abbia a che fare con un contratto nullo che abbia i requisiti di forma
e di sostanza per essere un contratto valido di caratteristiche diverse. Inoltre, è
necessario che il contratto stipulato non sia nullo per illiceità, ma per altre cause (ad
esempio la mancanza di determinati elementi).
In presenza di questi presupposti, sarà possibile che la parte interessata alla
conversione chieda espressamente e realizzi una trasformazione del contratto.

2. L’annullabilità: il contrasto con l’ordinamento giuridico è meno significativo e le


regole tendono a proteggere soprattutto uno dei contraenti. L’annullabilità del
contratto scatta in presenza di incapacità legale o naturale del contraente. Altre
ipotesi rilevanti sono quelle legate ai vizi della volontà del contratto: dell’errore,
della violenza o del dolo. Questi sono – al pari dell’incapacità – cause di
annullamento del contratto.
L’effetto dell’annullamento è un’azione di tipo costitutivo, cioè con la quale si
annulla il contratto, il quale sviluppa i suoi effetti fino al momento in cui – con
l’azione di annullamento – si dichiara, per un verso, l’invalidità del contratto e la si
modifica. In questi casi si ha una riduzione della legittimità dell’azione: non tutti
colori i quali hanno interesse possono ricorrere all’azione, ma solo la parte nel cui
interesse l’invalidità è stata prevista dalla legge (dunque la parte che ha subito
violenza, raggiri o incapacità). Ciò non toglie che vi siano casi in cui si restringe la
legittimazione attiva (come nelle ipotesi di nullità relativa): esistono infatti ipotesi di
annullabilità assoluta in cui chiunque può agire per l’annullamento del contratto.
Nello stesso senso va a dimostrare la minore gravità della figura dell’annullabilità
rispetto alla nullità, la previsione che la prima non possa essere rilevata d’ufficio e la
prescrittibilità dell’azione (entro i cinque anni); ma l’eccezione è imprescrittibile:
dunque il soggetto può agire per la prescrizione del contratto entro cinque anni
dalla scoperta del vizio. Scaduto il termine la richiesta non potrà essere presentata,
ma potrà essere contrastata la rivendicazione di adempimento delle prestazioni
contrattuali tramite lo strumento processuale dell’eccezione. Questo duplice
sistema è volto ad evitare che le parti si limitino ad aspettare la scadenza del
termine di prescrizione per richiedere gli effetti del contratto.
Infine, a differenza della nullità, l’annullabilità è convalidabile: è possibile chiedere
la sanatoria degli effetti del contratto, come disciplinato all’art.1444. Affinché la

127
convalida esplichi i suoi effetti è necessario che la parte legittimata ad agire per
l’annullamento dichiari di voler concludere ugualmente il contratto (e quindi di
convalidarlo), senza però essere affetto dallo stesso vizio di cui era soggetto nel
momento in cui il contratto era annullabile. Questa richiesta può avvenire in forma
espressa o in forma tacita (come nell’ipotesi di chi dà volontariamente esecuzione di
un contratto annullabile).
È necessario però sottolineare come gli effetti della sentenza di annullamento siano
retroattivi (cioè come se il contratto non avesse prodotto alcun effetto),
chiaramente nella tutela dei terzi. Anche nell’ottica del contratto annullabile sarà
ammessa la ripetizione, cioè la restituzione delle prestazioni previste.

Le cause dei vizi di volontà

Come precedentemente osservato, i vizi del consenso sono tre: errore, violenza e
dolo e sono capaci di portare all’annullamento del contratto.
Errore: è un vizio che considerando giuridicamente rilevante nell’ipotesi in cui il
soggetto cada in errore realizzando una situazione che sia, al contempo, essenziale
e riconoscibile. Che l’errore sia riconoscibile è piuttosto semplice, consistendo
nell’ipotesi in cui l’altra parte sia in grado (o meno) di rendersi conto. Le ipotesi in
cui un errore sia essenziale vengono esposte all’art.1429:
“L'errore è essenziale:
1) quando cade sulla natura o sull'oggetto del contratto;
2) quando cade sull'identità dell'oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità
dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze,
deve ritenersi determinante del consenso;
3) quando cade sull'identità o sulle qualità della persona dell'altro contraente,
sempre che l'una o le altre siano state determinanti del consenso;
4) quando, trattandosi di errore di diritto, è stata la ragione unica o principale del
contratto”.
Sia nel caso di errore essenziale che nel caso di errore riconoscibile, ciò che è
importante è il ruolo del terzo: il fatto che l’altra parte si possa affidare al contratto,
rendendolo valido; a meno che non sia in grado di riconoscere l’errore, di
comprendere la causa di invalidità, di sapere o conoscere la situazione. In realtà
l’errore che abbiamo appena analizzato è un errore specifico, generalmente- in
realtà – conosciamo due figure di errore: l’errore vizio (appena visto, è l’errore sulla
formazione della volontà) e l’errore ostativo (si ha nel dichiarare la propria volontà,
non riguarda dunque la fase di formazione).

128
Dolo: è anch’esso causa di annullamento del contratto. Sostanzialmente è causato
dai raggiri che un soggetto pone in essere nell’ambito di un contratto nei confronti
dell’altro contraente. È chiaro che questi raggiri sono rilevanti nel momento in cui
sono determinanti, cioè se il soggetto si convince a concludere il contratto all’esito
di questi raggiri. In questo caso si avrà un’ipotesi di contratto annullabile per dolo
determinante: se il soggetto non fosse stato raggirato non avrebbe concluso il
contratto. il dolo, però, può essere anche incidente, cioè i raggiri non sono stati tali
da causare il consenso del soggetto, il quale avrebbe concluso il contratto anche se
non fosse stato edotto dai raggiri stessi ma a condizioni diverse. Ciò significa che
non vi sarà la possibilità di annullare il contratto, ma di chiedere il risarcimento del
danno. Nel caso di dolo del terzo (cioè la conclusione di un contratto con un
soggetto A, essendo stato raggirato da un soggetto B) il contratto, come previsto
dall’art.1439, è annullabile soltanto se il contraente A era consapevole dei raggiri
perpetrati dal soggetto B.
Violenza: è causa, anche in questo caso, di annullamento del contratto.
Sostanzialmente di distingue una violenza fisica da una morale: il primo è un caso
piuttosto raro poiché questo tipo di violenza porterebbe alla nullità del contratto
perché non sarebbe un vizio della volontà ma questa verrebbe totalmente negata; il
secondo è il caso più rilevante. Sostanzialmente è rappresentata da minacce in
grado di far pressione su una persona in modo da farle temere – per sé o per i
propri beni – un male ingiusto, poste in essere da un soggetto contraente. In questa
logica – che chiaramente va commisurata in base all’età, al sesso e alle condizioni
delle persone – le condizioni sono tali da comportare l’annullabilità del contratto.
Nel caso di violenza, il vizio è ritenuto più incisivo rispetto all’ipotesi di dolo, dunque
è ritenuto direttamente annullabile anche il contratto concluso sotto violenza del
terzo. In questo caso, quindi, non si richiede l’affidamento particolare richiesto nel
caso del dolo, ma anche se il contraente non sia a conoscenza delle minacce del
terzo, la semplice violenza posta in atto è condizione sufficiente a rendere il
contratto annullabile. Bisogna prestare attenzione, però, a non confondere la
violenza come minaccia sensata con il timore reverenziale il quale consiste in un
profilo che – per quanto rilevante nella prassi – non ha una significatività tale da
incidere in maniera rilevante nella formazione della volontà contrattuale.

I rimedi del contratto come rapporto

Sono essenzialmente due profili patologici: rescissione e risoluzione.

129
Rescissione: a sua volta si distingue in rescissione per pericolo o per lesione, che
fanno riferimento agli art.1447/1448. Quando si parla di rescissione, si tratta di
riflettere sul fatto che il contratto sia oggetto di autonomia privata e dunque sono i
contraenti a concordare quanto disciplinato dal punto di vista del contenuto del loro
rapporto, quindi saranno loro a determinare le prestazioni reciproche. Tuttavia, con
lo strumento della rescissione, si prevedono delle ipotesi eccezionali rispetto al
sistema, in cui l’eventuale squilibrio – in termini economici – dell’operazione, se
dovuta a determinate condizioni, diventa rilevante. In questi casi non risulta più
veritiero che il contratto sia un affare e pertanto può essere oggetto di rimedi
specifici.
Il contratto concluso in stato di pericolo è rilevante come possibile causa di
rescissione in caso di danno grave alla persona, a seguito del quale si prevede un
corrispettivo esorbitante. Altri due fattori rilevanti in questa ipotesi sono il fatto che
lo stato di pericolo sia noto all’altra parte e l’iniquità delle condizioni. Se si
presentano queste tre condizioni il contratto risulta rescindibile in stato di pericolo,
ai sensi dell’art.1447.
Ipotesi diversa è quella della rescissione in caso di lesione (o per bisogno). In questi
casi, l’art.1448 lascia intendere che si richiedano altri presupposti: lo stato di
bisogno della controparte (profilo che riguarda lo stato di bisogno economico); una
sproporzione significativa tra le prestazioni (l’iniquità è quantificata espressamente:
si richiede che la prestazione sia superiore al doppio della controprestazione); l’altra
parte deve approfittare della situazione.
Entrambe le situazioni hanno caratteristiche comuni: in particolare, prevedono la
possibilità di agire per lo scioglimento del contratto entro un anno dalla conclusione
del negozio; la rescissione vale per il futuro (non ha effetto retroattivo), quindi dopo
lo scioglimento del contratto le parti non avranno un rapporto contrattuale; infine,
si dà la possibilità - alla parte avvantaggiata – di riequilibrare il contratto attraverso
l’offerta di riconduzione del contratto ad equità, espressamente disciplinata
all’art.1450:
“Il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla offrendo una
modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità”.
Se il problema è l’eccessiva iniquità del contratto, l’ordinamento prevede che la
parte avvantaggiata possa riportarlo ad equità offrendo una modifica contrattuale:
così facendo, evita lo scioglimento del rapporto.
Risoluzione: consiste essenzialmente in tre figure: per inadempimento, per
eccessiva onerosità e per impossibilità sopravvenuta con riferimento ad anomalie
funzionali, cioè che intervengono tra il momento della conclusione del contratto e il

130
momento in cui il contratto viene definitivamente eseguito. In questa fase può
intervenire un’anomalia funzionale, dunque non più generica.
A fronte dell’inadempimento di una parte, se questo è – come previsto dall’art.1455
– di non scarsa rilevanza, il soggetto potrà richiedere la risoluzione per
inadempimento di contratti a prestazioni corrispettivi (cioè in cui il sacrificio di una
parte è giustificato dal rispettivo sacrificio della controparte). In alternativa, in
questi casi è possibile richiedere l’adempimento delle prestazioni dovute. In
entrambe i casi si potrà richiedere un risarcimento del danno che dipenderà dal tipo
di domanda: nell’ipotesi di scioglimento del contratto il risarcimento non si
aggiungerà alla prestazione, ma vi si sostituirà; nell’ipotesi di richiesta di
adempimento, il risarcimento si aggiungerà all’esecuzione della prestazione.
Occorre ora comprendere in che rapporto sono le due azioni fra di loro: cioè come
può un soggetto scegliere tra una e l’altra. Il soggetto può liberamente richiedere la
risoluzione piuttosto che l’adempimento; tuttavia, nel caso di richiesta di
adempimento – se l’inadempimento persisterà – si potrà richiedere, in un secondo
momento, lo scioglimento del contratto. Non sarà possibile, invece, richiedere
prima la risoluzione del contratto e successivamente ravvedersi e chiedere
l’inadempimento, perché si vuole tutelare anche la controparte. Dal momento che
l’azione di risoluzione per inadempimento sottintende un disinteresse dell’altra
parte ad ottenere la prestazione originaria, l’altra parte potrà ritenersi libera dal
contratto e quindi potrebbe interessarsi ad altri profili giuridici. Non si ritiene
opportuno, dunque, dare la possibilità alla parte adempiente, di chiedere prima lo
scioglimento e poi l’adempimento.
Le azioni di risoluzione possono essere richieste per inadempimento giudiziale (cioè
davanti ad un giudice il quale, con sentenza costitutiva, scioglie il contratto), o di
risoluzione autonoma che prevede tre forme: la clausola risolutiva espressa
(quando il soggetto ritiene una certa prestazione fondamentale e nel caso di
inadempimento il contratto di scioglie automaticamente), il termine essenziale
(quando un soggetto è interessato ad una certa prestazione in un termine reputato
essenziale) e la diffida ad adempiere (una parte fa espressa comunicazione all’altra
di adempiere entro un termine prestabilito – che non potrà essere minore a 14
giorni. Se, dopo la diffida, l’altra parte continuerà ad essere inadempiente, si potrà
giungere allo scioglimento del contratto di diritto). In queste tre ipotesi la
risoluzione, dunque lo scioglimento del contratto, avviene automaticamente; ma le
controversie tra le parti potranno essere risolti dal giudice, la cui sentenza sarà
dichiarativa: cioè si limiterà ad accertare l’avvenuto scioglimento del contratto
(avvenuto di per sé alla luce delle tre ipotesi).

131
La risoluzione in caso di inadempimento e il risarcimento del danno per
inadempimento (analizzato nelle lezioni precedenti) sono due facce della stessa
medaglia: il risarcimento rileva dal punto di vista delle obbligazioni (quindi dei
rapporti obbligatori), ma – come abbiamo visto – diritto delle obbligazioni e diritto
dei contratti sono strettamente connessi perché, ai sensi dell’art.1373, i contratti
sono fonti delle obbligazioni, dunque nell’ambito dei contratti si avranno dei rimedi
contrattuali e dei rimedi obbligatori. Non a caso – nelle ipotesi di inadempimento -
si possono avere, per un verso lo scioglimento del contratto o l’adempimento (o
risoluzione), dall’altro il risarcimento del danno.
Esistono poi le figure di autotutela, cioè nei casi di rapporti sinallagmatici (con
prestazioni corrispettive) i soggetti possono tutelarsi senza necessariamente
richiedere l’intervento di un giudice. Questo è previsto agli art.1460/1461:
- Eccezione di inadempimento: “Nei contratti con prestazioni corrispettive,
ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro
non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo
che termini diversi per l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino
dalla natura del contratto.
Tuttavia, non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il
rifiuto è contrario alla buona fede”;
- Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti: “Ciascun contraente
può sospendere l'esecuzione della prestazione da lui dovuta, se le condizioni
patrimoniali dell'altro sono divenute tali da porre in evidente pericolo il
conseguimento della controprestazione, salvo che sia prestata idonea garanzia”.
La risoluzione per impossibilità sopravvenuta è legata al diritto delle obbligazioni
(uno dei modi di estinzione dell’obbligazione diversa dall’adempimento). Nei casi di
contratti a prestazioni corrispettive, laddove vi sia un’impossibilità totale della
prestazione, la parte è liberata e il contratto si risolve automaticamente. Nell’ipotesi
di impossibilità sopravvenuta parziale (in cui a divenire impossibile è solo una parte
della prestazione dovuta), l’altra parte – ai sensi dell’art.1464 – può chiedere la
riduzione della prestazione dovuta o, in alternativa, se non ha più interesse nella
prestazione, lo scioglimento del contratto (e quindi la risoluzione). La risoluzione per
impossibilità sopravvenuta dev’essere poi richiamata rispetto alla fattispecie di
impossibilità di contratti plurilaterali, poiché - anche in questo caso – i contratti si
basano sull’essenzialità, cioè alla funzionalità: se il singolo vincolo si sarebbe potuto
risolvere senza problemi, il contratto sarebbe rimasto valido per le altre prestazioni;
in caso di contratto essenziale sarebbe venuto meno il contratto anche sulle altre
prestazioni.

132
La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta è disciplinata all’art.1467 (e
seguenti):
“Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se
la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi
di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può
domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'articolo 1458.
La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra
nell'alea normale del contratto.
La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di
modificare equamente le condizioni del contratto”.
Abbiamo a che fare, anche in questo caso, con contratti a prestazioni corrispettive in
particolar modo nei casi di prestazioni continuate o periodiche o a esecuzione
differita (ove l’esecuzione non è immediata o istantanea, ma differita o prolungata).
In queste ipotesi è possibile che – a seguito di eventi imprevisti – si crei un’eccessiva
onerosità della prestazione dovuta. In questi casi, se si supera un limite
rappresentato dal rischio che – ragionevolmente – le parti si sono assunte in un
determinato contratto, sarà possibile richiedere la risoluzione del contratto.
A questa risoluzione potrà rispondere la parte avvantaggiata, offrendosi di
ricondurre a equità le condizioni del contratto.

Questi rimedi, come quelli della rescissione, non si applicano ai contratti aleatori
(dove si ha assoluta incertezza sui sacrifici reciproci), poiché le prestazioni non sono
state determinate in modo certo, ma le parti hanno lasciato al rischio e
all’incertezza la determinazione delle singole prestazioni. I rimedi – e in particolar
modo la risoluzione – valgono per contratti con prestazioni corrispettive, ma nel
caso di eccessiva onerosità, il rimedio proposto dall’ordinamento non sarà quello
della risoluzione – e quindi dello scioglimento -, ma la riduzione della prestazione
dovuta.

133
08/04/20

Elementi fondamentali di responsabilità extracontrattuale

Nell’analisi delle obbligazioni e del contratto, siamo partiti da una riflessione circa la lettura
dell’art.1173 del Codice civile. In particolare, abbiamo visto come siano fonti delle
obbligazioni: il contratto, il fatto illecito e ogni altro atto idoneo a costituire rapporti
obbligatori nel nostro sistema. Abbiamo visto come il contratto abbia una serie di
caratteristiche tali da renderlo uno strumento utile nella società e diffuso per consentire
tutta una serie di attività economiche e di trasferimento di beni.
A partire da questo momento focalizzeremo la nostra attenzione sulla fonte del fatto
illecito, in particolare in riferimento alla responsabilità extracontrattuale, ovvero l’ipotesi in
cui un soggetto subisca un danno a seguito di una condotta tenuta da un altro consociato,
a prescindere dall’esistenza di un precedente rapporto tra le parti.
Le norme di riferimento sono molto poche, in particolar modo le si ritrova dall’art.2043
fino all’art.2059: sono quindi solamente quindici articoli che regolano una disciplina molto
più ampia e frequente della quotidianità. Si tratta, generalmente, di argomenti molto
trattati in dottrina e oggetto di moltissima giurisprudenza, proprio perché si parla di ipotesi
in cui si richiede un danno senza un precedente rapporto obbligatorio e dunque spesso si
richiamano queste norme per cercare di capire effettivamente i rapporti di responsabilità
tra le parti, al punto che tale responsabilità viene definita extracontrattuale (per
distinguerla dalla responsabilità per inadempimento, ai sensi dell’art.1218), oppure civile
(definizione impropria, ma che dà l’idea della rilevanza di questa responsabilità).

La norma che rappresenta il fulcro di tutta la disciplina è l’art.2043:


“Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui
che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Da questa norma possiamo derivare la centralità di alcuni elementi: la centralità di un fatto
(illecito) imputabile al danneggiante che cagioni un danno ad altri; il dolo o la colpa del
danneggiante; il nesso causale tra fatto ed evento dannoso e il danno. Solo in presenza di
tutti questi elementi necessari si potrà parlare di responsabilità extracontrattuale (dunque
perché si possa avere diritto al risarcimento del danno).

- Il fatto

134
Il fatto è ciò che materialmente cagiona il danno, il quale può essere derivante dal
comportamento dell’uomo (in tal caso parleremo di atto) o un fatto materiale/naturale cui
la legge imputa la responsabilità ad un soggetto).
La condotta (ovvero l’atto) può essere, a sua volta, di due tipi: condotta commissiva
(quando materialmente un soggetto compie un’attività di facere), oppure una condotta
omissiva (quando si ha un’attività di non facere). Quest’ultima diviene rilevante laddove sia
posta in essere in violazione di un obbligo giuridico imposto dall’ordinamento, oppure
qualora si vìolino regole di diligenza e correttezza previste dall’ordinamento.
Tuttavia, tale fatto non dev’essere solamente presente, ma dev’essere anche illecito: vi
sono una serie di casi in cui il fatto illecito è espressamente tipizzato dalla legge. Per
esempio, l’art.182//c.2 del Codice Penale, dispone che ogni reato che abbia cagionato un
danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento del danno. Si intende
pertanto che, in casi di illecito penale, sia previsto conseguentemente l’illecito civile (e
dunque il risarcimento del danno). Bisogna dire però che, in realtà, nell’ambito del diritto
civile non abbiamo a che fare con un illecito tipico (come nel caso degli illeciti penali, i quali
sono espressamente previsti dalla legge), ma vige l’atipicità dell’illecito civile. Un riscontro
sembra essere dato proprio dall’art.2043, laddove ci si riferisce a “qualunque fatto doloso
o colposo”, esprimendo una sorta di clausola generale con cui si cerca di comprendere
quando effettivamente un fatto è illecito.
È necessario dunque capire quando un danno può essere ritenuto ingiusto. A riguardo vi è
stata un’ampia evoluzione dottrinale e giurisprudenziale. In particolare, si è ritenuto – già
da tempi piuttosto risalenti – che il danno ingiusto fosse il danno arrecato contra ius
(violando un diritto del danneggiato) e non iure (non giustificato da altre ragioni).
Conseguentemente si è cercato di comprendere quando un danno fosse contra ius,
ritenendo – finalmente - che comportasse un danno ingiusto la lesione di diritti assoluti
(diritti della persona e diritti riguardanti lo status della persona) e diritti reali. Solo a seguito
di un’importante pronuncia dei primi anni Settanta, si è ammessa la risarcibilità dei diritti
di credito, ovvero ipotesi in cui si prevede la possibilità di configurare una responsabilità
extracontrattuale a seguito di un fatto che ha cagionato l’estinzione del diritto di credito (si
veda il “caso Meroni”).
L’evoluzione giurisprudenziale, nell’ottica di ampliare la configurazione del danno ingiusto
non si fermò a questa prima pronuncia. Dunque, oggi non si ritiene più danno ingiusto
solamente la violazione dei diritti assoluti e reali, ma si reputano risarcibili anche la lesione
di situazioni di fatto e – ancor più recentemente – le ipotesi di lesione di interesse
legittimo: ipotesi in cui, indirettamente, si tutela l’interesse del privato ad un’attività
espressa nell’interesse generale da parte della pubblica amministrazione. Dopo la sentenza
500 del ’99 si attribuisce a questo privato un diritto al risarcimento del danno (ai sensi
dell’art.2043) per violazione del suo interesse. Conseguentemente dobbiamo dire che la

135
nostra giurisprudenza si è sempre più ampliata, ritenendo il concetto del danno ingiusto
una figura comprensiva di qualsiasi interesse che – pur non essendo protetto come un vero
e proprio diritto soggettivo – può essere tutelato dall’ordinamento. In questi casi è
possibile rintracciare una serie di indici normativi che, nel nostro sistema, tutelano certe
posizioni e interessi e - riconoscendoli - ne garantiscono la risarcibilità.
Tuttavia, per risarcire il danno (ai sensi dell’art.2043) non basta che il fatto sia compiuto
contra ius, ma dev’essere anche un danno realizzato non iure, cioè non dev’essere
compiuto come espressione di un diritto. Si intravedono così quelle che vengono dette
cause di giustificazione [alcune delle quali sono disciplinate agli art.2044 (in materia di
legittima difesa) e 2045 (in materia di stato di necessità)], le quali fanno venir meno
l’antigiuridicità della condotta del soggetto, dunque la condotta non è più contra ius, ma
diviene iure (ovvero giustificata dall’ordinamento). Queste cause sono rappresentate
dall’esercizio del diritto. Vi sono però anche altre cause di giustificazione: si pensi, ad
esempio, alla figura legata all’adempimento del dovere, cioè l’ipotesi in cui da una norma
di pubblica utilità deriva l’obbligo di compiere una certa attività. In questo caso, il soggetto
danneggiante si limita a realizzare l’attività richiesta dalla pubblica autorità e, nel recare un
danno, viene giustificato dall’ordinamento stesso.
All’art.2044 viene poi fatta menzione della figura della legittima difesa: in questa ipotesi si
realizza la fattispecie per cui, a fronte di una lesione illegittima alla persona o ai beni di un
consociato, la legge assicura alla vittima (o ad un testimone) di intervenire al fine di
sventare o far venir meno l’aggressione. Così facendo si possono cagionare dei danni
all’aggressione, di cui però la vittima dell’aggressione non risponderà in via risarcitoria. Ne
deriva che – affinché si realizzino gli estremi dell’art.2044 – saranno necessari:
un’illegittima aggressione ad un soggetto o al patrimonio del consociato; una situazione di
pericolo attuale (derivata dall’aggressione stessa); l’inevitabilità della situazione di pericolo
(cioè che questa non fosse in alcun modo evitabile); la non-imputabilità al soggetto
aggredito della situazione di pericolo; la strumentalità dell’offesa (che dev’essere stata
volta a neutralizzare l’aggressione) e, infine, la proporzionalità fra difesa ed offesa. Se
ricorrono questi presupposti, l’aggressione del soggetto aggredito, potrà essere giustificata
dall’ordinamento.
Un’ulteriore ipotesi riguarda il consenso dell’avente diritto, il cui caso tipico è
rappresentato dal paziente sottoposto ad operazioni. Nel caso in cui si riceva il consenso
dell’avente diritto, l’eventuale condotta volta a recare un danno, può essere giustificata
dall’ordinamento.
Inoltre, vi sono tutta una serie di altre ipotesi rappresentate soprattutto dalla
partecipazione ad attività pericolose. In questi casi i soggetti giustificano
automaticamente gli eventuali danni che si possono subire a seguito di questa attività, per
cui non saranno dovuti risarcimenti.

136
L’ultima ipotesi da evidenziare, con riferimento all’art.2045, è lo stato di necessità, ovvero
l’ipotesi in cui il soggetto che ha compiuto il fatto dannoso è costretto a compierlo dalla
necessità di salvare sé o altri dalla situazione di pericolo attuale di un danno grave alla
persona. Si tratta di un’ipotesi che può essere – per alcuni tratti – similare alla legittima
difesa. In realtà non è espressamente così: in particolar modo, non si tratta – in questo
caso – di ricevere un’aggressione, ma è data dalla necessità di salvare sé o altri da un
pericolo attuale con conseguente danno grave. In altri termini, saranno necessari
determinati presupposti: il pericolo alla vita, alla salute e all’integrità fisica del
danneggiante o di un terzo; la situazione di pericolo dev’essere seria, attuale e
imprevedibile, nonché inevitabile ed involontaria; infine, ci dev’essere una proporzionalità
fra il fatto dannoso e il pericolo.
Tuttavia, nell’ipotesi di stato di necessità – a differenza della legittima difesa – il terzo è
innocente: ne deriva che sarà dovuto al terzo danneggiato un’indennità. Ciò comporta che
– mentre nelle ipotesi finora osservate si esclude l’ingiustizia del danno e l’antigiuridicità
della condotta, comportando la giustificazione del comportamento e conseguentemente
configurando una causa di giustificazione – vi è un qualche dibattito riguardo l’effettiva
riconduzione dello stato di necessità alle cause di giustificazione, proprio perché in ogni
caso è dovuta un’indennità la cui assenza comporterebbe (senza colpa) un danno al terzo
innocente. Ai fattori sopra elencati, che comportano la dichiarazione dello stato di
necessità, è necessario aggiungere anche l’imputabilità del fatto, cioè è essenziale che il
soggetto – nel momento in cui ha commesso il fatto – fosse capace di intendere e di volere.
In altri termini, il danneggiante dev’essere in grado di comprendere quale fosse la portata
della propria condotta (e per questo dev’essere imputabile). Ciò che è rilevante, quindi, è
la capacità naturale del soggetto, che coincide con quella delittuosa (non è un problema
legato alla capacità di agire). Chiaramente, qualora il soggetto non sia capace di intendere
e di volere, non potrà essere ritenuto responsabile e dunque tenuto al risarcimento del
danno. Non può però essere considerata una valida causa per escludere l’imputabilità del
danneggiante l’ipotesi in cui l’incapacità sia stata determinata dal soggetto stesso (ad
esempio, i casi di droga e alcool), in casi del genere il soggetto viene comunque ritenuto
consapevole e dunque imputabile del danno arrecato. Tuttavia, sempre all’art.2043, si
richiama espressamente l’elemento soggettivo. In altri termini, richiede che il soggetto
danneggiante fosse in dolo o in colpa (quindi che avesse un comportamento doloso o
colposo) per essere ritenuto responsabile. Ciò significa che, in questo caso, si parla di un
dolo molto diverso: mentre nel caso dei vizi della volontà il dolo è rappresentato da raggiri
funzionali volti a creare una volontà distorta, nell’ottica della responsabilità
extracontrattuale il dolo è rappresentato dall’intenzionalità della condotta, cioè il soggetto
compie un atto con il fine specifico di produrre un determinato evento dannoso. Non è
però necessario che abbia espressamente il fine di danneggiare, ma è sufficiente che vi sia

137
l’intenzionalità della condotta e quindi che il soggetto abbia – ad esempio – accettato il
rischio che, a seguito della sua condotta, può verificarsi un certo danno. Sono molto rare le
ipotesi di illecito doloso, cioè i casi in cui è sufficiente la colpa del soggetto per far scattare
il risarcimento del danno. Vi sono però ipotesi in cui non è materialmente possibile agire
secondo una condotta di colpa. Queste sono le ipotesi degli atti emulativi: cioè i casi in cui
un soggetto che voglia arrecare un danno ad un terzo, se configura un atto emulativo (il cui
elemento fondamentale è la volontà di recare un danno), l’illecito che si crea è
necessariamente doloso. In altri termini, la colpa rileva nelle ipotesi in cui vi è una mancata
correlazione tra condotta e standard di comportamento richiesto dall’ordinamento.

- La colpa
La colpa generica è configurata da tre ipotesi: negligenza, imprudenza e imperizia che, a
differenza dell’inosservanza delle leggi previste dall’ordinamento, non sono specifiche. In
queste ipotesi sarà necessario capire cosa si intende per ciascuna delle figure.
- Negligenza: è l’assenza dell’attenzione richiesta da una certa attività;
- Imprudenza: è la mancanza delle necessarie misure di cautela;
- Imperizia: è l’inosservanza delle regole tecniche che disciplinano una certa attività.
Il parametro di valutazione delle tre categorie è ritenuto essere quello del bonus pater
familia, ovvero di un uomo mediamente coscienzioso, accorto e preparato nell’ottica
anche della professionalità richiesta in certe attività. Ciò che è rilevante è solitamente il
livello della colpa: dunque il comportamento colposo (e quindi la prova del
comportamento negligente, imprudente o imperito o dell’inosservanza di una norma
prevista dall’ordinamento) per far scattare la responsabilità extracontrattuale. La prova del
dolo o della colpa del danneggiante dev’essere fornita dal danneggiato e, a seguito di
un’eventuale prova positiva, si avrà la possibilità di richiedere un risarcimento integrale (si
deve cioè cercare di compensare pienamente il danno subito).
Quanto detto vale per la cosiddetta responsabilità per colpa, cioè l’ipotesi in cui è richiesto
perlomeno un elemento soggettivo (di dolo nei casi in cui la condotta abbia l’intento
specifico di produrre un danno; e di colpa laddove la condotta derivi dall’inosservanza di
leggi e normative previste dall’ordinamento o da un comportamento negligente,
imprudente ed imperito). Tuttavia, l’ordinamento non configura una responsabilità
extracontrattuale solo nei casi di responsabilità per colpa, perché conosce – ad esempio –
le ipotesi di responsabilità oggettiva. Sono soggetti a responsabilità oggettiva quegli
individui che sono ritenuti responsabili anche in assenza di dolo o colpa. Ne è un esempio
l’art.2049:
“I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro
domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”.

138
Ciò significa che – in questo caso – i datori di lavoro saranno ritenuti responsabili a
prescindere da dolo o colpa per una condotta dei loro dipendenti, purché essa sia stata
posta in essere nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. In questo caso si vuole
quindi riconoscere la responsabilità ai datori di lavoro, per il solo fatto di usufruire dei
servigi dei lavoratori dipendenti. Si pone pertanto a carico di questi soggetti una
responsabilità soggettiva, cioè che – per essere fatta valere – non richiede la prova del dolo
o della colpa dei datori di lavoro.
Il tema delle figure diverse della responsabilità per colpa non si esaurisce con la
responsabilità oggettiva, infatti conosciamo ipotesi in cui si ha una responsabilità
aggravata, ovvero una serie di fattispecie in cui la posizione del danneggiato viene
fortemente tutelata rispetto all’ipotesi della regola generale (per cui spetta al danneggiato
provare la colpa del danneggiante). In questo caso non è il danneggiato a dover fornire la
prova della colpa del danneggiante, ma è il danneggiante stesso a dover fornire una prova
liberatoria, cioè che l’evento si sarebbe prodotto a prescindere dall’assenza di prova. Un
esempio può essere fatto con riferimento all’art.2048//c.3:
“Il padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei
figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi. La
stessa disposizione si applica all'affiliante.
I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un'arte sono responsabili del danno
cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro
vigilanza.
Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se
provano di non aver potuto impedire il fatto”.

- Il nesso di causalità
Nell’indicare gli elementi fondamentali della responsabilità extracontrattuale, abbiamo
fatto espresso riferimento al nesso di causalità: la connessione che si stabilisce tra il fatto e
l’evento lesivo; ci si vuole dunque assicurare che sia proprio la condotta del danneggiante
ad essere la causa dell’evento. Il tema, però, non è semplice dal momento che da una
causa principale possono originarsi una serie di concause. Il nesso viene poi distinto in
materiale e giuridico. Ciò che è rilevante, ai fini del nesso materiale, è che si realizzi la
conditio sine qua non, cioè l’ipotesi per cui – senza il verificarsi di una data causa – si
sarebbe potuto in qualche modo verificare un certo atto. La giurisprudenza fa riferimento
al giudizio sulla causalità materiale, valutando se l’evento si sarebbe verificato o meno in
assenza di una determinata condotta. Una volta dimostrato che l’evento sia conditio sine
qua non, si richiede anche che sia da valutare – ai sensi dell’insegnamento
giurisprudenziale – il criterio del “più probabile che non”. In altri termini, non si ritiene –

139
differentemente dall’ipotesi del diritto penale – che debba valere il principio “dell’aldilà di
ogni ragionevole dubbio”, cioè – affinché scatti una certa responsabilità penale – è
necessario provare che questo determinato fatto abbia prodotto un effetto aldilà di ogni
ragionevole dubbio. Nell’ambito del diritto civile vige un criterio meno rigoroso, per cui è
sufficiente che si realizzi il criterio del “più probabile che non”, ovvero: è più probabile che,
in assenza di quella condotta, non si sarebbe verificato un certo effetto. Tuttavia, è
importante capire come questo attenga alla causalità materiale, cioè a quella casualità che
deve avvenire tra il fatto e l’evento. Un altro profilo è quello della logica di comprendere
se, in caso di diverse condotte che sono state collegate ad un certo evento per via della
causalità materiale, quali tra le condotte che hanno comportato l’evento sono
giuridicamente rilevanti, per questo si parla di causalità giuridica. La valutazione, a questo
punto, viene compiuta attraverso il criterio della causalità adeguata o della regolarità
causale: ovvero, si valuta se una determinata condotta sia normalmente – sulla base delle
regole di comune esperienza – adeguata a comportare un determinato evento dannoso.
Solo nel caso in cui la condotta sia conditio sine qua non dell’evento e che normalmente
comporti un determinato danno; allora – solo all’esito positivo di questo doppio giudizio
(di causalità materiale e causalità giuridica, in particolare adeguata) – sarà possibile
ipotizzare un risarcimento del danno.
Sono poi interessanti le discipline che possono derivare dal rinvio della disciplina per
inadempimento (o responsabilità contrattuale). In particolare, con riferimento agli articoli
2055/2056, si torna su alcune regole che possono essere inserite nel contesto:
- 2055: “Se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido
al risarcimento del danno.
Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura
determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall'entità delle conseguenze che
ne sono derivate.
Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali”.
- 2056: “Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le
disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227.
Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze
del caso”.
All’art.2055//c.1 torna la regola delle obbligazioni solidali, laddove il fatto dannoso sia
imputabile a più persone. In particolare, si evidenzia la necessità di configurare – nell’ottica
dei rapporti interni dei soggetti che hanno compiuto il fatto dannoso – una misura
determinata in base alla gravità della rispettiva colpa e dell’entità delle conseguenze
derivate. In ogni caso, le singole colpe – ove non vi siano elementi per desumerle – si
presumono uguali. Inoltre, l’art.2056 rinvia – e in alcuni casi non rinvia – ad alcune norme
fondamentali in materia di risarcimento dei danni. Ciò significa che in materia di

140
responsabilità extracontrattuale valgono le regole sul nesso di causalità (si risarciscono solo
le conseguenze immediate e dirette); il giudice può valutare equitativamente – in assenza
di strumenti specifici per quantificare il danno – e valgono le regole del concorso di colpa
del danneggiato (se il soggetto danneggiato concorre al verificarsi del danno, il
risarcimento potrà essere ridotto o azzerato). Fra gli articoli richiamati, però, non si fa
riferimento all’art.1225 in materia di prevedibilità del danno. L’articolo prevede che, in
caso di mancato adempimento, saranno risarcibili solo i danni prevedibili, a meno che non
si tratti di un inadempimento doloso. Ciò significa che il mancato richiamo sia stato
interpretato in modo che, nell’ipotesi di responsabilità extracontrattuale, siano risarcibili
tutti i danni (prevedibili e non).

- Il danno
Abbiamo visto come un danno richiamato più volte sia il danno che rappresenta
sostanzialmente l’evento dannoso (danno-evento), altro discorso va fatto invece per il
danno-conseguenza, il quale dev’essere oggetto di risarcimento. Questo danno
rappresenta pertanto l’alterazione negativa della situazione del soggetto danneggiato,
quindi ciò che si evidenzia come violazione (e quindi riduzione) della situazione pregressa.
La perdita di chances, invece, è sostanzialmente la perdita di un’occasione concreta ed
effettiva di conseguire un determinato bene o un risultato utile. Secondo la moderna
giurisprudenza, in questi casi si ritiene che – se vi è un’elevata probabilità di avveramento
dell’occasione – sia risarcibile anche la semplice perdita di chances.
Il danno è da distinguere in un danno patrimoniale e non patrimoniale, a seconda che vi
sia la lesione di interessi giuridici ed economici del danneggiato (danno patrimoniale),
oppure di interessi della persona non connotati da rilevanza economica (danno non
patrimoniale). Questa distinzione può risultare centrale perché, come vedremo, i due
danni vengono disciplinati diversamente: il primo (patrimoniale) fa riferimento alle
normative finora osservate, il secondo (non patrimoniale) fa riferimento ad un’unica
norma all’art.2059 (“Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi
determinati dalla legge”). Vedremo poi come, in realtà, questa disposizione sia stata
largamente superata dalla giurisprudenza, la quale ha previsto una risarcibilità più ampia
anche per il danno non patrimoniale.
Il risarcimento del danno (che può essere prevedibile e non) può avvenire per equivalente
o in forma specifica: per equivalente è il risarcimento rappresentato dalla compensazione
tramite il versamento di una somma di denaro al soggetto in grado di compensare il
pregiudizio subito; in forma specifica, invece, è rappresentato dalla rimozione diretta del
pregiudizio verificatosi. Statisticamente, l’ipotesi più diffusa è quella del risarcimento per

141
equivalente, mentre il risarcimento in forma specifica è assai meno diffuso. Quest’ultimo
viene disciplinato all’art.2058:
“Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in
parte possibile.
Tuttavia, il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la
reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”.
Da ciò deriva che il risarcimento per eccellenza venga rilevato nel risarcimento per
equivalente (cioè nel versamento della somma di denaro al fine di compensare i pregiudizi
sofferti dal danneggiato), perché il risarcimento in forma specifica è sottoposto a due
ordini di limiti: il primo legato alla possibilità (o meno) di realizzarlo; in secondo luogo
questo risarcimento può risultare eccessivamente oneroso per il debitore rispetto al
risarcimento per equivalente.
In ogni caso, la regola generale è quella di un risarcimento integrale: si deve cioè cercare di
mettere la vittima dell’illecito in una condizione per cui questi non riceva né più né meno di
quanto necessario per reintegrarlo nella situazione che si sarebbe avuta qualora l’evento
non si fosse mai verificato.
Se questa è la regola generale, non sono da escludersi però ipotesi in cui la vittima possa
ricevere un risarcimento maggiore (eventualità piuttosto limitate, come nei casi punitivi).

Un ultimo riferimento va fatto ai danni non patrimoniali (cioè che riguardano la lesione di
interessi non aventi rilevanza economica). L’art.2059 è l’unica norma che disciplina
espressamente questi profili e si limita a prevedere che il danno non patrimoniale debba
essere risarcito solo in casi determinati dalla legge. Questo ha a lungo significato che
fossero risarcibili i danni non patrimoniali a seguito di reato, perché si prevedeva
espressamente che – dal momento che il reato comportava un illecito civile – il danno
poteva essere risarcito; o i danni morali soggettivi, cioè legato alla sofferenza transeunte
dell’anima della vittima (una sorta di cifra data per il fatto stesso di subire danni di tipo
morale). In realtà, per un verso, sono letteralmente esplose le ipotesi in cui si prevedono in
diversi ambiti possibili disposizioni di legge che comportino risarcimento di danni non
patrimoniali e, d’altra parte, la giurisprudenza si è molto evoluta con riferimento al
risarcimento di tutti i casi in cui si abbia lesione di diritti inviolabili della persona
riconosciuti dalla Costituzione. Nel caso di violazione di questi diritti, infatti, dalle Sezioni
Unite di San Martino del novembre 2008, si è riconosciuto il risarcimento del danno non
patrimoniale in tutti i casi previsti dalla legge e in tutti i casi in cui si abbia la lesione di
diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla legge. Inoltre, si prevedeva un unico danno
non patrimoniale: una nozione unitaria legata alla lesione di valori che riguardano in senso
lato la persona e non caratterizzati da rilevanza economica. Tuttavia, si continuano a
distinguere delle sottocategorie di danno non patrimoniale, cui si attribuiscono soltanto

142
delle funzioni di tipo descrittivo (cioè non si dovrebbero espressamente risarcire in modo
autonomo): il danno morale, il danno biologico (rappresentato da lesioni temporanee o
permanenti dell’integrità psicofisica del soggetto, che è però suscettibile di accertamento
medico legale); e il danno esistenziale (rappresenterebbe una compromissione della
dimensione esistenziale della persona, quindi un danno tale da sconvolgere le abitudini e
lo stile di vita della persona). In questo ambito ci si muove nell’ottica di sottocategorie
descrittive, prevedendo però la risarcibilità solamente di un unico danno non patrimoniale.
Inoltre, in ogni caso, questo danno andrà allegato e provato dal danneggiato (o colui il
quale ne invoca il risarcimento). Il danno crea una serie di ulteriori problemi con
riferimento ai danni di futili o modeste dimensioni, si prevede infatti la risarcibilità del
danno non patrimoniale solo in caso di danni non bagatellari, cioè solo in caso di danni
gravi e significativi. Il problema maggiore, però, riguarda la liquidazione del danno: cioè
come procedere, una volta accertata la presenza di un danno non patrimoniale, alla
quantificazione. Un ruolo significativo in quest’ambito è da riconoscere alla valutazione
equitativa del giudice, al quale spetta stabilire la determinazione di un danno. Un
contributo rilevante in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, e in particolare in
tema di liquidazione di danno biologico, può essere riconosciuto all’applicazione delle
tabelle del tribunale di Milano: tabelle che agevolano il difficile compito di liquidazione del
danno non patrimoniale.

L’azione della responsabilità extracontrattuale, differentemente dalla responsabilità per


inadempimento (prescrizione ordinaria di dieci anni), si prescrive in cinque anni.

Un quadro generale

Una prima differenza tra responsabilità contrattuale (o per inadempimento) e


responsabilità extracontrattuale è che la prima fa riferimento soltanto alla capacità di agire
(quindi alla capacità legale), la seconda presuppone invece la capacità di intendere e di
volere del danneggiante.
Nell’ipotesi di responsabilità per inadempimento il risarcimento del danno è limitato ai
danni prevedibili (per i casi prevedibili, ai sensi dell’art.1225, sono riconosciute solo le
ipotesi di inadempimento doloso), nel campo della responsabilità extracontrattuale,
invece, sono risarcibili i danni prevedibili e imprevedibili (quindi un quantum risarcibile
astrattamente più ampio).
L’azione con la quale si chiede il risarcimento del danno, nel campo della responsabilità
contrattuale, è soggetta a prescrizione ordinaria decennale; nell’ambito di responsabilità

143
extracontrattuale – invece – la prescrizione sarà di soli cinque anni (vi sono poi ipotesi in
cui questa può restringersi ulteriormente).
Inoltre, nell’ambito della responsabilità per inadempimento e in quello della responsabilità
extracontrattuale cambia l’onere della prova: in un caso, il soggetto creditore si limita a
dover provare il credito (il danno di cui chiede il risarcimento) e il nesso causale tra danno
e inadempimento, mentre l’altra parte dovrà provare di aver correttamente eseguito la
prestazione; mentre, nell’altro caso – invece – il danneggiato deve provare il danno, il
nesso causale (tra danno lamentato e fatto illecito) ma anche il fatto illecito stesso e la
colpa (il dolo del danneggiante – a meno che non si tratti di una colpa oggettiva) [vedi
sopra].
Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, poi, non possono – secondo una
giurisprudenza consolidata – essere ritenute cumulabili: si è ritenuto che in ipotesi in cui si
possa scegliere se, a seguito di un evento, il soggetto possa avvalersi di un’azione di
responsabilità o meno. Quindi nel caso di un soggetto trasportato questo può agire
avvalendosi di strumenti di tipo contrattuale (quindi agire con azioni legate al contratto di
trasporto o, in generale, con azioni di risarcimento legate all’art.1218 e seguenti), oppure
può avvalersi di uno strumento di tipo extracontrattuale, dunque ai sensi dell’art.2043. In
questi casi, viene data questa possibilità perché il soggetto potrebbe – per una qualche
ragione – preferire agire con un’azione anziché con l’altra. In ogni caso, si dovrà
espressamente indicare di quale azione il soggetto abbia intenzione di avvalersi.
Nell’ipotesi di una mancata scelta, il giudice opterà automaticamente per la responsabilità
extracontrattuale. Ovviamente, di qualsiasi responsabilità il soggetto scelga di avvalersi, i
risarcimenti non saranno cumulabili.

144
145

Potrebbero piacerti anche