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CAPITOLO II – IL DIRITTO PRIVATO E LE SUE FONTI

Paragrafo 10 “Diritto pubblico e diritto privato.”


Una distinzione tradizionale è quella tra diritto pubblico e diritto privato.
Il diritto pubblico disciplina l’organizzazione dello Stato e degli altri enti pubblici, regola la
loro azione e impone ai singoli il comportamento che sono tenuti a rispettare per la vita
associata. Attiene in gran parte all’esplicazione dei pubblici poteri:
• individua gli organi competenti ad esercitarli
• le modalità del loro esercizio
• la posizione e le tutele dei privati di fronte ad atti di esercizio di poteri pubblici.
Diritto privato, invece, disciplina le relazioni Inter individuali sia dei singoli che degli enti
privati, lasciando all’iniziativa personale anche l’attuazione delle norme e l’esercizio dei
diritti attribuiti agli individui.
Per quanto riguarda il diritto privato si parla sempre di disposizioni in base alle quali il
singolo, individuo o ente, non si viene a trovare in situazioni di soggezione di fronte a un
potere pubblico, ma sempre su un piano di eguaglianza con gli altri individui.
Il confine tra diritto privato e diritto pubblico è variabile, in quanto:
o lo Stato può avocare a sé la realizzazione di funzioni un tempo lasciate ai privati (essa
la scuola) e viceversa (si pensi alle privatizzazioni);
o può sanzionare penalmente comportamenti un tempo considerati di mero interesse
privato e viceversa.
È, inoltre, incerto, in quanto:
o enti pubblici possono svolgere attività di diritto privato in concorrenza con aziende
private e possono essere concessionari verso soggetti privati di servizi pubblici (ad
esse ferrovie);
o lo Stato o altro ente pubblici possono avere il controllo di società di diritto privato in
qualità di azionisti di maggioranza.
Quindi non tutto ciò che riguarda i soggetti pubblici e i beni pubblici appartiene al diritto
pubblico. Infatti i soggetti pubblici possono operare anche iure privatorum (es. Università
statale può stipulare un contratto di locazione proprio del diritto privato per assicurarsi la
disponibilità di maggiori spazi); sui beni pubblici talvolta possono costituirsi rapporti di
diritto privato (es. Un comune può concedere a privati l’uso saltuario o continuativo di una
propria sala); gli enti pubblici talora aversi buono finalità o svolgono servizi di pubblico
interesse per il tramite di società per azioni di diritto privato (come nel caso della raccolta
dei rifiuti o delle locazioni di energia).
Inoltre uno stesso fatto può essere disciplinato talvolta sia da norme di diritto privato sia da
norme di diritto pubblico: ad esempio l’investimento di un pedone da parte di un
automobilista fa scattare sia la sanzione penale per lesioni colpose, sia quella
amministrativa, in questo caso consiste nella sospensione della patente di guida, sia la
sanzione civile del risarcimento del danno (art. 2043 c.c.).

Paragrafo 11 “Distinzione tra norme cogenti e norme derogabili.”


Le norme di diritto privato si distinguono in derogabili e inderogabili, anche dette cogenti.
Le prime sono le norme la cui applicazione può essere evitata mediante un accordo degli
interessati; le seconde invece sono quelle norme la cui applicazione è imposta
dall’ordinamento, prescindendo la volontà dei singoli. È solito poi individuare un ulteriore
categoria di norme, quelle suppletive, le quali sono destinate a trovare applicazione solo
quando i soggetti privati non abbiano provveduto a disciplinare un determinato aspetto dei
rapporti tra loro. Ad esempio l’articolo 1193, comma uno, c.c., attribuisce al debitore che
abbia più debiti nei confronti del debitore la possibilità di dichiarare, nel momento in cui
paga, quali dei debiti intende soddisfare; Ma qualora ciò non avvenga, interviene in via
suppletiva l’articolo 1193, comma due, c.c., il quale dispone a quale dei debiti deve essere
imputato il pagamento del debitore.
Chiaramente l’osservanza delle norme privatistiche inderogabili richiede, in caso di
violazione, l’iniziativa del singolo il cui diritto soggettivo sia stato leso, in quanto non spetta
agli organi pubblici far rispettare norme di diritto privato: ad esempio qualora un lavoratore
subordinato rinunci all’aumento di retribuzione per le ore di lavoro straordinario, rinuncia
non è valida perché tale aumento è dovuto in forza dell’articolo 2118 del codice civile, che
in questo caso viene identificato come norma cogente; quindi soltanto l’ interessato può
pretendere la maggiore retribuzione che gli è garantita dalla legge, come dicevamo prima
nessuno organo pubblico può intervenire sostituendosi al privato nell’esercizio dei suoi
diritti. Con la norma dispositiva detta un criterio di disciplina nel caso in cui la volontà dei
singoli non si è manifestata: ad esempio l’art. 1815 del c.c. stabilisce che se le parti non
hanno convenuto diversamente il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante;
infatti le parti possono escludere, l’operatività di tale regola e pattuire in mutuo gratuito.
Il carattere cogente di una norma risulta spesso:
> dalla sua formulazione, es. art. 147 c.c. in cui si parla dell’obbligo dei coniugi di
mantenere istruire, educare e assistere i figli;
> dalla previsione della nullità dell’atto compiuto in caso di violazione della norma o in
caso di contrasto con limiti specifici alla libertà dei privati di regolare i loro rapporti.
Nel caso invece nell’individuazione del carattere derogabile, per quanto riguarda la
formulazione possiamo rinvenirlo in espressioni come “salvo diversa volontà delle parti”.

Paragrafo 12 “Fonti delle norme giuridiche.”


Per fonti di produzione delle norme giuridiche si intendono gli atti normativi e i fatti in grado
di produrre norme, diritto. Gli atti sono quelle fonti che costituiscono l’esplicazione
dell’attività di un determinato organo o autorità muniti del potere di produrre norme. I fatti
invece sono ad esempio le consuetudini che si sono affermati nel tempo come le regole
giuridiche di condotta.
Quando invece parliamo di fonti di cognizioni facciamo riferimento a quei documenti e
quelle pubblicazioni da cui si può prendere conoscenza del testo normativo (es. Gazzetta
Ufficiale).
Quando si tratta di un atto, si può individuare:
o l’organo investito del potere di emanarlo (il Parlamento);
o il procedimento formativo dell’atto;
o il documento normativo (la legge);
o i precetti ricavabili dal documento (attraverso l’interpretazione del testo).
Ogni ordinamento deve innanzitutto stabilire le norme sulla produzione giuridica quindi
capire a quali autorità, organi, e con quali procedure si è affidato il potere di emanare
norme giuridiche. È inoltre necessario regolare il rapporto gerarchico tra le stesse fonti
generatrici di norme giuridiche, quindi precisare, nel caso in cui due o più fonti diverse
stabiliscano regole tra loro contrastanti, quale debba prevalere. Nel nostro paese la
gerarchia delle fonti è sempre stata interessata da profondi mutamenti, provocati,
soprattutto negli ultimi anni, dall’affermarsi di fonti del diritto non statali.
L’articolo uno delle disposizioni sulla legge in generale, anche dette preleggi, ordina le
fonti ponendo al primo posto la legge, al secondo i regolamenti al terzo le norme
corporative e all’ultimo gli usi. Dopo la caduta del fascismo, li norme corporative hanno
chiaramente perso la loro efficacia; nonostante ciò le altre fonti e numerati dallo stesso
articolo hanno conservato il loro valore secondo l’ordine gerarchico dettato; A quell’elenco,
nel dopo guerra, si sono aggiunte altre importanti fonti: prima fra tutte la costituzione,
entrata in vigore nel 1948, dopo essere stata approvata dall’assemblea costituente ed
eletta successivamente al referendum celebrato subito dopo la seconda guerra mondiale,
che assegnò allo Stato la forma repubblicana in luogo di quella monarchica. In questo
modo la gerarchia delle fonti interne è risultata così ricostruita:
1) i principi definiti supremi da cui discendono i diritti inviolabili, cosicché queste norme
appaiono in suscettibili di modifica o revisione;
2) le disposizioni della Carta Costituzionale e delle leggi costituzionali;
3) le leggi statali ordinarie e altre fonti elencate all’articolo uno delle preleggi, oltre
ovviamente poi alle leggi regionali e le norme di matrice comunitaria.

Paragrafo 13 a) “La Costituzione e le leggi di rango costituzionale”


La Costituzione assolve alla funzione di fondamentale norma sulla produzione
giuridica. Stabilisce, dunque, regolano il procedimento di formazione delle leggi, la
disciplina degli atti normativi. Tali disposizioni, di carattere costituzionale, si integrano con
gli art.1 e 2 delle Disposizioni sulla legge in generale: mentre il primo pone la gerarchia
delle fonti, il secondo precisa che la formazione delle leggi e l’emanazione degli atti del
Governo aventi forza di legge sono disciplinate da leggi di carattere costituzionale.
La Costituzione italiana pone anche altre regole e principi che si atteggiano a limiti
sostanziali all’attività del legislatore.
Si vedano ad esempio, oltre al principio di uguaglianza, le norme che prevedono i
fondamentali diritti e doveri dei cittadini, come quelle che sanciscono ad es. la libertà
di pensiero, di circolazione, di associarsi e via dicendo: una legge ordinaria che violasse
questi diritti sarebbe illegittima. I principi supremi enunciati dalla Costituzione sono
ritenuti in grado di costituire un limite allo stesso potere del legislatore costituzionale, in
quanto non sarebbero suscettibili di revisione. Le leggi di revisione della Costituzione,
le altre leggi costituzionali devono essere approvate con un’apposita procedura,
chiaramente più complessa di quella prevista per le leggi ordinarie, regolata dall’art. 138
della Costituzione. La Costituzione italiana dunque è rigida, in quanto:
o nessuna legge ordinaria può modificarla (o modificare un’altra legge di rango
costituzionale),
o né contenere disposizioni in contrasto con norme costituzionali.
L’organo istituito appositamente per stabilire se disposizioni di una legge ordinaria siano in
conflitto con le norme costituzionali, è la Corte Costituzionale. Il suo controllo si esplica
in due vie principali:
1. in via incidentale, ossia quando un giudice chiamato a decidere una specifica
controversia ritiene di dover applicare una determinata norma di legge che gli appare
sospetta di incostituzionalità e quindi deve rimettere gli atti del processo alla Corte
Costituzionale;
2. in via principale, ossia quando il giudizio di costituzionalità viene promosso dal
Governo contro le leggi regionali che eccedono la competenza legislativa delle regioni,
o da una Regione contro le leggi dello Stato o di un’altra regione che legano la sua
sfera di competenza.
Come si intende, non è consentito ai singoli privati rivolgersi direttamente alla corte
costituzionale per denunziare l’illegittimità di una legge. La Corte, nel momento in cui
ritiene illegittima la norma presa in esame, dichiarerà con sentenza l’incostituzionalità della
disposizione che cesserà di avere efficacia dal giorno successivo della pubblicazione della
decisione, come stabilito dall’art. 136 della Costituzione. Alle fonti di rango costituzionale
appartengono anche le norme del diritto internazionale consuetudinario il cui fondamento
risiede nell’art. 10 della Costituzione. Secondo quest’ultimo non solo entrano a far parte
dell’ordinamento senza la necessità di una legge di ratifica da parte del Parlamento, ma
godono anche della stessa forza vincolante della Carta Costituzionale, in quanto
anche se non possono essere modificate o contraddette da una legge ordinaria. È da
precisare che la stessa posizione gerarchica non è riconosciuta al diritto internazionale
convenzionale, che ha la base nella legge che autorizza alla ratifica la quale alla stessa
forza vincolante appunto di tutte le altre leggi ordinarie.

Paragrafo 14 b) “Le leggi dello Stato e le leggi regionali”


Le leggi statali ordinarie sono approvate dal Parlamento con una procedura
dettagliatamente disciplinata dalla Carta Costituzionale negli art. 70 e seguenti della
Costituzione. La legge ordinaria può modificare o abrogare qualsiasi norma non avente
valore di legge, mentre non può essere modificata o abrogata se non da una legge
successiva, come stabilito all’art. 15 delle Disposizioni sulla Legge in generale. Vi sono
materie che non possono essere regolate se non mediante leggi e quindi non possono
essere disciplinate da fonti normative di rango inferiore. Alle leggi statali sono equiparati i
decreti legislativi delegati e decreti legge di urgenza. Si tratta di provvedimenti aventi
forza di legge emanati dal Governo e non dal Parlamento, in virtù:
> o di una legge di delega del Parlamento che deve:
1. specificare l’oggetto della delega
2. i principi e criteri direttivi ai quali il governo deve attenersi, come stabilito dall’articolo 76
della Costituzione, in cui viene imposto il rispetto dei limiti della delega, poiché
altrimenti il decreto risulterebbe incostituzionale per eccesso di delega;
> o in presenza di “casi straordinari di necessità e urgenza”, ma in tal caso è
necessario che il decreto-legge del governo venga riconvertito in legge dal Parlamento
entro 60 giorni, altrimenti perde di efficacia fin dall’inizio (art. 77 della Costituzione).
La legge ordinaria può essere abrogata con referendum popolare, come enunciato
dall’art. 75 Costituzione.
Il ruolo delle leggi regionali e il rapporto di queste con quelle statali sono stati
profondamente innovati. L’art. 117 della Carta costituzionale approvata nel 1948:
o conferiva alle regioni un potere legislativo nell’ambito di un insieme determinato di
materie;
o ponendo il diritto di fonte regionale in posizione sottordinata rispetto a quello dello
Stato.
Il vigente testo dell’art. 117, modificato dalla L. cost. 18 ottobre 2001 insiema a tuto il
Titolo V, regola i rapporti tra leggi dello Stato e leggi regionali anzitutto definendo le
rispettive competenze, dividendo:
1. materie di legislazione esclusiva dello Stato « giurisdizione e norme processuali;
ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa »
2. materie di legislazione concorrente tra Stato e regione, nel caso delle quali la potestà
legislativa spetta alle Regioni, mentre allo Stato la determinazione dei « princìpi
fondamentali »
3. materie di legislazione delle Regioni, che includono tutte quelle materie non
espressamente riservate alla legislazione dello Stato.
Dunque il criterio fondamentale cui si ispirano i rapporti tra legge statale e regionale non è
più quello della gerarchia, bensì quello della competenza, in quanto sono stabiliti distinti
ambiti di operatività, rispettivamente, della legislazione statale e regionale. Il principio di
gerarchia torna ad operare nelle materie di legislazione concorrente, poiché in tal caso allo
Stato spetta la funzione di stabilire i «princìpi fondamentali », ai quali la legge regionale si
deve attenere.

Paragrafo 15 c) “I regolamenti”
Subordinate alle leggi vi sono altre fonti di diritto, ossia i regolamenti, che in quanto tali,
vengono definiti fonti “secondarie”. Possono essere emanate dal Governo, dai ministri e
da altre autorità amministrative, anche non statali, come le c.d. «autorità indipendenti».
Essi hanno contenuto normativo, in quanto pongono norme generali ed astratte, ma
provengono dall’autorità amministrativa, non dal potere legislativo, e possono
riguardare le materie più varie: in particolare quelle in forza di una «delega» o
«autorizzazione » contenuta in una legge, che può fare rinvio, per completare la disciplina,
a successivi regolamenti (es. i regolamenti della Consob n materia di disciplina dei mercati
finanziari). Chiaramente, come stabilito dall’art.4 delle Preleggi, «i regolamenti non
possono contenere norme contrarie alle disposizioni di legge »: dunque, se un giudice
rilevi l’esistenza di un contrasto tra norma regolamentare e norma di legge, egli è tenuto a
disapplicare la prima, ossia a non tenerne conto nella risoluzione della controversia.
Quando un regolamento sia impugnato davanti ad un giudice amministrativo quest’ultimo,
a differenza del giudice civile, ha il potere di provvedere con sentenza all’annullamento del
regolamento contrario alla legge. Perciò:
a) se il regolamento è annullato, la sua efficacia viene rimossa, e non è più applicabile
neppure a casi concreti diversi da quello che ha dato origine all’impugnazione;
b) se il regolamento viene disapplicato, rimane in vigore, in quanto non viene
semplicemente applicato al caso in questione, ma potrebbe essere applicato ad altri
casi in cui il giudice non ravvisasse un’incompatibilità tra regolamento e legge.

Paragrafo 16 d) “Le fonti comunitarie”


Ha acquistato valore prevalente rispetto alle stesse leggi ordinarie statali tutta la normativa
comunitaria. l’ingresso dell’Italia prima nelle Comunità Europee e poi nell’Unione Europea
è avvenuta mediante l’adesione a trattati internazionali, quali il Trattato sull’Unione
Europea, il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, che rispetto all’ordinamento europeo sono fonti
originarie del diritto comunitario. La valenza costituzionale dei trattati viene affermata
sulla base del disposto dell’art. 11 Cost., alla stregua del quale sono ammissibili
limitazioni della sovranità nazionale per consentire la partecipazione del nostro paese ad
organizzazioni internazionali. È sulla base dello stesso che si può affermare:
• da una parte, l’equiparazione dei Trattati alla Carta costituzionale
• dall’altra, la prevalenza del diritto comunitario (quindi non solo dei Trattati) sulle
fonti interne.
All’art.117, comma 1 della Costituzione, viene affermato che: «La potestà legislativa è
esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
Di recente, la CGUE ha ribadito che gli organi nazionali di ultima istanza sono chiamati a
fare « tutto il necessario » non solo affinché venga applicato il diritto di fonte comunitaria,
ma anche affinché venga applicata l’interpretazione che di tale diritto viene fornita dalla
Corte di Giustizia.
Le fonti derivate di matrice comunitaria sono:
> i regolamenti (art. 288, comma 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione
Europea, detto TFUE), che sono atti di portata generale e obbligatori in tutti i loro
elementi e contengono norme applicabili dai giudici dei singoli Stati membri; come è
stato chiarito dalla Corte di Giustizia e dalla Corte Costituzionale, in caso di contrasto
tra un regolamento e una legge interna, il giudice italiano deve «disapplicare» la
norma interna e applicare, con prevalenza, la norma regolamentare, anche qualora sia
posteriore a quest’ultima;
> le direttive (art. 288, comma 3, del TFUE), che si rivolgono agli organi legislativi degli
Stati membri ed hanno lo scopo di armonizzare le legislazioni interne dei singoli
Paesi; a differenza dei regolamenti, le direttive non sono immediatamente efficaci
nell’ordina- mento dei singoli Stati, ma devono essere «attuate» mediante
l’emanazione di apposite leggi dei rispettivi Parlamenti, dette leggi di «recepimento»
della direttiva; uno Stato che si renda inadempiente all’obbligo di attuare una direttiva
entro il termine previsto dalla stessa può essere sanzionato dagli organi comunitari;
inoltre, si ritiene che, qualora le norme della direttiva siano sufficientemente specifiche
e sia scaduto il termine per la sua attuazione, gli organi della Pubblica Amministrazione
vi si debbano uniformare, anche in assenza di un’apposita legge di recepimento;
pertanto i privati possono pretendere che gli apparati pubblici orientino la loro condotta
in modo coerente con le disposizioni della direttiva, in quanto la stessa è vincolante per
lo Stato; infine un cittadino che abbia subito un danno a causa del mancato o tardivo
recepimento della direttiva può chiedere il risarcimento allo Stato;
> le decisioni (art. 288, comma 4, del TFUE), che sono atti che disciplinano
normalmente situazioni ben definite, e sono vincolanti soltanto per i soggetti
destinatari specificamente individuati, es. persone fisiche o giuridiche, oppure Stati
membri; con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le decisioni possono essere
anche di portata generale, es. di carattere organizzativo, di politica estera ecc.
La Corte di giustizia dell’Unione europea ha competenza, ai sensi dell’art. 267 TFUE, in
tema di interpretazione dei trattati, nonché di validità e interpretazione degli atti
compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione. Infatti, qualora un
giudice nazionale ritenga che la questione su cui debba decidere comporti l’applicazione
di una norma comunitaria, il cui significato sia dubbio, può sospendere il giudizio e
chiedere alla Corte di giustizia in via pregiudiziale un’interpretazione della norma. Le
sentenze interpretative così emesse dalla Corte sono vincolanti, nel senso che
prevalgono pure sulle norme di legge incompatibili, determinandone la disapplicazione.
Per consentire una tempestiva attuazione delle direttive, è stato elaborata la «legge
comunitaria», ossia una legge generale, approvata anno per anno, con la quale il
Parlamento delega al Governo l’emanazione dei decreti legislativi di attuazione di un
insieme di direttive, delle quali sia in scadenza il termine di attuazione. Il procedimento è
stato più analiticamente regolato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 234, la quale prevede che
entro il 28 febbraio di ogni anno il Governo presenti una «legge di delegazione europea»,
alla quale ne può seguire un’altra, entro il 31 luglio, relativa al secondo semestre
dell’anno. È prevista anche la «legge europea», per dare attuazione agli atti europei e ai
trattati internazionali stipulati nell’ambito delle relazioni esterne dell’Unione.

Paragrafo 17 e) “La consuetudine”


Vi sono due modi tipici di produzione del diritto: la consuetudine e la legge. La prima non
è stata mai oggetto di grandi attenzioni, poiché negli ordinamenti contemporanei, per
ragioni di certezza del diritto e per la crescente complessità del sistema normativo, si
privilegiano senz’altro le fonti scritte. Si ritiene che una consuetudine sussista quando
ricorrono:
1. la ripetizione, generale e costante in un determinato ambiente, per un determinato
periodo di tempo, di un certo comportamento osservabile come regola di condotta tra i
privati;
2. un atteggiamento di osservanza di quel comportamento in quanto ritenuto,
nell’ambiente sociale considerato, doveroso, il quale esplica al meglio la concezione di
«giuridicità» della consuetudine, in quanto l’uso viene recepito all’interno di una
determinata collettività di individui come fonte di regole giuridiche, come tali coercitive.

L’uso normativo, invece, è norma giuridica che costituisce fonte di diritti tra i privati,
sicché il singolo che lamenti la lesione di un proprio diritto, derivante da una fonte
consuetudinaria, potrà rivolgersi al giudice per ottenere gli opportuni provvedimenti di
tutela di quel diritto. La consuetudine non è prevista né disciplinata dalla Costituzione.
Essa costituisce fonte del diritto in virtù dell’art.1 Preleggi. La consuetudine è fonte
subordinata alla legge e può operare solo nei limiti in cui la legge lo consente. Ciò vuol
dire che la consuetudine contra legem, come la desuetudine, non sono ammissibili.
Infatti l’art.15 delle Preleggi dispone che «le leggi non sono abrogate che da leggi
posteriori». L’art. 8, comma 1, delle Preleggi stabilisce che «nelle materie regolate dalle
leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati»: si
dicono perciò consuetudini secundum legem, quelle che operano in accordo con la legge
in quanto ad esse la legge fa rinvio (es. in materia vendita, per esempio, si vedano gli art.
1492, 1497, 1510 c.c.). Talora gli usi sono richiamati quali fonti di norme derogatorie
rispetto alla disciplina codicistica: in questo caso, la legge reca una norma applicabile
«salvo uso contrario» (es.: art. 1187 c.c.). Per le materie o fattispecie non disciplinate in
alcun modo da fonti scritte, cioè per le quali il diritto scritto è totalmente lacunoso, nulla è
espressamente disposto. Facendo riferimeento all’art. 8 Preleggi, i più ritengono che in
queste materie sia consentito ricorrere alla consuetudine per colmare le lacune del diritto.
La consuetudine potenzialmente rilevante come fonte integrativa della disciplina posta
dalle fonti scritte, è detta «consuetudine praeter legem». D’altro canto si deve osservare
che l’art. 12, comma 2, Preleggi prevede espressamente, quali tecniche di integrazione
del diritto lacunoso, l’analogia e il ricorso ai principi generali del diritto, non
menzionando affatto la consuetudine. Sulla base della disposizione menzionata, si può
sostenere che il ricorso a norme consuetudinarie sia consentito solo quando il caso in
esame non possa essere deciso mediante analogia, e neppure ricada sotto alcun principio
generale. Per il diritto consuetudinario: da un lato, vale il principio iura novit curia (ossia
il principio per cui l’esistenza di una norma non deve essere provata dalla parte che ne
chiede l’applicazione, in quanto l’ordinamento giuridico dello Stato è per definizione noto ai
giudici dello Stato) quindi il giudice deve applicare la consuetudine di cui sia a
conoscenza; dall’altro lato, è di fatto possibile che l’esistenza di una norma
consuetudinaria di cui una parte pretenda l’applicazione sia controversa e debba essere
obiettivamente accertata. In simili circostanze è la parte interessata all’applicazione della
una norma consuetudinaria ad avere l’onere di provarne l’esistenza. Tale attività
probatoria non è soggetta a forme legali, in quanto la prova può essere fornita facendo
ricorso ad ogni mezzo consentito per l’accertamento di fatti, es.documenti, testimonianze.
Esistono raccolte ufficiali di usi, che non hanno ovviamente alcun valore di fonte
normativa, ma determinano una presunzione semplice circa l’esistenza degli usi da esse
documentati (art. 9 disp. prel. c.c.). L’uso che abbia gli elementi su indicati si chiama uso
normativo e si distingue dagli usi negoziali (o contrattuali o convenzionali) che valgono
solo per l’integrazione degli effetti del contratto (artt. 1340 e 1374 c.c.), sia dagli usi
interpretativi, che assolvono ad una funzione interpretativa del contratto (art. 1368 c.c.).

Paragrafo 18 “Il codice civile”


Speciale rilievo tra tutte le leggi ordinarie dello Stato va riconosciuto a quel particolare tipo
di leggi che vengono definite « codici » (es. il codice civile). Il termine codice, che in
origine indicava genericamente un libro cucito sul dorso (codex), ha molteplici significati:

> inizialmente, si intendeva una raccolta di materiali normativi, come nel caso del
Codex inserito nel Corpus iuris civilis di Giustiniano, che raccoglieva un insieme di
Constitutiones imperiali;
> poi, superata la concezione di codice come una «raccolta» di leggi precedenti
(compilatio), si è passati a intenderlo come una legge del tutto nuova, che si
caratterizzi per le note dell’ organicità, della sistematicità (ossia il coordinamento
logico del materiale normativo), della universalità ed eguaglianza (in quanto la
disciplina del codice si rivolge in egual modo a tutti i consociati, svolgendo una
funzione unificatrice degli statuti giuridici delle diverse classi sociali).
Tale nuova concezione implica l’abrogazione di tutto il diritto precedente vigente nella
materia codificata, e l’accentramento della disciplina nell’intero territorio contemplato, per
favorire: l’univocità delle soluzioni e la facilità nel reperimento e nella consultazione del
materiale normativo. Qualificare una legge come «codice» di un intero settore, significa
che il legislatore intenda dare a quella materia un assetto organico, non precario, e
tendenzialmente di lungo periodo. Nella storia giuridica moderna (dal XVII e XVIII secolo),
ha assunto importanza rilevante il movimento per la codificazione, sia in campo
costituzionale (si pensi alle «Dichiarazioni dei diritti dell’uomo» approvate in Francia nel
periodo della Rivoluzione), sia nel campo del diritto privato. In questo specifico terreno, il
Medioevo aveva lasciato una situazione di estrema complessità, con una molteplicità di
fonti normative intersecantisi (diritto romano, diritto canonico ecc.) cui corrispondeva una
spesso disordinata pluralità di giurisdizioni, con la conseguenza di favorire l’incertezza e
l’arbitrio. Si chiedeva, perciò, di spazzar via il vecchio materiale, per sostituirlo con leggi
organiche e chiare, e addirittura poter introdurre norme da considerare universali ed
eterne, poiché dettate dalla, e conformi alla, «ragione»: non a caso l’idea di codice è
storicamente un prodotto dell’Illuminismo.

Tuttora nei Paesi di «diritto scritto», come quelli dell’Europa continentale, il codice civile,
riveste un ruolo di centralità nel sistema del diritto privato, regolando i soggetti (sia le
persone fisiche che quelle giuridiche, con identità di trattamento), i beni e i diritti sulle
cose, l’attività (in particolare il contratto), nonché i princìpi fondamentali sulla
responsabilità civile. Il codice si pone come necessario elemento di integrazione e
supporto di qualsiasi altra legge (che, proprio per questo, si dice, rispetto al codice,
«speciale », ossia «di specie», perché solo il codice è l’unica legge a carattere generale).
Il primo grande codice di diritto privato dell’età moderna è stato il Codice napoleonico,
emanato nel 1804, che, sorto nel clima culturale della Rivoluzione francese, favorì
efficacemente:

1. la diffusione dei princìpi dell’eguaglianza tra i cittadini,


2. l’idea del primato del diritto di proprietà,
3. il principio della libertà dei commerci e delle attività economiche tra i privati.

Il codice Napoleone ha avuto molto successo, tanto da essere stato pressoché


integralmente adottato in numerosi altri Paesi e da essere tuttora vigente in Francia, sia
pure attraverso numerosi adattamenti. Nel nostro Paese la vita dei codici, compreso il
codice civile, è stata particolarmente travagliata. Dopo l’unificazione del Regno d’Italia, fu
emanato il codice civile del 1865 (per larga parte ispirato al codice francese), insieme ad
un separato codice di commercio. Quest’ultimo fu sostituito nel 1882 da un nuovo codice
di commercio. Ma già nel 1938 cominciarono ad essere emanati singoli libri di un nuovo
codice civile, promulgato per intero nel 1942, nel quale fu assorbito anche il codice di
commercio. La scelta di emanare un nuovo codice nel corso di una grande guerra non fu
certo felice. E difatti nel dopoguerra sono stati numerosi i settori in cui sono state emanate
leggi che hanno profondamente modificato il tessuto originario del codice (basti pensare
alla riforma del diritto di famiglia, alle rilevanti modifiche in tema di lavoro subordinato,
ecc.). Va tuttavia sottolineato che l’ideologia imperante al momento dell’emanazione del
codice civile (quella della dittatura fascista) non ha lasciato tracce significative nel codice,
maturato ad opera di giuristi formatisi nel precedente clima liberal-borghese. Peraltro il
codice non esaurisce il sistema del diritto civile. Da un lato occorre tener presenti anche i
princìpi dettati con la Carta costituzionale del 1948, che, sebbene successiva al codice
di soli pochi anni, si dimostra ben più sensibile alle esigenze di perequazione sociale (art.
3, comma 2, Cost.); dall’altro è venuta costantemente crescendo di importanza la
legislazione speciale, che costituisce sia quantitativamente che qualitativa- mente un
mondo estremamente variegato e complesso, tale da non consentire più di considerare
necessariamente i princìpi codicistici come i più importanti. Naturalmente anche i codici,
essendo approvati con leggi ordinarie, sono soggetti al controllo di legittimità della
Corte costituzionale e possono essere sempre modificati (o addirittura, in tutto o in parte,
abrogati) da leggi ordinarie successive; spesso le modifiche vengono apportate con la
tecnica della «Novella», ossia sostituendo direttamente il testo di un articolo, ferma la
numerazione originaria (si vedano, ad es., gli artt. 143-145, il cui testo attuale,
profondamente diverso da quello originario, è stato intro- dotto dalla legge di riforma del
diritto di famiglia del 1975).

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