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Nozioni introduttive.
1. - Il diritto in senso oggettivo è la norma giuridica, cioè la regola socialmente garantita della
vita di relazione.
I rapporti tra uomo e uomo sono regolati da norme di varia natura, come ad es. le norme morali,
religiose, di etichetta, ecc. Ma è la stessa esperienza pratica che consente di distinguere tra le
varie norme sociali le norme giuridiche quali norme di cui la società garantisce l'osservanza
mediante sanzioni esterne di diverso tipo.
Si intuisce agevolmente, così, che è regola giuridica quella che impone di restituire il denaro
preso a mutuo mentre non lo è la regola che impone di trattare gentilmente l'ospite. La prima è
regola di diritto perché la società ne assicura il rispetto. La seconda regola, invece, non è
garantita dalla società e la sua violazione può incidere solo sulla estimazione del trasgressore.
2. - La nozione di diritto in senso oggettivo, e cioè quale norma giuridica, deve essere tenuta
distinta rispetto alla nozione di diritto in senso soggettivo.
In senso soggettivo il diritto è una posizione di vantaggio tutelata dalla norma giuridica. Se, ad
es., un soggetto dà a mutuo del danaro, egli ha un diritto di credito, e cioè ha la pretesa
giuridicamente tutelata a riavere il danaro dato. Questa pretesa è precisamente tutelata dalla
norma giuridica, che obbliga il debitore a restituire il denaro ricevuto.
3. - La complessità dei rapporti sociali esige una molteplicità di norme di diritto. L'insieme di tali
norme costituisce un ordinamento. L'ordinamento giuridico è il diritto di una società, cioè
l'insieme delle norme giuridiche che governano una società.
La realtà della vita associata presenta non solamente la sottoposizione a norme giuridiche ma
anche la tendenza degli associati gruppo ad organizzarsi. L'organizzazione può consistere nella
semplice ripartizione di funzioni tra i componenti di un gruppo o nella costituzione di centri di
poteri ai quale un gruppo si assoggetta.
Il gruppo organizzato si pone quale istituzione. L'istituzione è un gruppo sociale stabilmente
organizzato (es.: la famiglia, il Comune, lo Stato, ecc.).
Nell'ambito del nostro ordinamento giuridico la massima istituzione è lo Stato, il quale detiene il
potere legislativo ed esprime l'unità nazionale. Il nostro Stato si inserisce per altro nel più ampio
contesto dell'Unione Europea, alla quale sono attribuite talune competenze normative (n. 10).
4. - Momento essenziale della norma giuridica è quello della sua garanzia sociale, e questa
garanzia è data dalla sanzionabilità.
La norma giuridica è socialmente garantita da sanzioni esterne. La sanzione esterna è una
conseguenza sfavorevole prevista per l'inosservanza della norma e comporta la privazione di
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un bene o di un effetto giuridicamente vantaggioso.
Le sanzioni sono di diverso tipo. Fondamentalmente possono distinguersi sanzioni penali,
esecutorie, risarcitorie, e invalidatorie. Le sanzioni penali tendono a punire il trasgressore
mediante una punizione personale o patrimoniale. Sanzioni esecutorie sono quelle che attuano
specificamente l'interesse leso dalla violazione della norma (es.: la violazione della norma di
consegnare la cosa al proprietario importa la sanzione del rilascio coattivo: cfr. l'art. 2930 c.c.).
Risarcitorie sono le sanzioni che tendono a reintegrare il danno provocato dalla violazione della
norma (es.: il danneggiamento del bene altrui importa l'obbligo di risarcire il danno in danaro o
di riparare il bene: cfr. l'art. 2043 c.c.). Invalidatorie, infine, sono le sanzioni che tendono a
privare di efficacia l'atto compiuto in violazione della norma (es.: una donazione stipulata senza
la forma dell'atto pubblico è nulla (cfr. l'art. 782 c.c.).
Va ancora osservato che non basta che una disposizione sia contenuta in un testo di legge per
riconoscerle carattere giuridico. Anche una disposizione contenuta nel più importante testo
legislativo, il codice civile, può non essere norma giuridica. Si prenda ad esempio l'art. 315 c.c.
sui doveri del figlio verso il genitore. Questo articolo prevede il dovere del figlio di rispettare il
genitore e il dovere di contribuire, in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al
mantenimento della famiglia finchè convive con essa. Può facilmente intendersi come il primo
dovere sia meramente morale in quanto nessuna sanzione è prevista a carico del figlio per il solo
fatto che non rispetti il genitore. Giuridico è invece il dovere di contribuire al mantenimento
della famiglia in quanto, almeno in teoria, il figlio che non osservi tale obbligo potrebbe essere
condannato al pagamento del contributo dovuto.
5. - L'imperatività della norma giuridica consiste nella sua necessaria cogenza o inderogabilità.
La norma è inderogabile quando gli interessati non possono sostituirla nella sua applicazione
con altre norme legali o convenzionali. Tale, ad es., è la norma che sancisce la nullità della
donazione di beni futuri: cfr. l'art. 771 c.c.
L'imperatività della norma implica la indisponibilità dell'interesse protetto: o perchè si presume
che il soggetto non sia in grado di decidere liberamente del proprio interesse o perchè si tratta di
un interesse generale di cui può disporre solo la collettività.
L'imperatività è un carattere non essenziale del diritto. Accanto alle norme imperative vi sono
infatti le norme derogabili, e cioè le norme che gli interessati possono sostituire nella loro
applicazione con altre disposizioni legali o negoziali.
Es.: la norma prevede che i crediti liquidi ed esigibili di somme di danaro producono interessi
legali salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente (art. 1282 c.c.).
Le norme derogabili non sono norme imperative ma sono pur sempre socialmente garantite,
ossia munite di sanzione. Le norme derogabili possono infatti essere sostituite da altre
disposizioni, ma se questa facoltà non viene esercitata esse si applicano come tutte le altre
norme. CosÌ, se le parti non escludono la decorrenza degli interessi sulle somme liquide ed
esigibili, il debitore sarà obbligato a corrispondere tali interessi.
6. - La norma è generale quando è rivolta ad una generalità di destinatari (es.: ogni persona ha
diritto al nome: cfr l'art. 6 c.c.). La norma è astratta quando prevede un'ipotesi astratta e detta
una regola valevole per una serie indefinita di casi concreti riconducibili entro l'ipotesi prevista
(es.: qualora l'immagine di una persona sia pubblicata abusivamente l'autorità giudiziaria può
fare cessare l'abuso: cfr. l'art. 10 c.c.).
Generalità e astrattezza sono caratteri tipici della norma giuridica e consoni alla funzione della
regolamentazione stabile dei rapporti di una vasta comunità. Possono comunque aversi
eccezionalmente leggi destinate ad un determinato soggetto (es.: concessione di una pensione
speciale per meriti letterari) o disciplinanti una determinata fattispecie (es.: costituzione di un
ente giuridico pubblico).
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7. - Se il diritto è un fenomeno sociale si pone il problema di distinguere lo studio di esso rispetto
alle altre scienze sociali, e in particolare rispetto alla sociologia.
In termini netti la distinzione tra scienza del diritto e sociologia attiene all'oggetto, poichè la
prima indaga sulle norme giuridiche che regolano i rapporti sociali mentre la seconda indaga
sulle leggi naturalistiche di tali rapporti.
La sociologia può occuparsi anche di fenomeni giuridicamente rilevanti (sociologia giuridica) ma
sempre in quanto fenomeni governati da cause ed effetti naturali. Così, ad es., lo studio giuridico
della separazione personale tra coniugi è studio delle norme di diritto che la disciplinano, mentre
lo studio sociologico indaga sull' incidenza delle cause di separazione, sul collegamento di tali
cause con i fattori ambientali, sull' incremento del fenomeno in relazione all'evolversi dei
rapporti familiari, ecc.
Oltre che per l'oggetto la scienza del diritto e la sociologia si distinguono anche per le diverse
tecniche di ricerca. La sociologia procede infatti attraverso rilevamenti diretti dei comportamenti
sociali, avvalendosi di metodi sperimentali, indagini di opinioni, osservazioni statistiche, ecc. La
scienza del diritto elabora invece una propria tecnica di ricerca delle norme giuridiche sulla base
delle specifiche fonti del diritto verificate nella pratica degli orientamenti interpretati vi e
applicativi.
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tramandato la nota definizione di Ulpiano secondo la quale il diritto pubblico è quello che attiene
allo Stato mentre il diritto privato è quello che concerne l'utilità dei singoli (l).
Sulla base di questa definizione la distinzione è stata tradizionalmente formulata secondo il
criterio dell'interesse tutelato: il diritto pubblico tutela gli interessi della generalità dei consociati
(impersonata dallo Stato) mentre il diritto privato tutela l'interesse dei singoli.
Altro criterio di distinzione al quale si è fatto richiamo in dottrina è quello basato sui soggetti: il
diritto privato disciplinerebbe l'attività dei privati mentre il diritto pubblico disciplinerebbe
l'attività degli enti pubblici.
La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico non può tuttavia essere rigorosamente
fondata sulla natura privata o pubblica dei destinatari delle norme. Anzitutto, è già problematico
il criterio in base al quale identificare la natura privata o pubblica del soggetto. Comunque,
anche quando sia certa la natura pubblica del soggetto (ad es.: lo Stato), si ammette che i
rapporti da esso instaurati possono essere governati dal diritto privato. Si avverte cioè che vi
sono rapporti nei quali l'ente non esercita la sua speciale autorità e che quindi la disciplina di
essi non si discosta da quella propria dei comuni rapporti tra i consociati. Se, ad es., lo Stato
acquista dei beni o prende in locazione un immobile, varranno in linea di massima le stesse
regole che si applicano alle compravendite e alle locazioni.
10. - Il riconoscimento dello Stato come detentore supremo del potere autoritario non contrasta
col suo assoggettamento all'ordinamento internazionale. Quest' ordinamento vincola infatti lo
Stato nei suoi rapporti con altri enti internazionali ma non vincola anche i cittadini, i quali sono
soggetti alla norme valevoli all'interno dell'ordinamento statale. Affinchè una norma di diritto
internazionale si applichi nell' ambito dell' ordinamento statale è necessario che quest'ultimo la
recepisca e la renda efficace mediante apposita legge.
Un'importante deroga al principio dell'esclusivismo statale è ora rappresentata dal diritto
comunitario, cioè dal complesso delle norme emanate dalle autorità sovrannazionali. che
formano l'Unione Europea.
Il diritto comunitario ha la sua origine nel Trattato di Roma del 25 marzo 1957 (ratif. con 1. 14
ottobre 1957, n. 1203), firmato da un primo nucleo di Stati europei con la finalità immediata di
realizzare la loro unità economica in vista di una più stretta relazione politica e di un costante
progresso economico e sociale.
Al conseguimento di tali obiettivi furono preposti tre distinti enti: la Comunità Economica
Europea (CEE), la Comunità Europea dell'Energia atomica (EURATOM) e la Comunità Europea
del Carbone e dell' Acciaio (CECA). I poteri normativi, amministrativi e giudiziari attribuiti a tali
enti dettero vita al Mercato Comune Europeo (MEC).
Il processo di unificazione europeo doveva però andare oltre l'ambito del mercato portando alla
progressiva formazione di un ordinamento politico europeo sovrannazionale, nel quale gli
ordinamenti degli Stati membri si sono parzialmente integrati.
Il processo di unificazione europea, ancora in atto, ha avuto tappe importanti nei Trattati di
Maastricht del 7 febbraio 1992 (ratif. con 1. 3 novembre 1992, n. 454) e di Amsterdam del 2
ottobre 1997 (ratif. con 1. 16 giugno 1998, n. 209).
Col Trattato di Maastricht (art. 1) si è dato vita all'Unione Europea, organizzazione politica
sovrannazionale fondata sulle Comunità Europee.
La Comunità Economica è stata convertita in Comunità Europea (CE), volendosi anche nella
denominazione sottolineare l'ampliamento in senso politico e sociale delle finalità perseguite (2).
Il Trattato di Amsterdam ha apportato modifiche e integrazioni al sistema comunitario senza per
altro alterame le linee sostanziali.
Organi principali dell 'Unione sono attualmente il Parlamento europeo, avente funzioni
promozionali e consultive, il Consiglio, avente potere regolamentare, la Commissione, avente
funzioni organizzative, la Corte di giustizia e la Corte dei conti.
Gli atti comunitari possono vincolare gli Stati membri ma possono avere come diretti destinatari
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anche i cittadini di tali Stati. Il diritto comunitario è quindi vigente all'interno dell'ordinamento
statale senza che occorra di volta in volta una ratifica o un'apposita legge dello Stato (v. modulo
II, n. 11).
Il diritto comunitario non è un diritto straniero: esso è piuttosto il sistema normativo di
un'autorità sovrannazionale concorrente con quella dello Stato. L'ordinamento dello Stato si è
parzialmente integrato in questo sistema con la conseguente diretta partecipazione dei cittadini
al nuovo ordinamento comunitario.
La Comunità Europea è un ente sovrannazionale, la cui autorità - anche all'interno
dell'ordinamento statale - è indipendente rispetto allo Stato e non più rimessa alla sua
determinazione.
Nell'ambito della comunità nazionale il diritto comunitario può operare direttamente alla
stregua delle norme giuridiche statali. In questa sua operatività interna il diritto comunitario
incide anche su rapporti giuridici privatistici. Così, ad es., la disciplina della concorrenza attiene
a comuni rapporti economici dei privati, creando, attraverso imposizioni e divieti, reciproci
obblighi e pretese.
Ma l'incidenza privatistica si avverte anche e soprattutto con riguardo alle "libertà" comunitarie,
le quali integrano il diritto della persona garantendole nell'ambito di una più vasta comunità
l'esplicazione dell'iniziativa economica e delle scelte di lavoro.
La partecipazione dell' ordinamento comunitario ha quindi rappresentato una parziale rinunzia
all'esclusivismo e alla sovranità dello Stato. Si era dubitato se questa rinunzia fosse consentita
dalla nostra Costituzione. Ma questi dubbi appaiono superati già dalla effettiva operatività
sovrannazionale dell' ordinamento europeo. Sul piano formale la legittimità della rinunzia è stata
rinvenuta nella norma costituzionale che prevede le limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni (art. Il Cost.) (3).
(1) Publicum ius est quod ad statum rei romanae spectat, privatum quod ad singulorum
utilitatem (D. 1.1.1.2).
(2) Art. 1 del Tratt. di Maastricht del 7 febbraio 1992, come modificato dal Trattato di
Amsterdam del 2 ottobre 1997: con il presente trattato, le Altre Parti Contraenti istituiscono tra
loro un'Unione Europea, in appresso denominata "Unione" .
Il presente trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di un'unione sempre più
stretta tra i popoli dell'Europa, in cui le decisioni siano prese nel modo più trasparente possibile
e il più vicino possibile ai cittadini.
L'Unione è fondata sulle Comunità euorpee, integrate dalle politiche e forme di cooperazione
instaurate dal presente trattato. Essa ha il compito di organizzare in modo coerente e solidale le
relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli.
Art. 2. L'Unione si prefigge i seguenti obiettivi:
- promuovere un progresso economico e sociale e un elevato livello di occupazione e pervenire a
uno sviluppo equilibrato e sostenibile, in particolare mediante la creazione di uno spazio senza
frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l'instaurazione di
un'unione economica e monetaria che comporti a termine una moneta unica, in conformità delle
disposizioni del presente trattato;
- affermare la sua identità sulla scena internazionale, in particolare mediante l'attuazione di una
politica estera e di sicurezza comune, ivi compresa la definizione progressiva di una politica di
difesa comune, che potrebbe condurre ad una difesa comune, a norma delle disposizioni dell'art.
17;
- rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri mediante
l'istituzione di una cittadinanza dell'Unione;
conservare e sviluppare l'Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata
la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli
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alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro
quest'ultima;
- mantenere integralmente l' acquis comunitario e svilupparlo al fine di valutare in quale misura
si renda necessario rivedere le politiche e le forme di cooperazione instaurate dal presente
trattato allo scopo di garantire l'efficacia dei meccanismi e delle istituzioni comunitarie.
(omissis)
Art. 6. - l. L'Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell 'uomo e
delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri.
2. L'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell 'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, e quali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto
principi generali del diritto comunitario.
3. L'Unione rispetta l'identità nazionale dei suoi Stati membri. (omissis)
(3) L'Italia [ ... ] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
MODULO II
1. - Fonti del diritto sono gli atti o fatti dai quali traggono esistenza le norme giuridiche. Le fonti
del diritto si distinguono in diverse categorie. Tali categorie hanno differente efficacia normativa
in quanto le une prevalgono sulle altre (ad es., la legge prevale sul regolamento). L'ordine delle
categorie normative secondo la loro prevalenza costituisce la gerarchia delle fonti del diritto.
L'indicazione gerarchica delle fonti del diritto è contenuta nelle disposizioni preliminari al codice
civile secondo una formula che, nel testo originario, menzionava le leggi, i regolamenti, le norme
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corporative e gli usi (art. 1). La caduta del regime corporativo e la nuova realtà della Costituzione
repubblicana e dell 'Unione Europea hanno per altro modificato e integrato tale ordine.
Fonti formali del diritto devono ritenersi attualmente: A) le leggi costituzionali;
B) le leggi ordinarie; C) i regolamenti; D) gli usi. Al vertice di quest'ordine, accanto alle leggi
costituzionali, si pongono inoltre A') i regolamenti comunitari, cioè le norme dell'Unione
Europea aventi diretta e generale applicazione nell'ordinamento statale.
La prevalenza delle fonti normative secondo la loro gerarchia non deve essere confusa con
l'ordine di applicazione delle norme, e cioè con l'ordine di preferenza nell'applicazione delle
norme alle fattispecie giuridiche concrete. Tale ordine può variare secondo le previsioni
contenute nelle norme di grado superiore. Così, la legge può dettare regole da applicarsi in
mancanza di un diverso accordo delle parti o di norme consuetudinarie (sul luogo
dell'adempimento dell'obbligazione v., ad es., l'art. 1182 c.c.). In tal caso si applicherà anzitutto la
disposizione contrattuale, senza che per questo il contratto divenga una norma di primo grado
della gerarchia delle fonti.
2. - La legge è un precetto emanato dallo Stato nell'esercizio della sua suprema potestà
normativa, che è appunto la potestà legislativa.
La legge è posta tradizionalmente al vertice della gerarchia delle fonti (v. l'art. 1 disp. prel.). Ma
nell'ambito delle leggi statali una formale preminenza è stata attribuita alla Costituzione
(emanata il 27 dicembre 1947) e alle altre leggi costituzionali, deliberate dal Parlamento
mediante la speciale procedura di normazione costituzionale (art. 138 Cost.).
La Costituzione è la legge che enuncia le basilari scelte politiche del nostro ordinamento e
stabilisce la fondamentale organizzazione e funzione dei pubblici poteri.
La preminenza formale delle norme costituzionali si traduce in un limite posto alle leggi
ordinarie, le quali devono rispettare i principi costituzionali. Tale limite è garantito attraverso il
controllo della Corte costituzionale, la quale ha il compito di giudicare della legittimità
costituzionale delle leggi, cioè della loro conformità ai principi costituzionali (art. 134 s. Cost.).
La legge dichiarata costituzionalmente negli Stati europei alla fine del sec. XVIII e a introdurre
un insieme razionale e ben determinato di norme scritte facilmente comprensibili e applicabili. I
primi importanti codici furono il codice prussiano (emanato nel 1794), il codice civile austriaco
(emanato nel 1811) e il codice civile francese, detto anche codice Napoleone dal nome di
Napoleone I che ne promosse l'emanazione (1804). Più tardi fu emanato il codice civile tedesco
(entrato in vigore nel 1900).
Il codice civile francese, ancora oggi vigente, ebbe una vasta influenza sugli ordinamenti europei,
e in particolare sull 'Italia. Gli Stati italiani preunitari nella quasi totalità avevano adottato codici
ispirati al modello francese (nel Lombardo-Veneto vigeva invece il codice civile austriaco).
L'unificazione del Regno vide nel 1865 l'emanazione di un codice civile italiano destinato a
restare vigente fino al 1942.
Oltre al codice civile furono emanati un codice di commercio (1865), poi, sostituito da un nuovo
codice di commercio (1882) e altri codici per le materie processuali e penali.
Attualmente sono vigenti nel nostro ordinamento il codice civile, il codice della navigazione del
1942, il codice di procedura civile del 1940, il codice penale (1930) e il codice di procedura penale
(1989).
3. - Le leggi ordinarie sono in generale le leggi dello Stato, escluse quelle aventi carattere
costituzionale. La menzione di legge ordinaria è usata appunto per indicare che non si tratta di
legge costituzionale.
Nell'ambito delle leggi ordinarie si distingue tra codici e leggi speciali. Il codice è una legge che
disciplina organicamente un 'intera materia. Il codice non è una legge formalmente superiore
ad altre leggi. L'importanza del codice risiede tuttavia nella sistematicità e compiutezza della sua
disciplina.
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Il fenomeno della codificazione è relativamente recente. Esso è legato all'istanza illuministica
intesa a ridurre la complessità e l'oscurità del diritto vigente
l) Il primo libro è il libro delle persone e della famiglia. Esso contiene principalmente la
disciplina delle persone fisiche e giuridiche, del matrimonio e della filiazione.
2) Il secondo libro è quello delle successioni. Esso tratta delle successioni a causa di morte
(successione legittima e testamentaria) e della donazione.
3) Il terzo libro è il libro della proprietà. Esso riguarda la disciplina dei beni, dei diritti reali di
godimento e del possesso.
4) Il quarto libro è quello delle obbligazioni. Esso contiene la disciplina delle obbligazioni, dei
contratti e di altri fatti produttivi di obbligazioni (in particolare, dei fatti illeciti).
5) Il quinto libro è intitolato del lavoro. In questo libro sono contenute le norme relative al
rapporto di lavoro, all'impresa e alle società.
6) Il sesto libro, infine, è quello della tutela dei diritti. In esso trovano disciplina vari istituti
attinenti, tra l'altro, alle prove, alle garanzie del credito (pegno, ipoteca, ecc.), all'esecuzione
forzata.
4. – Il codice civile vigente è stato emanato nel 1942 ed ha sostituito il vecchio codice civile del
1865 e il codice di commercio del 1882.
Il 1942 è una data importante perché questo codice è stato emanato durante il regime fascista,
regime che di lì a poco sarebbe caduto con tutta l’ideologia che tale regime comportava.
Di fatto, l’influenza dell’ideologia fascista fu limitata.
Il codice conteneva, in effetti, norme indegne, ispirate a quella ideologia, quali quelle che
sancivano la discriminazione razziale. Ma, eliminate queste norme e quelle che facevano
riferimento al sistema corporativo, anch’esso abrogato, la struttura fondamentale del codice
civile è rimasta. Mutamenti radicali si sono avuto solo relativamente al diritto di famiglia.
Il codice civile si compone di articoli numerati (2969). Ogni articolo ha una propria intitolazione
detta rubrica e può dividersi in più periodi separati da un a capo, detti commi. Il testo del codice
si divide in sei libri preceduti da un gruppo di disposizioni preliminari sulla legge in generale.
Le disposizioni preliminari riguardano le fonti del diritto, l’interpretazione (mod. IV) e
l’applicazione della legge nel tempo (mod. V).
La Corte decide della legittimità costituzionale della legge quando la questione relativa le sia
deferita dal giudice ordinario o da altri organi pubblici competenti. La questione di legittimità di
una norma di legge può essere sollevata nel corso della causa in cui tale norma deve essere
applicata, ed è rimessa alla Corte se il giudice la reputa non manifestamente infondata (art. 23 1.
ult. cit.).
Le decisioni della Corte che dichiarano la illegittimità della norma sono pubblicate sulla Gazzetta
ufficiale.
I principi costituzionali hanno un'importanza fondamentale per il diritto privato ponendosi alla
base della disciplina dei rapporti della vita di relazione e affermando le garanzie essenziali della
persona, oltre che nei confronti del potere pubblico, anche direttamente nei confronti dei
consociati.
Con un'ampia formula che si richiama ai diritti inviolabili dell'uomo (art. 2), viene dato appunto
generale riconoscimento ai diritti della personalità, cioè a quei diritti che tutelano gli interessi
essenziali della persona. Nello "statuto costituzionale" della persona rientrano i tradizionali
diritti di libertà (libertà di pensiero, di religione, di associazione, ecc.) e i nuovi diritti di
solidarietà sociale (all'eguaglianza formale e sostanziale, al lavoro, alla sicurezza sociale, ecc.).
5. - Pur offrendo il codice una disciplina compiuta e organica della materia, sarebbe inesatto
pensare che esso esaurisca la legislazione di diritto privato. A questo riguardo bisogna piuttosto
considerare che il codice è largamente integrato dalle comuni leggi statali, dette anche speciali
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per distinguerle rispetto al codice.
Le legge che lo Stato emana nel corso del tempo sono numerose e poichè non sempre la legge
successiva abrogra interamente la legge precedente può risultare talvolta non agevole stabilire
quali norme relative a un dato istituito sono ancora vigenti e quali, invece, tacitamente decadute.
A questo inconveniente tendono ad ovviare i testi unici, che sono raccolte di norme vigenti
unitariamente coordinate ad opera di organi pubblici.
Se il testo unico è emanato nell' esercizio del potere legislativo esso costituisce una nuova legge, e
le norme anteriori che non siano incluse nel testo devono considerarsi abrogate (perchè l'istituto
riceve una nuova completa disciplina). Se, invece, il testo unico è emanato nell'esercizio del
potere regolamentare (senza delega legislativa), le norme vigenti non subiscono modifica alcuna,
e conservano il loro vigore anche se non richiamate nel testo.
In considerazione dell' ampiezza e importanza del loro oggetto alcuni testi unici hanno avuto
formalmente la denominazione di codici: così, ad esempio, il decreto legislativo 6 settembre
2005, n. 206, che raccoglie le disposizioni in tema di tutela del consumatore è intitolato ‘codice
del consumo'. Questi codici settoriali non sono tuttavia paragonabili ai codici che disciplinano
parti generali del diritto privato o pubblico.
Con i testi unici non devono essere confuse le raccolte private, cioè le riunioni
di disposizioni legislative compilate ad iniziativa di privati per semplice comodità di
consultazione. Queste raccolte sono talvolta pubblicate col nome di "codici" (es.: codice agrario,
codice del lavoro, ecc.). Ma tale titolo è improprio poichè, appunto, non si tratta di testi
legislativi unitari ma di semplici raccolte legislative compilate da privati.
6. - Le Regioni hanno potestà legislativa nelle materie non riservate alla legislazione statale e
nelle materie di legislazione concorrente. Nelle materie di legislazione concorrente la potestà
legislativa delle Regioni è comunque subordinata ai principi fondamentali posti dalle leggi dello
Stato (art. 117 Cost.).
Di massima esula invece dalla competenza regionale la disciplina dei rapporti privatistici.
In tal senso va anche tenuto presente il nuovo dettato dell'art. 117 Cost., lett. l) che attribuisce
allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di ordinamento civile e penale.
7. - Il regolamento è un precetto normativo di grado inferiore alla legge emanato dallo Stato o da
altri enti pubblici nell' esercizio della loro potestà regolamentare.
Si distingue tra regolamenti indipendenti e regolamenti esecutivi.
Regolamento indipendente è quello che contiene una disciplina autonoma del suo oggetto,
mentre il regolamento esecutivo detta norme di attuazione e di specificazione di una disciplina
principale.
Il regolamento è sempre di grado inferiore alla legge (art. 1 disp. prel.): esso non può contenere
norme contrarie a disposizioni legislative (art. 4 disp. prel.). Nell'ipotesi in cui una norma
regolamentare sia in contrasto con una legge, essa è
senz'altro inefficace e va quindi disapplicata.
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volontaria.
Sebbene non siano qualificabili come fonti formali del diritto, è certo tuttavia che i contratti
collettivi di diritto comune riescono in via di fatto ad esercitare un'efficacia normativa che va
oltre la cerchia degli iscritti incidendo sulla generalità dei rapporti di categoria.
Lo studio dei contratti collettivi appartiene al diritto del lavoro.
9. - Gli usi - detti anche consuetudine - sono quelle norme non scritte che un ambiente sociale
osserva costantemente nel tempo come norme giuridicamente vincolanti.
Gli usi non sono norme emanate in base ad un procedimento formale (in questo senso si parla di
norme non scritte). Essi tendono a formarsi spontaneamente ma la loro osservanza è poi quella
propria delle norme di diritto. Gli usi, cioè, sono accettati dall' ambiente sociale come norme
sanzionabili che disciplinano i rapporti tra i consociati.
Elementi costitutivi della consuetudine sono un elemento obiettivo o materiale, e cioè la
costante e uniforme ripetizione nel tempo di un determinato comportamento, e un elemento
soggettivo, cioè il convincimento della vincolatività giuridica di quel comportamento (c.d. opinio
iuris ac necessitatis).
Affinchè una consuetudine possa dirsi formata occorre, più precisamente, che
sussista anzitutto un comportamento sociale uniforme consolidato nel tempo.
Occorre poi che il comportamento sia tenuto come osservanza di norma giuridica. L'elemento
c.d. soggettivo, si noti, non deve essere inteso come opinione dei singoli soggetti sulla
vincolatività della regola. Ciò che conta, piuttosto, è che la generalità dei consociati si attenga
effettivamente alla norma consuetudinaria come norma di diritto.
Nel nostro ordinamento la legge statale dà agli usi un rilievo limitato. Essi occupano infatti
l'ultimo posto nella gerarchia delle fonti (art. 1 disp. prel.). Essi inoltre hanno efficacia
limitatamente alle materie che non siano regolate da leggi o regolamenti. Se si tratta di materie
regolate da norme di legge o regolamento la consuetudine può essere applicata solo in quanto sia
richiamata da tali norme (art. 8 disp. prel.).
Il codice, ad es., richiama gli usi in tema di vendita di animali stabilendo che la tutela del
compratore in caso di difetto dell'animale è disciplinata dalle leggi speciali o, in mancanza, dagli
usi locali o, in mancanza, dalle norme del codice (art. 1496 c.c.).
Per quanto non disposto dalle leggi speciali, dunque, la consuetudine può qui trovare
applicazione.
Chi invoca l'applicazione di una norma consuetudinaria ha l'onere di provarne esistenza. In
mancanza di tale prova il giudice non è tenuto ad applicare la consuetudine, salvo che questa gli
sia già nota.
La prova degli usi è data principalmente attraverso le raccolte pubblicate dalle camere di
commercio.
10. - Gli usi sono anche detti normativi per distinguerli dai c.d. usi negoziali o clausole d'uso (art.
1340 c.c.). Gli usi negoziali sono clausole che vengono usualmente inserite in un certo tipo di
contratto. Con riferimento a queste clausole la legge presume che esse siano volute dalle parti
anche nei casi in cui manchi nel contratto un espresso richiamo. La legge, cioè, presume che le
parti intendano adeguare il contenuto del contratto alle clausole normalmente convenute nella
pratica corrente e che non facciano menzione di tali clausole perchè ritengano superfluo
richiamarle.
La differenza tra usi normativi e usi negoziai i in teoria è netta: i primi sono una fonte formale di
norme giuridiche obiettive costitutive dell'ordinamento giuridico generale (anche se aventi
un'efficacia territoriale limitata); i secondi sono invece pratiche negoziali che si presumono
volute dalle parti sia pure senza un' espressa dichiarazione, e hanno quindi l’efficacia propria delle
clausole contrattuali.
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11. - Nelle aree di sua competenza l'Unione Europea ha la potestà di emanare
norme che sono direttamente efficaci all'interno degli Stati membri.
A differenza delle norme degli ordinamenti stranieri le norme comunitarie sono diritto vigente
nell'ordinamento statale (e applicate dai giudici statali). Ciò si spiega nel senso che
l'ordinamento dello Stato si è integrato parzialmente ne Il ' ordinamento comunitario e che
quindi i cittadini dello Stato sono partecipi di questa nuova organizzazione sovrannazionale e
assoggettati al suo diritto.
Il diritto comunitario ha la sua fonte principale nei regolamenti. Il regolamento comunitario è un
atto normativo di portata generale direttamente applicabile all'interno degli Stati membri.
Superando una certa resistenza iniziale connessa all'idea dell' esclusivismo statale, i regolamenti
comunitari sono ormai riconosciuti come norme giuridiche che non dipendono dalla ratifica
degli Stati membri e che non sono neppure modificabili da parte della legge statale. Nel
contrasto tra questa e il regolamento comunitario è quindi il regolamento a prevalere.
Il regolamento comunitario si sottrae pure al giudizio di incostituzionalità, che è riservato alle
leggi statali e regionali.
Altri atti normativi comunitari, sono le direttive. A differenza dei regolamenti, che sono volti a
regolare i rapp011i intersoggettivi dei cittadini dell'Unione, le
direttive hanno come destinatari gli Stati membri, vincolandoli a realizzare determinati risultati
attraverso le forme e i mezzi da essi prescelti. Le direttive, quindi, non hanno di regola efficacia
normativa nei rapporti tra privati (c.d. efficacia 'orizzontale'). Si riconosce tuttavia che le
direttive possono avere efficacia nei rapporti tra Stato e privati (c.d. efficacia 'verticale'),
possono, cioè, costituire fonte di obblighi dell'ente pubblico nei confronti dei cittadini. A tal fine
deve però trattarsi di direttive particolareggiate, che non lascino margine di discrezionalità agli
Stati membri, o di direttive negative, sancenti divieti a carico di essi.
La mancata attuazione delle direttive, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, può dar
luogo a responsabilità extracontrattuale degli Stati morosi verso i privati danneggiati quando
sussista una violazione grave e manifesta di norme volte a garantire diritti dei singoli.
12. - La giurisprudenza in senso oggettivo è l'insieme delle sentenze che vengono emesse dagli
organi giudiziario Le sentenze sono le decisioni che risolvono in via autoritaria le controversie di
diritto.
La giurisprudenza può anche essere intesa in senso soggettivo per indicare il complesso delle
autorità giudicanti (magistratura).
La giurisprudenza non è menzionata tra le fonti del diritto, e ciò si spiega in quanto il potere
giudiziario è stato tradizionalmente distinto rispetto al potere legislativo.
Il nostro ordinamento ignora il principio della vincolatività dei precedenti (stare decisis). Il
giudice non è tenuto ad uniformarsi ad altre sentenze, sia che si tratti di sentenze emesse da lui
stesso sia che si tratti di sentenze emesse da altri giudici.
Ma sebbene il giudice non sia tenuto ad uniformarsi ad altre decisioni, nella realtà avviene che le
sentenze tendono a formare orientamenti costanti e che il
giudice si adegua a tali orientamenti, soprattutto quando siano orientamenti della Corte di
Cassazione.
Gli orientamenti giurisprudenziali si desumono dalle massime. La massima è il principio di
diritto applicato alla sentenza.
Le massime dovrebbero limitarsi ad enunciare o a specificare le norme vigenti, ma di fatto esse
esprimono l'interpretazione che il giudice fa della legge, e quindi arrivano ad avere un proprio
contenuto che può supplire ad una carenza normativa e che può anche discostarsi notevolmente
dal testo legislativo.
Occorre dunque prendere atto che la giurisprudenza, pur non essendo come tale fonte del diritto,
concorre alla formazione di esso, e che la massima consolidata esprime quel significato che conta
ai fini dell' applicazione della norma.
11
La conoscenza dell'ordinamento, in conclusione, non può prescindere dalla conoscenza del
diritto giurisprudenziale.
14. - Le leggi e i regolamenti per conseguire efficacia devono essere pubblicati sulla Gazzetta
ufficiale (art. 73 Cost.). Ma vi sono anche periodici privati che pubblicano tutti i testi legislativi
che vengono via via emanati (Lex, La legislazione italiana). Per conoscere il contenuto di una
legge è quindi sufficiente consultare uno di questi periodici ufficiali o privati, che vengono riuniti
in volumi annuali. La ricerca non presenta difficoltà se si hanno già gli estremi della legge, cioè
l'anno e il giorno di emanazione oppure il numero progressivo annuale (con questi estremi basta
cercare negli indici cronologico o numerico).
Se, invece, si vuole sapere quali siano le disposizioni legislative e regolamentari che disciplinano
un determinato istituto (es.: la locazione) è necessario procedere ad una ricerca attraverso gli
indici analitici, ossia gli indici per materie.
Le leggi sono reperibili anche su indirizzi elettronici: www.gazzettaufficiale.it;
www.leggiitaliane.it
Possono poi utilizzarsi gli indirizzi elettronici di periodici d'informazione, che riportano notizie
relative all'attività legislativa e giurisprudenziale: www.dirittoegiustizia.it; www.guidaaldiritto.it;
www.ilsole24ore.com (periodico telematico integrativo della omonima rivista cartacea).
Raccolte di legislazione sono disponibili nei CD e DVD della Giuffrè e della UTET, oltre al CD
della raccolta De Martino.
15. - Una ricerca sistematica di giurisprudenza tende ad accertare nella maniera più completa
possibile quali sono gli orientamenti giurisprudenziali, cioè quali sono gli orientamenti
interpretativi seguiti dai giudici con riferimento a determinate norme o istituti giuridici.
Per una ricerca sistematica di giurisprudenza è indispensabile la consultazione di uno dei
Repertori generali (Repertorio generale della Giurisprudenza italiana; Repertorio generale del
Foro italiano; Repertorio generale della Giustizia civile). I Repertori generali sono periodici
annuali che riportano tutte le massime delle sentenze emesse dalla Corte di Cassazione nel corso
12
dell' anno nonchè tutti i dispositivi delle sentenze della Corte costituzionale. Con riguardo, poi,
alle sentenze degli altri giudici (corti di appello, tribunali, ecc.) essi riportano tutte le massime
pubblicate sui periodici giudiziari italiani.
I Repertori indicano la rivista che ha pubblicato la massima avvertendo se oltre alla massima sia
stata anche pubblicata la motivazione e se la sentenza sia stata annotata con un commento.
Per quanto completi, i dati offerti dai Repertori generali non sono aggiornati all'anno in corso.
Per aggiornare tali dati occorre allora la consultazione di altri periodici successivi all'ultimo
numero del Repertorio.
L'aggiornamento delle massime della Cassazione è possibile attraverso i Massimari della
Cassazione che si pubblicano quindicinalmente (Massimario della Giurisprudenza italiana;
Massimario del Foro italiano; Massimario della Giustizia civile).
Per gli aggiornamenti giurisprudenziali è inoltre utile la consultazione degli ultimi fascicoli delle
più importanti riviste di giurisprudenza di carattere generale ovvero specializzate. Tra le riviste
giurisprudenziali di carattere generale v., ad es., la Giurisprudenza italiana, il Foro italiano, la
Giustizia civile, il Foro padano, la Giurisprudenza di merito, la Nuova giurisprudenza civile
commentata, la Gazzetta giuridica e le segnalate raccolte telematiche Diritto e giustizia, e Guida
al diritto (pubblicata pure in versione cartacea).
I repertori generali sono disponibili anche in CD e DVD, dei quali sono previsti periodici
aggiornamenti.
Banche dati edite periodicamente dalla Giuffrè (Iuris data) contengono raccolte delle sentenze
della Cassazione nel testo integrale.
Per informazioni legislative e giurisprudenziali del Consiglio di Stato: è consultabile il sito del
Ministero della giustizia: www.giustizia.it
MODULO III
1. Nozione di interpretazione
2. I criteri legali di interpretazione. A) L'interpretazione letterale
3. L'interpretazione funzionale
4. L'interpretazione sistematica
5. L'interpretazione evolutiva
6. L'analogia
7. L'applicazione dei principi generali
8. L'interpretazione delle norme comunitarie
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L'interpretazione è un onere che incombe su ciascun destinatario della norma.
Per osservare una regola occorre infatti determinare che cosa essa significa.
Di regola gli atti interpretati vi, da chiunque posti in essere, non hanno carattere di vincolatività
giuridica. Nessuno, quindi, è tenuto ad attribuire alla legge quel significato che altri o lo stesso
soggetto le abbiano attribuito.
L'interpretazione vincolante si riscontra eccezionalmente nella interpretazione autentica, cioè
nella interpretazione formalmente fissata da altra norma di legge, detta interpretativa.
La legge interpretativa è vincolante in base all'efficacia propria della legge. Essa quindi, sebbene
formulata in termini di spiegazione della norma interpretata, è pur sempre un distinto precetto
normativo che si pone comunque al di fuori della disciplina e della problematica degli atti di
interpretazione.
La legge interpretativa, che sia successiva nel tempo alla legge interpretata, ha efficacia
retroattiva al momento di entrata in vigore della legge interpretata.
Nell'applicare la legge interpretativa quindi riconoscerle fin dall'inizio il significato attribuitole
dalla legge interpretativa.
2. - La stessa interpretazione è un atto disciplinato dalla legge, la quale detta appunto i criteri
mediante i quali l'interpretazione deve essere compiuta (criteri legali di interpretazione o di
ermeneutica). I criteri legali di interpretazione della legge sono il criterio letterale e il criterio
funzionale.
Il criterio letterale impone all'interprete di attribuire alla legge il significato manifestato dalle
parole di essa secondo la loro connessione (art. 12 disp. prel.).
Nell 'interpretare la legge occorre cioè avere riguardo alle parole del testo, considerate tuttavia
non isolatamente ma nel complesso del discorso.
3. - L'interprete non può fermarsi al significato letterale della legge. Alla legge bisogna infatti
attribuire il significato che risulta dal significato delle sue parole e dalla "intenzione del
legislatore" (art. 12 disp. prel.).
Questo richiamo alla intenzione del legislatore non deve essere riferito alla volontà di coloro che
hanno concorso a emanare la norma (teoria della volontà soggettiva). Si riconosce infatti
comunemente che l'espressione è figurata e che ciò che rileva è piuttosto l'intento obiettivo della
legge (teoria della volontà obiettiva).
L'intento obiettivo è lo scopo al quale la legge risulta obiettivamente indirizzata e che ne
costituisce la ragione. Di questa ragione tiene conto l'interpretazione funzionale. In quanto la
legge interviene sempre per la tutela di interessi socialmente rilevanti, la ragione della legge si
identifica con l'interesse specifico tutelato.
L’interpretazione funzionale è allora quella che ha riguardo alla ragione della norma, cioè
all'interesse specifico da questa tutelato. L'interpretazione deve essere sempre funzionale poichè,
si è visto, la legge impone di procedere alla interpretazione utilizzando insieme i due criteri
letterale e funzionale.
Non sembra quindi esatto il dire che l'interprete dovrebbe acquietarsi di fronte al significato
letterale del testo se questo non presenta dubbi interpretativi. Anche un testo apparentemente
chiaro può in realtà offrire un significato più appropriato alla ragione giustificativa della legge, e
quindi occorre sempre verificare tale ragione.
L'interpretazione letterale, dunque, è solo il primo momento dell' atto interpretativo che si
completa con la ricerca e la verifica della ragione della norma. Il risultato finale interpretativo
non può essere in contrasto col significato letterale della legge perchè attraverso le parole la
norma è enunciata e comunicata ai suoi destinatari. E' tuttavia possibile che l'interpretazione
funzionale della legge ne modifichi il significato letterale.
L'interpretazione è detta restrittiva quando attribuisce alla legge un significato meno ampio di
quello risultante dalla stretta interpretazione letterale. Viceversa, l'interpretazione è detta
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estensiva quando essa attribuisce alla legge un significato più ampio di quello risultante dalla
mera interpretazione letterale.
4. - Nel ricercare la ragione della legge non può aversi riguardo esclusivo alla singola norma
interpretata ma occorre esaminare la legge nel suo complesso, ossia la disciplina legislativa in cui
s'inserisce la norma da interpretare.
Per potere infatti individuare l'interesse tutelato e la misura della sua tutela bisogna tenere conto
coerentemente del complesso delle norme che attengono a tale interesse e che consentono di
stabilire in quale rapporto esso si pone con gli altri confligenti interessi.
L'interesse normativo, in altre parole, non può essere considerato isolatamente poichè la
rilevanza di un interesse è sempre dimensionata e condizionata dalla rilevanza riconosciuta agli
altri interessi.
L'interpretazione funzionale è dunque è dunque essenzialmente un'interpretazione sistematica, e
cioè un'interpretazione coerente col sistema della legge.
La coerenza dell’interpretazione col sistema della legge implica ulteriormente la coerenza con i
principi dell’ordinamento nei quali la società esprime le sue scelte di fondo. Occorre cioè che
l’interpretazione sia coerente col sistema generale dei valori che la comunità pone a base della
propria convivenza.
L’interpretazione deve allora essere coerente con la Costituzione, dove sono appunto enunciate le
scelte fondamentali del nostro ordinamento.
5. - I valori sociali tendono ad evolversi nel tempo. L’interpretazione che si adegua all’evolversi
dei valori sociali è detta interpretazione evolutiva.
L’interpretazione evolutiva consente di adeguare le norme alle nuove esigenze, ignorate
quando le norme furono emanate.
La legittimità dell’interpretazione evolutiva è apertamente riconosciuta anche dalla
giurisprudenza, la quale giunge ad affermare che l’interprete non esaurisce il suo compito nel
momento ricognitivo della volontà del legislatore, ma deve accertare se la norma abbia maturato
un significato diverso rispetto a quello originariamente attribuitole dal legislatore ma
rispondente alla nuova realtà sociale.
L’interpretazione evolutiva è pur sempre interpretazione della legge, e non deve essere
contrastante con essa.
15
ciò, che le norme penali e quelle eccezionali non sono suscettibili di applicazione analogica (art.
14 disp. prel.) mentre sono suscettibili di interpretazione estensiva.
Il divieto di applicazione analogica delle norme che “fanno eccezione a regole generali o ad altre
leggi” (art. 14 ult. cit.) è fondato sul bisogno di non derogare alla disciplina generale oltre i casi in
cui la deroga è giustificata secondo le valutazioni legislative. Si tratta quindi di evitare un
arbitrario allargamento delle eccezioni consentite dalla legge.
7. - Quando non vi sono disposizioni di legge che regolano casi simili si ricorre ai principi
generali dell' ordinamento giuridico dello Stato (art. 12 2 disp. prel.). L'applicazione dei principi
generali è detta analogia di diritto (o analogia iuris) mentre l'applicazione della regola del caso
simile è detta analogia di legge (o analogia legis).
Principi generali del nostro diritto sono anzitutto quelli espressi dalla Costituzione e, poi, quelli
che si possono desumere induttivamente dal complesso delle norme che formano l'ordinamento
giuridico.
8. - Il diritto comunitario non conosce norme ermeneutiche, cioè disposizioni normative che
fissano i criteri di interpretazione delle norme comunitarie. I criteri di interpretazione delle
norme comunitarie si desumono dalla prassi della Corte di giustizia e attengono
fondamentalmente al significato letterale delle disposizioni, allo scopo e alla loro coerenza
sistematica.
Il criterio di coerenza sistematica è poi alla base dei procedimenti di
integrazione analogica che consentono di colmare le lacune del diritto comunitario mediante il
ricorso di volta in volta alle norme regolatrici di casi simili, ai principi generali comunitari o ai
principi comuni degli ordinamenti europei.
La specifica competenza della Corte di giustizia ad interpretare le norme di diritto comunitario
conferisce particolare autorevolezza non solamente ai suoi precedenti, ma anche ai principi
interpretativi cui essa s'ispira.
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MODULO IV
Il diritto intertemporale
1. - La legge entra normalmente in vigore, cioè inizia ad esplicare la sua efficacia normativa, il
15° giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, salvo che la legge stessa
stabilisca un termine più ampio o più breve (art. 733 Cost.; 10 disp. prel.). L'intervallo tra la
pubblicazione della legge e la sua entrata in vigore è detta vacanza della legge (vacatio legis). E'
anche possibile che la legge preveda la sua immediata entrata in vigore a seguito della
pubblicazione (c.d. decreti catenaccio ).
Anche i regolamenti entrano normalmente in vigore il 15° giorno successivo a quello della
pubblicazione (art. 10 disp. prel.).
Per le altre norme, diverse dalla leggi e dai regolamenti, non vi sono disposizioni particolari: può
dirsi quindi che esse acquistano efficacia normativa dal momento in cui si è perfezionato il loro
fatto costitutivo, salvo che sia stabilito un diverso termine.
2. - La durata di efficacia della legge può essere predeterminata dalla legge medesima mediante
un termine finale.
Oltre che per la scadenza di un termine finale la legge cessa di avere efficacia a seguito del
verificarsi di determinati fatti estintivi. La cessazione di efficacia della legge a seguito di un fatto
estintivo si chiama abrogazione.
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La principale forma di estinzione della norma giuridica è l'abrogazione per
norma successiva.
Oltre che da norma successiva, le leggi e i regolamenti possono essere abrogati da sentenze della
Corte costituzionale (art. 134 s. Cost.). Le leggi possono inoltre essere abrogate da referendum
popolari (art. 75 Cost).
L'abrogazione può essere totale, quando investe l'intera norma, o parziale, quando investe una
parte di essa.
5. - In generale la norma giuridica è irretroattiva. Essa cioè non detta regole valevoli per un
tempo anteriore a quello della sua entrata in vigore.
Il principio di irretroattività risponde ad un'elementare esigenza di certezza dei destinatari della
norma, i quali devono poter contare sulla disciplina legale in vigore per sapere quali sono gli
effetti giuridici dei loro atti.
A questa medesima esigenza si collega la tradizionale teoria dei diritti quesiti, secondo la quale il
soggetto non può essere privato da una norma successiva delle posizioni giuridiche attive già
acquisite in base alla norma precedente.
Con più ampi e precisi termini la teoria del fatto compiuto, afferma che la nuova legge non tocca
gli effetti già prodotti in base a fattispecie perfezionate nel vigore della vecchia legge.
Secondo questo criterio, sostanzialmente accolto dalla giurisprudenza, la legge nuova non
disconosce i diritti già sorti in base a fattispecie perfezionate prima della sua entrata in vigore ma
ne detta per il futuro una diversa disciplina.
Così, ad es., se il soggetto è divenuto proprietario di un bene in base ad un valido contratto, il suo
acquisto rimane fermo anche se il contratto non risponda ai requisiti di validità richiesti dalla
nuova legge. Il diritto di proprietà acquistato sotto la vecchia legge è invece assoggettato alla
nuova disciplina legale
In definitiva, il principio della irretroattività può definirsi come il principio secondo il quale la
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legge è valevole per il tempo successivo alla sua entrata in vigore facendo salvi gli effetti
giuridici derivanti da fattispecie anteriormente perfezionate.
6. - Il principio della irretroattività è garantito dalla Costituzione per quanto attiene alle norme
penali: nel senso che nessuno può essere punito per un fatto che non era vietato dalla legge al
momento del suo compimento (art. 252). Per le leggi non penali il principio della irretroattività è
sancito solo da una legge ordinaria (art. 111 disp. prel.). E' quindi possibile che singole leggi
stabiliscano la loro efficacia retroattiva. L'efficacia retroattiva della legge è comunque eccezionale
e deve quindi risultare sicuramente dalla legge, e non può applicarsi analogicamente.
Efficacia retroattiva si riconosce alle leggi interpretative, cioè alle leggi che fissano formalmente
il significato di una legge precedente. Ma proprio perchè l'efficacia retro attiva è un' eccezione,
deve essere certo che la legge è diretta a interpretare la norma anzichè a sostituirla.
L'eccezionale efficacia retroattiva della legge non tocca comunque i rapporti che siano stati già
definiti con sentenza passata in giudicato.
Un'eccezione al principio della irretroattività è posta dalla Costituzione in tema di decreti legge
emanati dal Governo senza delegazione del Parlamento in casi straordinari di necessità e
urgenza. Questi decreti perdono la loro efficacia normativa retroattivamente, cioè fin dall'inizio,
se non sono convertiti in legge dalle Camere entro due mesi dalla pubblicazione (art. 773 Cost.).
L'eccezione alla irretroattività trova qui la sua ragione nell'interesse di evitare che il Governo
possa regolare rapporti con effetti definitivi al di fuori della garanzia e del controllo del
Parlamento. Vengono a cadere, in tal caso, gli effetti già sorti nel frattempo sulla base del decreto
non convertito e trova applicazione la vecchia norma abrogata.
Se il decreto è convertito con modifiche, la regola da esso dettata rimane ferma mentre la
modifica si applica con effetto non retroattivo.
7. - Ciascuna legge emanata può contenere disposizioni transitorie per regolare appositamente il
conflitto tra la vecchia e la nuova normativa. Tali disposizioni stabiliscono i limiti di applicazione
della legge a situazioni anteriormente sorte o in via di formazione.
Disposizioni transitorie ad es., hanno accompagnato l’emanazione del codice civile. Tali
disposizioni sono contenute nel r.d. 30 marzo 1942, n. 318 (art. 114 s.), che nella prima parte
detta norme di attuazione, volte a specificare le modalità di applicazione delle norme del codice.
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MODULO V
1. La capacità giuridica è l'idoneità del soggetto ad essere titolare di posizioni giuridiche. Essa
è generale quando il soggetto è astrattamente idoneo ad essere titolare di tutte le posizioni
giuridiche connesse ai suoi interessi e alla sua attività.
La capacità giuridica generale compete a tutte le persone fisiche. La persona fisica acquista la
capacità giuridica definitiva con la nascita e la conserva fino al momento della morte.
La nozione di capacità giuridica è distinta rispetto a quella di capacità di agire, la quale indica
l'idoneità del soggetto ad esplicare direttamente la propria autonomia negoziale e processuale. La
mancanza o la limitazione della capacità di agire non incide sulla capacità giuridica poiché il
soggetto rimane pur sempre idoneo ad essere titolare dei rapporti giuridici. Quella che manca
all'incapace di agire è piuttosto l'idoneità a gestire direttamente e autonomamente la propria sfera
personale e patrimoniale, occorrendogli un rappresentante legale o un curatore.
Anche chi è incapace di agire, ad es. un minore, può essere proprietario di un appartamento:
quello che il minore non potrà fare sarà di vendere direttamente l’appartamento o darlo in affitto,
perché questo richiede appunto un’esplicazione della capacità di agire che, in questo caso, è
preclusa al soggetto, in nome e per conto del quale dovrà agire il rappresentante legale.
La mancanza o la limitazione della capacità giuridica escludono invece la possibilità stessa di
partecipazione al rapporto. Chi è colpito da incapacà giuridica non può rendersi titolare del diritto
neppure a mezzo di rappresentante.
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non può essere rimossa mediante autorizzazione né mediante convalida.
L'incapacità speciale deve quindi essere distinta rispetto agli impedimenti soggettivi, e cioè ai
divieti suscettibili di rimozione mediante autorizzazione o convalida.
L'impedimento non designa una inidoneità del soggetto ma una proibizione rimessa ad un
giudizio di opportunità dei poteri pubblici o dello stesso interessato.
Ad es., l’art. 87 c.c., n. 3, prevede il divieto di contrarre matrimonio fra lo zio e la nipote e la zia e
il nipote: questa non è un’incapacità speciale, bensì un impedimento soggettivo in quanto il
matrimonio tra zia/zio e nipote può essere autorizzato dal tribunale.
Le incapacità speciali come anche gli impedimenti soggettivi non devono essere confuse con il
difetto di legittimazione. La legittimazione negoziale o processuale indica infatti la competenza
del soggetto a disporre o a esercitare un diritto.
La legittimazione spetta normalmente al titolare. Chi non è titolare del diritto e non ha un potere
di rappresentanza non è di regola legittimato ad alienare il diritto. Il negozio compiuto dal non
legittimato è inefficace nei confronti del titolare ma può acquistare efficacia mediante ratifica o
approvazione.
3. - La persona fisica acquista la capacità giuridica con la nascita (art. 1 cc). La nascita è l'evento
dell'inizio della vita extrauterina.
Le legge non definisce il compimento della nascita rinviando implicitamente alla nozione tecnica,
e pratica, che reputa compiuta la nascita con l'inizio della respirazione polmonare.
Nei casi dubbi, quando cioè non sia certo se vi sia stato aborto o se la morte sia sopravvenuta
subito dopo la nascita, soccorrono i criteri medico-legali della docimasia polmonare, diretti
appunto ad accertare se i polmoni hanno respirato. Il polmone che ha respirato conserva sempre
tracce di ossigeno e ne è prova, ad es., il fatto che esso galleggia sull'acqua (prova idrostatica
polmonare).
Per l'acquisto della capacità giuridica definitiva la nascita è l'evento necessario e sufficiente. La
legge non richiede, in particolare, il requisito della vitalità, e cioè l'idoneità fisica alla
sopravvivenza.
Se la persona è nata, ed è quindi vissuta sia pure per un solo attimo, essa ha acquistato per ciò
stesso la capacità giuridica definitiva. Ne consegue, tra l'altro, che la morte sopravvenuta apre la
sua successione con la devoluzione dei beni agli eredi.
Per quanto breve sia la vita dell'infante, questi può sempre essere titolare dei beni pervenutigli
per successione a causa di morte o per donazione. Anteriormente alla nascita gli acquisti ereditari
e donativi hanno carattere provvisorio. Ma a seguito della nascita essi divengono definitivi e
quindi fanno parte del patrimonio dell'infante che, a sua volta, trasmetterà quanto ricevuto ai suoi
successori.
4. - Per il nostro ordinamento la capacità giuridica è una qualità essenziale che la persona fisica
acquista al momento stesso della nascita (art.11 c.c.) e che perde solo a seguito della morte.
Anche a favore del concepito t'ordinamento riconosce tuttavia la, possibilità di essere titolare di
diritti subordinatamente all'evento della nascita (art. 1 2 c.c.).
In particolare, il codice dichiara capaci di succedere tutti coloro che sono nati o concepiti al tempo
dell'apertura della successione (art. 4621).
Il concepito è inoltre capace di ricevere per donazione (art. 784 c.c.).
Si pone allora il problema se il concepimento segni il momento di acquisto di una sia pur limitata
capacità giuridica.
In dottrina la soluzione è generalmente negativa. Tale soluzione muove dall'assunto che la
capacità giuridica sarebbe una qualità non graduabile, che deve riconoscersi o negarsi per intero.
Non potrebbe quindi ammettersi che prima della nascita il concepito sia capace relativamente a
determinati rapporti.
Coerentemente a tale assunto si nega che il concepito possa acquistare diritti in via successoria o
per donazione. La capacità prevista al riguardo dalla legge viene spiegata nel senso che al
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concepito verrebbero semplicemente conservati i diritti derivantigli da successioni o da atti di
liberalità. I diritti stessi verrebbero poi acquistati se e quando si verifichi l'evento della nascita.
Altrimenti essi devono intendersi come non mai entrati nella sua sfera giuridica.
Quest'ultima proposizione è certamente esatta. Se il concepito non viene alla nascita, le
attribuzioni a suo favore sono inefficaci e pertanto non possono esservi diritti che si trasmettono
dal concepito ai suoi eredi. Se invece il concepito viene alla nascita, le attribuzioni a suo favore
rimangono definitivamente efficaci. Anche quando la morte segue immediatamente, quindi, si
apre la successione a favore dei suoi eredi legittimi.
Se è vero che l'acquisto definitivo dei diritti in capo al concepito è subordinato all'evento della
nascita, ciò non importa tuttavia che prima della nascita il concepito sia privo di capacità
giuridica.
Prescindendo da preconcetti assunti sulla capacità giuridica, la questione deve essere risolta sulla
base di quanto dispone la legge. Ora, la legge non solamente riconosce espressamente al
concepito la capacità successoria, ma ne attribuisce ai genitori la rappresentanza e
l'amministrazione dei beni nel normale espletamento della loro potestà (art. 320 1 c.c.).
Ciò significa che i diritti attribuiti al concepito non sono solamente accantonati ma sono invece
esercitati dal suo rappresentante legale in nome e per conto del concepito stesso. In quanto la
legge prevede che i diritti del concepito sono attualmente esercitati per suo conto, non si può
correttamente parlare neppure di una capacità sospensivamente condizionata, e cioè di una
capacità che verrà attribuita al momento della nascita con effetto dal momento del concepimento.
Nella realtà della sua esistenza naturalmente destinata a concludersi con la nascita, il concepito è
portatore di interessi che devono essere fatti valere attualmente. Questi interessi possono
sussistere anche al di fuori delle successioni e delle donazioni. Si pensi, ad es., all'interesse al
riconoscimento da parte del genitore già prima della nascita (come infatti è previsto: art. 254 c.c.).
Il nascituro, poi, è titolare di diritti fondamentali che reclamano la loro attuale tutela da parte
dell’orientamento della giurisprudenza, che ammette ora la risarcibilità del danno biologico e del
danno morale arrecato al nascituro.
Ben diversa è la posizione del nascituro non concepito. La legge ammette che le disposizioni
testamentarie e donative possano essere fatte a favore di un nascituro non concepito, purchè figlio
di persona vivente al momento dell’apertura della successione o del concepimento della liberalità
(art. 4623, 784 c.c.). In tal caso, per altro, i diritti sono esercitati e goduti dal donante ovvero da
color che hanno titolo definitivo all’eredità o al legato se il nascituro non viene ad esistenza (art.
6431, 784 c.c.).
In conclusione, la questione della capacità del concepito non può essere risolta semplicemente
sulla base della norma che indica la nascita come il momento di acquisto della capacità giuridica.
Occorre anche prendere atto che l'ordinamento riconosce il concepito come portatore di interessi
meritevoli di attuale tutela e che per ciò stesso gli riconosce la capacità: capacità provvisoria che
rimane definitiva se il concepito, secondo il suo ciclo naturale, viene alla nascita, e che si risolve
retroattivamente se tale evento non segue.
Mentre il nascituro è dotato di capacità giuridica, seppure caducabile, ed è quindi persona, lo
stesso non può dirsi dall'embrione non impiantato nel corpo materno.
L'embrione non impiantato nel corpo materno esula dalla nozione civilistica di nascituro
concepito, riferita all'embrione inserito nel processo della nascita.
Con riguardo all'embrione non impiantato non è quindi a parlarsi di diritti successori, di
rappresentanza legale, ecc. Rimane tuttavia il problema se esso debba essere considerato alla
stregua di un mero prodotto organico o se debba essere tutelato come il frutto del concepimento,
potenziale iniziatore della vita umana.
La legge sulla procreazione assistita del 19 febbraio 2004, n. 40, detta ora una disciplina di piena
tutela dell' embrione. In apertura essa dichiara la finalità di assicurare i diritti di tutti i soggetti
coinvolti nella procreazione medicalmente assistita "compreso il concepito" (art. 11).
5. - La capacità di agire è la generale idoneità del soggetto a compiere e ricevere gli atti giuridici
22
incidenti sulla propria sfera personale e patrimoniale.
La capacità di agire si specifica in particolare nella capacità negoziale, e nella capacità di stare in
giudizio.
La capacità di agire presuppone la capacità giuridica del soggetto ma è comunque una nozione
distinta. Mentre la capacità giuridica indica l'idoneità del soggetto ad essere titolare di posizioni
giuridiche, la capacità di agire riguarda il diretto svolgimento della capacità giuridica attraverso il
compimento e la ricezione di atti di acquisto, perdita, modifica o esercizio dei suoi diritti ed
obblighi.
Quando la persona fisica difetta della capacità di agire perché, ad es., minore di età, essa è pur
sempre giuridicamente capace, e può essere titolare di diritti personali e patrimoniali, ma di
regola gli atti leciti che incidono sulla sua sfera giuridica devono essere compiuti o ricevuti dal
rappresentante legale.
L'incapacità di agire non implica dunque come tale una mancanza o menomazione della capacità
giuridica poiché l'incapace di agire è pur sempre titolare delle posizioni giuridiche che acquista e
di cui dispone attraverso il suo rappresentante.
Inoltre, se si tratta di atti negoziali, l'incapacità di agire non comporta l'inefficacia dell'atto ma la
semplice annullabilità. Se e fino a quando l'atto non venga eventualmente annullato, esso è
produttivo dei suoi effetti.
6. - Mentre la persona fisica è giuridicamente capace in quanto esistente, essa acquista la capacità
di agIre col raggiungimento della maggiore età, e può perderla a causa di infermità mentale e di
condanna penale.
Più precisamente, sono privi di capacità di agire: a) i minori, e cioè le persone fisiche che non
hanno compiuto il 18° anno di età; b) gli interdetti giudiziali, e cioè coloro che per infermità
mentale sono dichiarati con provvedimento giudiziale incapaci di agire; c) gli interdetti legali, e
cioè coloro che hanno perduto la capacità di agire a seguito di condanna a pena reclusiva non
inferiore a cinque anni.
L'incapacità di agire importa di massima la inidoneità del soggetto a compiere o ricevere gli atti
giuridici, salvo che diversamente non risulti in ragione della natura dell'atto e della causa
dell'incapacità. Gli atti devono essere compiuti o ricevuti dal rappresentante legale.
Accanto all'incapacità di agire la legge prevede la ridotta capacità di agire.
La ridotta capacità di agire non esclude l'idoneità del soggetto a compiere e ricevere gli atti
giuridici, ma richiede che taluni atti più importanti siano compiuti con l'assistenza di un curatore.
Hanno una ridotta capacità di agire: a) gli emancipati, e cioè i minori degli anni 18 che hanno
contratto matrimonio, e b) coloro che sono giudizialmente dichiarati inabilitati a causa di
un'infermità mentale che non è talmente grave da richiedere l'interdizione.
7. - La persona fisica consegue solo con l’età la maturità sociale sufficiente per agire
responsabilmente e decidere appropriatamente dei propri interessi.
Il conseguimento della maturità sociale varia da individuo a
individuo ma l'ordinamento fissa un termine unico, e cioè il compimento del diciottesimo anno di
età per l'acquisizione della condizione di maggiorenne e della piena capacità di agire. Prima di
raggiungere la maggiore età, il soggetto è un incapace legale a prescindere dalla sua effettiva
maggiore o minore maturità.
L'incapacità di agire del minore è prevista in funzione protettiva del soggetto, e cioè al fine di
evitare che la mancanza di un'adeguata maturità lo pregiudichi nella vita di relazione.
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Annullabili sono di massima tutti gli atti negoziali, unilaterali o
contrattuali, onerosi o gratuiti, di ordinaria o di straordinaria amministrazione.
L'annullamento è stabilito a favore del minore. L'azione può quindi essere esercitata dal
rappresentante legale in nome e per conto del minore ovvero direttamente dall'interessato dopo il
raggiungi mento della maggiore età. Non può invece essere esercitata dal terzo che abbia
incautamente contrattato col minore.
Se il minore ha dolosamente fatto credere all'altro contraente di essere maggiorenne, il contratto
non è annullabile. Al riguardo occorre tuttavia che il minore ponga in essere un raggiro mediante
atti idonei a trarre in inganno il terzo (es.: mediante alte razione della data di nascita su un
documento di identità) mentre non basta la sua semplice dichiarazione di essere maggiorenne
(art. 1426 c.c.).
L'azione di annullamento si estingue per prescrizione se non viene esercitata entro cinque anni a
decorrere dal momento in cui il minore ha conseguito la generale capacità di agire (art. 1442 c.c.).
L'incapacità eli agire costituisce pur sempre una menomazione
dell'autonomia del soggetto, il quale, non solamente non può stipulare direttamente gli atti
negoziali che incidono sulla sua sfera giuridica, ma non può neppure deciderne il compimento.
Questa considerazione induce a ridimensionare la portata dell'incapacità negoziale del minore, il
quale, compatibilmente con l'esigenza della sua protezione, deve poter godere dell'autonomia
necessaria per svolgere la sua personalità.
In particolare, devono reputarsi esclusi dalla regola dell'incapacità negoziale quegli atti nei quali
si estrinsecano le libertà fondamentali della persona, salva solo l'interferenza del genitore o del
tutore giustificata dalla funzione di educazione e di cura. Non potrebbe quindi, ad es., il genitore
impugnare l'atto di iscrizione del figlio ad un partito politico o ad un sindacato. Secondo
l'opinione tradizionale anche i contratti di lavoro devono essere stipulati esclusivamente dal
rappresentante legale. Questa opinione non appare tuttavia più conciliabile col rispetto della
libertà di lavoro. la quale non può essere legata al minore che abbia acquistato la capacità
giuridica lavorativa.
Il minore può inoltre esercitare i diritti e azioni che dipendono dal rapporto di lavoro (art. 2 c.c.).
Più in generale deve ammettersi che sono sottratti alla regola dell'incapacità quegli atti negoziali
attraverso i quali il minore esprime la sua partecipazione alla vita di relazione conformemente
alle normali esigenze della sua personalità, salvo che si tratti di atti che lo espongono ad un
rilevante pregiudizio.
10. - Con riguardo alla capacità di compiere e ricevere atti giuridici in senso stretto (non
negoziali), il minore può compiere efficacemente tutti gli atti giuridici, tranne quelli suscettibili di
conseguenze sfavorevoli.
Il minore de ve pertanto reputarsi capace di compiere gli atti valevoli ad acquisire o di
salvaguardare un diritto (interruzione della prescrizione, messa in mora del creditore, ecc.).
Il minore deve invece reputarsi incapace con riguardo agli atti che importino la perdita di un
diritto o l'assunzione di oneri o di obblighi. Il minore, in particolare, non è capace di ricevere atti
che importino l'onere di una valutazione del loro significato e delle loro conseguenze (per la
confessione cfr. l’art. 2731 c.c.).
L'incapacità si traduce nell'automatica inefficacia dell'atto ne i confronti del minore che lo abbia
compiuto o che lo abbia ricevuto.
I pagamenti ricevuti dal minore hanno efficacia estintiva del suo diritto di credito solo nei limiti
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in cui sia provato che egli ne abbia tratto effettivo vantaggio (art. 1190 c.c.).
11. – Il minore è legalmente rappresentato dai genitori esercenti la potestà (art. 320 c.c.).
Per gli atti di straordinaria amministrazione la rappresentanza legale dei genitori è congiunta, nel
senso che l'atto deve essere compiuto da entrambi i genitori. Per gli atti di ordinaria
amministrazione, invece, la rappresentanza è disgiunta, nel senso che l'atto può essere compiuto
dall'uno o dall'altro dei genitori.
La morte di entrambi i genitori o la loro impossibilità di esercitare la potestà dà luogo all'apertura
della tutela e alla nomina di un tutore (art. 343, 346 c.c.).
L'istituto della tutela è inteso a surrogare la potestà dei genitori attribuendo al tutore la
rappresentanza legale e analoghi poteri e doveri di cura della persona e del patrimonio del
minore. Il tutore, precisamente, ha la cura della persona del minore, lo rappresenta in tutti gli atti
negoziali e ne amministra i beni (art. 367 c.c.).
Il protutore rappresenta il minore quando tra questo e il tutore vi è conflitto di interessi (art. 360
c.c.).
Ampi poteri decisionali e di vigilanza competono al giudice tutelare. Su proposta del tutore il
giudice tutelare, sentito lo stesso minore, decide sul luogo in cui il minore deve vivere, sul suo
avviamento agli studi o ad una formazione professionale, sui modi del suo mantenimento (art.
371, n. l, c.c.).
Per il compimento di taluni atti (riscossione di capitali, ecc.) il tutore (e il protutore) devono
essere previamente autorizzati dal giudice tutelare (art. 374 c.c.), e per altri più importanti
(alienazione di beni, costituzione di ipoteche, ecc.) dal tribunale (art. 375 c.c.).
La legge prevede che sia aperta la tutela quando il minore sia orfano di entrambi i genitori o
questi non possano esercitare la potestà (art. 3431 c.c.). In queste ipotesi il minore che non abbia
parenti prossimi disposti a prendersene cura dev'essere dichiarato in stato di adottabilità.
Quando il minore è adottato non vi è luogo a tutela in quanto l'adozione inserisce il minore nella
famiglia degli adottanti. Finché permane lo stato di adottabilità è invece necessario che il minore
abbia un tutore.
11. - Con riguardo agli atti illeciti non sussiste una specifica incapacità delittuale del minore.
Questi è esentato da responsabilità solo in quanto si dimostri che non era in grado di intendere o
di volere al momento dell'illecito.
La capacità delittuale del minore trova spiegazione nel rilievo che la vita di relazione richiede
l'osservanza di norme pratiche di condotta che si prestano ad essere conosciute e comprese anche
senza il raggiungimento della piena maturità sociale.
D’altra parte, il problema della responsabilità del minore perde in buona parte la sua rilevanza
poiché la legge rende responsabili i genitori il danno arrecato dal figlio non emancipato (art.
20481 c.c.). Responsabili sono inoltre i tutori per il danno arrecato dal minore sotto tutela.
Responsabili sono ancora gli insegnanti e gli istruttori di arti e mestieri per l'illecito compiuto dal
minore nel tempo in cui è sotto la loro vigilanza (art. 20482 c.c.).
Questi soggetti sono esentati dalla loro responsabilità solo se provano di non aver potuto evitare il
danno. Per i genitori e i tutori la prova si sostanzia nella dimostrazione di avere impartito una
normale educazione al minore e, se questi è con loro convivente, di avere esercitato sulle sue
azioni una vigilanza adeguata in relazione all'ambiente, alle abitudini e al carattere del soggetto
(questo è un tema
appartenente alla materia della responsabilità civile).
Anche se il minore non risponde in quanto incapace d'intendere o di volere, il terzo danneggiato
può quindi di regola ottenere il risarcimento del danno da parte dei genitori o degli altri soggetti
che rispondono del suo illecito. Nel caso in cui il terzo non abbia ottenuto il risarcimento, la legge
prevede la possibilità che il giudice condanni l'incapace al pagamento di un equo indennizzo (art.
20472 c.c.). L'ammontare dell'indennizzo non deve essere rigorosamente commisurato al danno
ma deve piuttosto tenere conto delle condizioni economiche del danneggiato e del danneggiante.
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13. – L’emancipazione è lo stato di ridotta capacità di agire che il minore acquista col matrimonio
(art. 390 c.c.).
L'emancipazione conferisce al soggetto la piena capacità di agire per quanto attiene agli atti di
ordinaria amministrazione e agli atti di natura personale. Per quanto attiene invece agli atti di
straordinaria amministrazione l'emancipato deve compierli con l’assistenza di un curatore.
L'emancipazione sottrae il soggetto alla rappresentanza legale del genitore o del tutore. Il curatore
non è un rappresentante legale che compie l'atto in nome e per conto dell'emancipato. L'atto è pur
sempre compiuto da quest’ultimo. Il curatore emette piuttosto un consenso al compimento
dell’atto avente la natura di un’autorizzazione privata.
L’istituto della emancipazione ha ormai un’applicazione del tutto marginale nell’attuale
legislazione. Infatti la capacità di contrarre matrimonio si consegue con la maggiore età e solo
eccezionalmente il minore che ha compiuto il 16° anno di età può essere autorizzato
giudizialmente ad unirsi in matrimonio (art. 842 c.c.).
Col raggiungimento della maggiore età lo stato di emancipazione cessa comunque per dare luogo
alla piena capacità di agire del soggetto.
Ancora, il giudice tutelare nomina un curatore speciale quando sorge un conflitto di interessi tra il
minore e il curatore (art. 3944 c.c.), cioè quando il curatore ha un interesse proprio al
compimento dell’atto.
Al curatore è poi fatto specifico divieto di acquistare diritti del minore. Può prenderne in
locazione i beni solo con l’autorizzazione e con l'osservanza delle cautele fissate dal giudice
tutelare. La violazione di questo divieto rende il negozio annullabile su azione dell'emancipato o
dei suoi successori (art. 378, 3962 c.c.).
15. - Devono essere interdetti, come si è detto, coloro che non sono in grado di provvedere ai
propri interessi per la loro abituale infermità mentale.
Presupposto primo è quindi che il soggetto sia affetto da una abituale malattia mentale. Un
accertamento negativo sull'esistenza di tale presupposto esclude in radice la possibilità di una
pronunzia di interdizione.
L'abituale infermità sussiste quando le condizioni mentali del soggetto siano stabilmente alterate.
Non rileva quindi, ai fini dell'interdizione, uno stato morboso transitorio, destinato a risolversi in
breve tempo.
L'infermità è abituale anche quando il soggetto goda di momenti nei quali riacquista
provvisoriamente la capacità di intendere e di volere (c.d. lucidi intervalli).
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soggetto non sia in grado di provvedere adeguatamente ai propri interessi. Non basta pertanto
che il soggetto sia mentalmente malato, ma occorre anche che l’infermità incida sulla sua
attitudine a curare adeguatamente i propri affari patrimoniali e personali.
Interdetto può essere dichiarato il soggetto che ha raggiunto la maggiore età. Prima del raggiungi
mento della maggiore età si reputa che l'infermo di mente sia sufficientemente salvaguardato dal
suo stato di minore. Tra il conseguimento della maggiore età e l’emanazione della sentenza di
interdizione può tuttavia trascorrere un certo tempo che creerebbe un intervallo di capacità di
agire in capo all’infermo di mente. Per evitare questo intervallo la legge prevede che l’azione per
l’interdizione possa essere proposta un anno prima del raggiungi mento della maggiore età. In tal
caso la sentenza ha comunque effetto dal momento in cui il soggetto diviene maggiorenne (art.
416 c.c.).
16. - L'azione per l'interdizione può essere proposta dal coniuge, dai parenti entro il 4° grado e
dagli affini entro il 2° grado (art. 417 c.c.).
In ogni caso, è legittimato ad agire il pubblico ministero.
Sussiste infatti l'interesse pubblico a che il soggetto infermo di mente sia salvaguardato mediante
la dichiarazione di incapacità e la nomina del rappresentante legale. D'altra parte, la gravità
dell'azione e dei suoi riflessi negativi anche in caso di rigetto, non consente di esporre il soggetto
all'azione di interdizione di un qualsiasi terzo che non gli sia legato da vincoli di coniugio o di
parentela.
Tra i legittimati va incluso anche lo stesso interdicendo.
In quanto l'interdizione incide sulla capacità di agire della persona, e quindi sul suo stato, la legge
impone garanzie e forme del giudizio contenzioso.
17. - A seguito della dichiarazione giudiziale d'interdizione il soggetto perde la capacità di agire.
Lo stato giuridico dell'interdetto è in larga parte corrispondente a quello del minore, salve alcune
differenze che trovano ragione nella diversa causa dell'incapacità. Mentre il minore, infatti, è
protetto per una presunzione di non raggiunta maturità, l'interdetto è privo della capacità di agire
a seguito di una sentenza che lo ha riconosciuto incapace d'intendere o di volere per una stabile
infermità mentale.
Come il minore, l'interdetto difetta della capacità negoziale. Gli atti negoziali devono essere
compiuti nel suo nome e nel suo interesse dal tutore. Gli atti compiuti direttamente
dall'interdetto possono essere annullati su istanza del tutore dell'interdetto o dei suoi eredi o
aventi causa. L'azione si prescrive in 5 anni decorrenti dalla cessazione dello stato d'incapacità.
Pur se più o meno limitato dalle sue condizioni mentali, anche l'interdetto può tuttavia avvertire
l'esigenza di esercitare i diritti fondamentali di libertà e di solidarietà e di partecipare
direttamente alla vita di relazione. Questa attività personale dell'interdetto deve ritenersi sottratta
alla regola dell'incapacità nei limiti in cui essa si traduce in atti negoziali che non lo espongano ad
un rilevante pregiudizio.
Deve quindi ammettersi che lo stato di interdizione non impedisca di per sé al soggetto,
l'utilizzazione di pubblici servizi, gli atti relativi alle necessità della vita quotidiana, ecc.
In quanto il tutore ha la cura della persona dell'interdetto, si ritiene che spetti a lui autorizzare i
trattamenti sanitari.
Come il minore, t'interdetto difetta inoltre della capacità di stare in giudizio (75 c:p.c.). Questa
capacità gli è tuttavia riconosciuta nel giudizio di interdizione, anche a seguito della nomina del
tutore provvisorio, e nel giudizio di revoca dell'interdizione.
Per quanto riguarda gli atti giuridici leciti, (l’interdetto può compiere e ricevere quegli atti che
non sono potenzialmente pregiudizievoli.
Per quanto attiene alla capacità delittuale, (l’interdetto giudiziale si avvale di una presunzione di
incapacità di intendere e di volere che difficilmente potrà essere vinta dalla prova di un lucido
intervallo.
Del fatto dannoso e ingiusto dell'interdetto risponde chi è tenuto alla sua sorveglianza, salvo che
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provi di non avere potuto impedire il fatto (art. 20471 c.c.). Responsabili sono ancora
eventualmente i precettori e gli istruttori per il tempo in cui l'interdetto è sotto la loro vigilanza
(20482 c.c.).
Se il danneggiato non può conseguire il risarcimento del danno, l'interdetto, può essere
condannato ad un equo indennizzo (20472 c.c.).
18. - L'interdetto è legalmente rappresentato da un tutore. Come il tutore del minore, il tutore
dell'interdetto lo rappresenta in tutti gli atti giuridici, ne amministra i beni, ha cura della sua
persona (art. 325, 4241 c.c.).
19. - L'interdizione legale è lo stato di incapacità di agire della persona fisica maggiorenne
condannata per delitto non colposo alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni (art.
32, 33 c.p.).
L'interdizione legale rientra fra le pene accessorie. Essa ha quindi una funzione sanzionatoria
anche se vale ad assicurare la cura degli interessi patrimoniali del soggetto affidati all'ufficio di un
tutore che lo rappresenta legalmente.
La tutela dell'interdetto legale è disciplinata dalle norme sull'interdizione giudiziale.
Lo stato d'incapacità dell'interdetto legale corrisponde a quello dell'interdetto giudiziale, ma solo
per quanto concerne i diritti patrimoniali. La legge richiama infatti la disciplina dell'interdizione
relativamente alla disponibilità e amministrazione dei beni (32 u.c. c.p.), escludendo in tal modo
dal regime dell'incapacità l'esercizio dei diritti personali o che non ammettono rappresentanza
(es.: testamento).
20. - L'inabilitazione è lo stato giudizialmente dichiarato di ridotta capacità di agire della persona
maggiorenne che per le sue condizioni mentali o fisiche non è pienamente in grado di curare i
propri interessi economici.
Lo stato di ridotta capacità di agire dell’inabilitato corrisponde a quello del minore emancipato.
L'inabilitato può compiere e ricevere direttamente tutti gli atti di ordinaria amministrazione e di
natura personale. Per quanto attiene, invece, agli atti di straordinaria amministrazione occorre
l'assistenza del curatore.
L'inabilitato può essere autorizzato all'esercizio di un'impresa commerciale, ma solo in quanto si
tratti di continuazione di attività già iniziata (art. 425 c.c.). L'autorizzazione è data dal tribunale
su parere del giudice tutelare, e può essere subordinata alla nomina di un institore, e cioè di un
preposto all'impresa con poteri di rappresentanza (2203 c.c.).
L’inabilitazione può essere dichiarata quando la persona abbia raggiunto l'ultimo anno della
minore età e non sia pienamente in grado di provvedere ai propri interessi per una delle seguenti
cause: a) non grave infermità di mente; b) prodigalità; c) abuso abituale di alcolici o di
stupefacenti; d) sordomutismo o cecità dalla nascita'' (art. 415 c.c.).
a) L'infermità di mente che giustifica t'inabilitazione è qualsiasi permanente alterazione psichica
che menoma la normale attitudine del soggetto a provvedere diligentemente ai propri affari senza
tuttavia escludere per intero la sua capacità di intendere e di volere.
Ai fini della inabilitazione rileva quindi un'infermità mentale che non sia tanto grave da
richiedere l'interdizione.
b) La prodigalità è un impulso patologico che menoma la capacità del soggetto di valutare il
significato economico dei propri atti e che lo spinge allo sperpero.
La prodigalità rileva in quanto esponga il soggetto o la sua famiglia ad un grave pregiudizio
economico e in quanto sia sintomo di un'alterazione psichica. Quando invece l'attività del
soggetto risponde ad una consapevole scelta, la sua autonomia non può essere limitata anche se
ne risulti compromessa la consistenza patrimoniale.
c) L'abuso abituale di alcolici o droghe è causa di inabilitazione quando si traduce in una
permanente condizione patologica che espone il soggetto o i suoi congiunti ad un grave danno
economico.
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Il carattere permanente dell'intossicazione sussiste quando questa si protrae nel tempo con
carattere di continuità anche se intramezzata da intervalli di lucidità.
d) Il sordomutismo e la cecità dalla nascita, infine, sono causa di inabilitazione quando il soggetto
non abbia ricevuto un'educazione sufficiente che gli permetta di provvedere autonomamente ai
propri affari.
La menomazione fisica qui non rileva in sé ma in quanto non abbia consentito alla persona di
raggiungere quella misura sufficiente di maturità sociale che è richiesta dalla vita di relazione. A
differenza di quanto stabilito dal vecchio codice, che prevedeva l'inabilitazione automatica (art.
340), tale insufficiente maturità sociale deve sempre essere accertata con sentenza. L'eventuale
accertamento di una totale incapacità d'intendere o di volere deve portare alla interdizione.
L'inabilitazione è dichiarata mediante sentenza del tribunale a seguito di un giudizio ordinario.
L'azione è sottoposta alla stessa disciplina dell'azione di interdizione, sia per quanto riguarda il
procedimento che i legittimati.
Legittimato, ovviamente, è anzitutto lo stesso inabilitando quale portatore dell'interesse diretto
alla dichiarazione giudiziale di inabilitazione. In ogni caso, la legge richiede che l’inabilitando sia
personalmente ascoltato (art. 419 c.c.). Pure l'inabilitazione, si aggiunga, può essere promossa su
iniziativa del pubblico ministero, essendovi un interesse pubblico a che la persona sia inabilitata
quando essa sia esposta ad un rilevante pregiudizio per non essere in condizione di provvedere
adeguatamente ai propri affari.
21. - Gli istituti dell'interdizione e della inabilitazione sono forme obsolete e inadeguate di
protezione giuridica dei sofferenti psichici. La rigidità e la gravità delle conseguenze discendenti
dall'applicazione di tali istituti appaiono infatti mortificanti per la persona.
D'altra parte, detti istituti lasciano senza risposta tutte quelle situazioni in cui la persona è in
difficoltà a curare i propri affari per cause psicofisiche che sono transitorie o tali da non privarla
della capacità d'intendere e di volere.
A dare una risposta alle esigenze scaturenti da tali situazioni ha provveduto la legge 9 gennaio
2004, n. 6, che ha introdotto la figura dell’amministrazione di sostegno, dettandone la disciplina
mediante disposizioni inserite nel codice civile agli articoli 404 e s.
L'amministrazione di sostegno è un istituto finalizzato ad assicurare assistenza giuridica alla
persona che a causa di menomazioni o infermità fisiche o pschiche è nella impossibilità, anche
parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi: l'assistenza è prestata da un incaricato
giudiziario, l'amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare con funzioni di cura e
rappresentanza del beneficiario.
L'amministratore di sostegno è titolare di un ufficio in diritto privato, disciplinato in larga parte
dalle norme sulla tutela (art. 4111-2 c.c.).
L'atto di nomina dell’amministratore di sostegno deve indicare, tra l'altro, l'oggetto dell' incarico e
degli atti che l'amministratore ha il potere di compiere in rappresentanza e nell'interesse del
beneficiario nonchè degli atti che il beneficiario può compiere solo con l'assistenza
dell'amministratore (art. 4054 c.c.).
Il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza
esclusiva o l'assistenza necessaria dell'amministrazione di sostegno (art. 409 1 c.c.).
Relativamente agli atti che richiedono la rappresentanza o l'assistenza necessaria dell'
amministratore di sostegno, il beneficiario è affetto da incapacità di agire. Gli atti posti in essere
personalmente dal beneficiario senza la rappresentanza o l'assistenza necessaria dell'
amministratore di sostegno, sono annullabili, (art. 412 2 c.c.).
Anche gli atti dell'amministratore di sostegno sono suscettibili di annullamento se compiuti al di
fuori dei limiti dell' incarico (art. 4121 c.c.).
L'azione di annullamento si prescrive in 5 anni dal momento in cui è cessata la sottoposizione
all’amministratore di sostegno (art. 4123 c.c.).
22. - L'incapacità naturale è lo stato di fatto della persona che non è in grado d'intendere o di
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volere per una qualsiasi causa permanente o transitoria (art. 428 c.c.).
L'incapacità naturale non indica uno stato legale d'incapacità della persona né si traduce di per sé
nella perdita o nella riduzione della capacità di agire del soggetto.
La perdita e la limitazione della capacità di agire della persona possono conseguire solo a seguito
di una sentenza d'interdizione o di inabilitazione o di un provvedimento di amministrazione di
sostegno.
Chi non è in grado di intendere o di volere non è di per sè un incapace legale, ma i suoi atti
negoziali possono essere suscettibili di annullamento.
Il riconoscimento incondizionato della validità dell'atto di autonomia privata compiuto
dall'incapace naturale verrebbe a ledere l'esigenza che tale atto sia espressione di una volontà
integra e consapevole. La legge prevede quindi che l'atto possa essere impugnato da chi non era in
grado di intendere o di volere al momento di compierlo.
L'annullamento è sancito nell'interesse dell'incapace naturale ed è subordinato all'accertamento
che questi abbia un grave pregiudizio dall'atto medesimo.
Si prescinde dal requisito del pregiudizio quando si tratta di testamento (art. 591, n. 3, c.c.) o di
un negozio personale, che incida cioè sulla sfera dei diritti personali del soggetto (ad es. il
matrimonio, per il quale cfr. art. 120 c.c.). Anche la donazione è senz'altro annullabile (art. 775
c.c.).
Se t'atto stipulato è un contratto, t'annullamento presuppone la mala fede dell'altro contraente, e
cioè presuppone che l'altra parte fosse consapevole di contrattare con una persona non in grado
d'intendere o di volere. La mala fede può risultare dal fatto che era palese l'irragionevole
pregiudizio che il contratto comportava a carico dell'incapace, e può risultare anche da altre
circostanze (come, ad es., i segni esteriori dello squilibrio mentale o della intossicazione del
soggetto).
L’azione di annullamento compete esclusivamente all'interessato (e, s'intende, a chi lo
rappresenta) e ai suoi successori e aventi causa, cioè coloro che hanno un titolo di acquisto
pregiudicato dall'atto di alienazione posto in essere dall'incapace. Essa si prescrive in 5 anni dal
compimento dell'atto (art. 4283 c.c.).
Per quanto attiene agli atti giuridici non negoziali, essi sono di regola efficaci anche se compiuti
da chi non è in grado d'intendere o di volere. Efficaci, di regola, sono anche gli atti ricevuti
dall'incapace naturale. Così, ad es., il pagamento effettuato al creditore è liberatorio pur se questi
sia un incapace naturale.
Per quanto attiene agli atti illeciti, la legge esonera da responsabilità chi non era in grado
d'intendere o di volere al momento dell'atto (art. 2046 c.c.).
L'esonero tuttavia non opera quando il soggetto si è volontariamente posto in stato d'incapacità
naturale (azione C.d. libera in causa).
La regola trova inoltre due fondamentali temperamenti a favore del danneggiato attraverso la
norma che rende responsabile chi era eventualmente tenuto alla sorveglianza dell'incapace e
attraverso la norma che prevede la condanna dell'incapace ad un equo indennizzo (art. 2047 c.c.).
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MODULO VI
I diritti fondamentali
l. - I diritti fondamentali dell'uomo, detti anche diritti della personalità, sono quei diritti che
tutelano la persona nei suoi valori essenziali.
Nella nostra Costituzione essi sono previsti come diritti "inviolabili". Questo termine, non
rigorosamente tecnico, vuole esprimere il solenne impegno dello Stato a
garanzia di tali diritti e vuole esprimere inoltre una scelta di fondo dell' ordinamento.
Tale scelta può indicarsi precisamente nel senso che l'ordinamento è preordinato in funzione
dell'uomo, il quale non è quindi lo strumento dei fini dello Stato ma è piuttosto esso medesimo il
fine ultimo delle norme giuridiche.
2. - L'enunciazione di diritti "inviolabili" ha i suoi diretti precedenti nell' idea illuministica dei
diritti innati dell'uomo. Questa idea, doveva trovare le sue principali e solenni affermazioni nella
Costituzione federale americana (1787) (e già prima nei Bills of rights di singoli Stati
nordamericani) e nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamata dalla
Rivoluzione francese (1789).
Nella nostra epoca l'esigenza della tutela dei diritti fondamentali ha trovato riconoscimento in
convenzioni internazionali tra le quali vanno segnalate le moderne convenzioni internazionali, e
principalmente la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata dalle Nazioni Unite
(New York, 10 dicembre 1948) e, tra le altre, la Convenzione di Roma sulla protezione dei diritti
31
dell'uomo e delle libertà fondamentali (4 novembre 1950).
Un'ulteriore affermazione dei diritti fondamentali si è avuto in sede comunitaria, nel Trattato
istitutivo dell'Unione Europea e nella Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea firmata il 7 dicembre 2000).
4. - Caratteri comuni dei diritti della personalità sono l'indisponibilità e la non patrimonialità.
Trattandosi di diritti che tutelano valori essenziali della persona si intende come il titolare non
possa rinunziarvi nè possa cederli ad altri. Nella prospettiva sociale dell' ordinamento la tutela
della personalità umana risponde infatti ad un interesse della collettività e si pone pertanto come
un principio inderogabile di ordine pubblico.
L'indisponibilità dei diritti fondamentali non ne esclude in via assoluta una parziale limitazione o
rinunzia. Non esclude, precisamente, che il titolare possa costituire diritti a favore di terzi che
importino vincoli o ingerenze nella sfera della propria personalità o rinunzie a determinate
prestazioni di solidarietà sociale. Il criterio per stabilire la validità degli atti parzialmente
limitativi o rinunziativi di diritti della personalità è dato dalla funzione di tali diritti, e cioè la
tutela della dignità umana. Gli atti che importino parziali limitazioni o rinunzie ai diritti della
personalità possono reputarsi validi se alla stregua della coscienza sociale essi siano compatibili
con la dignità della persona umana.
Deve ritenersi, pertanto, giuridicamente invalida una rinunzia, sia pure parziale, alla propria
libertà di pensiero mentre è ammissibile, ad es., che il soggetto autorizzi la pubblicazione della
propria immagine o dei fatti della propria vita privata. Lesiva della dignità umana risulterebbe
invece la definitiva cessione ad un terzo del diritto di utilizzazione della propria immagine o di
32
tutti i fatti della propria vita privata.
Alla indisponibilità dei diritti della personalità si accompagna il carattere della non
patrimonialità. La non patrimonialità significa che alla stregua della coscienza sociale il diritto
non ha un valore di scambio.
La patrimonialità del diritto deve essere ulteriormente distinta rispetto alla patrimonialità del
danno. Il danno è infatti la conseguenza della violazione del diritto e questa conseguenza può
avere carattere patrimoni aIe a prescindere dalla natura del diritto leso.
Sul piano privatistico la violazione dei diritti di rispetto della personalità integra gli estremi
dell'illecito civile e comporta il generale rimedio del risarcimento del danno.
Suscettibile di risarcimento è il danno patrimoniale, cioè la diminuzione economica del
patrimonio del danneggiato e il mancato guadagno (art. 1223 c.c.).
Così, ad es., la perdita di una mano può comportare specifiche conseguenze economiche negative,
rappresentate dalle spese per le cure mediche e per la protesi, dalla diminuzione della capacità
lavorativa, ecc.
Ma il danno derivante dalla violazione dei diritti fondamentali è primieramente il danno non
patrimoniale, costituito dalla lesione del diritto in sè considerata. La risarcibilità di questo danno
ha in passato trovato ostacolo nella norma del codice civile che prevede il risarcimento del danno
non patrimoniale solo nei casi determinati dalla legge (art. 2059), e quindi, in via principale, nei
casi di danni derivanti da reato (art. 185 q,.):"Il limite è stato alla fine superato dalla
giurisprudenza dapprima con riguardo al danno c.d. biologico, cioè al danno consistente nella
lesione dell' integrità psicofisica o della salute della persona. La giurisprudenza ha riconosciuto
che tale lesione costituisce come tale un danno risarcibile, a prescindere dal danno patrimoniale.
La svolta della giurisprudenza in tema di danno biologico si giustifica in ragione dell'esigenza di
una piena tutela giuridica di beni essenziali della persona quali sono l'integrità psicofisica e la
salute. La medesima esigenza ha infine condotto ad ammettere che la violazione di qualsiasi
diritto della personalità dà luogo al risarcimento del danno consistente nella lesione del bene
protetto in sè considerato, a prescindere dalle sue conseguenze economiche negative.
5. - La persona alla quale sia negata la tutela giudiziaria dei suoi diritti fondamentali o che subisca
la violazione di essi per effetto di atti legislativi o amministrativi può ricorrere alla Corte dei diritti
dell'uomo.
A seguito della riforma della Convenzione di Roma attuata nel 1997 (protocollo e accordo ratif.
dalla 1. 28 agosto 1997, n. 196, e 2 ottobre 1997, n. 348) la Corte è stata costituita come organo
giurisdizionale che siede in permanenza a Strasburgo, ed è competente a ricevere ricorsi
individuali.
Precisamente, ogni persona fisica, ogni organizzazione privata o gruppo di privati può rivolgersi
alla Corte per denunziare la violazione di diritti dell'uomo da parte di uno degli Stati aderenti alla
Convenzione dei diritti riconosciuti nella stessa (n. 34).
Anche gli stranieri possono ricorrere alla Corte.
Condizione di ricevibilità del ricorso è che il ricorrente abbia esaurito i mezzi di tutela esprimibili
contro la violazione dei suoi diritti e che siano trascorsi 6 mesi dal provvedimento definitivo che
abbia attuato o confermato la violazione (art. 35 1).
Tutti i diritti dell'uomo generalmente riconosciuti da convenzioni internazionali possono essere
fatti valere dinanzi alla Corte di Strasburgo.
6. - I diritti fondamentali spettano all'essere umano in quanto posti a tutela dei valori umani
essenziali alla stregua della coscienza sociale.
Il riconoscimento dei diritti fondamentali deve quindi procedere sulla base della identificazione e
imputazione di tali valori, senza essere condizionato da preclusioni di ordine formale.
Ciò deve essere tenuto presente, anzitutto, con riguardo alla questione della possibile spettanza di
questi diritti al nascituro. La questione non può essere adeguatamente risolta applicando la
norma civilistica che collega l'acquisto della capacità giuridica al momento della nascita (art. 1
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c.c.). Questa norma, infatti, non esclude che il nascituro sia in atto portatore di interessi
giuridicamente tutelati.
Secondo una corretta impostazione occorre piuttosto avere riguardo alla riferibilità di valori
essenziali all'essere umano anche prima dell' evento della nascita (ad es., la salute): il nascituro è
infatti un essere umano, seppure non ancora dotato di vita autonoma. A questa impostazione
risponde appunto il riconoscimento della nostra Corte costituzionale che tra i diritti inviolabili
dell 'uomo deve collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione
giuridica del concepito.
La titolarità dei diritti fondamentali viene meno, invece, con la morte della persona.
7. - In quanto i diritti fondamentali sono posti a tutela della dignità umana essi spettano anche
allo straniero.
Va osservato al riguardo che la Costituzione impone allo Stato di regolare la condizione giuridica
dello straniero in "conformità della norme e dei trattati internazionali" (art. 10 2). Viene in tal
modo costituzionalmente garantito l'impegno assunto dal nostro Paese con la Convenzione di
Roma sui diritti dell'uomo, di riconoscere ad ogni persona soggetta alla sua giurisdizione i diritti e
le libertà proclamate dal titolo primo della Convenzione stessa (art. 1). La 'giurisdizione' è qui
intesa nel senso di 'sovranità'. Conseguentemente lo Stato italiano non può negare il godimento
dei diritti fondamentali agli stranieri che si trovino nel nostro territorio.
Che i diritti fondamentali spettano allo straniero è ora proclamato dal T.U. emanato con d. 19s 25
luglio 1998, n. 286 (art. 21: "Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello
Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto
interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale
generalmente riconosciuti").
8. - Il diritto alla vita tutela l'interesse dell'essere umano al godimento del fenomeno naturale
della propria integrità psico fisica.
Pur non essendo specificamente menzionato nella nostra Carta costituzionale, tale diritto rientra
tra i tipici diritti fondamentali dell 'uomo ed è proclamato nella Dichiarazione delle Nazioni Unite
(art. 3) e nella Convenzione di Roma (art. 2). Il bene dell’integrità psicofisica esige il rispetto ma
anche la cura della persona. Il diritto alla salute comprende queste due forme di tutela, ponendosi
come diritto di rispetto della persona da parte dei terzi e come diritto di solidarietà nei confronti
dello Stato.
L'integrità psicofisica della persona dev'essere rispettata anzitutto dal potere pubblico, che non
può imporre normativamente nè eseguire trattamenti che importino violenze o menomazioni
psicofisiche a carico degli individui (art. 32 2 Cost.: "la legge non può in nessun caso violare i limiti
imposti dal rispetto della persona umana)”.
Nei confronti dei privati il diritto all'integrità psicofisica è un diritto assoluto che implica a carico
di tutti i terzi il divieto di comportamenti che importino sofferenze, malattie o menomazioni. Il
diritto all'integrità psicofisica è tutelato sul piano della responsabilità extracontrattuale, dando
luogo al risarcimento del danno biologico, inteso come qualsiasi alterazione fisica o psichica
dell'organismo.
Come diritto di solidarietà il diritto alla salute è il diritto della persona all’assistenza sanitaria
pubblica.
9. - Il diritto all'integrità morale tutela l'esigenza dell'essere umano al godimento del suo onore e
del suo decoro come singolo e come membro di una collettività.
Sebbene tale diritto non venga espressamente menzionato tra i diritti fondamentali dell'uomo, è
certo che la rispettabilità rappresenta uno dei valori primari dell'uomo e che il suo pregiudizio
incide sull' esplicazione della personalità.
La generalità degli ordinamenti provvede a tale tutela mediante disposizioni penali che vietano
l'ingiuria, cioè l'offesa diretta alla persona presente, e la diffamazione, cioè l'attribuzione alla
34
persona di fatti lesivi della sua reputazione. Se questi fatti sono veri sorge il contrasto con un'
altra fondamentale esigenza, e cioè quella della libertà di comunicazione, comprensiva della
libertà di informazione. Nel nostro ordinamento prevale l'esigenza della libertà di informazione
quando sussista un apprezzabile interesse generale alla conoscenza dei fatti.
La responsabilità civile per lesione dell' onore dà luogo al risarcimento del danno e può
comportare la condanna alla pubblicazione della sentenza quale risarcimento in forma specifica.
Un particolare rimedio, previsto dalla legge sulla stampa, è il diritto di rettifica.
Questo rimedio può essere esperito dalla persona lesa dalla pubblicazione, su un periodico, di uno
scritto ingiurioso o di una notizia falsa, e consiste nel diritto di far
pubblicare, sullo stesso periodico e con determinate modalità, risposte, rettifiche o dichiarazioni
(art. 8 1. 8 febbraio 1948, n. 47).
10. - I diritti di libertà tutelano in generale l'esigenza della persona umana di esplicarsi secondo le
proprie scelte.
Le libertà anticamente rivendicate si ritrovano nella moderne Dichiarazioni e
nella nostra Costituzione assieme ad una più ampia tipizzazione delle diverse manifestazioni dell'
attività umana garantite alla persona. In questa tipizzazione si distinguono la libertà personale,
cioè la libertà fisica (art. 13 Cost.), la libertà di circolazione e di residenza (art. 16 Cost.), la libertà
di religione (art. 19 Cost.), la libertà di manifestazione e di comunicazione del pensiero (art. 15, 21
Cost.), la libertà di lavoro (art. 4 Cost.), la libertà di associazione (art. 18 Cost.), la libertà di
sciopero (art. 40 Cost.).
Tra le libertà civili una preminente importanza è tradizionalmente riservata alla libertà di stampa,
la quale rientra nell'ambito della libertà di espressione del pensiero (art. 21 2-6 Cost.). La libertà di
stampa prevale sul diritto alla riservatezza e all'onore, purchè la pubblicazione sia giustificata
dalla funzione dell'informazione e sia conforme ai canoni della correttezza professionale.
11. - Il diritto al segreto tutela l'interesse della persona a che i fatti della propria vita privata non
vengano abusivamente conosciuti o comunicati a terzi. Il diritto ha avuto un tradizionale
riconoscimento come diritto alla segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.). Questo
riconoscimento ha significato l'affermazione di una sfera inviolabile dell'individuo sottratta
all'ingerenza dello Stato e dei terzi. Tale diritto assoluto importa il divieto di prendere conoscenza
del contenuto della corrispondenza epistolare e delle comunicazioni telefoniche e telegrafiche.
Questo diritto può essere limitato soltanto con atto motivato dell'autorità giudiziaria con le
garanzie stabilite dalla legge: art. 152 Cost.).
Al di fuori della citata norma della Costituzione il segreto è tutelato da singole disposizioni di leggi
civili e penali (es.: art. 622 c.p.).
12. - Il diritto alla riservatezza ha un duplice significato come diritto alla protezione dei dati
personali e come diritto al rispetto della propria vita privata.
Già da tempo si era avvertita l'esigenza di tutelare la persona contro l'abusiva diffusione dei fatti
della propria vita. Ma questa esigenza è andata aumentando a fronte dell'impiego degli strumenti
della tecnologia informatica, idonei alla raccolta e pronta selezione e percezione di innumerevoli
dati. La crescente esposizione dei privati al pregiudizio di schedature utilizzabili a fini di
controllo, di sfruttamento commerciale, ecc., ha richiesto un intervento volto a regolamentare il
trattamento dei dati personali entro limiti compatibili col rispetto della persona.
Di questa esigenza si era fatta portatrice la Convenzione di Strasburgo del 28 gennaio 1981,
ratificata dalla 1. 21 febbraio 1989, n. 98, sulla protezione della persona rispetto al trattamento
automatizzato di dati.
E' poi intervenuta la Direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio delle Comunità
Europee del 24 ottobre 1995, e da ultimo la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea del
7 dicembre 2000, che ha sancito il diritto di ogni individuo "alla protezione dei dati di carattere
personale che lo riguardano" (art. 81).
35
In Italia il trattamento dei dati personali, intesi come 'qualsiasi informazione' relativa a persone
fisiche o enti giuridici, è stato disciplinato dalla legge 31 dicembre 1996, n. 675, modificata e
integrata dal 'codice in materia di protezione dei dati personali; emanato col d. 19s. 30 giugno
2003, n. 196.
Il trattamento disciplinato dalla legge non concerne solamente la diffusione dei dati personali ma
più estensivamente qualsiasi operazione di loro raccolta, conservazione, elaborazione,
utilizzazione o cancellazione (art. 41).
Il diritto alla riservatezza ha acquistato in tal modo un nuovo contenuto, quale diritto della
persona alla protezione dei suoi dati personali.
La riservatezza designa anche il rispetto della vita privata della persona. E' questa la nozione
comunemente espressa dal termine privacy, che ha segnato l'origine della dottrina della
riservatezza. Alla dottrina nordamericana va il merito di avere, già alla fine del XIX secolo,
'scoperto' il diritto "ad essere lasciati soli": diritto della personalità ampiamente inteso come
diritto di ciascuno a non subire ingerenze nei propri fatti personali, nella propria immagine, nei
propri pensieri, ecc.
La distinzione tra protezione dei dati personali e privacy è presente anche nella Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione Europea, dove è previsto il diritto di ogni individuo "al rispetto della
propria vita privata e familiare" (art. 7) e, con separata enunciazione, il diritto della persona "alla
protezione dei propri dati personali" (art. 8).
I due diritti sono per altro connessi, in quanto il diritto al rispetto della vita privata è
principalmente minacciato dall'abusivo trattamento dei dati personali. Il diritto alla protezione
dei dati personali tutela quindi anche il diritto alla privacy della persona. Una conferma in tal
senso è data dal codice della protezione dei dati personali, dove si prevede testualmente che il
trattamento dei dati personali deve svolgersi nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali,
con particolare riferimento alla riservatezza (art. 21).
La disposizione va intesa nel senso che il diritto alla protezione dei dati personali è sancito a tutela
di una pluralità di interessi essenziali della persona, tra i quali l'interesse al rispetto della intimità
della propria vita.
13. - Il diritto all'immagine tutela l'interesse del soggetto a che il suo ritratto non venga diffuso o
esposto pubblicamente.
Pur non essendo specificamente indicato dalla Costituzione, tale diritto deve ricondursi ai diritti
fondamentali dell'uomo in quanto esso tutela un aspetto di quella intimità della vita privata che è
ormai reputata un valore primario della persona.
L'intimità della vita privata della persona è appunto violata anche quando il ritratto della persona
venga offerto alla pubblica curiosità.
La nostra legge ordinaria disciplina il diritto
all'immagine come diritto assoluto che importa il divieto a carico di tutti i terzi di esporre o
pubblicare il ritratto altrui (art. 10 c.c.; art. 96, 971. sul diritto di autore del 22 aprile 1941, n. 633).
La tutela dell'immagine incontra anzitutto il limite dalla stessa volontà del soggetto, il quale può
liberamente autorizzare l'uso del ritratto.
L'autorizzazione è valida poichè la libertà della vita di relazione richiede che sia lo stesso
interessato a decidere se offrirsi o meno alla pubblica curiosità. Il soggetto non potrebbe invece
rinunziare del tutto e definitivamente al suo diritto in quanto tale rinunzia costituirebbe un
assoggettamento lesivo della dignità umana.
Il consenso è comunque revocabile, anche se validamente prestato. La persona conserva infatti il
suo diritto all'immagine e la libertà di esercitarlo.
Il consenso non autorizza una non prevista utilizzazione o manipolazione dell'immagine che alteri
il significato del comportamento o della personalità. In alcuni casi esaminati dalla giurisprudenza
la manipolazione è stata reputata illecita in quanto concretamente pregiudizievole per gli interessi
morali e materiali del soggetto.
La pubblicazione dell'immagine non richiede il consenso dell'interessato quando si tratta di un
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soggetto che svolge un'attività o ha una carica che lo espongano alla notorietà. Il diritto
all'immagine incontra poi i limiti dell'interesse pubblico, della giustizia e delle finalità
scientifiche, didattiche e culturali.
Ancora, è lecita la diffusione dell’immagine quando essa sia connessa a fatti svoltisi in pubblico o
aventi comunque rilevanza sociale (art. 97 l. aut.).
Chi, ad es., partecipa ad un comizio pubblico non deve lamentarsi se viene fotografato insieme
agli altri partecipanti a questa manifestazione e se la fotografia venga poi pubblicata.
In alcuni casi esaminati dalla giurisprudenza la pubblicazione è stata reputata illecita in quanto
concretamente pregiudizievole per gli interessi morali del soggetto, come nel caso della diffusione
di un manifesto che ritraeva un sacerdote il cui ritratto era stato preso lecitamente e che
lecitamente poteva essere pubblicato, perché il sacerdote aveva partecipato ad una
manifestazione pubblica. Ma il manifesto propagandava la legge sull’aborto e quindi era evidente
che l’immagine di quel sacerdote era stata abusivamente manipolata in maniera tale da alterare
l’identità morale della persona, facendo passare il religioso come un sostenitore di quella legge.
La violazione del diritto all'immagine comporta l'obbligo del risarcimento (danno patrimoniale,
nella misura in cui sia dimostrabile un pregiudizio economico, nonchè del danno non
patrimoniale.
L'interessato può ottenere la cessazione della diffusione abusiva dell'immagine. Il provvedimento
può essere chiesto anche dal coniuge, dai genitori e
dai figli della persona ritratta (art. 10 c.c.). Qui gli stretti congiunti sono eccezionalmente
legittimati a fare valere l'interesse della persona lesa, semprechè, s'intende quest'ultima non abbia
autorizzato la diffusione.
14. - Un interesse essenziale della persona è quello alla propria identità, ossia ad essere
identificato e riconosciuto nella sua realtà individuale. L'identità della persona è tutelata dal
diritto al nome, dal diritto all'identità sessuale, dal diritto all'identità morale.
Il nome è l'appellativo che identifica socialmente la persona. Esso consta del cognome, che è
l'appellativo comune al gruppo familiare, e del prenome, che è l'appellativo individuale (art. 62
c.c.).
La funzione di identificazione sociale assolta dal nome risponde ad un interesse pubblico. In
ragione di tale interesse lo Stato detta regole rigorose per quanto concerne l'acquisto e la
pubblicità del nome delle persone fisiche. E' lo stesso soggetto, tuttavia, che ha un interesse alla
sua identità nella vita di relazione .. Questo interesse trova tutela nel diritto al nome, che è il
diritto del soggetto all'uso esclusivo dell'appellativo che lo identifica socialmente.
Il diritto al nome rientra tra i diritti della personalità in quanto esso tutela un interesse che è
reputato essenziale della persona. Alla stregua della coscienza sociale, infatti, la lesione di tale
interesse attraverso la negazione, la privazione, la contestazione o l'usurpazione del nome
significa lesione della dignità della persona.
Nel diritto privato il diritto al nome si configura come un diritto assoluto della personalità,
indisponibile e non patrimoniale. Esso importa a carico di tutti i terzi il divieto di contestare o
usare indebitamente il nome della persona pregiudicandone la sua identità sociale.
La legge prevede specificamente che il soggetto può chiedere al giudice la cessazione del fatto
lesivo del terzo in caso di contestazione del nome ovvero in caso di uso indebito di esso (art. 71
c.c.).
Sussiste la contestazione quando il terzo molesta il soggetto impedendo l'uso del nome
spettantegli.
Sussiste l'uso indebito quando il terzo si avvale del nome del soggetto. Più specificamente l'uso
indebito può consistere nella usurpazione, e cioè nell'appropriazione del nome da pare del terzo
come nome proprio. L'uso indebito può inoltre consiste nella utilizzazione abusiva del nome,
quando questo sia utilizzato dal terzo per identificare personaggi di fantasia ovvero enti o prodotti
commerciali.
La legge prevede che la cessazione del fatto abusivo possa essere chiesta anche da chi non porti il
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nome contestato o indebitamente usato se sussista un interesse fondato su ragioni familiari degne
di essere protette (art. 8 c.c.).
Oltre alla cessazione del fatto abusivo il soggetto può chiedere il rimedio generale del
risarcimento del danno.
16. - Il diritto al nome è riconosciuto agli enti giuridici, pur se privi di personalità. Anche tali enti
sono infatti socialmente identificati per mezzo del loro nome o, più propriamente, della loro
denominazione. Il diritto al nome degli enti giuridici non rientra comunque tra i diritti della
personalità in quanto si tratta di un segno di identificazione che non tutela un interesse
paragonabile all'interesse essenziale della persona fisica a godere della propria identità sociale. La
denominazione degli enti giuridici non presenta pertanto i caratteri dei diritti fondamentali
(indisponibilità, non patrimonialità, ecc.).
17. - Il sesso rileva come primo segno di identificazione della persona nel contesto sociale. Oltre
che incidere sulla capacità giuridica generale, il sesso influenza ancora largamente la vita della
persona e i suoi rapporti con l'ambiente. Di qui l'interesse del soggetto al godimento della propria
identità sessuale, e cioè al riconoscimento del proprio sesso.
In tema di diritto all'identità sessuale va tenuta presente la disciplina legislativa che prevede
l'attribuzione giudiziale alla persona di un sesso diverso da quello enunciato nell' atto di nascita a
seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali (l. 14 aprile 1982, n. 164). Se
necessario, il tribunale può autorizzare il trattamento medico-chirurgo per l' adeguamento dei
caratteri sessuali.
18. - Il diritto all'identità morale designa il diritto della persona a non vedere alterata la verità
della propria vita e delle proprie idee. Il rispetto dell'identità morale esige precisamente che la
divulgazione di fatti e idee della persona non sia falsa o distorsiva.
La lesione dell'identità morale della persona prescinde dal carattere ingiurioso della divulgazione
falsa o distorsiva. Il diritto all'identità morale si distingue infatti rispetto al diritto all'integrità
morale, che tutela il bene dell'onore e del decoro, mentre il diritto all'indentità morale tutela la
verità dell'immagine della persona.
In un emblematico precedente giurisprudenziale la lesione dell'identità morale è stata ravvisata
nella manipolazione di un'intervista televisiva, che, pur riportando le parole effettivamente dette
dalla persona intervistata, le aveva assemblate in modo tale da distorcene il senso e da far
attribuire all'intervistato opinioni non sue.
Il diritto all'identità morale può ravvisarsi anche in capo agli enti giuridici, portatori dell'
interesse a non vedere distorte o falsate le loro finalità ideali.
19. - Tra i diritti di solidarietà, che tutelano l’interesse del soggetto a realizzare la propria
personalità mediante l’altrui prestazione, si colloca anzitutto il diritto dell’eguaglianza. Questo
diritto tutela l’esigenza dell’essere umano ad essere trattato alla pari degli altri senza
discriminazioni giuridiche, e in particolare discriminazioni fondate sul sesso, la razza, la lingua,
la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali (art. 3 1 Cost.).
Il diritto all'eguaglianza di trattamento o diritto di eguaglianza giuridica è stato tradizionalmente
rivendicato nei confronti dello Stato. Il suo riconoscimento
costituzionale sancisce il divieto di una legislazione discriminatoria ma conferisce al soggetto
anche la pretesa a non subire un trattamento individuale discriminato da parte dell'Autorità
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pubblica. Il soggetto può quindi chiedere l'annullamento di un atto amministrativo che lo
discrimini arbitrariamente. Se la discriminazione discende dalla legge, questa deve essere
dichiarata incostituzionale mediante pronunzia della Corte costituzionale.
L'opinione prevalente esclude che sussista un diritto soggettivo privato all'eguaglianza di
trattamento in quanto la libertà della vita di relazione include normalmente anche quella di
instaurare i rapporti negoziali secondo le proprie scelte e di differenziarli nel contenuto.
Deve invece ritenersi che la discriminazione per motivi politici, religiosi, razziali o di condizioni
personali e sociali è contraria ad una scelta di fondo del nostro ordinamento e assume pertanto
rilevanza anche nei rapporti interprivati quale principio di ordine pubblico, comportando ad es.,
la illiceità di regolamenti condominiali che vietassero di affittare gli appartamenti ad
extracomunitari.
Il divieto di discriminazione razziale è stato sancito da una direttiva comunitaria – la n. 2000/43
– che ha avuto applicazione in Italia con il d. lgs. 9 luglio 2003, n. 215.
In considerazione del fatto che la lotta alla discriminazione non può esaurirsi nel dettare norme
d’invalidità negoziale e contrattuale, ma esige uno sforzo di tutto l’apparato giuridico per
debellare il fenomeno della discriminazione intutti i settori della società, è stato costituito presso
il Ministero per le pari opportunità un ufficio contro le discriminazioni razziali. Tale uffico svolge
un’ampia attività di promozione della parità di trattamento e di rimozione di qualsiasi disparità
fondata sulla razza o sulla origine etnica.
20. - Il diritto alla retribuzione trova ormai generale riconoscimento tra i diritti fondamentali
dell'uomo quale pretesa ad una remunerazione che garantisca al lavoratore e alla sua famiglia una
vita libera e dignitosa.
Questo diritto si pone tra i diritti fondamentali in quanto la retribuzione non è un semplice
corrispettivo del lavoro ma una prestazione dovuta in funzione del sostentamento del lavoratore e
quindi in funzione di una condizione necessaria per l'esplicazione della sua personalità. La tutela
della dignità umana esige che l'ordinamento garantisca a tutti una esistenza libera e dignitosa, ma
esige anzitutto che il lavoro - dovere primario del cittadino - non divenga una forma di
sfruttamento dell'uomo e che la garanzia di una vita libera e dignitosa sia quindi posta a carico di
chi utilizza a proprio vantaggio il lavoro altrui.
Il diritto alla retribuzione è appunto un diritto privato del lavoratore nei confronti del datore di
lavoro. La nostra Costituzione gli ha dato espresso riconoscimento, conferendo al lavoratore la
pretesa ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e, in ogni caso,
sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una vita libera e dignitosa (art. 36).
Già nella Dichiarazione delle Nazioni Unite è proclamato il diritto ad una retribuzione equa e
remunerativa idonea ad assicurare al lavoratore e alla sua
famiglia un'esistenza conforme alla dignità umana (art. 23).
Il diritto alla retribuzione è irrinunziabile e indisponibile nella misura in cui, appunto, esso è
necessario al lavoratore per il mantenimento suo e della famiglia.
Norme particolari di legge stabiliscono limiti di pignoramento e di cessione di salari o stipendi.
Ma neppure entro questi limiti può ammettersi la disponibilità della retribuzione se il diritto
residuo non raggiunge il limite necessario per il mantenimento.
21. - Altri diritti, oltre a quelli sopra menzionati, sono tradizionalmente inclusi tra i diritti della
personalità, come ad es., il diritto alla paternità morale, cioè il diritto della persona ad essere
riconosciuto quale autore dell' opera dell'ingegno da lui creata (art. 25772 c.c.).
Figure di diritti della personalità vanno poi emergendo tra l'altro nel campo della solidarietà (es.:
il diritto alla sicurezza sociale: (art. 381 Cost.)) e della tutela del minore, della quale si è occupata
la Convenzione dell'O.N.U. del 20 novembre 1989, sui diritti del fanciullo (ratif. 1. 27 maggio
1991, n. 176).
In questa convenzione sono stati proclamati diritti del minore che la nostra legislazione ignorava
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e che tendono ad essere riconosciuti anche in Italia quali diritti fondamentali della persona. Basti
menzionare il diritto all’ascolto (il minore che abbia capacità di discernimento ha il diritto di
essere ascoltato in tutti i procedimenti che lo riguardano) e il diritto del minore di crescere nella
propria famiglia.
Stenta invece ad affermarsi il diritto all’eguale stato di figlio.
MODULO VII
1. Il domicilio
2. La residenza
3. La dimora
4. Rilevanza giuridica della sede
5. La scomparsa
6. L'assenza
7. La morte
8. La morte presunta
9. La commorienza
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Mentre di regola il domicilio della persona è determinato da un atto di elezione, il domicilio dei
minori e degli interdetti è un domicilio legale, cioè fissato direttamente dalla legge. Il minore,
precisamente, ha il domicilio nel luogo di residenza della famiglia (art. 452 c.c.). Se il minore è
sottoposto a tutela il suo domicilio è nel luogo di residenza del tutore. Nel luogo di residenza del
tutore è anche il domicilio legale dell'interdetto (art. 45 3 c.c.).
Il domicilio legale prescinde di massima dall'effettivo collegamento della persona al luogo. Il
minore può vivere in un luogo diverso da quello dei genitori in quanto ad es., il giudice ne ha
ordinato l'allontanamento dalla residenza familiare (art. 330 2 c.c.), ma ciò non incide sul
domicilio legale.
Alla convivenza la legge dà invece rilevanza quando i genitori non abbiano la stessa residenza. La
convivenza diviene allora criterio per determinare a quale dei due genitori debba essere riferito il
domicilio legale del figlio (art. 452 c.c.).
Il domicilio speciale è la sede che la persona stabilisce per determinati atti o affari (art. 47 1 c.c.).
Il domicilio speciale è di regola un domicilio non esclusivo che si aggiunge al domicilio generale.
Anche con riguardo agli atti o affari per i quali il domicilio è stato eletto, i terzi possono quindi
fare riferimento al domicilio generale.
L'elezione del domicilio speciale deve essere fatta per iscritto e deve inoltre essere espressa (art.
472 c .c.), cioè richiede un'apposita dichiarazione.
L'elezione di domicilio speciale ha natura negoziale quale atto di autonomia del soggetto che
dispone direttamente in ordine ad un effetto giuridico. A tale atto si applica quindi la disciplina
contrattuale in quanto compatibile.
2. - La residenza è il luogo dove la persona ha fissato la sua abituale dimora (art. 43 2 c.c.).
Per abituale dimora s'intende il luogo di normale abitazione, e cioè il luogo dove il soggetto vive
normalmente l'intimità sua e della sua famiglia.
Ad integrare la residenza non è dunque sufficiente il semplice fatto di dimorare in un luogo ma
occorre che l'abitazione abbia carattere di abitualità. Alla stregua della corrente interpretazione
giurisprudenziale occorre inoltre l'intenzione del soggetto di stabilire nel luogo la sua abituale
dimora.
La pubblicità della residenza è realizzata attraverso un pubblico registro anagrafico che è tenuto
presso ogni Comune (art. 1 dPR 30 maggio 1989, n. 223, contenente il nuovo regolamento
anagrafico). Ciascuna persona fisica è legalmente tenuta ad iscrivere sè e coloro che sono soggetti
alla sua potestà o tutela nell'anagrafe del Comune di residenza (6 regol. anagr.). La residenza
anagrafica si presume come residenza effettiva. Ai terzi che abbiano fatto affidamento su tale
presunzione non può essere opposto che il soggetto ha altrove la sua residenza, salvo che si
dimostri che essi ne erano a conoscenza.
La residenza non viene meno per l'allontanamento della persona dovuto a temporanee esigenze di
vita (studio, lavoro, vacanza, ecc.).
4. - Alla sede della persona fisica fanno riferimento varie norme di legge per collegarvi rilevanti
41
effetti giuridici. A volte è fatto riferimento esclusivo al domicilio (es.: la successione si apre
nell'ultimo domicilio del defunto (art. 456 c.c.)), a volte alla residenza (es.: le pubblicazioni
matrimoniali devono essere eseguite nel Comune dove ciascuno degli sposi ha la residenza (art.
94 c.c.), a volte alla dimora (es.: ai fini della dichiarazione dello stato di adottabilità è competente
il tribunale per i minorenni del distretto nel quale i minori si trovano (art. 81. 4 maggio 1983, n.
184, rev. d.lgs. 24 aprile 2001, n. 150).
In numerosi casi la legge equipara domicilio e residenza (es.: l'atto notarile deve contenere
l'indicazione del domicilio o della residenza delle parti (art. 511. 16 febbraio 1913, n. 89).
5. - La persona fisica si considera scomparsa quando essa non appare più nella sua ultima
residenza e domicilio e non se ne hanno più notizie (art. 48 c.c.).
La scomparsa è un fatto giuridico che si identifica nella irreperibilità della persona, di cui si siano
perdute le tracce oltre quel periodo di tempo che, secondo le circostanze, può essere giustificato
dai normali allontanamenti della persona per ragioni di lavoro, di salute o di svago.
La scomparsa può rendere opportuna la nomina di un curatore che provveda al compimento di
atti di gestione e di conservazione dei beni dello
scomparso.
La nomina del curatore è fatta dal Tribunale su ricorso di qualsiasi interessato, cioè da chiunque
abbia un apprezzabile interesse alla conservazione del patrimonio (art. 721 c.p.c.). Tra i legittimati
a richiedere la nomina del curatore, la legge menziona espressamente i presunti successori
legittimi, e cioè coloro che, nel caso di morte dello scomparso, avrebbero titolo per la successione
legittima.
Legittimato, ancora, è il pubblico ministero, il quale può richiedere la nomina del curatore in vista
di un interesse generale ad evitare che la scomparsa della persona si traduca nella perdita o
distruzione di ricchezza economica.
Il curatore dello scomparso può essere autorizzato a gestire il patrimonio dello scomparso e, di
volta in volta, può anche essere autorizzato a compiere atti di straordinaria amministrazione
necessari per la salvaguardia del patrimonio.
Il curatore rimane in carica anche oltre il biennio fino a quando non venga revocato o sostituito.
La nomina decade poi con la ricomparsa della persona scomparsa. A tal riguardo non basta che lo
scomparso dia notizie di sè, ma occorre che egli sia nuovamente presente nella sua residenza o
domicilio o quanto meno che sia in grado di provvedere ai suoi interessi.
6. - L'assenza è il fatto, giudizialmente dichiarato, che la persona è scomparsa da oltre due anni
(art. 49 c.c.).
L'assenza è dichiarata con sentenza del tribunale su ricorso di chi presume essere successore
legittimo o testamentario dello scomparso o comunque di avere diritti in dipendenza della sua
morte (ad es.: chi diverrebbe pieno proprietario a seguito della morte dell'usufruttuario). Non è
invece sufficiente un interesse meramente morale né l'iniziativa può essere presa dal pubblico
ministero (art. 729 c.p.c.).
L'assenza non presuppone nè fa presumere la morte della persona. D'altro canto, essa non
consente più di presumere che la persona sia ancora in vita. L'assenza dà luogo allora ad una
situazione di giuridica incertezza sull'esistenza della persona.
I diritti spettanti allo scomparso si devolvono provvisoriamente ai presunti eredi e legatari.
Quando la dichiarazione di assenza è divenuta esecutiva, il tribunale, su istanza di qualsiasi
interessato o anche del pubblico ministero, ordina l'apertura di eventuali testamenti.
Su istanza, poi, dei presunti eredi, e cioè di coloro che sarebbero eredi se la morte dell' assente
cadesse nel giorno in cui risale l'ultima notizia di lui, il tribunale li autorizza ad immettersi nel
possesso temporaneo dei beni (art. 502 c.c.).
L'immissione nel possesso temporaneo dei beni dà luogo ad una successione provvisoria a causa
di assenza. Questa successione si attua nelle forme e nei modi della successione a causa di morte
ma in ragione dell' incertezza sull' esistenza dell' assente la legge salvaguarda l'interesse di
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quest'ultimo per l'ipotesi del suo ritorno. La successione non ha quindi carattere di definitività e i
successori possono disporre dei beni (venderli, ipotecarli, impegnarli) solo nei casi di necessità o
utilità evidente e con l'autorizzazione del tribunale.
I diversi problemi cui dà luogo l'applicazione della successione a causa di assenza devono essere
risolti tenendo fondamentalmente presente la ragione dell' istituto di sistemare provvisoriamente
il patrimonio dell' assente salvaguardando ne il recupero in caso di ritorno.
L'assenza non scioglie il matrimonio e quindi il coniuge dell' assente non può passare a nuove
nozze. Se tuttavia il coniuge dell' assente contrae ugualmente matrimonio, questo non può essere
impugnato finché dura l'assenza (art. 1173 cc) poiché l'obiettiva incertezza sulla sorte del coniuge
assente rende incerta la sussistenza dell'impedimento del vincolo coniugale.
Gli effetti della dichiarazione di assenza cessano se l'assente ritorna o ne è provata l'esistenza (art.
56 c.c.). La cessazione è automatica e non richiede una nuova pronunzia giudiziale.
L'assente recupera i suoi beni ma i frutti e le rendite spettano a coloro che ne hanno avuto il
godimento (art. 562 c.c.), a meno che questi siano stati in mala
fede (cfr. l'art. 1148 c.c.).
7. - La morte è l'evento della cessazione della vita umana che pone termine alla capacità giuridica
della persona.
La morte è oggetto di accertamento diretto o indiretto.
L'accertamento diretto è il normale accertamento del decesso verificato in base al cadavere. L'atto
pubblico di morte è compilato dell'ufficiale dello stato civile (art. 72 regol. sto civ. emanato con
dPR 3 novembre 2000, n. 396).
Quando non è possibile rinvenire o riconoscere il cadavere, si procede all'accertamento indiretto
mediante un verbale redatto dal procuratore della Repubblica (art. 78 regol. sto civ.).
All'accertamento indiretto si ricorre nelle ipotesi (naufragio, incendi, ecc.) in cui l'impossibilità di
identificare il cadavere consente ugualmente di desumere con ragionevole certezza la morte della
persona.
8.- La morte presunta è la morte dichiarata giudizialmente dal tribunale con riguardo a persona
la cui scomparsa persista oltre un determinato tempo.
Il tribunale provvede su ricorso dei presunti eredi o di chi vanti diritti in dipendenza della morte
dello scomparso o, ancora, su ricorso del pubblico ministero, stante l'interesse pubblico
all'accertamento del decesso.
Nell'ipotesi generale la morte può essere dichiarata quando la persona è scomparsa da oltre 10
anni. In tal caso la morte è legalmente riferita al giorno a cui risale l'ultima notizia della persona
(art. 581 c.c.).
In particolari ipotesi di scomparsa avvenuta in circostanze straordinarie (eventi bellici, ecc.), la
legge richiede tempi più brevi ai fini della presunzione di morte (art. 60 c.c.).
Gli effetti che discendono a seguito della dichiarazione di morte sono gli effetti che la legge
ricollega alla morte.
Se il dichiarato morto ritorna o ne è provata l'esistenza, gli effetti principali della dichiarazione di
morte presunta decadono retroattivamente.
La persona recupera il patrimonio, che deve considerarsi come non trasferito ai presunti
successori. A questi ultimi spettano tuttavia i frutti e le rendite fino al giorno della costituzione in
mora (arg. art 562 c.c.). Inoltre rimangono fermi gli atti di gestione compiuti dai presunti
successori. Il presunto morto subentra quindi nei rapporti costituiti.
Il nuovo matrimonio eventualmente contratto dal cOnIuge del dichiarato morto è nullo ma
rimangono fermi gli effetti civili prodotti anteriormente al ritorno del presunto morto o
all'accertamento della sua esistenza (art. 68 c.c.).
All'accertamento della morte presunta può sostituirsi l'accertamento della morte effettiva, quando
sia dimostrato l'effettivo avvenuto decesso del dichiarato morto. In tal caso gli effetti della morte
decorrono dal momento in cui questa è realmente avvenuta.
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9. - La commorienza indica la simultaneità della morte di due o più persone.
La commorienza è oggetto di una presunzione legale nei casi non risulta se una persona sia
deceduta successivamente ad un' altra. Quando non è possibile accertare la sopravvivenza di una
persona all'altra, la legge presume che esse siano decedute nello stesso momento (art. 4 c.c.).
Questa presunzione di commorienza vale per tutti gli effetti che dipendono dalla sopravvivenza.
Gli effetti che dipendono dalla sopravvivenza sono principalmente di natura successoria. Chi
sopravvive all’altro anche per un tempo brevissimo è chiamato alla sua successione.
La presunzione di commorienza, invece, fa sì che nessuno è successore dell’altro.
Supponiamo che muoiano intestati il genitore e il figlio e
che il genitore lasci un fratello. Se muore prima il genitore, l'eredità si devolve al figlio (art. 566 1
c.c.) e il fratello del defunto rimane escluso. Se invece il figlio muore prima, è erede legittimo il
fratello del genitore (art. 570 c.c.). L'applicazione della presunzione di commorienza conduce
appunto a questo secondo risultato: poichè il figlio non può ereditare dal genitore, l'eredità di
quest'ultimo si devolve al fratello di lui.
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MODULO VIII
1. - Gli enti giuridici sono organizzazioni dotate di capacità giuridica, ossia dell'idoneità ad
essere titolari in proprio di diritti e di doveri.
Gli enti giuridici possono avere o non avere la personalità giuridica, ma tutti gli enti giuridici,
come tutte le persone fisiche, sono soggetti di diritto.
Il fatto che l'ente sia soggetto di diritto vuol dire che per la legge è l'ente stesso che è parte di
rapporti giuridici. Così, se un ente (ad es., una società) contrae un debito, questo debito è dell'
ente che ne risponde col suo patrimonio. Accanto all' ente possono pure essere responsabili
singole persone fisiche, ma in tal caso si tratta di una responsabilità che si aggiunge a quella
dell'ente.
Ancora, l'ente può essere proprietario di beni, e di tali beni è l'ente che dispone tramite il suo
legale rappresentante.
3. - Oltre ad essere dotato di capacità giuridica, l'ente è anche dotato di capacità di agire. L'ente si
avvale necessariamente di persone fisiche, le quali decidono e compiono gli atti imputati all'ente
medesimo, ma non per ciò esso può essere equiparato ai minori e agli interdetti.
I minori e gli interdetti sono infatti soggetti i quali, per le loro condizioni di età o di salute, non si
presumono in grado di provvedere responsabilmente ai propri interessi. La legge predispone
pertanto una rappresentanza legale necessaria ai fini della loro protezione. Gli enti giuridici,
invece, non hanno alcuna menomazione che ne richieda l'affidamento ad altri soggetti. Essi
agiscono attraverso persone che fanno parte della loro stessa struttura organizzativa, e cioè
attraverso organi. In quanto gli organi si immedesimano nella struttura dell' ente, può dirsi che è
lo stesso ente ad agire mediante i suoi organi.
L'organo è in generale l'ufficio competente ad esercitare una funzione dell’'ente. Gli organi
possono essere esterni o interni a seconda che abbiano o no il potere di rappresentanza.
In quanto dotati di potere di rappresentanza gli organi esterni sono dei rappresentanti dell' ente,
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e trovano quindi applicazione le norme sulla rappresentanza volontaria (art. 1387 s. c.c.). La
differenza rispetto al comune rappresentante volontario è che l'organo, come si è visto, si
immedesima nella struttura dell' ente secondo una certa competenza: ne consegue che tutta
l'attività svolta dall' organo nell'esercizio della sua funzione è imputata all'ente. Non solamente,
quindi, sono imputati all'ente gli atti negoziai i compiuti dall' organo, ma anche gli eventuali atti
illeciti, sempre che l'illecito sia compiuto nell'esercizio di una funzione dell'ente.
Il decreto legislativo n. 231 dell' 8 giugno 200 l, ha statuito
la responsabilità di tutti gli enti giuridici privati (dotati o no di personalità giuridica) per i reati
commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da persone che ne hanno la rappresentanza, la
gestione, la direzione o il controllo (art. 5).
La legge ha quindi sancito la responsabilità degli enti per
quanto riguarda gli illeciti penali commessi dal loro rappresentanti o da coloro che ne
abbiano la gestione o il controllo, ma questa responsabilità è meramente amministrativa in
quanto la responsabilità penale ricade sulle persone fisiche che hanno effettivamente
compiuto l’illecito.
5. - L'ente non personificato, come si è visto, è portatore in proprio di diritti ed obblighi e può
quindi ritenersi dotato di capacità giuridica. La capacità giuridica deve invece negarsi a tutte
quelle forme organizzative di persone e di beni che non pervengono a costituire un centro unitario
di imputazioni giuridiche.
In particolare, la capacità giuridica deve negarsi all'azienda che è il complesso dei beni
organizzati per l'esercizio dell'impresa (art. 2555 c.c.). Nel comune linguaggio è frequente il
riferimento all'azienda come soggetto dell' attività economica (l'azienda assume dipendenti,
l'azienda fissa i listini, ecc.) ma tale riferimento non cancella il fatto che chi agisce è
l'imprenditore, cioè colui (singolo o società) che si avvale dell'azienda per l'esercizio dell'attività
economica. Ed è appunto all'imprenditore che fanno capo i rapporti giuridici, ed è l'imprenditore
il portatore dell' interesse all'esercizio dell' attività aziendale.
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MODULO IX
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La fondazione
3. - Il carattere non lucrativo dello scopo non esclude che la fondazione svolga attività economica.
La stessa amministrazione del patrimonio è un'attività economica che può comportare, quando vi
siano beni agricoli, anche una gestione aziendale.
La fondazione non può invece esercitare in via esclusiva o principale un'impresa commerciale,
neanche se il profitto venga utilizzato per il perseguimento di scopi altruistici.
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La fondazione può svolgere attività imprenditoriale solo in quanto si tratti di attività secondaria e
funzionale al perseguimento del suo scopo ideale. Se, invece, la fondazione svolgesse un'attività
d'impresa in via principale tale attività diventerebbe
essa stessa lo scopo dell’ente, in contrasto insanabile col suo carattere non lucrativo.
In tal caso conseguirebbe l'applicazione del regime dell'impresa e l'assoggettamento della
fondazione insolvente al fallimento. Conseguirebbe inoltre la responsabilità personale e illimitata
degli amministratori verso la fondazione e verso i creditori per avere agito in violazione dello
statuto (art. 2392 e 2394 c.c.).
Un regime speciale disciplina le fondazioni bancarie e le fondazioni musicali.
5. - Le delibere del consiglio di amministrazione che eccedono i limiti dello statuto non sono senz'
altro inefficaci ma possono essere annullate dall' autorità governativa (art. 25 2 c.c.).
L'annullamento delle delibere contrarie allo statuto rientra in un più ampio controllo che
l'autorità governativa esercita sull'ente e in base al quale essa provvede ad accertare l'invalidità
delle delibere contrarie alla legge, all' ordine pubblico e al buon costume.
L'autorità governativa, ancora, ha il potere di nominare o sostituire gli amministratori quando
non vi si possa provvedere in base alle norme dello statuto. L'autorità governativa, inoltre, può
sciogliere il consiglio di amministrazione e nominare un commissario straordinario quando gli
amministratori violino sistematicamente lo statuto o la legge o non perseguano lo scopo della
fondazione (art. 251 c.c.).
6. - La fondazione esiste in ragione dello scopo perseguito. Se quindi lo scopo diviene impossibile
o perde l'originaria utilità, la fondazione dovrebbe estinguersi. La legge tende tuttavia alla
conservazione dell' ente, prevedendo la possibilità che l'autorità governativa anziché estinguere la
fondazione ne disponga la trasformazione (art. 28 1 c.c.).
La trasformazione importa l'assunzione di uno scopo nuovo, che deve tuttavia essere analogo a
quello originario.
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La trasformazione non può aver luogo se il negozio di fondazione disponga diversamente,
prevedendo che i beni siano devoluti a determinati terzi.
Quando non si fa luogo a trasformazione, l'impossibilità dello scopo si pone come causa di
estinzione della fondazione. La fondazione si estingue inoltre a seguito dell'integrale realizzazione
dello scopo. Altre cause di estinzione possono essere previste dalle norme dell'ente (art. 27 c.c.).
L'estinzione è dichiarata formalmente dall' autorità governativa, anche di sua iniziativa.
La dichiarazione di estinzione non comporta l'immediata fine dell'ente, ma apre una fase di
liquidazione intesa alla conversione in denaro del patrimonio al fine dell'integrale pagamento dei
debiti dell'ente.
Conclusa la liquidazione, la fondazione cessa di esistere. I beni che residuano sono devoluti ad
altri soggetti secondo lo statuto dell' ente. Quando manca una previsione statutaria, è l'autorità
governativa che provvede devolvendo i beni ad altre istituzioni, pubbliche o private, aventi fini
analoghi (art. 312 c.c.).
7. - Il riconoscimento è essenziale per il sorgere della fondazione quale soggetto, e cioè quale
autonomo centro di imputazioni giuridiche. Il nostro ordinamento non conosce fondazioni «di
fatto» che, in mancanza di riconoscimento, siano dotate di una sia pur limitata capacità giuridica.
Una separata gestione di beni e la loro destinazione a scopi particolari non bastano a creare un
ente al quale riferire diritti e obblighi. I rapporti giuridici fanno pur sempre capo al titolare dei
beni separatamente organizzati.
Di una soggettività giuridica può tuttavia parlarsi con riguardo alla fondazione in attesa di
riconoscimento. Ancor prima del riconoscimento può infatti rendersi necessaria un' attività di
gestione. La possibilità della nomina giudizi aIe di un "amministratore provvisorio" (art. 3 4 disp.
prel. c.c.) conferma che si tratta di attività imputabile all'ente.
Occorre però sempre il riconoscimento, in mancanza del quale gli atti dovranno essere imputati a
chi risulterà titolare dei beni, e dei debiti risponderanno
personalmente coloro che li hanno assunti. La soggettività che può riconoscersi alla fondazione
in attesa di riconoscimento è quindi una condizione soggettiva provvisoria, essenzialmente
connessa alla procedura del riconoscimento.
MODULO X
Associazioni e comitati
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1. - L'associazione è un'organizzazione stabile di persone per il perseguimento di uno scopo non
lucrativo.
Nell'associazione si attua una profonda esigenza della vita sociale dell'uomo, e cioè quella di
unirsi e cooperare con altri per la realizzazione di interessi e di valori comuni. La partecipazione
ai gruppi è il momento nel quale l'individuo vive concretamente quella solidarietà sociale che è
meno avvertita nella vasta comunità statale. L'associazione, tra l'altro, ha costituito uno
strumento indispensabile per la tutela del lavoro, inattuabile senza la forza solidale del gruppo, e
per l'affermazione di istanze politiche.
Nel nostro ordinamento si distingue tra associazioni riconosciute e associazioni non riconosciute.
L'associazione riconosciuta ha la personalità giuridica mentre l'associazione non riconosciuta è un
ente privo di personalità giuridica. La mancanza di personalità giuridica, come vedremo meglio,
non esclude l'esistenza e l' operatività dell' associazione nonché l'applicazione di quelle regole
dettate per l'associazione riconosciuta che prescindono dall'aspetto della personalità.
2. - L'associazione ha la sua fonte nell' atto costitutivo, che è il negozio formale mediante il quale
più persone si organizzano in gruppo stabile per il perseguimento di uno scopo non lucrativo.
L'atto costitutivo dell'associazione è una convenzione plurilaterale che deve essere stipulata per
atto pubblico a pena di nullità (art. 141 c.c.).
L'atto costitutivo deve contenere l'indicazione dello scopo, del nome, della sede, del patrimonio.
Esso deve inoltre indicare i diritti e gli obblighi degli associati, le condizioni della loro
ammissione, le disposizioni sull' ordinamento e l'amministrazione, ed eventualmente quelle
relative all'estinzione dell'ente (art. 16 c.c.).
La parte normativa dell' atto costitutivo rappresenta lo statuto della associazione.
Il riconoscimento dell' autorità governativa è necessario per l'acquisto della capacità giuridica. In
attesa del riconoscimento l'associazione può tuttavia iniziare la sua attività come associazione non
riconosciuta.
4. - L'associazione si costituisce per il perseguimento di uno scopo non lucrativo che è la funzione
pratica che il gruppo assolve e per la quale è giuridicamente tutelato.
L'associazione ha spesso uno scopo ideale o altruistico ma può anche soddisfare un interesse
economico dei suoi membri. L'interesse economico deve tuttavia essere realizzato esclusivamente
attraverso una utilità percepita direttamente dall' associato. Se, invece, l'attività comune tende a
realizzare un profitto e a dividerlo tra i compartecipi, il gruppo si identifica nello schema della
società (art. 2247 c.c.).
Va ancora osservato che l'esercizio di un' attività imprenditoriale in via esclusiva o principale è
incompatibile con la natura di ente morale dell' associazione.
Di esercizio dell'impresa non deve parlarsi con riguardo a quelle iniziative occasionati che spesso
sono poste in essere dalle associazioni nell' ambito della loro attività istituzionale per raccolte di
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fondi o per fini ricreativi, culturali, ecc. (ad es., vendita di pubblicazioni, organizzazione di viaggi
a pagamento). Tali iniziative sono prive della professionalità che caratterizza la figura
dell'imprenditore (art. 2082 c.c.).
Se, invece, l’attività commerciale acquista un ruolo principale l’associazione si rivela una società,
con tutte le conseguenze che ciò comporta: tra queste, ad esempio, la responsabilità personale
illimitata di coloro che svolgono tale attività e la possibilità di dichiarazione di fallimento
dell’associazione divenuta società e dei soci che ne fatto parte.
6. - Gli amministratori sono gli organi competenti a gestire e a rappresentare l' associazione.
Le limitazioni del potere di rappresentanza devono risultare dal registro delle persone giuridiche.
In mancanza di tale pubblicità le limitazioni non hanno alcuna rilevanza per i terzi salvo per
coloro che ne erano a conoscenza (art. 19 c.c.).
La responsabilità degli amministratori verso l'associazione e verso 1 terzi è analoga a quella degli
amministratori della fondazione.
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di liquidazione della quota nè comunque lascia all'associato una pretesa sui beni sociali (art. 244
c.c.). Questa regola esprime il carattere non patrimoniale del rapporto associativo.
Come si è già rilevato per la fondazione, la dichiarazione di estinzione non comporta l'immediata
fine dell'ente ma apre una fase di liquidazione conclusa la quale l'associazione cessa di esistere. I
beni residui vengono devoluti secondo quanto posto dall' atto costitutivo e dallo statuto ovvero
secondo quanto disposto dall' assemblea che ha deliberato lo scioglimento. In mancanza, si
applica la regola valevole per le fondazioni, che rimette all' autorità governativa di decidere
'attribuzione dei beni ad altri enti aventi fini analoghi.
10. - Nel vasto panorama delle associazioni, caratterizzate tutte dallo scopo lucrativo, si
distinguono le associazioni di promozione sociale, le quali perseguono scopi altruistici di utilità
sociale (legge 7 dicembre 2000, n. 383).
Tra queste associazioni spiccano le organizzazioni di volontariato, costituite da persone che
prestano la propria opera in modo personale, spontaneo e gratuito esclusivamente per fini di
solidarietà sociale (art. 2 1. Il agosto 1991, n. 266).
Le associazioni di promozione sociale, devono essere costituite per atto sono iscritte in un
apposito registro.
Una particolarità delle associazioni di promozione sociale concerne i debiti.
Coloro che hanno agito in nome e per conto di queste associazioni rispondono di tali debiti in via
sussidiaria, cioè subordinatamente alla infruttuosa escussione del fondo sociale (art. 6 2 1. ass.
prom. soc.). La norma del codice prevede invece la
responsabilità solidale di coloro che agiscono in nome e per conto dell'associazione non
riconosciuta.
11. - Il comitato è un'organizzazione di persone che persegue uno scopo altruistico mediante la
raccolta pubblica di fondi. Tipici comitati sono quelli di soccorso o di beneficenza e quelli che si
costituiscono per promuovere opere pubbliche o manifestazioni di interesse collettivo (mostre,
festeggiamenti, ecc.) (art. 39 c.c.).
Il comitato non è governato al vertice da un organo amministrativo che gestisca su incarico altrui.
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I componenti del comitato sono piuttosto portatori in proprio dell'interesse all' attività dell'
organizzazione di cui fanno parte. Trova puntuale riscontro, in tal modo, la struttura associativa
del comitato.
I comitati godono di capacità giuridica generale e possono assolvere la loro funzione senza
preclusione alcuna.
Secondo la previsione legislativa, comunque, anche il comitato è suscettibile di acquistare la
personalità giuridica.
Se il comitato chiede il riconoscimento, esso deve costituirsi mediante atto pubblico contenente le
indicazioni necessarie per identificare l'ente, il suo patrimonio, il suo regolamento (art. 16 c.c.).
La costituzione del comitato senza personalità giuridica non richiede invece alcuna forma
particolare né analitiche indicazioni di contenuto essendo solamente necessaria la
determinazione dello scopo per il quale il gruppo si organizza. La costituzione del comitato può
ravvisarsi nel fatto stesso che più persone prendono congiuntamente l'iniziativa della raccolta
pubblica dei fondi per il perseguimento di uno scopo altruistico.
La denominazione del comitato, e cioè l'appellativo che lo distingue, deve risultare dall' atto
costitutivo se il comitato è persona giuridica. Il comitato senza personalità giuridica, invece,
acquista la denominazione estemata ai terzi nell' esplicazione della sua attività.
Il diritto alla denominazione tutela l'interesse all'uso esclusivo di essa e la sua disciplina si adegua
a quella delle associazioni.
La sede del comitato è il centro principale della sua attività. I terzi possono fare riferimento alla
sede ufficiale, risultante dall' atto costitutivo, ovvero alla sede effettiva. La normativa delle
associazioni trova integrale applicazione.
Nel perseguimento del suo scopo il comitato può svolgere attività economica ma non può
esercitare un' attività commerciale in via esclusiva o prevalente.
Il comitato ha una dotazione patrimoniale che è costituita essenzialmente dai fondi
pubblicamente raccolti. I fondi raccolti devono essere erogati direttamente per lo scopo
dichiarato.
I singoli membri del comitato non hanno alcun diritto sui fondi.
12. - Se il comitato non è persona giuridica, delle obbligazioni assunte dagli organi rappresentativi
del comitato rispondono solidalmente e personalmente tutti i componenti del comitato stesso
(art. 41 c.c.). Questa regola rigorosa è intesa ad assicurare la massima attenzione da parte del
gruppo nell'organizzare la gestione di denaro offerto dal pubblico.
Il comitato è responsabile per gli atti illeciti compiuti da coloro che fanno parte
dell'organizzazione nell'esercizio delle loro incombenze. In tal caso è dubbio se la responsabilità si
estenda anche ai membri del comitato estranei all'illecito.
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MODULO XI
Famiglia e parentela
1. Nozione di famiglia
2. Nozione di parentela
3. La parentela naturale
4. L'affinità
5. La famiglia di fatto
1. - La famiglia è la comunità di coloro che si uniscono stabilmente e della loro prole. E' questa la
nozione della famiglia detta nucleare, caratterizzata dall'intenso vincolo di solidarietà che lega
reciprocamente i suoi componenti, e che si traduce in diritti ed obblighi di assistenza, di
collaborazione, di mantenimento.
Alla famiglia nucleare si riferisce la Costituzione quando riconosce i diritti della famiglia quale «
società naturale» (art. 29).
La famiglia nucleare non esaurisce per altro le diverse realtà sociali della famiglia che possono
rilevare per l'ordinamento giuridico.
In senso lato la famiglia può intendersi come il gruppo di persone appartenenti ad una comune
parentela (la grande famiglia).
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ascendente comune, sempre escludendo quest'ultimo (762 cc). Tra zio e nipote sussiste pertanto
una parentela di terzo grado, in quanto rispetto all' ascendente comune lo zio è parente di primo
grado mentre, sempre rispetto a tale ascendente, il nipote è parente di secondo grado. I cugini,
ancora, sono parenti di quarto grado in quanto tra ciascuno di essi e l'ascendente comune vi sono
due gradi di parentela, che vanno assommati.
La parentela oltre il sesto grado non è più giuridicamente rilevante (art. 77 c.c.).
3. - In quanto la parentela ha riguardo al fatto della discendenza, essa sussiste a prescindere dalla
circostanza che i discendenti siano stati generati in costanza di matrimonio, e cioè da genitori
coniugati.
La nostra tradizione giuridica ha tuttavia fermamente negato l'esistenza del rapporto di parentela
tra il figlio naturale e la famiglia del genitore. Si è così escluso ad esempio che i figli di genitori
non uniti in matrimonio possano essere giuridicamente considerati come fratelli.
Questa opinione è stata fatta propria dalla Corte costituzionale, che ha negato la incostituzionalità
della norma sulla successione legittima che non include tra i successibili i parenti naturali (art.
565 c.c.). Sempre secondo la Corte costituzionale
i parenti naturali non sarebbero parenti ma solo consanguinei (un limitato diritto successorio è
stato ammesso solamente in favore dei fratelli naturali, aventi titolo a succedere in mancanza di
parenti legittimi: così la sentenza n. 184 del 12 aprile 1990, che, entro questi limiti, ha dichiarato
parzialmente incostituzionale l'art. 565 c.c.).
La negazione della parentela naturale, pur se avallata dalla Corte costituzionale, rappresenta una
grave lesione del principio di eguaglianza, destinata ad essere cancellata in conformità del
principio proclamato dalla Carta dei diritti fondamentali dell 'Unione Europea del 7 dicembre
2000, che vieta ogni discriminazione basata sulla nascita.
4. - L'affinità è il rapporto intercorrente tra un coniuge e i parenti dell' altro coniuge (art. 781 c.c.).
L'affinità riflette nella linea e nel grado il rapporto di parentela che sussiste tra l'altro coniuge e i
suoi congiunti.
L'affinità è quindi in linea retta rispetto ai parenti in linea retta dell' altro coniuge.
Ciò significa, ad es., che la moglie e i genitori del marito, cioè nuora e suoceri, sono tra loro affini
in linea retta; come pure sono affini in linea retta il marito e i genitori della moglie (cioè genero e
suoceri).
L'affinità è in linea collaterale rispetto ai parenti in linea collaterale dell'altro coniuge. Sussiste, ad
es., affinità in linea collaterale tra un coniuge e i fratelli e le sorelle dell' altro, cioè tra cognati.
Anche il grado dell' affinità corrisponde al grado di parentela dell' altro coniuge.
Ad es., i parenti in secondo grado del marito sono affini della moglie in primo grado.
L'affinità è un vincolo parzialmente assimilato alla parentela,che scaturisce come effetto legale del
matrimonio. Essa comporta l'obbligo degli alimenti legali ma solo a carico del genero, della nuora
e dei suoceri (art. 433, n. 4, 5 c.c.). Essa comporta inoltre un impedimento matrimoniale tra affini
in linea retta e affini in linea collaterale in secondo grado (art. 87, n. 4, 5 c.c.).
L'impedimento tra affini in linea retta non è dispensabile e non viene meno neppure quando il
matrimonio sia stato sciolto, annullato o dichiarato nullo (salva, in questi due ultimi casi, la
possibilità dell'autorizzazione).
In via di principio la morte dell' altro coniuge non estingue il vincolo di affinità (art. 78 3 c.c.).
Neppure il divorzio estingue il vincolo di affinità.
La permanenza dell'affinità anche a seguito dello scioglimento del matrimonio
comporta principalmente la permanenza dell' obbligo alimentare. Tale obbligo si estingue,
tuttavia, quando l'avente diritto contrae matrimonio o quando muore il coniuge da cui è derivata
l'affinità e non vi sono figli o discendenti superstiti nati dalla sua unione con l'avente diritto.
5. - La Costituzione riconosce i diritti della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio
(art. 291). Questo riferimento al matrimonio segna un sicura limite rispetto alla famiglia di fatto, e
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cioè rispetto alla famiglia sorta dalla semplice convivenza personale.
Il significato di questo limite non può tuttavia essere quello della totale irrilevanza o, peggio, della
riprovazione dell' ordinamento verso il fenomeno della convivenza non formalizzata nel
matrimonio. Al riguardo deve tenersi presente un sicuro mutamento del costume sociale che ha
assunto un atteggiamento che non è improntato allo sfavore o all'indifferenza di un tempo.
Nel nostro ordinamento la famiglia di fatto non è giuridicamente equiparata alla famiglia
legittima. Orientamenti giurisprudenziali e disposizioni di legge riconoscono tuttavia ai
componenti della famiglia di fatto singole posizioni soggettive meritevoli di tutela analogamente a
quelle dei membri della famiglia legittima.
Anzitutto il rapporto genitori-figli è ormai equiparato a quello dei genitori-figli legittimi.
A seguito di una sentenza della Corte costituzionale la norma sulla successione nel contratto di
locazione per morte del locataria (art. 61. 27 luglio 1978, n. 392) si applica anche a favore del
convivente superstite (Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404).
Si è poi riconosciuto che anche il convivente separato può essere assegnatario della casa familiare,
analogamente a quanto è previsto per il coniuge separato o divorziato (Cass., 26 maggio 2004, n.
10102, e già Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166),
In caso di uccisione del convivente da parte di un terzo, si riconosce al convivente superstite il
risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (Cass. 28 marzo 1994, n. 2988).
Tra le disposizioni riferite ai conviventi possono ricordarsi quella che ammette la coppia non
coniugata ad avvalersi della procreazione assistita (l. 15 febbraio 2004, n. 40), quella che prevede
la facoltà di astensione del convivente dell'imputato (art. 199 c.p.p.), quella che concerne gli
ordini di protezione contro gli abusi familiari pur se commessi da conviventi o a danno di
conviventi (l. 4 aprile 2001, n. 154).
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MODULO XII
Il matrimonio
1. Nozione di matrimonio
2. Matrimonio civile e matrimonio concordatario
3. Il matrimonio di culto acattolico.
4. Gli impedimenti matrimoniali
5. La promessa di matrimonio
6. Effetti personali del matrimonio
7. Invalidità matrimoniali
2. - Il nostro ordinamento disciplina i presupposti, la forma e gli effetti del matrimonio detto
matrimonio civile (art. 79 s. c.c.).
A seguito del Concordato lateranense dell' 11 febbraio 1929, lo Stato italiano ha riconosciuto
effetti giuridici al matrimonio celebrato dinanzi ad un ministro del culto cattolico, quando tale
matrimonio venga trascritto nei registri dello stato civile
(matrimonio c.d. concordatario). Il matrimonio canonico che per una qualsiasi ragione non venga
trascritto nei registri dello stato civile, non ha efficacia giuridica per il nostro ordinamento.
L'accordo di revisione del Concordato del 18 febbraio 1984, ratificato ed eseguito dalla legge
matrimoniale 25 marzo 1985, n. 121, ha previsto (art. 8) la non trascrivibilità del matrimonio
concordatario a) quando gli sposi non rispondono ai requisiti della legge civile circa l'età richiesta
per la celebrazione, e b) quando sussiste fra gli sposi un impedimento che la legge civile considera
inderogabile.
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legge civile. Il matrimonio è pertanto valido se e in quanto siano rispettate le norme del
matrimonio civile. I giudizi sulla validità di tale matrimonio sono inoltre affidati in via esclusiva
alla nostra giurisdizione. L'impugnazione del matrimonio di culto acattolico deve quindi essere
proposta secondo i modi e le competenze previste per l'impugnazione del matrimonio civile.
4. -Per contrarre matrimonio civile occorre che gli sposi abbiano determinati requisiti legali,
positivi e negativi. Questi requisiti risultano da proibizioni legali tradizionalmente conosciute
come impedimenti matrimoniali.
Al riguardo occorre rilevare che alcuni di questi impedimenti sono dispensabili, e cioè sono
suscettibili di essere rimossi mediante autorizzazione del tribunale, concessa nell' esercizio dell'
attività di volontaria giurisdizione. Altri, invece, sono non dispensabili.
Età. - L'impedimento dell'età sussiste a carico della persona che non ha compiuto il 18° anno (art.
841 c.c.).
Tale impedimento non è dispensabile quando la persona ha meno di 16 anni.
Compiuti i 16 anni è prevista la possibilità dell'autorizzazione giudiziaria (art. 842 c.c.).
Interdizione. - L'impedimento dell'interdizione è un impedimento non dispensabile posto a carico
della persona che sia stata giudizialmente dichiarata in stato d'interdizione per infermità mentale
(art. 85 c.c.).
Mancanza di stato libero. - Altro impedimento è quello della mancanza di libertà di stato (art. 86
c.c.). Tale impedimento concerne la persona già vincolata da un precedente matrimonio
giuridicamente efficace per il nostro ordinamento. L'impedimento non è dispensabile.
Parentela, affinità, adozione - La legge prevede anche gli impedimenti della parentela, affinità,
adozione e affiliazione (art. 87 c.c.).
Non può contrarre matrimonio la persona che sia legata nei confronti dell' altra da vincolo di
parentela in linea retta ovvero in linea collaterale fino al 3° grado.
L'impedimento non è dispensabile tra i parenti in linea retta e tra fratelli e sorelle, anche se
consanguinei o uterini. Il matrimonio può invece essere autorizzato tra parenti collaterali in 3°
grado (zii e nipoti).
II vincolo dell' affinità impedisce il matrimonio tra gli affini in linea retta e tra gli affini in linea
collaterale fino al 2° grado.
L'impedimento tra gli affini in linea retta non è dispensabile. L'impedimento permane anche se
derivante da matrimonio annullato, nullo o disciolto. Nei primi due casi, tuttavia, il matrimonio
può essere autorizzato come pure può essere autorizzato il matrimonio tra affini collaterali in 2°
grado.
L'impedimento dell'adozione vieta il matrimonio tra adottante e adottato: l'impedimento sussiste
anche a carico dell'uno rispetto ai discendenti e ai figli adottivi dell' altro nonché rispetto al
coniuge di esso.
Delitto. - L'impedimento da delitto sussiste tra persone l'una delle quali abbia ucciso o attentato
alla vita del coniuge dell' altra (art. 88 c.c.).
L'impedimento non è dispensabile.
Lutto vedovile - Altro impedimento, infine, è costituito dal c.d. lutto vedovile.
La legge, cioè, proibisce il matrimonio se la donna ha riacquistato lo stato libero da meno di 300
giorni, vale a dire se non sono trascorsi 300 giorni da quando il suo matrimonio si è sciolto (per
morte del coniuge o per divorzio), ovvero è stato dichiarato nullo o annullato (art. 89 1 c.c.), salva
la possibilità che il matrimonio venga autorizzato nei casi in cui è escluso che nel periodo di lutto
vedovile nasca un figlio presuntivamente generato dal coniuge defunto o divorziato (art. 89 2 c.c.).
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per i danni consistenti nelle spese fatte e nelle obbligazioni assunte in vista del matrimonio,
sempreché si tratti di spese e di obbligazioni proporzionate alle condizioni economiche del
soggetto. Uguale obbligo grava sulla parte che col proprio comportamento abbia dato giustificato
motivo all' altra per non contrarre matrimonio (art. 811-2 c.c.).
L'azione deve essere proposta a pena di decadenza entro un anno dal rifiuto di celebrare il
matrimonio (art. 813 c.c.).
6. - Il matrimonio comporta a carico dei coniugi gli obblighi reciproci della fedeltà, dell' assistenza
morale e materiale, della coabitazione, della collaborazione e della contribuzione ai bisogni della
famiglia (art. 1432-3 c.c.).
L'inderogabilità dei diritti e dei doveri nascenti dal matrimonio è espressamente sancita dal
codice (art. 160).
L'obbligo di fedeltà Impone ai coniugi di astenersi da relazioni o atti sessuali extraconiugali.
In una più ampia accezione, ribadita da recente dottrina e recepita dalla giurisprudenza, l'obbligo
di fedeltà coniugale è stato inteso non solamente come astensione da rapporti sessuali con terzi,
ma come reciproca dedizione fisica e spirituale.
L'obbligo di assistenza morale e materiale impone ai coniugi di aiutarsi moralmente ed
economicamente: in esso si esprime la solidarietà matrimoniale
La coabitazione consiste nella normale convivenza di marito e moglie, e cioè nella comunione di
casa e di vita sessuale, che rappresenta precisamente il modello sociale di convivenza coniugale
(more uxorio). La coabitazione non è interrotta da brevi assenze che non facciano venir meno la
sostanziale continuità della vita in comune e delle prestazioni sessuali.
Altro dovere dei coniugi è quello della collaborazione nell'interesse della famiglia. Questo dovere
impegna ciascuno dei coniugi ad espletare un' attività
lavorativa e gestionale conformemente alle proprie capacità e attitudini. Tale attività può anche
essere semplicemente casalinga.
All' obbligo di collaborazione è connesso quello di contribuzione ai bisogni della famiglia, e cioè
l'obbligo di concorrere a soddisfare le esigenze della vita familiare e della prole.
Ciascuno dei coniugi è tenuto a contribuire in proporzione alle rispettive sostanze e alla propria
capacità di lavoro professionale o casalingo.
7. - Nel tema della invalidità bisogna distinguere tra nullità e annullabilità del matrimonio.
La nullità è imprescrittibile e insanabile, ma deve comunque essere dichiarata con sentenza su
domanda, che può essere proposta da chiunque vi abbia un legittimo interesse.
Cause di nullità sono la mancanza di stato libero, la parentela nelle ipotesi di non dispensabilità
dell'impedimento, il delitto.
L'annullabilità è una forma di invalidità che può essere fatta valere da determinati legittimati.
Cause di annullabilità sono, l'età, la parentela nelle ipotesi di dispensabilità dell' impedimento,
l'interdizione (azionabile eccezionalmente da chiunque vi abbia interesse), l'incapacità naturale, i
vizi della volontà (violenza, timore (quando la persona si sia determinata al matrimonio
esclusivamente per evitare un pericolo di eccezionale gravità), errore).
Anche la simulazione è causa di annullabilità. La simulazione sussiste quando gli sposi abbiano
preventivamente concordato di non adempiere gli obblighi ed esercitare i diritti matrimoniali
(art. 123 c.c.).
L'azione è soggetta al termine di decadenza di un anno dalla celebrazione ma si estingue
immediatamente se i coniugi iniziano a convivere come marito e moglie.
La nullità e l'annullamento del matrimonio lasciano fermi gli effetti del matrimonio già verificatisi
a favore del coniuge in buona fede o vittima di violenza o timore (matrimonio putativo: art. 128
c.c.).
Al coniuge incolpevole può spettare una rendita alimentare o una pretesa indennitaria, anche in
forma di assegno alimentare (art. 129, 129 bis c.c.).
Il matrimonio concordatario può essere impugnato dinanzi all'autorità giudiziaria italiana o
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dinanzi all'autorità ecclesiastica. La sentenza di nullità pronunziata dall' autorità ecclesiastica è
soggetta a delibazione da parte della competente corte di appello, che deve accertarne la non
contrarietà all'ordine pubblico.
MODULO XIII
I regimi patrimoniali
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5. Beni comuni di residuo
6. Beni personali
7. La gestione
8. Responsabilità per i debiti
9. La separazione giudiziale dei beni
10. Scioglimento della comunione
11. B) Il fondo patrimoniale
12. C) La separazione dei beni
1. - Il regime patrimoniale tra coniugi è la disciplina delle spettanze e dei poteri dei coniugi in
ordine all'acquisto e alla gestione dei beni.
La legge prevede più regimi patrimoniali e, precisamente, la comunione legale, quale regime della
cogestione e comunione degli acquisti; il fondo patrimoniale, quale regime di cogestione di uno o
più beni destinati ai bisogni della famiglia; la separazione dei beni, quale regime di separazione di
gestione e di titolarità esclusiva degli acquisti.
I coniugi possono adottare a loro scelta il regime patrimoniale. Se essi non adottano un altro
regime trova applicazione il regime della comunione legale. In quanto la comunione legale non ha
titolo in un atto di autonomia negoziale, essa costituisce il regime patrimoniale legale.
2. - L'atto mediante il quale viene adottato o modificato un regime patrimoniale prende il nome di
convenzione matrimoniale.
La convenzione matrimoniale è un negozio solenne che richiede la forma dell'atto notarile a pena
di nullità (art. 162). L'adozione del regime della separazione può comunque essere dichiarata al
celebrante all' atto della celebrazione del matrimonio.
La pubblicità delle convenzioni matrimoniali è attuata mediante annotazione degli estremi della
convenzione a margine dell'atto di matrimonio (art. 162 4 c.c., e art. 69 regol. stato civ. emanato
col dPR 3 novembre 2000, n. 396).
La mancanza dell' annotazione rende la convenzione inopponibile ai terzi, nel senso che i coniugi
non possono avvalersi degli effetti del regime patrimoniale convenzionale in pregiudizio dei terzi.
Quando le convenzioni matrimoniali contengono la costituzione del fondo patrimoniale su beni
immobili ovvero l'esclusione di beni immobili dalla comunione, esse sono soggette alla
trascrizione sui registri immobiliari (art. 2647 c.c.). Sono inoltre soggetti all'onere della
trascrizione gli atti di scioglimento della comunione e gli atti di acquisto di beni immobili non
compresi nella comunione.
La tesi prevalsa in dottrina e in giurisprudenza richiede l'annotazione sull' atto di matrimonio
come unico requisito di opponibilità delle convenzioni matrimoniali ancorché aventi ad oggetto
beni immobili: la trascrizione avrebbe, così, la funzione di mera pubblicità notizia.
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La disciplina della comunione legale può essere parzialmente derogata dai coniugi mediante
convenzioni matrimoniali (art. 2101 c.c.).
La comunione legale negozialmente derogata prende il nome di comunione convenzionale.
I limiti di questa derogabilità sono segnati anzitutto dal principio di eguaglianza. In relazione a
tale principio sono nulli i patti intesi ad escludere un coniuge dall' amministrazione dei beni
comuni o comunque a privilegiare il potere di gestione di un coniuge rispetto all'altro (art. 210 3
c.c.). Sono nulli, inoltre, i patti che alterano la regola paritaria degli acquisti, in base alla quale gli
acquisti spettano ai coniugi in ragione di metà per ciascuno (art. 210 3 c.c.).
L'oggetto della comunione può essere ampliato dai coniugi nel senso che questi possono
assoggettare alla comunione anche beni personali.
Nei loro confronti è opponibile anche l’acquisto della quota in comunione in capo al coniuge.
La legge nega tuttavia che possano essere ricompresi nella comunione i beni di uso professionale
o strettamente personale di uno dei coniugi, e il risarcimento e le indennità per perdita della
capacità lavorativa (art. 210 c.c.).
4. - Il regime della comunione legale può essere definito come regime di comunione degli acquisti
perché ricomprende di massima gli acquisti successivi al matrimonio, mentre esclude i beni
anteriormente appartenenti a ciascuno dei coniugi e alcune categorie di beni personali.
L'acquisto opera automaticamente e direttamente in capo ad entrambi i coniugi anche se
formalmente intestato ad uno solo di essi, e a prescindere dall'onere della trascrizione.
L'acquisto avente ad oggetto beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri è assoggettato
alla trascrizione (art. 2643 s. cc). Questo è un onere necessario per rendere opponibile l'atto nei
confronti dei terzi, ma non per rendere opponibile l'acquisto della quota in comunione. L’acquisto
in capo al coniuge che non abbia preso parte al contratto è opponibile ai terzi, pur se il contratto
non sia stato trascritto a suo favore. Il coniuge non partecipe del contratto, cioè, acquista la sua
quota di comunione con lo stesso grado di opponibilità dell' acquisto trascritto a favore dell'altro
coniuge.
Il coniuge non intestatario può pertanto opporre il suo acquisto anche nei confronti di chi abbia
successivamente acquistato il bene dal coniuge intestatario e trascritto regolarmente il suo
acquisto.
Gli acquisti aventi ad oggetto diritti di credito cadono in comunione secondo la tesi prevalsa in
giurisprudenza.
Anche gli acquisti a titolo originario (usucapione, acquisti a non domino, ecc.) cadono di massima
in comunione.
Particolarmente dibattuto è il problema se ricadano in comunione le accessioni di beni
personali. Al problema deve darsi soluzione negativa se l’accessione costituisca un mero
miglioramento o incremento della cosa.
Viceversa, se l’accessione conserva una sua autonoma identità funzionale e commerciale deve
ritenersi che essa realizzi l’acquisto di un nuovo bene ricadendo quindi di regola nella comunione.
Ciò deve dirsi in particolare per le costruzioni di edifici, eseguite sul terreno di uno dei coniugi.
In giurisprudenza è però prevalsa l’opinione contraria, la quale esclude che la costruzione
eseguita sul terreno personale di un coniuge cada in comunione (salvo il diritto dell’altro coniuge
alla corresponsione di metà del valore dei materiali e del costo del lavoro).
L’azienda, cioè il complesso dei beni destinati all'esercizio di un'impresa, cade in comunione se è
costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi (art. 177 lett d) c.c.). Il coniuge che
costituisce l'azienda con i propri proventi e la gestisce senza la collaborazione dell'altro ne
acquista la titolarità esclusiva mentre metà dei beni destinati all'esercizio dell'impresa e metà
degli utili spetteranno all'altro coniuge a seguito dello scioglimento della comunione (comunione
de residuo: art. 1772 e 178 c.c.).
5. - Accanto ai beni comuni occorre distinguere i beni comuni di residuo, cioè i beni che
divengono comuni per la parte residua al momento dello scioglimento della comunione.
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Anteriormente allo scioglimento della comunione i beni comuni di residuo rientrano nella
titolarità e nella disponibilità esclusiva del coniuge cui appartengono.
Sono beni comuni di residuo i frutti che il coniuge percepisce dai propri beni, ossia i frutti naturali
e gli interessi o gli utili prodotti da tali beni. Più in generale deve dirsi che sono comuni di residuo
tutti i vantaggi economici acquisiti dal coniuge in quanto titolare del bene (accrescimenti, opzioni,
premi, ecc.).
Sono inoltre beni comuni di residuo i guadagni conseguiti da ciascun coniuge mediante attività
separata (177 lett. c c.c.), e cioè mediante attività di lavoro subordinato o autonomo,
compresa l'attività professionale, letteraria o artistica.
12.
6. - Sono beni personali del coniuge quelli che gli appartengono in modo esclusivo, e che non
ricadono quindi né tra i beni comuni né tra i beni comuni di residuo (art. 179 c.c.). La legge indica
come beni personali a) i beni già appartenenti al coniuge prima del matrimonio; b) i beni
acquistati anche dopo il matrimonio per donazione o successione a causa di morte; c) i beni di uso
strettamente personale (come indumenti, monili, ecc.); d) i beni che servono al coniuge per
l'esercizio della sua attività lavorativa o imprenditoriale; e) il risarcimento del danno alla persona
e ai beni personali e le indennità aventi funzione reintegratoria della lesione della persona o del
patrimonio nonché le pensioni per infortuni o invalidità; f) i beni acquistati con i ricavi dei beni
personali o comunque con denaro personale. La provenienza del denaro deve però essere
dichiarata nell’atto di acquisto.
Ai fini dell’esclusione dalla comunione occorre inoltre la dichiarazione ricognitiva dell’altro
coniuge quando si tratti di immobili o beni mobili registri acquistati nei casi di cui alle lettere c,
d, f.
64
essere obbligato da quest'ultimo a reintegrare l'originario stato di fatto e di diritto della
comunione. La reintegrazione deve avvenire in forma specifica, e cioè mediante il recupero dei
beni alienati.
Se la reintegrazione in forma specifica non è possibile o è eccessivamente onerosa, il coniuge è
tenuto a reintegrare la comunione per equivalente, pagando una somma di denaro corrispondente
al valore dell'entità sottratta alla comunione secondo i valori attuali della moneta al momento
della reintegrazione (art. 1843 c.c.).
10. - Cause di scioglimento della comunione sono lo scioglimento (per morte o divorzio) e
l'annullamento o la dichiarazione di nullità del matrimonio. Altre cause sono la dichiarazione di
assenza, la separazione personale, la separazione giudiziale dei beni, il fallimento, la volontà dei
coniugi espressa mediante convenzione matrimoniale (art. 191 c.c.).
Lo scioglimento della comunione apre la fase di liquidazione della stessa. In questa fase ciascuno
dei coniugi può far valere e realizzare la sua quota di comunione. Questa quota comprende
anzitutto metà della proprietà e degli altri diritti già acquisiti alla comunione con
effetto immediato. Con lo scioglimento della comunione, inoltre, ciascuno dei coniugi ha
diritto alla metà dei proventi che l'altro coniuge ha realizzato con la propria attività separata
e non ha consumato.
Ciascuno dei coniugi ha inoltre il diritto al rimborso di quanto l'altro abbia abusivamente
prelevato.
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Oltre al diritto di rimborso con riguardo agli abusivi prelievi fatti dall' altro coniuge a danno della
comunione, ciascuno dei coniugi ha anche il diritto alla restituzione delle somme di denaro o cose
generiche prelevate dal proprio personale patrimonio e impiegate a vantaggio del patrimonio
comune (art. 1923 c.c.).
11. - Il fondo patrimoniale è il regime di cogestione di uno o più beni vincolati ai bisogni della
famiglia (art. 167 c.c.).
Il fondo patrimoniale si costituisce con un'apposita convenzione matrimoniale. Parti di questa
convenzione sono i coniugi ed eventualmente il terzo o i terzi che conferiscono i beni al fondo.
Oggetto del fondo patrimoniale possono essere beni immobili, beni mobili iscritti in pubblici
registri e titoli di credito.
Funzione del vincolo è quella di destinare i beni al soddisfacimento dei bisogni di mantenimento,
di assistenza e di contribuzione della famiglia nucleare.
Il vincolo del fondo patrimoniale comporta che i beni non possono essere esecutati per debiti che
il creditore conosceva essere stati contratti per bisogni estranei alla famiglia.
La gestione del fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi ed è regolata dalle norme sulla
comunione legale (art. 1683 c.c.).
Quando vi sono figli minori, gli atti di disposizione dei beni del fondo (vendita, costituzione di
garanzie o altri vincoli, ecc.) richiedono l’autorizzazione del tribunale.
Il vincolo del fondo patrimoniale si estingue con l’estinzione del vincolo matrimoniale, ma se vi
sono figli minori il fondo patrimoniale permane fino a quando l'ultimo dei figli raggiunge la
maggiore età (art. 1711 c.c.) .
12. - Il regime della separazione dei beni è il regime di separazione della gestione e di titolarità
esclusiva degli acquisti.
Questo regime, che anteriormente alla riforma era il regime patrimoniale legale, trova ora
applicazione in quanto sia adottato dai coniugi mediante convenzione matrimoniale (art. 215 c.c,)
o in quanto sia stata pronunziata la separazione giudiziale dei beni o sia intervenuta altra causa di
cessazione del regime di comunione non incidente sull' esistenza del vincolo matrimoniale.
Nel regime della separazione ciascuno dei coniugi è unico titolare dei beni acquistati dopo il
matrimonio, e di tali beni ha la gestione separata (art. 217 c.c.).
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MODULO XIV
Separazione e divorzio
2. - La separazione consensuale è la separazione che ha titolo nell' accordo dei coniugi omologato
dal giudice (art. 158 c.c.).
La decisione dei coniugi di separarsi trova normalmente ragione In una situazione di
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intollerabilità della convivenza ma questa ragione non costituisce un necessario presupposto dell'
accordo.
L'atto di separazione può stabilire il contributo economico che uno dei coniugi deve
corrispondere all'altro nonchè l'eventuale diritto di abitazione.
Se vi sono figli minori l'atto di separazione dispone circa il loro affidamento e le modalità
dell'esecuzione dell'obbligo di mantenimento da parte del coniuge non affidatario.
La separazione consensuale acquista efficacia con l'omologazione del tribunale.
Il tribunale non può sindacare nel merito la decisione dei coniugi. Accertata la loro volontà di
separarsi e l'avvenuto tentativo di conciliazione l' omologazione non può essere rifiutata. La
possibilità del rifiuto della omologazione è prevista, per altro, quando la separazione non
salvaguardi la posizione dei figli. Il tribunale, precisamente, deve esaminare nel merito le
condizioni riguardanti l'affidamento e il mantenimento dei figli e se le reputa non
sufficientemente conformi al loro interesse, convoca le parti indicando le modifiche da apportare
al loro accordo. Se i coniugi insistono nell'adottare condizioni pregiudizievoli per la prole, il
tribunale deve rifiutare l'omologazione.
3. - Se non vi è addebito a suo carico, il coniuge che non ha un reddito sufficiente può pretendere
dall' altro un assegno di mantenimento che gli consenta di conservare il livello di vita
matrimoniale.
Il coniuge separato con addebito ha invece solamente il diritto agli alimenti legali quando non sia
in grado di provvedere al proprio sostentamento (art. 433 s. c.c.).
Al coniuge separato il tribunale può assegnare il diritto di abitazione nella casa familiare di cui
l'altro coniuge abbia la proprietà o altro diritto di godimento. Il diritto di abitazione è attribuito
tenendo conto prioritariamente dell'interesse dei figli. Il provvedimento giudiziale è soggetto a
trascrizione nei registri immobiliari (art. 155 quater c.c.).
Il diritto di abitazione deve ritenersi - ma il punto è controverso - che abbia natura reale.
Il coniuge separato senza addebito conserva il diritto di successione legittima.
Al coniuge separato con addebito in stato di bisogno può essere giudizialmente attribuito un
assegno successorio di natura alimentare, determinato dal tribunale tenendo conto dell' entità
delle sostanze ereditarie nonchè della qualità e del numero degli eredi legittimi (art. 548 2 c.c.).
4. – A seguito della separazione e del divorzio rimangono fermi i doveri dei genitori nei confronti
dei figli.
Con riguardo all'affidamento il tribunale deve valutare prioritariamente la possibilità di affidare i
figli minori ad entrambi i genitori, ai quali spetta conseguentemente l'esercizio della potestà
(affidamento condiviso: art. 155 c.c.).
Se lo richiede l'interesse del minore, il tribunale può disporre l'affidamento ad uno solo dei
genitori, cui spetta allora l'esercizio esclusivo della potestà (art. 155 bis c.c.).
6. - Il divorzio è lo scioglimento giudiziale del vincolo coniugale quando sia divenuta impossibile
la comunione spirituale e materiale dei coniugi.
Lo scioglimento del vincolo comporta fondamentalmente l'estinzione dei doveri reciproci che
derivano dal matrimonio a carico dei coniugi, cioè dei doveri di fedeltà, coabitazione, assistenza
morale e materiale, collaborazione.
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A tali doveri subentra tuttavia un attenuato impegno di solidarietà postconiugale che può tradursi
nel diritto dell' ex coniuge ad un assegno vitalizio, alla totale o parziale pensione di reversibilità,
ad un assegno successorio.
Rimangono fermi i doveri verso i figli e la titolarità della potestà. L’esercizio di questa compete ad
entrambi i genitori se – come di regola – i figli sono ad essi affidati (si applica la disciplina della
separazione: n. 4).
Lo scioglimento del vincolo coniugale restituisce agli ex coniugi lo stato libero e consente loro di
contrarre un nuovo matrimonio.
Il divorzio è disciplinato dalla l. 10 dicembre 1970, n. 989, revisionato dalla 1. 6 marzo 1987, n. 74.
9. - L'assegno di divorzio è un assegno vitalizio che a seguito del divorzio spetta all' ex coniuge il
quale non abbia un reddito sufficiente a mantenere il tenore di vita matrimoniale (art. 5 4 1. div.).
La mancanza di un reddito sufficiente a garantire all' ex coniuge il tenore di vita che godeva o
avrebbe dovuto godere durante il matrimonio, e l'inferiorità della sua posizione economica
rispetto all' altro coniuge, sono i presupposti del diritto all' assegno postmatrimoniale.
Nel determinare l'assegno vitalizio, il giudice deve assumere come base primaria l'integrazione
necessaria per consentire all'ex coniuge di mantenere il livello di vita matrimoniale, e deve poi
procedere ad un’eventuale riduzione tenendo conto a) delle condizioni dei coniugi, b) delle
ragioni della decisione e c) del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniuge
alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio.
Nella determinazione dell'assegno di divorzio la legge prevede ancora che il giudice deve tener
conto della durata del matrimonio.
L'assegno ha funzione assistenziale. Tale funzione qualifica la natura dell' assegno e ne indica il
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fondamento nella solidarietà che permane tra coloro che sono stati uniti in matrimonio.
Il dovere di aiutare economicamente l'ex coniuge è precisamente un dovere
giuridico fondato su quella solidarietà che alla stregua della coscienza sociale permane tra gli ex
coniugi, e che si qualifica come solidarietà postconiugale.
Tenendo conto della funzione assistenziale dell' assegno si spiega come il dovere di
corrisponderlo venga meno quando il beneficiario contragga nuove nozze assumendo un nuovo
reciproco impegno di solidarietà coniugale. Si spiega ancora come il dovere venga meno quando
le condizioni economiche degli ex coniugi diventino equivalenti.
L'entità dell' assegno può essere modificata quando siano sensibilmente migliorate le condizioni
economiche del beneficiario o siano peggiorate quelle dell' obbligato.
La sentenza che attribuisce l'assegno deve di regola contenere una clausola di adeguamento
automatico dell'importo in relazione alla svalutazione monetaria (art. 5 7 l. div.).
10. - In caso di morte dell'ex coniuge l'ex coniuge che non sia passato a nuove nozze può
beneficiare in tutto o in parte della pensione di reversibilità (art. 9 2 1. div.).
La pensione di reversibilità è quella pensione previdenziale che spetta al coniuge superstite o ad
altri congiunti a seguito della morte del dipendente pubblico o privato o di altro soggetto coperto
da assicurazione sociale.
Il diritto alla pensione di reversibilità presuppone che 1) si tratti di pensione derivante da un
rapporto di lavoro iniziato prima del divorzio e 2) che al tempo della morte dell' ex coniuge il
coniuge divorziato fosse titolare di assegno di divorzio.
Tra gli effetti previdenziali del divorzio va anche ricompreso il diritto del coniuge divorziato ad
una parte dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge (art. 12 bis 1. div.).
Il diritto spetta all' ex coniuge titolare dell' assegno di divorzio ed è commisurato al 40 per 100
dell'indennità maturata dall'altro ex coniuge negli anni in cui il rapporto di lavoro ha coinciso col
matrimonio.
Lo scioglimento del matrimonio estingue lo stato di coniuge e le aspettative successorie che
ineriscono a tale stato.
All' ex coniuge può tuttavia spettare un particolare diritto successorio costituito da un assegno a
carico dell'eredità (art. 9 bis 1. div.). Presupposti di questo assegno sono lo stato di bisogno dell'
ex coniuge, il riconoscimento del suo diritto all'assegno di divorzio, e la morte dell' obbligato.
La determinazione dell' assegno all' ex coniuge è rimessa al tribunale, il quale deve assumere
come criterio di fondo il riferimento al bisogno che l'assegno deve soddisfare.
Nella determinazione dell'assegno successorio occorre ancora tenere conto del numero, della
qualità e delle condizioni economiche degli eredi. Ciò significato che la determinazione dell'
assegno successorio deve contemperare l'interesse dell'ex coniuge con quello degli eredi se questi
sono il coniuge superstite e altri stretti congiunti del defunto.
Il contemperamento importa che l'assegno successorio deve essere tanto più ridotto quanto più
ridotti risultano gli acquisti spettanti a questi soggetti e quanto maggiore risulta la precarietà
della loro posizione economica a seguito della morte del congiunto.
11. – In rapporto ai figli gli effetti del divorzio non divergono da quelli della separazione,
reclamando la medesima regolamentazione.
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MODULO XV
La filiazione
Accanto al diritto allo stato di figlio, che è il diritto alla titolarità del rapporto di filiazione,
occorre distinguere i vari diritti e doveri che ineriscono a tale rapporto e che prescindono dalla
formale attribuzione dello stato.
Principali diritti del figlio sono quelli al mantenimento, all' educazione ed istruzione secondo le
proprie capacità, inclinazioni e aspirazioni (art. 147,261,279 c.c.). Questi sono diritti
fondamentali di solidarietà che rispondono all'interesse essenziale dell'essere umano a ricevere
l'aiuto e la guida necessari per la sua formazione. Essi spettano al figlio fin dal momento della
nascita e non hanno carattere patrimoniale.
Altro diritto del figlio è il diritto all' amore dei suoi genitori.
Il diritto all'amore è un diritto fondamentale del minore. Tra gli interessi essenziali del minore si
pone infatti in primo piano l'interesse a ricevere quella carica affettiva di cui l'essere umano non
può fare a meno nel tempo della sua formazione.
Il diritto all' amore ha avuto il suo espresso riconoscimento legislativo nella disciplina dell'
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adozione, che definisce la situazione di abbandono come mancanza dell' assistenza morale e
materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi (art. 8 1 1. adoz.).
L'assistenza morale è l'attuazione del diritto all' amore.
La legge riconosce ora il diritto del minore al rapporto personale con gli avi e con gli altri
congiunti con i quali si sia costituito un vincolo affettivo significativo (cfr. l’art. 155 1 c.c.).
Altro fondamentale diritto del figlio non menzionato dal codice è quello di crescere nella propria
famiglia (esso è proclamato dall’art. 1 della legge sull’adozione: 4 maggio 1983, revis. dalla l. 28
marzo 2001, n. 149). Il diritto del figlio di crescere nella propria famiglia è un diritto
fondamentale della persona, diritto assoluto esperibile nei confronti di tutti i terzi, pubblici e
privati. Il diritto del figlio di crescere nella propria famiglia reclama poi l’intervento dello Stato
per rimuovere le difficoltà personali ed economiche che sono di ostacolo all' esercizio del diritto.
Il figlio ha il dovere di rispettare i genitori e di contribuire al mantenimento della famiglia finché
convive con essa (art. 315 c.c.). Il figlio minore ha inoltre il dovere di convivere con i genitori
esercenti la potestà.
3. - La violazione dei doveri inerenti alla potestà parentale con grave pregiudizio del figlio può
comportare la decadenza dalla stessa, e cioè la perdita della titolarità che rimane attribuita
esclusivamente all' altro genitore (art. 330 c.c.). In mancanza di altro genitore
titolare deve procedersi alla nomina di un tutore.
La condotta del genitore pregiudizievole per il figlio non comporta sempre a decadenza dalla
potestà. È infatti possibile che tale comportamento non sia gravemente pregiudizievole per il
figlio o che esso ne leda un interesse specifico e circoscritto senza implicare un giudizio di non
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affidabilità del genitore.
Il giudice che non riscontra gli estremi per la decadenza dalla potestà del genitore può allora
adottare i provvedimenti opportuni secondo le circostanze per la tutela del minore. Il contenuto
di tali provvedimenti è affidato alla discrezionalità del giudice, potendo consistere nell'
autorizzare il figlio a fare ciò che gli sia stato vietato dal genitore o nell'ordinare a quest'ultimo
l'adempimento di un obbligo trascurato.
Provvedimenti a tutela del minore possono inoltre essere presi in applicazione della
legge sugli ordini di protezione contro gli abusi familiari (l. 4 aprile 200 l, n. 154).
La legge prevede l'emanazione giudiziale di un provvedimento inibitorio nell' ipotesi di condotta
pregiudizievole da parte di un componente del nucleo familiare a danno di altro componente del
nucleo. Il provvedimento intima all'autore della condotta pregiudizievole la cessazione di tale
condotta, l'allontanamento dalla casa familiare e, se del caso, il non avvicinamento a determinati
luoghi frequentati dai familiari.
Gli ordini di protezione sono però strettamente temporanei: hanno infatti la durata di 6 mesi
prorogabili solo in presenza di seri motivi.
4. - L'usufrutto legale è il diritto di usufrutto che spetta per legge ai genitori sui beni del figlio
minore (art. 324 c.c.).
L'usufrutto spetta in comune ai genitori in quanto titolari ed esercenti la potestà sul figlio. Se
uno solo dei genitori è titolare della potestà o ne ha l'esercizio esclusivo, costui è titolare
esclusivo del diritto di usufrutto.
Oggetto del diritto di usufrutto sono in generale i beni del figlio, ad eccezione di quelli da lui
acquistati con i proventi del proprio lavoro. Sono inoltre eccettuati i beni lasciati al figlio in
successione o donazione per intraprendere una carriera, un'arte O una professione, ovvero con la
condizione di esclusione dei genitori o di uno di essi dall'usufrutto.
L'usufrutto legale ha il contenuto del diritto di usufrutto, quale diritto di godere del bene
rispettandone la destinazione economica, ed è regolato di massima secondo la disciplina di tale
diritto (art. 978 s. c.c.).
5. - L'atto dal quale risulta formalmente lo stato di figlio è di regola l'atto di nascita, cioè la
denunzia della nascita registrata dall'ufficiale dello stato civile.
L’atto di nascita indica i nomi di entrambi i genitori se questi sono coniugati. Con riguardo al
figlio nato da genitori coniugati trova infatti applicazione il principio della presunzione legale di
paternità secondo il quale chi è concepito o nato in costanza di matrimonio si presume figlio del
marito della madre (art. 231, 232, 233, 234 c.c.).
Se si tratta di genitori non uniti in matrimonio, l'atto di nascita indica il nome del genitore che
denunzia il figlio come proprio o che ne effettua successivamente il riconoscimento.
6. - Se i genitori non sono uniti in matrimonio nessuna presunzione legale soccorre il figlio.
L'accertamento formale del suo stato di figlio nei confronti del padre e nei confronti della madre
richiede infatti l'atto di riconoscimento o la sentenza.
Il riconoscimento è la dichiarazione di paternità o di maternità proveniente dal genitore. Il
riconoscimento può essere effettuato dal genitore che abbia compiuto 16 anni di età (art. 250 u.c.
c.c.).
Il figlio può essere riconosciuto ancor prima della nascita fin dal momento del suo concepimento
(art. 2541 c.c.). Se il figlio ha compiuto i 16 anni di età il riconoscimento non ha effetto senza il
suo assenso (art. 2502 c.c.).
Il riconoscimento può essere fatto congiuntamente da entrambi i genitori ovvero separatamente.
Il riconoscimento fatto da un genitore dopo il riconoscimento dell'altro richiede il consenso di
quest'ultimo. se il figlio non abbia ancora compiuto 16 anni. Questo consenso, configurabile
quale autorizzazione privata, è richiesto dalla legge nell'esclusivo interesse del figlio.
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Se il figlio non è stato riconosciuto nell'atto di nascita, il riconoscimento deve essere fatto
mediante apposita dichiarazione resa all'ufficiale dello stato civile, al giudice tutelare o ad un
pubblico ufficiale (notaio, console).
La dichiarazione può pure essere contenuta in un testamento. In tal caso essa rimane ferma
anche a seguito della revoca del testamento (art. 256 c.c.).
Il riconoscimento comporta per il figlio riconosciuto l'assunzione del cognome del genitore. Il
figlio assume il cognome del padre, se questi lo ha riconosciuto per primo o congiuntamente alla
madre (art. 2621 c.c.). Se il padre lo ha riconosciuto successivamente alla madre, è lasciato al
figlio decidere se assumere il cognome del padre, in sostituzione di quello della madre, o di
mantenere il cognome originario, anteponendolo o aggiungendolo al nuovo cognome (art. 262 2
c.c.).
Se il figlio è minorenne decide il giudice.
La persona riconosciuta ha comunque il diritto di mantenere il nome originariamente
attribuitogli, anche se non si tratta del nome paterno o materno.
Il riconoscimento è suscettibile d'impugnazione per difetto di veridicità, per incapacità del
genitore e per violenza. L'azione di impugnazione per difetto di veridicità è imprescrittibile (art.
2633 c.c.).
Il riconoscimento compiuto da chi ha meno di 16 anni può essere impugnato dallo stesso autore
dell'atto divenuto maggiorenne. L'azione si prescrive nel termine di un anno dal raggiungimento
della maggiore età.
In caso di interdizione, l'azione può essere proposta dal tutore e dallo stesso autore del
riconoscimento dopo la revoca dell'interdizione (art. 266 c.c.). In quest'ultimo caso l'azione si
prescrive entro un anno dalla revoca dell'interdizione.
In caso di violenza, l'azione può essere proposta esclusivamente dall'autore dell'atto e si
prescrive entro un anno dal giorno in cui la violenza è cessata (art. 265 1 c.c.).
7. - L'azione di reclamo della legittimità è l'azione volta a far conseguire al soggetto lo stato di
figlio legittimo non risultante dall'atto di nascita (art. 249 1 c.c.). La filiazione legittima può non
risultare dall'atto di nascita perchè il nato è stato denunziato a) come figlio di genitori legittimi
diversi da quelli reali ovvero b) come figlio di genitori naturali ovvero c) come figlio di ignoti.
L'azione di reclamo della legittimità spetta al figlio e ai genitori. L'azione è imprescrittibile (art.
2492 c.c.).
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La legge distingue secondo che il figlio sia nato prima o dopo che siano trascorsi 180 giorni dalla
celebrazione del matrimonio. In un caso e nell'altro il figlio è sempre reputato legittimo, e quindi
presuntivamente concepito dal marito della madre. Ma se il figlio è nato prima che siano
trascorsi 180 giorni dal matrimonio l'azione di disconoscimento non incontra limiti di
ammissibilità. Se, invece, il presunto figlio è nato dopo 180 giorni dalla celebrazione del
matrimonio (e prima di 300 giorni dalla fine della convivenza coniugale) l'azione di
disconoscimento è ammessa dalla legge solo nei seguenti casi: 1) quando non vi è stata
coabitazione dei coniugi nel periodo del concepimento (dal 300 0 al 1800 giorno prima della
nascita); 2) quando in tale peridoto il marito era affetto da impotenza; 3) quando nel detto
periodo la moglie ha commesso adulterio; 4) quando, sempre nello stesso periodo, la moglie ha
celato al marito la gravidanza e la nascita del figlio (art. 235 c.c.).
In questi due ultimi casi il marito è ammesso a provare che il figlio presenta caratteristiche
incompatibili con quelle del presunto padre. La Corte costituzionale (sentenza n. 266 del 6 luglio
2006) ha però dichiarato la incostituzionalità della norma nella parte in cui subordina l’esame
delle prove tecniche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. A seguito di questa
pronunzia della Corte costituzionale l’azione risulta sempre ammissibile.
L'azione deve essere proposta dal padre entro un anno (art. 2442 c.c.). L'anno decorre dal giorno
della nascita o dal giorno in cui il presunto padre ha avuto notizia della nascita ovvero è tornato
nel luogo della nascita o nella residenza familiare o dal momento in cui ha acquisito conoscenza
della propria impotenza o dell' adulterio della moglie.
Legittimata a proporre l'azione è altresì la madre, per la quale vale il termine di sei mesi dalla
nascita del figlio (art. 2441 c.c.).
Legittimato all’azione è infine il presunto figlio, il quale deve agire entro un anno dal
raggiungimento della maggiore età o da quando ha appreso i fatti che attestano un diverso
rapporto di filiazione.
La sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento rimuove con effetto reatroattivo lo stato
di figlio del disconosciuto rispetto al presunto padre.
Il figlio disconosciuto ha tuttavia il diritto di mantenere il cognome del presunto padre se tale
cognome sia divenuto segno distintivo della sua identità nell' ambiente sociale.
10. - Se il genitore non riconosce come proprio il figlio, la filiazione dev'essere accertata dal
tribunale mediante dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità (art. 269 1 c.c.). La
dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità è una sentenza che conclude un
giudizio contenzioso promosso con apposita azione, ossia l'azione per la dichiarazione giudiziale
della paternità o della maternità.
Il giudizio per la dichiarazione della paternità e maternità è di competenza del tribunale per i
minorenni se l'azione concerne un minore (art. 381 disp. att.).
Gli effetti della sentenza sono quelli propri del riconoscimento, e risalgono al momento a nascita.
Si conferma in tal modo l'idea che il rapporto di filiazione scaturisce dal fatto stesso della
procreazione e che il riconoscimento e la dichiarazione giudiziale costituiscono
accertamenti dello stato di figlio, attributivi della titolarità formale del rapporto di filiazione.
Legittimati a proporre l'azione di dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità sono il
figlio e i suoi discendenti. Riguardo al figlio l'azione è imprescrittibile (art. 2701 c.c.).
L’accertamento giudiziale della filiazione non incontra limiti in ordine alle prove. La
dimostrazione della paternità e della maternità può infatti essere data con ogni mezzo.
11. – Anche a seguito della Riforma del 1975 è rimasto il divieto di riconoscimento dei figli c.d.
«incestuosi», ossia nati da genitori uniti da vincoli di parentela o affinità quali impedimenti non
dispensabili. Il riconoscimento può essere autorizzato dal tribunale solo se i genitori o il genitore
erano in buona fede, cioè ignoravano l'esistenza del loro rapporto familiare.
Il codice aveva correlativamente sancito il divieto di indagini sulla paternità o maternità dei figli
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non riconoscibili, salvi i casi di ratto o violenza carnale. Con sentenza n. 494 del 28 novembre
2002 la Corte costituzionale ha però dichiarato la incostituzionalità della norma che sancisce tale
divieto (l'art. 278 c.c.).
Al figlio irriconoscibile il codice concede l'azione per il mantenimento, l'educazione e l'istruzione
(art. 270). Tale azione può ritenersi esperibile anche nelle ipotesi in cui l'azione per la
dichiarazione giudiziale di paternità o maternità non venga autorizzata in quanto non conforme
all'interesse del figlio.
12. - La legittimazione indica l'acquisto della qualità di figlio legittimo da parte del figlio naturale
(art. 2801 c.c.).
La legittimazione può aver luogo per susseguente matrimonio dei genitori o per sentenza
(legittimazione giudiziale).
Il figlio naturale acquista automaticamente la qualità di figlio legittimo quando i suoi genitori
contraggono matrimonio (art. 283 c.c.).
La legittimazione giudiziale è dichiarata con sentenza del tribunale. Come condizioni della
legittimazione giudiziale la legge richiede: 1) che sussista l'interesse del figlio; 2) che vi sia
l'istanza del genitore (o dei genitori); 3) che per il genitore istante vi sia l'impossibilità o un
gravissimo ostacolo a contrarre matrimonio con l’altro genitore; 4) che il figlio ultrasedicenne
presti il proprio consenso, salvo che sia stato già riconosciuto. Per il figlio infrasedicenne il
consenso è prestato dall' altro genitore o, in mancanza di questo, da un curatore speciale (art.
284 c.c.).
MODULO XVI
L'adozione
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esclusivamente nella nuova famiglia.
Si distingue poi l'adozione particolare, o adozione in casi particolari, la quale consente l'adozione
del minore in alcuni casi in cui non si può ricorrere all'adozione piena. Essa crea un vincolo di
filiazione giuridica che si sovrappone a quello della filiazione di sangue. Il rapporto di
appartenenza alla famiglia di origine non si estingue ma la potestà spetta agli adottanti, che sono
tenuti a mantenere, istruire ed educare l'adottato.
Altro istituto a protezione del minore è l'affidamento familiare, che non crea un rapporto
adottivo ma sopperisce ad una temporanea carenza dell'ambiente familiare
del minore.
L'adozione civile, infine, è l'adozione dei maggiori di età. Essa crea un vincolo di filiazione
giuridica che si aggiunge a quello della filiazione di sangue.
L'adozione è disciplinata dalla legge 4 maggio 1983, n. 184, largamente revisionata dalla l. 28
marzo 2001, n. 149.
2. - L'adozione (detta anche piena o legittimante) conferisce al minore lo stato giuridico di figlio
legittimo degli adottanti, i quali ne divengono genitori a tutti gli effetti (art. 27 1. adoz.). La nuova
famiglia diviene l'unica famiglia del minore: in essa il minore entra a pieno titolo, assumendo il
normale rapporto di parentela con i parenti dei nuovi genitori.
L'istituto dell' adozione risponde ad una precisa esigenza, e cioè quella di consentire al minore
abbandonato di trovare una famiglia che si sostituisca in tutto e definitivamente alla famiglia di
sangue.
L'istituto dell'adozione si pone tra i mezzi giuridici di protezione del minore.
L'adozione può quindi avere applicazione solo a favore del soggetto che non abbia raggiunta l'età
adulta. Il minore quattordicenne dev'essere consenziente e se abbia capacità di discernimento
deve comunque essere ascoltato a prescindere dall' età.
Gli adottanti devono essere uniti in matrimonio da almeno 3 anni.
L'adozione è preclusa alla persona singola. L'adozione da parte de singolo adottante è consentita
solo nell'adozione in casi particolari e nei casi di morte, o incapacità' di uno dei coniugi o
separazione intervenute nel corso dell'affidamento preadottivo.
Gli adottanti devono poi avere idoneità affettiva ed essere capaci di educare, istruire e
mantenere un minore (art. 62 1. adoz.).
Gli adottanti, ancora, devono avere un' età che superi quella dell' adottato di almeno 18 anni ma
non più di 45 (art. 62 1. adoz.).
Sono tuttavia previste alcune deroghe circa il limite massimo di età ed in generale è ammessa la
sua derogabilità quando il tribunale accerti che dalla mancata adozione derivi al minore un
da