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Paragrafo 15 c) “I regolamenti”
Subordinate alle leggi vi sono altre fonti di diritto, ossia i regolamenti, che in quanto tali,
vengono definiti fonti “secondarie”. Possono essere emanate dal Governo, dai ministri e
da altre autorità amministrative, anche non statali, come le c.d. «autorità indipendenti».
Essi hanno contenuto normativo, in quanto pongono norme generali ed astratte, ma
provengono dall’autorità amministrativa, non dal potere legislativo, e possono
riguardare le materie più varie: in particolare quelle in forza di una «delega» o
«autorizzazione » contenuta in una legge, che può fare rinvio, per completare la disciplina,
a successivi regolamenti (es. i regolamenti della Consob n materia di disciplina dei mercati
finanziari). Chiaramente, come stabilito dall’art.4 delle Preleggi, «i regolamenti non
possono contenere norme contrarie alle disposizioni di legge »: dunque, se un giudice
rilevi l’esistenza di un contrasto tra norma regolamentare e norma di legge, egli è tenuto a
disapplicare la prima, ossia a non tenerne conto nella risoluzione della controversia.
Quando un regolamento sia impugnato davanti ad un giudice amministrativo quest’ultimo,
a differenza del giudice civile, ha il potere di provvedere con sentenza all’annullamento del
regolamento contrario alla legge. Perciò:
a) se il regolamento è annullato, la sua efficacia viene rimossa, e non è più applicabile
neppure a casi concreti diversi da quello che ha dato origine all’impugnazione;
b) se il regolamento viene disapplicato, rimane in vigore, in quanto non viene
semplicemente applicato al caso in questione, ma potrebbe essere applicato ad altri
casi in cui il giudice non ravvisasse un’incompatibilità tra regolamento e legge.
L’uso normativo, invece, è norma giuridica che costituisce fonte di diritti tra i privati,
sicché il singolo che lamenti la lesione di un proprio diritto, derivante da una fonte
consuetudinaria, potrà rivolgersi al giudice per ottenere gli opportuni provvedimenti di
tutela di quel diritto. La consuetudine non è prevista né disciplinata dalla Costituzione.
Essa costituisce fonte del diritto in virtù dell’art.1 Preleggi. La consuetudine è fonte
subordinata alla legge e può operare solo nei limiti in cui la legge lo consente. Ciò vuol
dire che la consuetudine contra legem, come la desuetudine, non sono ammissibili.
Infatti l’art.15 delle Preleggi dispone che «le leggi non sono abrogate che da leggi
posteriori». L’art. 8, comma 1, delle Preleggi stabilisce che «nelle materie regolate dalle
leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati»: si
dicono perciò consuetudini secundum legem, quelle che operano in accordo con la legge
in quanto ad esse la legge fa rinvio (es. in materia vendita, per esempio, si vedano gli art.
1492, 1497, 1510 c.c.). Talora gli usi sono richiamati quali fonti di norme derogatorie
rispetto alla disciplina codicistica: in questo caso, la legge reca una norma applicabile
«salvo uso contrario» (es.: art. 1187 c.c.). Per le materie o fattispecie non disciplinate in
alcun modo da fonti scritte, cioè per le quali il diritto scritto è totalmente lacunoso, nulla è
espressamente disposto. Facendo riferimeento all’art. 8 Preleggi, i più ritengono che in
queste materie sia consentito ricorrere alla consuetudine per colmare le lacune del diritto.
La consuetudine potenzialmente rilevante come fonte integrativa della disciplina posta
dalle fonti scritte, è detta «consuetudine praeter legem». D’altro canto si deve osservare
che l’art. 12, comma 2, Preleggi prevede espressamente, quali tecniche di integrazione
del diritto lacunoso, l’analogia e il ricorso ai principi generali del diritto, non
menzionando affatto la consuetudine. Sulla base della disposizione menzionata, si può
sostenere che il ricorso a norme consuetudinarie sia consentito solo quando il caso in
esame non possa essere deciso mediante analogia, e neppure ricada sotto alcun principio
generale. Per il diritto consuetudinario: da un lato, vale il principio iura novit curia (ossia
il principio per cui l’esistenza di una norma non deve essere provata dalla parte che ne
chiede l’applicazione, in quanto l’ordinamento giuridico dello Stato è per definizione noto ai
giudici dello Stato) quindi il giudice deve applicare la consuetudine di cui sia a
conoscenza; dall’altro lato, è di fatto possibile che l’esistenza di una norma
consuetudinaria di cui una parte pretenda l’applicazione sia controversa e debba essere
obiettivamente accertata. In simili circostanze è la parte interessata all’applicazione della
una norma consuetudinaria ad avere l’onere di provarne l’esistenza. Tale attività
probatoria non è soggetta a forme legali, in quanto la prova può essere fornita facendo
ricorso ad ogni mezzo consentito per l’accertamento di fatti, es.documenti, testimonianze.
Esistono raccolte ufficiali di usi, che non hanno ovviamente alcun valore di fonte
normativa, ma determinano una presunzione semplice circa l’esistenza degli usi da esse
documentati (art. 9 disp. prel. c.c.). L’uso che abbia gli elementi su indicati si chiama uso
normativo e si distingue dagli usi negoziali (o contrattuali o convenzionali) che valgono
solo per l’integrazione degli effetti del contratto (artt. 1340 e 1374 c.c.), sia dagli usi
interpretativi, che assolvono ad una funzione interpretativa del contratto (art. 1368 c.c.).
> inizialmente, si intendeva una raccolta di materiali normativi, come nel caso del
Codex inserito nel Corpus iuris civilis di Giustiniano, che raccoglieva un insieme di
Constitutiones imperiali;
> poi, superata la concezione di codice come una «raccolta» di leggi precedenti
(compilatio), si è passati a intenderlo come una legge del tutto nuova, che si
caratterizzi per le note dell’ organicità, della sistematicità (ossia il coordinamento
logico del materiale normativo), della universalità ed eguaglianza (in quanto la
disciplina del codice si rivolge in egual modo a tutti i consociati, svolgendo una
funzione unificatrice degli statuti giuridici delle diverse classi sociali).
Tale nuova concezione implica l’abrogazione di tutto il diritto precedente vigente nella
materia codificata, e l’accentramento della disciplina nell’intero territorio contemplato, per
favorire: l’univocità delle soluzioni e la facilità nel reperimento e nella consultazione del
materiale normativo. Qualificare una legge come «codice» di un intero settore, significa
che il legislatore intenda dare a quella materia un assetto organico, non precario, e
tendenzialmente di lungo periodo. Nella storia giuridica moderna (dal XVII e XVIII secolo),
ha assunto importanza rilevante il movimento per la codificazione, sia in campo
costituzionale (si pensi alle «Dichiarazioni dei diritti dell’uomo» approvate in Francia nel
periodo della Rivoluzione), sia nel campo del diritto privato. In questo specifico terreno, il
Medioevo aveva lasciato una situazione di estrema complessità, con una molteplicità di
fonti normative intersecantisi (diritto romano, diritto canonico ecc.) cui corrispondeva una
spesso disordinata pluralità di giurisdizioni, con la conseguenza di favorire l’incertezza e
l’arbitrio. Si chiedeva, perciò, di spazzar via il vecchio materiale, per sostituirlo con leggi
organiche e chiare, e addirittura poter introdurre norme da considerare universali ed
eterne, poiché dettate dalla, e conformi alla, «ragione»: non a caso l’idea di codice è
storicamente un prodotto dell’Illuminismo.
Tuttora nei Paesi di «diritto scritto», come quelli dell’Europa continentale, il codice civile,
riveste un ruolo di centralità nel sistema del diritto privato, regolando i soggetti (sia le
persone fisiche che quelle giuridiche, con identità di trattamento), i beni e i diritti sulle
cose, l’attività (in particolare il contratto), nonché i princìpi fondamentali sulla
responsabilità civile. Il codice si pone come necessario elemento di integrazione e
supporto di qualsiasi altra legge (che, proprio per questo, si dice, rispetto al codice,
«speciale », ossia «di specie», perché solo il codice è l’unica legge a carattere generale).
Il primo grande codice di diritto privato dell’età moderna è stato il Codice napoleonico,
emanato nel 1804, che, sorto nel clima culturale della Rivoluzione francese, favorì
efficacemente: