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MODULO I

Nozioni introduttive.

1. La nozione di diritto in senso oggettivo come norma giuridica.


2. Distinzione tra diritto in senso oggettivo e diritto in senso soggettivo.
3. L'ordinamento giuridico: norme e istituzioni.
4. Caratteri della norma giuridica: a) la sanzionabilità
5. La imperatività
6. Generalità
7. Astrattezza
8. Diritto e sociologia
9. Diritto ed economia
10. Diritto privato e diritto pubblico
11. Il diritto comunitario

1. - Il diritto in senso oggettivo è la norma giuridica, cioè la regola socialmente garantita della
vita di relazione.
I rapporti tra uomo e uomo sono regolati da norme di varia natura, come ad es. le norme morali,
religiose, di etichetta, ecc. Ma è la stessa esperienza pratica che consente di distinguere tra le
varie norme sociali le norme giuridiche quali norme di cui la società garantisce l'osservanza
mediante sanzioni esterne di diverso tipo.
Si intuisce agevolmente, così, che è regola giuridica quella che impone di restituire il denaro
preso a mutuo mentre non lo è la regola che impone di trattare gentilmente l'ospite. La prima è
regola di diritto perché la società ne assicura il rispetto. La seconda regola, invece, non è
garantita dalla società e la sua violazione può incidere solo sulla estimazione del trasgressore.

2. - La nozione di diritto in senso oggettivo, e cioè quale norma giuridica, deve essere tenuta
distinta rispetto alla nozione di diritto in senso soggettivo.
In senso soggettivo il diritto è una posizione di vantaggio tutelata dalla norma giuridica. Se, ad
es., un soggetto dà a mutuo del danaro, egli ha un diritto di credito, e cioè ha la pretesa
giuridicamente tutelata a riavere il danaro dato. Questa pretesa è precisamente tutelata dalla
norma giuridica, che obbliga il debitore a restituire il denaro ricevuto.
3. - La complessità dei rapporti sociali esige una molteplicità di norme di diritto. L'insieme di tali
norme costituisce un ordinamento. L'ordinamento giuridico è il diritto di una società, cioè
l'insieme delle norme giuridiche che governano una società.
La realtà della vita associata presenta non solamente la sottoposizione a norme giuridiche ma
anche la tendenza degli associati gruppo ad organizzarsi. L'organizzazione può consistere nella
semplice ripartizione di funzioni tra i componenti di un gruppo o nella costituzione di centri di
poteri ai quale un gruppo si assoggetta.
Il gruppo organizzato si pone quale istituzione. L'istituzione è un gruppo sociale stabilmente
organizzato (es.: la famiglia, il Comune, lo Stato, ecc.).
Nell'ambito del nostro ordinamento giuridico la massima istituzione è lo Stato, il quale detiene il
potere legislativo ed esprime l'unità nazionale. Il nostro Stato si inserisce per altro nel più ampio
contesto dell'Unione Europea, alla quale sono attribuite talune competenze normative (n. 10).
4. - Momento essenziale della norma giuridica è quello della sua garanzia sociale, e questa
garanzia è data dalla sanzionabilità.
La norma giuridica è socialmente garantita da sanzioni esterne. La sanzione esterna è una
conseguenza sfavorevole prevista per l'inosservanza della norma e comporta la privazione di

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un bene o di un effetto giuridicamente vantaggioso.
Le sanzioni sono di diverso tipo. Fondamentalmente possono distinguersi sanzioni penali,
esecutorie, risarcitorie, e invalidatorie. Le sanzioni penali tendono a punire il trasgressore
mediante una punizione personale o patrimoniale. Sanzioni esecutorie sono quelle che attuano
specificamente l'interesse leso dalla violazione della norma (es.: la violazione della norma di
consegnare la cosa al proprietario importa la sanzione del rilascio coattivo: cfr. l'art. 2930 c.c.).
Risarcitorie sono le sanzioni che tendono a reintegrare il danno provocato dalla violazione della
norma (es.: il danneggiamento del bene altrui importa l'obbligo di risarcire il danno in danaro o
di riparare il bene: cfr. l'art. 2043 c.c.). Invalidatorie, infine, sono le sanzioni che tendono a
privare di efficacia l'atto compiuto in violazione della norma (es.: una donazione stipulata senza
la forma dell'atto pubblico è nulla (cfr. l'art. 782 c.c.).
Va ancora osservato che non basta che una disposizione sia contenuta in un testo di legge per
riconoscerle carattere giuridico. Anche una disposizione contenuta nel più importante testo
legislativo, il codice civile, può non essere norma giuridica. Si prenda ad esempio l'art. 315 c.c.
sui doveri del figlio verso il genitore. Questo articolo prevede il dovere del figlio di rispettare il
genitore e il dovere di contribuire, in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al
mantenimento della famiglia finchè convive con essa. Può facilmente intendersi come il primo
dovere sia meramente morale in quanto nessuna sanzione è prevista a carico del figlio per il solo
fatto che non rispetti il genitore. Giuridico è invece il dovere di contribuire al mantenimento
della famiglia in quanto, almeno in teoria, il figlio che non osservi tale obbligo potrebbe essere
condannato al pagamento del contributo dovuto.

5. - L'imperatività della norma giuridica consiste nella sua necessaria cogenza o inderogabilità.
La norma è inderogabile quando gli interessati non possono sostituirla nella sua applicazione
con altre norme legali o convenzionali. Tale, ad es., è la norma che sancisce la nullità della
donazione di beni futuri: cfr. l'art. 771 c.c.
L'imperatività della norma implica la indisponibilità dell'interesse protetto: o perchè si presume
che il soggetto non sia in grado di decidere liberamente del proprio interesse o perchè si tratta di
un interesse generale di cui può disporre solo la collettività.
L'imperatività è un carattere non essenziale del diritto. Accanto alle norme imperative vi sono
infatti le norme derogabili, e cioè le norme che gli interessati possono sostituire nella loro
applicazione con altre disposizioni legali o negoziali.
Es.: la norma prevede che i crediti liquidi ed esigibili di somme di danaro producono interessi
legali salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente (art. 1282 c.c.).
Le norme derogabili non sono norme imperative ma sono pur sempre socialmente garantite,
ossia munite di sanzione. Le norme derogabili possono infatti essere sostituite da altre
disposizioni, ma se questa facoltà non viene esercitata esse si applicano come tutte le altre
norme. CosÌ, se le parti non escludono la decorrenza degli interessi sulle somme liquide ed
esigibili, il debitore sarà obbligato a corrispondere tali interessi.

6. - La norma è generale quando è rivolta ad una generalità di destinatari (es.: ogni persona ha
diritto al nome: cfr l'art. 6 c.c.). La norma è astratta quando prevede un'ipotesi astratta e detta
una regola valevole per una serie indefinita di casi concreti riconducibili entro l'ipotesi prevista
(es.: qualora l'immagine di una persona sia pubblicata abusivamente l'autorità giudiziaria può
fare cessare l'abuso: cfr. l'art. 10 c.c.).
Generalità e astrattezza sono caratteri tipici della norma giuridica e consoni alla funzione della
regolamentazione stabile dei rapporti di una vasta comunità. Possono comunque aversi
eccezionalmente leggi destinate ad un determinato soggetto (es.: concessione di una pensione
speciale per meriti letterari) o disciplinanti una determinata fattispecie (es.: costituzione di un
ente giuridico pubblico).

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7. - Se il diritto è un fenomeno sociale si pone il problema di distinguere lo studio di esso rispetto
alle altre scienze sociali, e in particolare rispetto alla sociologia.
In termini netti la distinzione tra scienza del diritto e sociologia attiene all'oggetto, poichè la
prima indaga sulle norme giuridiche che regolano i rapporti sociali mentre la seconda indaga
sulle leggi naturalistiche di tali rapporti.
La sociologia può occuparsi anche di fenomeni giuridicamente rilevanti (sociologia giuridica) ma
sempre in quanto fenomeni governati da cause ed effetti naturali. Così, ad es., lo studio giuridico
della separazione personale tra coniugi è studio delle norme di diritto che la disciplinano, mentre
lo studio sociologico indaga sull' incidenza delle cause di separazione, sul collegamento di tali
cause con i fattori ambientali, sull' incremento del fenomeno in relazione all'evolversi dei
rapporti familiari, ecc.
Oltre che per l'oggetto la scienza del diritto e la sociologia si distinguono anche per le diverse
tecniche di ricerca. La sociologia procede infatti attraverso rilevamenti diretti dei comportamenti
sociali, avvalendosi di metodi sperimentali, indagini di opinioni, osservazioni statistiche, ecc. La
scienza del diritto elabora invece una propria tecnica di ricerca delle norme giuridiche sulla base
delle specifiche fonti del diritto verificate nella pratica degli orientamenti interpretati vi e
applicativi.

8. - Un problema di distinzione e di connessione si presenta anche rispetto ad altre scienze


sociali e, in particolare rispetto alle scienze economiche.
L'interesse economico, cioè il bisogno di beni materiali, ha una sua specifica incidenza sui
rapporti umani. Le scienze economiche si occupano appunto dei fenomeni sociali in quanto
determinati dall' interesse economico.
La scienza giuridica si occupa invece della regolamentazione coercitiva che tali fenomeni
ricevono da parte e nell' ambito dell' organizzazione sociale.
Il giurista non può ignorare il momento economico poichè questo rappresenta un aspetto
importante della realtà sociale disciplinata dal diritto. Ed infatti, le attività regolate dalla norma
giuridica sono in buona parte attività strettamente economiche, cioè di produzione, distribuzione
e consumo di ricchezza.
Occorre tuttavia puntualizzare che, quelli economici non sono i soli interessi sotto stanti ai
rapporti giuridici, e che l'interesse economico deve talvolta cedere di fronte ad altre prevalenti
esigenze. Ciò significa che l'ordinamento può dettare regole diverse da quelle che s'imporrebbero
in base al mero interesse economico (e cioè leggi economiche) proprio perchè può tener conto di
altri interessi (ad es.: difesa
dell' ambiente naturale).
Nel nostro ordinamento la Costituzione dedica un apposito titolo (il terzo) ai rapporti economici,
dove sono contenuti, tra gli altri, i principi concernenti la tutela del lavoro e dell'attività
sindacale (art. 35), il diritto alla sicurezza sociale (art. 38), e il diritto di proprietà privata, la
quale è riconosciuta e garantita, ma nei modi e limiti che ne assicurano la funzione sociale e
l'accessibilità a tutti (art. 42). Altra norma fondamentale è quella che riconosce la libertà
d'iniziativa economica mentre riserva alla legge di fissare i programmi e i controlli opportuni
affinchè l'attività economica pubblica e privata sia indirizzata e coordinata a fini sociali (art. 41).

9. - Le norme giuridiche, secondo una prima distinzione, si ripartiscono in norme di diritto


privato e norme di diritto pubblico.
Il diritto privato è il diritto che regola i comuni rapporti tra i consociati ovvero il diritto comune
delle persone e dell' economia.
Il diritto pubblico è invece il diritto dei rapporti autoritari speciali, cioè di quei rapporti in cui si
esprimono speciali posizioni di supremazia. Poteri autoritari sono riconosciuti a determinati enti
- e in primo luogo allo Stato - in ragione dei fini di interesse generale perseguiti.
La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico è già presente nella dottrina romana, che ci ha

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tramandato la nota definizione di Ulpiano secondo la quale il diritto pubblico è quello che attiene
allo Stato mentre il diritto privato è quello che concerne l'utilità dei singoli (l).
Sulla base di questa definizione la distinzione è stata tradizionalmente formulata secondo il
criterio dell'interesse tutelato: il diritto pubblico tutela gli interessi della generalità dei consociati
(impersonata dallo Stato) mentre il diritto privato tutela l'interesse dei singoli.
Altro criterio di distinzione al quale si è fatto richiamo in dottrina è quello basato sui soggetti: il
diritto privato disciplinerebbe l'attività dei privati mentre il diritto pubblico disciplinerebbe
l'attività degli enti pubblici.
La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico non può tuttavia essere rigorosamente
fondata sulla natura privata o pubblica dei destinatari delle norme. Anzitutto, è già problematico
il criterio in base al quale identificare la natura privata o pubblica del soggetto. Comunque,
anche quando sia certa la natura pubblica del soggetto (ad es.: lo Stato), si ammette che i
rapporti da esso instaurati possono essere governati dal diritto privato. Si avverte cioè che vi
sono rapporti nei quali l'ente non esercita la sua speciale autorità e che quindi la disciplina di
essi non si discosta da quella propria dei comuni rapporti tra i consociati. Se, ad es., lo Stato
acquista dei beni o prende in locazione un immobile, varranno in linea di massima le stesse
regole che si applicano alle compravendite e alle locazioni.

10. - Il riconoscimento dello Stato come detentore supremo del potere autoritario non contrasta
col suo assoggettamento all'ordinamento internazionale. Quest' ordinamento vincola infatti lo
Stato nei suoi rapporti con altri enti internazionali ma non vincola anche i cittadini, i quali sono
soggetti alla norme valevoli all'interno dell'ordinamento statale. Affinchè una norma di diritto
internazionale si applichi nell' ambito dell' ordinamento statale è necessario che quest'ultimo la
recepisca e la renda efficace mediante apposita legge.
Un'importante deroga al principio dell'esclusivismo statale è ora rappresentata dal diritto
comunitario, cioè dal complesso delle norme emanate dalle autorità sovrannazionali. che
formano l'Unione Europea.
Il diritto comunitario ha la sua origine nel Trattato di Roma del 25 marzo 1957 (ratif. con 1. 14
ottobre 1957, n. 1203), firmato da un primo nucleo di Stati europei con la finalità immediata di
realizzare la loro unità economica in vista di una più stretta relazione politica e di un costante
progresso economico e sociale.
Al conseguimento di tali obiettivi furono preposti tre distinti enti: la Comunità Economica
Europea (CEE), la Comunità Europea dell'Energia atomica (EURATOM) e la Comunità Europea
del Carbone e dell' Acciaio (CECA). I poteri normativi, amministrativi e giudiziari attribuiti a tali
enti dettero vita al Mercato Comune Europeo (MEC).
Il processo di unificazione europeo doveva però andare oltre l'ambito del mercato portando alla
progressiva formazione di un ordinamento politico europeo sovrannazionale, nel quale gli
ordinamenti degli Stati membri si sono parzialmente integrati.
Il processo di unificazione europea, ancora in atto, ha avuto tappe importanti nei Trattati di
Maastricht del 7 febbraio 1992 (ratif. con 1. 3 novembre 1992, n. 454) e di Amsterdam del 2
ottobre 1997 (ratif. con 1. 16 giugno 1998, n. 209).
Col Trattato di Maastricht (art. 1) si è dato vita all'Unione Europea, organizzazione politica
sovrannazionale fondata sulle Comunità Europee.
La Comunità Economica è stata convertita in Comunità Europea (CE), volendosi anche nella
denominazione sottolineare l'ampliamento in senso politico e sociale delle finalità perseguite (2).
Il Trattato di Amsterdam ha apportato modifiche e integrazioni al sistema comunitario senza per
altro alterame le linee sostanziali.
Organi principali dell 'Unione sono attualmente il Parlamento europeo, avente funzioni
promozionali e consultive, il Consiglio, avente potere regolamentare, la Commissione, avente
funzioni organizzative, la Corte di giustizia e la Corte dei conti.
Gli atti comunitari possono vincolare gli Stati membri ma possono avere come diretti destinatari

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anche i cittadini di tali Stati. Il diritto comunitario è quindi vigente all'interno dell'ordinamento
statale senza che occorra di volta in volta una ratifica o un'apposita legge dello Stato (v. modulo
II, n. 11).
Il diritto comunitario non è un diritto straniero: esso è piuttosto il sistema normativo di
un'autorità sovrannazionale concorrente con quella dello Stato. L'ordinamento dello Stato si è
parzialmente integrato in questo sistema con la conseguente diretta partecipazione dei cittadini
al nuovo ordinamento comunitario.
La Comunità Europea è un ente sovrannazionale, la cui autorità - anche all'interno
dell'ordinamento statale - è indipendente rispetto allo Stato e non più rimessa alla sua
determinazione.
Nell'ambito della comunità nazionale il diritto comunitario può operare direttamente alla
stregua delle norme giuridiche statali. In questa sua operatività interna il diritto comunitario
incide anche su rapporti giuridici privatistici. Così, ad es., la disciplina della concorrenza attiene
a comuni rapporti economici dei privati, creando, attraverso imposizioni e divieti, reciproci
obblighi e pretese.
Ma l'incidenza privatistica si avverte anche e soprattutto con riguardo alle "libertà" comunitarie,
le quali integrano il diritto della persona garantendole nell'ambito di una più vasta comunità
l'esplicazione dell'iniziativa economica e delle scelte di lavoro.
La partecipazione dell' ordinamento comunitario ha quindi rappresentato una parziale rinunzia
all'esclusivismo e alla sovranità dello Stato. Si era dubitato se questa rinunzia fosse consentita
dalla nostra Costituzione. Ma questi dubbi appaiono superati già dalla effettiva operatività
sovrannazionale dell' ordinamento europeo. Sul piano formale la legittimità della rinunzia è stata
rinvenuta nella norma costituzionale che prevede le limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni (art. Il Cost.) (3).

(1) Publicum ius est quod ad statum rei romanae spectat, privatum quod ad singulorum
utilitatem (D. 1.1.1.2).

(2) Art. 1 del Tratt. di Maastricht del 7 febbraio 1992, come modificato dal Trattato di
Amsterdam del 2 ottobre 1997: con il presente trattato, le Altre Parti Contraenti istituiscono tra
loro un'Unione Europea, in appresso denominata "Unione" .
Il presente trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di un'unione sempre più
stretta tra i popoli dell'Europa, in cui le decisioni siano prese nel modo più trasparente possibile
e il più vicino possibile ai cittadini.
L'Unione è fondata sulle Comunità euorpee, integrate dalle politiche e forme di cooperazione
instaurate dal presente trattato. Essa ha il compito di organizzare in modo coerente e solidale le
relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli.
Art. 2. L'Unione si prefigge i seguenti obiettivi:
- promuovere un progresso economico e sociale e un elevato livello di occupazione e pervenire a
uno sviluppo equilibrato e sostenibile, in particolare mediante la creazione di uno spazio senza
frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l'instaurazione di
un'unione economica e monetaria che comporti a termine una moneta unica, in conformità delle
disposizioni del presente trattato;
- affermare la sua identità sulla scena internazionale, in particolare mediante l'attuazione di una
politica estera e di sicurezza comune, ivi compresa la definizione progressiva di una politica di
difesa comune, che potrebbe condurre ad una difesa comune, a norma delle disposizioni dell'art.
17;
- rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri mediante
l'istituzione di una cittadinanza dell'Unione;
conservare e sviluppare l'Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata
la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli

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alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro
quest'ultima;
- mantenere integralmente l' acquis comunitario e svilupparlo al fine di valutare in quale misura
si renda necessario rivedere le politiche e le forme di cooperazione instaurate dal presente
trattato allo scopo di garantire l'efficacia dei meccanismi e delle istituzioni comunitarie.
(omissis)
Art. 6. - l. L'Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell 'uomo e
delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri.
2. L'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell 'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, e quali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto
principi generali del diritto comunitario.
3. L'Unione rispetta l'identità nazionale dei suoi Stati membri. (omissis)
(3) L'Italia [ ... ] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

MODULO II

Le fonti del diritto

1. Nozione di fonte del diritto e gerarchia delle fonti


2. La Costituzione
3. Le leggi ordinarie. I codici
4. Il codice civile
5. Leggi speciali e testi unici
6. Le leggi regionali
7. Il regolamenti
8. Il contratti collettivi (rinvio)
9. Gli usi
10. Gli usi negoziali
11. I regolamenti comunitari
12. La giurisprudenza
13. L’equità
14. Ricerche di legislazione
15. Ricerche di giurisprudenza

1. - Fonti del diritto sono gli atti o fatti dai quali traggono esistenza le norme giuridiche. Le fonti
del diritto si distinguono in diverse categorie. Tali categorie hanno differente efficacia normativa
in quanto le une prevalgono sulle altre (ad es., la legge prevale sul regolamento). L'ordine delle
categorie normative secondo la loro prevalenza costituisce la gerarchia delle fonti del diritto.
L'indicazione gerarchica delle fonti del diritto è contenuta nelle disposizioni preliminari al codice
civile secondo una formula che, nel testo originario, menzionava le leggi, i regolamenti, le norme

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corporative e gli usi (art. 1). La caduta del regime corporativo e la nuova realtà della Costituzione
repubblicana e dell 'Unione Europea hanno per altro modificato e integrato tale ordine.
Fonti formali del diritto devono ritenersi attualmente: A) le leggi costituzionali;
B) le leggi ordinarie; C) i regolamenti; D) gli usi. Al vertice di quest'ordine, accanto alle leggi
costituzionali, si pongono inoltre A') i regolamenti comunitari, cioè le norme dell'Unione
Europea aventi diretta e generale applicazione nell'ordinamento statale.
La prevalenza delle fonti normative secondo la loro gerarchia non deve essere confusa con
l'ordine di applicazione delle norme, e cioè con l'ordine di preferenza nell'applicazione delle
norme alle fattispecie giuridiche concrete. Tale ordine può variare secondo le previsioni
contenute nelle norme di grado superiore. Così, la legge può dettare regole da applicarsi in
mancanza di un diverso accordo delle parti o di norme consuetudinarie (sul luogo
dell'adempimento dell'obbligazione v., ad es., l'art. 1182 c.c.). In tal caso si applicherà anzitutto la
disposizione contrattuale, senza che per questo il contratto divenga una norma di primo grado
della gerarchia delle fonti.

2. - La legge è un precetto emanato dallo Stato nell'esercizio della sua suprema potestà
normativa, che è appunto la potestà legislativa.
La legge è posta tradizionalmente al vertice della gerarchia delle fonti (v. l'art. 1 disp. prel.). Ma
nell'ambito delle leggi statali una formale preminenza è stata attribuita alla Costituzione
(emanata il 27 dicembre 1947) e alle altre leggi costituzionali, deliberate dal Parlamento
mediante la speciale procedura di normazione costituzionale (art. 138 Cost.).
La Costituzione è la legge che enuncia le basilari scelte politiche del nostro ordinamento e
stabilisce la fondamentale organizzazione e funzione dei pubblici poteri.
La preminenza formale delle norme costituzionali si traduce in un limite posto alle leggi
ordinarie, le quali devono rispettare i principi costituzionali. Tale limite è garantito attraverso il
controllo della Corte costituzionale, la quale ha il compito di giudicare della legittimità
costituzionale delle leggi, cioè della loro conformità ai principi costituzionali (art. 134 s. Cost.).
La legge dichiarata costituzionalmente negli Stati europei alla fine del sec. XVIII e a introdurre
un insieme razionale e ben determinato di norme scritte facilmente comprensibili e applicabili. I
primi importanti codici furono il codice prussiano (emanato nel 1794), il codice civile austriaco
(emanato nel 1811) e il codice civile francese, detto anche codice Napoleone dal nome di
Napoleone I che ne promosse l'emanazione (1804). Più tardi fu emanato il codice civile tedesco
(entrato in vigore nel 1900).
Il codice civile francese, ancora oggi vigente, ebbe una vasta influenza sugli ordinamenti europei,
e in particolare sull 'Italia. Gli Stati italiani preunitari nella quasi totalità avevano adottato codici
ispirati al modello francese (nel Lombardo-Veneto vigeva invece il codice civile austriaco).
L'unificazione del Regno vide nel 1865 l'emanazione di un codice civile italiano destinato a
restare vigente fino al 1942.
Oltre al codice civile furono emanati un codice di commercio (1865), poi, sostituito da un nuovo
codice di commercio (1882) e altri codici per le materie processuali e penali.
Attualmente sono vigenti nel nostro ordinamento il codice civile, il codice della navigazione del
1942, il codice di procedura civile del 1940, il codice penale (1930) e il codice di procedura penale
(1989).

3. - Le leggi ordinarie sono in generale le leggi dello Stato, escluse quelle aventi carattere
costituzionale. La menzione di legge ordinaria è usata appunto per indicare che non si tratta di
legge costituzionale.
Nell'ambito delle leggi ordinarie si distingue tra codici e leggi speciali. Il codice è una legge che
disciplina organicamente un 'intera materia. Il codice non è una legge formalmente superiore
ad altre leggi. L'importanza del codice risiede tuttavia nella sistematicità e compiutezza della sua
disciplina.

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Il fenomeno della codificazione è relativamente recente. Esso è legato all'istanza illuministica
intesa a ridurre la complessità e l'oscurità del diritto vigente
l) Il primo libro è il libro delle persone e della famiglia. Esso contiene principalmente la
disciplina delle persone fisiche e giuridiche, del matrimonio e della filiazione.
2) Il secondo libro è quello delle successioni. Esso tratta delle successioni a causa di morte
(successione legittima e testamentaria) e della donazione.
3) Il terzo libro è il libro della proprietà. Esso riguarda la disciplina dei beni, dei diritti reali di
godimento e del possesso.
4) Il quarto libro è quello delle obbligazioni. Esso contiene la disciplina delle obbligazioni, dei
contratti e di altri fatti produttivi di obbligazioni (in particolare, dei fatti illeciti).
5) Il quinto libro è intitolato del lavoro. In questo libro sono contenute le norme relative al
rapporto di lavoro, all'impresa e alle società.
6) Il sesto libro, infine, è quello della tutela dei diritti. In esso trovano disciplina vari istituti
attinenti, tra l'altro, alle prove, alle garanzie del credito (pegno, ipoteca, ecc.), all'esecuzione
forzata.

4. – Il codice civile vigente è stato emanato nel 1942 ed ha sostituito il vecchio codice civile del
1865 e il codice di commercio del 1882.
Il 1942 è una data importante perché questo codice è stato emanato durante il regime fascista,
regime che di lì a poco sarebbe caduto con tutta l’ideologia che tale regime comportava.
Di fatto, l’influenza dell’ideologia fascista fu limitata.
Il codice conteneva, in effetti, norme indegne, ispirate a quella ideologia, quali quelle che
sancivano la discriminazione razziale. Ma, eliminate queste norme e quelle che facevano
riferimento al sistema corporativo, anch’esso abrogato, la struttura fondamentale del codice
civile è rimasta. Mutamenti radicali si sono avuto solo relativamente al diritto di famiglia.
Il codice civile si compone di articoli numerati (2969). Ogni articolo ha una propria intitolazione
detta rubrica e può dividersi in più periodi separati da un a capo, detti commi. Il testo del codice
si divide in sei libri preceduti da un gruppo di disposizioni preliminari sulla legge in generale.
Le disposizioni preliminari riguardano le fonti del diritto, l’interpretazione (mod. IV) e
l’applicazione della legge nel tempo (mod. V).

La Corte decide della legittimità costituzionale della legge quando la questione relativa le sia
deferita dal giudice ordinario o da altri organi pubblici competenti. La questione di legittimità di
una norma di legge può essere sollevata nel corso della causa in cui tale norma deve essere
applicata, ed è rimessa alla Corte se il giudice la reputa non manifestamente infondata (art. 23 1.
ult. cit.).
Le decisioni della Corte che dichiarano la illegittimità della norma sono pubblicate sulla Gazzetta
ufficiale.
I principi costituzionali hanno un'importanza fondamentale per il diritto privato ponendosi alla
base della disciplina dei rapporti della vita di relazione e affermando le garanzie essenziali della
persona, oltre che nei confronti del potere pubblico, anche direttamente nei confronti dei
consociati.
Con un'ampia formula che si richiama ai diritti inviolabili dell'uomo (art. 2), viene dato appunto
generale riconoscimento ai diritti della personalità, cioè a quei diritti che tutelano gli interessi
essenziali della persona. Nello "statuto costituzionale" della persona rientrano i tradizionali
diritti di libertà (libertà di pensiero, di religione, di associazione, ecc.) e i nuovi diritti di
solidarietà sociale (all'eguaglianza formale e sostanziale, al lavoro, alla sicurezza sociale, ecc.).

5. - Pur offrendo il codice una disciplina compiuta e organica della materia, sarebbe inesatto
pensare che esso esaurisca la legislazione di diritto privato. A questo riguardo bisogna piuttosto
considerare che il codice è largamente integrato dalle comuni leggi statali, dette anche speciali

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per distinguerle rispetto al codice.
Le legge che lo Stato emana nel corso del tempo sono numerose e poichè non sempre la legge
successiva abrogra interamente la legge precedente può risultare talvolta non agevole stabilire
quali norme relative a un dato istituito sono ancora vigenti e quali, invece, tacitamente decadute.
A questo inconveniente tendono ad ovviare i testi unici, che sono raccolte di norme vigenti
unitariamente coordinate ad opera di organi pubblici.
Se il testo unico è emanato nell' esercizio del potere legislativo esso costituisce una nuova legge, e
le norme anteriori che non siano incluse nel testo devono considerarsi abrogate (perchè l'istituto
riceve una nuova completa disciplina). Se, invece, il testo unico è emanato nell'esercizio del
potere regolamentare (senza delega legislativa), le norme vigenti non subiscono modifica alcuna,
e conservano il loro vigore anche se non richiamate nel testo.
In considerazione dell' ampiezza e importanza del loro oggetto alcuni testi unici hanno avuto
formalmente la denominazione di codici: così, ad esempio, il decreto legislativo 6 settembre
2005, n. 206, che raccoglie le disposizioni in tema di tutela del consumatore è intitolato ‘codice
del consumo'. Questi codici settoriali non sono tuttavia paragonabili ai codici che disciplinano
parti generali del diritto privato o pubblico.

Con i testi unici non devono essere confuse le raccolte private, cioè le riunioni
di disposizioni legislative compilate ad iniziativa di privati per semplice comodità di
consultazione. Queste raccolte sono talvolta pubblicate col nome di "codici" (es.: codice agrario,
codice del lavoro, ecc.). Ma tale titolo è improprio poichè, appunto, non si tratta di testi
legislativi unitari ma di semplici raccolte legislative compilate da privati.

6. - Le Regioni hanno potestà legislativa nelle materie non riservate alla legislazione statale e
nelle materie di legislazione concorrente. Nelle materie di legislazione concorrente la potestà
legislativa delle Regioni è comunque subordinata ai principi fondamentali posti dalle leggi dello
Stato (art. 117 Cost.).
Di massima esula invece dalla competenza regionale la disciplina dei rapporti privatistici.
In tal senso va anche tenuto presente il nuovo dettato dell'art. 117 Cost., lett. l) che attribuisce
allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di ordinamento civile e penale.

7. - Il regolamento è un precetto normativo di grado inferiore alla legge emanato dallo Stato o da
altri enti pubblici nell' esercizio della loro potestà regolamentare.
Si distingue tra regolamenti indipendenti e regolamenti esecutivi.
Regolamento indipendente è quello che contiene una disciplina autonoma del suo oggetto,
mentre il regolamento esecutivo detta norme di attuazione e di specificazione di una disciplina
principale.
Il regolamento è sempre di grado inferiore alla legge (art. 1 disp. prel.): esso non può contenere
norme contrarie a disposizioni legislative (art. 4 disp. prel.). Nell'ipotesi in cui una norma
regolamentare sia in contrasto con una legge, essa è
senz'altro inefficace e va quindi disapplicata.

8. - Il contratto collettivo è un contratto normativo stipulato dalle associazioni sindacali per


disciplinare uniformemente i rapporti di lavoro della categoria.
Il contratto collettivo è ad efficacia generale quando si applica a tutti coloro che appartengono
ad una determinata categoria lavorativa a prescindere dalla circostanza che essi siano o no
iscritti ad uno dei sindacati che ha stipulato il contratto.
L'attuale realtà normativa non conosce contratti collettivi con efficacia generale. Non avendo
avuto attuazione la norma costituzionale (art. 39), i sindacati stipulano contratti collettivi di
diritto comune. Contratti collettivi di diritto comune sono quei contratti collettivi che hanno
efficacia per gli iscritti ai sindacati in virtù del principio privatistico della rappresentanza

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volontaria.
Sebbene non siano qualificabili come fonti formali del diritto, è certo tuttavia che i contratti
collettivi di diritto comune riescono in via di fatto ad esercitare un'efficacia normativa che va
oltre la cerchia degli iscritti incidendo sulla generalità dei rapporti di categoria.
Lo studio dei contratti collettivi appartiene al diritto del lavoro.

9. - Gli usi - detti anche consuetudine - sono quelle norme non scritte che un ambiente sociale
osserva costantemente nel tempo come norme giuridicamente vincolanti.
Gli usi non sono norme emanate in base ad un procedimento formale (in questo senso si parla di
norme non scritte). Essi tendono a formarsi spontaneamente ma la loro osservanza è poi quella
propria delle norme di diritto. Gli usi, cioè, sono accettati dall' ambiente sociale come norme
sanzionabili che disciplinano i rapporti tra i consociati.
Elementi costitutivi della consuetudine sono un elemento obiettivo o materiale, e cioè la
costante e uniforme ripetizione nel tempo di un determinato comportamento, e un elemento
soggettivo, cioè il convincimento della vincolatività giuridica di quel comportamento (c.d. opinio
iuris ac necessitatis).
Affinchè una consuetudine possa dirsi formata occorre, più precisamente, che
sussista anzitutto un comportamento sociale uniforme consolidato nel tempo.
Occorre poi che il comportamento sia tenuto come osservanza di norma giuridica. L'elemento
c.d. soggettivo, si noti, non deve essere inteso come opinione dei singoli soggetti sulla
vincolatività della regola. Ciò che conta, piuttosto, è che la generalità dei consociati si attenga
effettivamente alla norma consuetudinaria come norma di diritto.
Nel nostro ordinamento la legge statale dà agli usi un rilievo limitato. Essi occupano infatti
l'ultimo posto nella gerarchia delle fonti (art. 1 disp. prel.). Essi inoltre hanno efficacia
limitatamente alle materie che non siano regolate da leggi o regolamenti. Se si tratta di materie
regolate da norme di legge o regolamento la consuetudine può essere applicata solo in quanto sia
richiamata da tali norme (art. 8 disp. prel.).
Il codice, ad es., richiama gli usi in tema di vendita di animali stabilendo che la tutela del
compratore in caso di difetto dell'animale è disciplinata dalle leggi speciali o, in mancanza, dagli
usi locali o, in mancanza, dalle norme del codice (art. 1496 c.c.).
Per quanto non disposto dalle leggi speciali, dunque, la consuetudine può qui trovare
applicazione.
Chi invoca l'applicazione di una norma consuetudinaria ha l'onere di provarne esistenza. In
mancanza di tale prova il giudice non è tenuto ad applicare la consuetudine, salvo che questa gli
sia già nota.
La prova degli usi è data principalmente attraverso le raccolte pubblicate dalle camere di
commercio.

10. - Gli usi sono anche detti normativi per distinguerli dai c.d. usi negoziali o clausole d'uso (art.
1340 c.c.). Gli usi negoziali sono clausole che vengono usualmente inserite in un certo tipo di
contratto. Con riferimento a queste clausole la legge presume che esse siano volute dalle parti
anche nei casi in cui manchi nel contratto un espresso richiamo. La legge, cioè, presume che le
parti intendano adeguare il contenuto del contratto alle clausole normalmente convenute nella
pratica corrente e che non facciano menzione di tali clausole perchè ritengano superfluo
richiamarle.
La differenza tra usi normativi e usi negoziai i in teoria è netta: i primi sono una fonte formale di
norme giuridiche obiettive costitutive dell'ordinamento giuridico generale (anche se aventi
un'efficacia territoriale limitata); i secondi sono invece pratiche negoziali che si presumono
volute dalle parti sia pure senza un' espressa dichiarazione, e hanno quindi l’efficacia propria delle
clausole contrattuali.

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11. - Nelle aree di sua competenza l'Unione Europea ha la potestà di emanare
norme che sono direttamente efficaci all'interno degli Stati membri.
A differenza delle norme degli ordinamenti stranieri le norme comunitarie sono diritto vigente
nell'ordinamento statale (e applicate dai giudici statali). Ciò si spiega nel senso che
l'ordinamento dello Stato si è integrato parzialmente ne Il ' ordinamento comunitario e che
quindi i cittadini dello Stato sono partecipi di questa nuova organizzazione sovrannazionale e
assoggettati al suo diritto.
Il diritto comunitario ha la sua fonte principale nei regolamenti. Il regolamento comunitario è un
atto normativo di portata generale direttamente applicabile all'interno degli Stati membri.
Superando una certa resistenza iniziale connessa all'idea dell' esclusivismo statale, i regolamenti
comunitari sono ormai riconosciuti come norme giuridiche che non dipendono dalla ratifica
degli Stati membri e che non sono neppure modificabili da parte della legge statale. Nel
contrasto tra questa e il regolamento comunitario è quindi il regolamento a prevalere.
Il regolamento comunitario si sottrae pure al giudizio di incostituzionalità, che è riservato alle
leggi statali e regionali.
Altri atti normativi comunitari, sono le direttive. A differenza dei regolamenti, che sono volti a
regolare i rapp011i intersoggettivi dei cittadini dell'Unione, le
direttive hanno come destinatari gli Stati membri, vincolandoli a realizzare determinati risultati
attraverso le forme e i mezzi da essi prescelti. Le direttive, quindi, non hanno di regola efficacia
normativa nei rapporti tra privati (c.d. efficacia 'orizzontale'). Si riconosce tuttavia che le
direttive possono avere efficacia nei rapporti tra Stato e privati (c.d. efficacia 'verticale'),
possono, cioè, costituire fonte di obblighi dell'ente pubblico nei confronti dei cittadini. A tal fine
deve però trattarsi di direttive particolareggiate, che non lascino margine di discrezionalità agli
Stati membri, o di direttive negative, sancenti divieti a carico di essi.
La mancata attuazione delle direttive, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, può dar
luogo a responsabilità extracontrattuale degli Stati morosi verso i privati danneggiati quando
sussista una violazione grave e manifesta di norme volte a garantire diritti dei singoli.

12. - La giurisprudenza in senso oggettivo è l'insieme delle sentenze che vengono emesse dagli
organi giudiziario Le sentenze sono le decisioni che risolvono in via autoritaria le controversie di
diritto.
La giurisprudenza può anche essere intesa in senso soggettivo per indicare il complesso delle
autorità giudicanti (magistratura).
La giurisprudenza non è menzionata tra le fonti del diritto, e ciò si spiega in quanto il potere
giudiziario è stato tradizionalmente distinto rispetto al potere legislativo.
Il nostro ordinamento ignora il principio della vincolatività dei precedenti (stare decisis). Il
giudice non è tenuto ad uniformarsi ad altre sentenze, sia che si tratti di sentenze emesse da lui
stesso sia che si tratti di sentenze emesse da altri giudici.
Ma sebbene il giudice non sia tenuto ad uniformarsi ad altre decisioni, nella realtà avviene che le
sentenze tendono a formare orientamenti costanti e che il
giudice si adegua a tali orientamenti, soprattutto quando siano orientamenti della Corte di
Cassazione.
Gli orientamenti giurisprudenziali si desumono dalle massime. La massima è il principio di
diritto applicato alla sentenza.
Le massime dovrebbero limitarsi ad enunciare o a specificare le norme vigenti, ma di fatto esse
esprimono l'interpretazione che il giudice fa della legge, e quindi arrivano ad avere un proprio
contenuto che può supplire ad una carenza normativa e che può anche discostarsi notevolmente
dal testo legislativo.
Occorre dunque prendere atto che la giurisprudenza, pur non essendo come tale fonte del diritto,
concorre alla formazione di esso, e che la massima consolidata esprime quel significato che conta
ai fini dell' applicazione della norma.

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La conoscenza dell'ordinamento, in conclusione, non può prescindere dalla conoscenza del
diritto giurisprudenziale.

13. - L'equità è il principio di contemperamento di contrapposti interessi rilevanti secondo la


coscienza sociale.
In questo fondamentale significato l'equità assolve due diverse funzioni, quale criterio di
valutazione e quale criterio di soluzione della controversia in sostituzione del diritto positivo.
Come criterio di valutazione l'equità tende pur sempre a contemperare interessi diversi tenendo
conto di tutte le esigenze rilevanti secondo la coscienza sociale anche se non rilevanti per la
norma giuridica.
Così, ad es., ricondurre ad equità un contratto eccessivamente oneroso vuol dire modificare il
contenuto del rapporto in modo tale da contemperare gli opposti interessi delle parti tenendo
conto dei vari fattori che incidono sul rapporto.
La legge richiama l'equità anche come criterio di giustizia per la decisione
della controversia in sostituzione del diritto positivo.
Nell'ordinamento è la norma giuridica che risolve i conflitti d'interesse. Le controversie sono
quindi decise applicando la norma. La legge ammette tuttavia che nelle cause riguardanti diritti
disponibili, quando le parti ne facciano concorde richiesta, il giudice possa giudicare "secondo
equità" (art. 114, 822 c.p.c.). Secondo equità, poi, decide il giudice di pace nelle cause di modico
valore (art. 114 c.p.c.).
Si discute allora se l'equità possa essere inclusa tra le fonti del diritto. La risposta deve essere
negativa poichè l'equità non è essa stessa una norma ma solo un criterio di soluzione della lite.
Nel giudizio di equità non viene applicata una regola ma la lite è composta secondo giustizia,
tenendo cioè conto di tutte le rilevanti esigenze delle parti nel modo più rispondente alla
coscienza sociale.

14. - Le leggi e i regolamenti per conseguire efficacia devono essere pubblicati sulla Gazzetta
ufficiale (art. 73 Cost.). Ma vi sono anche periodici privati che pubblicano tutti i testi legislativi
che vengono via via emanati (Lex, La legislazione italiana). Per conoscere il contenuto di una
legge è quindi sufficiente consultare uno di questi periodici ufficiali o privati, che vengono riuniti
in volumi annuali. La ricerca non presenta difficoltà se si hanno già gli estremi della legge, cioè
l'anno e il giorno di emanazione oppure il numero progressivo annuale (con questi estremi basta
cercare negli indici cronologico o numerico).
Se, invece, si vuole sapere quali siano le disposizioni legislative e regolamentari che disciplinano
un determinato istituto (es.: la locazione) è necessario procedere ad una ricerca attraverso gli
indici analitici, ossia gli indici per materie.
Le leggi sono reperibili anche su indirizzi elettronici: www.gazzettaufficiale.it;
www.leggiitaliane.it
Possono poi utilizzarsi gli indirizzi elettronici di periodici d'informazione, che riportano notizie
relative all'attività legislativa e giurisprudenziale: www.dirittoegiustizia.it; www.guidaaldiritto.it;
www.ilsole24ore.com (periodico telematico integrativo della omonima rivista cartacea).
Raccolte di legislazione sono disponibili nei CD e DVD della Giuffrè e della UTET, oltre al CD
della raccolta De Martino.

15. - Una ricerca sistematica di giurisprudenza tende ad accertare nella maniera più completa
possibile quali sono gli orientamenti giurisprudenziali, cioè quali sono gli orientamenti
interpretativi seguiti dai giudici con riferimento a determinate norme o istituti giuridici.
Per una ricerca sistematica di giurisprudenza è indispensabile la consultazione di uno dei
Repertori generali (Repertorio generale della Giurisprudenza italiana; Repertorio generale del
Foro italiano; Repertorio generale della Giustizia civile). I Repertori generali sono periodici
annuali che riportano tutte le massime delle sentenze emesse dalla Corte di Cassazione nel corso

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dell' anno nonchè tutti i dispositivi delle sentenze della Corte costituzionale. Con riguardo, poi,
alle sentenze degli altri giudici (corti di appello, tribunali, ecc.) essi riportano tutte le massime
pubblicate sui periodici giudiziari italiani.
I Repertori indicano la rivista che ha pubblicato la massima avvertendo se oltre alla massima sia
stata anche pubblicata la motivazione e se la sentenza sia stata annotata con un commento.
Per quanto completi, i dati offerti dai Repertori generali non sono aggiornati all'anno in corso.
Per aggiornare tali dati occorre allora la consultazione di altri periodici successivi all'ultimo
numero del Repertorio.
L'aggiornamento delle massime della Cassazione è possibile attraverso i Massimari della
Cassazione che si pubblicano quindicinalmente (Massimario della Giurisprudenza italiana;
Massimario del Foro italiano; Massimario della Giustizia civile).
Per gli aggiornamenti giurisprudenziali è inoltre utile la consultazione degli ultimi fascicoli delle
più importanti riviste di giurisprudenza di carattere generale ovvero specializzate. Tra le riviste
giurisprudenziali di carattere generale v., ad es., la Giurisprudenza italiana, il Foro italiano, la
Giustizia civile, il Foro padano, la Giurisprudenza di merito, la Nuova giurisprudenza civile
commentata, la Gazzetta giuridica e le segnalate raccolte telematiche Diritto e giustizia, e Guida
al diritto (pubblicata pure in versione cartacea).
I repertori generali sono disponibili anche in CD e DVD, dei quali sono previsti periodici
aggiornamenti.
Banche dati edite periodicamente dalla Giuffrè (Iuris data) contengono raccolte delle sentenze
della Cassazione nel testo integrale.
Per informazioni legislative e giurisprudenziali del Consiglio di Stato: è consultabile il sito del
Ministero della giustizia: www.giustizia.it

MODULO III

L'interpretazione della legge

1. Nozione di interpretazione
2. I criteri legali di interpretazione. A) L'interpretazione letterale
3. L'interpretazione funzionale
4. L'interpretazione sistematica
5. L'interpretazione evolutiva
6. L'analogia
7. L'applicazione dei principi generali
8. L'interpretazione delle norme comunitarie

1. - L'interpretazione della norma giuridica è l'atto che ne determina il significato.


Per interpretazione s'intende anche il risultato interpretativo, e cioè il significato attribuito alla
norma mediante l'atto di interpretazione.

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L'interpretazione è un onere che incombe su ciascun destinatario della norma.
Per osservare una regola occorre infatti determinare che cosa essa significa.
Di regola gli atti interpretati vi, da chiunque posti in essere, non hanno carattere di vincolatività
giuridica. Nessuno, quindi, è tenuto ad attribuire alla legge quel significato che altri o lo stesso
soggetto le abbiano attribuito.
L'interpretazione vincolante si riscontra eccezionalmente nella interpretazione autentica, cioè
nella interpretazione formalmente fissata da altra norma di legge, detta interpretativa.
La legge interpretativa è vincolante in base all'efficacia propria della legge. Essa quindi, sebbene
formulata in termini di spiegazione della norma interpretata, è pur sempre un distinto precetto
normativo che si pone comunque al di fuori della disciplina e della problematica degli atti di
interpretazione.
La legge interpretativa, che sia successiva nel tempo alla legge interpretata, ha efficacia
retroattiva al momento di entrata in vigore della legge interpretata.
Nell'applicare la legge interpretativa quindi riconoscerle fin dall'inizio il significato attribuitole
dalla legge interpretativa.

2. - La stessa interpretazione è un atto disciplinato dalla legge, la quale detta appunto i criteri
mediante i quali l'interpretazione deve essere compiuta (criteri legali di interpretazione o di
ermeneutica). I criteri legali di interpretazione della legge sono il criterio letterale e il criterio
funzionale.
Il criterio letterale impone all'interprete di attribuire alla legge il significato manifestato dalle
parole di essa secondo la loro connessione (art. 12 disp. prel.).
Nell 'interpretare la legge occorre cioè avere riguardo alle parole del testo, considerate tuttavia
non isolatamente ma nel complesso del discorso.

3. - L'interprete non può fermarsi al significato letterale della legge. Alla legge bisogna infatti
attribuire il significato che risulta dal significato delle sue parole e dalla "intenzione del
legislatore" (art. 12 disp. prel.).
Questo richiamo alla intenzione del legislatore non deve essere riferito alla volontà di coloro che
hanno concorso a emanare la norma (teoria della volontà soggettiva). Si riconosce infatti
comunemente che l'espressione è figurata e che ciò che rileva è piuttosto l'intento obiettivo della
legge (teoria della volontà obiettiva).
L'intento obiettivo è lo scopo al quale la legge risulta obiettivamente indirizzata e che ne
costituisce la ragione. Di questa ragione tiene conto l'interpretazione funzionale. In quanto la
legge interviene sempre per la tutela di interessi socialmente rilevanti, la ragione della legge si
identifica con l'interesse specifico tutelato.
L’interpretazione funzionale è allora quella che ha riguardo alla ragione della norma, cioè
all'interesse specifico da questa tutelato. L'interpretazione deve essere sempre funzionale poichè,
si è visto, la legge impone di procedere alla interpretazione utilizzando insieme i due criteri
letterale e funzionale.
Non sembra quindi esatto il dire che l'interprete dovrebbe acquietarsi di fronte al significato
letterale del testo se questo non presenta dubbi interpretativi. Anche un testo apparentemente
chiaro può in realtà offrire un significato più appropriato alla ragione giustificativa della legge, e
quindi occorre sempre verificare tale ragione.
L'interpretazione letterale, dunque, è solo il primo momento dell' atto interpretativo che si
completa con la ricerca e la verifica della ragione della norma. Il risultato finale interpretativo
non può essere in contrasto col significato letterale della legge perchè attraverso le parole la
norma è enunciata e comunicata ai suoi destinatari. E' tuttavia possibile che l'interpretazione
funzionale della legge ne modifichi il significato letterale.
L'interpretazione è detta restrittiva quando attribuisce alla legge un significato meno ampio di
quello risultante dalla stretta interpretazione letterale. Viceversa, l'interpretazione è detta

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estensiva quando essa attribuisce alla legge un significato più ampio di quello risultante dalla
mera interpretazione letterale.

4. - Nel ricercare la ragione della legge non può aversi riguardo esclusivo alla singola norma
interpretata ma occorre esaminare la legge nel suo complesso, ossia la disciplina legislativa in cui
s'inserisce la norma da interpretare.
Per potere infatti individuare l'interesse tutelato e la misura della sua tutela bisogna tenere conto
coerentemente del complesso delle norme che attengono a tale interesse e che consentono di
stabilire in quale rapporto esso si pone con gli altri confligenti interessi.
L'interesse normativo, in altre parole, non può essere considerato isolatamente poichè la
rilevanza di un interesse è sempre dimensionata e condizionata dalla rilevanza riconosciuta agli
altri interessi.
L'interpretazione funzionale è dunque è dunque essenzialmente un'interpretazione sistematica, e
cioè un'interpretazione coerente col sistema della legge.
La coerenza dell’interpretazione col sistema della legge implica ulteriormente la coerenza con i
principi dell’ordinamento nei quali la società esprime le sue scelte di fondo. Occorre cioè che
l’interpretazione sia coerente col sistema generale dei valori che la comunità pone a base della
propria convivenza.
L’interpretazione deve allora essere coerente con la Costituzione, dove sono appunto enunciate le
scelte fondamentali del nostro ordinamento.

5. - I valori sociali tendono ad evolversi nel tempo. L’interpretazione che si adegua all’evolversi
dei valori sociali è detta interpretazione evolutiva.
L’interpretazione evolutiva consente di adeguare le norme alle nuove esigenze, ignorate
quando le norme furono emanate.
La legittimità dell’interpretazione evolutiva è apertamente riconosciuta anche dalla
giurisprudenza, la quale giunge ad affermare che l’interprete non esaurisce il suo compito nel
momento ricognitivo della volontà del legislatore, ma deve accertare se la norma abbia maturato
un significato diverso rispetto a quello originariamente attribuitole dal legislatore ma
rispondente alla nuova realtà sociale.
L’interpretazione evolutiva è pur sempre interpretazione della legge, e non deve essere
contrastante con essa.

6. - Le norme giuridiche tendono ad una regolamentazione completa dei fatti socialmente


rilevanti. Può tuttavia accadere che la realtà presenti delle situazioni che, pur essendo
socialmente e giuridicamente rilevanti, non sono direttamente riconducibili ad una specifica
previsione normativa.
In mancanza di una specifica previsione normativa si rende allora necessario il ricorso
all’analogia. L’analogia è il criterio in base al quale alla fattispecie non regolata da una precisa
disposizione di legge si applica la norma regolatrice di una fattispecie simile (analogia di legge o
analogia legis) (art. 122 disp. prel.).
Il procedimento analogico presuppone quindi che la norma preveda una fattispecie simile a
quella non prevista. La somiglianza è data da ciò, che, pur trattandosi di fattispecie diverse, esse
presentano elementi comuni che giustificano razionalmente la medesima regola giuridica.
In linea teorica l'analogia non deve essere confusa con l'interpretazione
estensiva. Come si è visto, infatti, l'interpretazione estensiva è l'interpretazione funzionale che a
un significato della norma più ampio di quello risultante dalla semplice interpretazione letterale.
L’analogia, invece, non riguarda il significato della norma ma la sua applicazione a casi che non
rientrano nel suo ambito. L'analogia colma le lacune legislative, ed è pertanto mezzo di
integrazione della legge.
L'importanza della distinzione tra analogia e interpretazione estensiva si avverte soprattutto in

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ciò, che le norme penali e quelle eccezionali non sono suscettibili di applicazione analogica (art.
14 disp. prel.) mentre sono suscettibili di interpretazione estensiva.
Il divieto di applicazione analogica delle norme che “fanno eccezione a regole generali o ad altre
leggi” (art. 14 ult. cit.) è fondato sul bisogno di non derogare alla disciplina generale oltre i casi in
cui la deroga è giustificata secondo le valutazioni legislative. Si tratta quindi di evitare un
arbitrario allargamento delle eccezioni consentite dalla legge.

7. - Quando non vi sono disposizioni di legge che regolano casi simili si ricorre ai principi
generali dell' ordinamento giuridico dello Stato (art. 12 2 disp. prel.). L'applicazione dei principi
generali è detta analogia di diritto (o analogia iuris) mentre l'applicazione della regola del caso
simile è detta analogia di legge (o analogia legis).
Principi generali del nostro diritto sono anzitutto quelli espressi dalla Costituzione e, poi, quelli
che si possono desumere induttivamente dal complesso delle norme che formano l'ordinamento
giuridico.

8. - Il diritto comunitario non conosce norme ermeneutiche, cioè disposizioni normative che
fissano i criteri di interpretazione delle norme comunitarie. I criteri di interpretazione delle
norme comunitarie si desumono dalla prassi della Corte di giustizia e attengono
fondamentalmente al significato letterale delle disposizioni, allo scopo e alla loro coerenza
sistematica.
Il criterio di coerenza sistematica è poi alla base dei procedimenti di
integrazione analogica che consentono di colmare le lacune del diritto comunitario mediante il
ricorso di volta in volta alle norme regolatrici di casi simili, ai principi generali comunitari o ai
principi comuni degli ordinamenti europei.
La specifica competenza della Corte di giustizia ad interpretare le norme di diritto comunitario
conferisce particolare autorevolezza non solamente ai suoi precedenti, ma anche ai principi
interpretativi cui essa s'ispira.

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MODULO IV

Il diritto intertemporale

1. Entrata in vigore della legge


2. La cessazione di efficacia della legge
3. Abrogazione per legge successiva
4. Il conflitto intertemporale delle leggi
5. Il principio della irretroattività
6. Eccezionale retroattività della legge
7. Le disposizioni transitorie

1. - La legge entra normalmente in vigore, cioè inizia ad esplicare la sua efficacia normativa, il
15° giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, salvo che la legge stessa
stabilisca un termine più ampio o più breve (art. 733 Cost.; 10 disp. prel.). L'intervallo tra la
pubblicazione della legge e la sua entrata in vigore è detta vacanza della legge (vacatio legis). E'
anche possibile che la legge preveda la sua immediata entrata in vigore a seguito della
pubblicazione (c.d. decreti catenaccio ).
Anche i regolamenti entrano normalmente in vigore il 15° giorno successivo a quello della
pubblicazione (art. 10 disp. prel.).
Per le altre norme, diverse dalla leggi e dai regolamenti, non vi sono disposizioni particolari: può
dirsi quindi che esse acquistano efficacia normativa dal momento in cui si è perfezionato il loro
fatto costitutivo, salvo che sia stabilito un diverso termine.

2. - La durata di efficacia della legge può essere predeterminata dalla legge medesima mediante
un termine finale.
Oltre che per la scadenza di un termine finale la legge cessa di avere efficacia a seguito del
verificarsi di determinati fatti estintivi. La cessazione di efficacia della legge a seguito di un fatto
estintivo si chiama abrogazione.

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La principale forma di estinzione della norma giuridica è l'abrogazione per
norma successiva.
Oltre che da norma successiva, le leggi e i regolamenti possono essere abrogati da sentenze della
Corte costituzionale (art. 134 s. Cost.). Le leggi possono inoltre essere abrogate da referendum
popolari (art. 75 Cost).
L'abrogazione può essere totale, quando investe l'intera norma, o parziale, quando investe una
parte di essa.

3. - L'abrogazione per legge successiva può essere esplicita o tacita.


L'abrogazione esplicita si ha quando una legge successiva dichiara la cessazione di efficacia di
una legge precedente. L'abrogazione è tacita quando la norma successiva è incompatibile con la
norma precedente, ovvero quando regola per intero la materia già regolata dalla legge
precedente (art. 15 disp. prel.).
L'incompatibilità tra due norme risulta dalla impossibilità razionale della loro concorrente
applicazione. L'incompatibilità deve essere verificata rispetto a singole disposizioni. Fino a
quando vi sono disposizioni della legge precedente compatibili con le disposizioni di quella
successiva, esse rimangono in vita anche se la nuova legge modifica notevolmente la disciplina
anteriore.
Affinchè si possa dire che la legge è abrogata per intero occorre che la nuova legge dia una
disciplina completa, in maniera da escludere una congrua integrazione con le vecchie
disposizioni.
La norma può essere abrogata solo da una norma di pari grado o di grado superiore.
La legge non può quindi essere abrogata dal regolamento, che è norma di grado inferiore. Si
ritiene tuttavia che un regolamento possa modificare o abrogare una legge quando questa
possibilità sia espressamente prevista dalla legge. Si parla allora di regolamenti delegati.

4. - Ogni vicenda modificativa dell'ordinamento giuridico importa il problema dell' applicazione


della norma nel tempo. Alla norma abrogata o modificata fa seguito una diversa regola: ma si
tratta allora di accertare da quale momento essa trova applicazione e se tale applicazione
riguarda anche i fatti compiuti e i rapporti costituiti sotto il vigore della vecchia norma.
Il diritto transitorio o intertemporale è l'insieme delle norme che regolano il conflitto delle leggi
nel tempo.

5. - In generale la norma giuridica è irretroattiva. Essa cioè non detta regole valevoli per un
tempo anteriore a quello della sua entrata in vigore.
Il principio di irretroattività risponde ad un'elementare esigenza di certezza dei destinatari della
norma, i quali devono poter contare sulla disciplina legale in vigore per sapere quali sono gli
effetti giuridici dei loro atti.
A questa medesima esigenza si collega la tradizionale teoria dei diritti quesiti, secondo la quale il
soggetto non può essere privato da una norma successiva delle posizioni giuridiche attive già
acquisite in base alla norma precedente.
Con più ampi e precisi termini la teoria del fatto compiuto, afferma che la nuova legge non tocca
gli effetti già prodotti in base a fattispecie perfezionate nel vigore della vecchia legge.
Secondo questo criterio, sostanzialmente accolto dalla giurisprudenza, la legge nuova non
disconosce i diritti già sorti in base a fattispecie perfezionate prima della sua entrata in vigore ma
ne detta per il futuro una diversa disciplina.
Così, ad es., se il soggetto è divenuto proprietario di un bene in base ad un valido contratto, il suo
acquisto rimane fermo anche se il contratto non risponda ai requisiti di validità richiesti dalla
nuova legge. Il diritto di proprietà acquistato sotto la vecchia legge è invece assoggettato alla
nuova disciplina legale
In definitiva, il principio della irretroattività può definirsi come il principio secondo il quale la

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legge è valevole per il tempo successivo alla sua entrata in vigore facendo salvi gli effetti
giuridici derivanti da fattispecie anteriormente perfezionate.

6. - Il principio della irretroattività è garantito dalla Costituzione per quanto attiene alle norme
penali: nel senso che nessuno può essere punito per un fatto che non era vietato dalla legge al
momento del suo compimento (art. 252). Per le leggi non penali il principio della irretroattività è
sancito solo da una legge ordinaria (art. 111 disp. prel.). E' quindi possibile che singole leggi
stabiliscano la loro efficacia retroattiva. L'efficacia retroattiva della legge è comunque eccezionale
e deve quindi risultare sicuramente dalla legge, e non può applicarsi analogicamente.
Efficacia retroattiva si riconosce alle leggi interpretative, cioè alle leggi che fissano formalmente
il significato di una legge precedente. Ma proprio perchè l'efficacia retro attiva è un' eccezione,
deve essere certo che la legge è diretta a interpretare la norma anzichè a sostituirla.
L'eccezionale efficacia retroattiva della legge non tocca comunque i rapporti che siano stati già
definiti con sentenza passata in giudicato.
Un'eccezione al principio della irretroattività è posta dalla Costituzione in tema di decreti legge
emanati dal Governo senza delegazione del Parlamento in casi straordinari di necessità e
urgenza. Questi decreti perdono la loro efficacia normativa retroattivamente, cioè fin dall'inizio,
se non sono convertiti in legge dalle Camere entro due mesi dalla pubblicazione (art. 773 Cost.).
L'eccezione alla irretroattività trova qui la sua ragione nell'interesse di evitare che il Governo
possa regolare rapporti con effetti definitivi al di fuori della garanzia e del controllo del
Parlamento. Vengono a cadere, in tal caso, gli effetti già sorti nel frattempo sulla base del decreto
non convertito e trova applicazione la vecchia norma abrogata.
Se il decreto è convertito con modifiche, la regola da esso dettata rimane ferma mentre la
modifica si applica con effetto non retroattivo.

7. - Ciascuna legge emanata può contenere disposizioni transitorie per regolare appositamente il
conflitto tra la vecchia e la nuova normativa. Tali disposizioni stabiliscono i limiti di applicazione
della legge a situazioni anteriormente sorte o in via di formazione.
Disposizioni transitorie ad es., hanno accompagnato l’emanazione del codice civile. Tali
disposizioni sono contenute nel r.d. 30 marzo 1942, n. 318 (art. 114 s.), che nella prima parte
detta norme di attuazione, volte a specificare le modalità di applicazione delle norme del codice.

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MODULO V

Capacità giuridica e capacità di agire

1. Capacità giuridica della persona fisica


2. Incapacità speciali e impedimenti
3. Acquisto della capacità giuridica definitiva. La nascita
4. Il concepimento
5. La nozione di capacità di agire
6. Incapacità di agire
7. Cause dell'incapacità di agire. a) La minore età.
8. L’incapacità negoziale.
9. Incapacità di stare in giudizio
10. Incapacità relativa agli atti giuridici in senso stretto
11. La rappresentanza legale del minore
12. Incapacità delittuale
13. L’emancipazione
14. b) L’interdizione giudiziale
15. I presupposti
16. L’azione di interdizione
17. L’incapacità di agire dell’interdetto
18. La rappresentanza legale dell’interdetto
19. c) L’interdizione legale
20. d) L’inabilitazione
21. L’amministratore di sostegno
22. L’incapacità naturale

1. La capacità giuridica è l'idoneità del soggetto ad essere titolare di posizioni giuridiche. Essa
è generale quando il soggetto è astrattamente idoneo ad essere titolare di tutte le posizioni
giuridiche connesse ai suoi interessi e alla sua attività.
La capacità giuridica generale compete a tutte le persone fisiche. La persona fisica acquista la
capacità giuridica definitiva con la nascita e la conserva fino al momento della morte.
La nozione di capacità giuridica è distinta rispetto a quella di capacità di agire, la quale indica
l'idoneità del soggetto ad esplicare direttamente la propria autonomia negoziale e processuale. La
mancanza o la limitazione della capacità di agire non incide sulla capacità giuridica poiché il
soggetto rimane pur sempre idoneo ad essere titolare dei rapporti giuridici. Quella che manca
all'incapace di agire è piuttosto l'idoneità a gestire direttamente e autonomamente la propria sfera
personale e patrimoniale, occorrendogli un rappresentante legale o un curatore.
Anche chi è incapace di agire, ad es. un minore, può essere proprietario di un appartamento:
quello che il minore non potrà fare sarà di vendere direttamente l’appartamento o darlo in affitto,
perché questo richiede appunto un’esplicazione della capacità di agire che, in questo caso, è
preclusa al soggetto, in nome e per conto del quale dovrà agire il rappresentante legale.
La mancanza o la limitazione della capacità giuridica escludono invece la possibilità stessa di
partecipazione al rapporto. Chi è colpito da incapacà giuridica non può rendersi titolare del diritto
neppure a mezzo di rappresentante.

2. - La capacità giuridica generale può accompagnarsi a singole incapacità speciali.


L'incapacità speciale è la preclusione del soggetto rispetto a determinati rapporti giuridici.
L'incapacità speciale è assoluta quando la preclusione in capo al soggetto sussiste nei confronti di
tutti i consociati; è relativa quando sussiste nei confronti di determinate persone (es.: i parenti in
linea retta e i fratelli e sorelle non possono tra loro contrarre matrimonio: (art. 87, n. 1.2, c.c.).
La preclusione derivante da incapacità speciale rende nullo il negozio costitutivo del rapporto e

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non può essere rimossa mediante autorizzazione né mediante convalida.
L'incapacità speciale deve quindi essere distinta rispetto agli impedimenti soggettivi, e cioè ai
divieti suscettibili di rimozione mediante autorizzazione o convalida.
L'impedimento non designa una inidoneità del soggetto ma una proibizione rimessa ad un
giudizio di opportunità dei poteri pubblici o dello stesso interessato.
Ad es., l’art. 87 c.c., n. 3, prevede il divieto di contrarre matrimonio fra lo zio e la nipote e la zia e
il nipote: questa non è un’incapacità speciale, bensì un impedimento soggettivo in quanto il
matrimonio tra zia/zio e nipote può essere autorizzato dal tribunale.
Le incapacità speciali come anche gli impedimenti soggettivi non devono essere confuse con il
difetto di legittimazione. La legittimazione negoziale o processuale indica infatti la competenza
del soggetto a disporre o a esercitare un diritto.
La legittimazione spetta normalmente al titolare. Chi non è titolare del diritto e non ha un potere
di rappresentanza non è di regola legittimato ad alienare il diritto. Il negozio compiuto dal non
legittimato è inefficace nei confronti del titolare ma può acquistare efficacia mediante ratifica o
approvazione.

3. - La persona fisica acquista la capacità giuridica con la nascita (art. 1 cc). La nascita è l'evento
dell'inizio della vita extrauterina.
Le legge non definisce il compimento della nascita rinviando implicitamente alla nozione tecnica,
e pratica, che reputa compiuta la nascita con l'inizio della respirazione polmonare.
Nei casi dubbi, quando cioè non sia certo se vi sia stato aborto o se la morte sia sopravvenuta
subito dopo la nascita, soccorrono i criteri medico-legali della docimasia polmonare, diretti
appunto ad accertare se i polmoni hanno respirato. Il polmone che ha respirato conserva sempre
tracce di ossigeno e ne è prova, ad es., il fatto che esso galleggia sull'acqua (prova idrostatica
polmonare).
Per l'acquisto della capacità giuridica definitiva la nascita è l'evento necessario e sufficiente. La
legge non richiede, in particolare, il requisito della vitalità, e cioè l'idoneità fisica alla
sopravvivenza.
Se la persona è nata, ed è quindi vissuta sia pure per un solo attimo, essa ha acquistato per ciò
stesso la capacità giuridica definitiva. Ne consegue, tra l'altro, che la morte sopravvenuta apre la
sua successione con la devoluzione dei beni agli eredi.
Per quanto breve sia la vita dell'infante, questi può sempre essere titolare dei beni pervenutigli
per successione a causa di morte o per donazione. Anteriormente alla nascita gli acquisti ereditari
e donativi hanno carattere provvisorio. Ma a seguito della nascita essi divengono definitivi e
quindi fanno parte del patrimonio dell'infante che, a sua volta, trasmetterà quanto ricevuto ai suoi
successori.

4. - Per il nostro ordinamento la capacità giuridica è una qualità essenziale che la persona fisica
acquista al momento stesso della nascita (art.11 c.c.) e che perde solo a seguito della morte.
Anche a favore del concepito t'ordinamento riconosce tuttavia la, possibilità di essere titolare di
diritti subordinatamente all'evento della nascita (art. 1 2 c.c.).
In particolare, il codice dichiara capaci di succedere tutti coloro che sono nati o concepiti al tempo
dell'apertura della successione (art. 4621).
Il concepito è inoltre capace di ricevere per donazione (art. 784 c.c.).
Si pone allora il problema se il concepimento segni il momento di acquisto di una sia pur limitata
capacità giuridica.
In dottrina la soluzione è generalmente negativa. Tale soluzione muove dall'assunto che la
capacità giuridica sarebbe una qualità non graduabile, che deve riconoscersi o negarsi per intero.
Non potrebbe quindi ammettersi che prima della nascita il concepito sia capace relativamente a
determinati rapporti.
Coerentemente a tale assunto si nega che il concepito possa acquistare diritti in via successoria o
per donazione. La capacità prevista al riguardo dalla legge viene spiegata nel senso che al

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concepito verrebbero semplicemente conservati i diritti derivantigli da successioni o da atti di
liberalità. I diritti stessi verrebbero poi acquistati se e quando si verifichi l'evento della nascita.
Altrimenti essi devono intendersi come non mai entrati nella sua sfera giuridica.
Quest'ultima proposizione è certamente esatta. Se il concepito non viene alla nascita, le
attribuzioni a suo favore sono inefficaci e pertanto non possono esservi diritti che si trasmettono
dal concepito ai suoi eredi. Se invece il concepito viene alla nascita, le attribuzioni a suo favore
rimangono definitivamente efficaci. Anche quando la morte segue immediatamente, quindi, si
apre la successione a favore dei suoi eredi legittimi.
Se è vero che l'acquisto definitivo dei diritti in capo al concepito è subordinato all'evento della
nascita, ciò non importa tuttavia che prima della nascita il concepito sia privo di capacità
giuridica.
Prescindendo da preconcetti assunti sulla capacità giuridica, la questione deve essere risolta sulla
base di quanto dispone la legge. Ora, la legge non solamente riconosce espressamente al
concepito la capacità successoria, ma ne attribuisce ai genitori la rappresentanza e
l'amministrazione dei beni nel normale espletamento della loro potestà (art. 320 1 c.c.).
Ciò significa che i diritti attribuiti al concepito non sono solamente accantonati ma sono invece
esercitati dal suo rappresentante legale in nome e per conto del concepito stesso. In quanto la
legge prevede che i diritti del concepito sono attualmente esercitati per suo conto, non si può
correttamente parlare neppure di una capacità sospensivamente condizionata, e cioè di una
capacità che verrà attribuita al momento della nascita con effetto dal momento del concepimento.
Nella realtà della sua esistenza naturalmente destinata a concludersi con la nascita, il concepito è
portatore di interessi che devono essere fatti valere attualmente. Questi interessi possono
sussistere anche al di fuori delle successioni e delle donazioni. Si pensi, ad es., all'interesse al
riconoscimento da parte del genitore già prima della nascita (come infatti è previsto: art. 254 c.c.).
Il nascituro, poi, è titolare di diritti fondamentali che reclamano la loro attuale tutela da parte
dell’orientamento della giurisprudenza, che ammette ora la risarcibilità del danno biologico e del
danno morale arrecato al nascituro.
Ben diversa è la posizione del nascituro non concepito. La legge ammette che le disposizioni
testamentarie e donative possano essere fatte a favore di un nascituro non concepito, purchè figlio
di persona vivente al momento dell’apertura della successione o del concepimento della liberalità
(art. 4623, 784 c.c.). In tal caso, per altro, i diritti sono esercitati e goduti dal donante ovvero da
color che hanno titolo definitivo all’eredità o al legato se il nascituro non viene ad esistenza (art.
6431, 784 c.c.).
In conclusione, la questione della capacità del concepito non può essere risolta semplicemente
sulla base della norma che indica la nascita come il momento di acquisto della capacità giuridica.
Occorre anche prendere atto che l'ordinamento riconosce il concepito come portatore di interessi
meritevoli di attuale tutela e che per ciò stesso gli riconosce la capacità: capacità provvisoria che
rimane definitiva se il concepito, secondo il suo ciclo naturale, viene alla nascita, e che si risolve
retroattivamente se tale evento non segue.
Mentre il nascituro è dotato di capacità giuridica, seppure caducabile, ed è quindi persona, lo
stesso non può dirsi dall'embrione non impiantato nel corpo materno.
L'embrione non impiantato nel corpo materno esula dalla nozione civilistica di nascituro
concepito, riferita all'embrione inserito nel processo della nascita.
Con riguardo all'embrione non impiantato non è quindi a parlarsi di diritti successori, di
rappresentanza legale, ecc. Rimane tuttavia il problema se esso debba essere considerato alla
stregua di un mero prodotto organico o se debba essere tutelato come il frutto del concepimento,
potenziale iniziatore della vita umana.
La legge sulla procreazione assistita del 19 febbraio 2004, n. 40, detta ora una disciplina di piena
tutela dell' embrione. In apertura essa dichiara la finalità di assicurare i diritti di tutti i soggetti
coinvolti nella procreazione medicalmente assistita "compreso il concepito" (art. 11).

5. - La capacità di agire è la generale idoneità del soggetto a compiere e ricevere gli atti giuridici

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incidenti sulla propria sfera personale e patrimoniale.
La capacità di agire si specifica in particolare nella capacità negoziale, e nella capacità di stare in
giudizio.
La capacità di agire presuppone la capacità giuridica del soggetto ma è comunque una nozione
distinta. Mentre la capacità giuridica indica l'idoneità del soggetto ad essere titolare di posizioni
giuridiche, la capacità di agire riguarda il diretto svolgimento della capacità giuridica attraverso il
compimento e la ricezione di atti di acquisto, perdita, modifica o esercizio dei suoi diritti ed
obblighi.
Quando la persona fisica difetta della capacità di agire perché, ad es., minore di età, essa è pur
sempre giuridicamente capace, e può essere titolare di diritti personali e patrimoniali, ma di
regola gli atti leciti che incidono sulla sua sfera giuridica devono essere compiuti o ricevuti dal
rappresentante legale.
L'incapacità di agire non implica dunque come tale una mancanza o menomazione della capacità
giuridica poiché l'incapace di agire è pur sempre titolare delle posizioni giuridiche che acquista e
di cui dispone attraverso il suo rappresentante.
Inoltre, se si tratta di atti negoziali, l'incapacità di agire non comporta l'inefficacia dell'atto ma la
semplice annullabilità. Se e fino a quando l'atto non venga eventualmente annullato, esso è
produttivo dei suoi effetti.

6. - Mentre la persona fisica è giuridicamente capace in quanto esistente, essa acquista la capacità
di agIre col raggiungimento della maggiore età, e può perderla a causa di infermità mentale e di
condanna penale.
Più precisamente, sono privi di capacità di agire: a) i minori, e cioè le persone fisiche che non
hanno compiuto il 18° anno di età; b) gli interdetti giudiziali, e cioè coloro che per infermità
mentale sono dichiarati con provvedimento giudiziale incapaci di agire; c) gli interdetti legali, e
cioè coloro che hanno perduto la capacità di agire a seguito di condanna a pena reclusiva non
inferiore a cinque anni.
L'incapacità di agire importa di massima la inidoneità del soggetto a compiere o ricevere gli atti
giuridici, salvo che diversamente non risulti in ragione della natura dell'atto e della causa
dell'incapacità. Gli atti devono essere compiuti o ricevuti dal rappresentante legale.
Accanto all'incapacità di agire la legge prevede la ridotta capacità di agire.
La ridotta capacità di agire non esclude l'idoneità del soggetto a compiere e ricevere gli atti
giuridici, ma richiede che taluni atti più importanti siano compiuti con l'assistenza di un curatore.
Hanno una ridotta capacità di agire: a) gli emancipati, e cioè i minori degli anni 18 che hanno
contratto matrimonio, e b) coloro che sono giudizialmente dichiarati inabilitati a causa di
un'infermità mentale che non è talmente grave da richiedere l'interdizione.

7. - La persona fisica consegue solo con l’età la maturità sociale sufficiente per agire
responsabilmente e decidere appropriatamente dei propri interessi.
Il conseguimento della maturità sociale varia da individuo a
individuo ma l'ordinamento fissa un termine unico, e cioè il compimento del diciottesimo anno di
età per l'acquisizione della condizione di maggiorenne e della piena capacità di agire. Prima di
raggiungere la maggiore età, il soggetto è un incapace legale a prescindere dalla sua effettiva
maggiore o minore maturità.
L'incapacità di agire del minore è prevista in funzione protettiva del soggetto, e cioè al fine di
evitare che la mancanza di un'adeguata maturità lo pregiudichi nella vita di relazione.

8. - L'incapacità di agire importa '"principalmente l'incapacità negoziale, cioè l'inidoneità del


minore al diretto compimento di atti negoziali incidenti sulla propria sfera giuridica. Gli atti
negoziali devono invece essere compiuti dal rappresentante legale.
Gli atti negoziali direttamente compiuti dal minore sono annullabili (art. 1425 1 c.c.). Essi possono
cioè essere annullati a seguito di azione giudiziale.

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Annullabili sono di massima tutti gli atti negoziali, unilaterali o
contrattuali, onerosi o gratuiti, di ordinaria o di straordinaria amministrazione.
L'annullamento è stabilito a favore del minore. L'azione può quindi essere esercitata dal
rappresentante legale in nome e per conto del minore ovvero direttamente dall'interessato dopo il
raggiungi mento della maggiore età. Non può invece essere esercitata dal terzo che abbia
incautamente contrattato col minore.
Se il minore ha dolosamente fatto credere all'altro contraente di essere maggiorenne, il contratto
non è annullabile. Al riguardo occorre tuttavia che il minore ponga in essere un raggiro mediante
atti idonei a trarre in inganno il terzo (es.: mediante alte razione della data di nascita su un
documento di identità) mentre non basta la sua semplice dichiarazione di essere maggiorenne
(art. 1426 c.c.).
L'azione di annullamento si estingue per prescrizione se non viene esercitata entro cinque anni a
decorrere dal momento in cui il minore ha conseguito la generale capacità di agire (art. 1442 c.c.).
L'incapacità eli agire costituisce pur sempre una menomazione
dell'autonomia del soggetto, il quale, non solamente non può stipulare direttamente gli atti
negoziali che incidono sulla sua sfera giuridica, ma non può neppure deciderne il compimento.
Questa considerazione induce a ridimensionare la portata dell'incapacità negoziale del minore, il
quale, compatibilmente con l'esigenza della sua protezione, deve poter godere dell'autonomia
necessaria per svolgere la sua personalità.
In particolare, devono reputarsi esclusi dalla regola dell'incapacità negoziale quegli atti nei quali
si estrinsecano le libertà fondamentali della persona, salva solo l'interferenza del genitore o del
tutore giustificata dalla funzione di educazione e di cura. Non potrebbe quindi, ad es., il genitore
impugnare l'atto di iscrizione del figlio ad un partito politico o ad un sindacato. Secondo
l'opinione tradizionale anche i contratti di lavoro devono essere stipulati esclusivamente dal
rappresentante legale. Questa opinione non appare tuttavia più conciliabile col rispetto della
libertà di lavoro. la quale non può essere legata al minore che abbia acquistato la capacità
giuridica lavorativa.
Il minore può inoltre esercitare i diritti e azioni che dipendono dal rapporto di lavoro (art. 2 c.c.).
Più in generale deve ammettersi che sono sottratti alla regola dell'incapacità quegli atti negoziali
attraverso i quali il minore esprime la sua partecipazione alla vita di relazione conformemente
alle normali esigenze della sua personalità, salvo che si tratti di atti che lo espongono ad un
rilevante pregiudizio.

9. - Il minore non ha la capacità di stare in giudizio, cioè di essere direttamente attore o


convenuto nelle cause civili. In tal senso un'apposita previsione normativa dichiara che sono
capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere
(art. 751 c.p.). Il minore può stare in giudizio per mezzo del suo rappresentante legale (cfr. art. 75 2
c.p.c.), il quale deve essere autorizzato dal giudice quando si tratta di promuovere giudizi relativi
ad atti eccedenti l'ordinaria amministrazione.

10. - Con riguardo alla capacità di compiere e ricevere atti giuridici in senso stretto (non
negoziali), il minore può compiere efficacemente tutti gli atti giuridici, tranne quelli suscettibili di
conseguenze sfavorevoli.
Il minore de ve pertanto reputarsi capace di compiere gli atti valevoli ad acquisire o di
salvaguardare un diritto (interruzione della prescrizione, messa in mora del creditore, ecc.).
Il minore deve invece reputarsi incapace con riguardo agli atti che importino la perdita di un
diritto o l'assunzione di oneri o di obblighi. Il minore, in particolare, non è capace di ricevere atti
che importino l'onere di una valutazione del loro significato e delle loro conseguenze (per la
confessione cfr. l’art. 2731 c.c.).
L'incapacità si traduce nell'automatica inefficacia dell'atto ne i confronti del minore che lo abbia
compiuto o che lo abbia ricevuto.
I pagamenti ricevuti dal minore hanno efficacia estintiva del suo diritto di credito solo nei limiti

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in cui sia provato che egli ne abbia tratto effettivo vantaggio (art. 1190 c.c.).

11. – Il minore è legalmente rappresentato dai genitori esercenti la potestà (art. 320 c.c.).
Per gli atti di straordinaria amministrazione la rappresentanza legale dei genitori è congiunta, nel
senso che l'atto deve essere compiuto da entrambi i genitori. Per gli atti di ordinaria
amministrazione, invece, la rappresentanza è disgiunta, nel senso che l'atto può essere compiuto
dall'uno o dall'altro dei genitori.
La morte di entrambi i genitori o la loro impossibilità di esercitare la potestà dà luogo all'apertura
della tutela e alla nomina di un tutore (art. 343, 346 c.c.).
L'istituto della tutela è inteso a surrogare la potestà dei genitori attribuendo al tutore la
rappresentanza legale e analoghi poteri e doveri di cura della persona e del patrimonio del
minore. Il tutore, precisamente, ha la cura della persona del minore, lo rappresenta in tutti gli atti
negoziali e ne amministra i beni (art. 367 c.c.).
Il protutore rappresenta il minore quando tra questo e il tutore vi è conflitto di interessi (art. 360
c.c.).
Ampi poteri decisionali e di vigilanza competono al giudice tutelare. Su proposta del tutore il
giudice tutelare, sentito lo stesso minore, decide sul luogo in cui il minore deve vivere, sul suo
avviamento agli studi o ad una formazione professionale, sui modi del suo mantenimento (art.
371, n. l, c.c.).
Per il compimento di taluni atti (riscossione di capitali, ecc.) il tutore (e il protutore) devono
essere previamente autorizzati dal giudice tutelare (art. 374 c.c.), e per altri più importanti
(alienazione di beni, costituzione di ipoteche, ecc.) dal tribunale (art. 375 c.c.).
La legge prevede che sia aperta la tutela quando il minore sia orfano di entrambi i genitori o
questi non possano esercitare la potestà (art. 3431 c.c.). In queste ipotesi il minore che non abbia
parenti prossimi disposti a prendersene cura dev'essere dichiarato in stato di adottabilità.
Quando il minore è adottato non vi è luogo a tutela in quanto l'adozione inserisce il minore nella
famiglia degli adottanti. Finché permane lo stato di adottabilità è invece necessario che il minore
abbia un tutore.

11. - Con riguardo agli atti illeciti non sussiste una specifica incapacità delittuale del minore.
Questi è esentato da responsabilità solo in quanto si dimostri che non era in grado di intendere o
di volere al momento dell'illecito.
La capacità delittuale del minore trova spiegazione nel rilievo che la vita di relazione richiede
l'osservanza di norme pratiche di condotta che si prestano ad essere conosciute e comprese anche
senza il raggiungimento della piena maturità sociale.
D’altra parte, il problema della responsabilità del minore perde in buona parte la sua rilevanza
poiché la legge rende responsabili i genitori il danno arrecato dal figlio non emancipato (art.
20481 c.c.). Responsabili sono inoltre i tutori per il danno arrecato dal minore sotto tutela.
Responsabili sono ancora gli insegnanti e gli istruttori di arti e mestieri per l'illecito compiuto dal
minore nel tempo in cui è sotto la loro vigilanza (art. 20482 c.c.).
Questi soggetti sono esentati dalla loro responsabilità solo se provano di non aver potuto evitare il
danno. Per i genitori e i tutori la prova si sostanzia nella dimostrazione di avere impartito una
normale educazione al minore e, se questi è con loro convivente, di avere esercitato sulle sue
azioni una vigilanza adeguata in relazione all'ambiente, alle abitudini e al carattere del soggetto
(questo è un tema
appartenente alla materia della responsabilità civile).
Anche se il minore non risponde in quanto incapace d'intendere o di volere, il terzo danneggiato
può quindi di regola ottenere il risarcimento del danno da parte dei genitori o degli altri soggetti
che rispondono del suo illecito. Nel caso in cui il terzo non abbia ottenuto il risarcimento, la legge
prevede la possibilità che il giudice condanni l'incapace al pagamento di un equo indennizzo (art.
20472 c.c.). L'ammontare dell'indennizzo non deve essere rigorosamente commisurato al danno
ma deve piuttosto tenere conto delle condizioni economiche del danneggiato e del danneggiante.

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13. – L’emancipazione è lo stato di ridotta capacità di agire che il minore acquista col matrimonio
(art. 390 c.c.).
L'emancipazione conferisce al soggetto la piena capacità di agire per quanto attiene agli atti di
ordinaria amministrazione e agli atti di natura personale. Per quanto attiene invece agli atti di
straordinaria amministrazione l'emancipato deve compierli con l’assistenza di un curatore.
L'emancipazione sottrae il soggetto alla rappresentanza legale del genitore o del tutore. Il curatore
non è un rappresentante legale che compie l'atto in nome e per conto dell'emancipato. L'atto è pur
sempre compiuto da quest’ultimo. Il curatore emette piuttosto un consenso al compimento
dell’atto avente la natura di un’autorizzazione privata.
L’istituto della emancipazione ha ormai un’applicazione del tutto marginale nell’attuale
legislazione. Infatti la capacità di contrarre matrimonio si consegue con la maggiore età e solo
eccezionalmente il minore che ha compiuto il 16° anno di età può essere autorizzato
giudizialmente ad unirsi in matrimonio (art. 842 c.c.).
Col raggiungimento della maggiore età lo stato di emancipazione cessa comunque per dare luogo
alla piena capacità di agire del soggetto.
Ancora, il giudice tutelare nomina un curatore speciale quando sorge un conflitto di interessi tra il
minore e il curatore (art. 3944 c.c.), cioè quando il curatore ha un interesse proprio al
compimento dell’atto.
Al curatore è poi fatto specifico divieto di acquistare diritti del minore. Può prenderne in
locazione i beni solo con l’autorizzazione e con l'osservanza delle cautele fissate dal giudice
tutelare. La violazione di questo divieto rende il negozio annullabile su azione dell'emancipato o
dei suoi successori (art. 378, 3962 c.c.).

14. - L'interdizione giudiziale è lo stato giudizialmente dichiarato di incapacità di agire della


persona maggiorenne che a causa della sua abituale infermità mentale non è in grado di
provvedere ai propri interessi (art. 414 c.c.).
L'interdizione giudiziale comporta la perdita della capacità di agire e la nomina di un tutore quale
rappresentante legale.
L'incapacità di agire dell'interdetto giudiziale è in funzione di protezione del soggetto, il quale, per
le sue condizioni mentali, non può provvedere appropriatamente ai propri affari.
Pur essendo in funzione di protezione dell'interdetto, la perdita della capacità di agire costituisce
una grave menomazione della sua autonomia privata, limitando anche l'esercizio dei diritti
personali. Di qui la necessità che i presupposti dell'interdizione siano accertati in un processo
ordinario, e che l'interdizione sia dichiarata mediante sentenza.
Senza la dichiarazione giudiziale il soggetto conserva la capacità di agire anche se è infermo di
mente. L'infermità mentale come tale comporta la semplice incapacità naturale del soggetto, e per
l'annullamento dei suoi atti bisognerà di volta in volta dimostrare la mancanza della capacità
d'intendere o di volere, il pregiudizio sofferto e l'approfittamento dell'altra parte (n. 22).

15. - Devono essere interdetti, come si è detto, coloro che non sono in grado di provvedere ai
propri interessi per la loro abituale infermità mentale.
Presupposto primo è quindi che il soggetto sia affetto da una abituale malattia mentale. Un
accertamento negativo sull'esistenza di tale presupposto esclude in radice la possibilità di una
pronunzia di interdizione.
L'abituale infermità sussiste quando le condizioni mentali del soggetto siano stabilmente alterate.
Non rileva quindi, ai fini dell'interdizione, uno stato morboso transitorio, destinato a risolversi in
breve tempo.
L'infermità è abituale anche quando il soggetto goda di momenti nei quali riacquista
provvisoriamente la capacità di intendere e di volere (c.d. lucidi intervalli).

Il secondo presupposto per la dichiarazione di interdizione è che a causa dell'infermità mentale il

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soggetto non sia in grado di provvedere adeguatamente ai propri interessi. Non basta pertanto
che il soggetto sia mentalmente malato, ma occorre anche che l’infermità incida sulla sua
attitudine a curare adeguatamente i propri affari patrimoniali e personali.
Interdetto può essere dichiarato il soggetto che ha raggiunto la maggiore età. Prima del raggiungi
mento della maggiore età si reputa che l'infermo di mente sia sufficientemente salvaguardato dal
suo stato di minore. Tra il conseguimento della maggiore età e l’emanazione della sentenza di
interdizione può tuttavia trascorrere un certo tempo che creerebbe un intervallo di capacità di
agire in capo all’infermo di mente. Per evitare questo intervallo la legge prevede che l’azione per
l’interdizione possa essere proposta un anno prima del raggiungi mento della maggiore età. In tal
caso la sentenza ha comunque effetto dal momento in cui il soggetto diviene maggiorenne (art.
416 c.c.).

16. - L'azione per l'interdizione può essere proposta dal coniuge, dai parenti entro il 4° grado e
dagli affini entro il 2° grado (art. 417 c.c.).
In ogni caso, è legittimato ad agire il pubblico ministero.
Sussiste infatti l'interesse pubblico a che il soggetto infermo di mente sia salvaguardato mediante
la dichiarazione di incapacità e la nomina del rappresentante legale. D'altra parte, la gravità
dell'azione e dei suoi riflessi negativi anche in caso di rigetto, non consente di esporre il soggetto
all'azione di interdizione di un qualsiasi terzo che non gli sia legato da vincoli di coniugio o di
parentela.
Tra i legittimati va incluso anche lo stesso interdicendo.
In quanto l'interdizione incide sulla capacità di agire della persona, e quindi sul suo stato, la legge
impone garanzie e forme del giudizio contenzioso.

17. - A seguito della dichiarazione giudiziale d'interdizione il soggetto perde la capacità di agire.
Lo stato giuridico dell'interdetto è in larga parte corrispondente a quello del minore, salve alcune
differenze che trovano ragione nella diversa causa dell'incapacità. Mentre il minore, infatti, è
protetto per una presunzione di non raggiunta maturità, l'interdetto è privo della capacità di agire
a seguito di una sentenza che lo ha riconosciuto incapace d'intendere o di volere per una stabile
infermità mentale.
Come il minore, l'interdetto difetta della capacità negoziale. Gli atti negoziali devono essere
compiuti nel suo nome e nel suo interesse dal tutore. Gli atti compiuti direttamente
dall'interdetto possono essere annullati su istanza del tutore dell'interdetto o dei suoi eredi o
aventi causa. L'azione si prescrive in 5 anni decorrenti dalla cessazione dello stato d'incapacità.
Pur se più o meno limitato dalle sue condizioni mentali, anche l'interdetto può tuttavia avvertire
l'esigenza di esercitare i diritti fondamentali di libertà e di solidarietà e di partecipare
direttamente alla vita di relazione. Questa attività personale dell'interdetto deve ritenersi sottratta
alla regola dell'incapacità nei limiti in cui essa si traduce in atti negoziali che non lo espongano ad
un rilevante pregiudizio.
Deve quindi ammettersi che lo stato di interdizione non impedisca di per sé al soggetto,
l'utilizzazione di pubblici servizi, gli atti relativi alle necessità della vita quotidiana, ecc.
In quanto il tutore ha la cura della persona dell'interdetto, si ritiene che spetti a lui autorizzare i
trattamenti sanitari.
Come il minore, t'interdetto difetta inoltre della capacità di stare in giudizio (75 c:p.c.). Questa
capacità gli è tuttavia riconosciuta nel giudizio di interdizione, anche a seguito della nomina del
tutore provvisorio, e nel giudizio di revoca dell'interdizione.
Per quanto riguarda gli atti giuridici leciti, (l’interdetto può compiere e ricevere quegli atti che
non sono potenzialmente pregiudizievoli.
Per quanto attiene alla capacità delittuale, (l’interdetto giudiziale si avvale di una presunzione di
incapacità di intendere e di volere che difficilmente potrà essere vinta dalla prova di un lucido
intervallo.
Del fatto dannoso e ingiusto dell'interdetto risponde chi è tenuto alla sua sorveglianza, salvo che

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provi di non avere potuto impedire il fatto (art. 20471 c.c.). Responsabili sono ancora
eventualmente i precettori e gli istruttori per il tempo in cui l'interdetto è sotto la loro vigilanza
(20482 c.c.).
Se il danneggiato non può conseguire il risarcimento del danno, l'interdetto, può essere
condannato ad un equo indennizzo (20472 c.c.).

18. - L'interdetto è legalmente rappresentato da un tutore. Come il tutore del minore, il tutore
dell'interdetto lo rappresenta in tutti gli atti giuridici, ne amministra i beni, ha cura della sua
persona (art. 325, 4241 c.c.).

19. - L'interdizione legale è lo stato di incapacità di agire della persona fisica maggiorenne
condannata per delitto non colposo alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni (art.
32, 33 c.p.).
L'interdizione legale rientra fra le pene accessorie. Essa ha quindi una funzione sanzionatoria
anche se vale ad assicurare la cura degli interessi patrimoniali del soggetto affidati all'ufficio di un
tutore che lo rappresenta legalmente.
La tutela dell'interdetto legale è disciplinata dalle norme sull'interdizione giudiziale.
Lo stato d'incapacità dell'interdetto legale corrisponde a quello dell'interdetto giudiziale, ma solo
per quanto concerne i diritti patrimoniali. La legge richiama infatti la disciplina dell'interdizione
relativamente alla disponibilità e amministrazione dei beni (32 u.c. c.p.), escludendo in tal modo
dal regime dell'incapacità l'esercizio dei diritti personali o che non ammettono rappresentanza
(es.: testamento).

20. - L'inabilitazione è lo stato giudizialmente dichiarato di ridotta capacità di agire della persona
maggiorenne che per le sue condizioni mentali o fisiche non è pienamente in grado di curare i
propri interessi economici.
Lo stato di ridotta capacità di agire dell’inabilitato corrisponde a quello del minore emancipato.
L'inabilitato può compiere e ricevere direttamente tutti gli atti di ordinaria amministrazione e di
natura personale. Per quanto attiene, invece, agli atti di straordinaria amministrazione occorre
l'assistenza del curatore.
L'inabilitato può essere autorizzato all'esercizio di un'impresa commerciale, ma solo in quanto si
tratti di continuazione di attività già iniziata (art. 425 c.c.). L'autorizzazione è data dal tribunale
su parere del giudice tutelare, e può essere subordinata alla nomina di un institore, e cioè di un
preposto all'impresa con poteri di rappresentanza (2203 c.c.).
L’inabilitazione può essere dichiarata quando la persona abbia raggiunto l'ultimo anno della
minore età e non sia pienamente in grado di provvedere ai propri interessi per una delle seguenti
cause: a) non grave infermità di mente; b) prodigalità; c) abuso abituale di alcolici o di
stupefacenti; d) sordomutismo o cecità dalla nascita'' (art. 415 c.c.).
a) L'infermità di mente che giustifica t'inabilitazione è qualsiasi permanente alterazione psichica
che menoma la normale attitudine del soggetto a provvedere diligentemente ai propri affari senza
tuttavia escludere per intero la sua capacità di intendere e di volere.
Ai fini della inabilitazione rileva quindi un'infermità mentale che non sia tanto grave da
richiedere l'interdizione.
b) La prodigalità è un impulso patologico che menoma la capacità del soggetto di valutare il
significato economico dei propri atti e che lo spinge allo sperpero.
La prodigalità rileva in quanto esponga il soggetto o la sua famiglia ad un grave pregiudizio
economico e in quanto sia sintomo di un'alterazione psichica. Quando invece l'attività del
soggetto risponde ad una consapevole scelta, la sua autonomia non può essere limitata anche se
ne risulti compromessa la consistenza patrimoniale.
c) L'abuso abituale di alcolici o droghe è causa di inabilitazione quando si traduce in una
permanente condizione patologica che espone il soggetto o i suoi congiunti ad un grave danno
economico.

28
Il carattere permanente dell'intossicazione sussiste quando questa si protrae nel tempo con
carattere di continuità anche se intramezzata da intervalli di lucidità.
d) Il sordomutismo e la cecità dalla nascita, infine, sono causa di inabilitazione quando il soggetto
non abbia ricevuto un'educazione sufficiente che gli permetta di provvedere autonomamente ai
propri affari.
La menomazione fisica qui non rileva in sé ma in quanto non abbia consentito alla persona di
raggiungere quella misura sufficiente di maturità sociale che è richiesta dalla vita di relazione. A
differenza di quanto stabilito dal vecchio codice, che prevedeva l'inabilitazione automatica (art.
340), tale insufficiente maturità sociale deve sempre essere accertata con sentenza. L'eventuale
accertamento di una totale incapacità d'intendere o di volere deve portare alla interdizione.
L'inabilitazione è dichiarata mediante sentenza del tribunale a seguito di un giudizio ordinario.
L'azione è sottoposta alla stessa disciplina dell'azione di interdizione, sia per quanto riguarda il
procedimento che i legittimati.
Legittimato, ovviamente, è anzitutto lo stesso inabilitando quale portatore dell'interesse diretto
alla dichiarazione giudiziale di inabilitazione. In ogni caso, la legge richiede che l’inabilitando sia
personalmente ascoltato (art. 419 c.c.). Pure l'inabilitazione, si aggiunga, può essere promossa su
iniziativa del pubblico ministero, essendovi un interesse pubblico a che la persona sia inabilitata
quando essa sia esposta ad un rilevante pregiudizio per non essere in condizione di provvedere
adeguatamente ai propri affari.

21. - Gli istituti dell'interdizione e della inabilitazione sono forme obsolete e inadeguate di
protezione giuridica dei sofferenti psichici. La rigidità e la gravità delle conseguenze discendenti
dall'applicazione di tali istituti appaiono infatti mortificanti per la persona.
D'altra parte, detti istituti lasciano senza risposta tutte quelle situazioni in cui la persona è in
difficoltà a curare i propri affari per cause psicofisiche che sono transitorie o tali da non privarla
della capacità d'intendere e di volere.
A dare una risposta alle esigenze scaturenti da tali situazioni ha provveduto la legge 9 gennaio
2004, n. 6, che ha introdotto la figura dell’amministrazione di sostegno, dettandone la disciplina
mediante disposizioni inserite nel codice civile agli articoli 404 e s.
L'amministrazione di sostegno è un istituto finalizzato ad assicurare assistenza giuridica alla
persona che a causa di menomazioni o infermità fisiche o pschiche è nella impossibilità, anche
parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi: l'assistenza è prestata da un incaricato
giudiziario, l'amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare con funzioni di cura e
rappresentanza del beneficiario.
L'amministratore di sostegno è titolare di un ufficio in diritto privato, disciplinato in larga parte
dalle norme sulla tutela (art. 4111-2 c.c.).
L'atto di nomina dell’amministratore di sostegno deve indicare, tra l'altro, l'oggetto dell' incarico e
degli atti che l'amministratore ha il potere di compiere in rappresentanza e nell'interesse del
beneficiario nonchè degli atti che il beneficiario può compiere solo con l'assistenza
dell'amministratore (art. 4054 c.c.).
Il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza
esclusiva o l'assistenza necessaria dell'amministrazione di sostegno (art. 409 1 c.c.).
Relativamente agli atti che richiedono la rappresentanza o l'assistenza necessaria dell'
amministratore di sostegno, il beneficiario è affetto da incapacità di agire. Gli atti posti in essere
personalmente dal beneficiario senza la rappresentanza o l'assistenza necessaria dell'
amministratore di sostegno, sono annullabili, (art. 412 2 c.c.).
Anche gli atti dell'amministratore di sostegno sono suscettibili di annullamento se compiuti al di
fuori dei limiti dell' incarico (art. 4121 c.c.).
L'azione di annullamento si prescrive in 5 anni dal momento in cui è cessata la sottoposizione
all’amministratore di sostegno (art. 4123 c.c.).

22. - L'incapacità naturale è lo stato di fatto della persona che non è in grado d'intendere o di

29
volere per una qualsiasi causa permanente o transitoria (art. 428 c.c.).
L'incapacità naturale non indica uno stato legale d'incapacità della persona né si traduce di per sé
nella perdita o nella riduzione della capacità di agire del soggetto.
La perdita e la limitazione della capacità di agire della persona possono conseguire solo a seguito
di una sentenza d'interdizione o di inabilitazione o di un provvedimento di amministrazione di
sostegno.
Chi non è in grado di intendere o di volere non è di per sè un incapace legale, ma i suoi atti
negoziali possono essere suscettibili di annullamento.
Il riconoscimento incondizionato della validità dell'atto di autonomia privata compiuto
dall'incapace naturale verrebbe a ledere l'esigenza che tale atto sia espressione di una volontà
integra e consapevole. La legge prevede quindi che l'atto possa essere impugnato da chi non era in
grado di intendere o di volere al momento di compierlo.
L'annullamento è sancito nell'interesse dell'incapace naturale ed è subordinato all'accertamento
che questi abbia un grave pregiudizio dall'atto medesimo.
Si prescinde dal requisito del pregiudizio quando si tratta di testamento (art. 591, n. 3, c.c.) o di
un negozio personale, che incida cioè sulla sfera dei diritti personali del soggetto (ad es. il
matrimonio, per il quale cfr. art. 120 c.c.). Anche la donazione è senz'altro annullabile (art. 775
c.c.).
Se t'atto stipulato è un contratto, t'annullamento presuppone la mala fede dell'altro contraente, e
cioè presuppone che l'altra parte fosse consapevole di contrattare con una persona non in grado
d'intendere o di volere. La mala fede può risultare dal fatto che era palese l'irragionevole
pregiudizio che il contratto comportava a carico dell'incapace, e può risultare anche da altre
circostanze (come, ad es., i segni esteriori dello squilibrio mentale o della intossicazione del
soggetto).
L’azione di annullamento compete esclusivamente all'interessato (e, s'intende, a chi lo
rappresenta) e ai suoi successori e aventi causa, cioè coloro che hanno un titolo di acquisto
pregiudicato dall'atto di alienazione posto in essere dall'incapace. Essa si prescrive in 5 anni dal
compimento dell'atto (art. 4283 c.c.).
Per quanto attiene agli atti giuridici non negoziali, essi sono di regola efficaci anche se compiuti
da chi non è in grado d'intendere o di volere. Efficaci, di regola, sono anche gli atti ricevuti
dall'incapace naturale. Così, ad es., il pagamento effettuato al creditore è liberatorio pur se questi
sia un incapace naturale.
Per quanto attiene agli atti illeciti, la legge esonera da responsabilità chi non era in grado
d'intendere o di volere al momento dell'atto (art. 2046 c.c.).
L'esonero tuttavia non opera quando il soggetto si è volontariamente posto in stato d'incapacità
naturale (azione C.d. libera in causa).
La regola trova inoltre due fondamentali temperamenti a favore del danneggiato attraverso la
norma che rende responsabile chi era eventualmente tenuto alla sorveglianza dell'incapace e
attraverso la norma che prevede la condanna dell'incapace ad un equo indennizzo (art. 2047 c.c.).

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MODULO VI

I diritti fondamentali

1. I diritti fondamentali dell'uomo o diritti della personalità


2. Le dichiarazioni dei diritti dell'uomo
3. Pluralità dei diritti fondamentali e loro distinzione
4. Caratteri dei diritti della personalità
5. La Corte dei diritti dell'uomo
6. La spettanza dei diritti fondamentali ai nascituri
7. La spettanza dei diritti fondamentali agli stranieri
8. I singoli diritti della personalità. a) la vita e la salute
9. L’integrità morale
10. Le libertà civili
11. Il diritto al segreto
12. Il diritto alla riservatezza
13. Il diritto all'immagine
14. L’identità personale. a) Il diritto al nome
15. Lo pseudonimo
16. Il nome degli enti giuridici
17. b) Il diritto all'identità sessuale
18. Il diritto all'identità morale
19. I diritti fondamentali di solidarietà. L'eguaglianza.
20. Il diritto alla retribuzione.
21. Altri diritti della personalità

l. - I diritti fondamentali dell'uomo, detti anche diritti della personalità, sono quei diritti che
tutelano la persona nei suoi valori essenziali.
Nella nostra Costituzione essi sono previsti come diritti "inviolabili". Questo termine, non
rigorosamente tecnico, vuole esprimere il solenne impegno dello Stato a
garanzia di tali diritti e vuole esprimere inoltre una scelta di fondo dell' ordinamento.
Tale scelta può indicarsi precisamente nel senso che l'ordinamento è preordinato in funzione
dell'uomo, il quale non è quindi lo strumento dei fini dello Stato ma è piuttosto esso medesimo il
fine ultimo delle norme giuridiche.

2. - L'enunciazione di diritti "inviolabili" ha i suoi diretti precedenti nell' idea illuministica dei
diritti innati dell'uomo. Questa idea, doveva trovare le sue principali e solenni affermazioni nella
Costituzione federale americana (1787) (e già prima nei Bills of rights di singoli Stati
nordamericani) e nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamata dalla
Rivoluzione francese (1789).
Nella nostra epoca l'esigenza della tutela dei diritti fondamentali ha trovato riconoscimento in
convenzioni internazionali tra le quali vanno segnalate le moderne convenzioni internazionali, e
principalmente la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata dalle Nazioni Unite
(New York, 10 dicembre 1948) e, tra le altre, la Convenzione di Roma sulla protezione dei diritti

31
dell'uomo e delle libertà fondamentali (4 novembre 1950).
Un'ulteriore affermazione dei diritti fondamentali si è avuto in sede comunitaria, nel Trattato
istitutivo dell'Unione Europea e nella Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea firmata il 7 dicembre 2000).

3. - La norma costituzionale che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo è


particolarmente importante in quanto si pone come una clausola generale di tutela essenziale
della persona umana.
L'enunciazione dei diritti inviolabili non si esaurisce quindi nel richiamo ad una serie di diritti
indicati e tipizzati da altre norme costituzionali, ma è una formula che impone comunque la tutela
della dignità umana secondo le esigenze avvertite dalla società del tempo.
La storia dei diritti inviolabili è appunto una storia, non ancora conclusa e non sempre lineare,
che vede il progressivo ampliarsi della sfera della dignità umana meritevole di protezione
giuridica.
L'affermazione di un generale principio di tutela della dignità umana non importa tuttavia che i
singoli diritti della personalità possano ricondursi ad un diritto unico.
Nell'attuale ordinamento, infatti, la tutela della dignità umana non si realizza nella stessa misura
e con la medesima posizione giuridica di vantaggio con riguardo a tutti gli aspetti della
personalità. La pluralità dei diritti fondamentali si spiega in ragione dei diversi interessi
fondamentali dell'uomo. La diversità di questi interessi diversifica il contenuto e la disciplina dei
singoli diritti.
Sulla scorta delle norme costituzionali e delle indicazioni contenute nei rinnovati riconoscimenti
internazionali dei diritti dell'uomo, è possibile distinguere una prima categoria di diritti di
rispetto della personalità umana. Questi diritti conferiscono al soggetto un potere di godimento
della sua personalità e una pretesa alla non ingerenza da parte dei terzi.
Nell'ambito dei diritti di rispetto della personalità umana la distinzione procede più
particolarmente secondo i valori tutelati e precisamente: a) la vita e l'integrità fisica; b) l'integrità
morale; c) le libertà civili; d) l'intimità privata; e) l'identità personale; f) la paternità morale.
Una seconda categoria di diritti della personalità è quella dei diritti di solidarietà. Questa
categoria comprende le pretese del soggetto a realizzare la propria personalità attraverso l'altrui
cooperazione.
La distinzione dei diritti di solidarietà procede anch'essa in relazione ai fondamentali valori
tutelati : a) l'eguaglianza; b) il lavoro e la retribuzione; c) l'assistenza materiale e morale; d) la
sicurezza sociale; e) la salute.

4. - Caratteri comuni dei diritti della personalità sono l'indisponibilità e la non patrimonialità.
Trattandosi di diritti che tutelano valori essenziali della persona si intende come il titolare non
possa rinunziarvi nè possa cederli ad altri. Nella prospettiva sociale dell' ordinamento la tutela
della personalità umana risponde infatti ad un interesse della collettività e si pone pertanto come
un principio inderogabile di ordine pubblico.
L'indisponibilità dei diritti fondamentali non ne esclude in via assoluta una parziale limitazione o
rinunzia. Non esclude, precisamente, che il titolare possa costituire diritti a favore di terzi che
importino vincoli o ingerenze nella sfera della propria personalità o rinunzie a determinate
prestazioni di solidarietà sociale. Il criterio per stabilire la validità degli atti parzialmente
limitativi o rinunziativi di diritti della personalità è dato dalla funzione di tali diritti, e cioè la
tutela della dignità umana. Gli atti che importino parziali limitazioni o rinunzie ai diritti della
personalità possono reputarsi validi se alla stregua della coscienza sociale essi siano compatibili
con la dignità della persona umana.
Deve ritenersi, pertanto, giuridicamente invalida una rinunzia, sia pure parziale, alla propria
libertà di pensiero mentre è ammissibile, ad es., che il soggetto autorizzi la pubblicazione della
propria immagine o dei fatti della propria vita privata. Lesiva della dignità umana risulterebbe
invece la definitiva cessione ad un terzo del diritto di utilizzazione della propria immagine o di

32
tutti i fatti della propria vita privata.
Alla indisponibilità dei diritti della personalità si accompagna il carattere della non
patrimonialità. La non patrimonialità significa che alla stregua della coscienza sociale il diritto
non ha un valore di scambio.
La patrimonialità del diritto deve essere ulteriormente distinta rispetto alla patrimonialità del
danno. Il danno è infatti la conseguenza della violazione del diritto e questa conseguenza può
avere carattere patrimoni aIe a prescindere dalla natura del diritto leso.
Sul piano privatistico la violazione dei diritti di rispetto della personalità integra gli estremi
dell'illecito civile e comporta il generale rimedio del risarcimento del danno.
Suscettibile di risarcimento è il danno patrimoniale, cioè la diminuzione economica del
patrimonio del danneggiato e il mancato guadagno (art. 1223 c.c.).
Così, ad es., la perdita di una mano può comportare specifiche conseguenze economiche negative,
rappresentate dalle spese per le cure mediche e per la protesi, dalla diminuzione della capacità
lavorativa, ecc.
Ma il danno derivante dalla violazione dei diritti fondamentali è primieramente il danno non
patrimoniale, costituito dalla lesione del diritto in sè considerata. La risarcibilità di questo danno
ha in passato trovato ostacolo nella norma del codice civile che prevede il risarcimento del danno
non patrimoniale solo nei casi determinati dalla legge (art. 2059), e quindi, in via principale, nei
casi di danni derivanti da reato (art. 185 q,.):"Il limite è stato alla fine superato dalla
giurisprudenza dapprima con riguardo al danno c.d. biologico, cioè al danno consistente nella
lesione dell' integrità psicofisica o della salute della persona. La giurisprudenza ha riconosciuto
che tale lesione costituisce come tale un danno risarcibile, a prescindere dal danno patrimoniale.
La svolta della giurisprudenza in tema di danno biologico si giustifica in ragione dell'esigenza di
una piena tutela giuridica di beni essenziali della persona quali sono l'integrità psicofisica e la
salute. La medesima esigenza ha infine condotto ad ammettere che la violazione di qualsiasi
diritto della personalità dà luogo al risarcimento del danno consistente nella lesione del bene
protetto in sè considerato, a prescindere dalle sue conseguenze economiche negative.

5. - La persona alla quale sia negata la tutela giudiziaria dei suoi diritti fondamentali o che subisca
la violazione di essi per effetto di atti legislativi o amministrativi può ricorrere alla Corte dei diritti
dell'uomo.
A seguito della riforma della Convenzione di Roma attuata nel 1997 (protocollo e accordo ratif.
dalla 1. 28 agosto 1997, n. 196, e 2 ottobre 1997, n. 348) la Corte è stata costituita come organo
giurisdizionale che siede in permanenza a Strasburgo, ed è competente a ricevere ricorsi
individuali.
Precisamente, ogni persona fisica, ogni organizzazione privata o gruppo di privati può rivolgersi
alla Corte per denunziare la violazione di diritti dell'uomo da parte di uno degli Stati aderenti alla
Convenzione dei diritti riconosciuti nella stessa (n. 34).
Anche gli stranieri possono ricorrere alla Corte.
Condizione di ricevibilità del ricorso è che il ricorrente abbia esaurito i mezzi di tutela esprimibili
contro la violazione dei suoi diritti e che siano trascorsi 6 mesi dal provvedimento definitivo che
abbia attuato o confermato la violazione (art. 35 1).
Tutti i diritti dell'uomo generalmente riconosciuti da convenzioni internazionali possono essere
fatti valere dinanzi alla Corte di Strasburgo.

6. - I diritti fondamentali spettano all'essere umano in quanto posti a tutela dei valori umani
essenziali alla stregua della coscienza sociale.
Il riconoscimento dei diritti fondamentali deve quindi procedere sulla base della identificazione e
imputazione di tali valori, senza essere condizionato da preclusioni di ordine formale.
Ciò deve essere tenuto presente, anzitutto, con riguardo alla questione della possibile spettanza di
questi diritti al nascituro. La questione non può essere adeguatamente risolta applicando la
norma civilistica che collega l'acquisto della capacità giuridica al momento della nascita (art. 1

33
c.c.). Questa norma, infatti, non esclude che il nascituro sia in atto portatore di interessi
giuridicamente tutelati.
Secondo una corretta impostazione occorre piuttosto avere riguardo alla riferibilità di valori
essenziali all'essere umano anche prima dell' evento della nascita (ad es., la salute): il nascituro è
infatti un essere umano, seppure non ancora dotato di vita autonoma. A questa impostazione
risponde appunto il riconoscimento della nostra Corte costituzionale che tra i diritti inviolabili
dell 'uomo deve collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione
giuridica del concepito.
La titolarità dei diritti fondamentali viene meno, invece, con la morte della persona.

7. - In quanto i diritti fondamentali sono posti a tutela della dignità umana essi spettano anche
allo straniero.
Va osservato al riguardo che la Costituzione impone allo Stato di regolare la condizione giuridica
dello straniero in "conformità della norme e dei trattati internazionali" (art. 10 2). Viene in tal
modo costituzionalmente garantito l'impegno assunto dal nostro Paese con la Convenzione di
Roma sui diritti dell'uomo, di riconoscere ad ogni persona soggetta alla sua giurisdizione i diritti e
le libertà proclamate dal titolo primo della Convenzione stessa (art. 1). La 'giurisdizione' è qui
intesa nel senso di 'sovranità'. Conseguentemente lo Stato italiano non può negare il godimento
dei diritti fondamentali agli stranieri che si trovino nel nostro territorio.
Che i diritti fondamentali spettano allo straniero è ora proclamato dal T.U. emanato con d. 19s 25
luglio 1998, n. 286 (art. 21: "Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello
Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto
interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale
generalmente riconosciuti").

8. - Il diritto alla vita tutela l'interesse dell'essere umano al godimento del fenomeno naturale
della propria integrità psico fisica.
Pur non essendo specificamente menzionato nella nostra Carta costituzionale, tale diritto rientra
tra i tipici diritti fondamentali dell 'uomo ed è proclamato nella Dichiarazione delle Nazioni Unite
(art. 3) e nella Convenzione di Roma (art. 2). Il bene dell’integrità psicofisica esige il rispetto ma
anche la cura della persona. Il diritto alla salute comprende queste due forme di tutela, ponendosi
come diritto di rispetto della persona da parte dei terzi e come diritto di solidarietà nei confronti
dello Stato.
L'integrità psicofisica della persona dev'essere rispettata anzitutto dal potere pubblico, che non
può imporre normativamente nè eseguire trattamenti che importino violenze o menomazioni
psicofisiche a carico degli individui (art. 32 2 Cost.: "la legge non può in nessun caso violare i limiti
imposti dal rispetto della persona umana)”.
Nei confronti dei privati il diritto all'integrità psicofisica è un diritto assoluto che implica a carico
di tutti i terzi il divieto di comportamenti che importino sofferenze, malattie o menomazioni. Il
diritto all'integrità psicofisica è tutelato sul piano della responsabilità extracontrattuale, dando
luogo al risarcimento del danno biologico, inteso come qualsiasi alterazione fisica o psichica
dell'organismo.
Come diritto di solidarietà il diritto alla salute è il diritto della persona all’assistenza sanitaria
pubblica.

9. - Il diritto all'integrità morale tutela l'esigenza dell'essere umano al godimento del suo onore e
del suo decoro come singolo e come membro di una collettività.
Sebbene tale diritto non venga espressamente menzionato tra i diritti fondamentali dell'uomo, è
certo che la rispettabilità rappresenta uno dei valori primari dell'uomo e che il suo pregiudizio
incide sull' esplicazione della personalità.
La generalità degli ordinamenti provvede a tale tutela mediante disposizioni penali che vietano
l'ingiuria, cioè l'offesa diretta alla persona presente, e la diffamazione, cioè l'attribuzione alla

34
persona di fatti lesivi della sua reputazione. Se questi fatti sono veri sorge il contrasto con un'
altra fondamentale esigenza, e cioè quella della libertà di comunicazione, comprensiva della
libertà di informazione. Nel nostro ordinamento prevale l'esigenza della libertà di informazione
quando sussista un apprezzabile interesse generale alla conoscenza dei fatti.
La responsabilità civile per lesione dell' onore dà luogo al risarcimento del danno e può
comportare la condanna alla pubblicazione della sentenza quale risarcimento in forma specifica.
Un particolare rimedio, previsto dalla legge sulla stampa, è il diritto di rettifica.
Questo rimedio può essere esperito dalla persona lesa dalla pubblicazione, su un periodico, di uno
scritto ingiurioso o di una notizia falsa, e consiste nel diritto di far
pubblicare, sullo stesso periodico e con determinate modalità, risposte, rettifiche o dichiarazioni
(art. 8 1. 8 febbraio 1948, n. 47).

10. - I diritti di libertà tutelano in generale l'esigenza della persona umana di esplicarsi secondo le
proprie scelte.
Le libertà anticamente rivendicate si ritrovano nella moderne Dichiarazioni e
nella nostra Costituzione assieme ad una più ampia tipizzazione delle diverse manifestazioni dell'
attività umana garantite alla persona. In questa tipizzazione si distinguono la libertà personale,
cioè la libertà fisica (art. 13 Cost.), la libertà di circolazione e di residenza (art. 16 Cost.), la libertà
di religione (art. 19 Cost.), la libertà di manifestazione e di comunicazione del pensiero (art. 15, 21
Cost.), la libertà di lavoro (art. 4 Cost.), la libertà di associazione (art. 18 Cost.), la libertà di
sciopero (art. 40 Cost.).
Tra le libertà civili una preminente importanza è tradizionalmente riservata alla libertà di stampa,
la quale rientra nell'ambito della libertà di espressione del pensiero (art. 21 2-6 Cost.). La libertà di
stampa prevale sul diritto alla riservatezza e all'onore, purchè la pubblicazione sia giustificata
dalla funzione dell'informazione e sia conforme ai canoni della correttezza professionale.

11. - Il diritto al segreto tutela l'interesse della persona a che i fatti della propria vita privata non
vengano abusivamente conosciuti o comunicati a terzi. Il diritto ha avuto un tradizionale
riconoscimento come diritto alla segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.). Questo
riconoscimento ha significato l'affermazione di una sfera inviolabile dell'individuo sottratta
all'ingerenza dello Stato e dei terzi. Tale diritto assoluto importa il divieto di prendere conoscenza
del contenuto della corrispondenza epistolare e delle comunicazioni telefoniche e telegrafiche.
Questo diritto può essere limitato soltanto con atto motivato dell'autorità giudiziaria con le
garanzie stabilite dalla legge: art. 152 Cost.).
Al di fuori della citata norma della Costituzione il segreto è tutelato da singole disposizioni di leggi
civili e penali (es.: art. 622 c.p.).

12. - Il diritto alla riservatezza ha un duplice significato come diritto alla protezione dei dati
personali e come diritto al rispetto della propria vita privata.
Già da tempo si era avvertita l'esigenza di tutelare la persona contro l'abusiva diffusione dei fatti
della propria vita. Ma questa esigenza è andata aumentando a fronte dell'impiego degli strumenti
della tecnologia informatica, idonei alla raccolta e pronta selezione e percezione di innumerevoli
dati. La crescente esposizione dei privati al pregiudizio di schedature utilizzabili a fini di
controllo, di sfruttamento commerciale, ecc., ha richiesto un intervento volto a regolamentare il
trattamento dei dati personali entro limiti compatibili col rispetto della persona.
Di questa esigenza si era fatta portatrice la Convenzione di Strasburgo del 28 gennaio 1981,
ratificata dalla 1. 21 febbraio 1989, n. 98, sulla protezione della persona rispetto al trattamento
automatizzato di dati.
E' poi intervenuta la Direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio delle Comunità
Europee del 24 ottobre 1995, e da ultimo la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea del
7 dicembre 2000, che ha sancito il diritto di ogni individuo "alla protezione dei dati di carattere
personale che lo riguardano" (art. 81).

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In Italia il trattamento dei dati personali, intesi come 'qualsiasi informazione' relativa a persone
fisiche o enti giuridici, è stato disciplinato dalla legge 31 dicembre 1996, n. 675, modificata e
integrata dal 'codice in materia di protezione dei dati personali; emanato col d. 19s. 30 giugno
2003, n. 196.
Il trattamento disciplinato dalla legge non concerne solamente la diffusione dei dati personali ma
più estensivamente qualsiasi operazione di loro raccolta, conservazione, elaborazione,
utilizzazione o cancellazione (art. 41).
Il diritto alla riservatezza ha acquistato in tal modo un nuovo contenuto, quale diritto della
persona alla protezione dei suoi dati personali.
La riservatezza designa anche il rispetto della vita privata della persona. E' questa la nozione
comunemente espressa dal termine privacy, che ha segnato l'origine della dottrina della
riservatezza. Alla dottrina nordamericana va il merito di avere, già alla fine del XIX secolo,
'scoperto' il diritto "ad essere lasciati soli": diritto della personalità ampiamente inteso come
diritto di ciascuno a non subire ingerenze nei propri fatti personali, nella propria immagine, nei
propri pensieri, ecc.
La distinzione tra protezione dei dati personali e privacy è presente anche nella Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione Europea, dove è previsto il diritto di ogni individuo "al rispetto della
propria vita privata e familiare" (art. 7) e, con separata enunciazione, il diritto della persona "alla
protezione dei propri dati personali" (art. 8).
I due diritti sono per altro connessi, in quanto il diritto al rispetto della vita privata è
principalmente minacciato dall'abusivo trattamento dei dati personali. Il diritto alla protezione
dei dati personali tutela quindi anche il diritto alla privacy della persona. Una conferma in tal
senso è data dal codice della protezione dei dati personali, dove si prevede testualmente che il
trattamento dei dati personali deve svolgersi nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali,
con particolare riferimento alla riservatezza (art. 21).
La disposizione va intesa nel senso che il diritto alla protezione dei dati personali è sancito a tutela
di una pluralità di interessi essenziali della persona, tra i quali l'interesse al rispetto della intimità
della propria vita.

13. - Il diritto all'immagine tutela l'interesse del soggetto a che il suo ritratto non venga diffuso o
esposto pubblicamente.
Pur non essendo specificamente indicato dalla Costituzione, tale diritto deve ricondursi ai diritti
fondamentali dell'uomo in quanto esso tutela un aspetto di quella intimità della vita privata che è
ormai reputata un valore primario della persona.
L'intimità della vita privata della persona è appunto violata anche quando il ritratto della persona
venga offerto alla pubblica curiosità.
La nostra legge ordinaria disciplina il diritto
all'immagine come diritto assoluto che importa il divieto a carico di tutti i terzi di esporre o
pubblicare il ritratto altrui (art. 10 c.c.; art. 96, 971. sul diritto di autore del 22 aprile 1941, n. 633).
La tutela dell'immagine incontra anzitutto il limite dalla stessa volontà del soggetto, il quale può
liberamente autorizzare l'uso del ritratto.
L'autorizzazione è valida poichè la libertà della vita di relazione richiede che sia lo stesso
interessato a decidere se offrirsi o meno alla pubblica curiosità. Il soggetto non potrebbe invece
rinunziare del tutto e definitivamente al suo diritto in quanto tale rinunzia costituirebbe un
assoggettamento lesivo della dignità umana.
Il consenso è comunque revocabile, anche se validamente prestato. La persona conserva infatti il
suo diritto all'immagine e la libertà di esercitarlo.
Il consenso non autorizza una non prevista utilizzazione o manipolazione dell'immagine che alteri
il significato del comportamento o della personalità. In alcuni casi esaminati dalla giurisprudenza
la manipolazione è stata reputata illecita in quanto concretamente pregiudizievole per gli interessi
morali e materiali del soggetto.
La pubblicazione dell'immagine non richiede il consenso dell'interessato quando si tratta di un

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soggetto che svolge un'attività o ha una carica che lo espongano alla notorietà. Il diritto
all'immagine incontra poi i limiti dell'interesse pubblico, della giustizia e delle finalità
scientifiche, didattiche e culturali.
Ancora, è lecita la diffusione dell’immagine quando essa sia connessa a fatti svoltisi in pubblico o
aventi comunque rilevanza sociale (art. 97 l. aut.).
Chi, ad es., partecipa ad un comizio pubblico non deve lamentarsi se viene fotografato insieme
agli altri partecipanti a questa manifestazione e se la fotografia venga poi pubblicata.
In alcuni casi esaminati dalla giurisprudenza la pubblicazione è stata reputata illecita in quanto
concretamente pregiudizievole per gli interessi morali del soggetto, come nel caso della diffusione
di un manifesto che ritraeva un sacerdote il cui ritratto era stato preso lecitamente e che
lecitamente poteva essere pubblicato, perché il sacerdote aveva partecipato ad una
manifestazione pubblica. Ma il manifesto propagandava la legge sull’aborto e quindi era evidente
che l’immagine di quel sacerdote era stata abusivamente manipolata in maniera tale da alterare
l’identità morale della persona, facendo passare il religioso come un sostenitore di quella legge.
La violazione del diritto all'immagine comporta l'obbligo del risarcimento (danno patrimoniale,
nella misura in cui sia dimostrabile un pregiudizio economico, nonchè del danno non
patrimoniale.
L'interessato può ottenere la cessazione della diffusione abusiva dell'immagine. Il provvedimento
può essere chiesto anche dal coniuge, dai genitori e
dai figli della persona ritratta (art. 10 c.c.). Qui gli stretti congiunti sono eccezionalmente
legittimati a fare valere l'interesse della persona lesa, semprechè, s'intende quest'ultima non abbia
autorizzato la diffusione.

14. - Un interesse essenziale della persona è quello alla propria identità, ossia ad essere
identificato e riconosciuto nella sua realtà individuale. L'identità della persona è tutelata dal
diritto al nome, dal diritto all'identità sessuale, dal diritto all'identità morale.
Il nome è l'appellativo che identifica socialmente la persona. Esso consta del cognome, che è
l'appellativo comune al gruppo familiare, e del prenome, che è l'appellativo individuale (art. 62
c.c.).
La funzione di identificazione sociale assolta dal nome risponde ad un interesse pubblico. In
ragione di tale interesse lo Stato detta regole rigorose per quanto concerne l'acquisto e la
pubblicità del nome delle persone fisiche. E' lo stesso soggetto, tuttavia, che ha un interesse alla
sua identità nella vita di relazione .. Questo interesse trova tutela nel diritto al nome, che è il
diritto del soggetto all'uso esclusivo dell'appellativo che lo identifica socialmente.
Il diritto al nome rientra tra i diritti della personalità in quanto esso tutela un interesse che è
reputato essenziale della persona. Alla stregua della coscienza sociale, infatti, la lesione di tale
interesse attraverso la negazione, la privazione, la contestazione o l'usurpazione del nome
significa lesione della dignità della persona.
Nel diritto privato il diritto al nome si configura come un diritto assoluto della personalità,
indisponibile e non patrimoniale. Esso importa a carico di tutti i terzi il divieto di contestare o
usare indebitamente il nome della persona pregiudicandone la sua identità sociale.
La legge prevede specificamente che il soggetto può chiedere al giudice la cessazione del fatto
lesivo del terzo in caso di contestazione del nome ovvero in caso di uso indebito di esso (art. 71
c.c.).
Sussiste la contestazione quando il terzo molesta il soggetto impedendo l'uso del nome
spettantegli.
Sussiste l'uso indebito quando il terzo si avvale del nome del soggetto. Più specificamente l'uso
indebito può consistere nella usurpazione, e cioè nell'appropriazione del nome da pare del terzo
come nome proprio. L'uso indebito può inoltre consiste nella utilizzazione abusiva del nome,
quando questo sia utilizzato dal terzo per identificare personaggi di fantasia ovvero enti o prodotti
commerciali.
La legge prevede che la cessazione del fatto abusivo possa essere chiesta anche da chi non porti il

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nome contestato o indebitamente usato se sussista un interesse fondato su ragioni familiari degne
di essere protette (art. 8 c.c.).
Oltre alla cessazione del fatto abusivo il soggetto può chiedere il rimedio generale del
risarcimento del danno.

15. - Lo pseudonimo è un nome diverso da quello


spettante per legge, che il soggetto usa in una determinata attività letteraria o artistica.
Lo pseudonimo può raggiungere l'importanza del nome e cioè può assolvere – nel campo in cui è
usato – la funzione di identificazione sociale della persona. In tal caso esso è tutelato al pari del
nome contro la contestazione e l'uso indebito altrui (art. 9 c.c.).

16. - Il diritto al nome è riconosciuto agli enti giuridici, pur se privi di personalità. Anche tali enti
sono infatti socialmente identificati per mezzo del loro nome o, più propriamente, della loro
denominazione. Il diritto al nome degli enti giuridici non rientra comunque tra i diritti della
personalità in quanto si tratta di un segno di identificazione che non tutela un interesse
paragonabile all'interesse essenziale della persona fisica a godere della propria identità sociale. La
denominazione degli enti giuridici non presenta pertanto i caratteri dei diritti fondamentali
(indisponibilità, non patrimonialità, ecc.).

17. - Il sesso rileva come primo segno di identificazione della persona nel contesto sociale. Oltre
che incidere sulla capacità giuridica generale, il sesso influenza ancora largamente la vita della
persona e i suoi rapporti con l'ambiente. Di qui l'interesse del soggetto al godimento della propria
identità sessuale, e cioè al riconoscimento del proprio sesso.
In tema di diritto all'identità sessuale va tenuta presente la disciplina legislativa che prevede
l'attribuzione giudiziale alla persona di un sesso diverso da quello enunciato nell' atto di nascita a
seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali (l. 14 aprile 1982, n. 164). Se
necessario, il tribunale può autorizzare il trattamento medico-chirurgo per l' adeguamento dei
caratteri sessuali.

18. - Il diritto all'identità morale designa il diritto della persona a non vedere alterata la verità
della propria vita e delle proprie idee. Il rispetto dell'identità morale esige precisamente che la
divulgazione di fatti e idee della persona non sia falsa o distorsiva.
La lesione dell'identità morale della persona prescinde dal carattere ingiurioso della divulgazione
falsa o distorsiva. Il diritto all'identità morale si distingue infatti rispetto al diritto all'integrità
morale, che tutela il bene dell'onore e del decoro, mentre il diritto all'indentità morale tutela la
verità dell'immagine della persona.
In un emblematico precedente giurisprudenziale la lesione dell'identità morale è stata ravvisata
nella manipolazione di un'intervista televisiva, che, pur riportando le parole effettivamente dette
dalla persona intervistata, le aveva assemblate in modo tale da distorcene il senso e da far
attribuire all'intervistato opinioni non sue.
Il diritto all'identità morale può ravvisarsi anche in capo agli enti giuridici, portatori dell'
interesse a non vedere distorte o falsate le loro finalità ideali.

19. - Tra i diritti di solidarietà, che tutelano l’interesse del soggetto a realizzare la propria
personalità mediante l’altrui prestazione, si colloca anzitutto il diritto dell’eguaglianza. Questo
diritto tutela l’esigenza dell’essere umano ad essere trattato alla pari degli altri senza
discriminazioni giuridiche, e in particolare discriminazioni fondate sul sesso, la razza, la lingua,
la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali (art. 3 1 Cost.).
Il diritto all'eguaglianza di trattamento o diritto di eguaglianza giuridica è stato tradizionalmente
rivendicato nei confronti dello Stato. Il suo riconoscimento
costituzionale sancisce il divieto di una legislazione discriminatoria ma conferisce al soggetto
anche la pretesa a non subire un trattamento individuale discriminato da parte dell'Autorità

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pubblica. Il soggetto può quindi chiedere l'annullamento di un atto amministrativo che lo
discrimini arbitrariamente. Se la discriminazione discende dalla legge, questa deve essere
dichiarata incostituzionale mediante pronunzia della Corte costituzionale.
L'opinione prevalente esclude che sussista un diritto soggettivo privato all'eguaglianza di
trattamento in quanto la libertà della vita di relazione include normalmente anche quella di
instaurare i rapporti negoziali secondo le proprie scelte e di differenziarli nel contenuto.
Deve invece ritenersi che la discriminazione per motivi politici, religiosi, razziali o di condizioni
personali e sociali è contraria ad una scelta di fondo del nostro ordinamento e assume pertanto
rilevanza anche nei rapporti interprivati quale principio di ordine pubblico, comportando ad es.,
la illiceità di regolamenti condominiali che vietassero di affittare gli appartamenti ad
extracomunitari.
Il divieto di discriminazione razziale è stato sancito da una direttiva comunitaria – la n. 2000/43
– che ha avuto applicazione in Italia con il d. lgs. 9 luglio 2003, n. 215.
In considerazione del fatto che la lotta alla discriminazione non può esaurirsi nel dettare norme
d’invalidità negoziale e contrattuale, ma esige uno sforzo di tutto l’apparato giuridico per
debellare il fenomeno della discriminazione intutti i settori della società, è stato costituito presso
il Ministero per le pari opportunità un ufficio contro le discriminazioni razziali. Tale uffico svolge
un’ampia attività di promozione della parità di trattamento e di rimozione di qualsiasi disparità
fondata sulla razza o sulla origine etnica.

20. - Il diritto alla retribuzione trova ormai generale riconoscimento tra i diritti fondamentali
dell'uomo quale pretesa ad una remunerazione che garantisca al lavoratore e alla sua famiglia una
vita libera e dignitosa.
Questo diritto si pone tra i diritti fondamentali in quanto la retribuzione non è un semplice
corrispettivo del lavoro ma una prestazione dovuta in funzione del sostentamento del lavoratore e
quindi in funzione di una condizione necessaria per l'esplicazione della sua personalità. La tutela
della dignità umana esige che l'ordinamento garantisca a tutti una esistenza libera e dignitosa, ma
esige anzitutto che il lavoro - dovere primario del cittadino - non divenga una forma di
sfruttamento dell'uomo e che la garanzia di una vita libera e dignitosa sia quindi posta a carico di
chi utilizza a proprio vantaggio il lavoro altrui.
Il diritto alla retribuzione è appunto un diritto privato del lavoratore nei confronti del datore di
lavoro. La nostra Costituzione gli ha dato espresso riconoscimento, conferendo al lavoratore la
pretesa ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e, in ogni caso,
sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una vita libera e dignitosa (art. 36).
Già nella Dichiarazione delle Nazioni Unite è proclamato il diritto ad una retribuzione equa e
remunerativa idonea ad assicurare al lavoratore e alla sua
famiglia un'esistenza conforme alla dignità umana (art. 23).
Il diritto alla retribuzione è irrinunziabile e indisponibile nella misura in cui, appunto, esso è
necessario al lavoratore per il mantenimento suo e della famiglia.
Norme particolari di legge stabiliscono limiti di pignoramento e di cessione di salari o stipendi.
Ma neppure entro questi limiti può ammettersi la disponibilità della retribuzione se il diritto
residuo non raggiunge il limite necessario per il mantenimento.

21. - Altri diritti, oltre a quelli sopra menzionati, sono tradizionalmente inclusi tra i diritti della
personalità, come ad es., il diritto alla paternità morale, cioè il diritto della persona ad essere
riconosciuto quale autore dell' opera dell'ingegno da lui creata (art. 25772 c.c.).

Figure di diritti della personalità vanno poi emergendo tra l'altro nel campo della solidarietà (es.:
il diritto alla sicurezza sociale: (art. 381 Cost.)) e della tutela del minore, della quale si è occupata
la Convenzione dell'O.N.U. del 20 novembre 1989, sui diritti del fanciullo (ratif. 1. 27 maggio
1991, n. 176).
In questa convenzione sono stati proclamati diritti del minore che la nostra legislazione ignorava

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e che tendono ad essere riconosciuti anche in Italia quali diritti fondamentali della persona. Basti
menzionare il diritto all’ascolto (il minore che abbia capacità di discernimento ha il diritto di
essere ascoltato in tutti i procedimenti che lo riguardano) e il diritto del minore di crescere nella
propria famiglia.
Stenta invece ad affermarsi il diritto all’eguale stato di figlio.

MODULO VII

Sede della persona fisica. Scomparsa, assenza, morte, morte presunta.

1. Il domicilio
2. La residenza
3. La dimora
4. Rilevanza giuridica della sede
5. La scomparsa
6. L'assenza
7. La morte
8. La morte presunta
9. La commorienza

1. - Il domicilio è il luogo in cui la persona ha stabilito il


centro principale dei suoi affari e interessi (art. 42 1 c.c.).
Il richiamo agli affari e interessi sta a significare che il domicilio è il centro della vita di relazione
della persona. Esso si caratterizza appunto come il luogo nel quale il soggetto intrattiene
principalmente i suoi rapporti economici e personali. In linea di massima il domicilio coincide
pertanto con il luogo nel quale la persona ha fissato stabilmente l'abitazione sua e della sua
famiglia, e cioè con la sua residenza.
La persona può tuttavia concentrare i suoi affari e interessi economici in un luogo diverso e in tal
caso essa avrà un domicilio distinto dalla residenza. Così, chi svolge attività professionale
autonoma ha il domicilio presso lo studio scelto come sede di tale attività. Non è invece
sufficiente, ai fini del domicilio, svolgere in un determinato luogo attività lavorativa subordinata
poichè tale attività è svolta per conto del datore di lavoro.

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Mentre di regola il domicilio della persona è determinato da un atto di elezione, il domicilio dei
minori e degli interdetti è un domicilio legale, cioè fissato direttamente dalla legge. Il minore,
precisamente, ha il domicilio nel luogo di residenza della famiglia (art. 452 c.c.). Se il minore è
sottoposto a tutela il suo domicilio è nel luogo di residenza del tutore. Nel luogo di residenza del
tutore è anche il domicilio legale dell'interdetto (art. 45 3 c.c.).
Il domicilio legale prescinde di massima dall'effettivo collegamento della persona al luogo. Il
minore può vivere in un luogo diverso da quello dei genitori in quanto ad es., il giudice ne ha
ordinato l'allontanamento dalla residenza familiare (art. 330 2 c.c.), ma ciò non incide sul
domicilio legale.
Alla convivenza la legge dà invece rilevanza quando i genitori non abbiano la stessa residenza. La
convivenza diviene allora criterio per determinare a quale dei due genitori debba essere riferito il
domicilio legale del figlio (art. 452 c.c.).

Il domicilio speciale è la sede che la persona stabilisce per determinati atti o affari (art. 47 1 c.c.).
Il domicilio speciale è di regola un domicilio non esclusivo che si aggiunge al domicilio generale.
Anche con riguardo agli atti o affari per i quali il domicilio è stato eletto, i terzi possono quindi
fare riferimento al domicilio generale.
L'elezione del domicilio speciale deve essere fatta per iscritto e deve inoltre essere espressa (art.
472 c .c.), cioè richiede un'apposita dichiarazione.
L'elezione di domicilio speciale ha natura negoziale quale atto di autonomia del soggetto che
dispone direttamente in ordine ad un effetto giuridico. A tale atto si applica quindi la disciplina
contrattuale in quanto compatibile.

2. - La residenza è il luogo dove la persona ha fissato la sua abituale dimora (art. 43 2 c.c.).
Per abituale dimora s'intende il luogo di normale abitazione, e cioè il luogo dove il soggetto vive
normalmente l'intimità sua e della sua famiglia.
Ad integrare la residenza non è dunque sufficiente il semplice fatto di dimorare in un luogo ma
occorre che l'abitazione abbia carattere di abitualità. Alla stregua della corrente interpretazione
giurisprudenziale occorre inoltre l'intenzione del soggetto di stabilire nel luogo la sua abituale
dimora.
La pubblicità della residenza è realizzata attraverso un pubblico registro anagrafico che è tenuto
presso ogni Comune (art. 1 dPR 30 maggio 1989, n. 223, contenente il nuovo regolamento
anagrafico). Ciascuna persona fisica è legalmente tenuta ad iscrivere sè e coloro che sono soggetti
alla sua potestà o tutela nell'anagrafe del Comune di residenza (6 regol. anagr.). La residenza
anagrafica si presume come residenza effettiva. Ai terzi che abbiano fatto affidamento su tale
presunzione non può essere opposto che il soggetto ha altrove la sua residenza, salvo che si
dimostri che essi ne erano a conoscenza.
La residenza non viene meno per l'allontanamento della persona dovuto a temporanee esigenze di
vita (studio, lavoro, vacanza, ecc.).

3. - La dimora è la sede nella quale la persona abita.


La nozione di dimora prescinde quindi dalla abitualità o normalità che qualifica il concetto di
residenza. Essa tuttavia non coincide neppure col mero soggiorno,e cioè con il luogo in cui la
persona alloggia. Anche la dimora richiede un minimo di stabilità, e precisamente quella
continuità che caratterizza l'abitazione. Abitare vuol dire esplicare continuativamente in un luogo
la vita personale e familiare.
Affinchè un luogo possa qualificarsi dimora occorre quindi che alla stregua della comune
valutazione sociale la persona abiti in quel luogo.
Ne consegue che non può parlarsi di dimora se, ad es., una persona si ferma per breve tempo in
albergo.

4. - Alla sede della persona fisica fanno riferimento varie norme di legge per collegarvi rilevanti

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effetti giuridici. A volte è fatto riferimento esclusivo al domicilio (es.: la successione si apre
nell'ultimo domicilio del defunto (art. 456 c.c.)), a volte alla residenza (es.: le pubblicazioni
matrimoniali devono essere eseguite nel Comune dove ciascuno degli sposi ha la residenza (art.
94 c.c.), a volte alla dimora (es.: ai fini della dichiarazione dello stato di adottabilità è competente
il tribunale per i minorenni del distretto nel quale i minori si trovano (art. 81. 4 maggio 1983, n.
184, rev. d.lgs. 24 aprile 2001, n. 150).
In numerosi casi la legge equipara domicilio e residenza (es.: l'atto notarile deve contenere
l'indicazione del domicilio o della residenza delle parti (art. 511. 16 febbraio 1913, n. 89).

5. - La persona fisica si considera scomparsa quando essa non appare più nella sua ultima
residenza e domicilio e non se ne hanno più notizie (art. 48 c.c.).
La scomparsa è un fatto giuridico che si identifica nella irreperibilità della persona, di cui si siano
perdute le tracce oltre quel periodo di tempo che, secondo le circostanze, può essere giustificato
dai normali allontanamenti della persona per ragioni di lavoro, di salute o di svago.
La scomparsa può rendere opportuna la nomina di un curatore che provveda al compimento di
atti di gestione e di conservazione dei beni dello
scomparso.
La nomina del curatore è fatta dal Tribunale su ricorso di qualsiasi interessato, cioè da chiunque
abbia un apprezzabile interesse alla conservazione del patrimonio (art. 721 c.p.c.). Tra i legittimati
a richiedere la nomina del curatore, la legge menziona espressamente i presunti successori
legittimi, e cioè coloro che, nel caso di morte dello scomparso, avrebbero titolo per la successione
legittima.
Legittimato, ancora, è il pubblico ministero, il quale può richiedere la nomina del curatore in vista
di un interesse generale ad evitare che la scomparsa della persona si traduca nella perdita o
distruzione di ricchezza economica.
Il curatore dello scomparso può essere autorizzato a gestire il patrimonio dello scomparso e, di
volta in volta, può anche essere autorizzato a compiere atti di straordinaria amministrazione
necessari per la salvaguardia del patrimonio.
Il curatore rimane in carica anche oltre il biennio fino a quando non venga revocato o sostituito.
La nomina decade poi con la ricomparsa della persona scomparsa. A tal riguardo non basta che lo
scomparso dia notizie di sè, ma occorre che egli sia nuovamente presente nella sua residenza o
domicilio o quanto meno che sia in grado di provvedere ai suoi interessi.

6. - L'assenza è il fatto, giudizialmente dichiarato, che la persona è scomparsa da oltre due anni
(art. 49 c.c.).
L'assenza è dichiarata con sentenza del tribunale su ricorso di chi presume essere successore
legittimo o testamentario dello scomparso o comunque di avere diritti in dipendenza della sua
morte (ad es.: chi diverrebbe pieno proprietario a seguito della morte dell'usufruttuario). Non è
invece sufficiente un interesse meramente morale né l'iniziativa può essere presa dal pubblico
ministero (art. 729 c.p.c.).
L'assenza non presuppone nè fa presumere la morte della persona. D'altro canto, essa non
consente più di presumere che la persona sia ancora in vita. L'assenza dà luogo allora ad una
situazione di giuridica incertezza sull'esistenza della persona.
I diritti spettanti allo scomparso si devolvono provvisoriamente ai presunti eredi e legatari.
Quando la dichiarazione di assenza è divenuta esecutiva, il tribunale, su istanza di qualsiasi
interessato o anche del pubblico ministero, ordina l'apertura di eventuali testamenti.
Su istanza, poi, dei presunti eredi, e cioè di coloro che sarebbero eredi se la morte dell' assente
cadesse nel giorno in cui risale l'ultima notizia di lui, il tribunale li autorizza ad immettersi nel
possesso temporaneo dei beni (art. 502 c.c.).
L'immissione nel possesso temporaneo dei beni dà luogo ad una successione provvisoria a causa
di assenza. Questa successione si attua nelle forme e nei modi della successione a causa di morte
ma in ragione dell' incertezza sull' esistenza dell' assente la legge salvaguarda l'interesse di

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quest'ultimo per l'ipotesi del suo ritorno. La successione non ha quindi carattere di definitività e i
successori possono disporre dei beni (venderli, ipotecarli, impegnarli) solo nei casi di necessità o
utilità evidente e con l'autorizzazione del tribunale.
I diversi problemi cui dà luogo l'applicazione della successione a causa di assenza devono essere
risolti tenendo fondamentalmente presente la ragione dell' istituto di sistemare provvisoriamente
il patrimonio dell' assente salvaguardando ne il recupero in caso di ritorno.
L'assenza non scioglie il matrimonio e quindi il coniuge dell' assente non può passare a nuove
nozze. Se tuttavia il coniuge dell' assente contrae ugualmente matrimonio, questo non può essere
impugnato finché dura l'assenza (art. 1173 cc) poiché l'obiettiva incertezza sulla sorte del coniuge
assente rende incerta la sussistenza dell'impedimento del vincolo coniugale.
Gli effetti della dichiarazione di assenza cessano se l'assente ritorna o ne è provata l'esistenza (art.
56 c.c.). La cessazione è automatica e non richiede una nuova pronunzia giudiziale.
L'assente recupera i suoi beni ma i frutti e le rendite spettano a coloro che ne hanno avuto il
godimento (art. 562 c.c.), a meno che questi siano stati in mala
fede (cfr. l'art. 1148 c.c.).

7. - La morte è l'evento della cessazione della vita umana che pone termine alla capacità giuridica
della persona.
La morte è oggetto di accertamento diretto o indiretto.
L'accertamento diretto è il normale accertamento del decesso verificato in base al cadavere. L'atto
pubblico di morte è compilato dell'ufficiale dello stato civile (art. 72 regol. sto civ. emanato con
dPR 3 novembre 2000, n. 396).
Quando non è possibile rinvenire o riconoscere il cadavere, si procede all'accertamento indiretto
mediante un verbale redatto dal procuratore della Repubblica (art. 78 regol. sto civ.).
All'accertamento indiretto si ricorre nelle ipotesi (naufragio, incendi, ecc.) in cui l'impossibilità di
identificare il cadavere consente ugualmente di desumere con ragionevole certezza la morte della
persona.

8.- La morte presunta è la morte dichiarata giudizialmente dal tribunale con riguardo a persona
la cui scomparsa persista oltre un determinato tempo.
Il tribunale provvede su ricorso dei presunti eredi o di chi vanti diritti in dipendenza della morte
dello scomparso o, ancora, su ricorso del pubblico ministero, stante l'interesse pubblico
all'accertamento del decesso.
Nell'ipotesi generale la morte può essere dichiarata quando la persona è scomparsa da oltre 10
anni. In tal caso la morte è legalmente riferita al giorno a cui risale l'ultima notizia della persona
(art. 581 c.c.).
In particolari ipotesi di scomparsa avvenuta in circostanze straordinarie (eventi bellici, ecc.), la
legge richiede tempi più brevi ai fini della presunzione di morte (art. 60 c.c.).
Gli effetti che discendono a seguito della dichiarazione di morte sono gli effetti che la legge
ricollega alla morte.
Se il dichiarato morto ritorna o ne è provata l'esistenza, gli effetti principali della dichiarazione di
morte presunta decadono retroattivamente.
La persona recupera il patrimonio, che deve considerarsi come non trasferito ai presunti
successori. A questi ultimi spettano tuttavia i frutti e le rendite fino al giorno della costituzione in
mora (arg. art 562 c.c.). Inoltre rimangono fermi gli atti di gestione compiuti dai presunti
successori. Il presunto morto subentra quindi nei rapporti costituiti.
Il nuovo matrimonio eventualmente contratto dal cOnIuge del dichiarato morto è nullo ma
rimangono fermi gli effetti civili prodotti anteriormente al ritorno del presunto morto o
all'accertamento della sua esistenza (art. 68 c.c.).
All'accertamento della morte presunta può sostituirsi l'accertamento della morte effettiva, quando
sia dimostrato l'effettivo avvenuto decesso del dichiarato morto. In tal caso gli effetti della morte
decorrono dal momento in cui questa è realmente avvenuta.

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9. - La commorienza indica la simultaneità della morte di due o più persone.
La commorienza è oggetto di una presunzione legale nei casi non risulta se una persona sia
deceduta successivamente ad un' altra. Quando non è possibile accertare la sopravvivenza di una
persona all'altra, la legge presume che esse siano decedute nello stesso momento (art. 4 c.c.).
Questa presunzione di commorienza vale per tutti gli effetti che dipendono dalla sopravvivenza.
Gli effetti che dipendono dalla sopravvivenza sono principalmente di natura successoria. Chi
sopravvive all’altro anche per un tempo brevissimo è chiamato alla sua successione.
La presunzione di commorienza, invece, fa sì che nessuno è successore dell’altro.
Supponiamo che muoiano intestati il genitore e il figlio e
che il genitore lasci un fratello. Se muore prima il genitore, l'eredità si devolve al figlio (art. 566 1
c.c.) e il fratello del defunto rimane escluso. Se invece il figlio muore prima, è erede legittimo il
fratello del genitore (art. 570 c.c.). L'applicazione della presunzione di commorienza conduce
appunto a questo secondo risultato: poichè il figlio non può ereditare dal genitore, l'eredità di
quest'ultimo si devolve al fratello di lui.

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MODULO VIII

Gli enti giuridici

1.Nozione di ente giuridico


2. Enti associativi ed enti amministrativi
3. Gli organi
4. Enti con personalità giuridica ed enti non personificati
5. Organizzazioni senza capacità giuridica

1. - Gli enti giuridici sono organizzazioni dotate di capacità giuridica, ossia dell'idoneità ad
essere titolari in proprio di diritti e di doveri.
Gli enti giuridici possono avere o non avere la personalità giuridica, ma tutti gli enti giuridici,
come tutte le persone fisiche, sono soggetti di diritto.
Il fatto che l'ente sia soggetto di diritto vuol dire che per la legge è l'ente stesso che è parte di
rapporti giuridici. Così, se un ente (ad es., una società) contrae un debito, questo debito è dell'
ente che ne risponde col suo patrimonio. Accanto all' ente possono pure essere responsabili
singole persone fisiche, ma in tal caso si tratta di una responsabilità che si aggiunge a quella
dell'ente.
Ancora, l'ente può essere proprietario di beni, e di tali beni è l'ente che dispone tramite il suo
legale rappresentante.

2. - Gli enti giuridici si distinguono in enti associativi ed enti amministrativi.


Gli enti associativi hanno al vertice della loro organizzazione un gruppo di soggetti portatori di un
interesse proprio all'esistenza e alla attività dell' ente (soci o associati). Enti associativi sono le
associazioni, i comitati, le società.
Gli enti amministrativi sono quelli che hanno al vertice della loro organizzazione gli
amministratori, ai quali spettano i poteri decisionali e rappresentativi dell' ente.
Gli amministratori non sono portatori di un interesse personale all'esistenza e all'attività
dell'organizzazione. Essi sono piuttosto titolari di un ufficio privato, e hanno l'obbligo di gestire
l'ente nel suo esclusivo interesse.
Nel diritto privato enti di tipo amministrativo sono le fondazioni.

3. - Oltre ad essere dotato di capacità giuridica, l'ente è anche dotato di capacità di agire. L'ente si
avvale necessariamente di persone fisiche, le quali decidono e compiono gli atti imputati all'ente
medesimo, ma non per ciò esso può essere equiparato ai minori e agli interdetti.
I minori e gli interdetti sono infatti soggetti i quali, per le loro condizioni di età o di salute, non si
presumono in grado di provvedere responsabilmente ai propri interessi. La legge predispone
pertanto una rappresentanza legale necessaria ai fini della loro protezione. Gli enti giuridici,
invece, non hanno alcuna menomazione che ne richieda l'affidamento ad altri soggetti. Essi
agiscono attraverso persone che fanno parte della loro stessa struttura organizzativa, e cioè
attraverso organi. In quanto gli organi si immedesimano nella struttura dell' ente, può dirsi che è
lo stesso ente ad agire mediante i suoi organi.
L'organo è in generale l'ufficio competente ad esercitare una funzione dell’'ente. Gli organi
possono essere esterni o interni a seconda che abbiano o no il potere di rappresentanza.
In quanto dotati di potere di rappresentanza gli organi esterni sono dei rappresentanti dell' ente,

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e trovano quindi applicazione le norme sulla rappresentanza volontaria (art. 1387 s. c.c.). La
differenza rispetto al comune rappresentante volontario è che l'organo, come si è visto, si
immedesima nella struttura dell' ente secondo una certa competenza: ne consegue che tutta
l'attività svolta dall' organo nell'esercizio della sua funzione è imputata all'ente. Non solamente,
quindi, sono imputati all'ente gli atti negoziai i compiuti dall' organo, ma anche gli eventuali atti
illeciti, sempre che l'illecito sia compiuto nell'esercizio di una funzione dell'ente.
Il decreto legislativo n. 231 dell' 8 giugno 200 l, ha statuito
la responsabilità di tutti gli enti giuridici privati (dotati o no di personalità giuridica) per i reati
commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da persone che ne hanno la rappresentanza, la
gestione, la direzione o il controllo (art. 5).
La legge ha quindi sancito la responsabilità degli enti per
quanto riguarda gli illeciti penali commessi dal loro rappresentanti o da coloro che ne
abbiano la gestione o il controllo, ma questa responsabilità è meramente amministrativa in
quanto la responsabilità penale ricade sulle persone fisiche che hanno effettivamente
compiuto l’illecito.

4.- Gli enti giuridici si distinguono ulteriormente in persone


giuridiche ed enti non personificati.
La persona giuridica è un ente dotato di capacità giuridica
generale e autonomia patrimoniale perfetta.
In quanto dotata di capacità giuridica generale la persona
giuridica partecipa in proprio al mondo delle relazioni giuridiche potendo assumere tutte le
posizioni giuridiche connesse ai suoi rilevanti interessi. In quanto dotata di autonomia
patrimoniale perfetta, o capacità esclusiva, la persona giuridica risponde essa sola dei propri
debiti senza coinvolgere la responsabilità di coloro che agiscono in nome e per conto di essa.
Persone giuridiche sono le fondazioni, le associazioni
riconosciute, i comitati riconosciuti e le società di capitali.
Accanto alle persone giuridiche proliferano gli enti
non personificati. Gli enti non personificati sono enti privi della personalità giuridica. Essi
possono avere capacità giuridica generale o parziale ma non hanno autonomia patrimoniale
perfetta.
Enti non personificati dotati di capacità giuridica generale
sono le associazioni non riconosciute, i comitati non riconosciuti, le società di persone, ecc.
Capacità determinate competenze (sulla soggettività della comunione le opinioni sono tuttavia
divise).
Gli enti non personificati non hanno autonomia patrimoniale perfetta: essi rispondono in proprio
dei debiti assunti in loro nome, ma di tali debiti rispondono personalmente e illimitatamente
anche coloro che hanno agito in rappresentanza dell'ente.

5. - L'ente non personificato, come si è visto, è portatore in proprio di diritti ed obblighi e può
quindi ritenersi dotato di capacità giuridica. La capacità giuridica deve invece negarsi a tutte
quelle forme organizzative di persone e di beni che non pervengono a costituire un centro unitario
di imputazioni giuridiche.
In particolare, la capacità giuridica deve negarsi all'azienda che è il complesso dei beni
organizzati per l'esercizio dell'impresa (art. 2555 c.c.). Nel comune linguaggio è frequente il
riferimento all'azienda come soggetto dell' attività economica (l'azienda assume dipendenti,
l'azienda fissa i listini, ecc.) ma tale riferimento non cancella il fatto che chi agisce è
l'imprenditore, cioè colui (singolo o società) che si avvale dell'azienda per l'esercizio dell'attività
economica. Ed è appunto all'imprenditore che fanno capo i rapporti giuridici, ed è l'imprenditore
il portatore dell' interesse all'esercizio dell' attività aziendale.

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MODULO IX

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La fondazione

1. Atto costitutivo e statuto della fondazione


2. Il riconoscimento
3. L'attività
4. Gli organi
5. I controlli pubblici
6. Trasformazione ed estinzione
7. Fondazioni di fatto

1.- La fondazione è un ente amministrativo con personalità giuridica dotato di un patrimonio


per il perseguimento di uno scopo non lucrativo.
Presupposti della fondazione sono l'atto costitutivo e l'atto di riconoscimento della pubblica
Amministrazione.
L'atto costitutivo è il negozio giuridico unilaterale avente ad oggetto la costituzione della
fondazione sotto condizione legale del suo riconoscimento da parte dell'autorità amministrativa.
L'atto costitutivo deve essere stipulato in forma pubblica a pena di nullità. Esso può tuttavia
essere validamente incluso anche in un testamento (art. 14 c.c.).
L'atto costitutivo deve indicare la denominazione, lo scopo, il patrimonio, i modi e i criteri di
utilizzazione delle rendite, la sede, l'organizzazione dell' ente. Può inoltre contenere norme
relative alla sua estinzione e trasformazione (art. 16 c.c.).
La parte normativa dell' atto costitutivo prende il nome di statuto. Esso contiene tutte le clausole
che disciplinano l'ente nella sua struttura, attività e vicende.

2. - Necessario presupposto della fondazione è l'atto di riconoscimento della pubblica


Amministrazione. Senza il riconoscimento la fondazione non ha personalità e non è neppure un
ente dotato di soggettività giuridica. Il nostro ordinamento, infatti, non prevede che gestioni
patrimoni ali assurgano ad enti autonomi dotati di soggettività giuridica al di fuori delle forme del
riconoscimento.
Competente ad emanare l'atto di riconoscimento è il prefetto (art. 1 5 dPR 10 febbraio 2000, n.
361).
L'atto di riconoscimento implica da parte della pubblica Autorità una valutazione concernente a)
l'adeguatezza del patrimonio alla realizzazione dello scopo, e b) l'utilità sociale del fine perseguito.
L’utilità sociale del fine perseguito non è specificamente indicata dalla legge, ma il riconoscimento
non può prescindere dalla valutazione della meritevolezza del fine perseguito, che dev’essere tale
da giustificare l’immobilizzazione di una ricchezza sottratta ai normali investimenti produttivi.
La fondazione deve avere uno scopo non lucrativo. La fondazione, cioè, non può perseguire un
mero vantaggio economico di determinati beneficiari ma deve soddisfare interessi ideali o bisogni
fondamentali di un generalità o collettività di destinatari.
La legge prevede anche fondazioni familiari, destinate a vantaggio di una o più famiglie
determinate (art. 283 c.c.). Ma queste fondazioni (che non trovano riscontro nella pratica),
devono essere adeguate alla natura e alla funzione dell' istituto. Le fondazioni familiari possono
quindi avvantaggiare economicamente i membri di una o più famiglie ma pur sempre al fine di
sopperire a bisogni fondamentali o per realizzare finalità ideali comunque valutabili come
socialmente utili (borse di studio, manutenzione di beni di interesse artistico, ecc.).

3. - Il carattere non lucrativo dello scopo non esclude che la fondazione svolga attività economica.
La stessa amministrazione del patrimonio è un'attività economica che può comportare, quando vi
siano beni agricoli, anche una gestione aziendale.
La fondazione non può invece esercitare in via esclusiva o principale un'impresa commerciale,
neanche se il profitto venga utilizzato per il perseguimento di scopi altruistici.

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La fondazione può svolgere attività imprenditoriale solo in quanto si tratti di attività secondaria e
funzionale al perseguimento del suo scopo ideale. Se, invece, la fondazione svolgesse un'attività
d'impresa in via principale tale attività diventerebbe

essa stessa lo scopo dell’ente, in contrasto insanabile col suo carattere non lucrativo.
In tal caso conseguirebbe l'applicazione del regime dell'impresa e l'assoggettamento della
fondazione insolvente al fallimento. Conseguirebbe inoltre la responsabilità personale e illimitata
degli amministratori verso la fondazione e verso i creditori per avere agito in violazione dello
statuto (art. 2392 e 2394 c.c.).
Un regime speciale disciplina le fondazioni bancarie e le fondazioni musicali.

4. - La fondazione è gestita da un organo amministrativo, composto da uno o più amministratori,


che ha il potere di decidere gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione.
Generalmente l'organo amministrativo è collegiale e prende il nome di consiglio di
amministrazione. Le decisioni sono allora deliberate secondo le modalità previste dallo statuto o,
in mancanza, secondo il generale principio della maggioranza. La rappresentanza, e cioè il potere
di agire in nome e per conto della fondazione, compete allo stesso organo amministrativo o, più
spesso, ad un organo unipersonale (presidente, segretario) cui lo statuto attribuisce
appositamente tale potere.
Oltre all' organo amministrativo lo statuto può prevedere organi vari di controllo e di vigilanza.
Gli atti compiuti dagli organi della fondazione nell' esercizio dei loro poteri hanno effetto diretto
nei confronti dell' ente. Se si tratta di atti compiuti nell' esercizio del potere di rappresentanza,
essi impegnano la fondazione secondo le regole generali della rappresentanza. Gli atti che
eccedono i limiti del potere sono quindi inefficaci rispetto all' ente. Questi limiti devono tuttavia
risultare dal registro delle persone giuridiche, altrimenti l'ente è impegnato per tutti gli atti
compiuti dall' organo con i terzi salvo che si provi che i terzi erano a conoscenza del suo limitato
potere (art. 19 c.c.).
Gli amministratori sono legati all' ente da un tipico rapporto organico. Trovano comunque
applicazione quelle norme del mandato che impongono l'espletamento dell'attività giuridica per
conto dell'interessato con l'ordinaria diligenza (art. 18, 1710 c.c.). Gli amministratore sono quindi
responsabili verso la fondazione per i danni derivanti dalla loro negligente gestione.
Gli amministratori sono inoltre responsabili verso i terzi per i danni arrecati mediante illeciti
extracontrattuali. Questa responsabilità si estende alla fondazione se il comportamento illecito
rientra nell' esercizio delle incombenze dell'organo.

5. - Le delibere del consiglio di amministrazione che eccedono i limiti dello statuto non sono senz'
altro inefficaci ma possono essere annullate dall' autorità governativa (art. 25 2 c.c.).
L'annullamento delle delibere contrarie allo statuto rientra in un più ampio controllo che
l'autorità governativa esercita sull'ente e in base al quale essa provvede ad accertare l'invalidità
delle delibere contrarie alla legge, all' ordine pubblico e al buon costume.
L'autorità governativa, ancora, ha il potere di nominare o sostituire gli amministratori quando
non vi si possa provvedere in base alle norme dello statuto. L'autorità governativa, inoltre, può
sciogliere il consiglio di amministrazione e nominare un commissario straordinario quando gli
amministratori violino sistematicamente lo statuto o la legge o non perseguano lo scopo della
fondazione (art. 251 c.c.).

6. - La fondazione esiste in ragione dello scopo perseguito. Se quindi lo scopo diviene impossibile
o perde l'originaria utilità, la fondazione dovrebbe estinguersi. La legge tende tuttavia alla
conservazione dell' ente, prevedendo la possibilità che l'autorità governativa anziché estinguere la
fondazione ne disponga la trasformazione (art. 28 1 c.c.).
La trasformazione importa l'assunzione di uno scopo nuovo, che deve tuttavia essere analogo a
quello originario.

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La trasformazione non può aver luogo se il negozio di fondazione disponga diversamente,
prevedendo che i beni siano devoluti a determinati terzi.
Quando non si fa luogo a trasformazione, l'impossibilità dello scopo si pone come causa di
estinzione della fondazione. La fondazione si estingue inoltre a seguito dell'integrale realizzazione
dello scopo. Altre cause di estinzione possono essere previste dalle norme dell'ente (art. 27 c.c.).
L'estinzione è dichiarata formalmente dall' autorità governativa, anche di sua iniziativa.
La dichiarazione di estinzione non comporta l'immediata fine dell'ente, ma apre una fase di
liquidazione intesa alla conversione in denaro del patrimonio al fine dell'integrale pagamento dei
debiti dell'ente.
Conclusa la liquidazione, la fondazione cessa di esistere. I beni che residuano sono devoluti ad
altri soggetti secondo lo statuto dell' ente. Quando manca una previsione statutaria, è l'autorità
governativa che provvede devolvendo i beni ad altre istituzioni, pubbliche o private, aventi fini
analoghi (art. 312 c.c.).

7. - Il riconoscimento è essenziale per il sorgere della fondazione quale soggetto, e cioè quale
autonomo centro di imputazioni giuridiche. Il nostro ordinamento non conosce fondazioni «di
fatto» che, in mancanza di riconoscimento, siano dotate di una sia pur limitata capacità giuridica.
Una separata gestione di beni e la loro destinazione a scopi particolari non bastano a creare un
ente al quale riferire diritti e obblighi. I rapporti giuridici fanno pur sempre capo al titolare dei
beni separatamente organizzati.
Di una soggettività giuridica può tuttavia parlarsi con riguardo alla fondazione in attesa di
riconoscimento. Ancor prima del riconoscimento può infatti rendersi necessaria un' attività di
gestione. La possibilità della nomina giudizi aIe di un "amministratore provvisorio" (art. 3 4 disp.
prel. c.c.) conferma che si tratta di attività imputabile all'ente.
Occorre però sempre il riconoscimento, in mancanza del quale gli atti dovranno essere imputati a
chi risulterà titolare dei beni, e dei debiti risponderanno
personalmente coloro che li hanno assunti. La soggettività che può riconoscersi alla fondazione
in attesa di riconoscimento è quindi una condizione soggettiva provvisoria, essenzialmente
connessa alla procedura del riconoscimento.

MODULO X

Associazioni e comitati

1. Nozione di associazione e distinzione tra associazioni


2. L’associazione riconosciuta. L’atto costitutivo. Il riconoscimento
3. Denominazione e sede
4. Lo scopo e l'attività
5. Gli organi. L'assemblea
6. Gli amministratori
7. Il rapporto associativo. Recesso ed esclusione dell'associato
8. Estinzione e liquidazione
9. L'associazione non riconosciuta
10. Le associazioni di promozione sociale
11. Il comitato
12. La responsabilità del comitato e dei suoi componenti

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1. - L'associazione è un'organizzazione stabile di persone per il perseguimento di uno scopo non
lucrativo.
Nell'associazione si attua una profonda esigenza della vita sociale dell'uomo, e cioè quella di
unirsi e cooperare con altri per la realizzazione di interessi e di valori comuni. La partecipazione
ai gruppi è il momento nel quale l'individuo vive concretamente quella solidarietà sociale che è
meno avvertita nella vasta comunità statale. L'associazione, tra l'altro, ha costituito uno
strumento indispensabile per la tutela del lavoro, inattuabile senza la forza solidale del gruppo, e
per l'affermazione di istanze politiche.
Nel nostro ordinamento si distingue tra associazioni riconosciute e associazioni non riconosciute.
L'associazione riconosciuta ha la personalità giuridica mentre l'associazione non riconosciuta è un
ente privo di personalità giuridica. La mancanza di personalità giuridica, come vedremo meglio,
non esclude l'esistenza e l' operatività dell' associazione nonché l'applicazione di quelle regole
dettate per l'associazione riconosciuta che prescindono dall'aspetto della personalità.

2. - L'associazione ha la sua fonte nell' atto costitutivo, che è il negozio formale mediante il quale
più persone si organizzano in gruppo stabile per il perseguimento di uno scopo non lucrativo.
L'atto costitutivo dell'associazione è una convenzione plurilaterale che deve essere stipulata per
atto pubblico a pena di nullità (art. 141 c.c.).
L'atto costitutivo deve contenere l'indicazione dello scopo, del nome, della sede, del patrimonio.
Esso deve inoltre indicare i diritti e gli obblighi degli associati, le condizioni della loro
ammissione, le disposizioni sull' ordinamento e l'amministrazione, ed eventualmente quelle
relative all'estinzione dell'ente (art. 16 c.c.).
La parte normativa dell' atto costitutivo rappresenta lo statuto della associazione.
Il riconoscimento dell' autorità governativa è necessario per l'acquisto della capacità giuridica. In
attesa del riconoscimento l'associazione può tuttavia iniziare la sua attività come associazione non
riconosciuta.

3. - La denominazione è l'appellativo che contraddistingue l'associazione. La denominazione deve


essere contenuta nell' atto costitutivo e il suo mutamento importa la modifica di tale atto e
richiede l'autorizzazione governativa.
La denominazione è tutelata alla stregua del diritto al nome. L'associazione ha la facoltà di usarla
in via esclusiva, escludendone cioè l'uso da parte di altri enti. L'uso esclusivo deve intendersi nel
senso che l'associazione può pretendere che altri non usino una denominazione uguale o simile al
punto da ingenerare confusione nei terzi.
La sede è il luogo in cui l'associazione ha il centro principale della sua attività.
La sede indicata nell' atto costitutivo e risultante dal registro delle persone giuridiche, è quella che
i terzi possono considerare a tutti gli effetti come sede dell'associazione.
La sede è importante, tra l'altro, anche ai fini processuali perché essa determina il foro generale
dell' associazione. Quando l'associazione è convenuta in giudizio, precisamente, il giudice
territorialmente competente è di norma quello del luogo dove essa ha la sede (art. 19 c.p.c.).

4. - L'associazione si costituisce per il perseguimento di uno scopo non lucrativo che è la funzione
pratica che il gruppo assolve e per la quale è giuridicamente tutelato.
L'associazione ha spesso uno scopo ideale o altruistico ma può anche soddisfare un interesse
economico dei suoi membri. L'interesse economico deve tuttavia essere realizzato esclusivamente
attraverso una utilità percepita direttamente dall' associato. Se, invece, l'attività comune tende a
realizzare un profitto e a dividerlo tra i compartecipi, il gruppo si identifica nello schema della
società (art. 2247 c.c.).
Va ancora osservato che l'esercizio di un' attività imprenditoriale in via esclusiva o principale è
incompatibile con la natura di ente morale dell' associazione.
Di esercizio dell'impresa non deve parlarsi con riguardo a quelle iniziative occasionati che spesso
sono poste in essere dalle associazioni nell' ambito della loro attività istituzionale per raccolte di

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fondi o per fini ricreativi, culturali, ecc. (ad es., vendita di pubblicazioni, organizzazione di viaggi
a pagamento). Tali iniziative sono prive della professionalità che caratterizza la figura
dell'imprenditore (art. 2082 c.c.).
Se, invece, l’attività commerciale acquista un ruolo principale l’associazione si rivela una società,
con tutte le conseguenze che ciò comporta: tra queste, ad esempio, la responsabilità personale
illimitata di coloro che svolgono tale attività e la possibilità di dichiarazione di fallimento
dell’associazione divenuta società e dei soci che ne fatto parte.

5. - L'assemblea è la riunione degli associati in funzione deliberante. Essa è l'organo fondamentale


dell' associazione. All' assemblea spettano tutte le decisioni concernenti l'esistenza, la disciplina e
l'attività dell' ente.
L'assemblea, infatti, esprime in forma collegi aie la volontà degli associati, quali sono portatori in
proprio dell'interesse all'esistenza e all' attività del gruppo.
La delibera assembleare è un atto collegiale al quale si applicano le norme del contratto in quanto
compatibili con la sua natura.
Un particolare regime di invalidità è previsto dal codice, il quale sancisce l’annullabilità delle
delibere contrarie alla legge, all' atto costitutivo o allo statuto. L'azione per l'annullamento
dinanzi all'autorità giudizi aria può essere proposta dagli organi dell' ente, dal pubblico ministero
o da qualsiasi associato (art. 231 c.c.).
Legittimati all'azione devono inoltre reputarsi coloro che sono direttamente lesi dalla delibera (ad
es., il dipendente licenziato a seguito di delibera contraria allo statuto).
Prima ancora che si giunga alla sentenza di annullamento o di nullità, la delibera può essere
sospesa dall'autorità giudiziaria, e cioè temporaneamente privata di effetti quando sussistano
gravi motivi (art. 233 c.c.).
Le delibere contrarie all' ordine pubblico o al buon costume possono essere sospese anche
dall'autorità prefettizia (art. 234 c.c.).

6. - Gli amministratori sono gli organi competenti a gestire e a rappresentare l' associazione.
Le limitazioni del potere di rappresentanza devono risultare dal registro delle persone giuridiche.
In mancanza di tale pubblicità le limitazioni non hanno alcuna rilevanza per i terzi salvo per
coloro che ne erano a conoscenza (art. 19 c.c.).
La responsabilità degli amministratori verso l'associazione e verso 1 terzi è analoga a quella degli
amministratori della fondazione.

7. - L'associato è membro dell'associazione attraverso un rapporto associativo che lo rende


partecipe degli interessi e dei poteri del gruppo e che lo impegna all' osservanza dello statuto.
La legge prevede il diritto di recesso dell' associato (art. 242 c.c.).
Lo statuto non può escludere o rendere eccessivamente difficoltoso l'esercizio del diritto di
recesso poiché ciò comporterebbe un irrevocabile assoggettamento dell' associato al gruppo. E’
invece ammissibile che l'associato si obblighi a restare nell' associazione per un tempo
determinato (art. 242 c.c.) purché l'obbligo della permanenza sia compatibile con la libertà delle
scelte ideologiche costituzionalmente garantite. In ogni caso l'associato ha diritto di recedere per
giusta causa (ad es., per mutamento dello scopo statutario dell’associazione).
Al potere di libero recesso dell' associato non corrisponde un libero potere di esclusione da parte
del gruppo. All' associato è infatti riconosciuto un apprezzabile interesse alla permanenza nell'
associazione e questo interesse è giuridicamente tutelato attraverso un divieto posto al gruppo di
estromettere arbitrariamente l'associato. L'espulsione può essere deliberata dall' assemblea solo
per gravi motivi o nei casi espressamente stabiliti dallo statuto.
La delibera che espelle arbitrariamente l'associato è invalida e può essere impugnata
dall'interessato di fronte all'autorità giudiziaria. L'azione per l'annullamento deve essere proposta
a pena di decadenza entro sei mesi dalla notifica della delibera di esclusione (art. 24 3 c.c.).
L'estinzione del rapporto associativo non dà luogo ad alcun diritto di rimborso dei contributi nè

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di liquidazione della quota nè comunque lascia all'associato una pretesa sui beni sociali (art. 244
c.c.). Questa regola esprime il carattere non patrimoniale del rapporto associativo.

8. - Come la fondazione, anche l'associazione si estingue per l'impossibilità o l'esaurimento dello


scopo e per le altre cause indicate dall' atto costitutivo o dallo statuto.
Causa specifica di estinzione dell' associazione è la delibera assembleare di scioglimento. Tale
delibera richiede il voto favorevole di almeno tre quarti degli associati (art. 213 c.c.).
Altra causa specifica di estinzione dell' associazione è il venir meno di tutti gli associati.
L'associazione si estingue inoltre per il venir meno della pluralità degli associati. La pluralità degli
associati può tuttavia essere ricostituita. L'estinzione deve quindi essere dichiarata quando risulta
che il gruppo non si ricostituisce.
A differenza di quanto previsto per la fondazione, l'autorità governativa non ha il potere di
decidere la trasformazione dell' associazione.

Come si è già rilevato per la fondazione, la dichiarazione di estinzione non comporta l'immediata
fine dell'ente ma apre una fase di liquidazione conclusa la quale l'associazione cessa di esistere. I
beni residui vengono devoluti secondo quanto posto dall' atto costitutivo e dallo statuto ovvero
secondo quanto disposto dall' assemblea che ha deliberato lo scioglimento. In mancanza, si
applica la regola valevole per le fondazioni, che rimette all' autorità governativa di decidere
'attribuzione dei beni ad altri enti aventi fini analoghi.

9. - L'associazione non riconosciuta è un'associazione priva di personalità giuridica.


Pur essendo priva di personalità giuridica l'associazione non riconosciuta è un ente giuridico
dotato di capacità giuridica generale.
La mancanza di personalità giuridica comporta soltanto la mancanza di autonomia patrimoniale
perfetta: l'associazione non riconosciuta può assumere obbligazioni, ma la sua responsabilità si
accompagna sempre a quella di coloro che hanno agito in nome e per conto di essa.
Sul piano della disciplina le norme sull' associazione riconosciuta possono trovare applicazione
analogica in tema di associazione non riconosciuta, salvo che attengano a controlli e oneri
connessi al riconoscimento (ad es., non occorre l’atto pubblico per costituire un’associazione non
riconosciuta).

10. - Nel vasto panorama delle associazioni, caratterizzate tutte dallo scopo lucrativo, si
distinguono le associazioni di promozione sociale, le quali perseguono scopi altruistici di utilità
sociale (legge 7 dicembre 2000, n. 383).
Tra queste associazioni spiccano le organizzazioni di volontariato, costituite da persone che
prestano la propria opera in modo personale, spontaneo e gratuito esclusivamente per fini di
solidarietà sociale (art. 2 1. Il agosto 1991, n. 266).
Le associazioni di promozione sociale, devono essere costituite per atto sono iscritte in un
apposito registro.
Una particolarità delle associazioni di promozione sociale concerne i debiti.
Coloro che hanno agito in nome e per conto di queste associazioni rispondono di tali debiti in via
sussidiaria, cioè subordinatamente alla infruttuosa escussione del fondo sociale (art. 6 2 1. ass.
prom. soc.). La norma del codice prevede invece la
responsabilità solidale di coloro che agiscono in nome e per conto dell'associazione non
riconosciuta.

11. - Il comitato è un'organizzazione di persone che persegue uno scopo altruistico mediante la
raccolta pubblica di fondi. Tipici comitati sono quelli di soccorso o di beneficenza e quelli che si
costituiscono per promuovere opere pubbliche o manifestazioni di interesse collettivo (mostre,
festeggiamenti, ecc.) (art. 39 c.c.).
Il comitato non è governato al vertice da un organo amministrativo che gestisca su incarico altrui.

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I componenti del comitato sono piuttosto portatori in proprio dell'interesse all' attività dell'
organizzazione di cui fanno parte. Trova puntuale riscontro, in tal modo, la struttura associativa
del comitato.
I comitati godono di capacità giuridica generale e possono assolvere la loro funzione senza
preclusione alcuna.
Secondo la previsione legislativa, comunque, anche il comitato è suscettibile di acquistare la
personalità giuridica.
Se il comitato chiede il riconoscimento, esso deve costituirsi mediante atto pubblico contenente le
indicazioni necessarie per identificare l'ente, il suo patrimonio, il suo regolamento (art. 16 c.c.).
La costituzione del comitato senza personalità giuridica non richiede invece alcuna forma
particolare né analitiche indicazioni di contenuto essendo solamente necessaria la
determinazione dello scopo per il quale il gruppo si organizza. La costituzione del comitato può
ravvisarsi nel fatto stesso che più persone prendono congiuntamente l'iniziativa della raccolta
pubblica dei fondi per il perseguimento di uno scopo altruistico.
La denominazione del comitato, e cioè l'appellativo che lo distingue, deve risultare dall' atto
costitutivo se il comitato è persona giuridica. Il comitato senza personalità giuridica, invece,
acquista la denominazione estemata ai terzi nell' esplicazione della sua attività.
Il diritto alla denominazione tutela l'interesse all'uso esclusivo di essa e la sua disciplina si adegua
a quella delle associazioni.
La sede del comitato è il centro principale della sua attività. I terzi possono fare riferimento alla
sede ufficiale, risultante dall' atto costitutivo, ovvero alla sede effettiva. La normativa delle
associazioni trova integrale applicazione.
Nel perseguimento del suo scopo il comitato può svolgere attività economica ma non può
esercitare un' attività commerciale in via esclusiva o prevalente.
Il comitato ha una dotazione patrimoniale che è costituita essenzialmente dai fondi
pubblicamente raccolti. I fondi raccolti devono essere erogati direttamente per lo scopo
dichiarato.
I singoli membri del comitato non hanno alcun diritto sui fondi.

12. - Se il comitato non è persona giuridica, delle obbligazioni assunte dagli organi rappresentativi
del comitato rispondono solidalmente e personalmente tutti i componenti del comitato stesso
(art. 41 c.c.). Questa regola rigorosa è intesa ad assicurare la massima attenzione da parte del
gruppo nell'organizzare la gestione di denaro offerto dal pubblico.
Il comitato è responsabile per gli atti illeciti compiuti da coloro che fanno parte
dell'organizzazione nell'esercizio delle loro incombenze. In tal caso è dubbio se la responsabilità si
estenda anche ai membri del comitato estranei all'illecito.

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MODULO XI

Famiglia e parentela

1. Nozione di famiglia
2. Nozione di parentela
3. La parentela naturale
4. L'affinità
5. La famiglia di fatto

1. - La famiglia è la comunità di coloro che si uniscono stabilmente e della loro prole. E' questa la
nozione della famiglia detta nucleare, caratterizzata dall'intenso vincolo di solidarietà che lega
reciprocamente i suoi componenti, e che si traduce in diritti ed obblighi di assistenza, di
collaborazione, di mantenimento.
Alla famiglia nucleare si riferisce la Costituzione quando riconosce i diritti della famiglia quale «
società naturale» (art. 29).
La famiglia nucleare non esaurisce per altro le diverse realtà sociali della famiglia che possono
rilevare per l'ordinamento giuridico.
In senso lato la famiglia può intendersi come il gruppo di persone appartenenti ad una comune
parentela (la grande famiglia).

2. - La parentela è in generale il rapporto intercorrente tra persone legate da una comune


discendenza (art. 74 c.c.).
Il rapporto di parentela in linea retta è quello che intercorre tra un ascendente (o stipite) e i suoi
discendenti (padre-figlio; avo-nipote, ecc.); in linea collaterale è il rapporto che intercorre tra
persone che discendono per rami diversi da uno stesso ascendente (fratelli, zio-nipote, cugini,
ecc.).
La parentela si misura per gradi, ed essa è tanto più stretta quanto minore è il numero dei gradi
che congiungono i due parenti.
Nella parentela in linea retta si computa un grado per ogni generazione, escludendo l'ascendente
(art. 761 c.c.). Tra padre e figlio, quindi, la parentela è di primo grado, tra avo e nipote è di
secondo. grado, ecc.
Nella parentela in linea collaterale si sommano i gradi che uniscono ciascuno dei due parenti all'

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ascendente comune, sempre escludendo quest'ultimo (762 cc). Tra zio e nipote sussiste pertanto
una parentela di terzo grado, in quanto rispetto all' ascendente comune lo zio è parente di primo
grado mentre, sempre rispetto a tale ascendente, il nipote è parente di secondo grado. I cugini,
ancora, sono parenti di quarto grado in quanto tra ciascuno di essi e l'ascendente comune vi sono
due gradi di parentela, che vanno assommati.
La parentela oltre il sesto grado non è più giuridicamente rilevante (art. 77 c.c.).

3. - In quanto la parentela ha riguardo al fatto della discendenza, essa sussiste a prescindere dalla
circostanza che i discendenti siano stati generati in costanza di matrimonio, e cioè da genitori
coniugati.
La nostra tradizione giuridica ha tuttavia fermamente negato l'esistenza del rapporto di parentela
tra il figlio naturale e la famiglia del genitore. Si è così escluso ad esempio che i figli di genitori
non uniti in matrimonio possano essere giuridicamente considerati come fratelli.
Questa opinione è stata fatta propria dalla Corte costituzionale, che ha negato la incostituzionalità
della norma sulla successione legittima che non include tra i successibili i parenti naturali (art.
565 c.c.). Sempre secondo la Corte costituzionale
i parenti naturali non sarebbero parenti ma solo consanguinei (un limitato diritto successorio è
stato ammesso solamente in favore dei fratelli naturali, aventi titolo a succedere in mancanza di
parenti legittimi: così la sentenza n. 184 del 12 aprile 1990, che, entro questi limiti, ha dichiarato
parzialmente incostituzionale l'art. 565 c.c.).
La negazione della parentela naturale, pur se avallata dalla Corte costituzionale, rappresenta una
grave lesione del principio di eguaglianza, destinata ad essere cancellata in conformità del
principio proclamato dalla Carta dei diritti fondamentali dell 'Unione Europea del 7 dicembre
2000, che vieta ogni discriminazione basata sulla nascita.

4. - L'affinità è il rapporto intercorrente tra un coniuge e i parenti dell' altro coniuge (art. 781 c.c.).
L'affinità riflette nella linea e nel grado il rapporto di parentela che sussiste tra l'altro coniuge e i
suoi congiunti.
L'affinità è quindi in linea retta rispetto ai parenti in linea retta dell' altro coniuge.
Ciò significa, ad es., che la moglie e i genitori del marito, cioè nuora e suoceri, sono tra loro affini
in linea retta; come pure sono affini in linea retta il marito e i genitori della moglie (cioè genero e
suoceri).
L'affinità è in linea collaterale rispetto ai parenti in linea collaterale dell'altro coniuge. Sussiste, ad
es., affinità in linea collaterale tra un coniuge e i fratelli e le sorelle dell' altro, cioè tra cognati.
Anche il grado dell' affinità corrisponde al grado di parentela dell' altro coniuge.
Ad es., i parenti in secondo grado del marito sono affini della moglie in primo grado.
L'affinità è un vincolo parzialmente assimilato alla parentela,che scaturisce come effetto legale del
matrimonio. Essa comporta l'obbligo degli alimenti legali ma solo a carico del genero, della nuora
e dei suoceri (art. 433, n. 4, 5 c.c.). Essa comporta inoltre un impedimento matrimoniale tra affini
in linea retta e affini in linea collaterale in secondo grado (art. 87, n. 4, 5 c.c.).
L'impedimento tra affini in linea retta non è dispensabile e non viene meno neppure quando il
matrimonio sia stato sciolto, annullato o dichiarato nullo (salva, in questi due ultimi casi, la
possibilità dell'autorizzazione).
In via di principio la morte dell' altro coniuge non estingue il vincolo di affinità (art. 78 3 c.c.).
Neppure il divorzio estingue il vincolo di affinità.
La permanenza dell'affinità anche a seguito dello scioglimento del matrimonio
comporta principalmente la permanenza dell' obbligo alimentare. Tale obbligo si estingue,
tuttavia, quando l'avente diritto contrae matrimonio o quando muore il coniuge da cui è derivata
l'affinità e non vi sono figli o discendenti superstiti nati dalla sua unione con l'avente diritto.

5. - La Costituzione riconosce i diritti della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio
(art. 291). Questo riferimento al matrimonio segna un sicura limite rispetto alla famiglia di fatto, e

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cioè rispetto alla famiglia sorta dalla semplice convivenza personale.
Il significato di questo limite non può tuttavia essere quello della totale irrilevanza o, peggio, della
riprovazione dell' ordinamento verso il fenomeno della convivenza non formalizzata nel
matrimonio. Al riguardo deve tenersi presente un sicuro mutamento del costume sociale che ha
assunto un atteggiamento che non è improntato allo sfavore o all'indifferenza di un tempo.
Nel nostro ordinamento la famiglia di fatto non è giuridicamente equiparata alla famiglia
legittima. Orientamenti giurisprudenziali e disposizioni di legge riconoscono tuttavia ai
componenti della famiglia di fatto singole posizioni soggettive meritevoli di tutela analogamente a
quelle dei membri della famiglia legittima.
Anzitutto il rapporto genitori-figli è ormai equiparato a quello dei genitori-figli legittimi.
A seguito di una sentenza della Corte costituzionale la norma sulla successione nel contratto di
locazione per morte del locataria (art. 61. 27 luglio 1978, n. 392) si applica anche a favore del
convivente superstite (Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404).
Si è poi riconosciuto che anche il convivente separato può essere assegnatario della casa familiare,
analogamente a quanto è previsto per il coniuge separato o divorziato (Cass., 26 maggio 2004, n.
10102, e già Corte cost. 13 maggio 1998, n. 166),
In caso di uccisione del convivente da parte di un terzo, si riconosce al convivente superstite il
risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (Cass. 28 marzo 1994, n. 2988).
Tra le disposizioni riferite ai conviventi possono ricordarsi quella che ammette la coppia non
coniugata ad avvalersi della procreazione assistita (l. 15 febbraio 2004, n. 40), quella che prevede
la facoltà di astensione del convivente dell'imputato (art. 199 c.p.p.), quella che concerne gli
ordini di protezione contro gli abusi familiari pur se commessi da conviventi o a danno di
conviventi (l. 4 aprile 2001, n. 154).

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MODULO XII

Il matrimonio

1. Nozione di matrimonio
2. Matrimonio civile e matrimonio concordatario
3. Il matrimonio di culto acattolico.
4. Gli impedimenti matrimoniali
5. La promessa di matrimonio
6. Effetti personali del matrimonio
7. Invalidità matrimoniali

1. - Il matrimonio è il negozio solenne mediante il quale un uomo ed una donna assumono


l'impegno di stabile convivenza e di reciproco aiuto come marito e moglie.
Strutturalmente il matrimonio è un negozio giuridico bilaterale, che si perfeziona con la volontà
espressa dagli sposi nelle forme di legge.
La qualifica del matrimonio quale contratto deve escludersi perché il matrimonio non ha natura
patrimoniale essendo volto a costituire un rapporto personale.
La nostra società è giunta ormai a riconoscere la libertà della persona di fondare comunque una
famiglia, anche senza l'atto del matrimonio. Il particolare valore sociale, che il matrimonio
conserva, spiega tuttavia l'autonoma rilevanza del diritto della persona a costituire una famiglia
fondata sul vincolo coniugale.

2. - Il nostro ordinamento disciplina i presupposti, la forma e gli effetti del matrimonio detto
matrimonio civile (art. 79 s. c.c.).
A seguito del Concordato lateranense dell' 11 febbraio 1929, lo Stato italiano ha riconosciuto
effetti giuridici al matrimonio celebrato dinanzi ad un ministro del culto cattolico, quando tale
matrimonio venga trascritto nei registri dello stato civile
(matrimonio c.d. concordatario). Il matrimonio canonico che per una qualsiasi ragione non venga
trascritto nei registri dello stato civile, non ha efficacia giuridica per il nostro ordinamento.
L'accordo di revisione del Concordato del 18 febbraio 1984, ratificato ed eseguito dalla legge
matrimoniale 25 marzo 1985, n. 121, ha previsto (art. 8) la non trascrivibilità del matrimonio
concordatario a) quando gli sposi non rispondono ai requisiti della legge civile circa l'età richiesta
per la celebrazione, e b) quando sussiste fra gli sposi un impedimento che la legge civile considera
inderogabile.

L'impedimento non consente la trascrizione, e se questa viene effettuata ne comporta la nullità.


Ai fini della trascrizione l'atto originale di matrimonio deve essere trasmesso prontamente (non
oltre 5 giorni) dal ministro del culto all'ufficiale dello stato civile del comune in cui il matrimonio
è stato celebrato.

3. - Varie leggi emanate in attuazione di intese con le rappresentanze di confessioni acattoliche


prevedono che il matrimonio possa essere celebrato dai ministri di culto legittimati secondo i loro
ordinamenti.
Il matrimonio celebrato dinanzi al ministro di culto acattolico è interamente disciplinato dalla

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legge civile. Il matrimonio è pertanto valido se e in quanto siano rispettate le norme del
matrimonio civile. I giudizi sulla validità di tale matrimonio sono inoltre affidati in via esclusiva
alla nostra giurisdizione. L'impugnazione del matrimonio di culto acattolico deve quindi essere
proposta secondo i modi e le competenze previste per l'impugnazione del matrimonio civile.

4. -Per contrarre matrimonio civile occorre che gli sposi abbiano determinati requisiti legali,
positivi e negativi. Questi requisiti risultano da proibizioni legali tradizionalmente conosciute
come impedimenti matrimoniali.
Al riguardo occorre rilevare che alcuni di questi impedimenti sono dispensabili, e cioè sono
suscettibili di essere rimossi mediante autorizzazione del tribunale, concessa nell' esercizio dell'
attività di volontaria giurisdizione. Altri, invece, sono non dispensabili.
Età. - L'impedimento dell'età sussiste a carico della persona che non ha compiuto il 18° anno (art.
841 c.c.).
Tale impedimento non è dispensabile quando la persona ha meno di 16 anni.
Compiuti i 16 anni è prevista la possibilità dell'autorizzazione giudiziaria (art. 842 c.c.).
Interdizione. - L'impedimento dell'interdizione è un impedimento non dispensabile posto a carico
della persona che sia stata giudizialmente dichiarata in stato d'interdizione per infermità mentale
(art. 85 c.c.).
Mancanza di stato libero. - Altro impedimento è quello della mancanza di libertà di stato (art. 86
c.c.). Tale impedimento concerne la persona già vincolata da un precedente matrimonio
giuridicamente efficace per il nostro ordinamento. L'impedimento non è dispensabile.
Parentela, affinità, adozione - La legge prevede anche gli impedimenti della parentela, affinità,
adozione e affiliazione (art. 87 c.c.).
Non può contrarre matrimonio la persona che sia legata nei confronti dell' altra da vincolo di
parentela in linea retta ovvero in linea collaterale fino al 3° grado.
L'impedimento non è dispensabile tra i parenti in linea retta e tra fratelli e sorelle, anche se
consanguinei o uterini. Il matrimonio può invece essere autorizzato tra parenti collaterali in 3°
grado (zii e nipoti).
II vincolo dell' affinità impedisce il matrimonio tra gli affini in linea retta e tra gli affini in linea
collaterale fino al 2° grado.
L'impedimento tra gli affini in linea retta non è dispensabile. L'impedimento permane anche se
derivante da matrimonio annullato, nullo o disciolto. Nei primi due casi, tuttavia, il matrimonio
può essere autorizzato come pure può essere autorizzato il matrimonio tra affini collaterali in 2°
grado.
L'impedimento dell'adozione vieta il matrimonio tra adottante e adottato: l'impedimento sussiste
anche a carico dell'uno rispetto ai discendenti e ai figli adottivi dell' altro nonché rispetto al
coniuge di esso.
Delitto. - L'impedimento da delitto sussiste tra persone l'una delle quali abbia ucciso o attentato
alla vita del coniuge dell' altra (art. 88 c.c.).
L'impedimento non è dispensabile.
Lutto vedovile - Altro impedimento, infine, è costituito dal c.d. lutto vedovile.
La legge, cioè, proibisce il matrimonio se la donna ha riacquistato lo stato libero da meno di 300
giorni, vale a dire se non sono trascorsi 300 giorni da quando il suo matrimonio si è sciolto (per
morte del coniuge o per divorzio), ovvero è stato dichiarato nullo o annullato (art. 89 1 c.c.), salva
la possibilità che il matrimonio venga autorizzato nei casi in cui è escluso che nel periodo di lutto
vedovile nasca un figlio presuntivamente generato dal coniuge defunto o divorziato (art. 89 2 c.c.).

5. - Gli sponsali sono la reciproca promessa di matrimonio.


Nessun impegno giuridico nasce dalla promessa, la quale non è un negozio giuridico.
Il non mantenere la promessa può tuttavia dar luogo ad un obbligo d'indennizzo.
Quando la reciproca promessa di matrimonio abbia forma scritta o risulti dalla richiesta delle
pubblicazioni, l'ingiustificato rifiuto di contrarre matrimonio obbliga a indennizzare l'altra parte

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per i danni consistenti nelle spese fatte e nelle obbligazioni assunte in vista del matrimonio,
sempreché si tratti di spese e di obbligazioni proporzionate alle condizioni economiche del
soggetto. Uguale obbligo grava sulla parte che col proprio comportamento abbia dato giustificato
motivo all' altra per non contrarre matrimonio (art. 811-2 c.c.).
L'azione deve essere proposta a pena di decadenza entro un anno dal rifiuto di celebrare il
matrimonio (art. 813 c.c.).

6. - Il matrimonio comporta a carico dei coniugi gli obblighi reciproci della fedeltà, dell' assistenza
morale e materiale, della coabitazione, della collaborazione e della contribuzione ai bisogni della
famiglia (art. 1432-3 c.c.).
L'inderogabilità dei diritti e dei doveri nascenti dal matrimonio è espressamente sancita dal
codice (art. 160).
L'obbligo di fedeltà Impone ai coniugi di astenersi da relazioni o atti sessuali extraconiugali.
In una più ampia accezione, ribadita da recente dottrina e recepita dalla giurisprudenza, l'obbligo
di fedeltà coniugale è stato inteso non solamente come astensione da rapporti sessuali con terzi,
ma come reciproca dedizione fisica e spirituale.
L'obbligo di assistenza morale e materiale impone ai coniugi di aiutarsi moralmente ed
economicamente: in esso si esprime la solidarietà matrimoniale
La coabitazione consiste nella normale convivenza di marito e moglie, e cioè nella comunione di
casa e di vita sessuale, che rappresenta precisamente il modello sociale di convivenza coniugale
(more uxorio). La coabitazione non è interrotta da brevi assenze che non facciano venir meno la
sostanziale continuità della vita in comune e delle prestazioni sessuali.
Altro dovere dei coniugi è quello della collaborazione nell'interesse della famiglia. Questo dovere
impegna ciascuno dei coniugi ad espletare un' attività
lavorativa e gestionale conformemente alle proprie capacità e attitudini. Tale attività può anche
essere semplicemente casalinga.
All' obbligo di collaborazione è connesso quello di contribuzione ai bisogni della famiglia, e cioè
l'obbligo di concorrere a soddisfare le esigenze della vita familiare e della prole.
Ciascuno dei coniugi è tenuto a contribuire in proporzione alle rispettive sostanze e alla propria
capacità di lavoro professionale o casalingo.

7. - Nel tema della invalidità bisogna distinguere tra nullità e annullabilità del matrimonio.
La nullità è imprescrittibile e insanabile, ma deve comunque essere dichiarata con sentenza su
domanda, che può essere proposta da chiunque vi abbia un legittimo interesse.
Cause di nullità sono la mancanza di stato libero, la parentela nelle ipotesi di non dispensabilità
dell'impedimento, il delitto.
L'annullabilità è una forma di invalidità che può essere fatta valere da determinati legittimati.
Cause di annullabilità sono, l'età, la parentela nelle ipotesi di dispensabilità dell' impedimento,
l'interdizione (azionabile eccezionalmente da chiunque vi abbia interesse), l'incapacità naturale, i
vizi della volontà (violenza, timore (quando la persona si sia determinata al matrimonio
esclusivamente per evitare un pericolo di eccezionale gravità), errore).
Anche la simulazione è causa di annullabilità. La simulazione sussiste quando gli sposi abbiano
preventivamente concordato di non adempiere gli obblighi ed esercitare i diritti matrimoniali
(art. 123 c.c.).
L'azione è soggetta al termine di decadenza di un anno dalla celebrazione ma si estingue
immediatamente se i coniugi iniziano a convivere come marito e moglie.
La nullità e l'annullamento del matrimonio lasciano fermi gli effetti del matrimonio già verificatisi
a favore del coniuge in buona fede o vittima di violenza o timore (matrimonio putativo: art. 128
c.c.).
Al coniuge incolpevole può spettare una rendita alimentare o una pretesa indennitaria, anche in
forma di assegno alimentare (art. 129, 129 bis c.c.).
Il matrimonio concordatario può essere impugnato dinanzi all'autorità giudiziaria italiana o

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dinanzi all'autorità ecclesiastica. La sentenza di nullità pronunziata dall' autorità ecclesiastica è
soggetta a delibazione da parte della competente corte di appello, che deve accertarne la non
contrarietà all'ordine pubblico.

MODULO XIII

I regimi patrimoniali

1. Nozione di regime patrimoniale


2. Le convenzioni matrimoniali
3. A) La comunione legale
4. Oggetto della comunione

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5. Beni comuni di residuo
6. Beni personali
7. La gestione
8. Responsabilità per i debiti
9. La separazione giudiziale dei beni
10. Scioglimento della comunione
11. B) Il fondo patrimoniale
12. C) La separazione dei beni

1. - Il regime patrimoniale tra coniugi è la disciplina delle spettanze e dei poteri dei coniugi in
ordine all'acquisto e alla gestione dei beni.
La legge prevede più regimi patrimoniali e, precisamente, la comunione legale, quale regime della
cogestione e comunione degli acquisti; il fondo patrimoniale, quale regime di cogestione di uno o
più beni destinati ai bisogni della famiglia; la separazione dei beni, quale regime di separazione di
gestione e di titolarità esclusiva degli acquisti.
I coniugi possono adottare a loro scelta il regime patrimoniale. Se essi non adottano un altro
regime trova applicazione il regime della comunione legale. In quanto la comunione legale non ha
titolo in un atto di autonomia negoziale, essa costituisce il regime patrimoniale legale.

2. - L'atto mediante il quale viene adottato o modificato un regime patrimoniale prende il nome di
convenzione matrimoniale.
La convenzione matrimoniale è un negozio solenne che richiede la forma dell'atto notarile a pena
di nullità (art. 162). L'adozione del regime della separazione può comunque essere dichiarata al
celebrante all' atto della celebrazione del matrimonio.
La pubblicità delle convenzioni matrimoniali è attuata mediante annotazione degli estremi della
convenzione a margine dell'atto di matrimonio (art. 162 4 c.c., e art. 69 regol. stato civ. emanato
col dPR 3 novembre 2000, n. 396).
La mancanza dell' annotazione rende la convenzione inopponibile ai terzi, nel senso che i coniugi
non possono avvalersi degli effetti del regime patrimoniale convenzionale in pregiudizio dei terzi.
Quando le convenzioni matrimoniali contengono la costituzione del fondo patrimoniale su beni
immobili ovvero l'esclusione di beni immobili dalla comunione, esse sono soggette alla
trascrizione sui registri immobiliari (art. 2647 c.c.). Sono inoltre soggetti all'onere della
trascrizione gli atti di scioglimento della comunione e gli atti di acquisto di beni immobili non
compresi nella comunione.
La tesi prevalsa in dottrina e in giurisprudenza richiede l'annotazione sull' atto di matrimonio
come unico requisito di opponibilità delle convenzioni matrimoniali ancorché aventi ad oggetto
beni immobili: la trascrizione avrebbe, così, la funzione di mera pubblicità notizia.

3. - La comunione legale è il regime patrimoniale che conferisce ai coniugi uguali poteri di


cogestione e uguali diritti sugli acquisti.
Nel regime di comunione legale, precisamente, i coniugi gestiscono e dispongono dei beni
assoggettati a tale regime: e ciò in via disgiuntiva o congiuntiva secondo che si tratti di atti di
ordinaria o di straordinaria amministrazione; i beni acquistati, poi, appartengono di regola ad
entrambi i coniugi mentre i guadagni derivanti dalle attività separate si dividono a metà per la
parte residua al momento dello scioglimento della comunione.
La comunione legale è il regime patrimoniale legale tra coniugi. Ciò significa che in mancanza di
convenzioni matrimoniali volte ad adottare altri regimi, i rapporti patrimoniali tra coniugi sono
governati dal regime della comunione.
La comunione legale non deve essere confusa con la comunione ordinaria prevista in tema di
diritti reali (art. 1100 s. c.c.). La comunione legale è infatti una disciplina globale dei rapporti
patrimoniali tra coniugi, mentre la comunione ordinaria indica la contitolarità del diritto di
proprietà o di altri diritti reali e la disciplina di tale contitolarità.

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La disciplina della comunione legale può essere parzialmente derogata dai coniugi mediante
convenzioni matrimoniali (art. 2101 c.c.).
La comunione legale negozialmente derogata prende il nome di comunione convenzionale.
I limiti di questa derogabilità sono segnati anzitutto dal principio di eguaglianza. In relazione a
tale principio sono nulli i patti intesi ad escludere un coniuge dall' amministrazione dei beni
comuni o comunque a privilegiare il potere di gestione di un coniuge rispetto all'altro (art. 210 3
c.c.). Sono nulli, inoltre, i patti che alterano la regola paritaria degli acquisti, in base alla quale gli
acquisti spettano ai coniugi in ragione di metà per ciascuno (art. 210 3 c.c.).
L'oggetto della comunione può essere ampliato dai coniugi nel senso che questi possono
assoggettare alla comunione anche beni personali.
Nei loro confronti è opponibile anche l’acquisto della quota in comunione in capo al coniuge.
La legge nega tuttavia che possano essere ricompresi nella comunione i beni di uso professionale
o strettamente personale di uno dei coniugi, e il risarcimento e le indennità per perdita della
capacità lavorativa (art. 210 c.c.).

4. - Il regime della comunione legale può essere definito come regime di comunione degli acquisti
perché ricomprende di massima gli acquisti successivi al matrimonio, mentre esclude i beni
anteriormente appartenenti a ciascuno dei coniugi e alcune categorie di beni personali.
L'acquisto opera automaticamente e direttamente in capo ad entrambi i coniugi anche se
formalmente intestato ad uno solo di essi, e a prescindere dall'onere della trascrizione.
L'acquisto avente ad oggetto beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri è assoggettato
alla trascrizione (art. 2643 s. cc). Questo è un onere necessario per rendere opponibile l'atto nei
confronti dei terzi, ma non per rendere opponibile l'acquisto della quota in comunione. L’acquisto
in capo al coniuge che non abbia preso parte al contratto è opponibile ai terzi, pur se il contratto
non sia stato trascritto a suo favore. Il coniuge non partecipe del contratto, cioè, acquista la sua
quota di comunione con lo stesso grado di opponibilità dell' acquisto trascritto a favore dell'altro
coniuge.
Il coniuge non intestatario può pertanto opporre il suo acquisto anche nei confronti di chi abbia
successivamente acquistato il bene dal coniuge intestatario e trascritto regolarmente il suo
acquisto.
Gli acquisti aventi ad oggetto diritti di credito cadono in comunione secondo la tesi prevalsa in
giurisprudenza.
Anche gli acquisti a titolo originario (usucapione, acquisti a non domino, ecc.) cadono di massima
in comunione.
Particolarmente dibattuto è il problema se ricadano in comunione le accessioni di beni
personali. Al problema deve darsi soluzione negativa se l’accessione costituisca un mero
miglioramento o incremento della cosa.
Viceversa, se l’accessione conserva una sua autonoma identità funzionale e commerciale deve
ritenersi che essa realizzi l’acquisto di un nuovo bene ricadendo quindi di regola nella comunione.
Ciò deve dirsi in particolare per le costruzioni di edifici, eseguite sul terreno di uno dei coniugi.
In giurisprudenza è però prevalsa l’opinione contraria, la quale esclude che la costruzione
eseguita sul terreno personale di un coniuge cada in comunione (salvo il diritto dell’altro coniuge
alla corresponsione di metà del valore dei materiali e del costo del lavoro).
L’azienda, cioè il complesso dei beni destinati all'esercizio di un'impresa, cade in comunione se è
costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi (art. 177 lett d) c.c.). Il coniuge che
costituisce l'azienda con i propri proventi e la gestisce senza la collaborazione dell'altro ne
acquista la titolarità esclusiva mentre metà dei beni destinati all'esercizio dell'impresa e metà
degli utili spetteranno all'altro coniuge a seguito dello scioglimento della comunione (comunione
de residuo: art. 1772 e 178 c.c.).

5. - Accanto ai beni comuni occorre distinguere i beni comuni di residuo, cioè i beni che
divengono comuni per la parte residua al momento dello scioglimento della comunione.

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Anteriormente allo scioglimento della comunione i beni comuni di residuo rientrano nella
titolarità e nella disponibilità esclusiva del coniuge cui appartengono.
Sono beni comuni di residuo i frutti che il coniuge percepisce dai propri beni, ossia i frutti naturali
e gli interessi o gli utili prodotti da tali beni. Più in generale deve dirsi che sono comuni di residuo
tutti i vantaggi economici acquisiti dal coniuge in quanto titolare del bene (accrescimenti, opzioni,
premi, ecc.).
Sono inoltre beni comuni di residuo i guadagni conseguiti da ciascun coniuge mediante attività
separata (177 lett. c c.c.), e cioè mediante attività di lavoro subordinato o autonomo,
compresa l'attività professionale, letteraria o artistica.
12.
6. - Sono beni personali del coniuge quelli che gli appartengono in modo esclusivo, e che non
ricadono quindi né tra i beni comuni né tra i beni comuni di residuo (art. 179 c.c.). La legge indica
come beni personali a) i beni già appartenenti al coniuge prima del matrimonio; b) i beni
acquistati anche dopo il matrimonio per donazione o successione a causa di morte; c) i beni di uso
strettamente personale (come indumenti, monili, ecc.); d) i beni che servono al coniuge per
l'esercizio della sua attività lavorativa o imprenditoriale; e) il risarcimento del danno alla persona
e ai beni personali e le indennità aventi funzione reintegratoria della lesione della persona o del
patrimonio nonché le pensioni per infortuni o invalidità; f) i beni acquistati con i ricavi dei beni
personali o comunque con denaro personale. La provenienza del denaro deve però essere
dichiarata nell’atto di acquisto.
Ai fini dell’esclusione dalla comunione occorre inoltre la dichiarazione ricognitiva dell’altro
coniuge quando si tratti di immobili o beni mobili registri acquistati nei casi di cui alle lettere c,
d, f.

7. - La gestione della comunione è improntata al principio fondamentale della parità: i coniugi


hanno cioè gli stessi poteri di amministrazione.
Riguardo agli atti di ordinaria gestione vige la regola dell' amministrazione disgiuntiva, secondo
la quale ciascuno dei coniugi può compiere validamente l'atto senza che occorra il consenso
dell'altro coniuge (art. 1801 c.c.). Riguardo agli atti di straordinaria amministrazione vige invece la
regola dell' amministrazione congiuntiva, secondo la quale l'atto richiede il consenso di entrambi
i coniugi (art. 1802 c.c.).
Sono di straordinaria gestione, gli atti che non rientrano nella normale gestione del patrimonio o
nella normale conduzione della famiglia, come ad es., gli atti di alienazione di immobili e la
stipulazione di contratti di locazione.
Il tribunale può autorizzare un coniuge a compiere separatamente un atto di straordinaria
amministrazione quando l'altro coniuge sia lontano o impedito o rifiuti ingiustificatamente di
prestare il consenso.
Il coniuge dichiarato interdetto è escluso per ciò stesso dall'amministrazione. Su istanza di un
coniuge il tribunale può escludere l'altro coniuge che sia durevolmente impedito o sia risultato un
cattivo amministratore.
Se uno dei coniugi compie un atto di straordinaria amministrazione avente ad oggetto beni
immobili o beni mobili registrati (autoveicoli, ecc.) senza il consenso dell'altro coniuge,
quest'ultimo può agire per l'annullamento.
L'azione è soggetta al termine di prescrizione di un anno, che decorre dal momento in cui l'altro
coniuge ha avuto notizia del compimento dell' atto e, comunque, non è proponibile oltre un anno
dal momento in cui l'atto è stato trascritto (art. 2643 c.c.). Se interviene lo scioglimento della
comunione, l'azione non può essere proposta in nessun caso oltre un anno dallo scioglimento,
anche se il coniuge abbia ignorato l'atto e questo non sia stato trascritto.
Gli atti di straordinaria amministrazione richiedono il consenso di entrambi i coniugi anche se
riguardano beni mobili. L'atto compiuto da un coniuge senza il consenso dell' altro non è tuttavia
suscettibile di impugnazione come gli atti riguardanti beni immobili o mobili registrati.
Piuttosto, il coniuge che ha compiuto l'atto senza il necessario consenso dell'altro coniuge può

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essere obbligato da quest'ultimo a reintegrare l'originario stato di fatto e di diritto della
comunione. La reintegrazione deve avvenire in forma specifica, e cioè mediante il recupero dei
beni alienati.
Se la reintegrazione in forma specifica non è possibile o è eccessivamente onerosa, il coniuge è
tenuto a reintegrare la comunione per equivalente, pagando una somma di denaro corrispondente
al valore dell'entità sottratta alla comunione secondo i valori attuali della moneta al momento
della reintegrazione (art. 1843 c.c.).

8. - In regime di comunione la responsabilità patrimoniale è diversamente regolata secondo che


si tratti di debiti della comunione o di debiti personali.
I debiti della comunione sono i debiti dei coniugi gravanti sui beni della comunione, cioè
totalmente garantiti da tali beni (art. 186 c.c.). Rientrano fra i debiti della comunione: quelli che
ineriscono ai beni della comunione al momento del loro acquisto (prezzo, imposte, oneri modali,
ecc.); quelli contratti dai coniugi anche separatamente nello svolgimento dell' ordinaria
amministrazione, e cioè quelli contratti per il normale esercizio e manutenzione del patrimonio;
quelli contratti per il mantenimento, l'educazione e l'istruzione dei figli nonché per le normali
esigenze della famiglia; quelli contratti congiuntamente da entrambi i coniugi.
Se i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i creditori, questi possono aggredire i
beni personali di ciascun coniuge nella misura della metà del credito (art. 190 c.c.).
Oltre ai debiti della comunione si distinguono i debiti personali. I debiti personali sono i debiti
esclusivi del coniuge, e cioè i debiti di cui il coniuge risponde in primo luogo con i propri beni e
sussidiariamente con la sua quota in comunione.
Debiti personali sono quelli che ineriscono al patrimonio personale del coniuge o che derivano
dalla sua attività separata contrattuale o extracontrattuale o, ancora, che derivano da atti
compiuti al di fuori dei poteri della comunione. A quest'ultimo riguardo rilevano gli atti di
straordinaria amministrazione compiuti senza il consenso del coniuge.
Dei debiti personali rispondono i beni della comunione fino al valore della quota del coniuge
obbligato. I creditori possono tuttavia soddisfarsi su questa quota in via sussidiaria, cioè solo in
quanto non siano risultati sufficienti in tutto o in parte i beni personali dell' obbligato.

9. – La separazione giudiziale è la conversione giudiziale del regime della comunione legale in


quello della separazione (art. 193 c.c.).
Cause della separazione giudiziale dei beni sono l’interdizione e l’inabilitazione di uno dei coniugi;
la sua cattiva amministrazione; il disordine degli affari o una conduzione dell’amministrazione
suscettibili di pregiudicare gli interessi dell’altro coniuge o della famiglia; la violazione
dell’obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze e
capacità di lavoro.

10. - Cause di scioglimento della comunione sono lo scioglimento (per morte o divorzio) e
l'annullamento o la dichiarazione di nullità del matrimonio. Altre cause sono la dichiarazione di
assenza, la separazione personale, la separazione giudiziale dei beni, il fallimento, la volontà dei
coniugi espressa mediante convenzione matrimoniale (art. 191 c.c.).
Lo scioglimento della comunione apre la fase di liquidazione della stessa. In questa fase ciascuno
dei coniugi può far valere e realizzare la sua quota di comunione. Questa quota comprende
anzitutto metà della proprietà e degli altri diritti già acquisiti alla comunione con
effetto immediato. Con lo scioglimento della comunione, inoltre, ciascuno dei coniugi ha
diritto alla metà dei proventi che l'altro coniuge ha realizzato con la propria attività separata
e non ha consumato.

Ciascuno dei coniugi ha inoltre il diritto al rimborso di quanto l'altro abbia abusivamente
prelevato.

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Oltre al diritto di rimborso con riguardo agli abusivi prelievi fatti dall' altro coniuge a danno della
comunione, ciascuno dei coniugi ha anche il diritto alla restituzione delle somme di denaro o cose
generiche prelevate dal proprio personale patrimonio e impiegate a vantaggio del patrimonio
comune (art. 1923 c.c.).

11. - Il fondo patrimoniale è il regime di cogestione di uno o più beni vincolati ai bisogni della
famiglia (art. 167 c.c.).
Il fondo patrimoniale si costituisce con un'apposita convenzione matrimoniale. Parti di questa
convenzione sono i coniugi ed eventualmente il terzo o i terzi che conferiscono i beni al fondo.
Oggetto del fondo patrimoniale possono essere beni immobili, beni mobili iscritti in pubblici
registri e titoli di credito.
Funzione del vincolo è quella di destinare i beni al soddisfacimento dei bisogni di mantenimento,
di assistenza e di contribuzione della famiglia nucleare.
Il vincolo del fondo patrimoniale comporta che i beni non possono essere esecutati per debiti che
il creditore conosceva essere stati contratti per bisogni estranei alla famiglia.
La gestione del fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi ed è regolata dalle norme sulla
comunione legale (art. 1683 c.c.).
Quando vi sono figli minori, gli atti di disposizione dei beni del fondo (vendita, costituzione di
garanzie o altri vincoli, ecc.) richiedono l’autorizzazione del tribunale.
Il vincolo del fondo patrimoniale si estingue con l’estinzione del vincolo matrimoniale, ma se vi
sono figli minori il fondo patrimoniale permane fino a quando l'ultimo dei figli raggiunge la
maggiore età (art. 1711 c.c.) .

12. - Il regime della separazione dei beni è il regime di separazione della gestione e di titolarità
esclusiva degli acquisti.
Questo regime, che anteriormente alla riforma era il regime patrimoniale legale, trova ora
applicazione in quanto sia adottato dai coniugi mediante convenzione matrimoniale (art. 215 c.c,)
o in quanto sia stata pronunziata la separazione giudiziale dei beni o sia intervenuta altra causa di
cessazione del regime di comunione non incidente sull' esistenza del vincolo matrimoniale.
Nel regime della separazione ciascuno dei coniugi è unico titolare dei beni acquistati dopo il
matrimonio, e di tali beni ha la gestione separata (art. 217 c.c.).

Il coniuge può affidare all'altro coniuge l'amministrazione dei suoi beni.


Contrariamente alla regola dal mandato, l'incarico si presume gratuito in quanto è normale che il
coniuge accetti di amministrare i beni dell' altro per spirito di solidarietà, in adempimento del suo
dovere di collaborazione nell'interesse della famiglia.
Se non è stato espressamente previsto, il coniuge amministratore non deve rendere il conto dei
frutti percepiti. Allo scioglimento del matrimonio o a seguito di richiesta del coniuge proprietario
egli è infatti tenuto solo a consegnare i frutti esistenti (art. 2173 c.c.).
Se il coniuge amministra i beni dell' altro senza mandato la sua ingerenza non integra un illecito.
Al contrario, essa costituisce adempimento del dovere di collaborazione, e il coniuge gestore non è
tenuto al rendiconto dei frutti. Trova infatti applicazione analogica la regola dettata per il coniuge
incaricato, in quanto il godimento dei frutti da parte del coniuge gestore è un modo attraverso il
quale si realizza la contribuzione del coniuge proprietario ai bisogni della famiglia.
Se il coniuge amministra i beni dell'altro coniuge nonostante l'opposizione di questo, risponde per
i frutti non percepiti (art. 2174 c.c.).

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MODULO XIV

Separazione e divorzio

1. La separazione personale dei coniugi. La separazione giudiziale


2. La separazione consensuale
3. Effetti della separazione
4. Effetti riguardo ai figli
5. La riconciliazione
6. Il divorzio
7. I presupposti
8. Il procedimento
9. L'assegno di divorzio
10. Assistenza previdenziale
11. L’assegno successorio

1. - La separazione personale è la situazione di legale sospensione dei doveri reciproci dei


coniugi, salvo quello di assistenza.
La separazione può essere giudiziale o consensuale.
La separazione giudiziale è la separazione pronunziata con sentenza. Essa può essere chiesta
quando si siano verificati fatti tali da rendere intollerabile la convivenza. La separazione
prescinde dalla colpa, trattandosi di un rimedio obiettivo per l'intollerabilità della convivenza.
Tuttavia, se l'intollerabilità della convivenza deriva dalla grave violazione dei doveri coniugali, il
tribunale può addebitare la separazione al coniuge in colpa. L'addebitabilità della separazione
comporta la perdita del diritto al mantenimento (salvo solamente il diritto agli alimenti legali) e
alla successione legittima.

2. - La separazione consensuale è la separazione che ha titolo nell' accordo dei coniugi omologato
dal giudice (art. 158 c.c.).
La decisione dei coniugi di separarsi trova normalmente ragione In una situazione di

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intollerabilità della convivenza ma questa ragione non costituisce un necessario presupposto dell'
accordo.
L'atto di separazione può stabilire il contributo economico che uno dei coniugi deve
corrispondere all'altro nonchè l'eventuale diritto di abitazione.
Se vi sono figli minori l'atto di separazione dispone circa il loro affidamento e le modalità
dell'esecuzione dell'obbligo di mantenimento da parte del coniuge non affidatario.
La separazione consensuale acquista efficacia con l'omologazione del tribunale.
Il tribunale non può sindacare nel merito la decisione dei coniugi. Accertata la loro volontà di
separarsi e l'avvenuto tentativo di conciliazione l' omologazione non può essere rifiutata. La
possibilità del rifiuto della omologazione è prevista, per altro, quando la separazione non
salvaguardi la posizione dei figli. Il tribunale, precisamente, deve esaminare nel merito le
condizioni riguardanti l'affidamento e il mantenimento dei figli e se le reputa non
sufficientemente conformi al loro interesse, convoca le parti indicando le modifiche da apportare
al loro accordo. Se i coniugi insistono nell'adottare condizioni pregiudizievoli per la prole, il
tribunale deve rifiutare l'omologazione.

3. - Se non vi è addebito a suo carico, il coniuge che non ha un reddito sufficiente può pretendere
dall' altro un assegno di mantenimento che gli consenta di conservare il livello di vita
matrimoniale.
Il coniuge separato con addebito ha invece solamente il diritto agli alimenti legali quando non sia
in grado di provvedere al proprio sostentamento (art. 433 s. c.c.).
Al coniuge separato il tribunale può assegnare il diritto di abitazione nella casa familiare di cui
l'altro coniuge abbia la proprietà o altro diritto di godimento. Il diritto di abitazione è attribuito
tenendo conto prioritariamente dell'interesse dei figli. Il provvedimento giudiziale è soggetto a
trascrizione nei registri immobiliari (art. 155 quater c.c.).
Il diritto di abitazione deve ritenersi - ma il punto è controverso - che abbia natura reale.
Il coniuge separato senza addebito conserva il diritto di successione legittima.
Al coniuge separato con addebito in stato di bisogno può essere giudizialmente attribuito un
assegno successorio di natura alimentare, determinato dal tribunale tenendo conto dell' entità
delle sostanze ereditarie nonchè della qualità e del numero degli eredi legittimi (art. 548 2 c.c.).

4. – A seguito della separazione e del divorzio rimangono fermi i doveri dei genitori nei confronti
dei figli.
Con riguardo all'affidamento il tribunale deve valutare prioritariamente la possibilità di affidare i
figli minori ad entrambi i genitori, ai quali spetta conseguentemente l'esercizio della potestà
(affidamento condiviso: art. 155 c.c.).
Se lo richiede l'interesse del minore, il tribunale può disporre l'affidamento ad uno solo dei
genitori, cui spetta allora l'esercizio esclusivo della potestà (art. 155 bis c.c.).

5. - La separazione personale si estingue automaticamente quando i coniugi emettono un'


espressa dichiarazione di riconciliazione o quanto tengono un comportamento non equivoco che
sia incompatibile con lo stato di separazione (art. 157 1 c.c.). Rileva al riguardo l'effettiva ripresa
della convivenza coniugale, cioè il ripristino della comunione materiale e spirituale, non essendo
invece sufficienti visite, incontri o frequentazioni.
E' onere dei coniugi far annotare sull' atto di matrimonio l'avvenuta riconciliazione (art. 69 lett. f)
reg. stato civile emanato col dPR 3 novembre 2000, n.396).

6. - Il divorzio è lo scioglimento giudiziale del vincolo coniugale quando sia divenuta impossibile
la comunione spirituale e materiale dei coniugi.
Lo scioglimento del vincolo comporta fondamentalmente l'estinzione dei doveri reciproci che
derivano dal matrimonio a carico dei coniugi, cioè dei doveri di fedeltà, coabitazione, assistenza
morale e materiale, collaborazione.

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A tali doveri subentra tuttavia un attenuato impegno di solidarietà postconiugale che può tradursi
nel diritto dell' ex coniuge ad un assegno vitalizio, alla totale o parziale pensione di reversibilità,
ad un assegno successorio.
Rimangono fermi i doveri verso i figli e la titolarità della potestà. L’esercizio di questa compete ad
entrambi i genitori se – come di regola – i figli sono ad essi affidati (si applica la disciplina della
separazione: n. 4).
Lo scioglimento del vincolo coniugale restituisce agli ex coniugi lo stato libero e consente loro di
contrarre un nuovo matrimonio.
Il divorzio è disciplinato dalla l. 10 dicembre 1970, n. 989, revisionato dalla 1. 6 marzo 1987, n. 74.

7. - La causa che giustifica la pronunzia di scioglimento del matrimonio è la impossibilità della


comunione spirituale e materiale dei coniugi. Tale impossibilità deve tuttavia risultare dalla
sussistenza di uno dei presupposti specificamente indicati dalla legge. Questi presupposti sono
necessari e tassativi nel senso che il divorzio non può essere pronunziato se non ricorre uno di
essi.
La legge distingue le cause del divorzio in due gruppi: il primo comprende i casi di condanna
penale di uno dei coniugi mentre il secondo include gli altri fatti preclusivi della comunione
spirituale e materiale.
Nell'ambito del primo gruppo si distinguono ulteriormente le condanne per reati dolosi a lunga
pena detentiva e le condanne per reati contro il coniuge e i suoi discendenti (art. 3 1. div.).
Oltre ai fatti che danno luogo a condanna penale, la legge indica altri presupposti del divorzio che
depongono obiettivamente per la impossibilità della comunione spirituale e materiale dei coniugi.
Questi fatti si distinguono in l) fatti gravemente pregiudizievoli non punibili penalmente per vizio
di mente o per estinzione del reato; 2) prolungata separazione personale (3 anni); 3) divorzio o
matrimonio dell'altro coniuge all'estero; 4) inconsumazione del matrimonio.
Una particolare causa di scioglimento di matrimonio è la rettificazione del sesso. Lo scioglimento
è automatico e ha effetto a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che rettifica il sesso di
uno dei coniugi (art. 4 1. 14 aprile 1982, n. 164).

8. - Il procedimento di divorzio è un procedimento contenzioso regolato di massima da norme


comuni al procedimento di separazione personale.
In tema di divorzio è però previsto un giudizio per direttissima promosso mediante domanda
congiunta dei coniugi, nella quale devono essere definite le condizioni riguardanti i figli e i
rapporti economici dei coniugi medesimi (art. 4 1. div.).
La domanda congiunta dà luogo ad un procedimento in camera di consiglio senza istruttoria. Il
tribunale decide dopo avere sentito i coniugi, verificato l'esistenza dei presupposti di legge e
accertato che le condizioni stabilite dai coniugi siano adeguate all'interesse della prole (figli
minori o comunque aventi bisogno dell'assistenza dei genitori).

9. - L'assegno di divorzio è un assegno vitalizio che a seguito del divorzio spetta all' ex coniuge il
quale non abbia un reddito sufficiente a mantenere il tenore di vita matrimoniale (art. 5 4 1. div.).
La mancanza di un reddito sufficiente a garantire all' ex coniuge il tenore di vita che godeva o
avrebbe dovuto godere durante il matrimonio, e l'inferiorità della sua posizione economica
rispetto all' altro coniuge, sono i presupposti del diritto all' assegno postmatrimoniale.
Nel determinare l'assegno vitalizio, il giudice deve assumere come base primaria l'integrazione
necessaria per consentire all'ex coniuge di mantenere il livello di vita matrimoniale, e deve poi
procedere ad un’eventuale riduzione tenendo conto a) delle condizioni dei coniugi, b) delle
ragioni della decisione e c) del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniuge
alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio.
Nella determinazione dell'assegno di divorzio la legge prevede ancora che il giudice deve tener
conto della durata del matrimonio.
L'assegno ha funzione assistenziale. Tale funzione qualifica la natura dell' assegno e ne indica il

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fondamento nella solidarietà che permane tra coloro che sono stati uniti in matrimonio.
Il dovere di aiutare economicamente l'ex coniuge è precisamente un dovere
giuridico fondato su quella solidarietà che alla stregua della coscienza sociale permane tra gli ex
coniugi, e che si qualifica come solidarietà postconiugale.
Tenendo conto della funzione assistenziale dell' assegno si spiega come il dovere di
corrisponderlo venga meno quando il beneficiario contragga nuove nozze assumendo un nuovo
reciproco impegno di solidarietà coniugale. Si spiega ancora come il dovere venga meno quando
le condizioni economiche degli ex coniugi diventino equivalenti.
L'entità dell' assegno può essere modificata quando siano sensibilmente migliorate le condizioni
economiche del beneficiario o siano peggiorate quelle dell' obbligato.
La sentenza che attribuisce l'assegno deve di regola contenere una clausola di adeguamento
automatico dell'importo in relazione alla svalutazione monetaria (art. 5 7 l. div.).

10. - In caso di morte dell'ex coniuge l'ex coniuge che non sia passato a nuove nozze può
beneficiare in tutto o in parte della pensione di reversibilità (art. 9 2 1. div.).
La pensione di reversibilità è quella pensione previdenziale che spetta al coniuge superstite o ad
altri congiunti a seguito della morte del dipendente pubblico o privato o di altro soggetto coperto
da assicurazione sociale.
Il diritto alla pensione di reversibilità presuppone che 1) si tratti di pensione derivante da un
rapporto di lavoro iniziato prima del divorzio e 2) che al tempo della morte dell' ex coniuge il
coniuge divorziato fosse titolare di assegno di divorzio.
Tra gli effetti previdenziali del divorzio va anche ricompreso il diritto del coniuge divorziato ad
una parte dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge (art. 12 bis 1. div.).
Il diritto spetta all' ex coniuge titolare dell' assegno di divorzio ed è commisurato al 40 per 100
dell'indennità maturata dall'altro ex coniuge negli anni in cui il rapporto di lavoro ha coinciso col
matrimonio.
Lo scioglimento del matrimonio estingue lo stato di coniuge e le aspettative successorie che
ineriscono a tale stato.
All' ex coniuge può tuttavia spettare un particolare diritto successorio costituito da un assegno a
carico dell'eredità (art. 9 bis 1. div.). Presupposti di questo assegno sono lo stato di bisogno dell'
ex coniuge, il riconoscimento del suo diritto all'assegno di divorzio, e la morte dell' obbligato.
La determinazione dell' assegno all' ex coniuge è rimessa al tribunale, il quale deve assumere
come criterio di fondo il riferimento al bisogno che l'assegno deve soddisfare.
Nella determinazione dell'assegno successorio occorre ancora tenere conto del numero, della
qualità e delle condizioni economiche degli eredi. Ciò significato che la determinazione dell'
assegno successorio deve contemperare l'interesse dell'ex coniuge con quello degli eredi se questi
sono il coniuge superstite e altri stretti congiunti del defunto.
Il contemperamento importa che l'assegno successorio deve essere tanto più ridotto quanto più
ridotti risultano gli acquisti spettanti a questi soggetti e quanto maggiore risulta la precarietà
della loro posizione economica a seguito della morte del congiunto.

11. – In rapporto ai figli gli effetti del divorzio non divergono da quelli della separazione,
reclamando la medesima regolamentazione.

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MODULO XV

La filiazione

1. La filiazione e i diritti e i doveri del figlio


2. La potestà dei genitori
3. Decadenza dalla potestà e altri provvedimenti a tutela del minore
4. L'usufrutto legale
5. L'accertamento amministrativo dello stato di figlio. L'atto di nascita. La presunzione
legale di paternità
6. L'accertamento privato della filiazione mediante riconoscimento
7. L'accertamento giudiziale della filiazione. a) l’azione di reclamo della legittimità
8. b) L’azione di contestazione della legittima
9. c) L'azione di disconoscimento della paternità
10. d) La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità
11. I figli irriconoscibili
12. La legittimazione del figlio naturale

1. - La filiazione è il rapporto intercorrente tra la persona fisica e coloro che l'hanno


concepita.
Soggetti del rapporto sono il figlio e i genitori ma il rapporto prende il nome di filiazione perché
esso gravita attorno alla posizione del figlio, a tutela del quale è essenzialmente posta la
disciplina normativa.
La posizione di figlio costituisce uno stato familiare, e cioè una posizione giuridica fondamentale
di diritto familiare.
La nostra legislazione distingue la filiazione in legittima e naturale, secondo che il figlio sia nato
o concepito da genitori coniugati o da genitori non coniugati.
I figli naturali hanno nei confronti dei genitori gli stessi diritti dei figli legittimi e una pari
posizione successoria.
I figli naturali sono tuttavia ancora discriminati rispetto ai figli legittimi. A parte altre minori
limitazioni, essi sono infatti assoggettati al diritto di commutazione da parte dei fratelli legittimi
e, secondo la corrente interpretazione, essi sono privi del rapporto di parentela con i parenti dei
loro genitori. Ma soprattutto la discriminazione scaturisce dalla conservata distinzione formale
tra filiazione naturale e filiazione legittima.
Siamo pertanto in attesa che venga finalmente attuato anche nel nostro ordinamento il principio
che nega ogni discriminazione basata sulla nascita.

Accanto al diritto allo stato di figlio, che è il diritto alla titolarità del rapporto di filiazione,
occorre distinguere i vari diritti e doveri che ineriscono a tale rapporto e che prescindono dalla
formale attribuzione dello stato.
Principali diritti del figlio sono quelli al mantenimento, all' educazione ed istruzione secondo le
proprie capacità, inclinazioni e aspirazioni (art. 147,261,279 c.c.). Questi sono diritti
fondamentali di solidarietà che rispondono all'interesse essenziale dell'essere umano a ricevere
l'aiuto e la guida necessari per la sua formazione. Essi spettano al figlio fin dal momento della
nascita e non hanno carattere patrimoniale.
Altro diritto del figlio è il diritto all' amore dei suoi genitori.
Il diritto all'amore è un diritto fondamentale del minore. Tra gli interessi essenziali del minore si
pone infatti in primo piano l'interesse a ricevere quella carica affettiva di cui l'essere umano non
può fare a meno nel tempo della sua formazione.
Il diritto all' amore ha avuto il suo espresso riconoscimento legislativo nella disciplina dell'

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adozione, che definisce la situazione di abbandono come mancanza dell' assistenza morale e
materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi (art. 8 1 1. adoz.).
L'assistenza morale è l'attuazione del diritto all' amore.
La legge riconosce ora il diritto del minore al rapporto personale con gli avi e con gli altri
congiunti con i quali si sia costituito un vincolo affettivo significativo (cfr. l’art. 155 1 c.c.).
Altro fondamentale diritto del figlio non menzionato dal codice è quello di crescere nella propria
famiglia (esso è proclamato dall’art. 1 della legge sull’adozione: 4 maggio 1983, revis. dalla l. 28
marzo 2001, n. 149). Il diritto del figlio di crescere nella propria famiglia è un diritto
fondamentale della persona, diritto assoluto esperibile nei confronti di tutti i terzi, pubblici e
privati. Il diritto del figlio di crescere nella propria famiglia reclama poi l’intervento dello Stato
per rimuovere le difficoltà personali ed economiche che sono di ostacolo all' esercizio del diritto.
Il figlio ha il dovere di rispettare i genitori e di contribuire al mantenimento della famiglia finché
convive con essa (art. 315 c.c.). Il figlio minore ha inoltre il dovere di convivere con i genitori
esercenti la potestà.

2. - La potestà dei genitori è l'autorità personale e patrimoniale che l'ordinamento attribuisce ai


genitori sul figlio minore nel suo esclusivo interesse.
La potestà comprende precisamente i poteri decisionali funzionalizzati alla cura e
all'educazione del minore e, ancora, i poteri di rappresentanza del figlio e di gestione dei suoi
interessi economici.
La potestà dei genitori è un ufficio privato. Essa è infatti un insieme di poteri-doveri che il
genitore deve esercitare nell'interesse del figlio.
La titolarità della potestà spetta ad entrambi i genitori. Ai genitori spetta anche di regola
l'esercizio della potestà, siano essi legittimi o naturali (art. 316 1 c.c.). Con riguardo alla filiazione
naturale occorre tuttavia che essa sia riconosciuta o giudizialmente dichiarata. Se la filiazione
risulta nei confronti di un solo genitore, è a costui che spetta la titolarità della potestà (art. 317
bis c.c.).
E’ tuttavia possibile che l'esercizio esclusivo della potestà spetti ad uno solo dei genitori, pur
essendone entrambi titolari (es.: in caso di divorzio).
La potestà deve essere esercitata dai genitori congiuntamente quando si tratta di decisioni
particolarmente importanti, e cioè aventi una rilevante incidenza sulla vita del figlio, e quando si
tratta di atti di straordinaria amministrazione. La potestà può invece essere esercitata
separatamente da ciascuno dei genitori quando si tratta del normale espletamento della cura del
figlio e di atti di ordinaria amministrazione.
L'esercizio congiunto della potestà richiede il comune accordo dei genitori. In caso di contrasto
su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al
tribunale per i minorenni con l'onere di indicare la soluzione più conveniente per il figlio (art.
3163 c.c.).
Nelle ipotesi in cui ad un genitore è attribuito l'esercizio esclusivo della potestà, l'altro genitore
concorre alla decisione degli atti rilevanti per la vita del figlio e degli atti di straordinaria
amministrazione. Continua inoltre ad essere responsabile per l'educazione e l'istruzione del figlio
e può ricorrere al giudice quando reputi che le decisioni prese dall’altro genitore siano
pregiudizievoli per l'interesse del minore.

3. - La violazione dei doveri inerenti alla potestà parentale con grave pregiudizio del figlio può
comportare la decadenza dalla stessa, e cioè la perdita della titolarità che rimane attribuita
esclusivamente all' altro genitore (art. 330 c.c.). In mancanza di altro genitore
titolare deve procedersi alla nomina di un tutore.
La condotta del genitore pregiudizievole per il figlio non comporta sempre a decadenza dalla
potestà. È infatti possibile che tale comportamento non sia gravemente pregiudizievole per il
figlio o che esso ne leda un interesse specifico e circoscritto senza implicare un giudizio di non

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affidabilità del genitore.
Il giudice che non riscontra gli estremi per la decadenza dalla potestà del genitore può allora
adottare i provvedimenti opportuni secondo le circostanze per la tutela del minore. Il contenuto
di tali provvedimenti è affidato alla discrezionalità del giudice, potendo consistere nell'
autorizzare il figlio a fare ciò che gli sia stato vietato dal genitore o nell'ordinare a quest'ultimo
l'adempimento di un obbligo trascurato.
Provvedimenti a tutela del minore possono inoltre essere presi in applicazione della
legge sugli ordini di protezione contro gli abusi familiari (l. 4 aprile 200 l, n. 154).
La legge prevede l'emanazione giudiziale di un provvedimento inibitorio nell' ipotesi di condotta
pregiudizievole da parte di un componente del nucleo familiare a danno di altro componente del
nucleo. Il provvedimento intima all'autore della condotta pregiudizievole la cessazione di tale
condotta, l'allontanamento dalla casa familiare e, se del caso, il non avvicinamento a determinati
luoghi frequentati dai familiari.
Gli ordini di protezione sono però strettamente temporanei: hanno infatti la durata di 6 mesi
prorogabili solo in presenza di seri motivi.

4. - L'usufrutto legale è il diritto di usufrutto che spetta per legge ai genitori sui beni del figlio
minore (art. 324 c.c.).
L'usufrutto spetta in comune ai genitori in quanto titolari ed esercenti la potestà sul figlio. Se
uno solo dei genitori è titolare della potestà o ne ha l'esercizio esclusivo, costui è titolare
esclusivo del diritto di usufrutto.
Oggetto del diritto di usufrutto sono in generale i beni del figlio, ad eccezione di quelli da lui
acquistati con i proventi del proprio lavoro. Sono inoltre eccettuati i beni lasciati al figlio in
successione o donazione per intraprendere una carriera, un'arte O una professione, ovvero con la
condizione di esclusione dei genitori o di uno di essi dall'usufrutto.
L'usufrutto legale ha il contenuto del diritto di usufrutto, quale diritto di godere del bene
rispettandone la destinazione economica, ed è regolato di massima secondo la disciplina di tale
diritto (art. 978 s. c.c.).

5. - L'atto dal quale risulta formalmente lo stato di figlio è di regola l'atto di nascita, cioè la
denunzia della nascita registrata dall'ufficiale dello stato civile.
L’atto di nascita indica i nomi di entrambi i genitori se questi sono coniugati. Con riguardo al
figlio nato da genitori coniugati trova infatti applicazione il principio della presunzione legale di
paternità secondo il quale chi è concepito o nato in costanza di matrimonio si presume figlio del
marito della madre (art. 231, 232, 233, 234 c.c.).
Se si tratta di genitori non uniti in matrimonio, l'atto di nascita indica il nome del genitore che
denunzia il figlio come proprio o che ne effettua successivamente il riconoscimento.

6. - Se i genitori non sono uniti in matrimonio nessuna presunzione legale soccorre il figlio.
L'accertamento formale del suo stato di figlio nei confronti del padre e nei confronti della madre
richiede infatti l'atto di riconoscimento o la sentenza.
Il riconoscimento è la dichiarazione di paternità o di maternità proveniente dal genitore. Il
riconoscimento può essere effettuato dal genitore che abbia compiuto 16 anni di età (art. 250 u.c.
c.c.).
Il figlio può essere riconosciuto ancor prima della nascita fin dal momento del suo concepimento
(art. 2541 c.c.). Se il figlio ha compiuto i 16 anni di età il riconoscimento non ha effetto senza il
suo assenso (art. 2502 c.c.).
Il riconoscimento può essere fatto congiuntamente da entrambi i genitori ovvero separatamente.
Il riconoscimento fatto da un genitore dopo il riconoscimento dell'altro richiede il consenso di
quest'ultimo. se il figlio non abbia ancora compiuto 16 anni. Questo consenso, configurabile
quale autorizzazione privata, è richiesto dalla legge nell'esclusivo interesse del figlio.

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Se il figlio non è stato riconosciuto nell'atto di nascita, il riconoscimento deve essere fatto
mediante apposita dichiarazione resa all'ufficiale dello stato civile, al giudice tutelare o ad un
pubblico ufficiale (notaio, console).
La dichiarazione può pure essere contenuta in un testamento. In tal caso essa rimane ferma
anche a seguito della revoca del testamento (art. 256 c.c.).
Il riconoscimento comporta per il figlio riconosciuto l'assunzione del cognome del genitore. Il
figlio assume il cognome del padre, se questi lo ha riconosciuto per primo o congiuntamente alla
madre (art. 2621 c.c.). Se il padre lo ha riconosciuto successivamente alla madre, è lasciato al
figlio decidere se assumere il cognome del padre, in sostituzione di quello della madre, o di
mantenere il cognome originario, anteponendolo o aggiungendolo al nuovo cognome (art. 262 2
c.c.).
Se il figlio è minorenne decide il giudice.
La persona riconosciuta ha comunque il diritto di mantenere il nome originariamente
attribuitogli, anche se non si tratta del nome paterno o materno.
Il riconoscimento è suscettibile d'impugnazione per difetto di veridicità, per incapacità del
genitore e per violenza. L'azione di impugnazione per difetto di veridicità è imprescrittibile (art.
2633 c.c.).

Il riconoscimento compiuto da chi ha meno di 16 anni può essere impugnato dallo stesso autore
dell'atto divenuto maggiorenne. L'azione si prescrive nel termine di un anno dal raggiungimento
della maggiore età.
In caso di interdizione, l'azione può essere proposta dal tutore e dallo stesso autore del
riconoscimento dopo la revoca dell'interdizione (art. 266 c.c.). In quest'ultimo caso l'azione si
prescrive entro un anno dalla revoca dell'interdizione.
In caso di violenza, l'azione può essere proposta esclusivamente dall'autore dell'atto e si
prescrive entro un anno dal giorno in cui la violenza è cessata (art. 265 1 c.c.).

7. - L'azione di reclamo della legittimità è l'azione volta a far conseguire al soggetto lo stato di
figlio legittimo non risultante dall'atto di nascita (art. 249 1 c.c.). La filiazione legittima può non
risultare dall'atto di nascita perchè il nato è stato denunziato a) come figlio di genitori legittimi
diversi da quelli reali ovvero b) come figlio di genitori naturali ovvero c) come figlio di ignoti.
L'azione di reclamo della legittimità spetta al figlio e ai genitori. L'azione è imprescrittibile (art.
2492 c.c.).

8. - L'azione di contestazione della legittimità è l'azione volta a rimuovere lo stato di figlio


legittimo risultante dall' atto di nascita ma non corrispondente alla realtà della filiazione.
Chi risulta come figlio legittimo può non essere tale anzitutto nell'ipotesi in cui sia stato
concepito da parte di persona diversa dal marito dalla madre. Ma con riguardo a questa ipotesi la
legge prevede un'apposita azione, e cioè quella di disconoscimento della paternità (n. 9).
L'azione di contestazione della legittimità comprende piuttosto le ipotesi di supposizioni di parto
(figlio denunziato falsamente come nato da madre diversa da quella che lo ha realmente
partorito) e di sostituzione di neonato (art. 239 2 c.c.) e comunque di falsità o erroneità
dell'indicazione dei genitori legittimi nell'atto di nascita.
Legittimati ad esperire l'azione di contestazione della legittimità sono colui che risulta come
genitore dall'atto di nascita e chiunque vi abbia interesse (248 1 c.c.).
La contestazione della legittimità non è soggetta a prescrizione (art. 2482 c.c.).

9. - L'azione di disconoscimento della paternità è volta a rimuovere lo stato di figlio legittimo in


contrasto con la presunzione legale di paternità (art. 235 c.c.). Essa va quindi nettamente
distinta rispetto alla contestazione di legittimità, basata sulla falsità o erroneità dell' atto di
nascita.

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La legge distingue secondo che il figlio sia nato prima o dopo che siano trascorsi 180 giorni dalla
celebrazione del matrimonio. In un caso e nell'altro il figlio è sempre reputato legittimo, e quindi
presuntivamente concepito dal marito della madre. Ma se il figlio è nato prima che siano
trascorsi 180 giorni dal matrimonio l'azione di disconoscimento non incontra limiti di
ammissibilità. Se, invece, il presunto figlio è nato dopo 180 giorni dalla celebrazione del
matrimonio (e prima di 300 giorni dalla fine della convivenza coniugale) l'azione di
disconoscimento è ammessa dalla legge solo nei seguenti casi: 1) quando non vi è stata
coabitazione dei coniugi nel periodo del concepimento (dal 300 0 al 1800 giorno prima della
nascita); 2) quando in tale peridoto il marito era affetto da impotenza; 3) quando nel detto
periodo la moglie ha commesso adulterio; 4) quando, sempre nello stesso periodo, la moglie ha
celato al marito la gravidanza e la nascita del figlio (art. 235 c.c.).
In questi due ultimi casi il marito è ammesso a provare che il figlio presenta caratteristiche
incompatibili con quelle del presunto padre. La Corte costituzionale (sentenza n. 266 del 6 luglio
2006) ha però dichiarato la incostituzionalità della norma nella parte in cui subordina l’esame
delle prove tecniche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. A seguito di questa
pronunzia della Corte costituzionale l’azione risulta sempre ammissibile.
L'azione deve essere proposta dal padre entro un anno (art. 2442 c.c.). L'anno decorre dal giorno
della nascita o dal giorno in cui il presunto padre ha avuto notizia della nascita ovvero è tornato
nel luogo della nascita o nella residenza familiare o dal momento in cui ha acquisito conoscenza
della propria impotenza o dell' adulterio della moglie.
Legittimata a proporre l'azione è altresì la madre, per la quale vale il termine di sei mesi dalla
nascita del figlio (art. 2441 c.c.).
Legittimato all’azione è infine il presunto figlio, il quale deve agire entro un anno dal
raggiungimento della maggiore età o da quando ha appreso i fatti che attestano un diverso
rapporto di filiazione.
La sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento rimuove con effetto reatroattivo lo stato
di figlio del disconosciuto rispetto al presunto padre.
Il figlio disconosciuto ha tuttavia il diritto di mantenere il cognome del presunto padre se tale
cognome sia divenuto segno distintivo della sua identità nell' ambiente sociale.

10. - Se il genitore non riconosce come proprio il figlio, la filiazione dev'essere accertata dal
tribunale mediante dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità (art. 269 1 c.c.). La
dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità è una sentenza che conclude un
giudizio contenzioso promosso con apposita azione, ossia l'azione per la dichiarazione giudiziale
della paternità o della maternità.
Il giudizio per la dichiarazione della paternità e maternità è di competenza del tribunale per i
minorenni se l'azione concerne un minore (art. 381 disp. att.).
Gli effetti della sentenza sono quelli propri del riconoscimento, e risalgono al momento a nascita.
Si conferma in tal modo l'idea che il rapporto di filiazione scaturisce dal fatto stesso della
procreazione e che il riconoscimento e la dichiarazione giudiziale costituiscono
accertamenti dello stato di figlio, attributivi della titolarità formale del rapporto di filiazione.
Legittimati a proporre l'azione di dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità sono il
figlio e i suoi discendenti. Riguardo al figlio l'azione è imprescrittibile (art. 2701 c.c.).
L’accertamento giudiziale della filiazione non incontra limiti in ordine alle prove. La
dimostrazione della paternità e della maternità può infatti essere data con ogni mezzo.

11. – Anche a seguito della Riforma del 1975 è rimasto il divieto di riconoscimento dei figli c.d.
«incestuosi», ossia nati da genitori uniti da vincoli di parentela o affinità quali impedimenti non
dispensabili. Il riconoscimento può essere autorizzato dal tribunale solo se i genitori o il genitore
erano in buona fede, cioè ignoravano l'esistenza del loro rapporto familiare.
Il codice aveva correlativamente sancito il divieto di indagini sulla paternità o maternità dei figli

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non riconoscibili, salvi i casi di ratto o violenza carnale. Con sentenza n. 494 del 28 novembre
2002 la Corte costituzionale ha però dichiarato la incostituzionalità della norma che sancisce tale
divieto (l'art. 278 c.c.).
Al figlio irriconoscibile il codice concede l'azione per il mantenimento, l'educazione e l'istruzione
(art. 270). Tale azione può ritenersi esperibile anche nelle ipotesi in cui l'azione per la
dichiarazione giudiziale di paternità o maternità non venga autorizzata in quanto non conforme
all'interesse del figlio.

12. - La legittimazione indica l'acquisto della qualità di figlio legittimo da parte del figlio naturale
(art. 2801 c.c.).
La legittimazione può aver luogo per susseguente matrimonio dei genitori o per sentenza
(legittimazione giudiziale).
Il figlio naturale acquista automaticamente la qualità di figlio legittimo quando i suoi genitori
contraggono matrimonio (art. 283 c.c.).
La legittimazione giudiziale è dichiarata con sentenza del tribunale. Come condizioni della
legittimazione giudiziale la legge richiede: 1) che sussista l'interesse del figlio; 2) che vi sia
l'istanza del genitore (o dei genitori); 3) che per il genitore istante vi sia l'impossibilità o un
gravissimo ostacolo a contrarre matrimonio con l’altro genitore; 4) che il figlio ultrasedicenne
presti il proprio consenso, salvo che sia stato già riconosciuto. Per il figlio infrasedicenne il
consenso è prestato dall' altro genitore o, in mancanza di questo, da un curatore speciale (art.
284 c.c.).

MODULO XVI

L'adozione

1. Gli istituti dell' adozione


2. L'adozione piena o legittimante
3. La dichiarazione dello stato di adattabilità
4. L'affidamento preadottivo
5. La dichiarazione di adozione
6. L'adozione internazionale
7. L'adozione dei minori stranieri
8. L'adozione di minori italiani
9. L'adozione particolare
10. L'affidamento familiare
11. L'adozione civile

1. - L'adozione è un rapporto di filiazione giuridica che si costituisce tra soggetti non


legati da filiazione di sangue. Nel nostro ordinamento si distinguono tre diversi istituti di
adozione.
La principale figura di adozione è l'adozione del minore abbandonato. Tale adozione, detta
semplicemente adozione o anche adozione piena o legittimante, conferisce all' adottato la
posizione di figlio legittimo degli adottanti. Essa crea quindi un vincolo che si sostituisce
integralmente a quello della filiazione di sangue e che inserisce l'adottato definitivamente ed

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esclusivamente nella nuova famiglia.
Si distingue poi l'adozione particolare, o adozione in casi particolari, la quale consente l'adozione
del minore in alcuni casi in cui non si può ricorrere all'adozione piena. Essa crea un vincolo di
filiazione giuridica che si sovrappone a quello della filiazione di sangue. Il rapporto di
appartenenza alla famiglia di origine non si estingue ma la potestà spetta agli adottanti, che sono
tenuti a mantenere, istruire ed educare l'adottato.
Altro istituto a protezione del minore è l'affidamento familiare, che non crea un rapporto
adottivo ma sopperisce ad una temporanea carenza dell'ambiente familiare
del minore.
L'adozione civile, infine, è l'adozione dei maggiori di età. Essa crea un vincolo di filiazione
giuridica che si aggiunge a quello della filiazione di sangue.
L'adozione è disciplinata dalla legge 4 maggio 1983, n. 184, largamente revisionata dalla l. 28
marzo 2001, n. 149.

2. - L'adozione (detta anche piena o legittimante) conferisce al minore lo stato giuridico di figlio
legittimo degli adottanti, i quali ne divengono genitori a tutti gli effetti (art. 27 1. adoz.). La nuova
famiglia diviene l'unica famiglia del minore: in essa il minore entra a pieno titolo, assumendo il
normale rapporto di parentela con i parenti dei nuovi genitori.
L'istituto dell' adozione risponde ad una precisa esigenza, e cioè quella di consentire al minore
abbandonato di trovare una famiglia che si sostituisca in tutto e definitivamente alla famiglia di
sangue.
L'istituto dell'adozione si pone tra i mezzi giuridici di protezione del minore.
L'adozione può quindi avere applicazione solo a favore del soggetto che non abbia raggiunta l'età
adulta. Il minore quattordicenne dev'essere consenziente e se abbia capacità di discernimento
deve comunque essere ascoltato a prescindere dall' età.
Gli adottanti devono essere uniti in matrimonio da almeno 3 anni.
L'adozione è preclusa alla persona singola. L'adozione da parte de singolo adottante è consentita
solo nell'adozione in casi particolari e nei casi di morte, o incapacità' di uno dei coniugi o
separazione intervenute nel corso dell'affidamento preadottivo.
Gli adottanti devono poi avere idoneità affettiva ed essere capaci di educare, istruire e
mantenere un minore (art. 62 1. adoz.).
Gli adottanti, ancora, devono avere un' età che superi quella dell' adottato di almeno 18 anni ma
non più di 45 (art. 62 1. adoz.).
Sono tuttavia previste alcune deroghe circa il limite massimo di età ed in generale è ammessa la
sua derogabilità quando il tribunale accerti che dalla mancata adozione derivi al minore un
danno grave e non altrimenti evitabile (art. 65 l. adoz.).

3. - La disciplina dell' adozione prevede una fase preliminare rispetto al provvedimento di


adozione. Questa fase comprende la dichiarazione giudiziale dello stato di adottabilità del
minore e l'affidamento preadottivo, cioè l'affidamento sperimentale del minore ai richiedenti
adottanti.
La dichiarazione dello stato di adottabilità è una sentenza del tribunale per i minorenni che
accerta la situazione di abbandono del minore e ne consente l'affidamento preadottivo al fine
dell'adozione.
La situazione di abbandono è indicata dalla legge come mancanza di assistenza morale e
materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi (art. 8 1 1. adoz.).
Al procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità si perviene a seguito della
segnalazione delle situazioni di abbandono al procuratore della Repubblica.
Il procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità può seguire due vie: quella della
volontaria giurisdizione, quando non risultano genitori né parenti, e quella del giudizio
contenzioso, quando risultano genitori o parenti.

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Il tribunale per i minorenni, precisamente, può senz' altro dichiarare lo stato di adottabilità se il
minore è orfano e non vi sono parenti entro il 40 grado che abbiano con lui rapporti significativi.
Nell'ipotesi in cui risulta l'esistenza di genitori o di parenti entro il 4 0 grado, "che abbiano
mantenuto rapporti significativi con il minore”, si instaura un procedimento avente natura
contenziosa. Esso deve svolgersi fin dall'inizio con l'assistenza legale del minore e dei genitori o
degli altri parenti (art. 84 1. adoz.).
A conclusione del procedimento il tribunale dichiara lo stato di adottabilità del minore quando
non appare possibile il suo conveniente recupero alla famiglia (art. 15 1. adoz.).

4. - L'affidamento preadottivo è l'affidamento sperimentale del minore al richiedenti adottanti.


Tale affidamento costituisce un presupposto necessario dell' adozione poiché il definitivo
inserimento del minore nella nuova famiglia esige la prova concreta che questo inserimento sia
suscettibile di realizzarsi in maniera vantaggiosa per il minore.
L'affidamento preadottivo è disposto dal tribunale per i minorenni, il quale sceglie gli affidatari
tra le coppie che hanno presentato domanda di adozione.

5. - Dopo un anno di affidamento preadottivo il tribunale per i minorenni pronunzia l'adozione


oppure dichiara di non far luogo all' adozione.
L'adozione è pronunziata a seguito dell' accertamento dell' esito positivo dell' affidamento,
verificata la sussistenza di tutte le condizioni volute dalla legge (art. 25 l. adoz.).
Il procedimento richiede l'audizione degli affidatari, del tutore, del giudice tutelare e di coloro
che sono stati incaricati di seguire l'affidamento. Deve inoltre essere ascoltato il minore se abbia
compiuto 12 anni, e comunque se abbia capacità di discernimento. Se il minore ha compiuto 14
anni occorre il suo espresso consenso ad essere adottato dalla coppia affidataria.
Il tribunale pronunzia l'adozione mediante sentenza.

6. - L'adozione internazionale è l'adozione di bambini di nazionalità diversa da quella degli


adottanti. Nel suo ambito si distinguono l'adozione di minori stranieri da parte di cittadini
italiani e l'adozione di minori italiani da parte di cittadini stranieri. Fonti della regolamentazione
dell' adozione internazionale sono la Convenzione dell' Aja del 29 maggio 1993, sulla tutela dei
minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, e il titolo 3o della legge sull'
adozione, in larga parte sostituito dalla 1. 31 dicembre 1998, n. 476 (che ha ratificato e dato
esecuzione alla Convenzione ).
La diretta operatività della Convenzione dell'Aja è espressamente affermata dalla legge sull'
adozione, che dichiara l'adozione dei minori aver luogo «conformemente ai principi e secondo le
direttive della Convenzione» (art. 29).
La Convenzione enuncia gli obiettivi di garantire nell' adozione internazionale la realizzazione
del miglior interesse del bambino e il rispetto dei suoi diritti fondamentali, di instaurare a tal
fine un sistema di cooperazione fra gli Stati contraenti, di garantire il riconoscimento in tutti gli
Stati contraenti delle adozioni attuate in conformità della Convenzione (art. 1).
Vengono poi enunciati i presupposti dell' adozione internazionale, per la quale occorre,
precisamente, che le autorità competenti del Paese di origine abbiano stabilito che il minore è
adottabile e abbiano accertato che l'adozione internazionale corrisponde al miglior interesse del
bambino dopo avere debitamente vagliato le possibilità della sua sistemazione nel Paese di
origine.

7. - Punti salienti della disciplina dell' adozione di minori stranieri da parte di cittadini italiani
sono: 1) la dichiarazione di idoneità degli adottanti; 2) la intermediazione necessaria degli enti
autorizzati dalla Commissione per le adozioni internazionali; 3) la preventiva autorizzazione
della Commissione all'ingresso del minore in Italia; 4) la verifica della non contrarietà dei
provvedimenti stranieri ai principi fondamentali del diritto italiano di famiglia e dei minori; 5)

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l'applicazione della legge italiana al minore che si trova in Italia in situazione di abbandono.
1) La dichiarazione di idoneità degli adottanti è l'atto mediante il quale il tribunale accerta, su
loro domanda, che i richiedenti hanno i requisiti per l'adozione (30 1 1. adoz.). In mancanza di
tale dichiarazione non può essere reso efficace in Italia il provvedimento straniero di adozione o
di affidatamento preadottivo.
2) Ottenuta la dichiarazione di idoneità, i coniugi devono rivolgersi esclusivamente ad uno degli
enti autorizzati affinché curi la procedura di adozione (art. 31 1 1. adoz.). L'ente incaricato ha per
legge vari compiti di informazione, consulenza, certificazione, vigilanza, ma nei confronti dei
genitori la sua principale obbligazione è quella di metterli in condizione di incontrare il minore
da adottare nonché di svolgere le necessarie pratiche presso l'autorità straniera, raccogliendo da
questa la proposta di incontro tra gli adottanti e il minore, concordando l'opportunità di
procedere all'adozione e ottenendo il provvedimento di affidamento (art. 31 3 1. adoz.).
3) Successivamente la Commissione per le adozioni internazionali, avendo accertato che
l'adozione risponde all'interesse del minore, e constatata «l'impossibilità di affidamento o di
adozione nello Stato di origine» (art. 322 1. adoz.), lo autorizza ad entrare in Italia e a risiedervi
permanentemente.
Esperiti gli adempimenti da parte dell' ente autorizzato e rilasciata la prevista autorizzazione da
parte della Commissione per le adozioni internazionali, il procedimento di adozione si perfeziona
in Italia.
Il tribunale per i minorenni riconosce il provvedimento dell' autorità straniera come affidamento
preadottivo e, a seguito dell' esito positivo della permanenza del minore nella famiglia affidataria
(1 anno), pronunzia l'adozione.
Nell'ipotesi in cui l'adozione sia stata pronunziata all'estero, il tribunale per i minorenni ordina
la trascrizione del provvedimento di adozione nei registri dello stato civile dopo avere accertato
la ricorrenza dei requisiti richiesti dalla Convenzione dell' Aja (art. 32 3 1. adoz.).

8. - Per adottare un minore italiano i residenti all'estero, siano essi cittadini italiani o stranieri,
devono presentare domanda al console italiano, il quale la inoltra al nostro tribunale per i
minorenni (art. 401 adoz.).
Il console vigila sull' esecuzione dei provvedimenti relativi al minore e se necessario provvede al
suo rimpatrio (art. 413 1. adoz.). Compito specifico è quello di vigilare sull' affidamento
preadottivo, anche attraverso organizzazioni assistenziali locali, e di avvertire il tribunale quando
tale affidamento non abbia un buon andamento (art. 41 2 1. adoz.). Il console, ancora, deve
riferire sulle situazioni di abbandono di minori italiani di cui venga a conoscenza in ragione del
proprio ufficio. L'accertamento di tali situazioni è sempre demandato al tribunale per i
minorenni (art. 433 1. adoz.).
Se si tratta di cittadini stranieri stabilmente residenti in Stati che hanno ratificato la
Convenzione dell' Aja, i compiti del console sono svolti dall'Autorità centrale dello Stato in cui
essi risiedono.

9. - L'adozione particolare (o adozione in casi particolari) conferisce al minore uno stato di figlio
adottivo che non estingue ma si sovrappone al vincolo della filiazione di sangue.
L'adozione particolare non richiede tutti i requisiti legali dell' adozione piena ed è però
consentita solo nei seguenti 4 casi: a) quando il minore è orfano e l'adottante è parente fino al 6°
grado o ha stabilmente instaurato col minore un rapporto di affetto già prima della morte dei
genitori; b) quando l'adottante è coniuge del genitore del minore; c) quando il minore è orfano e
si trova in condizione di disabilità; d) quando vi è la constatata impossibilità di affidamento
preadottivo (art. 441 l. adoz.).
Funzione dell'istituto è quella di inserire il minore in un rapporto familiare non esclusivo al fine
di garantirgli l'adeguata assistenza morale e materiale.
L'adozione particolare non recide i rapporti del minore con la famiglia di origine e la sua

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disciplina si adegua tendenzialmente a quella dell' adozione civile. Potrebbe quindi pensarsi che
essa in sostanza si identifichi con tale istituto. In realtà se ne distacca profondamente perché, a
differenza dell' adozione civile, essa è pur sempre un istituto di adozione minorile ed è
essenzialmente finalizzata all' assistenza del minore.
Per quanto riguarda gli adottanti, questi devono avere capacità affettiva ed essere fisicamente,
moralmente ed economicamente idonei ad assolvere gli obblighi derivanti dalla filiazione e
devono avere un' età che superi di almeno 18 anni quella del minore (44 u.c. 1. adoz.).
Quest'ultima prescrizione, in quanto non prevede la riducibilità dell'intervallo di età nell'ipotesi
di adozione da parte del coniuge del genitore, è stata dichiarata incostituzionale. Non sussiste un
limite massimo di età. L'adozione può essere richiesta singolarmente anche da chi non sia
coniugato e anche da parte di chi abbia già altri figli di sangue o adottivi. L'adozione è
pronunziata con sentenza del tribunale per i minorenni.
L’adozione può essere revocata dal tribunale quando l’adottato si sia reso colpevole di gravi fatti
a danno della persona dell’adottante o dei congiunti di questo (art. 51 l. adoz.). Analogamente, la
revoca può essere pronunziata quando la vittima sia l’adottato (art. 52 l. adoz.).

10. - L'affidamento familiare è un istituto a protezione del minore che non crea un rapporto
adottivo ma sopperisce ad una temporanea carenza dell'ambiente familiare del minore mediante
l'attribuzione provvisoria dell'ufficio di assistenza del minore ad altra famiglia, persona o
comunità di tipo familiare.
L'affidamento familiare non modifica lo stato familiare del minore. I genitori conservano la
titolarità della potestà ma l'esercizio di questa compete agli affidatari, i quali assumono, per il
periodo dell' affidamento, l'obbligo di educare, istruire e mantenere il minore.
Le disposizioni sull'esercizio della potestà (art. 316 c.c.) si applicano in quanto compatibili con la
funzione dell'affidamento familiare. L'esercizio della potestà da parte degli affidatari non può
quindi riguardare le questioni di particolare importanza, salvo che si tratti di questioni urgenti e
risulti impedito l'interpello dei genitori. Agli affidatari è espressamente riservata la gestione delle
questioni scolastiche e sanitarie.
All' affidamento provvede il servizio locale quando i genitori esercenti la potestà o il tutore
abbiano dato il loro assenso. Il provvedimento è reso esecutivo dal giudice tutelare. Se manca
l’assenso dei genitori provvede il tribunale per i minorenni. Cause di cessazione dell'affidamento
sono: l) la recuperata disponibilità della famiglia ad occuparsi convenientemente del minore; 2)
il pregiudizio derivante al minore dalla prosecuzione dell' affidamento; 3) il decorso del tempo
previsto (non superiore a 2 anni, ma eccezionalmente prorogabile dal tribunale).
11. - L'adozione civile (o adozione di persone maggiori di età) conferisce lo stato di figlio
adottivo all'adottato maggiorenne (art. 291 s. c.c.). Lo stato di figlio adottivo si aggiunge al
precedente stato familiare senza modificarlo.
L'adozione civile comporta a) l’assunzione del cognome dell'adottante da parte dell' adottato,
che lo antepone al proprio; b) l’acquisto dei diritti successori da parte dell' adottato nei confronti
dell' adottante; quest'ultimo, invece, non acquista alcun diritto di successione nei confronti dell'
adottato; c) l'obbligo reciproco degli alimenti legali tra adottante e adottato. L’adozione non
comporta il venir meno dei diritti ed obblighi dell' adottato verso la famiglia d'origine né instaura
rapporti di parentela al di fuori del rapporto adottato-adottante.
Oltre a richiedere la maggiore età dell' adottato, l'adozione civile esige che l'adottante abbia
rispetto all' adottato un' anzianità maggiore di almeno 18 anni. L'adozione è consentita ad una
persona sola o ad una coppia di coniugi.
L'adozione civile richiede il consenso dell'adottante (o degli adottanti) e
dell'adottando (art. 296 c.c.). Si richiede inoltre l’assenso dei genitori dell'adottando e
l'assenso del coniuge dell' adottante e del coniuge dell' adottando, che non siano legalmente
separati (art. 311 c.c.). Occorre anche l'assenso dei discendenti maggiorenni dell'adottante.

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L'adozione è pronunziata dal tribunale con sentenza emessa a conclusione di un procedimento
camerale, sentito il pubblico ministero (art. 313 c.c.).
La legge ammette una limitata possibilità di revoca dello stato di figlio adottivo mediante
sentenza del tribunale (art. 305 c.c.). La revoca può essere pronunziata su domanda
dell'adottante in caso di indegnità dell'adottato (art. 306 c.c.), e su domanda dell'adottato in caso
di indegnità dell'adottante (art. 307 c.c.).
MODULO XVII

L'impresa familiare

1. Nozione d'impresa familiare


2. Diritti e poteri dei compartecipi

1. - L'impresa familiare è una comunità paritaria di lavoro fondata sulla solidarietà familiare,
e più precisamente un gruppo di familiari che svolgono un' attività produttiva unitaria
mediante un apporto continuativo di lavoro. I compartecipi hanno il diritto di mantenimento, il
diritto di partecipazione agli utili e agli incrementi e determinati poteri di cogestione (art. 230 bis
c.c.).
L'impresa familiare risponde all'esigenza fondamentale di una tutela appropriata del lavoro
familiare.
Fattispecie costitutiva dell'impresa familiare è lo svolgimento di un'attività economica
continuativa da parte di un gruppo familiare. L'impresa familiare ha quindi la sua fonte nella
legge e non nel contratto.
Il singolo familiare è partecipe dell'impresa in quanto presta continuativamente la sua attività
lavorativa in essa o anche nella famiglia. La prestazione di lavoro nella famiglia deve comunque
essere funzionale e all' attività dell'impresa.
Compartecipi dell'impresa familiare possono essere il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli
affini entro il secondo.

2. - Il compartecipe all'impresa familiare ha il diritto di mantenimento secondo la condizione


patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili, agli acquisti e agli incrementi in proporzione
alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 230 bis c.c.).
I compartecipi deliberano a maggioranza i modi di impiego degli utili e degli incrementi, gli
indirizzi produttivi, la cessazione dell'impresa e, in generale, tutti gli atti di straordinaria
gestione. Atti di straordinaria gestione devono intendersi quelli che non rientrano nella normale
amministrazione aziendale e che sono quindi suscettibili di alterare la consistenza dell' azienda.
L'ordinaria gestione spetta di regola al compartecipe che assume la veste di imprenditore, che
cioè compie in nome proprio gli atti di esercizio dell'impresa.

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MODULO XVIII

1. Gli alimenti legali

1. - Gli alimenti legali sono le prestazioni di assistenza materiale dovute per legge alla persona
che si trova in stato di bisogno economico (art. 433 s. c.c.).
Gli alimenti hanno di regola causa nella solidarietà familiare, alla quale è ancora largamente
rimessa la tutela dell' essere umano in stato di bisogno.
L'obbligo degli alimenti legali grava sui congiunti in ordine di prossimità.
Agli alimenti sono tenuti: il coniuge quando non sussista l'obbligo di
mantenimento (precisamente, il coniuge separato con addebito); i figli, siano essi di sangue o
adottivi, e, in loro mancanza; i discendenti; gli adottanti; i genitori e, in loro mancanza, gli
ascendenti; i generi e le nuore; i suoceri; i fratelli e le sorelle germani; i fratelli e le sorelle
unilaterali (cioè aventi in comune un solo genitore).
Presupposti dell' obbligazione alimentare sono la situazione di bisogno dell'alimentando e la
disponibilità economica dell'alimentante.
La situazione di bisogno deve essere intesa quale incapacità della persona di provvedere alle
fondamentali esigenze di vita.
La disponibilità economica dell' alimentante deve ravvisarsi quando questi abbia un reddito che
superi quanto necessario a soddisfare normalmente le fondamentali esigenze di vita, sue e della
famiglia a carico.
Il contenuto dell' obbligazione alimentare si determina anzitutto in relazione alla situazione di
bisogno dell' alimentando, imponendo all' obbligato di prestare quanto occorre per consentire
all' alimentando di soddisfare le sue fondamentali esigenze di vita. Queste richiedono il vitto,
l'alloggio, il vestiario e, oltre, quei beni e servizi che nell' attuale società occorrono per godere un
minimo di vita dignitosa.
Il diritto agli alimenti è strettamente personale. Esso è insuscettibile di cessione e
compensazione.

MODULO XIX

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La successione a causa di morte

1. Nozione di successione a causa di morte


2. La capacità successoria
3. L’indegnità
4. Il divieto dei patti successori
5. Il patto di famiglia
6. La delazione
7. Poteri del chiamato prima dell’accettazione dell’eredità
8. L’eredità giacente

1. – La successione a causa di morte indica la vicenda traslativa dei diritti di una persona a
seguito della sua morte.
La morte estingue la capacità giuridica della persona ed estingue i diritti ad essa inerenti, cioè i
diritti personali. La morte della persona non estingue invece, di massima, i suoi diritti
patrimoniali, e ne impone piuttosto la trasmissione ad altri. Questa trasmissione dei diritti della
persona a seguito della sua morte integra la vicenda della successione a causa di morte, quale
successione che ha nella morte il suo presupposto necessario.
La morte non è solamente presupposto necessario della successione ma è anche ragione
giustificativa di essa, nel senso che la successione assolve la funzione di dare assetto ai diritti
della persona a seguito della sua morte. In quanto la successione risponde all’esigenza di dare
assetto ai diritti della persona a seguito della sua morte, essa può dirsi a causa di morte.

2. - La capacità successoria può definirsi come l’idoneità del soggetto ad essere titolare del diritto
di succedere a causa di morte. Tale capacità rientra nella capacità giuridica generale e compete a
tutte le persone fisiche e agli enti giuridici.
La legge riconosce espressamente la capacità successoria anche a coloro che sono concepiti al
tempo dell'apertura della successione (art. 462 1 c.c.).
Chi nasce entro i 300 giorni dalla morte dell'ereditando si presume già concepito al momento
dell' apertura della successione.
La capacità del concepito è una capacità provvisoria che si cancella retroattivamente se non
segue l'evento fisiologico della nascita. La delazione della successione a favore del concepito è
pertanto una delazione sottoposta alla condizione legale risolutiva della mancata nascita del
chiamato.
Il concepito ha nel genitore esercente la potestà il suo rappresentante legale (art. 320 1 c.c.). Con
l'autorizzazione del giudice tutelare il genitore accetta o rinunzia all'eredità e ai legati in nome e
nell'interesse del concepito (art. 3203 c.c.).
Il nascituro non concepito al momento dell' apertura della successione non ha capacità
successoria. La legge consente tuttavia che possa essere destinatario di disposizioni
testamentarie anche il nascituro non concepito al tempo dell' apertura della successione purché
in tale tempo sia vivente il suo genitore (art. 462 3 c.c.).
L'istituzione ereditaria del non concepito è disciplinata come una istituzione sotto condizione
sospensiva. Fino a quando è incerto se il chiamato verrà o no ad esistenza la delazione rimane
sospesa e l'eredità è gestita da un amministratore (art. 643 1 c.c.).
Secondo le regole dell'istituzione di erede sotto condizione sospensiva, l'amministrazione dell'
eredità spetta alla persona a favore della quale è stata disposta la sostituzione ovvero ai coeredi
con diritto di accrescimento ovvero al presunto erede legittimo (art. 642 1-2 c.c.).

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Particolari incapacità successorie derivano dai divieti di ricevere per testamento sanciti a carico
del tutore, del notaio, ecc. (art. 596 s. c.c.).
Il divieto legale di succedere è sancito a carico dell’indegno (n. 3).

3. - La legge dichiara escluso dalla successione come indegno chi si sia reso colpevole di offese
gravi alla persona o alla libertà testamentaria dell'ereditando, cioè della persona della cui eredità
si tratta (art. 463 c.c.).
L'indegnità, precisamente, colpisce chi abbia volontariamente ucciso o tentato di uccidere
l'ereditando o un suo stretto congiunto, chi abbia denunziato calunniosamente tali persone o
abbia falsamente testimoniato contro di esse, chi abbia falsificato un testamento o ne abbia
consapevolmente approfittato, ecc.
L'indegnità è una sanzione civile che ha fondamento nella ripugnanza sociale a consentire che
chi abbia gravemente offeso la persona dell'ereditando o la sua libertà testamentaria possa trarre
profitto dall'eredità dell' offeso.
L'interpretazione prevalente ravvisa nell'indegnità una forma di sanzione applicata dal giudice a
carico del chiamato all' eredità. L'esclusione sarebbe cioè l'effetto costitutivo di una pronunzia
giudiziale. Questa interpretazione comporta che senza l'iniziativa di un' azione esercitata da un
interessato per fare dichiarare l'indegnità, l'indegno conserva i suoi diritti successori, e può
conservarli definitivamente quando l'azione sia caduta in prescrizione. Si ritiene infatti che
l'azione di indegnità si prescriva nel termine ordinario decennale e che essa possa formare
oggetto di rinunzia e transazione.
Più aderente al dettato della norma e al fondamento di essa, è per altro la tesi che ravvisa nella
indegnità una forma di incapacità successoria.
La legge consente la riabilitazione dell'indegno da parte dell'ereditando. La riabilitazione è un
atto giuridico di perdono privato col quale l'offeso rimette l'offesa ricevuta. La riabilitazione
richiede a pena di nullità la forma dell' atto pubblico. Essa può anche essere contenuta in un
testamento.
La volontà di riabilitare l'indegno deve risultare in modo espresso.
La legge ammette una riabilitazione tacita nel caso in cui l'ereditando, pur conoscendo la causa
dell'indegnità, nomini l'indegno erede o legatario. In tal caso, tuttavia, l'indegno può succedere
solo nei limiti dell' attribuzione testamentaria (art. 466 c.c.).
Anteriormente all' apertura della successione nessun diritto spetta agli eventuali successibili né
come pretesa sull' eredità e neppure come aspettativa giuridica.
Agli stretti congiunti la legge riserva una quota del patrimonio del defunto, ma il diritto dei
legittimari sorge solo al momento della morte dell'ereditando. Fino a quando l'ereditando è in
vita, egli può disporre come crede dei propri beni e i futuri legittimari non possono opporsi agli
atti di disposizione né possono chiedere atti conservativi o cautelativi proprio perché essi non
hanno alcun diritto sull'eredità, sia pure condizionato.
La mancanza di un qualche diritto sull'eredità prima dell'apertura della successione deve essere
ribadita anche per i parenti non legittimari e per coloro che sono designati in un testamento. La
mancanza di una pretesa tutelata sull' eredità trova qui un ulteriore riscontro nel principio della
libertà testamentaria e nella conseguente precarietà della designazione legittima o testamentaria
fino al momento in cui l'ereditando è in vita. L'ereditando, cioè, è libero di disporre come crede
dei propri beni ed è anche libero di disporne per testamento, che è un atto essenzialmente
revocabile.

4. - Il nostro ordinamento sancisce il divieto dei patti successori, cioè dei negozi che
attribuiscono o negano diritti su una successione non ancora aperta (art. 458 c.c.).
Sotto l’ampia denominazione di patti successori si distinguono tradizionalmente i patti
successori istitutivi, dispositivi e rinunciativi.

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Il patto successorio istitutivo è il patto col quale il soggetto dispone della propria successione.
Il suo divieto trovata fondamentale ragione nell’esigenza di tutela della libertà testamentaria, e
cioè nell’esigenza di assicurare alla persona la facoltà di disporre liberamente dei propri beni
mediante testamento.
Oltre al patto istitutivo la legge vieta, anche i negozi mediante i quali il soggetto dispone o
rinunzia ai diritti che gli potranno spettare su una successione non ancora aperta (c.d. patti
dispositivi e rinunciativi).
La ragione del divieto è qui da ravvisare nella radicata ripugnanza sociale verso tutti gli atti di
speculazione sull’eredità di persona ancora vivente.

5. – Il patto di famiglia è il contratto mediante il quale l’imprenditore o il titolare di quote sociali


trasferiscono, in tutto o in parte, l’azienda o le quote sociali ai propri discendenti (art. 768 bis
c.c.).
Al contratto partecipano il coniuge e i soggetti che avrebbero diritto alla legittima se la
successione si aprisse in quel momento.
Gli assegnatari dell’azienda o delle quote sociali devono corrispondere agli altri partecipanti al
contratto il valore delle loro quote di riserva o, se consenzienti, tacitarli in natura (art. 768
quater2 c.c.).
Quanto ricevuto dai contraenti non assegnatari dell’azienda viene imputato alla loro quota di
legittima (art. 768 quater3 c.c.).
All’apertura della successione il coniuge e gli altri legittimari non partecipanti al contratto
possono chiedere ai beneficiari del contratto la liquidazione delle loro quote mediante il
pagamento delle somme determinate in conformità del contratto oltre agli interessi legali (768
sexies c.c.).
Il contratto dev’essere stipulato per atto pubblico a pena di nullità (art. 768 ter c.c.).
L’azione di annullamento per vizi del consenso si prescrive nel termine di un anno (768
quinquies c.c.).
Il patto di famiglia è stato introdotto per salvaguardare la continuità dell’impresa evitando per
quanto possibile la disgregazione dell’azienda o della società conseguente alla divisione
ereditaria.
Il disponente trasferisce in vita l’azienda e le quote sociali agli assegnatari e sotto questo
riguardo non vi è una deroga al divieto dei patti successori. La deroga consiste piuttosto in ciò,
che il contrasto preclude ai non assegnatari di agire in riduzione della loro legittima.

6. - Con la morte della persona si apre la successione (art. 456 c.c.).


L’apertura della successione non comporta l’automatica trasmissione dell’eredità ai successori. A
seguito dell’apertura della successione coloro che sono chiamati a succedere hanno il diritto di
far propria l’eredità: ma l’acquisto dipende da una loro manifestazione di volontà, l’accettazione
(mod. XIX).
L’investitura in capo al chiamato del diritto di succedere prende il nome di delazione.
La delazione è sospesa nei casi di disposizione testamentaria sottoposta a condizione sospensiva
e di disposizione in favore di nascituro non concepito e di ente da costituire.

7. – Nel tempo che intercorre tra la delazione e l’accettazione il chiamato non è ancora erede ma
ha tuttavia poteri di conservazione e di amministrazione temporanea dell’eredità.
Il chiamato può anzitutto esercitare le azioni possessorie (art. 1168 s. c.c.) a tutela dei beni
ereditari (art. 4601 c.c.). La legittimazione all’esercizio di tali azioni comporta la legittimazione a
succedere nei giudizi possessori già iniziati dal defunto (art. 110 c.p.c.) e a proporre nuove azioni
possessorie per fatti precedenti o susseguenti all’apertura della successione.
La legittimazione del chiamato discende dalla specifica attribuzione della legge e non dalla
posizione di possessore. Il chiamato, infatti, può esercitare le azioni abbia o no appreso

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materialmente i beni ereditari (art. 4601 c.c.). Ma anche l’apprensione meteriale dei beni
ereditari non importa nel chiamato la posizione di possessore, in quanto egli non esercita sui
beni un potere corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale (art.
11401 c.c.) bensì un potere provvisorio per conto di chi spetta. La sua posizione è pertanto di
detentore dei beni.
Se per altro il chiamato accetta l’eredità, egli diviene possessore a far data dal momento di
apertura della successione (art. 11461 c.c.).
Il chiamato è poi legittimato a compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione
temporanea (art. 4602 c.c.).
Atti conservativi sono le domande di provvedimenti urgenti a difesa dell’eredità nonchè gli atti di
resistenza giudiziale contro le altrui pretese sui beni ereditari. Sono atti conservativi, ancora,
tutti gli atti giuridici extragiudiziali diretti a preservare la perdita di diritti ereditari (ad es., atti di
interruzione della prescrizione).
Il chiamato può compiere, infine, atti di ordinaria amministrazione e con l’autorizzazione del
tribunale può anche vendere i beni ereditari.
La vendita di beni ereditari senza l’autorizzazione giudiziale comporta per il chiamato (salvo che
incapace) l’accettazione dell’eredità.
I poteri provvisori di conservazione e amministrazione dell’eredità non spettano al chiamato se è
stato nominato un curatore dell’eredità.

8. – L’eredità giacente è il patrimonio ereditario quando il chiamato non ne ha la disponibilità di


fatto non ha ancora accettato l’eredità (art. 528 1 c.c.).
La legge prevede in tal caso la nomina di un curatore.
Il curatore dell’eredità giacente è nominato con decreto del tribunale. Esso è titolare di un ufficio
privato conferitogli dalla legge per la tutela di un interesse altrui, quello degli eredi.
Nell’esercizio del suo ufficio il curatore assume la gestione dei beni ereditari provvedendo
all’ordinaria amministrazione. Con l’autorizzazione del tribunale il curatore può compiere anche
gli atti di liquidazione del patrimonio e altri atti di straordinaria amministrazione nei casi di
necessità o utilità evidente (art. 783 c.p.c.).

9. - L’esecutore testamentario è la persona incaricata dal defunto di curare l’esecuzione delle sue
disposizioni di ultima volontà (art. 703 c.c.).
La facoltà del testatore di nominare uno o più esecutori testamentari è espressamente prevista
dalla legge (art. 700 c.c.), ed essa rientra pertanto tra le disposizioni di contenuto non
patrimoniale che la legge consente siano contenute nel testamento (art. 587 c.c.).
La nomina dell’esecutore deve essere accettata in forma espressa e solenne. L’esecutore è titolare
di un ufficio privato.
Nell’esercizio del suo ufficio l’esecutore testamentario provvede al pagamento dei debiti ereditari
e dei legati nonchè all’adempimento degli oneri testamentari (art. 647 c.c.).
All’esecutore che non sia erede o legatario il testatore può anche assegnare il compito di
procedere alla divisione dell’eredità (art. 706 c.c.).
Se il chiamato all’eredità ha accettato, l’esecutore testamentario deve consegnargli i beni
ereditari che non sono necessari all’esercizio del suo ufficio (art. 707 c.c.).
La legge non stabilisce la durata dell’ufficio dell’esecutore testamentario ma stabilisce la durata
massima del suo possesso dei beni ereditari e, quindi, della sua attività di amministrazione (un
anno rinnovabile) (art. 703 c.c.).

10.- La rappresentazione designa il subingresso legale dei discendenti (c.d. rappresentanti) nel
luogo e nel grado dell’ascendente (c.d. rappresentato) che non può o non vuole succedere (art.
467 c.c.). La rappresentazione precisamente fa subentrare i discendenti (nati o concepiti) nello

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stesso diritto di successione al quale il loro ascendente ha rinunziato o che non ha potuto
esercitare per premorienza all’ereditando o indegnità.
Primo presupposto soggettivo della rappresentazione è che il rappresentato sia un figlio o un
fratello del defunto.
Essa non è quindi generalmente applicabile a tutte le ipotesi di cui un successibile non possa o
non voglia succedere, ma un istituto tradizionalmente diretto a conservare i beni alle stirpi
familiari di coloro che sono figli o fratelli dell’ereditando.
Oltre che figlio o fratello, il rappresentato può essere discendente del figlio o del fratello del
defunto.
Il secondo presupposto riguarda la persona del rappresentante, il quale deve essere un
discendente del rappresentato.
La rappresentazione opera in infinito (art. 469 c.c.), e quindi se un rappresentante non può o no
vuole accettare subentrano a loro volta i suoi discendenti, e così via.
La rappresentazione fa subentrare i rappresentanti nel luogo e nel grado successorio del
rappresentato (art. 467 c.c.). Ciò significa che i rappresentanti acquistano complessivamente il
diritto successorio che è spettato o sarebbe spettato al loro ascendente.
Non si fa luogo a rappresentazione se il testatore ha nominato un sostituto (n. 11).

11. - La sostituzione ordinaria (o volgare) è la designazione successiva fatta dal testatore per il
caso in cui il primo designato non possa o non voglia succedere (art. 688 c.c.).
La mancata attuazione della prima istituzione è stata intesa in dottrina come una condizione
della disposizione sostitutiva.
La sostituzione può essere plurima nel senso che il testatore può sostituire più persone ad una
sola. La legge prevede anche che il testatore può sostituire una sola persona a più designati (art.
689 c.c.).
La sostituzione può inoltre essere consecutiva, nel senso che essa può essere disposta
consecutivamente anche per il caso in cui neppure il sostituito possa o voglia succedere.
La sostituzione può ancora essere reciproca, nel senso che essa può essere disposta
reciprocamente tra più designati in via primaria (il testatore, ad es., nomina eredi A, B e C
disponendo che se uno dei tre non possa o non voglia accettare, gli altri siano chiamati in
sostituzione).

12. - L'accrescimento è l'automatica inclusione della quota vacante nelle quote degli altri coeredi
o collegatari (art. 674 c.c.). Nella vicenda dell'accrescimento, precisamente, la quota di chi non
può o non vuole succedere si aggiunge alle quote di coloro che sono chiamati congiuntamente
alla stessa eredità o nominati legatari dello stesso bene.
L'accrescimento tra coeredi richiede la chiamata congiuntiva.
L'accrescimento presuppone che più eredi siano istituiti col medesimo testamento nella
universalità dei beni ovvero nella stessa quota senza determinazione di parti o in parti eguali.
Nella successione a titolo particolare l'accrescimento ha luogo quando il bene sia legato a più
collegatari senza determinazione di parti o in parti eguali, sia pure con diversi testamenti (art.
675 c.c.).
L’accrescimento è precluso sia dalla sostituzione che dalla rappresentazione.

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MODULO XX

Accettazione, rinunzia. Petizione di eredità

1. L'atto di accettazione
2. Il beneficio d'inventario
3. Rinunzia all'eredità
4. La separazione dei beni ereditari
5. La petizione di eredità
6. L'erede apparente

1. - L'eredità si trasmette al chiamato a seguito della sua accettazione.


L'accettazione dell'eredità è l'atto negoziale unilaterale mediante il quale il chiamato fa propria
l'eredità che gli è conferita per legge o per testamento. Con l'accettazione il soggetto passa dalla
posizione di chiamato a quella di successore universale del defunto, cioè di erede.
L'accettazione può essere espressa o tacita. L'accettazione espressa è una dichiarazione resa in
forma di atto pubblico o di scrittura privata con la quale il chiamato manifesta la sua attuale
volontà di acquisire l'eredità o di assumere il titolo di erede (art. 4751 c.c.).
L'accettazione tacita è una manifestazione implicita della volontà di accettare l'eredità che si
riscontra nel compimento di atti che presuppongono necessariamente la posizione di erede (art.
476 c.c.). L'accettazione tacita deve ravvisarsi, cosÌ, nei casi in cui il chiamato aliena beni
ereditari o esercita azioni ereditarie, salvo che si tratti di atti autorizzati dal giudice.

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La legge indica taluni specifici atti che importano accettazione dell' eredità. Essi sono la cessione
dei diritti di successione (art. 477 c.c.) e la rinunzia agli stessi verso un corrispettivo o a favore di
alcuni soltanto dei chiamati (art. 478 c.c.).
L'accettazione tacita non può aver luogo con riguardo agli incapaci legali e agli enti giuridici, per
i quali l'accettazione dev'essere fatta con beneficio d'inventario a pena di nullità.
Un' accettazione legale dell' eredità, che prescinde dalla volontà del chiamato, ricorre
nell'ipotesi in cui il chiamato all' eredità in possesso dei beni ereditari non procede
all'inventario entro il termine stabilito (3 mesi). Il chiamato che non esegue tale onere entro il
termine legale o prorogato diviene per ciò stesso erede senza beneficio d'inventario (art. 485 2
c.c.).
Il diritto del chiamato non in possesso dei beni ereditari di accettare l’eredità si prescrive nel
termine di 10 anni (art. 4801 c.c.).
Il diritto di accettare l'eredità è pure soggetto a decadenza. Precisamente, il chiamato ulteriore, e
comunque chi vi ha interesse, possono chiedere al giudice di fissare un termine entro il quale il
primo chiamato deve decidersi se accettare o meno l'eredità: in mancanza di accettazione il
diritto si estingue (art. 481 c.c.) (c.d. azione interrogatoria).
Altra ipotesi di decadenza è collegata all'inventario eseguito dal chiamato che non è nel possesso
dei beni ereditari. Compiuto l'inventario, il chiamato ha l'onere di accettare entro 40 giorni. In
mancanza, decade dal diritto di accettare l'eredità (art. 481 c.c.) (non se si tratti di incapace).
2. - Il beneficio d'inventario è la limitazione legale della responsabilità patrimoniale dell' erede
per i debiti ereditari e per i legati e oneri entro il valore dell'eredità ricevuta (art. 484 s. c.c.).
Il beneficio d'inventario dipende dalla scelta del chiamato, il
quale ha l'onere di specificare nell'atto di accettazione che intende avvalersi di tale beneficio.
L'accettazione con beneficio d'inventario è obbligatoria quando si tratta di eredità devolute a
incapaci (minori, interdetti, inabilitati) ed a enti giuridici diversi dalle società (associazioni,
fondazioni, ecc.) (art. 471, 472, 473 c.c.).
La limitazione della responsabilità dell' erede per i debiti ereditari entro il limite del valore dell'
asse ereditario comporta di massima che i creditori e i legatari non possono aggredire i beni
personali dell'erede.
Altro effetto è quello della separazione del patrimonio ereditario a favore dei creditori dell'
eredità e legatari rispetto ai creditori dell' erede (490, n. 3, c.c.). I creditori dell'eredità e i legatari
hanno cioè un diritto di prelazione rispetto ai creditori personali dell' erede, i quali possono
aggredire solo il patrimonio ereditario che residua dopo l'estinzione delle passività ereditarie.
L'accettazione con beneficio d'inventario richiede essenzialmente la forma dell' atto pubblico
ricevuto da un notaio o dal cancelliere del tribunale dell'aperta successione (art. 484 1 c.c.).
Per quanto attiene ai termini entro i quali il chiamato può accettare col beneficio d'inventario,
occorre distinguere secondo che sia o non sia nel possesso dei beni ereditari.
Se il chiamato non è nel possesso dei beni ereditari l'accettazione con beneficio d'inventario non
è soggetta a particolari termini. Fino a quando conserva il diritto di accettare l'eredità, il
chiamato può sempre accettare utilmente anche con beneficio d'inventario.
Compiuto l'inventario, il chiamato ha invece solo 40 giorni di tempo per accettare con o senza
beneficio d'inventario. Decorso inutilmente tale termine, il chiamato perde il diritto di accettare
l'eredità (art. 4873 c.c.).
Se il chiamato è nel possesso dei beni ereditari, egli ha l'onere di eseguire l'inventario entro tre
mesi dall'apertura della successione. In mancanza, egli diviene erede puro e semplice. Compiuto
l'inventario, ha poi 40 giorni di tempo per rinunziare o fare l'accettazione formale con beneficio
d'inventario (art. 4853 c.c.). Trascorso inutilmente tale termine, il chiamato è considerato erede
puro e semplice, salvo che si tratti di un incapace.
L'erede con beneficio d'inventario gestisce il patrimonio ereditario anche nell' interesse dei
creditori dell' eredità e dei legatari, e risponde per colpa grave.
L'attività di gestione comprende quella del pagamento dei debiti ereditari e dei legati. Il

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pagamento può avvenire con liquidazione semplice, e cioè senza particolari formalità, o con
liquidazione concorsuale.
Nella liquidazione semplice l'erede paga i creditori via via che questi lo richiedono e fino
all'esaurimento dell'attivo ereditario (art. 4941 c.c.). Tra più richieste l'erede deve preferire i
crediti privilegiati generali secondo il loro ordine e se procede all'alienazione dei beni deve
comunque dare la preferenza ai crediti muniti di ipoteca, pegno o privilegio speciale sui beni
venduti.
La liquidazione concorsuale può essere adottata a scelta dell'erede (art. 503 c.c.) ovvero su
richiesta dei creditori o legatari (art. 4981 c.c.).
La liquidazione concorsuale è una procedura formale di estinzione delle passività ereditarie
diretta a garantire la pari condizione dei creditori dell'eredità e dei legatari. Le fasi di questa
liquidazione sono: a) l'invito ai creditori dell'eredità e ai legatari a presentare le dichiarazioni di
credito; b) la formazione dello stato di graduazione nel quale i creditori e i legati sono collocati
secondo il loro grado di preferenza; c) la liquidazione delle attività ereditarie e il soddisfacimento
di crediti e legati secondo lo stato di graduazione o in percentuale se l'attivo non basta a
estinguere i crediti di pari grado; d) il soddisfacimento dei crediti e legati non insinuati nello
stato di graduazione.
Anzichè estinguere direttamente le passività, l'erede può procedere al rilascio dei beni ereditari
ai creditori e ai legatari (art. 5071 c.c.).
Il rilascio dei beni ha gli effetti e la funzione della generale figura della cessione dei beni ai
creditori (art. 1977 c.c.).
Alla liquidazione dei beni ereditari procede un curatore nominato dal tribunale.
L’eventuale residuo della liquidazione spetta all’erede.

L'erede decade dal beneficio d'inventario, quando dispone dei beni ereditari senza
l'autorizzazione giudiziale ovvero altera in mala fede l'inventario o sottrae o nasconde beni
ereditari. Altre cause di decadenza sono previste per l'inosservanza degli oneri relativi alla
procedura concorsuale.

3. - La rinunzia all'eredità è il negozio unilaterale mediante il quale il chiamato dismette il suo


diritto di accettare l'eredità.
Divenuto erede, il chiamato non può più rinunziare (semel heres, semper heres).
Come l'accettazione, la rinunzia è nulla se sottoposta a termine o condizione.
E' nulla inoltre la rinunzia parziale (art. 520 c.c.).
La rinunzia può essere abdicativa o traslativa.
La rinunzia traslativa è un atto negoziale di disposizione mediante il quale il chiamato dispone
del proprio diritto successorio per ricavarne un prezzo o per beneficiare determinati destinatari.
Essa comporta accettazione dell'eredità (art. 478 c.c.).
La rinunzia abdicativa è la rinunzia fatta gratuitamente e in favore di tutti gli ulteriori chiamati.
Essa è la rinunzia in senso proprio, cioè l'atto diretto esclusivamente alla dismissione del diritto
del rinunziante.
La rinunzia deve farsi mediante dichiarazione ricevuta da un notaio o dal cancelliere del
tribunale del luogo dell'apertura successione (art. 5191 c.c.).
L'effetto della rinunzia è la perdita del diritto all'eredità. Questo effetto è indicato dalla legge nel
senso che il rinunziante è considerato come se mai fosse stato chiamato (retroattività della
rinunzia) (art. 5211 c.c.).
Il chiamato può tuttavia revocare la rinunzia fino a quando l'eredità non sia stata acquistata dagli
ulteriori chiamati. La revoca si realizza esclusivamente mediante l'accettazione dell' eredità e non
può pregiudicare le ragioni acquistate dai terzi sui beni dell'eredità (art. 525 c.c.).
La rinunzia all'eredità non importa rinunzia ai legati.

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I creditori del rinunziante hanno il diritto di accettare in nome e in luogo del rinunziante al fine
di soddisfarsi sui beni ereditari (art. 524 c.c.).
Questo rimedio accordato ai creditori del rinunziante non costituisce un'impugnazione della
rinunzia in quanto non è diretto a far valere una invalidità della stessa. Deve escludersi, ancora,
che si tratti di una revocatoria. Il rimedio non è infatti diretto a rendere inefficace un atto di
disposizione del patrimonio ma piuttosto ad acquisire l'eredità nella sfera del debitore sia pure al
solo fine di soddisfare i crediti insoluti.
L'accettazione dev'essere autorizzata dal giudice.
In quanto l'accettazione è fatta in nome e in luogo del rinunziante, essa non comporta alcun
acquisto in capo ai creditori, i quali non diventano sicuramente eredi del defunto. Erede deve
piutto considerarsi il rinunziante sia pure nella stretta misura in cui l'acquisto dei beni ereditari
vale a soddisfare le pretese dei suoi creditori.
Se al soddisfacimento dei debiti del rinunziante occorre solo una parte dell'attivo ereditario, la
parte residua è di spettanza dell' erede chiamato a seguito della rinunzia del primo chiamato.

4. - La separazione dei beni ereditari è il diritto di preferenza che i creditori del defunto e i
legatari possono ottenere sui beni ereditari rispetto ai creditori dell' erede (art. 512 1 c.c.). La
separazione comporta precisamente che i creditori e i legatari separatisti possono soddisfarsi sui
beni separati con prelazione rispetto ai creditori dell' erede.
Il diritto di prelazione spetta solo ai separatisti, e cioè a coloro che esercitano nelle forme
prescritte il diritto di separazione. Il diritto deve essere esercitato a pena di decadenza entro 3
mesi dall'apertura della successione (art. 516 c.c.).
La separazione consente di evitare il pregiudizio che la confusione dei due patrimoni, quello del
defunto e quello dell' erede, può arrecare alle ragioni dei creditori dell'eredità. Il pregiudizio,
precisamente, consiste nella diminuzione relativa della garanzia patrimoniale nel caso in cui
l'erede non abbia un patrimonio sufficiente a coprire i propri debiti.
Rispetto ai legatari i creditori del defunto sono preferiti anche se non separatisti.

Con riguardo ai beni mobili la separazione si esercita mediante la domanda di un apposito


provvedimento giudiziale (art. 517 c.c.).
Con riguardo ai beni immobili e ai beni mobili registrati, la separazione è esercitata direttamente
mediante iscrizione del credito o del legato e della dichiarazione di separazione nei registri
immobiliari (o negli altri registri delle trascrizioni).
Tutte le iscrizioni di separazione prendono il grado della prima (art. 518 2 c.c.).
Ne consegue che tali iscrizioni prevalgono comunque su quelle trascrizioni e iscrizioni ipotecarie
contro l'erede che siano state eseguite dopo la prima iscrizione di separazione.

5. - La legge prevede espressamente che l'erede possa agire in ogni tempo per il riconoscimento
della sua qualità allo scopo di conseguire i beni ereditari. Seguendo la tradizione questa azione
prende il nome di petizione di eredità. La petizione di eredità è precisamente l'azione mediante
la quale l'erede chiede l'accertamento della sua qualità per conseguire la restituzione dei beni
ereditari da chi li possiede come erede o senza titolo (art. 5331 c.c.).
La petizione di eredità è quindi un' azione a tutela dell' erede contro chiunque usurpa i beni
ereditari.
Anche quando sia diretta al conseguimento di singoli beni ereditari la petizione di eredità è un'
azione a carattere universale, in quanto avente ad oggetto beni intesi come componenti
l'universalità dell'asse ereditario indipendentemente dallo specifico titolo in base al quale il
defunto ne aveva il possesso.
L'azione è imprescrittibile.
6. - L'erede può agire per il recupero dei beni ereditari anche nei confronti dei terzi aventi causa,

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cioè nei confronti di coloro che hanno acquistato i beni da parte di chi ne abbia disposto in
qualità di erede. La legge pone tuttavia un principio di tutela a favore degli aventi causa a titolo
oneroso che abbiano contrattato in buona fede con un erede apparente (art. 5342 c.c.).
Erede apparente è colui che circostanze obiettive indicano come successore dell' ereditando
mentre in realtà non è tale.
La norma sulla tutela dei terzi di buona fede menziona solo i diritti acquistati per effetto di
convenzioni a titolo oneroso con "l'erede apparente". Essa non fa parola del legatario, ma
l'equiparazione del legatario s'impone in via di analogia.
MODULO XXI

La successione necessaria

1. Il diritto di legittima
2. Determinazione della legittima
3. Le categorie di legittimari. Il coniuge
4. I figli. Gli ascendenti.
5. Il legato in sostituzione di legittima
6. Legato e donazione in conto di legittima
7. Legato e donazione in conto della disponibile
8. Divieto di pesi e condizioni sulla legittima
9. La cautela sociniana
10. L'azione di riduzione
11. Riduzione delle disposizioni testamentarie
12. Riduzione delle donazioni
13. Restituzione dei beni a seguito dell' azione di riduzione

1. - La legittima è il diritto di successione che spetta agli stretti congiunti anche contro la
volontà del defunto. Legittimari, e cioè titolari del diritto di legittima, sono il coniuge, i figli e, in
mancanza di questi, gli ascendenti.
Ai legittimari la legge garantisce in via successoria una quota di valore della massa fittiziamente
formata dai beni dell' asse ereditario e dai beni donati in vita dal
defunto (relitto più donato).
Il diritto di legittima non è quindi una legittima qualitativa, non è cioè un diritto su determinati
beni del defunto ma un diritto ad una quota di valore sul patrimonio ereditario e sui beni donati
dal defunto (la massa).
La legittima prende anche il nome di riserva perché essa appunto garantisce il diritto di
successione di fronte ad una diversa volontà del testatore. In questo senso, la successione dei
legittimari è chiamata comunemente successione necessaria.
La successione necessaria può essere qualificata come successione legittima poiché si tratta di
successione che ha titolo nella legge, e cioè in un diritto successorio legalmente attribuito al
successibile. Nel sistema del codice la successione necessaria è tuttavia distinta rispetto alla
successione legittima intesa restrittivamente come la successione intestata e cioè come la
successione che si apre sull' eredità di cui il defunto non abbia disposto mediante testamento.

2. - Per determinare la legittima spettante ai legittimari occorre precisamente calcolare il valore


dei beni ereditari (relitti), e cioè dei beni appartenenti al defunto al tempo della morte. Dal
valore così calcolato si detrae l'ammontare dei debiti ereditari e si aggiunge il valore dei beni
donati dal defunto.
Il valore dei beni relitti e il valore dei beni donati deve essere determinato con riferimento al
tempo dell'apertura della successione.

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3. - La quota di legittima del coniuge è della metà della massa se non concorrono figli del
defunto (art. 5401 c.c.); è di un terzo se assieme al coniuge concorre un figlio del defunto (art.
5421 c.c.); è di un quarto se concorrono più figli (art. 542 2 c.c.); è della metà se assieme al
coniuge concorrono ascendenti (art. 544 c.c.).
Oltre alla quota di legittima il coniuge ha anche il diritto di abitazione sulla casa adibita a
residenza familiare e il diritto di uso sui mobili che la corredano (art. 540 2 c.c.). Presupposto di
tali diritti è che si tratti di beni di proprietà del defunto o sui quali il defunto aveva un diritto di
godimento e di appropriazione (si pensi alle varie ipotesi di case assegnate da enti pubblici con
facoltà di riscatto e di beni acquistati con riservato dominio).
I diritti di abitazione e di uso sono legati di legittima. Se il coniuge è chiamato all'eredità essi si
configurano precisamente come prelegati di legittima.
E' controverso se il coniuge che abbia ricevuto in proprietà per testamento la casa familiare
possa pretendere dal beneficiario della disponibile l'importo del valore dei diritti di abitazione e
di uso. La tesi positiva, accolta dalla giurisprudenza, argomenta principalmente dalla norma che
pone questi diritti a carico della disponibile.
I diritti di abitazione e di uso spettanti al coniuge hanno la natura dei tipici diritti reali di
abitazione e di uso (art. 1021 s. c.c.). In applicazione della disciplina di tali diritti, essi sono
incedibili e hanno la durata della vita del titolare. La giurisprudenza reputa invece inapplicabile
il limite rappresentato dal fabbisogno del titolare e della sua famiglia (art. 1021, 1022, c.c.).
Il coniuge separato senza addebito ha lo stesso diritto di legittima del coniuge non separato (art.
5481 c.c.).
Il coniuge separato con addebito non gode dei diritti successori spettanti al coniuge nella
successione necessaria e legittima. Tale coniuge ha tuttavia diritto ad un assegno vitalizio
alimentare se al momento della morte del defunto percepiva gli alimenti legali dal medesimo.

4. - Oltre che al coniuge la legittima spetta ai figli e, per via di rappresentazione, ai loro
discendenti (art. 536 s. c.c.). Il figlio unico ha una quota di legittima della metà della massa; e di
un terzo se concorre col coniuge del defunto (al coniuge: 1/3). Se concorrono più figli la quota di
legittima loro spettante è complessivamente di due terzi del patrimonio e, in caso di concorso col
coniuge del defunto, della metà (al coniuge: 1/4).

Ai figli legittimi il codice conserva ancora il privilegio del diritto di commutazione. La


commutazione è l'atto mediante il quale i figli legittimi estromettono dalla comunione ereditaria
i figli naturali del defunto corrispondendo a questi il valore della loro quota (art. 537 3, 5423, 5662
c.c.).
La commutazione che non sia accettata dai figli naturali può essere autorizzata dal giudice in
considerazione delle circostanze personali e patrimoniali degli eredi.
Appare evidente la illegittimità costituzionale di questa discriminazione sancita a carico di eredi
legittimari, posti in condizione deteriore anche rispetto agli eredi testamentari.

Gli ascendenti del defunto hanno un diritto di legittima quando il defunto muore senza lasciare
figli nè loro discendenti. La legittima degli ascendenti è pari ad un quarto oppure ad un terzo
della massa secondo che concorrano o non concorrano con il coniuge del defunto (art. 5381 c.c.).

5. - Il legato in sostituzione di legittima è un' attribuzione testamentaria a titolo particolare che


tacita il diritto di legittima del legatario e gli preclude di agire in riduzione. Il legato grava sulla
quota di riserva e, per l'eccedenza, sulla disponibile (art. 5513 c.c.).
L'attribuzione di un legato in sostituzione di legittima non priva di per sé il legittimario del suo
diritto di riserva ma lo pone nell' alternativa di scegliere tra il legato e la legittima. Se il
legittimario decide di agire in riduzione ha quindi l'onere di rinunziare al legato (art. 551 1 c.c.).

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Il legato in sostituzione di legittima si differenzia dal legato in conto di legittima (n. 6).

6. - Il legato in conto di legittima è un legato che va imputato alla quota di legittima del
legatario senza precludergli di agire in riduzione per 1 'eventuale differenza.
Il legittimario che consegue il legato può fare valere il suo diritto di legittima se il legato o la
donazione risultino insufficienti, e cioè se il loro valore non raggiunge quello della quota di
riserva. Ovviamente il legittimario che agisce in riduzione può chiedere solo la differenza
necessaria a integrare la quota.
Il legittimario può, se crede, rinunziare all' eredità alla quale sia stato chiamato e ritenere il
legato.
Anche la donazione può essere fatta in conto di legittima.

7. - Il legato e la donazione in conto della disponibile sono attribuzioni che gravano sulla
disponibile e che si aggiungono a quanto spetta al beneficiario a titolo di legittima.
Conferendo un’attribuzione gravante sulla disponibile l’intento dell’ereditando è quello di dare al
legittimario un vantaggio ulteriore rispetto alla stretta quota di legittima.

8. – La legge vieta al testatore di gravare con pesi e condizioni la quota del legittimario (art.
549), perché ciò pregiudicherebbe il diritto di legittima. Questo divieto, esprime il principio di
intangibilità della legittima.
Il divieto dell’imposizione di pesi e o condizioni sulla quota del legittimario comporta la diretta
inefficacia delle relative disposizioni senza che occorra esperire l’azione di riduzione. Il punto è
però controverso.

9. – Un altro rimedio a diretta tutela del legittimario è quello che prende il nome tradizionale di
cautela sociniana (art. 550 c.c.). Questo rimedio riguarda le seguenti ipotesi: 1) il testatore
assegna al legittimario (con testamento o donazione) beni in nuda proprietà e a terzi (legittimari
o meno) un diritto di usufrutto o una rendita vitalizia il cui reddito ecceda quello della
disponibile (es.: il testatore lascia al figlio la nuda proprietà del suo intero patrimonio e ad un
terzo l’usufrutto di tale patrimonio); 2) il testatore assegna al legittimario un diritto di usufrutto
mentre a favore di terzi ne dispone la nuda proprietà per una parte eccedente la disponibile (es.:
il testatore lascia al figlio l’usufrutto del suo patrimonio e ad un terzo la nuda proprietà).
Il rimedio della cautela sociniana consiste nel potere del legittimario di scegliere tra dare
esecuzione alla disposizione oppore conseguire integra la porzione di legittima abbandonando al
terzo l’usufrutto o la nuda proprietà limitatamente alla parte disponibile.
La scelta può essere esercitata dal legittimario direttamente in via stragiudiziale.

10. – Il legittimario che è leso nel suo diritto di legittima da disposizioni testamentarie o
donative può agire giudizialmente per ottenere la riduzione delle disposizioni lesive (art. 554,
555 c.c.).
La riducibilità delle disposizioni testamentarie o donative lesive della legittima fa intendere che
tali disposizioni non sono affette da nullità e che l'azione di riduzione non va confusa con l'azione
diretta ad impugnare il testamento o la donazione per vizi della volontà o di forma.
Condizione per l'esercizio dell'azione è che il legittimario abbia accettato con beneficio
d'inventario (art. 5641 c.c.). Questa condizione non è tuttavia richiesta quando l'azione è
proposta contro i chiamati all' eredità, pur se rinunzianti. L'accettazione con beneficio
d'inventario non è richiesta, ancora, quando il testatore abbia disposto della eredità interamente
a favore di altri. In tal caso, infatti, non vi è una delazione ereditaria a favore del legittimario.
Altra condizione è che il legittimario imputi alla sua quota i legati e le donazioni fattegli dal
defunto.
Il legittimario non ha l'onere della imputazione se ne è stato dispensato espressamente dal

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defunto (art. 5642 c.c.).
L'azione di riduzione è soggetta all' ordinario termine di prescrizione (10 anni), decorrente
dall'apertura della successione.

11. - Per la reintegrazione della quota di legittima lesa devono anzitutto essere ridotte le
disposizioni testamentarie (art. 554 c.c.).
Le disposizioni testamentarie, siano esse a titolo universale o a titolo particolare, sono ridotte
tutte proporzionalmente di quanto è necessario per soddisfare il diritto del legittimario. Tali
disposizioni, cioè, sono ridotte nella misura in cui esse consentono al legittimario l'acquisizione
di un patrimonio netto sufficiente a soddisfare il suo diritto di legittima. Il valore del patrimonio
deve sempre essere calcolato al tempo dell' apertura della successione.
La riduzione delle disposizioni a titolo particolare comporta la proporzionale riduzione del
credito del legatario o del diritto reale sul bene di specie assegnatogli. Se il legato ha per oggetto
un immobile esso può rimanere o no totalmente recuperato all' eredità secondo la regola valevole
anche per le donazioni immobiliari (n. 13).

12. – Se la riduzione delle disposizioni testamentarie non è sufficiente a reintegrare la legittima,


si procede alla riduzione delle donazioni dirette e indirette fatte dal defunto (art. 555 c.c.). Si
reputano soggette a riduzione anche le donazioni remuneratorie.
Diversamente dal criterio di riduzione delle disposizioni testamentarie (riduzione proporzionale
di tutte le disposizioni) le donazioni si riducono col criterio cronologico, cominciando dall'ultima
fatta dal testatore in ordine di tempo e risalendo poi alle donazioni anteriori fino a soddisfare il
diritto di legittima (art. 559 c.c.).
Occorre rilevare che l'azione di riduzione non riguarda di regola le donazioni fatte ai legittimari
che concorrono sull' eredità. Tali donazioni, infatti, devono essere conferite in collazione nella
massa ereditaria (salva dispensa).
La riduzione delle donazioni rende inefficaci le attribuzioni nei limiti di quanto necessario a
reintegrare il diritto di legittima leso, con la conseguenza che il donatario è tenuto a restituire
agli eredi il bene in natura o l'importo del valore che esso aveva al tempo della apertura della
successione, espresso però in moneta attuale.
Nel caso di insolvenza del donatario il legittimario può agire contro gli eventuali terzi acquirenti.
Se l'azione non può essere esercitata o se non giunge comunque a buon fine, il valore della
donazione che non si può recuperare viene detratto dalla massa (art. 562 c.c.).

13. - Per quanto attiene alla restituzione dei beni conseguente alla riduzione di legati e donazioni,
la legge detta una regola apposita che distingue a seconda che si tratti di beni mobili o di beni
immobili (art. 560 c.c.).
Se si tratta di beni mobili il donatario è obbligato a restituire (in tutto o in parte) il bene oppure a
pagarne il corrispondente valore. La scelta compete al donatario secondo la regola delle
obbligazioni alternative (art. 12861 c.c.).
Se si tratta di beni immobili la riduzione può comportare: a) la separazione di una porzione in
natura, oppure, b) la totale acquisizione del bene all'eredità (salvo conguaglio) oppure c)
l'obbligo di corrispondere all'eredità il valore della porzione ridotta.
La prima ipotesi ricorre quando l'immobile è comodamente divisibile in natura (560 1 c.c.).
La seconda ipotesi ricorre quando l'immobile non è comodamente divisibile e il donatario o
legatario ha sul bene un' eccedenza maggiore del quarto della disponibile (art. 560 2 c.c.).
La terza ipotesi ricorre quando l'eccedenza sul bene non supera il quarto della porzione
disponibile. In tal caso spetta al donatario o legatario il diritto di trattenere l'immobile, salvo
l'obbligo di compensare in denaro il legittimario sempre in base al valore attuale del bene.
Il donatario che ha alienato il bene ad un terzo è tenuto a corrisponderne il valore al legittimario
che agisce in riduzione. Se il donatario è insolvente il legittimario può agire nei confronti degli

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alienatari, a prescindere dal titolo oneroso o gratuito dell' alienazione e a prescindere dalla loro
buona o mala fede (art. 563 c.c.).
L'alienatario di beni immobili si sottrae all' azione di restituzione se il suo atto di acquisto è a
titolo oneroso ed è stato trascritto prima della trascrizione della domanda di riduzione, e questa
è stata trascritta dopo 10 anni dall' apertura della successione (art. 2652, n. 8, c.c.).
Una nuova disposizione, introdotta dalla legge n. 80 del 2005, favorisce ulteriormente i terzi
acquirenti di beni immobili. Chi acquista dal donatario si sottrae infatti all' azione di restituzione
se questa sia proposta dopo 20 anni dalla donazione (art. 563 1 c.c. nuovo testo). L'acquisto del
terzo è fatto salvo anche se esso è a titolo gratuito.
Il termine ventennale di prescrizione della domanda di restituzione è per altro soggetto ad una
peculiare causa di sospensione. Si tratta della dichiarazione di opposizione, che può essere
notificata al donatario da parte del coniuge e dei parenti in linea retta del donante (563 2 c.c.
nuovo testo).
La dichiarazione di opposizione non contesta la validità nè sospende l'efficacia della donazione.
Essa vale solamente a sospendere la decorrenza del termine di prescrizione dell' azione di
restituzione.

MODULO XXII

La successione legittima

1. Nozione di successione legittima


2. Le categorie di successori legittimi. Il coniuge
3. I figli
4. Gli ascendenti
5. Fratelli e sorelle. Altri parenti
6. Lo Stato
7. Successioni legittime anomale

1. - La successione legittima è la successione intestata, cioè la successione che ha luogo per


legge quando manca in tutto o in parte la successione testamentaria.
E’ questa la nozione alla quale fa riferimento il codice civile, distinguendola rispetto alla più

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ampia nozione di successione legittima quale successione avente titolo nella legge (in questa più
ampia nozione, si è visto, rientra la successione necessaria (mod. XX)).
La successione legittima può coesistere con la successione testamentaria quando il testatore
abbia disposto solo di una parte dell' eredità. Può darsi anche che
Il testatore abbia disposto dell'intera eredità a favore di più chiamati e che una parte dell' eredità
rimanga intestata perchè uno dei chiamati testamentari non può o non vuole accettare, oppure
perchè la disposizione relativa ad uno dei chiamati è colpita da invalidità o inefficacia. Sulla
parte vacante si apre allora la successione legittima.

2. La legge prevede le seguenti categorie di successori legittimi: coniuge; discendenti;


ascendenti; fratelli e sorelle; altri parenti; lo Stato.
Nella successione legittima il coniuge ha diritto all'intera eredità intestata se non concorre con
discendenti, ascendenti, fratelli o sorelle del defunto (art. 583 c.c.).

Il coniuge che concorre con un figlio solo del defunto succede per metà.
Quando concorre con più figli del defunto ha diritto ad 1/3 della eredità. Queste quote
rimangono invariate se in luogo del figlio o dei figli succedono i loro rappresentanti.
Nel concorso con ascendenti, fratelli e sorelle del defunto, al coniuge spettano i 2/3 dell'eredità
(art. 582 c.c.).

3. - Ai figli spetta l'intera eredità salvo il caso di concorso col coniuge del defunto.
Nel caso di concorso col coniuge del defunto, ai figli spettano globalmente i 2/3 dell' eredità; al
figlio unico spetta metà dell' eredità.
In luogo del figlio che non può o non vuole accettare sono chiamati per rappresentazione i suoi
discendenti.
La legge pone sullo stesso piano i figli legittimi, naturali, legittimati e adottivi (art. 566 1 568, 573
c.c.). Un residuo dell'antica discriminazione è costituito dalla
possibilità di commutazione della porzione dei figli naturali (mod. XX).

4. Se il defunto non lascia nè il coniuge nè discendenti nè fratelli o sorelle (o loro


rappresentanti), l'intera eredità si devolve agli ascendenti (art. 568, 569 c.c.).
Nel concorso col coniuge del defunto la quota di successione legittima degli ascendenti è di 1/3.
Nel concorso con fratelli e sorelle del defunto l'eredità si divide
tra tutti in parti eguali ferma restando a favore dei genitori una quota minima della metà (art.
5711 c.c.).
Agli ascendenti che concorrono insieme col coniuge e con fratelli e sorelle del defunto tocca
almeno la legittima (e cioè 1/4 della massa) (art. 582 c.c.).
Nella successione legittima l'eredità spettante agli ascendenti si devolve tutta all'ascendente di
grado prossimo con esclusione degli ascendenti di grado ulteriore. Se vi sono più ascendenti di
pari grado di linea paterna e di linea materna, metà
dell'eredità ad essi globalmente spettante va agli ascendenti della linea patema e metà agli
ascendenti della linea materna.
Nell'ambito di ciascuna stirpe la quota si divide per capi in parti eguali.
Nell’enunciare le categorie dei successibili la legge indica gli ascendenti legittimi (art. 565 c.c.).
Per quanto riguarda, tuttavia, i genitori naturali, un'esplicita norma ne prevede la successione
nell'ipotesi in cui il figlio naturale sia deceduto "senza lasciar prole nè coniuge" (art. 578 1 c.c.).
Nel concorso con il coniuge del figlio defunto, i genitori naturali conseguono 1/3 dell'eredità
mentre i restanti 2/3 vanno al coniuge (art. 5792 c.c.).
La norma non fa menzione degli ascendenti naturali di grado ulteriore (art. 582 c.c.). Se ne
deduce in dottrina che essi sono esclusi dal concorso. Anche questa norma denunzia, così
interpretata, la sua palese incostituzionalità. Incostituzionali, comunque, sono tutte le norme che

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non riconoscono i diritti di successione legittima ai parenti naturali.

5. - Ai fratelli e sorelle del defunto spetta l'intera eredità intestata se il defunto muore senza
lasciare nè coniuge nè discendenti nè ascendenti (art. 570 1 c.c.).
Nel concorso col coniuge del defunto la quota di successione legittima dei fratelli e sorelle è di
1/3.
Nel concorso con gli ascendenti l'eredità si divide in parti eguali fra tutti, ma, come si è visto, la
quota spettante ai genitori non può essere inferiore alla metà (art. 571 1 c.c.). Se concorre anche il
coniuge del defunto agli ascendenti spetta almeno ¼ dell' eredità.
Alla successione legittima concorrono i fratelli e le sorelle naturali (ma, secondo la
giurisprudenza costituzionale, solo se non vi siano parenti legittimi).
Se non vi sono nè coniuge nè discendenti nè ascendenti nè fratelli e nè sorelle, l'eredità intesta si
devolve agli altri parenti collaterali di grado prossimo fino al 6° grado.
L'eredità si divide in parti eguali fra tutti i parenti del grado più vicino con esclusione dei parenti
di grado ulteriore.

6. - Se non vi sono eredi legittimi, l'eredità intestata si devolve allo Stato (art. 586 c.c.).
Lo Stato è un erede necessario in senso proprio, in quanto non gli è consentito rinunziare
all'eredità. Questa viene acquistata automaticamente senza bisogno di accettazione.
Lo Stato risponde dei debiti ereditari e dei legati entro il valore dell' eredità (art. 586 2 c.c.). Per lo
Stato la limitazione della responsabilità non è collegata all'accettazione col beneficio
d'inventario, ma la relativa procedura deve comunque essere osservata, col conseguente diritto
dei creditori alla liquidazione concorsuale.
Lo Stato è anche assoggettato alle norme sulla comunione ereditaria nel caso in cui parte dell'
eredità si devolva ad un erede testamentario.
Il riconoscimento della natura successoria del diritto dello Stato comporta l'assoggettamento del
medesimo alle norme di diritto internazionale privato concernenti la successione a causa di
morte.
7. - Per successione legittima anomala s'intende quella successione legittima che rispetto a beni
determinati deroga ai criteri generali della successione legittima.
Tra le ipotesi di successione anomala possono indicarsi principalmente quelle concernenti la
casa familiare e l'indennità di anzianità.
L'indennità di anzianità è l'indennità dovuta dal datore di lavoro in caso di morte del lavoratore
(art. 2122 c.c.). L'indennità spetta al coniuge e ai figli e, se conviventi, ai parenti entro il 3° grado
e agli affini entro il 2° grado.

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MODULO XXIII

Il testamento

l. Nozione di testamento
2. Caratteri del testamento
3. La diseredazione
4. Capacità di testare e di ricevere per testamento
5. Disposizioni fiduciarie
6. Le forme del testamento
7. La registrazione.
8. La pubblicazione
9. Disposizioni a titolo universale e a titolo particolare
10. I legati
11. Il prelegato
12. Determinazione del legato rimessa ad un terzo
13. Possesso del bene legato
14. Disposizioni sottoposte a condizione e a termine

1. - Il testamento è l'atto di ultima volontà mediante il quale la persona dispone della proprie
sostanze o di parte di esse per quando avrà cessato di vivere (art. 5871 c.c.).
Il testamento è un negozio a causa di morte che si contrappone agli atti tra vivi, i quali sono gli
ordinari atti negoziali volti a soddisfare le varie esigenze della
vita di relazione.

2. - Caratteri del testamento sono la personalità, l'unilateralità, l'esc!usività, la formalità, la

100
revocabilità, la patrimonialità.
Rispetto ai caratteri del testamento vanno distinti i requisiti del contenuto: possibilità, liceità,
determinatezza o determinabilità (art. 1346 c.c.).
Il testamento è un atto personalissimo in quanto deve essere compiuto direttamente dal suo
autore. Il principio della personalità del testamento comporta che questo negozio non ammette
che sia posto in essere a mezzo di rappresentante. La procura a fare testamento è radicalmente
nulla come è nullo il testamento fatto in nome e per conto di altra persona.
La stretta personalità esclude, ancora, che la determinazione del contenuto essenziale del
testamento possa essere rimessa alla volontà altrui.
La legge dichiara espressamente nulle le disposizioni testamentarie che fanno dipendere
dall'arbitrio di un terzo l'indicazione dell'erede o del legatario ovvero la determinazione della
quota di eredità (art. 6311 c.c.). Il rigore della regola della stretta personalità del testamento è
però attenuato con riguardo allegato. Per il legato è infatti consentita la disposizione che rimetta
la scelta del legatario all' onerato o ad un terzo purchè il testatore abbia delimitato l'ambito entro
il quale la scelta deve essere
effettuata (art. 6312 c.c.).
Neppure per il legato è invece consentito che il testatore ne rimetta all’arbitrio altrui la
determinazione del contenuto o dell'oggetto (n. 11).
Il testamento, ancora, è un atto unilaterale in quanto si perfeziona con la sola manifestazione di
volontà del testatore.
Altro carattere del testamento è quello della esclusività. Il testamento è un atto esclusivo del suo
autore nel senso che non può essere fatto da una pluralità di persone. Il testamento congiuntivo,
e cioè il testamento fatto da più persone con la medesima dichiarazione è nullo (art. 589 c.c.).
Il testamento è un atto essenzialmente formale in quanto deve essere necessariamente fatto in
una delle forme previste dalla legge (testamento pubblico, testamento segreto, testamento
olografo, testamento speciale).
Il testamento è un atto patrimoniale poichè esso ha per oggetto la disposizione delle sostanze del
testatore, e cioè dei suoi diritti patrimoniali.
In un atto avente la forma del testamento possono però essere contenute disposizioni non
patrimoniali in quanto previste dalla legge (art. 5872 c.c.).
Le disposizioni testamentarie non patrimoniali comprendono, tra le altre, il riconoscimento di
figlio naturale (art. 2541 c.c.), e l'istituzione di una fondazione (art. 142 c.c.), ecc.

3. - Controversa è la validità della diseredazione, e cioè della disposizione con la quale il testatore
esclude dalla successione taluno dei suoi successibili legittimi.
La tesi che nega validità alla disposizione che disereda un successibile è sostenuta da una parte
della dottrina, ed è seguita dalla giurisprudenza.
La diseredazione ha come unico intento quello di penalizzare il diseredato ed è diretta quindi a
soddisfare un interesse non meritevole di tutela. La nullità della diseredazione si conferma allora
con riguardo alla immeritevolezza della causa.
La rilevanza della volontà di diseredazione è invece incontestata quando essa sia suscettibile di
essere interpretata come intento di beneficiare gli altri successori legittimi.

4. - La capacità di testare è l'idoneità giuridica del soggetto a disporre delle proprie sostanze
mediante testamento. La capacità di testare spetta a tutti coloro che sono capaci di agire (art.
5911 c.c.). La capacità di testare spetta anche a coloro che hanno una ridotta capacità di agire
(emancipati, inabilitati), poichè la riduzione della capacità di agire rileva solo per gli atti
suscettibili di arrecare un rilevante pregiudizio economico al loro autore.
La capacità di ricevere per testamento è l'idoneità giuridica del soggetto ad essere destinatario
di attribuzioni testamentarie.
Speciali incapacità di ricevere per testamento sono sancite a carico del tutore e del protutore nei

101
confronti della persona sottoposta a tutela, salvo che sussista un rapporto di coniugio o di stretta
parentela (art. 5961-2 c.c.); del notaio o di altro pubblico ufficiale che abbia ricevuto il testamento
pubblico, ecc.
La legge dichiara la nullità delle disposizioni a favore di persona incerta (art. 628 c.c.). La
persona dell'erede e quella del legatario devono cioè essere determinate o sufficientemente
determinabili.

5. - Per disposizione fiduciaria s'intende una disposizione con la quale il testatore nomina erede
o legatario una persona (fiduciario) mentre con altro atto incarica la persona designata di
ritrasferire in tutto o in parte i beni ereditari ad un terzo (art. 627 c.c.).
Il fiduciario è giuridicamente libero di dare o non dare esecuzione alla disposizione fiduciaria. Se
tuttavia la reale volontà del testatore era quella di beneficiare il terzo, può ravvisarsi a carico del
fiduciario un dovere morale di rispettare tale volontà. Conformemente alla regola delle
obbligazioni naturali, quindi, il fiduciario non ha il diritto di ripetere quanto abbia
spontaneamente prestato al terzo in esecuzione della disposizione fiduciaria. La ripetizione è
ammessa quando il fiduciario sia un incapace o quando sussista un'incapacità testamentaria
passiva a carico del terzo beneficiario.

6. - Il testamento è un negozio a forma solenne. Esso deve cioè essere fatto a pena di nullità in
una delle particolari forme previste dalla legge.
La legge prevede, precisamente, il testamento ologra/o, il testamento pubblico e il testamento
segreto.
Il testamento olografo è il testamento scritto interamente di mano del testatore (art. 602 1 c.c.).
La mancanza dell' autografia o della sottoscrizione importa la nullità del testamento (art. 6061
c.c.). Per mancanza di autografia deve intendersi la scheda scritta meccanicamente o scritta da
altra persona.
Il testamento pubblico è il testamento rogato dal notaio (art. 603 1 c.c.).
Il codice detta la disciplina del testamento pubblico prescrivendone i requisiti formali. A tali
requisiti devono poi aggiungersi quelli risultanti dalla disciplina dell'atto notarile (l. 16 febbraio
1913, n. 89).
I requisiti formali del testamento pubblico previsti dal codice sono: 1) la dichiarazione della
volontà testamentaria fatta dal testatore al notaio in presenza di 2 testimoni; 2) la riduzione in
iscritto della volontà testamentaria da parte del notaio; 3) la lettura del medesimo da parte del
notaio in presenza dei testimoni; 4) la menzione nel testamento delle suddette formalità; 5) la
menzione del luogo, della data di ricevimento e dell' ora della sottoscrizione; 6) la
sottoscrizione del testatore, dei testimoni e del notaio (art. 603 c.c.).
Il testamento pubblico è nullo per difetto di forma: 1) quando la volontà testamentaria non è
stata tradotta in iscritto dal notaio; 2) quando manca la sottoscrizione del testatore o quando
non sono state osservate le formalità richieste per il caso di impedimento alla sottoscrizione
(dichiarazione del testatore sulla causa dell 'impedimento e menzione di questa dichiarazione
prima della lettura del testamento; 3) quando manca la sottoscrizione del notaio (art. 606 1 c.c.)
Gli altri difetti di forma non danno luogo alla nullità ma alla annullabilità del testamento.

Il testamento segreto è redatto su scheda sottoscritta dal testatore e da questi consegnata in


involucro chiuso al notaio con la dichiarazione che in esso è contenuto il suo testamento (art.
604 c.c.).
Circa i requisiti formali del testamento segreto occorre distinguere tra la scheda testamentaria e
l'atto ricevuto dal notaio.
La scheda testamentaria deve essere sottoscritta dal testatore. A differenza del testamento
olografo, la legge non richiede che essa sia scritta per intero di pugno dal testatore, dato che la
sigillazione e l'affidamento al notaio garantiscono contro l'eventualità della sua alterazione. Se

102
però la scheda è scritta da altri o è scritta con mezzi meccanici, si richiede che, oltre a
sottoscrivere alla fine delle disposizioni, il testatore apponga la sua firma a margine di ciascuno
dei mezzi fogli di cui si componene la scheda, unito o separato (art. 604 1 c.c.).
Per quanto riguarda le formalità dell' atto ricevuto dal notaio, la legge prescrive: l) la sigillazione
della scheda o del suo involucro, in modo che la scheda non possa essere aperta senza rompere il
sigillo; 2) la dichiarazione del testatore, presenti 2 testimoni, che il plico contiene il suo
testamento; 3) la redazione dell'atto di ricevimento sullo stesso plico o su altro involucro sigillato
dal notaio; 4) la sottoscrizione dell' atto di ricevimento da parte del testatore, dei testimoni e del
notaio.
Il testamento segreto è nullo l) quando manca la verbalizzazione da parte del notaio della
dichiarazione resa dal testatore; 2) quando manca la sottoscrizione del testatore o la
verbalizzazione della dichiarazione sostitutiva; 3) quando manca la sottoscrizione del notaio (art.
6061 c.c.).
Come per il testamento pubblico, gli altri vizi di forma non importano la nullità ma
l'annullabilità del testamento.

La legge consente di derogare alle forme ordinarie del testamento pubblico quando ricorrono
determinate circostanze (guerre, calamità pubbliche, ecc.) che non permettono o rendono
difficile il normale compimento del testamento per atto di notaio (art: 609 s. c.c.).
I testamenti speciali esigono comunque la forma scritta e la sottoscrizione del testatore, del
ricevente e di 2 testimoni.
Carattere comune dei testamenti speciali è la loro provvisorietà. La loro efficacia decade infatti
automaticamente dopo il decorso di 3 mesi dalla cessazione della circostanza di emergenza.

7. - La registrazione del testamento è una forma di pubblicità che si attua per mezzo di un
apposito registro generale dei testamenti presso il Ministero della Giustizia, Ufficio centrale degli
archivi notarili.
Oggetto di registrazione sono, specificamente, i testamenti pubblici, i testamenti segreti, i
testamenti speciali e i testamenti olografi depositati presso un notaio. Con riguardo ai testamenti
olografi non depositati, oggetto di registrazione è il verbale di pubblicazione.
Funzione della registrazione è quella di rendere generalmente e prontamente conoscibile
l'esistenza degli atti testamentari. La consultazione del registro è ammessa, ovviamente, solo con
riguardo a persone decedute.

8. - La pubblicazione è l'atto mediante il quale il notaio rende manifesta l'esistenza del


testamento olografo (art. 620 c.c.) o del testamento segreto (art. 621 c.c.).
Il notaio è tenuto a pubblicare il testamento olografo a seguito della presentazione di esso da
parte del possessore. Se si tratta di testamento segreto o di testamento olografo depositato dal
testatore, il notaio deve pubblicarlo appena avuta notizia della morte del testatore.

9. - Nell'ambito delle disposizioni testamentarie la legge distingue fondamentalmente tra


disposizioni a titolo universale e disposizioni a titolo particolare (art. 588 1 c.c.).
Le disposizioni a titolo universale sono disposizioni testamentarie che conferiscono la posizione
di erede, e cioè la posizione di successore nella generalità dei rapporti ereditari, per l'intero o
per quota. Le disposizioni a titolo particolare sono invece attribuzioni testamentarie di specifici
diritti patrimoniali, e conferiscono la posizione di legatario.
Per universalità deve intendersi la generalità delle attività patrimoniali mentre per quota deve
intendersi una frazione matematica dell 'intero (la metà, un terzo, ecc.). La disposizione è a titolo
universale se, appunto, attribuisce una quota dei beni (es.: lascio a mio figlio un terzo del
patrimonio), mentre rimane a titolo particolare se attribuisce beni determinati, pur se questi
beni rappresentino una parte rilevantissima del patrimonio.

103
Anche l'attribuzione di beni determinati può tuttavia essere a titolo universale se risulta la
volontà del testatore di attribuire i beni come quota del patrimonio (art. 5882, c.c.: institutio ex
re certa). In tal caso, la quota del beneficiario non è determinata direttamente dal testatore ma è
determinabile in base alla relazione del valore dei beni rispetto al patrimonio ereditario o
rispetto ai beni attribuiti agli eredi se il testatore ha diviso l'intero patrimonio.

9. - Le disposizioni a titolo particolare sono attribuzioni testamentarie di specifici diritti


patrimoniali. Esse prendono il nome di legati.
La posizione del legatario è tipicamente contrapposta a quella dell' erede. A differenza di
quest'ultimo il legatario non succede nella generalità dei rapporti ereditari, ma consegue solo i
diritti che sono indicati nel titolo e non risponde di regola dei debiti del defunto. La posizione di
legatario si acquista automaticamente senza bisogno di accettazione, salva la possibilità di
rinunzia.
Il legato può essere obbligatorio, e cioè attribuire un diritto di credito nei
confronti dell'onerato (l'erede o altro legatario). Il legato può poi essere traslativo, e cioè
comportare la trasmissione automatica al legatario del diritto che è oggetto
dell 'attribuzione. Legati traslativi sono i legati di credito e i legati di specie. Questi ultimi
attribuiscono la proprietà o altro diritto reale di godimento su cose specifiche dell'asse ereditario.
Il legato, infine, può essere rinunziativo di un diritto ereditario a favore del legatario.
Il legatario non è tenuto al pagamento dei debiti e pesi ereditari (art. 756 c.c.). I debiti e i pesi
ereditari gravano infatti di regola sugli eredi in ragione delle loro quote.
Sul legatario gravano invece le servitù, la rendita fondiaria e ogni obbligazione propter rem (art.
6881 c.c.).
Determinati obblighi possono essere imposti dal testatore al legatario, mediante una
disposizione modale o un sublegato, e in tal caso la sua responsabilità rimarrà contenuta entro i
limiti di valore della cosa legata.

10. - Il prelegato è il legato attribuito all'erede o ad uno dei coeredi a carico di tutta l'eredità (art.
661 c.c.).
Il prelegato in favore del coerede è efficace per il suo intero ammontare. Ciò significa che il
coerede ha diritto all'intera attribuzione del legato in forza del suo diritto di legatario. Pertanto,
se oggetto del prelegato è un bene determinato facente parte dell'asse ereditario, la proprietà
passa immediatamente al prelegatario.
Se si tratta di prelegato obbligatorio, gli altri coeredi sono obbligati all'adempimento solo per la
parte corrispondente alle loro quote.
11. - La legge dichiara nulla la disposizione che rimette al mero arbitrio del terzo la
determinazione dell'oggetto o della quantità del legato (art. 632 1 c.c.). Se ne deduce quindi la
validità della disposizione che rimette la determinazione del legato all'equo arbitrio di altri. In tal
caso trova applicazione analogica la norma che prevede la determinazione giudiziale dell' oggetto
del contratto quando la persona indicata non provveda alla determinazione o questa sia
manifestamente iniqua (art. 13491 c.c.).
I legati disposti a titolo di rimunerazione del beneficiario per servizi prestati al testatore se non
sono diversamente determinati s'intendono rimessi all'equo arbitrio dell'erede (art. 6321 c.c.).
Deve comunque trattarsi di rimunerazione per fatti o attività che consentano di proporzionare
l'attribuzione secondo una valutazione equitativa.
Una parziale indeterminatezza si riscontra ancora nel legato alternativo, e cioè nel legato da
scegliersi tra due o più prestazioni.
12. - Il legatario deve chiedere all' onerato il possesso del bene anche quando ne sia stato
espressamente dispensato dal testatore (art. 6493 c.c.).
La regola trova il suo tradizionale fondamento nel principio secondo il quale il legatario non

104
consegue automaticamente il possesso del bene, che passa piuttosto all'erede quale successore in
tutte le posizioni giuridiche attive e passive del defunto (art. 1146 1 c.c.). L'erede è quindi il
possessore ed è comunque legittimato all'esperimento delle azioni possessorie contro il terzo.
13. - Le disposizioni testamentarie possono essere sottoposte a condizione sospensiva o
risolutiva (art. 633 c.c.). La condizione è una clausola accessoria che fa dipendere l'efficacia della
disposizione o la sua risoluzione dal verificarsi di un evento futuro e incerto.
Il carattere sospensivo o risolutivo della condizione deve risultare
dall 'interpretazione della disposizione testamentaria. Una presunzione legale è comunque
fissata dalla legge per le condizioni testamentarie di non fare o di non dare a tempo
indeterminato, che sono reputate quali condizioni risolutive (art. 638 c.c.). Si tratta di una
presunzione legale semplice che si giustifica nella normalità dell' intento del testatore di far
beneficiare della disposizione il successore che rispetta la sua volontà.
Le condizioni testamentarie illecite o impossibili sono reputate come non apposte, senza incidere
di massima né sulla validità né sull' efficacia della disposizione (art. 634 c.c.).
Il termine è un riferimento temporale dal quale o fino al quale decorrono gli effetti della
disposizione. Esso si differenzia dalla condizione in quanto si tratta di un' indicazione certa nel
suo accadimento anche se non riferita ad un dato giorno del calendario.
La disposizione a titolo universale non può essere sottoposta né a termine iniziale né a termine
finale. Il termine si considera come non apposto (art. 637 c.c.).
Il termine è ammesso nelle disposizioni a titolo particolare. L'apposizione del termine conduce al
risultato di rendere l'attribuzione al beneficiario a termine finale
equivalente ad un diritto di usufrutto.

105
MODULO XXIV

La collazione

1. Nozione di collazione
2. Dispensa dalla collazione
3. Soggetti e oggetto della collazione
4. Collazione per imputazione e collazione in natura

1. - La collazione è l'atto col quale i discendenti e il coniuge che accettano l'eredità conferiscono
nell' asse ereditario (in natura o per imputazione) quanto hanno ricevuto dal defunto in
donazione. La collazione è obbligatoria per legge salvo che il donatario ne sia stato dispensato.
La collazione non tende a garantire ai legittimari una parte del patrimonio del defunto (a ciò
provvede la legittima) ma ad evitare una disparità di trattamento in dipendenza delle donazioni
fatte in vita dal defunto, posto che tali donazioni hanno socialmente il significato di un'
anticipazione dell' eredità.

2. – Il legittimario coerede è tenuto alla collazione delle donazioni salvo che ne sia stato
dispensato dal defunto. La dispensa ha effetto nei limiti della disponibile
(art. 737 c.c.).
La dispensa può costituire un negozio accessorio della donazione (contestuale o
successivo), della quale deve allora rivestire la stessa forma; oppure può essere contenuta in un
testamento.
Con la dispensa dalla collazione il legittimario è privilegiato rispetto agli altri coeredi. Nei limiti
della disponibile infatti il legittimario può trattenere le donazioni ricevute, e quindi l'asse da
ripartire risulterà decurtato di tali donazioni che rimangono a suo esclusivo beneficio.
La dispensa dalla collazione non vale rispetto all'estraneo poichè il legittimario che agisce in
riduzione contro il donatario estraneo deve imputare alla sua quota di legittima le donazioni
ricevute, salvo che sia stata dispensato anche dalla imputazione.

3. – I soggetti tenuti alla collazione sono il coniuge e i discendenti, in quanto siano coeredi, e
cioè in quanto abbiano accettato l'eredità. Non ha importanza che i coeredi siano stati chiamati
per successione legittima o per successione testamentaria né ha importanza che le loro quote
ereditarie siano eguali o diseguali.
I coeredi devono conferire i beni che abbiano ricevuto in donazione direttamente o
indirettamente (art. 7371 c.c.). Con quest'ampia formula la legge assoggetta a collazione sia le
attribuzioni fatte a titolo di donazione sia le donazioni indirette, cioè le liberalità realizzate
mediante atti diversi dalla donazione.

4. - La legge prevede due modi di conferimento del bene in collazione: in natura e per
imputazione. La collazione in natura consiste nella restituzione del bene all' asse ereditario
mentre quella per imputazione consiste nel corrispondere il valore del bene.
Il conferimento deve avvenire per imputazione se si tratta di beni mobili ovvero di beni immobili
alienati o ipotecati. Quando l'immobile da conferire non è stato alienato né ipotecato il
conferente ha la scelta tra i due modi di conferimento (art. 746 1 c.c.).
MODULO XXV

I beni

1. Nozione di bene

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2. Beni immobili e beni mobili
3. Beni pubblici
4. Le pertinenze
5. I frutti

1. – Il codice civile definisce i beni come le cose che possono formare oggetto di diritti (art. 810
c.c.). I beni in senso giuridico sono quindi qualsiasi entità materiale o ideale giuridicamente
rilevante.
La nozione di bene per il diritto è più ampia della nozione di bene economico. Giuridicamente
rilevanti e oggetto di tutela giuridica possono infatti essere entità economicamente non
valutabili, come ad es. i beni essenziali della persona (la salute, l’onore, ecc.). L’uomo non è esso
stesso un bene in senso giuridico in quanto non è oggetto di diritti ma titolare di essi, e ragione
ultima dell’ordine giuridico.

2. – Una delle principali distinzioni del codice è quella tra beni immobili e beni mobili. Beni
immobili sono il suolo, le sorgenti, i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e in genere tutto ciò che è
naturalmente o artificialmente incorporato al suolo (art. 812 1 c.c.). Sono considerati invece beni
mobili tutti gli altri beni (art. 8123 c.c.). Così, ad es., deve reputarsi bene mobile l’acqua che ha
cessato di scorrere o che è stata artificialmente canalizzata.
La distinzione tra beni immobili e beni mobili rileva principalmente con riguardo al regime
giuridico della circolazione. Per gli atti di alienazione dei beni vige il principio della libertà di
forma. Al contrario, per l’alienazione dei beni immobili è prevista la forma scritta a pena di
nullità.

3. – Beni pubblici sono i beni che appartengono allo Stato e agli altri enti pubblici.
Il codice distingue due categorie di beni pubblici: 1) il demanio pubblico, comprendente, tra
l’altro, il lido del mare, la spiaggia, i porti, i laghi, i torrenti, nonché le autostrade, gli aeroporti,
gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico (art. 822 c.c.; d. lgs, 22
gennaio 2004, n. 41 (codice dei beni culturali)). Condizione giuridica di tali beni è la
inalienabilità (art. 823 c.c.); 2) il patrimonio indisponibile, comprendente beni che non
appartengono al demanio pubblico ma che soddisfano un interesse generale: es., le foreste, le
miniere, le cave e le torbiere. Condizione giuridica di tali beni è la vincolatività della
destinazione: dalla loro destinazione essi non possono essere distratti se non nei modi stabiliti
dalle leggi che li riguardano (art. 828 c.c.). La stessa condizione giuridica è prevista per i beni
destinati all’esercizio pubblico del culto cattolico. Questi beni non possono essere sottratti alla
loro destinazione neppure per effetto di alienazione (art. 8312 c.c.).

4. - Le pertinenze sono “le cose destinate in modo durevole al servizio o ad ornamento di


un’altra cosa” (art. 8171 c.c.).
Il rapporto pertinenziale è caratterizzato da due requisiti; 1) uno soggettivo: l’atto di
destinazione; 2) l’altro oggettivo: la durevole funzione di servizio od ornamento. Il collegamento
funzionale può intercorrere tra beni di natura diversa. Per es. : tra bene mobile e immobile (il
pannello solare e l’edificio); tra bene mobile e altro bene mobile (la stampante e il computer); tra
bene immobile e altro bene immobile (un locale di parcheggio e la casa di abitazione).
Il regime delle pertinenze si articola in tre regole fondamentali (art. 818):
1) le pertinenze seguono la sorte della cosa principale;
2) la disposizione della cosa principale non pregiudica i diritti dei terzi sulle pertinenze;
3) le pertinenze possono essere oggetto di separati atti o rapporti giuridici

107
5. Le universalità di beni mobili sono pluralità di cose che appartengono alla stessa persona
e che hanno una destinazione economica unitaria (art. 816 c.c.). tipici esempi di universalità
sono il gregge e la biblioteca. Rientra nella nozione di universalità anche l’azienda, ossia
l’organizzazione di beni destinati all’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.).
Caratteristica peculiare della universalità è di essere una autonoma entità economica che non
muta col variare dei suoi elementi.
Le regole previste per le pertinenze si applicano di massima anche alla universalità.
Rispetto alle universalità di beni caratterizzata dalla destinazione economica unitaria, dette
anche di fatto, si distinguono le universalità di diritto, quali complessi di beni unificati da una
destinazione giuridica (es.: l’eredità).
Alle universalità di diritto si applicano le norme che regolano di volta in volta tali figure.

6. I frutti sono naturali o civili.


I frutti naturali sono le cose materiali che provengono direttamente da una cosa madre vi
concorra o no il lavoro dell’uomo, come "i prodotti agricoli, la legna, i parti degli animali, i
prodotti delle miniere, cave o torbiere" (art. 820 1, c.c.).
I frutti civili sono il reddito pecuniario che si ricava da una cosa in virtù di un rapporto giuridico.
Tali sono gli interessi dei capitali, i canoni delle locazioni, le rendite, ecc. (art. 8203, c.c.).
I frutti naturali, finchè non avviene la separazione, sono parti integranti della cosa madre, anche
se possono essere oggetto di disposizione come cose mobili future (art. 820 2 c.c.). Essi
appartengono al proprietario dalla cosa madre.
I frutti naturali diventano autonomi oggetto di proprietà a seguito della separazione della cosa
madre.
I frutti civili si distaccano dal capitale al momento della loro maturazione. Ciò è espresso dalla
formula del codice secondo la quale i frutti si acquistano giorno per giorno in ragione della
durata del diritto (art. 8213 c.c.).

MODULO XXVI

La proprietà

1. I diritti reali
2. Il diritto di proprietà
3. I caratteri della proprietà
4. Garanzia costituzionale e funzione sociale della proprietà
5. Il divieto degli atti emulativi

1. – Diritti reali sono i diritti che conferiscono un potere immediato e assoluto su una cosa.

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I diritti reali si distinguono in diritti reali di godimento e diritti reali di garanzia secondo che
conferiscano poteri di godimento o di garanzia.
Diritto reale di godimento per eccellenza è la proprietà, a fronte della quale si collocano i
diritti reali su cosa altrui.
Diritti reali di godimento su cosa altrui sono la superficie, l'enfiteusi, l'usufrutto,
l'abitazione, l'uso, le servitù. Diritti reali di garanzia sono il pegno e l'ipoteca.
Caratteri dei diritti reali sono l'immediatezza, l'assolutezza e l'inerenza.
L'immediatezza indica la diretta soggezione della cosa al potere del titolare del diritto reale,
nel senso che il titolare esercita il suo potere senza il tramite di una prestazione altrui.
L'assolutezza indica la tutelabilità del diritto nella vita di relazione, e la conseguente
esperibilità di esso nei confronti di chiunque lo contesti o lo pregiudichi o sia destinatario dei
suoi effetti.
L'inerenza designa l'opponibilità del vincolo a chiunque possieda la cosa o vanti un diritto su
di essa.
Oggetto dei diritti reali sono le cose materiali. E’ infatti in relazione alle cose materiali che può
esplicarsi quel potere immediato che rappresenta uno dei connotati essenziali dei diritti reali.
Oltre che per la materialità, l'oggetto dei diritti reali si caratterizza per la specificità.
Il carattere della specificità sta ad indicare che oggetto del diritto possono essere esclusivamente
cose specifiche e attualmente esistenti.
Il carattere della specificità è anch'esso connesso a quello della immediatezza, in quanto il potere
immediato su una cosa presuppone che questa sia concretamente determinata e attualmente
esistente. Si coglie in tal modo un'altra differenza rispetto ai diritti di credito, che possono invece
avere ad oggetto beni generici e beni futuri.
Tenendo presente che carattere essenziale dell'oggetto dei diritti reali è la specificità, può
intendersi come non esista la proprietà del patrimonio, ma la proprietà delle singole cose che ne
fanno parte.
Può intendersi ancora come il contratto di alienazione avente ad oggetto cose generiche o future
possa produrre l'effetto reale solo a seguito della individuazione o la venuta ad esistenza del
bene.
I diritti reali sono assoggettati al principio del numero chiuso.
Il principio del numero chiuso dei diritti reali indica la tipicità legale necessaria di questi
diritti. In conformità di tale principio non è dato ai privati creare figure di diritti reali al di
fuori di quelle previste dalla legge né modificarne il regime.
Il principio del numero chiuso non è espressamente sancito dal codice ma esso si desume da
ciò, che la possibilità di creare figure atipiche è stata prevista solo in tema di contratti.
Il tentativo di estendere l’ambito dell’autonomia privata oltre i limiti dei diritti reali tipi urta
contro una fondamentale esigenza sociale, quella di non consentire ai privati di creare a loro
piacimento vincoli destinati a inceppare l’utilizzabilità e la commerciabilità dei beni da parte dei
futuri proprietari. Urta poi contro il principio di relatività del contratto, che non consente alle
parti di incidere negativamente sulla sfera giuridica altrui.

2. – La proprietà è il diritto reale che ha per contenuto la facoltà di godere e disporre delle cose
in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti
dall’ordinamento giuridico (art. 832 c.c.).
La facoltà di godimento del proprietario comprende tutte le possibili forme di
utilizzazione delle cose. Il proprietario può inoltre disporre a suo arbitrio delle cose in senso
giuridico (gravandole di servitù, dandole in pegno, ecc.) e in senso materiale (mutandone la
destinazione economica, modificandone, la struttura, ecc.).

3. – Caratteri della proprietà sono: a) la realità; b) la pienezza; c) l’elasticità; d) l’esclusività; e)


l’indipendenza; f) l’imprescrittibilità; g) la perpetuità.

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a) Realità. – La proprietà è un diritto reale, anzi è il massimo dei diritti reali, il modello perfetto
rispetto al quale tutti gli altri diritti si qualificano come limitati.
La realità del diritto comporta l’immediatezza, l’assolutezza, l’inerenza e la materialità
dell’oggetto.
b) Pienezza. – Ciò che distingue essenzialmente la proprietà dagli altri diritti reali è la pienezza
del diritto, cioè la generalità del potere di godimento e disposizione del bene. Pienezza del diritto
significa che la proprietà non conferisce specifiche facoltà ma un potere che comprende la
generalità della forme di godimento e di disposizione della cosa.
La pienezza del diritto di proprietà non è contraddetta dalla presenza di limiti pubblicistici e
privatistici poiché tali limiti comprimono la sfera del diritto, che è però determinata pur sempre
in via generale. I limiti, precisamente, incidono sul contenuto del diritto, quale potere generale di
godimento e di disposizione del bene.
Il proprietario, dunque, può fare del suo bene tutto ciò che non è vietato.
Da qui la fondamentale differenza rispetto ai diritti reali limitati, il cui contenuto è invece
delimitato con riferimento a determinati poteri (il titolare può passare per il fondo altrui, può
percepire i frutti della cosa, ecc.).
c) Elasticità. – Al carattere della pienezza del diritto di proprietà si connette quella della
elasticità, intesa come idoneità del diritto a riespandersi automaticamente nel suo normale
contenuto a seguito del venir meno dei limiti che lo comprimevano, siano essi diritti concorrenti
sul bene o vincoli pubblicistici. Così, ad es., a seguito dell’estinzione del diritto di usufrutto la
nuda proprietà diventa proprietà piena.
d) Esclusività. – La formula della legge richiama un altro carattere, tradizionalmente
riconosciuto alla proprietà, quello della esclusività del diritto. L’esclusività vuole dire che il
proprietario può escludere altri dal godimento della cosa (ad es., il proprietario di un terreno può
recintarlo al fine di impedire che i terzi vi possano entrare: art. 841 c.c.) o, in più ampi termini,
che gli altri non devono invadere la sua sfera di godimento.
e) Indipendenza. – L’indipendenza del diritto di proprietà sta a indicare che esso non
presuppone altri diritti sulla cosa. In ciò la proprietà si differenzia dagli altri diritti, che si dicono
anche “su cosa altrui” in quanto incidono sull’altrui diritto di proprietà, che ne costituisce quindi
il presupposto.
f) Imprescrittibilità. – La proprietà è un diritto imprescrittibile. Il carattere della
imprescrittibilità del diritto risulta dalla imprescrittibilità dell’azione di rivendicazione (art. 948 3
c.c.). Se il proprietario può rivendicare in ogni tempo le sue cose, ciò vuol dire che il suo diritto di
proprietà non si estingue per il mancato esercizio.

4. – La nostra Costituzione non include la proprietà tra i diritti ‘inviolabili’ dell’uomo, ma


enuncia due basilari principi: quello della garanzia costituzionale e quello della funzione sociale.
Il principio della funzione sociale pone in nuova luce il diritto di proprietà. Sancisce infatti la
Costituzione che la legge determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti della proprietà
“allo scopo di assicurarne la funzione sociale e renderla accessibile a tutti” (art. 42 2).
La proprietà può dunque essere limitata dalla legge al fine di rendere il bene vantaggioso per la
comunità, ad es., favorendo il turismo, creando nuovi posti di lavoro, salvaguardando
l’ambiente, incrementando la disponibilità delle case di abitazione, favorendo la produttività dei
beni strumentali, ecc.
La Costituzione impone il raccordo tra interesse individuale e interessi collettivi ma demanda al
legislatore ordinario il compito di operare tale raccordo, cioè di identificare i beni suscettibili di
una funzione sociale e di determinare i limiti da imporre, specificando tipi, modi e procedimenti
dell’imposizione.
Le limitazioni pubblicistiche, sancite per assicurare l’utilità sociale del bene, non sono di per sé
incompatibili con il diritto del proprietario in quanto il bene può soddisfare interessi generali e al
tempo stesso l’interesse privato del proprietario. L’imposizione di un vincolo per assicurare

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l’utilità sociale del ben può quindi ben lasciare al proprietario il diritto di godere e disporre di
esso nel proprio interesse (es.: il proprietario di un edificio può essere tenuto per legge a
mantenerlo in condizioni di decoro, sicurezza o igiene senza che ciò escluda la posizione di
vantaggio in cui si immedesima la sua proprietà).

5. – Il proprietario non può compiere atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o
recare molestia ad altri: il codice (art. 833) ha sancito in tal modo il divieto degli atti di
‘emulazione’, comunemente chiamati emulativi.
Requisiti della emulatività dell’atto sono: a) l’esercizio del diritto di proprietà; b) la finalità
pregiudizievole; c) l’inutilità dell’atto.
a) L’esercizio del diritto di proprietà. – L’atto emulativo consiste in un atto di esercizio
del diritto di proprietà, cioè nell’esplicazione della facoltà di godimento o di disposizione della
cosa. Anche l’inerzia si ammette che, seppure eccezionalmente, possa presentare gli estremi
dell’esercizio abusivo della proprietà.
Reputa la dottrina che in via di interpretazione estensiva il divieto colpisca pure l’esercizio
emulatorio di diritti reali limitati.
b) La finalità pregiudizievole. – La finalità pregiudizievole è intesa dalla giurisprudenza e dalla
dottrina largamente prevalente quale dolosa intenzione di arrecare ad altri danno o molestie: si
parla al riguardo di animus nocendi.
c) L’inutilità dell’atto. – L’inutilità dell’atto per il proprietario che lo compie è un altro elemento
costitutivo della fattispecie.
L’intendimento rigoroso di questo requisito porta generalmente ad escludere il carattere
emulatorio dell’atto in presenza di un qualsiasi vantaggio perseguito dal suo autore.

5. - Fondamento del divieto degli atti emulativi è il principio dell’abuso del diritto.
Il proprietario che compie un atto emulativo compie un atto che rientra nell’ambito dei poteri
che gli sono riconosciuti ma che non soddisfa un apprezzabile interesse ed è diretto ad un
risultato socialmente spregevole (il nocumento altrui).
Contro gli atti emulativi è esperibile il generale rimedio del risarcimento del danno per
equivalente e in forma specifica. E’ anche esperibile il rimedio dell’inibitoria.

111
MODULO XXVII

La proprietà fondiaria. Confini e rapporti di vicinato.

1. Confini orizzontali e verticali della proprietà


2. Il sottosuolo
3. L’area sovrastante
4. Chiusura del fondo
5. Accesso al fondo
6. I rapporti di vicinato
7. Le immissioni
8. Le distanze delle costruzioni
9. I muri
10. Distanze di opere nocive o pericolose
11. Distanze delle piante
12. Le luci
13. Le vedute
14. Lo stillicidio
15. Lo scolo. Le acque

1. La proprietà fondiaria indica in generale la proprietà immobiliare e ad essa fanno


riferimento le norme sui confini e i rapporti di vicinato.
Questo riferimento si spiega in considerazione della natura degli immobili.
La tematica dei confini riguarda la proprietà di beni immobili, perché solo con riguardo agli
immobili occorre stabilire fin dove si estende il diritto del proprietario. I confini sono i limiti
spaziali che identificano l’immobile nella sua entità rispetto agli altri immobili.
Di regola gli immobili sono sufficientemente identificati dai confini orizzontali, cioè dalle
limitrofe proprietà pubbliche o private. E’ tuttavia possibile che l’immobile sia delimitato da

112
proprietà superiori o inferiori. Ciò accade in presenza di costruzioni a più piani e nell’ipotesi di
sezioni verticali del sottosuolo appartenenti a proprietari diversi.

2. – La proprietà del suolo di estende al sottosuolo (art. 840 1 c.c.). Il codice sancisce in tal modo
il principio dell’appartenenza del sottosuolo al proprietario del suolo.
Il diritto di proprietà di estende fin dove il sottosuolo è suscettibile di normale utilizzazione.
Questa interpretazione trova riscontro nella disposizione che vieta al proprietario di opporsi alle
attività dei terzi svolte a tale profondità “che egli non abbia interesse ad escluderle” (art. 840 3
c.c.).
L’interesse del proprietario ad escludere le attività dei terzi nel sottosuolo presuppone che tali
attività menomino la facoltà di godimento dell’immobile, che cioè invadano la sfera di
utilizzabilità del sottosuolo.
Al di là di questa soglia la proprietà non si estende e il proprietario non può né impedire le
attività del terzi né pretendere di essere indennizzato dai terzi che si appropriano di porzioni del
sottosuolo (ad es.: costruzione di un canale o di una galleria a profondità tali da non incidere sul
godimento e sulla ordinaria disponibilità dell’immobile).

3.– Il proprietario non può opporsi ad attività di terzi che si svolgono a tale altezza nello spazio
sovrastante, che egli non abbia interesse ad impedirle (art. 840 3 c.c.).
Sul problema se l’area sovrastante possa essere oggetto di proprietà, le indicazioni della
giurisprudenza sono contrastanti.
Alle sentenze che hanno riconosciuto la proprietà dell’area sovrastante e la sua alienabilità per
sezioni fanno riscontro le sentenze che hanno negato la configurabilità dell’area sovrastante
quale bene giuridico suscettibile di proprietà e di tutela possessoria.
La tesi che riconosce nello spazio sovrastante un bene appartenente al proprietario del fondo, è
meritevole di consenso.
A favore di questa tesi è decisivo il rilievo che la realtà socio-economica degli immobili non si
esaurisce nella loro superficie ma comprende la parte superiore, senza la quale nessuna loro
utilizzazione sarebbe concepibile. Entro i limiti della sua sfruttabilità questa parte ha un valore
economico ed è quindi bene suscettibile di costituire oggetto di diritti.
Il riconoscimento che la proprietà del fondo si estende all’era sovrastante, non implica però che
tale area sia alienabile separatamente, che cioè il proprietario possa alienare sezioni della
‘colonna d’aria’.
Al riguardo va considerato che l’area sovrastante non è un bene a sé stante ma una parte
necessariamente connessa con il suolo. La normale utilizzazione di essa si realizza mediante
costruzioni, la cui base insiste sul suolo.
La possibilità di sfruttamento edilizio della colonna d’aria anche da parte di non proprietari del
suolo risponde certo ad un interesse obiettivamente apprezzabile. Ma tale possibilità ha trovato
puntuale riconoscimento normativo nel tipo del diritto di superficie.
Appare allora corretta la soluzione giurisprudenziale che nella vendita della colonna d’aria
ravvisa gli estremi di un negozio nullo convertito nella costituzione di un diritto di superficie.

4. La chiusura del fondo è la sua recinzione mediante un muro o altre analoghe opere
(cancellate, steccati, ecc.) atte a impedirne l’accesso agli estranei. La chiusura del fondo è
rimessa all’arbitrio del proprietario, che si ritiene non incontrare neppure il limite del divieto
degli atti emulativi (art. 841 c.c.). La chiusura del fondo è infatti un’operazione rispondente ad
un interesse tipico, l’interesse alla ‘difesa’ del fondo, che il proprietario è specificamente
autorizzato dalla legge a tutelare da sé mediante la chiusura dell’immobile.

5. Il proprietario che non abbia chiuso il proprio fondo, può di massima opporsi all’accesso
dei terzi.

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Il codice non attribuisce espressamente al proprietario il potere di opporsi all’accesso dei terzi
sul fondo ma tale potere risulta dal contenuto stesso del diritto di proprietà (godimento pieno ed
esclusivo), ed è confermato dalle specifiche facoltà di accesso riconosciute ai terzi.
Una prima facoltà concerne la caccia. A chi esercita la caccia non può infatti essere impedito
l’accesso al fondo salvo che questo sia stato chiuso nei modi previsti dalla legge speciale o sia
attualmente coltivato e le colture siano «suscettibili di danno» (art. 842 1 c.c.) e salvo che il
cacciatore sia privo di licenza (art. 8422 c.c.).
L’esercizio della caccia conferisce quindi il diritto di accesso al fondo.
Altra facoltà è riconosciuta al vicino che abbia la necessità di accedere al fondo per costruire o
riparare un muro o altra opera propria o comune (art. 843 1 c.c.) e a chiunque voglia riprendere
una cosa propria che si trovi accidentalmente sul fondo o un animale sfuggito alla sua custodia
(art. 8433 c.c.).
In questi casi il proprietario ha il dovere di permettere l’accesso al fondo salvo che provveda a
consegnare al terzo l’oggetto o l’animale finito sul fondo (art. 843 3 c.c. in fine).

6. – I rapporti di vicinato sono i rapporti che regolano il godimento dei fondi in relazione ai
fondi vicini: questi rapporti sono disciplinati dal codice in funzione di un’ordinata coesistenza
della proprietà fondiaria.
Una generale norma di vicinato è quella che vieta gli atti emulativi (mod. XXIV n. 5).
Oltre a questa norma, che è espressione del più generale principio del divieto di abuso del diritto,
il codice detta una serie di specifiche norme di vicinato, quali limiti reciproci delle proprietà
immobiliari. Le specifiche norme di vicinato, precisamente, hanno ad oggetto le immissioni
nonché le costruzioni, i muri, le opere pericolose o nocive, le piante, le luci e vedute, lo stillicidio,
le acque.

7. Le immissioni sono propagazioni di fattori disturbanti causate dall’opera dell’uomo.


Le immissioni hanno per oggetto tutte le entità idonee a recare molestie, come fumo, calore, gas,
odori, rumori, scuotimenti ed altri simili elementi, quali la polvere e i raggi Röntegen.
Il codice vieta le immissioni che eccedono la “normale tollerabilità” (art. 844 1). La normale
tollerabilità è la sopportabilità delle immissioni valutata alla stregua della coscienza sociale.
La norma impone di valutare le immissioni dal punto di vista del fondo ricevente, senza tuttavia
dare ingresso ad un criterio personalistico. La normale tollerabilità è infatti da accertare in base
ad una valutazione obiettiva che prescinda dalla eccezionalità delle condizioni soggettive e
dell’attività della persona.
Le immissioni intollerabili possono essere impedite mediante un’azione intesa ad ottenere una
condanna di contenuto inibitorio.
L’azione ha carattere reale in quanto è un’azione a tutela del diritto di proprietà o altro diritto
reale di godimento, e legittimati a proporla sono i titolari di tali diritti.
Quando le immissioni provengono da un’attività produttiva, il giudice, secondo la formula del
codice, deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà (art. 844 2).
La norma sulle immissioni è regola proprietaria, ma occorre riconoscere che la sua applicazione
non può non tenere conto dei diritti fondamentali dei proprietari o possessori del fondo.
Il bene salute, in particolare, rimane un bene primario, preminente rispetto agli interessi
economici della produzione. Deve quindi sicuramente respingersi l’idea che esso possa essere
sacrificato per soddisfare gli interessi della produzione, e che il sacrificio possa essere
compensato con un indennizzo.

8. – Il codice stabilisce in 3 metri la distanza minima intercorrente tra le costruzioni che non
siano unite o aderenti (art. 873). Le leggi speciali e regolamenti locali possono stabilire una
distanza maggiore.

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L’interesse pubblico che ispira in via primaria le norme sulle distanze delle costruzioni esclude la
loro derogabilità pattizia. Inderogabile è quindi la disposizione del codice come inderogabili sono
anche i regolamenti locali sulle distanze nonché le disposizioni edilizie miranti ad altre finalità di
interesse generale (sicurezza sismica, qualità urbana della zona, ecc.).
I limiti delle distanze non si applicano agli edifici confinanti con piazze e vie pubbliche (art. 879 2
c.c.).
Il proprietario che costruisce per primo (proprietario preveniente) gode del c.d. diritto di
prevenzione, che gli consente le seguenti scelte: 1) costruire sul confine oppure 2) distaccarsi dal
confine nella misura della metà della distanza minima tra le costruzioni oppure 3) distaccarsi dal
confine a meno della metà della distanza minima (in tal caso il proprietario prevenuto potrà
costruire in aderenza o in appoggio al muro del vicino pagando il valore del suolo occupato (art.
8772 c.c.)).
Contro la violazione delle norme sulle distanze delle costruzioni compete anzitutto il rimedio
della rimessione in pristino. Tale rimedio è previsto per la violazione di norme sulle distanze
contenute nel codice e di norme dei regolamenti locali integrative di questo (art. 872 2 c.c.). La
tutela può essere chiesta anche in via urgente.

9. - I muri di cinta, ossia i muri costruiti in funzione di demarcazione o di chiusura del fondo,
non sono soggetti alle norme sulle distanze delle costruzioni, salvo che abbiano un’altezza
superiore ai 3 metri (art. 8781 c.c.).
Il proprietario, ad es., può erigere il muro di cinta sul confine pur se il vicino abbia costruito un
edificio a distanza dal confine inferiore ai 3 metri o alla misura minima stabilita dai regolamenti
locali.
Nelle aree abitate il proprietario può costruire muri di cinta per separare la casa, i cortili e i
giardini rispetto alla proprietà confinante e pretendere dal vicino la contribuzione per metà
della spesa (art. 886 c.c.).
Il vicino può esimersi dall’obbligo della contribuzione cedendo gratuitamente la metà del suolo
su cui il muro dev’essere eretto: la cessione ha luogo mediante atto unilaterale, qualificabile
come abbandono liberatorio.

10. – Norme particolari sulle distanze sono dettate con riguardo ad opere pericolose o nocive.
Come tali sono previste anzitutto le cisterne, i pozzi le fosse di lastrina e di concime. Per tali
opere, ci sia o non ci sia un muro divisorio, la distanza minima dal confine è di 2 metri (art. 889 1
c.c.).
La distanza minima di 1 metro deve osservarsi per i tubi d’acqua e di gas (art. 889 2 c.c.).
Il codice menziona poi forni, camini, magazzini di sale, stalle e simili, depositi di materie umide
o esplodenti o comunque nocive, impianti di macchinari potenzialmente pericolosi. Con riguardo
a queste opere non è fissata una data misura ma è prescritta l’osservanza della distanza che di
volta in volta risulti sufficiente a salvaguardare i fondi vicini, ferme sempre le disposizioni dei
regolamenti locali (art. 890 c.c.).
Altra previsione riguarda i canali e i fossi, per i quali la distanza dal confine dev’essere non
inferiore a quella della loro profondità (art. 891).

11. – Con riguardo alle piante sono i regolamenti e gli usi locali che ne stabiliscono le distanze
minime dai confini. In mancanza devono essere osservate le distanze fissate dal codice (art. 892 1
c.c.).
Il codice indica distanze diverse in relazione ai diversi tipi di piante, secondo che si tratti di alberi
di alto fusto (3 metri), alberi di non alto fusto (1 metro), viti, arbusti e siepi (1/2 metro) e piante
da frutto (1/2 metro).

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La violazione delle prescrizioni sulle distanze può dar luogo al rimedio della rimessione in
pristino mediante l’estirpazione delle piante (art. 849 c.c.), salvo che questa sia vietata dai
regolamenti locali o dagli usi locali.
Sempre in tema di piante il codice prevede il diritto del proprietario di pretendere in ogni tempo
il taglio dei rami che si protendono sul suo fondo e di tagliare egli stesso le radici che vi si
addentrano, salvo che diversamente stabiliscano i regolamenti e gli usi locali (art. 896 1 c.c.).
I frutti naturalmente caduti dai rami protesi sul fondo del vicino, appartengono a quest’ultimo,
salvo che gli usi locali dispongano diversamente (art. 896 2 c.c.).
12. – Le luci sono le aperture sul fondo del vicino che fanno passare la luce e l’aria ma non
consentono di affacciarsi.
Le luci si distinguono in regolari e irregolari.
Le luci sono regolari quando hanno un’inferriata idonea a garantire la sicurezza del vicino, una
grata metallica con maglie non più grandi di 3 centimetri quadrati e stanno ad un’altezza minima
dal suolo del luogo in cui sono ubicate e dal suolo del fondo vicino (art. 901 c.c.).
Le luci prive di tutti o di alcuni di questi requisiti sono irregolari.

Il proprietario esclusivo del muro può liberamente aprire luci regolari che danno sul fondo
vicino (art. 9031 c.c.). Quando il muro è comune occorre l’accordo dei comproprietari (9032 c.c.).
Se le luci non sono regolari il proprietario del fondo vicino può pretendere la loro
regolarizzazione. Non può invece pretenderne l’accecamento.
Le luci – regolari o irregolari – non impediscono al proprietario del fondo vicino di costruire in
aderenza al muro o di renderlo comune e di costruire in appoggio, pervenendo in tal modo al
risultato della loro chiusura (art. 904 c.c.).

13. – Le vedute sono aperture che consentono di guardare frontalmente e di affacciarsi sul
fondo altrui, sì da volgere intorno lo sguardo (art. 900 c.c.).
A differenza delle luci, che possono essere liberamente aperte sul fondo vicino, le vedute sono
soggette a distanze minime dal confine.
Al riguardo il codice distingue tra vedute dirette e vedute oblique o laterali.
Sono dirette le vedute che offrono una visione frontale del fondo; oblique o laterali sono quelle
che offrono una visione laterale del fondo vicino, che cioè consentono di guardarlo solo girando il
capo o gli occhi.
Il regime delle distanze è regolato come segue.
Non possono essere aperte finestre con veduta diretta sul fondo altrui a distanza inferiore a 1
metro e ½ dal confine.
La distanza legale minima deve intercorrere tra la facciata esterna del muro in cui si trova la
finestra e la linea di confine. Analoga prescrizione vale per qualsiasi opera stabile che consenta
normalmente l’affaccio e la veduta sul fondo altrui (balconi, terrazze, ecc.). In tal caso la distanza
legale minima si misura dalla linea esteriore dell’opera.
Le finestre e le opere che permettono una vista obliqua o laterale sul fondo altrui, devono
osservare rispetto a questo la distanza di 75 centimetri. La distanza va misurata dal più vicino
punto della finestra o dell’opera (art. 906 c.c.).
Le vedute e le altre opere che consento la vista e l’affaccio sul fondo altrui possono essere oggetto
di un diritto personale o di un diritto reale di servitù. La servitù può costituirsi anche per
usucapione.

14. - Lo stillicidio è lo scolo delle acque piovane dai tetti delle costruzioni. Il codice vieta al
proprietario di far cadere lo stillicidio a carico del fondo vicino rientra nell’ambito degli obblighi
legali che ineriscono al diritto di proprietà. La sua violazione può dar luogo al rimedio
dell’esecuzione in forma specifica.

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15. - Lo scolo è lo scorrimento naturale dell’acqua dai fondi superiori a quelli inferiori (art. 9131
c.c.).
Il codice impone ai proprietari dei fondi inferiori di sopportare lo scolo e ai proprietari dei fondi
superiori di non aggravarlo (art. 9132 c.c.).
Ai primi è fatto pertanto divieto di eseguire opere che impediscono lo scolo, ai secondo di
eseguire opere che lo rendano più gravoso.

16. Il codice stabilisce al primo comma che “il proprietario del suolo ha il diritto di utilizzare
le acque in esso esistenti, salve le disposizioni delle leggi speciali per le acque pubbliche e per le
acque sotterranee” (art. 909). Tale diritto del proprietario risulta tuttavia fortemente limitato.
L’art. 1, 1° comma della legge 5 gennaio 1994, n. 36, Disposizioni in materia di risorse idriche,
dispone che “tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal suolo, sono
pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di
solidarietà”.
Il regime delle acque private attiene ai rapporti di vicinato in quanto l’acqua è suscettibile di
passare da un fondo all’altro rilevando come causa di pregiudizio e come bene primario della vita
umana e dell’economia agricola e industriale, di cui si impone un’utilizzazione che trascende
l’ambito della singola proprietà. In corrispondenza a questa duplice valenza dell’acqua, le norme
di vicinato sono fondamentalmente dirette a: a) tutelare il fondo contro immissioni di acqua
alterate; b) garantire una equa ripartizione dell’uso dell’acqua tra i proprietari dei fondi vicini.

MODULO XXVIII

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Limiti della proprietà

1. I vincoli urbanistici
2. La licenza edilizia
3. Le convenzioni urbanistiche
4. La cessione di volumetria

1. I vincoli urbanistici sono limiti pubblicistici della proprietà edilizia sanciti da leggi speciali
e piani regolatori per garantire il rispetto dell’ambiente urbano e naturale. Proprietà edilizia è il
termine che indica la proprietà di edifici costruiti o in via di costruzione e di suoli edificabili.

2. Il primo limite della proprietà edilizia attiene alla facoltà di edificare.


La facoltà di edificare, ampiamente intesa come facoltà di costruire, ristrutturare e demolire, è
uno dei modi di utilizzazione del suolo e rientra quindi nel contenuto del diritto di proprietà, ma
il suo esercizio è subordinato alla preventiva autorizzazione o licenza dell’Autorità comunale.
La legge sul condono edilizio ha sancito in termini generali la nullità degli atti tra vivi aventi ad
oggetto il trasferimento di diritti reali relativi ad edifici o loro parti senza l’indicazione degli
estremi della concessione edilizia o del condono (art. 171 l. 28 febbraio 1985, n. 47).
La nullità sostanziale dell’atto è sancita per colpire l’immissione sul mercato delle costruzioni
abusive. Quella formale per prevenire la stessa stipulazione dei contratti di alienazione.
In tal modo la legge impedisce in radice i tentativi di speculare sulle opere abusive, ed evita il
danno sociale rappresentano già dalla stipulazione.

3. Le convenzioni urbanistiche sono contratti stipulati tra i privati proprietari e i


Comuni in ordine a un determinato programma di urbanizzazione. Mediante tali convenzioni i
privati s’impegnano ad eseguire opere di urbanizzazione relative all’area pianificata. Particolare
rilievo al riguardo hanno assunto le convenzioni di lottizzazione, previste dalla legge urbanistica
del 1967 (art. 8), con le quali i privati s’impegnano alla cessione gratuita delle aree destinate alle
opere di urbanizzazione e alla parziale assunzione dei carichi relativi alla loro esecuzione.
Implicito impegno del Comune è quello di compiere quanto necessario (rilascio delle
autorizzazioni, esecuzione delle opere di sua competenza, ecc.) per la realizzazione del
programma di lottizzazione.

4. La cessione di volumetria o cubatura è il contratto mediante il quale il proprietario di un


fondo attribuisce ad altri il diritto di utilizzare la propria volumetria, ossia la misura di
edificabilità rapportata allo spazio del proprio fondo.
Precisamente, le norme urbanistiche fissano la misura entro la quale l’area di una data zona può
essere edificata. Il proprietario di ciascun fondo gode quindi di uno spazio volumetrico di
sfruttamento edilizio, chiamato volumetria. A seguito della cessione di questa volumetria il
cessionario può costruire sul proprio fondo assommando la propria volumetria e quella
acquisita: può cioè costruire come se fosse proprietario di entrambi i fondi.
La giurisprudenza ravvisa nella volumetria la facoltà di edificare, quale “utilità” del fondo
suscettibile di autonoma disposizione. La cessione di volumetria si configurerebbe pertanto
quale vendita di un diritto reale immobiliare.
In quanto la cessione della volumetria conferisce al fondo del cessionario un obiettivo vantaggio
in correlazione ad un onere gravante sul fondo del cedente, limitativo della facoltà di costruire,
può propriamente ravvisarsi in tale contratto la costituzione di una servitù, avente a contenuto
l’utilizzabilità della volumetria spettante al fondo servente. Il contratto richiede la forma scritta a
pena di nullità, come tutti i contratti ad effetti reali immobiliari.

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MODULO XXIX

Modi di acquisto e perdita della proprietà

1. Modi di acquisto originario e modi di acquisto a titolo derivativo


2. L’occupazione
3. L’invenzione
4. L’accessione
5. La specificazione
6. L’unione e la commistione
7. L’alluvione
8. L’avulsione

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9. L’abbandono

1. - I modi di acquisto della propriètà e in genere dei diritti si distinguono in modi di acquisto a
titolo originario e modi di acquisto a titolo derivativo.
Modi di acquisto a titolo derivativo sono quelli che presuppongono la precedente titolarità del
diritto in capo ad un determinato soggetto, come ad es., la vendita. Modi di acquisto a titolo
originario sono quelli che prescindono dalla precedente titolarità del diritto in capo ad un
determinato soggetto, come ad es., l'usucapione.
Nei modi di acquisto a titolo derivativo il diritto del precedente titolare si trasferisce
all’acquirente, che quindi succede in quel diritto. Nei modi di acquisto a titolo originario, invece,
l’acquirente diventa titolare di un nuovo diritto.
I principali modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo, sono il contratto e la successione
a causa di morte. Si tratta di titoli di acquisto che riguardano in generale tutti i diritti.
Modi specifici di acquisto della proprietà a titolo originario sono: l'occupazione, l'invenzione,
l'accessione, la specificazione, l'unione e la commistione. Altri modi specifici di acquisto della
proprietà sono l'usucapione e il possesso di buona fede, che possono avere ad oggetto anche
diritti reali su cosa altrui. Altro modo di acquisto che riguarda in particolare la servitù è la
destinazione del padre di famiglia.
Modi di acquisto previsti dalle leggi speciali sono l'espropriazione per pubblica utilità, e altre
forme di appropriazione coattiva appartenenti al diritto pubblico e al diritto processuale (es., la
confisca, la vendita forzata dei beni.

2. - L'occupazione è un modo di acquisto della proprietà consistente nell'impossessamento di


cose che "non sono di proprietà di alcuno" (res nullius).
Il codice include in questa categoria "le cose abbandonate e gli animali che formano oggetto di
caccia e di pesca" (art. 9232 c.c.).
Al riguardo va tenuto presente che a seguito della l. 11 febbraio 1992, n. 157, la fauna selvatica è
patrimonio indisponibile dello Stato rimanendo tuttavia possibile oggetto di cacciagione nei
limiti consentiti.
Tra i beni suscettibili di occupazione il codice include anche le api e gli animali mansuefatti che
abbiano traslocato in altro fondo senza essere reclamati dal proprietario (art. 924, 925 c.c.).
Altra ipotesi di animali in allevamento migranti è quella che attiene a colombi, conigli e pesci che
passano da una colombaia, conigliera o peschiera all'altra (art. 926 cc.).
L'occupazione consiste nell'atto di impossessamento, cioè nella acquisizione del possesso della
cosa.
Essa non richiede l'elemento soggettivo della volontà diretta ad acquistare la proprietà.
L'occupazione non è pertanto un atto negoziale ma un atto giuridico in senso stretto.
Fondamento dell'occupazione è l'esigenza sociale di legittimare l'impossessamento delle cose
abbandonate o liberamente disponibili in natura al fine di consentire a tutti il godimento dei
beni che formano l'ambiente naturale.

3. – L’invenzione è il ritrovamento di cosa smarrita. Essa è prevista dal codice come 1) fonte
dell’obbligo di consegnare l’oggetto ritrovato al proprietario o all’Autorità pubblica e 2) come
modo di acquisto della proprietà dell’oggetto in caso di suo mancato reclamo.
Cosa smarrita è la cosa avente un apprezzabile valore economico o un presumibile valore di
affezione involontariamente perduta dal proprietario o possessore che ignori il luogo dove essa si
trovi, sia per avervela lasciata per pura negligenza, sia per esservi stata portata da altri (es.: da un
ladro) o in seguito a caso fortuito o forza maggiore.

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Chi ritrova una cosa smarrita ha l’obbligo di consegnarla al proprietario o, se non lo conosce, al
sindaco del luogo in cui l'ha trovata, con indicazione delle circostanze del ritrovamento (art. 927
c.c.). L'acquisto della proprietà della cosa in capo al ritrovatore avviene se la cosa non viene
reclamata dal proprietario dopo che sia trascorso un anno dall'ultimo giorno della pubblicazione
del ritrovamento (art. 929 c.c.).
Nel caso, invece, in cui il proprietario abbia reclamato il bene, egli è tenuto, ove il ritrovatore lo
richieda, a pagare un premio pari al decimo della somma o del valore della cosa ritrovata (art.
9301 c.c.). Se la cosa ritrovata non ha valore commerciale, la misura del premio è fissata dal
giudice secondo il suo prudente apprezzamento (art. 9303 c.c.).
La principale distinzione con l'occupazione è che qui si tratta, non di cose abbandonate, ma di
cose presumibilmente appartenenti ad altri proprietari. Infatti il fondamento dell'invenzione è
proprio la meritorietà sociale del ritrovamento del bene e della consegna all'Autorità.
Una disciplina particolare è riservata al tesoro. Il tesoro è una cosa mobile di pregio, nascosta o
sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario (art. 932 1 c.c.).
Il codice stabilisce la regola che il tesoro appartiene al proprietario del fondo in cui si trova. Se il
tesoro è trovato nel fondo altrui, purchè sia stato scoperto per effetto del caso, spetta per metà al
proprietario del fondo e per metà al ritrovatore (art. 932 2c.c.). Specifici obblighi di custodia e di
sicurezza sorgono in capo al ritrovatore di beni di valore artistico e culturale (art. 90 del d. lgs. 22
gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali).

4. - L'accessione è un modo di acquisto della proprietà per incorporazione al suolo di


piantagioni, costruzioni ed opere (art. 934 c.c.).
L'accessione è un modo di acquisto a titolo originario. Ciò vuol dire che il proprietario delle cose
incorporate non trasmette il suo diritto ma lo perde in conseguenza dell'acquisto esclusivo del
proprietario del fondo.
Elemento costitutivo dell'accessione è l'incorporazione, ovvero qualsiasi forma di stabile
congiunzione materiale, per opera dell'uomo o per evento naturale. Per esempio i fabbricati o le
costruzioni che ineriscono al suolo o le piante che vi sono piantate. Requisito dell'incorporazione
è la stabilità. Una costruzione provvisoria, come per esempio un'impalcatura non dà luogo ad
accessione. Non è invece requisito la separabilità. Anche le cose separabili, qualora non siano
state tempestivamente rivendicate dal proprietario, sono suscettibili di accessione.
Fondamento dell'accessione è il principio di attrazione della proprietà della cosa principale che
risponde ad una esigenza di economicità giuridica che impone di salvaguardare il razionale
godimento del bene, evitando frazionamenti o pluralità di diritti concorrenti sullo stesso.
Il codice prevede tre casi di accessione:
a) l'incorporazione di opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui (art. 935);
b) l'incorporazione di opere fatte da un terzo con materiali propri (art. 936);
c) l'incorporazione di opere fatte da un terzo con materiali altrui (art. 937).
Dalla disciplina codicistica emerge la regola per cui il proprietario del suolo acquista
immediatamente la proprietà delle cose inseparabili. Quanto alle cose separabili, il proprietario
può rivendicarle.
Eccezioni alla regola dell'accessione per cui la cosa mobile viene incorporata al suolo sono:
a) il diritto di superficie: il titolare di tale diritto è legittimato a fare e mantenere costruzioni sul
fondo del proprietario (art. 9521; 955 c.c.).
b) La c.d. accessione invertita. Tale figura attribuisce al costruttore la proprietà del suolo altrui
occupato con la costruzione. Si chiama invertita in quanto, contrariamente alla regola che
governa l'accessione, secondo la quale il proprietario del suolo acquista la costruzione, qui il
costruttore diviene proprietario anche del suolo. Il codice disciplina questa figura nel caso in cui
il costruttore occupa in buona fede una porzione del fondo attiguo e il proprietario di questo non
fa opposizione entro tre mesi dal giorno in cui ha avuto inizio l'occupazione (art. 938 1 c.c.). In tal
caso l'autorità giudiziaria può, tenuto conto delle circostanze, attribuire al costruttore la

121
proprietà dell'edificio e del suolo occupato. Il costruttore è tenuto a pagare al proprietario del
suolo il doppio del valore della superficie occupata, oltre al risarcimento dei danni (art. 938 2,
c.c.).
Un’ipotesi particolare di accessione invertita è prevista in favore della pubblica
Amministrazione, che occupa un suolo senza titolo ma per scopi di interesse pubblico. Questa
ipotesi, chiamata occupazione appropriativia, è disciplinata dal t.u. sull’espropriazione (art. 43
d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327).

5. – La specificazione è la trasformazione per opera dell'uomo della materia altrui in una cosa
nuova (art. 940 c.c.).
Il codice prevede la specificazione come modo di acquisto della proprietà prevedendo le seguenti
regole:
a) chi opera la specificazione acquista la proprietà della cosa specificata ma è tenuto a pagare il
prezzo della materia;
b) se il valore della materia è notevolmente superiore a quello del lavoro di trasformazione, la
proprietà della cosa specificata compete al proprietario della materia, il quale è tenuto a
corrispondere il prezzo del lavoro.
Fondamento dell'acquisto è il principio generale di appartenenza dei beni a chi li produce.

6. - L'unione e la commistione sono vicende di aggregazioni materiali di cose mobili che


confluiscono in un "sol tutto" senza dar luogo ad una cosa nuova e che rilevano come modi di
acquisto della proprietà delle singole parti.
L'unione, precisamente, è la congiunzione di più cose appartenenti a proprietari diversi. Essa
si distingue rispetto alla commistione che indica invece la loro mescolanza (art. 9391 c.c.).
Le regole che governano unione e commistione sono le seguenti:
a) se le cose unite o mescolate sono separabili senza notevole deterioramento i loro proprietari
ne conservano la proprietà e possono chiederne la separazione (art. 939 1 c.c.);
b) se le parti unite o mescolate sono inseparabili, i loro proprietari diventano comproprietari
della cosa composta in proporzione del valore di esse;
c) se le cose unite o confuse sono inseparabili, e una è principale rispetto all'altra o ha un valore
molto superiore, il proprietario della cosa principale o di maggior valore diventa
automaticamente e definitivamente proprietario del tutto (art. 939 2 c.c.). In questo caso egli ha
l'obbligo di pagare all'altro il valore della cosa unita o mescolata.

7. – L’alluvione è l’accrescimento successivo e impercettibile dei fondi rivieraschi di fiumi e


torrenti per l’azione dell’acqua corrente (art. 941 c.c.).
Elementi caratterizzanti dell’alluvione sono la progressività e l’impercettibilità
dell’accrescimento del fondo rivierasco: in ciò l’alluvione si distingue dall’avulsione, che
consiste nell’improvviso spostamento di una porzione considerevole e riconoscibile di terreno da
un fondo all’altro per effetto della forza dell’acqua corrente.
Fondamento dell’acquisto per alluvione è sempre il principio per cui la parte accessoria cede alla
cosa principale. Questo principio, che è alla base degli acquisti delle cose incorporate nel suolo e
nel sottosuolo, è alla base anche delle accessioni di terreno che si aggiungono al fondo e ne
estendono la superficie.

8.– L’avulsione è l’unione al fondo rivierasco di una porzione di terreno considerevole e


riconoscibile trascinata da altro fondo per forza istantanea dell’acqua corrente (art. 944 c.c.).
Elementi caratterizzanti dell’avulsione sono la identificabilità della porzione di terreno spostato
da un fondo all’altro e la repentinità del distacco dal fondo originario.

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Il proprietario del fondo incrementato acquista la proprietà della porzione di terreno avulso, ma
è tenuto a corrispondere un indennizzo nella misura del valore conseguito dal fondo (art. 944
c.c.).
Fondamento dell’acquisto per avulsione è sempre il principio per cui la proprietà della cosa
principale attrae la proprietà delle cose accessorie.

9. - L'abbandono, o derelizione, è l'atto mediante il quale il soggetto si disfa di cose di scarso


valore lasciandole in luogo aperto al pubblico. L'abbandono del proprietario comporta
l'estinzione del suo diritto sulla cosa che, in quanto abbandonata, diventa suscettibile di
occupazione.
Elementi caratterizzanti dell'abbandono sono il luogo aperto al pubblico in cui la cosa è lasciata e
la mancanza di un apprezzabile valore economico.
L'abbandono fondandosi sul mero elemento del rilascio della cosa in un luogo pubblico, è un atto
giuridico in senso stretto.
L'abbandono liberatorio indica delle ipotesi di abbandono previste dalla legge come strumento
del proprietario per liberarsi da obbligazioni, oneri o diritti altrui gravanti sulla cosa. In realtà
l'abbandono liberatorio, solo nominalmente è accostato all'abbandono. Esso integra ipotesi di
rinunzia ad un diritto al fine di liberarsi dagli obblighi accessori ad esso connessi.
Le ipotesi sono:
a) la rinunzia del comproprietario al suo diritto di comunione, con conseguente liberazione
dall'obbligo di contribuire alle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa
comune (art. 11041 c.c.):
b) la rinunzia del comproprietario alla sua quota del muro comune con conseguente liberazione
dall'obbligo di contribuire alle spese di riparazione e di manutenzione (art. 882 2 c.c.);
c) la cessione da parte del vicino della metà del terreno su cui deve essere costruito il muro di
cinta, con conseguente liberazione dall'obbligo di contribuire alle spese della costruzione (art.
888 c.c.);
d) la rinunzia del proprietario del fondo servente con conseguente liberazione dall'obbligo di
sostenere le spese necessarie per l'uso e la conservazione della servitu’ alle quali sia tenuto in
base al titolo o alla legge (art. 10701 c.c.).

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MODULO XXX

Le azioni a difesa della proprietà

1. Le azioni reali
2. La rivendicazione
3. L’azione negatoria
4. L’azione di regolamento dei confini
5. L’azione per l’opposizione dei termini

1. - Le azioni reali sono azioni volte a far valere un diritto reale.


Esse si distinguono rispetto alle azioni possessorie, le quali sono dirette a far valere il possesso
leso da atti di spoglio e molestie. Essendo azioni reali, ad esse si applicano regole specifiche.
Regole specifiche attinenti alle azioni reali immobiliari attengono alla giurisdizione, che spetta al
giudice dello Stato in cui l’immobile si trova (art. 5 l. 31 maggio 1995, n. 218), alla competenza
territoriale, che spetta al giudice del luogo in cui l’immobile è posto (art. 21 c.p.c.) e alla
trascrivibilità delle domande (art. 2653 c.c.).
Nell’ambito della azioni reali rientrano in primo luogo le azioni a difesa della proprietà.
Il codice prevede quattro azioni generali a difesa della proprietà: 1) la rivendicazione, 2) l’azione
negatoria, 3) l’azione di regolamento dei confini; 4) l’azione di apposizione di termini.
Sono poi previste singole azioni nella disciplina dei singoli diritti reali. Per esempio nei rapporti
di vicinato, è azione reale la domanda di comunione forzosa del muro.

2. - La rivendicazione è l'azione mediante la quale il proprietario fa valere il suo diritto di


proprietà al fine di recuperare la cosa da altri illegittimamente posseduta o detenuta (art. 948
c.c.).
L'attore in rivendicazione è tenuto in primo luogo a provare il suo diritto di proprietà.
In tema di rivendicazione immobiliare questa prova è particolarmente difficile (tanto da venir
chiamata probatitio diabolica) in quanto al rivendicante non è sufficiente esibire il titolo di

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acquisto derivativo, ma è necessario dare la prova che il precedente alienante o uno dei
precedenti danti causa avevano acquistato la proprietà a titolo originario.
Nei casi, invece, di acquisto a titolo originario, è sufficiente per l'attore esibire il titolo. L'azione è
imprescrittibile (art. 9483 c.c.).
Fondamento dell'azione (causa petendi) è la lesione del diritto di proprietà.
Oggetto dell'azione (petitum) è la condanna del convenuto alla restituzione della cosa o al
pagamento di un equivalente in denaro.
L'alienazione della cosa da parte del convenuto dopo la proposizione della domanda non incide
sulla prosecuzione del giudizio. In tal caso il convenuto è tenuto a recuperare la cosa per l'attore
a proprie spese o a corrisponderne il valore, oltre all'obbligo di risarcire il danno (art. 948 1 c.c.).

3. – L’azione negatoria è un'azione a difesa della proprietà diretta a far dichiarare l'inesistenza
di diritti reali affermati da terzi sulla cosa e far cessare eventuali turbative o molestie che
manifestino l'esercizio di tali diritti (art. 949 c.c.).
L'azione ha carattere reale ed è imprescrittibile. Essa compete anche ai titolari di altri diritti reali
diversi dalla proprietà: all'enfiteuta e all'usufruttuario.
L'oggetto dell'azione non è, come per la rivendicazione, la restituzione del bene, ma
l'accertamento della libertà della cosa. L'oggetto di tale azione si amplia in caso di turbative e
molestie in quanto si finalizza alla cessazione di esse oltre al risarcimento del danno.
L'attore è tenuto a provare la proprietà della cosa. A differenza dell’azione di rivendicazione
sufficiente l’esibizione del titolo derivativo pur se si tratta della proprietà di un immobile.
L’attore ha inoltre l’onere di provare specificamente l’inesistenza dei diritti affermati dai terzi.

4. - L'azione di regolamento di confini è l'azione volta alla definizione giudiziale di un confine


incerto (art. 9501 c.c.).
L'azione rientra tra le azioni reali ed è un'azione a difesa della proprietà. Essa tutela infatti
l'interesse del proprietario alla sicura delimitazione del suo fondo.
Tale azione presuppone un'incertezza soggettiva e oggettiva sul confine del fondo, ossia
un'incertezza derivante dalla contestazione del limite apparente (soggettiva) o dalla mancanza di
un limite apparente (oggettiva).
Legittimati attivi e passivi sono i proprietari dei fondi confinanti.
Oggetto dell'azione è la fissazione giudiziale del confine tra i fondi contigui.
L'attore, a differenza della rivendicazione, non è tenuto a provare il diritto di proprietà ma solo i
confini dell'immobile. A tal fine è sufficiente un valido titolo di acquisto e qualsiasi prova relativa
all'ubicazione dei confini.

5. – L’azione per l'apposizione di termini è l'azione mediante la quale il proprietario chiede che
i segni di confine del fondo mancanti o divenuti irriconoscibili siano apposti o ristabiliti col
concorso di spesa del vicino (art. 951 c.c.).
Rispetto all'azione di accertamento di confini, questa azione non presuppone l'incertezza in
ordine ai confini ma la mancanza o insufficienza della loro materiale visibilità.
Tale azione è quindi diretta a soddisfare l'interesse del proprietario alla chiarezza visiva dei
confini. L’interesse si rinviene anche in capo al proprietario del fondo contiguo e giustifica il suo
obbligo di contribuire alle spese.

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MODULO XXXI

Comunione e condominio

1. Nozione di comunione
2. Contenuto del diritto di comunione
3. Obblighi dei partecipanti
4. L’amministrazione
5. Il regolamento
6. Lo scioglimento
7. Il condominio
8. Le parti comuni
9. L'assemblea
10. L'amministratore
11. Il regolamento condominiale
12. Lo scioglimento del condominio
13. Il supercondominio

1. La comunione in senso oggettivo designa la situazione di appartenenza della proprietà o


altri diritti reali a più titolari per quote ideali.
La comunione della proprietà prende il nome di comproprietà.
La comunione in senso soggettivo designa il gruppo dei comproprietari o contitolari del diritto
comune.
Con riguardo al titolo costitutivo la comunione si distingue in
a) comunione volontaria, che le parti pongono in essere mettendo in comune beni di loro
appartenenza o acquistando congiuntamente le quote di proprietà di un bene o aderendo ad una
comunione già costituita;
b) comunione incidentale, che si costituisce senza un atto volontario dei compartecipi, ma ad
es., a seguito di successione ereditaria o per unione o commistione;
c) comunione forzosa, che si costituisce a seguito dell'esercizio di un diritto potestativo legale.
Tipica ipotesi è la comunione forzosa del muro (art. 874 cc).

2. In quanto la comunione attribuisce una quota del diritto di proprietà o di altro diritto
reale il contenuto del diritto attribuito è quello proprio di tali diritti, salvi i limiti derivanti dalla
coesistenza delle quote degli altri compartecipi. Il diritto di comunione conferisce quindi ai
singoli contitolari in primo luogo la facoltà di godere della cosa comune, con i relativi pesi e
vantaggi (art. 11012 c.c.). Tra i vantaggi sono inclusi l'acquisto dei frutti civili e naturali della
cosa e in generale gli acquisti a titolo originario.

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Il codice detta una particolare disciplina dell'uso della cosa comune che prevede le seguenti
regole:
a) ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (art. 1102 1 c.c.). La facoltà di utilizzare
la cosa comune è integrale e non è quindi riferita alla quota. A tal fine il compartecipe può
apportare a proprie spese le modificazioni necessarie al godimento della cosa.
b) ciascun partecipante, nel servirsi della cosa comune non può alterarne la destinazione
economica (art. 11021 c.c.). Tale limite è diretto a salvaguardare l'interesse degli altri
compartecipi a conservare l'oggetto del loro diritto nella sua identità economico-sociale;
c) ciascun partecipante è compossessore della cosa comune e non ne diviene possesso
esclusivo se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso (art. 1102 2 c.c.).
Tra i diritti spettanti a ciascun partecipe rientra la facoltà di disposizione e di cessione della
quota.

3. In quanto la comunione indica un regime di comproprietà, a ciascun partecipe sono


attribuiti pesi (art. 11012 c.c.).
In particolare il codice individua i seguenti obblighi dei partecipanti:
a) ciascun partecipante contribuisce alle spese necessarie alla conservazione e al godimento
della cosa comune (art. 11041 c.c.);
b) ciascun partecipante contribuisce alle spese deliberate dalla maggioranza. Tra queste sono
ricomprese anche tutte le innovazioni dirette al miglioramento della cosa o a renderne più
comodo o redditizio il godimento, purché non pregiudichino il godimento degli altri
comproprietari e non comportino una spesa eccessivamente onerosa (art. 1108 1 c.c.);
c) il partecipante che, in caso di trascuranza degli altri partecipanti o dell'amministratore, ha
sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso (art.
1110 c.c.).

Il partecipante può liberarsi dai suoi obblighi mediante la rinunzia alla quota. La rinunzia non
giova al partecipante che abbia tacitamente approvato la spesa (art. 1104 2 c.c.). Il cessionario del
partecipante è tenuto in solido con il cedente a pagare i contributi da questo dovuti e non versati
(art. 11043 c.c.).

4. Tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere all'amministrazione della cosa comune. Al


riguardo occorre distinguere:
a) Atti di ordinaria amministrazione. Essi riguardano gli atti di normale godimento e
manutenzione della cosa comune. Per deliberare tali atti occorre la maggioranza semplice. Le
decisioni della maggioranza sono obbligatorie nei confronti della minoranza dissenziente (art.
11051 c.c.). La minoranza dissenziente può tuttavia impugnare le deliberazioni che siano
gravemente pregiudizievoli della cosa comune e in caso di mancata preventiva informazione di
tutti i partecipanti sull'oggetto della deliberazione. Se non si prendono provvedimenti per
l'amministrazione della cosa comune o non si forma la maggioranza o la deliberazione non viene
eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria, che può anche nominare un
amministratore (art. 11053 c.c.).
b) Atti di straordinaria amministrazione.
Tra gli atti di straordinaria amministrazione rientrano le innovazioni della cosa comune. Le
innovazioni devono essere prese a maggioranza qualificata e non devono pregiudicare il
godimento dei singoli compartecipi e devono essere o eccessivamente onerose. In caso contrario
è ammessa l'impugnazione della deliberazione da parte della minoranza dissenziente.
Tra gli atti di straordinaria amministrazione rientrano le alienazioni e la
costituzione di diritti reali sul fondo comune. In questi casi è richiesto il consenso di tutti i
partecipanti.

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5. Per l'amministrazione ordinaria della cosa comune e per disciplinare il migliore
godimento della cosa comune a maggioranza semplice può essere formato un regolamento e può
essere nominato un amministratore. Il regolamento può essere impugnato davanti all'autorità
giudiziaria da parte della minoranza dissenziente entro trenta giorni dalla deliberazione che lo
ha approvato.

6. Lo scioglimento della comunione è l'atto con il quale cessa il regime di contitolarità. Il codice
prevede uno scioglimento volontario, che può essere richiesto da ciascuno dei partecipanti
all'autorità giudiziaria, la quale può stabilire una dilazione, in ogni caso non superiore a 5 anni
(art. 11111 c.c.).
I compartecipi possono fissare un termine di durata della comunione non superiore a 10 anni
(art. 11112 c.c.).
Prima della scadenza del termine l’autorità giudiziaria può disporre lo scioglimento forzoso della
comunione per gravi motivi (art. 11113 c.c.).
Lo scioglimento della comunione non può essere chiesto quando si tratta di cose che, se divise,
cesserebbero di servire all'uso cui sono destinate (art. 1112 cc).

7. - Il condominio è la comunione degli edifici composti da più unità abitative in proprietà


esclusiva.
Caratteristica del condominio è la coesistenza del diritto di comunione sulle parti comuni con il
diritto di proprietà esclusiva sulle parti non comuni. Il condominio e la sua disciplina rientrano
nella nozione di comunione. Esso si qualifica come comunione speciale, cui si applicano norme
apposite, che integrano o derogano alle norme della comunione ordinaria. In particolare la
disciplina legale del condominio si caratterizza rispetto a quella della comunione ordinaria per le
seguenti regole:
a) obbligatorietà del regolamento nei grandi condomini (con più di dieci condòmini);
b) la particolareggiata indicazione della costituzione, funzionamento e attribuzioni
dell'assemblea;
c) la previsione dell'amministratore quale organo necessario nei condomini con più di quattro
condòmini.

8. Il codice dà un'elencazione dettagliata delle c.d. parti comuni, ovvero delle parti che
spettano in comproprietà ai proprietari dei diversi piani o porzioni di piano di un edificio, se il
contrario non risulta dal titolo (art. 11171 c.c.). Alle parti comuni si applica la regola dell'uso della
cosa comune della disciplina della comunione (art. 1102 c.c.).
Sono parti comuni, per es., le scale, i tetti, i lastrici solari e in generale tutte le parti dell'edificio
necessarie all'uso comune. Inoltre sono considerate parti comuni anche altri locali che
forniscono servizi comuni, come il locale del portiere, gli stenditoi, il locale per il riscaldamento
centrale, nonché gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti per l'acqua, il gas, l'energia
elettrica (art. 11172 c.c..).
Su tali parti comuni, ciascun partecipante vanta un diritto che è proporzionato al piano o al
valore del piano su cui vanta una proprietà esclusiva. Il condomino deve contribuire alle spese
per la conservazione delle parti comuni e non può sottrarsi a tale obbligo attraverso la rinunzia
(art. 11182 c.c.). Per esempio un condomino non può sottrarsi al pagamento delle spese per la
manutenzione dell'ascensore, rinunziando al diritto di utilizzarlo. Le parti comuni sono
indivisibili, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a
ciascun condomino. Il partecipante non può eseguire opere che rechino danni alle cose comuni e
concorre alle spese di conservazione e gestione delle parti comuni secondo la regola della
comunione ordinaria.

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Ciascun condomino può usare le cose comuni senza impedire eguale uso da parte degli altri
condòmini.

9. Nel condominio, il ruolo e le funzioni dell'assemblea, a differenza della comunione


ordinaria, sono più articolate. In particolare l'assemblea, oltre a nominare e revocare
l'amministratore, provvede ad approvare il regolamento, a confermare l'amministratore e a
decidere della sua retribuzione. L'assemblea approva il preventivo annuale delle spese e il
rendiconto annuale dell'amministratore. L'assemblea inoltre approva le opere di manutenzione
straordinaria, costituendo, se occorre, un fondo speciale.

10. - L'amministratore è l'organo preposto alla gestione ordinaria del condominio. A differenza
della comunione ordinaria, la cui nomina è facoltativa, la nomina è obbligatoria nel caso di
condomini con più di quattro condòmini. L’amministratore ha la cura e la manutenzione delle
cose comuni, è tenuti all'osservanza delle deliberazioni assembleari e svolge funzioni di gestione
e di contabilità. Inoltre all’amministratore spetta uno specifico potere di rappresentanza dei
condòmini. In particolare egli può agire in giudizio, sia contro i singoli condòmini, sia contro i
terzi. Egli può essere convenuto in giudizio per qualunque azione riguardante le parti comuni.

11. Quando in un edificio il numero dei condòmini è superiore a dieci, deve essere formato
un regolamento, il quale contenga le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle
spese nonché le norme e relative all'amministrazione. Il regolamento non può menomare i
diritti dei singoli condòmini e non può derogare alle norme di legge sul condominio aventi
carattere imperativo (art. 1138 c.c.).
Il regolamento può imporre obbligazioni funzionali all’uso e alla sicurezza delle cose comuni, le
quali vincolano non solo i proprietari che hanno aderito al regolamento, ma anche i loro aventi
causa (art. 11072 c.c.). In tal senso si tratta di obbligazioni reali.

12. La particolare rilevanza sociale della casa e del diritto alla casa incide anche sulle cause di
scioglimento del condominio.
Il codice stabilisce infatti la regola della indivisibilità delle parti comuni dell'edificio, a meno che
la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condòmino.
Una particolare forma di scioglimento del condominio è quella che concerne edifici o gruppi di
edifici suscettibili di essere divisi in parti aventi le caratteristiche di edifici autonomi (art. 61
disp. att.).
Altra ipotesi di scioglimento del condominio è quella del perimento totale o parziale dell'edificio
(art. 1128 cc).

13. Il supercondominio è un complesso di più condomini che hanno in comune delle parti
destinate al loro servizio (per es., più edifici sono collegati ad un'area comune che dà accesso alla
via pubblica attraverso un cancello).
La figura del supercondominio trova riscontro nella previsione normativa che il condominio
costituito da più edifici autonomi può essere sciolto pur rimanendo in comune alcune parti (art.
611 disp. att.).
L'opinione prevalente considera il supercondominio come una particolare forma di condominio,
caratterizzata pur sempre dalla presenza di parti comuni strutturalmente e funzionalmente
collegate alle unità abitative. Si esclude al riguardo che rientri in tale figura la cosa comune che è
destinata unicamente ad assicurare maggiore comodità ai condòmini (es. la piscina di un
complesso residenziale). Partecipi del supercondominio sono i proprietari delle singole unità
abitative.

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MODULO XXXII

Diritti reali su cosa altrui

1. Diritti reali di godimento


2. La superficie
3. L’enfiteusi
4. L’usufrutto
5. Il quasi usufrutto

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6. L’uso e l’abitazione

1. - I diritti reali su cosa altrui sono diritti reali aventi ad oggetto un bene che è di proprietà di un
soggetto diverso dal titolare del diritto.
I diritti reali su cosa altrui coesistono con il diritto del proprietario e lo limitano per tutta la loro
durata.
I diritti reali su cosa altrui non integrano un'ipotesi di frazionamento del diritto di proprietà ma
di limitazione dello stesso. L'elasticità del diritto di proprietà importa la riespansione di esso una
volta estinto il diritto reale su cosa altrui che lo limitava.
I diritti reali su cosa altrui, in ragione della diversa funzione che realizzano si distinguono in:
diritti reali di godimento e diritti reali di garanzia.
I diritti reali di godimento attribuiscono al titolare il diritto di trarre dal bene talune delle utilità
che lo stesso è in grado di fornire. Tale diritto si sovrappone al diritto del proprietario di godere
della cosa e lo comprime.
Appartengono alla categoria dei diritti reali di godimento:la superficie, l'enfiteusi, l'usufrutto,
l'uso, l'abitazione e le servitù.

2. - La superficie è un diritto reale di godimento su cosa altrui che consiste:


a) nel diritto di costruire un'opera sopra un suolo di proprietà altrui. In deroga alla regola
dell’accessione il superficiario acquista la proprietà dell'opera realizzata (c.d. proprietà
superficiaria);
b) nel diritto di "mantenere" e alienare la costruzione di sua proprietà separatamente dalla
proprietà del suolo che resta al concedente.
La superficie si estingue per effetto di non uso protratto per venti anni.
Inoltre, se è stato posto un termine, la superficie si estingue alla scadenza di esso. In tal caso il
proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione (art. 953 c.c.).
L'estinzione del diritto di superficie per scadenza del termine importa l'estinzione dei diritti reali
imposti dal superficiario e dei contratti di locazione che durano se non per l'anno in corso alla
scadenza del termine (art. 954 c.c.).

3. – L’enfiteusi è il diritto reale che conferisce un’ampia facoltà di utilizzazione e di


disposizione di un fondo, con l’obbligo di migliorarlo e di pagare un canone al proprietario.
L’enfiteuta ha un diritto di utilizzazione a contenuto generale, che comprende la facoltà di
trasformazione del fondo. Sui frutti e sulle utilizzazioni del sottosuolo gli competono gli stessi
diritti che avrebbe il proprietario del fondo (art. 959 c.c.).
Obblighi dell'enfiteuta sono quello di migliorare il fondo e di pagare al concedente un canone
periodico, che può essere in denaro o in natura.
L'obbligo di migliorare il fondo influisce sul termine minimo dell'enfiteusi che non può essere
inferiore a 20 anni. A differenza di altri diritti reali di godimento l'enfiteusi può anche essere
perpetua.
Il diritto del concedente è quello di percepire un canone periodico, il quale non può essere
ridotto da parte dell'enfiteuta adducendo l'insolita sterilità del fondo o la perdita dei frutti (art.
960, ult. co., c.c.). Il concedente può chiedere la devoluzione del fondo enfiteutico, cioè il
riacquisto della piena proprietà di esso, nei casi di deterioramento del fondo o assenza di
miglioramento e mora nel pagamento dei canoni.
L’enfiteuta ha il diritto di affrancare il fondo conseguendone la proprietà. L’affrancazione si
opera mediante il pagamento di una somma capitalizzata del canone (art. 971 u.c. , c.c.).

4. – L’usufrutto è un diritto reale di godimento che attribuisce al titolare il diritto di godere


della cosa e di trarne ogni utilità economica, salvo l'obbligo di rispettarne la destinazione
economica (art. 981 c.c.).

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Oggetto di usufrutto possono essere beni immobili e beni mobili in consumabili.
Nel caso in cui l'usufrutto abbia ad oggetto beni consumabili, si parla di quasi usufrutto, che si
distingue dall'usufrutto in quanto l'usufruttuario diventa proprietario delle cose, salvo l'obbligo
di restituire non gli stessi beni ricevuti, ma altrettanti dello stesso genere.
La natura dei beni del quasi usufrutto esclude che in capo all'usufruttuario incomba l'obbligo di
conservarne la destinazione.
La durata dell'usufrutto non può eccedere la vita dell'usufruttuario (art. 978 1, c.c.). L'usufrutto
costituito a favore di persona giuridica non può durare più di 30 anni (art. 978 2 c.c.).
L'usufrutto si costituisce:
a) per legge (per esempio, l'usufrutto legale dei genitori sui beni del minore: art. 324 c.c.);
b) per volontà dell'uomo (contratto o testamento);
c) per usucapione (art. 1158 cc).
I diritti dell'usufruttuario sono correlati al potere di godimento della cosa. Pertanto
all'usufruttuario spetta:
a) il possesso del bene e l'esercizio delle relative azioni possessorie;
b) i frutti naturali e civili;
c) il potere di disporre per atto inter vivos del diritto di usufrutto.
Gli obblighi dell'usufruttuario sono:
a) il dovere di usare la diligenza del buon padre di famiglia nella gestione del bene (art. 1001 2
c.c.);
b) l'obbligo di non modificare la destinazione economica del bene;
c) l'obbligo di fare l'inventario;
d) l'obbligo di prestare garanzia della restituzione e conservazione del bene.
L’usufruttario che non adempie gli obblighi di inventario e di garanzia non può conseguire il
possesso del bene.
L'usufrutto si estingue per:
a) scadenza del termine o morte dell'usufruttuario;
b) prescrizione per non uso durato per venti anni;
c) per la riunione dell'usufrutto e della proprietà nella stessa persona (consolidazione);
d) per il totale perimento della cosa su cui è costituito;
e) per abuso dell'usufruttuario, il quale aliena i beni, li deteriora o li lascia andare in perimento
per mancanza di ordinarie riparazioni (art. 1015 1 c.c.).

5. - L’usufrutto può comprendere cose consumabili (quasi usufrutto). L’usufruttuario ha il diritto


di servirsene come proprietario ed è tenuto a pagarne il valore al termine dell’usufrutto (art. 995
c.c.).

6. - L'uso attribuisce al titolare il diritto di servirsi di un bene e, se è fruttifero, di raccoglierne


i frutti limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia (art. 1021 c.c.).
L'abitazione attribuisce al titolare il diritto di abitare una casa limitatamente ai bisogni propri
e della propria famiglia (art. 1022 c.c.).
Entrambe le figure si caratterizzano per attribuire rilevanza all'interesse familiare.
Ad esse si applicano le norme dell'usufrutto, in quanto compatibili (art. 1026 c.c.).

7. - La servitù consiste nel peso imposto sopra un fondo (fondo servente) per l’utilità di un altro
fondo (fondo dominante), appartenente ad un diverso proprietario (art. 1027 c.c.). L’utilità può
consistere nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante o in un obiettivo vantaggio
connesso alla destinazione industriale del fondo (art. 1028 c.c.).
Il titolare del fondo servente non è tenuto a compiere alcun atto per rendere possibile l’esercizio
della servitù da parte del titolare del fondo dominante, salvo che il titolo o la legge dispongano

132
altrimenti (art. 1030 c.c.). Per esempio una servitù di passaggio impone al titolare del fondo
servente solo l’obbligo di tollerare il passaggio altrui.
La servitù presuppone l’appartenenza dei fondi a proprietari diversi (nemini res sua servit) e la
vicinanza dei fondi stessi (praedia vicina esse debent).
Relativamente ai modi di costituzione, le servitù si distinguono in :
servitù coattive, costituite per legge (per esempio, la servitù di acquedotto) e servitù volontarie,
costituite per contratto e per testamento.
Le servitù possono essere costituite anche per destinazione del padre di famiglia.
La servitù per destinazione del padre di famiglia si costituisce tra due fondi formati
dall’alienazione o dalla divisione di un’unica proprietà quando l’originaria situazione dei luoghi
corrispondeva al contenuto di una servitù a carico di un fondo e a vantaggio dell’altro (art. 1062 1
c.c.). Es.: una casa è dotata di un balcone che si affaccia sul sottostante giardino. Il proprietario
vende la casa ad A e il giardino a B. A favore dell’acquirente della casa si costituisce legalmente
una servitù di veduta sul giardino.
Le servitù apparenti possono acquistarsi per usucapione. Apparenti sono le servitù che hanno
opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio.
Modi di estinzione delle servitù possono essere:
a) la rinunzia da parte del titolare fatta per iscritto;
b) la scadenza del termine, se è stato apposto un termine;
c) la confusione, ovvero la riunione nella stessa persona della qualità di titolare del fondo
servente e dominante;
d) la prescrizione per non uso ventennale (art. 10731 c.c.).

Soggette a prescrizione sono anche le servitù negative, cioè le servitù che


realizzano il vantaggio del fondo dominante esclusivamente mediante una limitazione delle
facoltà del proprietario del fondo servente. Nelle servitù negative il termine decorre dal giorno in
cui lo stato dei luoghi risulta non conforme all’attuazione di esse (art. 1073 2 c.c.).

MODULO XXXIII

Il possesso

1. Nozione di possesso
2. Elementi costitutivi
3. L’oggetto
4. Acquisto del possesso
5. Effetti del possesso
6. La detenzione

1. – Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio


della proprietà o di altro diritto reale (art. 11401 c.c.).
Da questa definizione emerge che il possesso non è un diritto ma una situazione di fatto. Ciò che
integra il possesso è infatti l'esplicazione di un potere sulla cosa a prescindere dal diritto di
possederla; possessore è anche, per es., colui che possiede la cosa illegittimamente, come il ladro.
La situazione di fatto è per altro giuridicamente rilevante. Essa è produttiva di effetti giuridici ed
è anche oggetto di tutela giuridica. Tutelato, precisamente, è l'interesse a non subire spoglio
violento o molestie o minacce alle cose. La tutela di questo interesse trova ragione nella sicura
esigenza sociale che sia garantito il pacifico godimento dei beni.

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2. - Elemento costitutivo del possesso è il potere di fatto sulla cosa.
Il potere sulla cosa è la sua disponibilità di fatto. Possiede la cosa chi la tiene nella sua sfera di
controllo, avendone la concreta possibilità di disposizione.
Il potere sulla cosa non richiede necessariamente un contatto fisico del soggetto, essendo
sufficiente che la cosa rimanga nella sua sfera di controllo.
La disponibilità di fatto caratterizza il possesso diretto della cosa. Il possesso può tuttavia essere
anche indiretto, e cioè attuato mediante la detenzione di un terzo, e precisamente tramite un
soggetto che ha la disponibilità di fatto della cosa in via vicaria (art. 1140 2 c.c.).
La dottrina, pur in assenza di alcun riferimento normativo, ritiene che esista un secondo
elemento costitutivo del possesso: l'animus possidendi inteso come la volontà del soggetto di
possedere la cosa come se egli ne fosse il proprietario. Tale elemento varrebbe a distinguere il
possesso dalla detenzione, situazione connotata dall'animus detinendi, quale consapevolezza di
disporre della cosa in nome altrui.

3. - Suscettibili di possesso sono tutte le cose aventi una realtà oggettivamente percepibile, pure
se prive del carattere della solidità, come le acque sorgenti, le aree sovrastanti, le onde
elettromagnetiche, le energie naturali. Possono essere oggetto di possesso anche le universalità
di beni mobili (art. 1160 c.c.).
Insuscettibili di possesso sono invece i crediti e, in generale, i diritti: si possiedono le cose non i
diritti.
Per espressa previsione normativa possono essere oggetto di possesso i titoli di credito (art. 1157
c.c.). Al riguardo occorre tenere presente che oggetto del possesso è, precisamente, il documento,
non il diritto incorporato.

4. – L’acquisto del possesso può aver luogo a seguito di impossessamento o di consegna.


L'impossessamento è l'atto giuridico di apprensione della cosa senza o contro la volontà di un
precedente possessore. Gli atti compiuti con l'altrui tolleranza sono inidonei all'acquisto del
possesso (art. 1144 c.c.).
La consegna è un atto giuridico in senso stretto diretto ad immettere il destinatario nella
disponibilità di fatto della cosa.
Il possesso può acquistarsi anche mediante il costituto possessorio. Il costituto possessorio
designa l'acquisto del possesso mediante l'assunzione della posizione di possessore indiretto. Il
costituto possessorio può realizzarsi in due distinte ipotesi: 1) acquisto del possesso di un bene
detenuto da un terzo (per esempio, il proprietario aliena la cosa che si trova presso un detentore
o possessore a minor titolo); 2) l'acquisto del possesso del bene che rimane nella detenzione
dell'alienante (per esempio, l'alienante trattiene presso di sé la cosa alienata a titolo di detentore
in nome dell'alienatario).

5. - Il possesso rileva anzitutto come oggetto di tutela contro le altrui aggressioni (spoglio,
molestie, opere pericolose).
Il possesso rileva poi principalmente come titolo per l’acquisto dei frutti. Al riguardo il codice
distingue tra possesso di buona fede e possesso di mala fede.
Possessore di buona fede è colui che possiede ignorando di ledere l’altrui diritto (art. 11471 c.c.).
Il possessore di buona fede fa suoi i frutti della cosa posseduta fino al giorno della domanda di
rivendicazione.
Il possessore di buona fede ha poi diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazione
straordinarie e ad una indennità per i miglioramenti e le addizioni utili nella misura
dell’aumento di valore della cosa (art. 1150 c.c.). Il possessore di buona fede può avvalersi inoltre
del diritto di ritenere la cosa finché non gli siano corrisposte le indennità dovute, purché queste

134
siano state domandate nel corso del giudizio di rivendicazione e sia stata fornita una prova
generica della sussistenza delle riparazioni e dei miglioramenti.
Il possessore di mala fede ha:
a) il diritto al rimborso delle spese per la produzione e il raccolto dei frutti naturali;
b) il diritto al rimborso delle spese per le riparazioni straordinarie del bene;
c) il diritto all'indennità per i miglioramenti recati alla cosa, nella minor misura tra l’importo
della spesa e l’aumento di valore della cosa.

6. - La detenzione è la disponibilità di fatto sulla cosa in nome altrui. L'espressione in nome


altrui significa che il potere sulla cosa è subordinato al potere di un altro soggetto, il possessore,
e dipende da quest'ultimo in termini di autorizzazioni, concessioni, ecc.
La detenzione comprende due gruppi di ipotesi:
a) detenzione qualificata. Si tratta della detenzione che ha titolo in un diritto personale di
godimento del bene (locazione, precario, ecc.), o in un potere di gestione nell'interesse altrui (es.,
mandato, curatela testamentaria, ecc.)
b) detenzione non qualificata. Si tratta delle ipotesi in cui il detentore tiene la cosa a
disposizione del possessore. Rientrano in queste ipotesi la detenzione per ospitalità (es., un
amico che è ammesso ad abitare a casa mia) o per ragioni di servizio o lavoro (un prestatore di
lavoro che prende in consegna la autovettura per ripararla).
Solo la detenzione qualificata viene, per certi versi, tutelata alla stregua del possesso. Il detentore
qualificato, per es., al pari del possessore, può avvalersi dell'azione di spoglio.
Il detentore può divenire possessore della cosa detenuta solo mediante mutamento del titolo per
causa proveniente da un terzo o mediante diritto di opposizione contro il possessore
(interversione del possesso: art. 11412 c.c.).
Causa proveniente da un terzo è l'atto di attribuzione del possesso da parte dell'attuale
possessore. L'atto di opposizione è l'atto giuridico mediante il quale il detentore afferma il
proprio possesso sulla cosa disconoscendo il possesso dell'opposto. L'opposizione non deve
necessariamente risultare da atto scritto e determina il mutamento del titolo a prescindere dalla
sua fondatezza.

135
MODULO XXXIV

L’usucapione

1. La nozione
2. Gli elementi costitutivi
3. L’oggetto
4. Natura dell’acquisto
5. L’usucapione abbreviata

1. - L’usucapione è il modo di acquisto della proprietà e di altri diritti reali di godimento che si
realizza mediante il possesso continuato del bene per il tempo stabilito dalla legge (art. 1158
c.c.).
Questo modo di acquisto risponde all’esigenza, anticamente e universalmente avvertita, di
attribuire definitività e certezza giuridica alla pacifica utilizzazione del bene protrattasi nel
tempo.

2. - Gli elementi costitutivi dell’usucapione sono:


a) il possesso e b) il tempo.
a) Ai fini dell’usucapione il possesso deve essere palese e pacifico.
Il codice stabilisce infatti che il possesso acquistato in modo violento o clandestino non giova per
l’usucapione se non dal momento in cui la violenza o la clandestinità è cessata (art. 1163 c.c.).
Il possesso deve inoltre essere continuo. La continuità designa in termini positivi il costante
esercizio del possesso. La continuità non sussiste se il possesso viene esercitato in modo
occasionale e saltuario. Il requisito della continuità non esige una prova specifica, essendo
compreso nella presunzione legale di possesso intermedio (art. 1142 c.c.).
Il possesso inoltre deve essere non interrotto, ovvero che non abbia subito interruzioni per fatto
del terzo o naturali per la durata di un anno.
b) Il tempo per usucapire la proprietà degli immobili e degli altri diritti reali immobiliari è di 20
anni (art. 1158 c.c.). Il medesimo tempo occorre per usucapire le universalità di mobili (art. 1160

136
c.c.). Sempre 20 anni occorrono per le cose mobili, se il possessore è in mala fede. Altrimenti
occorrono dieci anni (art. 1161 c.c.).
Il tempo utile per l’usucapione decorre dal primo giorno successivo all’inizio del possesso e
matura col compimento dell’ultimo giorno.

3. - Per oggetto dell’usucapione s’intendono comunemente i beni suscettibili di essere usucapiti.


Ma usucapire significa acquistare la proprietà. Occorre allora puntualizzare che oggetto di
usucapione sono i diritti e precisamente il diritto di proprietà e gli altri diritti reali di godimento.
Usucapibili in particolare sono l’enfiteusi, l’usufrutto, la superficie e l’uso. Usucapibili sono
anche le servitù, fatta eccezione per quelle non apparenti e coattive.
Usucapibili sono inoltre i titoli di credito, le universalità di mobili. Non sono invece usucapibili le
universalità di diritto (per es. l’eredità).

4. - L’acquisto per usucapione è a titolo originario. L’acquisto non è infatti subordinato alla
posizione del precedente titolare, ma al ricorso dei presupposti di legge (possesso e tempo).
L’acquisto è automatico e avviene per legge ma è interesse dell’acquirente far risultare il suo
acquisto in via giudiziale.
Si discute se l’acquisto per usucapione determini l’estinzione dei diritti limitati sul bene
(usucapio libertatis). A tal fine si ritiene necessario che il possesso sia pieno e tale da escludere
la coesistenza di vincoli limitativi.

5. - L’usucapione abbreviata designa speciali figure di usucapione che richiedono tempi inferiori
rispetto a quelli dell’usucapione ordinaria e ulteriori particolari requisiti. Si tratta comunque di
figure che rientrano in quella generale dell’usucapione.
L’usucapione abbreviata è prevista in due ipotesi:
a) nell’ipotesi di acquisto in buona fede dal non proprietario. In questo caso i presupposti sono:
la non legittimazione dell’alienante; la buona fede; il titolo astrattamente idoneo all’acquisto; la
trascrizione del titolo; il possesso continuato per dieci anni.
b) nell’ipotesi di usucapione della piccola proprietà rurale. Tale figura è stata introdotta nel
codice civile (art. 1159 bis) dalla l. 10 maggio 1976, n. 346.
Tale usucapione abbreviata è stata introdotta al fine di favorire la proprietà contadina, quindi
con un fine spiccatamente sociale.
Oggetto di questa usucapione sono i fondi rustici situati in Comuni montani o aventi un basso
reddito. Il tempo per usucapire è ridotto a 15 anni e a 5 anni in favore di chi abbia conseguito in
buona fede il possesso del fondo in base ad un titolo astrattamente idoneo all’acquisto.

137
MODULO XXXV
L’acquisto dei beni mobili

1. La regola ‘possesso vale titolo’


2. I presupposti
3. L’oggetto dell’acquisizione
4. Il conflitto tra più acquirenti
1. - L’acquirente di cosa mobile alienata dal non legittimato ne diventa proprietario mediante il
possesso di buona fede (art. 1153 c.c.).
Questa regola, comunemente conosciuta come regola del “possesso vale titolo” introduce un
modo di acquisto a titolo originario che risponde all’esigenza di certezza e celerità della
circolazione delle merci e dei beni mobili in generale.
Nella valutazione della legge questa esigenza prevale su quella della tutela della proprietà.
2. - Presupposti della regola possesso vale titolo sono:
a) la non legittimazione dell’alienante. Secondo la formula del codice l’acquisto opera in favore di
colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non è proprietario (a non domino);
b) il possesso. La regola possesso vale titolo è dettata nell’ambito degli effetti del possesso. Il
possesso non è sufficiente ma è l’elemento centrale della fattispecie legale, in quanto la buona
fede e il titolo concorrono a qualificarlo.
c) la buona fede. Per buona fede si intende l’ignoranza di ledere l’altrui diritto. In particolare la
buona fede dell’acquirente significa che egli deve ignorare senza colpa grave che l’alienante non è
il proprietario;
d) il titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà. Titolo astrattamente idoneo è
qualsiasi fattispecie, negoziale o giudiziale, avente efficacia traslativa se posta in essere dal
legittimato.
Il titolo deve essere valido. Un titolo viziato rende inapplicabile tale regola. Per es. un contratto
nullo o inefficace non determina alcun acquisto.
3. - La regola concerne cose mobili suscettibili di possesso. Ne rimangono pertanto esclusi i beni
immateriali e i crediti.
Il codice poi esclude espressamente le universalità di mobili, e i mobili iscritti in pubblici registri
(art. 1156 cc).
Ad una specifica disciplina sono assoggettati i titoli di credito, per i quali occorre che il possesso
del titolo sia stato conseguito in buona fede e in conformità delle norme che ne regolano la
circolazione (art. 1994 c.c.). Occorre cioè che l’acquirente sia cartolarmente legittimato.
4. - Nell’ipotesi di conflitto tra più acquirenti di un bene mobile, prevale chi per primo ne
consegue in buona fede il possesso diretto, anche se il suo titolo sia posteriore a quello degli altri
acquirenti (art. 1155 c.c.).

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Tale regola è pur sempre un’applicazione della regola del possesso vale titolo ma conserva una
sua autonomia. Si tratta infatti di regola di soluzione del conflitto tra più acquirenti del
medesimo bene. In base all’applicazione di tale regola il primo acquirente perde la proprietà e
l’alienante recupera la sua legittimazione.
L’acquisto effettuato in virtù del possesso vale titolo si converte pertanto in acquisto a titolo
derivativo.
MODULO XXXVI

Azioni a tutela del possesso

1. Nozione
2. L’azione di reintegrazione
3. L’azione di manutenzione
4. La denunzia di nuova opera
5. La denunzia di danno temuto

1. Le azioni possessorie sono rimedi processuali specifici a tutela del possesso. Queste azioni
sono regolate sia dal codice civile che dal codice di procedura civile. Esse presentano un aspetto
processuale concernente il giudizio e un aspetto sostanziale concernente la posizione del
possessore nella vita di relazione.
Le azioni possessorie appartengono al diritto sostanziale in quanto determinano il contenuto
della posizione giuridica del possessore, apprestando a suo favore la tutela contro determinate
ingerenze. In corrispondenza alle azioni possessorie è possibile identificare, precisamente, il
diritto del possessore a non subire spoglio e molestie nel possesso.
Le azioni a tutela del possesso sono: l’azione di reintegrazione e l’azione di manutenzione. Azioni
a difesa del possesso sono anche la denunzia di nuova opera e la denunzia di danno temuto.
Queste ultime sono tuttavia al tempo stesso azioni a tutela della proprietà e azioni a tutela del
possesso. Hanno quindi una duplice natura.

2. L’azione di reintegrazione o di spoglio è l’azione volta a reintegrare nel possesso del bene
chi sia stato vittima di spoglio violento o clandestino (art. 11681 c.c.).
Il possesso o la detenzione qualificata del bene costituiscono i presupposti dell’azione e sono
oggetto di prova a carico dell’attore. L’onere probatorio non è soggetto a particolari restrizioni. E’
questa la ragione per la quale tale azione è preferita all’azione di rivendicazione.
Lo spoglio è la privazione totale o parziale della cosa o, più in generale, il fatto che impedisce
durevolmente al possessore l’esercizio del possesso.
Lo spoglio è violento quando è consumato mediante atti di forza o minacce.
Lo spoglio clandestino è invece quello attuato senza atti di violenza o minacce, ma in una
maniera occulta che non consenta alla vittima di percepirlo all’istante. Per es., lo spoliatore si
impossessa furtivamente dei titoli di credito custoditi dalla vittima in un mobile di casa.
Secondo la dottrina elemento dello spoglio sarebbe il c.d. animus spoliandi, ovvero la volontà di
depredare la vittima. Tuttavia di questo requisito il codice non fa alcun cenno.
L’azione di reintegrazione è volta al ripristino della situazione possessoria violata.
Oggetto dello spoglio sono i beni posseduti o detenuti dalla vittima, siano essi mobili o immobili,
beni singoli o universalià.
Legittimati attivi all’azione di spoglio sono i possessori diretti o mediati. Legittimati attivi sono
altresì i detentori qualificati.
L’azione di reintegrazione deve essere proposta entro un anno dal compimento dello spoglio,
cioè dal momento in cui si è realizzata la fattispecie dello spossessamento. Se lo spoglio è
clandestino, dal momento della scoperta.

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Lo spoglio è un atto illecito in quanto volto a ledere una posizione giuridicamente tutelata nella
vita di relazione. Lo spoliatore è quindi tenuto anche al risarcimento del danno.
3. L’azione di manutenzione è l’azione volta a far cessare la molestia del possesso (art. 11701
c.c.).
La molestia o turbativa consiste nell’attività che ostacola o rende più gravoso il possesso. A
differenza dello spoglio, la molestia non priva dunque il possessore del godimento del bene, ma
ne pregiudica l’esercizio.
La molestia può consistere in un’attività materiale (p. es., violazione della distanze legali) o
giuridica. La molestia giuridica è realizzata mediante il compimento di atti giuridici volti a
contrastare l’esercizio del possesso (ingiunzioni, opposizioni, ecc.). Deve naturalmente trattarsi
di atti privi di fondamento.
L’oggetto della turbativa sono beni immobili, mobili o universalità di mobili, compresa l’azienda.
Legittimato è solo il possessore. L’azione di manutenzione è concessa precisamente a chi sia
possessore da oltre un anno e possa vantare un possesso continuo, non interrotto, non violento
né clandestino (art. 11702 c.c.).
L’azione non compete al detentore.
L’azione è soggetta al termine annuale di decadenza.

4. La denunzia di nuova opera e la denunzia di danno temuto rientrano nella categoria delle
azioni di enunciazione, che in generale sono le azioni cautelari volte a prevenire i pericoli
derivanti da nuove opere, costruzioni o altre cose sovrastanti il suolo.
La denunzia di nuova opera è il rimedio cautelare specifico previsto per prevenire il danno che
si teme possa derivare dall’esecuzione di un’opera (art. 11711 c.c.).
La denunzia è volta a prevenire il pericolo di danno che il proprietario o il possessore di un
fondo hanno ragione di temere in conseguenza di un’opera iniziata sul proprio fondo o su un
fondo altrui.
Presupposti della denunzia sono:
a) la nuova opera. Questa consiste nell’esecuzione di un’attività volta a modificare in
modo persistente lo stato dei luoghi.
b) il pericolo di danno, che secondo la formula del codice è quello che sia per derivare
alla cosa che forma oggetto del diritto o del possesso.
L’azione è diretta sospendere l’esecuzione dell’opera.
Legittimati attivi dell’azione sono il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento e il
possessore dell’immobile minacciato dal danno, nonché tutti coloro che sono legittimati ad
esperire le azioni possessorie (es., il curatore dell’eredità giacente).
Anche il detentore qualificato può ritenersi legittimato.
Legittimati passivi sono l’esecutore dell’opera e il proprietario o possessore dell’immobile altrui
nel quale l’opera è eseguita.
L’azione decade se l’opera sia stata completata o se sia trascorso più di un anno dal suo inizio.

6. La denunzia di danno temuto è il rimedio cautelare specificamente previsto per


prevenire un danno che sia per derivare ad un immobile da un edificio, albero o altra cosa (art.
11721 c.c.).
A differenza della denunzia di nuova opera, essa non presuppone un’attività in corso di cui si
chiede la sospensione, ma una situazione dei luoghi, di cui si chiede la rimozione o la modifica
idonea a scongiurare il danno temuto.
Legittimati attivi sono gli stessi legittimati alla denunzia di nuova opera.
Legittimati passivi sono i proprietari o possessori del fondo sul quale è situato l’oggetto che è
causa del pericolo di danno.

140
L’azione non è soggetta ad un particolare termine di decadenza o prescrizione ma presuppone
l’attuale esistenza di un danno grave e prossimo, cioè incombente. Il venir meno del pericolo
rende pertanto l’azione improponibile.

MODULO XXXVII

Il contratto

1. Nozione di contratto

141
2. Il negozio giuridico
3. La delibera
4. Atti giuridici in senso stretto
5. La libertà negoziale
6. I rapporti contrattuali di fatto
7. I contratti della pubblica Amministrazione
8. Nozione di parte contrattuale
9. Il contratto plurilaterale
10. Nozione di rappresentanza
12. La procura
13. Procura e mandato
14. Capacità e stati soggettivi
15. Il conflitto di interessi
16. Estinzione del potere di rappresentanza
17. Falsa rappresentanza
18. Il contratto per conto di chi spetta
19. Il contratto per persona da nominare
20. La gestione di affari altrui

1. - Il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un
rapporto giuridico patrimoniale. In questi termini la figura del contratto è prevista e definita dal
nostro codice civile (art. 1321 c.c.), il quale detta una disciplina contrattuale generale e una
disciplina specifica di singoli tipi di contratto (vendita, permuta, ecc.).
Il contratto rientra nella più ampia categoria dell’atto di autonomia privata. o negozio giuridico,
cioè dell’atto mediante il quale il soggetto dispone della propria sfera giuridica.
Nell’ambito della categoria del negozio giuridico il contratto si caratterizza per la sua struttura
bilaterale o plurilaterale. Il contratto è, precisamente, un negozio giuridico bilaterale o
plurilaterale, in quanto si perfeziona con il consenso di due o più parti. Esso si distingue, quindi,
rispetto al negozio unilaterale, il quale si perfeziona con la sola manifestazione di volontà
dell’autore dell’atto, senza che occorra l’altrui accettazione (es.: il testamento).
Oltre che per la sua struttura bilaterale o plurilaterale il contratto si caratterizza anche per la sua
patrimonialità. Il contratto è un negozio patrimoniale in quanto ha per oggetto rapporti
suscettibili di valutazione economica. Un accordo diretto a costituire, regolare o estinguere un
rapporto giuridico non patrimoniale (si pensi, ad es., al matrimonio) esula quindi dalla nozione
di contratto pur rientrando nella categoria del negozio giuridico.
Elementi costitutivi del contratto sono l'accordo, l'oggetto, la causa e la forma, quando questa sia
prevista a pena di nullità (1325 c.c.).

2. - La figura del contratto, come si è detto, s'inquadra nella categoria del negozio giuridico.
Questa categoria è stata elaborata dalla dottrina pandettistica, che ne ha tramandato la
definizione ancora corrente di atto di volontà diretto ad un scopo effetto giuridico. La categoria
conserva la sua importanza sul piano sistematico perchè essa consente di segnare un distinzione
fondamentale nell'ambito degli atti giuridici tra atti di autonomia privata e atti giuridici in senso
stretto.
Il negozio giuridico è, precisamente, atto di esplicazione dell'autonomia privata, quale potere
del soggetto di decidere della propria sfera giuridica, personale o patrimoniale.
In questa definizione rientra anche il contratto, che è la principale ma non l'unica figura di
negozio.
Il nostro codice, seguendo il modello del codice francese, contiene una disciplina generale del
contratto, ma non del negozio.

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E' però previsto che la disciplina del contratto si applica agli atti unilaterali tra vivi aventi
contenuto patrimoniale in quanto sia compatibile con la natura di tali atti (art. 1324 c.c.).

3. - Il contratto, quale figura di accordo, deve essere tenuto distinto rispetto alla delibera, quale
atto decisionale del gruppo, cioè atto col quale il gruppo manifesta la volontà in ordine ad un
interesse di sua competenza.
La delibera è pur sempre esercizio di autonomia privata ma l'interesse del quale essa decide è un
interesse del gruppo, cioè un interesse comune dei partecipanti. La distinzione tra accordo e
delibera si coglie allora in ciò, che nell' accordo ciascuna delle parti decide in ordine ad un suo
interesse mentre nella delibera ciascun partecipante concorre ad una decisione in ordine ad un
interesse del gruppo.
Quale espressione della volontà del gruppo la delibera si perfeziona normalmente secondo la
regola della maggioranza ma è comunque imputata al gruppo o all' ente di cui il gruppo
deliberante è organo.
La natura dell'atto dipenderà poi dall' operazione compiuta, potendosi trattare di autorizzazioni,
rinunzie, atti regolamentari di autoorganizzazione, ecc.

4. - Sul piano sistematico la figura generale del negozio giuridico è importante perché essa
consente di intendere una fondamentale partizione nell' ambito degli atti giuridici tra atti di
autonomia privata e atti non negoziali o atti giuridici in senso stretto. Atto giuridico è in generale
qualsiasi azione umana giuridicamente rilevante. Nell'ambito degli atti giuridici il negozio si
distingue come atto mediante il quale il soggetto dispone della propria sfera giuridica, cioè come
atto di autonomia privata.
L'atto giuridico in senso stretto può invece essere definito come l’azione umana, consistente in
un fatto materiale o in una dichiarazione che rileva quale semplice presupposto di effetti
giuridici. Nell'atto giuridico in senso stretto, precisamente, gli effetti non sono disposti
dall'autore dell’atto, come negli atti di autonoma privata, ma dalla legge. Tali effetti possono
essere favorevoli o sfavorevoli all’autore, in relazione al risultato di fatto e agli interessi sui quali
l'atto incide (dichiarazioni di scienza, di desiderio, comunicazioni, atti illeciti, ecc.).
In assenza di una disciplina generale degli atti giuridici in senso stretto occorre di volta in volta
attingere alla loro particolare disciplina e a quelle norme idonee ad un'appropriata composizione
dei confligenti interessi.

5. - Oltre che come potere di decidere della propria sfera giuridica personale e patrimoniale,
l'autonomia privata può essere vista come un diritto di libertà, e quindi come un diritto
fondamentale della persona.
La libertà del soggetto di disporre dei propri beni e di impegnarsi verso gli altri secondo le sue
scelte deve considerarsi un valore basilare dell'ordinamento. Nel campo dei rapporti economici
questo valore trova riconoscimento nel principio della libertà di iniziativa economica (art. 41 1
Cost.), di cui l'autonomia privata è strumento necessario.
Come tutte le libertà anche quella negoziale si inserisce per altro in un contesto di valori
costituzionali gerarchicamente ordinati.
Un'espressa indicazione in tal senso è data dalla norma che nel proclamare la libertà d'iniziativa
economica avverte che essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da
pregiudicare la sicurezza, la libertà, la dignità umana delle persone.

6. - Rapporti contrattuali di fatto s'intendono i rapporti modellati secondo il


contenuto di un determinato contratto tipico, che non scaturiscono da atti di autonomia
privata ma da fatti socialmente rilevanti.
Di rapporti contrattuali di fatto può discutersi in relazione alle ipotesi di rapporti costituiti per
legge nonostante la nullità del contratto: rapporti di lavoro subordinato e rapporti di società.

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Con riguardo ai rapporti di lavoro subordinato il codice dichiara che la nullità o l'annullamento
del contratto non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione (art. 2126 1
c.c.). Ciò significa che il datore di lavoro, oltre al pagamento della retribuzione, è tenuto a tutte le
obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro, e che questo viene quindi a costituirsi pur in
mancanza di un valido contratto. Qui il fatto obiettivo della prestazione o la « prestazione di
fatto» (cfr. la rubrica della norma citata) sembra dar luogo al rapporto.
Lo schema del rapporto contrattuale di fatto è altresì configurabile in relazione alla società di
capitali dichiarata nulla dopo l'iscrizione nel registro delle imprese. La dichiarazione di nullità
lascia infatti efficaci gli atti compiuti in suo nome dopo tale iscrizione e non esonera i soci dal
versamento dei conferimenti finché non sono soddisfatti i creditori sociali (art. 2332 c.c.).

7. - I contratti della pubblica Amministrazione sono in generale gli accordi che lo Stato e gli altri
enti pubblici non economici stipulano con i privati per costituire, modificare o estinguere
rapporti giuridici patrimoniali.
La stipulazione del contratto postula che l'Amministrazione non esercita i suoi poteri autoritari
ma si avvale dell' autonomia negoziale di diritto comune.
I contratti dell' Amministrazione sono contratti di diritto comune pur se variamente
caratterizzati dalla diretta incidenza dell'interesse pubblico.
La rilevanza dell'interesse pubblico non toglie che l'efficacia vincolante dell'atto discende
dall'accordo secondo la regola contrattuale e che l'impegno dell' Amministrazione rimane
fondamentalmente disciplinato dai principi contrattuali. Un importante riconoscimento in tal
senso è venuto dalla l. 7 agosto 1990, n. 241.

8. - Parte del contratto in senso sostanziale è il titolare del rapporto contrattuale, cioè il
soggetto cui è direttamente imputato l'insieme degli effetti giuridici del contratto.
Parte del contratto in senso formale è l’autore del contratto, cioè chi emette le dichiarazioni
contrattuali costitutive (ad es., il rappresentante: n. 10).

9. - Il contratto plurilaterale è il contratto costituito da più di due parti in senso


sostanziale.
La pluralità di parti è riscontrabile nei contratti con comunione di scopo. I
contratti plurilaterali con comunione di scopo sono previsti dal codice: riguardo ad essi è sancito
il principio secondo il quale le vicende che colpiscono uno dei vincoli non coinvolgono l’intero
contratto salvo che tale vincolo debba considerarsi essenziale per l’economia dell’affare (art.
1420, 1446, 1459, 1466 c.c.).
Anche nei contratti senza comunione di scopo è possibile riscontrare una pluralità di parti in
senso sostanziale, come ad es., nella vendita congiuntiva di un bene comune. A ciascuna di
queste parti deve allora aversi riguardo per quanto attiene alla capacità, legittimazione, vizi della
volontà, ecc.

10. - La rappresentanza è il potere di un soggetto (il rappresentante) di compiere atti giuridici


in nome di un altro soggetto (il rappresentato).
Il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentate produce
direttamente effetto nei confronti di quest’ultimo (art. 1388 c.c.). Il rappresentato è quindi la
parte sostanziale del contratto, colui che assume la titolarità del rapporto contrattuale. Il
rappresentante è invece solo parte formale del contratto: egli non è destinatario degli effetti del
contratto e non è responsabile della sua esecuzione.
Accanto alla rappresentanza diretta si pone la rappresentanza indiretta, detta anche
rappresentanza di interessi in senso proprio, o rappresentanza diretta, che indica la
legittimazione del soggetto ad agire in nome proprio nell'interesse altrui. Mentre nella
rappresentanza diretta il rappresentato diviene parte sostanziale del contratto assumendo la

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titolarità del rapporto, in quella indiretta il rappresentato non diviene parte del contratto.
Tipico esempio di rappresentanza indiretta è il mandato senza rappresentanza (art. 1705 c.c.). Il
mandato è il contratto in base al quale un soggetto, detto mandatario, si obbliga a compiere uno
o più atti giuridici per conto di un altro soggetto, detto mandante (art. 1703 c.c.). Il mandato può
essere conferito con rappresentanza (n. 12) o senza rappresentanza. Nel mandato senza
rappresentanza il mandatario risponde in proprio del contratto stipulato e deve ritrasferire al
mandante i beni acquistati se si tratti di immobili o beni mobili registrati, salva la facoltà del
mandante di rivendicare i beni mobili (art. 1706 c.c.).

11. - La rappresentanza può essere legale o negoziale, secondo che essa abbia titolo nella legge o
in un atto di conferimento del rappresentato (procura) (art. 1337 c.c.).
La procura è il negozio unilaterale mediante il quale un soggetto conferisce ad un altro il
potere di rappresentarlo.
La procura richiede la stessa forma che è richiesta dalla legge per l'atto che il procuratore è
autorizzato a compiere (art. 1392 c.c.). Così, ad es., la procura a vendere un bene immobile esige
a pena di nullità la forma scritta, che è appunto la forma minima sancita dalla legge per le
compravendite immobiliari.
La procura può essere generale o speciale. E’ generale quando conferisce al rappresentante il
potere di compiere tutti gli atti relativi alla gestione degli interessi patrimoniali del rappresentato
o alla gestione di una determinata attività. La procura è speciale quando conferisce al
rappresentante il potere di compiere singoli atti giuridici.
La procura generale non comprende gli atti di straordinaria amministrazione che non sono in
essa indicati (art. 17082 c.c.), e non comprende quegli atti che devono essere specificamente
autorizzati dal rappresentato.

12. - Sebbene sia teoricamente possibile che il soggetto si limiti solo ad attribuire il potere
rappresentativo, è normale che la procura si accompagni ad un rapporto di mandato o ad altro
rapporto gestorio in base al quale il rappresentante è obbligato a compiere un' attività di gestione
per conto del rappresentato.
Accanto alla procura, che è un negozio unilaterale, distingueremo quindi il contratto in base al
quale il procuratore s'impegna a compiere una certa attività per conto del rappresentato.
Tipico contratto di gestione che si accompagna alla procura è il mandato. Il mandato, si è visto, è
il contratto in base al quale il mandatario si obbliga a compiere atti giuridici per conto del
mandante. Se il mandante conferisce al mandatario il potere di rappresentanza troveranno
applicazione insieme le norme sul mandato e quelle sulla rappresentanza (art.
1704 c.c.).

13. - Nella rappresentanza volontaria non è richiesta la capacità di agire del rappresentante.
Per quanto attiene agli stati soggettivi di buona o di mala fede bisogna avere riguardo alla
persona del rappresentante poichè l'atto rientra nella sua sfera di decisione. Bisogna anche avere
riguardo alla persona del rappresentato se l'atto è predeterminato da quest'ultimo (art. 1391 1
c.c.).

14. - Il rappresentante deve esercitare il suo potere di rappresentanza conformemente


all'interesse del rappresentato.
Il contratto concluso dal rappresentante in conflitto d'interessi col rappresentato è annullabile se
il conflitto era conosciuto o riconoscibile da parte del terzo (art. 1394 c.c.).
Il conflitto d'interessi è tipicamente presente nell'ipotesi del contratto con se stesso. Il contratto
con se stesso è il contratto nel quale il rappresentante assume la posizione di parte sostanziale
contrapposta al rappresentato oppure stipula in rappresentanza delle parti contrapposte. Così,
ad es., il rappresentante si rende acquirente a titolo personale del bene che egli vende a se

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medesimo quale ' rappresentante del proprietario oppure vende il bene in nome e per conto di un
rappresentato e lo acquista in nome e per conto di un altro rappresentato.
La legge prevede specificamente l'annullabilità del contratto concluso dal rappresentante con se
stesso, salve le ipotesi in cui il rappresentante sia stato specificamente autorizzato a concluderlo
o in cui il contenuto del contratto sia stato predeterminato in maniera tale da escludere la
possibilità del conflitto d'interessi (art. 1395 1 c.c.).

15. - Cause di estinzione del potere di rappresentanza sono la revoca della procura; la rinunzia
da parte del rappresentante; la sopravvenuta incapacità o il fallimento del rappresentato o del
rappresentante; la scadenza del termine o il verificarsi della condizione risolutiva; l'estinzione
del rapporto di gestione.
La revoca dev'essere portata a conoscenza dei terzi. Il revocante, precisamente, ha l'onere di
portare la revoca a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Il revocante che non assolve tale onere
non può opporre la revoca al terzo contraente, salva la possibilità di provare che questi al
momento della conclusione del contratto sapeva che la procura era stata revocata o modificata
(art. 13961 c.c.).
La procura è irrevocabile nell 'ipotesi in cui il potere rappresentativo sia conferito anche
nell'interesse del rappresentante o di terzi (es.: procura conferita al creditore per vendere un
bene del rappresentato e soddisfarsi sul ricavato).

16. - Il contratto stipulato da chi non ha alcun potere rappresentativo o eccede i limiti della
procura (falso rappresentante) non è efficace né rispetto al rappresentato né rispetto al
rappresentante e neppure rispetto al terzo contraente.
L'inefficacia del contratto stipulato dal falso rappresentante non significa che tale contratto sia
nullo o annullabile. Il contratto è semplicemente privo di un requisito di efficacia che può essere
integrato successivamente mediante la ratifica del rappresentato.
La ratifica è il negozio unilaterale mediante il quale il soggetto rende efficace nei propri
confronti l'atto del non autorizzato.
Con la ratifica il rappresentato non conclude un nuovo contratto col terzo né ristipula il contratto
già stipulato dal rappresentante. La volontà del ratificante è diretta piuttosto ad accettare
l'operato del falso rappresentante, nonostante sua mancanza di legittimazione.
Il contratto concluso dal falso rappresentante è efficace nei confronti del
rappresentato se questi ha dato causa all' apparente legittimazione e il terzo abbia senza sua
colpa confidato nella realtà di tale legittimazione.

17. - Il contratto per conto di chi spetta o per conto dell' avente diritto è il contratto stipulato in
rappresentanza di chi risulterà titolare di una data posizione giuridica.
Il contratto per conto di chi spetta è espressamente menzionato dalla legge ad es. nell'ipotesi di
verifica giudiziale dei difetti della cosa venduta. Su istanza della parte interessata il giudice può
ordinare il deposito o il sequestro della cosa e, se ciò appare giustificato, può anche ordinarne la
vendita per conto di chi spetta (art. 15131 c.c.).
Il contratto per conto di chi spetta rientra nello schema della rappresentanza.

18. - Il contratto per persona da nominare è il contratto nel quale una delle parti (lo stipulante)
si riserva il potere di nominare entro il termine legale (3 giorni) o convenzionale altra persona
quale parte sostanziale del contratto (art. 1401 c.c.).
A seguito della nomina fatta dallo stipulante a ciò già legittimato o altrimenti accettata dal terzo
nominato, quest'ultimo acquista la posizione di parte sostanziale del rapporto a far data dalla
stipulazione del contratto (art. 1404 c.c.). Nei confronti del promittente il nominato assume tutti
i diritti e gli obblighi scaturenti dal contratto.
La mancanza di nomina non impedisce nè il perfezionamento nè l'efficacia del contratto tra le

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parti originarie.

19. - Si ha la gestione di affari altrui quando il soggetto assume consapevolmente e senza


esservi obbligato la cura dell'interesse di chi non è in grado di provvedervi (art. 2028 c.c.).
La gestione di affari altrui è disciplinata dalla legge tra le fonti non contrattuali dell'
obbligazione. Le obbligazioni principali che nascono da tale gestione sono l'obbligazione del
gestore di continuare la gestione intrapresa e quella dell'interessato di adempiere le obbligazioni
assunte in suo nome dal gestore e di rimborsare a quest'ultimo le spese sostenute.
Presupposti della gestione di affari sono l'impedimento dell'interessato, la consapevolezza del
gestore di curare un interesse altrui, la spontaneità dell'intervento e l'utilità iniziale della
gestione.
Il divieto dell'interessato rende illegittimo l'intervento del gestore. Il divieto è nullo se contrario
alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume.
Il gestore è obbligato a continuare la gestione dell' affare intrapreso (art. 2028 1 c.c.). Tale obbligo
persiste fino a quando l'affare, inteso come operazione unitaria, sia stato espletato ovvero
l'interessato sia in grado di provvedervi personalmente.
L'interessato è tenuto a rimborsare al gestore le spese sostenute nell'espletamento dell'attività di
gestione, e a corrispondergli gli interessi dal giorno in cui le spese sono state fatte.

MODULO XXXVIII

La formazione del contratto

1. Violazione dei doveri di buona fede nelle trattative e nella formazione del
2. contratto
1. Recesso ingiustificato dalle trattative
2. Stipulazione di contratto invalido
3. Il danno da responsabilità precontrattuale
4. Accordo espresso e accordo tacito. Il silenzio
5. Perfezionamento dell'accordo
3. Revoca e caducazione della proposta e dell'accettazione
4. Conclusione del contratto mediante inizio dell'esecuzione. Adesione al contratto aperto.
Proposta di contratto con obbligazioni a carico del solo proponente
5. Il contratto preliminare
6. Il contratto definitivo
7. Obblighi legali di contrarre
8. 12.L'opzione
9. Il patto di prelazione

1. - Nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto le parti devono
comportarsi secondo buona fede (art. 1337 c.c.).
La buona fede rileva qui come regola di condotta, e cioè come buona fede in senso oggettivo. La
buona fede esprime il principio della solidarietà contrattuale e si specifica nei due fondamentali
aspetti della lealtà e della salvaguardia. La buona fede, precisamente, impone alla parte di
comportarsi lealmente e, oltre, di attivarsi per salvaguardare l'utilità dell' altra nei limiti di un
apprezzabile sacrificio. All'uno e all'altro aspetto (lealtà-salvaguardia) possono ricondursi gli
obblighi specifici previsti a carico delle parti nella fase precontrattuale.
La buona fede nelle trattative impone anzitutto il dovere di informazione.

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Il dovere d'informazione non concerne la convenienza dell' affare poiché la maggiore o minore
convenienza, e cioè il maggiore o minore profitto dell' affare, rientra nel normale gioco della
contrattazione.
Il dovere d'informazione concerne piuttosto le cause d'invalidità e inefficacia del contratto. Il
contraente è infatti responsabile se stipula il contratto senza avvertire l'altra parte delle cause di
invalidità o inefficacia (art. 1338 c.c.).
Il dovere d'informazione, che secondo buona fede incombe sulla parte nelle trattative,
comprende ancora le cause di inutilità del contratto (cioè inidoneità del
contratto a soddisfare l'interesse del contraente).
La violazione dei doveri di buona fede dà luogo alla responsabilità precontrattuale.

2. - Un'altra ricorrente ipotesi di responsabilità precontrattuale è data dalla rottura ingiustificata


delle trattative. Si ha rottura ingiustificata delle trattative quando il contraente recede senza una
valida giustificazione da trattative condotte fino al punto da indurre l'altra parte a confidare
ragionevolmente nella conclusione del contratto.
Lo svolgimento delle trattative non comporta alcun obbligo di contrarre. Il contraente conserva il
potere di revocare la propria proposta o la propria accettazione fino a quando il contratto non sia
concluso: l'esercizio di tale potere non costituisce come tale violazione di un obbligo. La
responsabilità del soggetto deriva piuttosto dall’avere dolosamente o colposamente indotto
l'altra parte a confidare ragionevolmente nella conclusione del contratto.

3. - Un'altra ipotesi di responsabilità precontrattuale è data dalla dolosa o colposa stipulazione di


un contratto invalido o inefficace.
Il codice prevede espressamente la responsabilità della parte che, conoscendo o dovendo
conoscere l'esistenza di una causa d'invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all' altra
parte. Quest'ultima ha allora diritto ad essere risarcita del danno subito per avere confidato
senza sua colpa nella validità del contratto (art. 1338 c.c.).

4. - La responsabilità precontrattuale comporta l'obbligo del risarcimento del danno nei limiti
del c.d. interesse negativo, cioè dell'interesse del soggetto a non essere
leso nell' esercizio della sua libertà negoziale.
Il danno per lesione dell'interesse negativo si distingue rispetto al danno per lesione
dell'interesse positivo, quale interesse all' esecuzione del contratto. In questo caso il danno è
rappresentato dalla perdita che il soggetto avrebbe evitato (danno emergente) e dal vantaggio
economico che avrebbe conseguito (lucro cessante) se il contratto fosse stato eseguito. Il danno
dell'interesse negativo, invece, consiste nel pregiudizio che il soggetto subisce per avere
inutilmente confidato nella conclusione o nella validità del contratto, e precisamente nelle spese
inutilmente erogate e nella perdita di favorevoli occasioni contrattuali.
5. - L'accordo è espresso quando risulta dalle dichiarazioni di volontà delle parti.
L'accordo è tacito quando le parti manifestano la loro volontà mediante
comportamenti concludenti, che non costituiscono mezzi di linguaggio diretti ad esprimere la
volontà contrattuale, e dai quali tuttavia, secondo le circostanze, si desume l'implicito intento
negoziale (es.: accettazione mediante esecuzione della prestazione richiesta).
Il silenzio indica l'inerzia del soggetto che non manifesta una volontà positiva o negativa. Quale
comportamento omissivo il silenzio è inidoneo a perfezionare l'accordo, che richiede invece
l'incontro delle manifestazioni di volontà delle parti.
Si ritiene per altro che l'accordo si possa perfezionare nonostante il silenzio della parte quando
sia la legge ad attribuire il valore di consenso all'inerzia del soggetto. Si ritiene inoltre che possa
valere come manifestazione tacita di consenso il silenzio circostanziato, ossia il silenzio che sia
accompagnato da circostanze tali da renderlo significativo come sintomo rivelatore

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dell'intenzione della parte.
6. - Lo schema principale di formazione del contratto è quello che si articola nella proposta e nell'
accettazione. La proposta è una manifestazione attuale di volontà contrattuale aperta all'
adesione del suo destinatario. L'accettazione è l'atto di accoglimento della proposta. In generale,
il contratto si considera concluso nel momento e nel luogo in cui il proponente ha avuto notizia
dell' accettazione dell' altra parte (art. 13261 c.c.).
Requisiti specifici dell' accettazione sono la conformità e la tempestività.
La conformità indica la totale adesione alla proposta. L'accettazione deve cioè essere interamente
conforme alla proposta. Un'accettazione che modifica o integra il
contenuto della proposta ha il valore di una nuova proposta o controproposta (art. 1326 5 c.c.).
L'accettazione deve inoltre essere tempestiva e cioè deve pervenire entro il termine fissato nella
proposta o, in mancanza, entro il tempo ordinariamente necessario secondo la natura dell'affare
o secondo gli usi (art. 13262 c.c.).
L'accettazione tardiva è inefficace. Il proponente tuttavia può reputarla efficace purchè ne dia
avviso immediato all'oblato (art. 13263 c.c.).
7. - Fino al momento della conclusione del contratto ciascuna delle parti può
revocare il proprio consenso. La revoca è l'atto diretto a cancellare un precedente atto giuridico,
ossia a privarlo di efficacia giuridica.
La revoca della proposta e la revoca dell' accettazione sono previste dalla legge come atti recettizi
(art. 1335 c.c.).
Un atto si dice recettizio quando per la sua efficacia è necessario che esso sia portato a
conoscenza del destinatario. L'atto recettizio si reputa conosciuto dal destinatario nel momento
in cui sia pervenuto al suo indirizzo. Tuttavia la legge tempera questa regola consentendo al
destinatario la prova di essere stato senza colpa nella impossibilità di prendere conoscenza dell'
atto pervenuto al suo indirizzo (art. 1335 c.c.).
Per impossibilità senza colpa s'intende qui un impedimento estraneo alla sfera dell'
organizzazione del destinatario o al suo fatto volontario. Non potrebbe quindi il destinatario
opporre, ad es., che il proprio dipendente non aveva ritrasmesso la dichiarazione all' organo
competente.
Quale atto recettizio la revoca non vale a impedire la conclusione del contratto se essa non
perviene al destinatario prima che l'accordo si sia perfezionato. Precisamente, se l' oblato revoca
la sua accettazione, occorre che la revoca pervenga al proponente prima dell' accettazione. La
revoca che perviene dopo o contemporaneamente all'avviso dell'accettazione è ormai tardiva in
quanto l'accordo si è già perfezionato.
Al fine di agevolare l'accettazione il proponente può rendere ferma la sua offerta per un certo
tempo. In tal caso la proposta è irrevocabile fino allo scadere del termine previsto.
La proposta e l'accettazione diventano inefficaci se il loro autore decede o perde la capacità di
agire prima del perfezionarsi dell' accordo.
Questa regola subisce due importanti deroghe nelle ipotesi di proposta irrevocabile e di atti
compiuti nell'esercizio di un'impresa (art. 13292 c.c.).
8. - La regola secondo la quale il contratto è concluso quando il proponente ha conoscenza dell'
accettazione dell’oblato trova una prima deroga nei casi in cui su richiesta del
proponente o per la natura dell'affare o secondo gli usi la prestazione dev'essere eseguita senza
una preventiva risposta. In tali casi il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto
inizio l'esecuzione (art. 13271 c.c.).
Un' altra particolare ipotesi di formazione del contratto è quella che concerne l'adesione
successiva di nuove parti. La possibilità dell'adesione di nuove parti è tipica dei contratti con
comunione di scopo, dove le parti cooperano per la realizzazione di un interesse comune. Il
contratto che prevede l'adesione successiva di nuove parti si dice 'aperto'.

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Una particolare previsione normativa è dedicata alla proposta di contratto da cui derivano
obbligazioni a carico del solo proponente. Tale proposta, anzitutto, è irrevocabile appena
ricevuta dal destinatario (art. 13331 c.c.). Inoltre, per la conclusione del contratto è sufficiente il
mancato rifiuto del destinatario. Precisamente, il destinatario può rifiutare la proposta entro il
termine richiesto dalla natura dell'affare o dagli usi; se non rifiuta tempestivamente "il contratto
è concluso" (art. 13332 c.c.).
Contratti con obbligazioni a carico del solo proponente sono i contratti a titolo gratuito (la
donazione, va ricordato, richiede l’atto pubblico).
9. - Il contratto preliminare è il contratto mediante il quale una o entrambe le parti si
obbligano alla stipulazione di un successivo contratto, detto definitivo. Il preliminare che
obbliga una sola parte alla stipulazione del definitivo è detto unilaterale.
L’obbligo di stipulare il contratto definitivo implica l’obbligo di preparare tempestivamente la
prestazione che dovrà essere effettuata in esecuzione di quel contratto.
Così, ad es., il promittente venditore deve approntare il bene in maniera che questo possa essere
attribuito al momento della stipulazione del contratto definitivo.
Il preliminare può anche prevedere una parziale anticipata esecuzione delle prestazioni finali.

10. – Il contratto definitivo non è una ripetizione del preliminare ma un nuovo contratto che le
parti stipulano in conformità del loro impegno e al quale devono ormai riferirsi tutti gli effetti,
obbligatori e reali.
Nel caso di ritardo nell’adempimento dell’obbligo di stipulare il contratto definitivo l’altra parte
può avvalersi del rimedio dell’esecuzione in forma specifica, cioè può chiedere una sentenza
produttiva degli effetti del contratto definitivo non concluso (art. 2932 c.c.).
Il rimedio è precluso quando la situazione di fatto o di diritto impedisce che gli effetti della
sentenza realizzino il risultato del contratto definitivo (es.: sopravvenuta distruzione o mancata
costruzione del bene, appartenenza del bene a terzi, ecc.).
Il contenuto del contratto può essere modificato se ciò sia domandato dalla parte e rientri nei
poteri di questa o del giudice.
Due presupposti sono necessari per ottenere l’esecuzione in forma specifica del preliminare: 1) il
ritardo del promittente, e 2) l’esecuzione o l’offerta della controprestazione, se esigibile.
Il provvedimento giudiziale di esecuzione in forma specifica ha natura costitutiva.
In tal senso depone la chiara indicazione normativa della sentenza che produce gli effetti del
contratto non concluso (art. 29321 c.c.).
L’inadempimento del preliminare può dare luogo agli altri rimedi secondo la disciplina generale
(risarcimento del danno, risoluzione del contratto, eccezione d’inadempimento, ecc.).

11. - L'obbligo legale di contrarre è l'obbligo che ha la sua fonte nella legge.
L'obbligo legale si distingue rispetto a quello negoziale, che scaturisce da un impegno negoziale
del soggetto.
Obblighi legali di contrarre sono sanciti in tema di monopoli legali (art. 2597 c.c.), di trasporti
pubblici di linea (art. 1679 c.c.), di esercizi pubblici (art. 187 rd. 6 maggio 1940, n. 635).
L'ingiustificato inadempimento dell'obbligo legale di contrarre importa l'obbligo del
risarcimento del danno a favore del richiedente, rapportato al mancato conseguimento della
prestazione.

12. - L'opzione è il contratto che attribuisce ad una parte (opzionario) il diritto di


sostituire il rapporto contrattuale finale mediante una propria dichiarazione di volontà (art.
1331 c.c.).
La dichiarazione della parte vincolata si considera quale proposta irrevocabile per
quanto attiene alla inefficacia della revoca e alla persistente efficacia della proposta pur a seguito
del decesso o della sopravvenuta incapacità del proponente (art. 1331 1 c.c.). Questo non vuol dire

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che il contratto di opzione sia una proposta irrevocabile. La differenza strutturale è netta nel
senso che la proposta è un atto unilaterale mentre l'opzione è un contratto.
In quanto l'efficacia della dichiarazione discende dal vincolo contrattuale, essa viene meno solo
con la scadenza del termine, l'estinzione del contratto o la rinunzia dell'opzionario al suo diritto.
L'atto dell'opzionario è sufficiente a costituire il rapporto contrattuale finale senza che occorra
un ulteriore accordo delle parti. In ciò si coglie la sicura distinzione rispetto al contratto
preliminare, dal quale scaturisce l'obbligo di stipulare il contratto definitivo. Dall'opzione
scaturisce invece il potere dell' opzionario di formare il contratto finale: tale potere è
qualificabile come diritto potestativo.
Il diritto di opzione è cedibile quando vi sia il consenso del concedente e, in I generale, quando
sia cedibile il contratto finale.
Il patto di opzione non è trascrivibile in quanto non conferisce un diritto reale né I una pretesa
obbligatoria assimilabile a quella del preliminare.

13. - Mediante il patto di prelazione il promittente si obbliga a dare al promissario detto anche
prelazionario) la preferenza rispetto ad altri, a parità di condizioni, nel caso in cui decida di
stipulare un determinato contratto.
A differenza delle varie prelazioni legali, la prelazione convenzionale conferisce
un diritto di natura obbligatoria non opponibile ai terzi. Così, la violazione di tale diritto attuata
con l'alienazione del bene ad altro acquirente non comporta un potere di riscatto ma solo il
rimedio del risarcimento del danno.
L’efficacia obbligatoria del patto ne esclude la trascrizione.

MODULO XXXIX

La forma

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1. La forma del contratto
2. L’atto pubblico
3. La scrittura privata
4. I contratti a prova formale
5. Le forme volontarie
6. I contratti telematici

1. La forma del contratto è il mezzo attraverso il quale le parti manifestano il loro consenso.
Le principali forme di contratto sono l’atto pubblico, la scrittura privata, la forma orale e il
comportamento concludente.
In tema di contratti e di negozi in genere vige il principio della libertà di forma nel senso che di
regola il consenso delle parti può essere manifestato con qualsiasi mezzo idoneo. Ciò che importa
è che il consenso si sia esternato in un fatto socialmente valutabile come accordo.

2. In deroga al principio della libertà di forma vi sono contratti per i quali la legge richiede
una determinata forma a pena di nullità (o ad substantiam). Questi contratti sono anche detti
formali o solenni. Qui la forma diviene elemento costitutivo del contratto (art. 1325, n. 4, c.c.), e
viene indicata come forma legale.
I contratti formali si dividono principalmente in contratti che devono essere stipulati per atto
pubblico e contratti che devono essere stipulati per atto pubblico o scrittura privata. Fra i negozi
che esigono essenzialmente l’atto pubblico si segnalano la donazione (art. 782 1 c.c.), l’atto
costitutivo della società per azioni (art. 2328 c.c.), le convenzioni matrimoniali (art. 162 1 c.c.).
L’atto pubblico è il documento redatto da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad
attribuirgli pubblica fede (art. 2699 c.c.).
Pubblica fede vuol dire piena efficacia probatoria dell’atto. L’atto pubblico, precisamente, fa
piena prova – fino a querela di falso – di ciò che in esso è documentato, ossia della provenienza
del documento dal pubblico ufficiale, delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il
pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza.

3. – Per scrittura privata o atto scritto s’intende il documento firmato dall’autore o dagli autori
dell’atto. Di regola non è necessaria l’autografia della dichiarazione, che può essere scritta da un
terzo o a macchina. Ciò che importa è invece che sia autografa la firma con la quale il soggetto
sottoscrive il testo.

4. Contratti a prova formale sono i contratti per i quali una determinata forma è richiesta a
fini probatori (o ad probationem).
Qui la forma non è un elemento costitutivo del contratto ma un onere richiesto ai fini della prova
dell’avvenuta stipulazione di esso (ad es.: il contratto di alienazione dell’azienda deve essere
provato per iscritto: art. 25561 c.c.).
La mancata osservanza dell’onere formale non impedisce comunque che il contratto sia
validamente stipulato e che possa darsene la prova mediante un documento ricognitivo o
mediante la confessione.

5. – Forme volontarie sono in generale le forme previste da atti negoziali: a differenza delle
forme legali, imposte da norme di legge, l’onere della forma volontaria ha la sua fonte
nell’autonomia negoziale.
La legge presume che la forma volontaria sia voluta per la validità del negozio (art. 1352 c.c.).

6. – Contratti telematici sono i contratti stipulati in via telematica, ossia

152
mediante l’uso di un elaboratore elettronico o computer.
Una legge del 1997 (la l. 15 marzo 1997, n. 59), ha sancito il principio della validità e rilevanza a
tutti gli effetti degli atti pubblici e privati posti in essere con strumenti telematici o informatici
conformi ai requisiti di legge.
Per questa via è stato dato ingresso ad un documento non cartaceo che, pur essendo privo di
firma autografa, è formalmente equivalente alla scrittura privata.
I requisiti legali del documento telematico o informatico sono stati successivamente specificati
da altri interventi legislativi, e da ultimo dal codice dell’amministrazione digitale (d. lgs. 7 marzo
2005, n. 82) dove è prevista la “firma digitale” che attesta l’autenticità e integrità del
documento.
La firma digitale è definita come una firma elettronica qualificata, basata su un sistema di chiavi
crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la
chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta
e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di
documenti informatici (art. 1, lett. s).
La firma digitale si presume legalmente riconducibile al titolare, salvo che questi ne dia prova
contraria (art. 212).

MODULO XL

Contenuto del contratto

1. Il contenuto e l’oggetto del contratto


2. Determinazione rimesse ad un terzo
3. Le clausole d’uso
4. Nozione di condizioni generali di contratto
5. Efficacia ed interpretazione delle condizioni generali nei confronti dell' aderente
6. Le clausole vessatorie
7. I contratti del consumatore
8. L'ambito soggettivo
9. Le clausole vessatorie nei contratti del consumatore
10. La lista grigia

153
11. Il principio di trasparenza
12. L'azione inibitoria
13. Generalizzazione della tutela del consumatore
14. La subfornitura

1. -Il contenuto del contratto in senso sostanziale è l’oggetto del contratto, ossia ciò che le
parti stabiliscono sia in ordine ai risultati materiali sia in ordine agli effetti giuridici.
Il codice richiede che l'oggetto del contratto sia possibile, lecito, determinato o determinabile
(art. 1346 c.c.).
La possibilità deve intendersi in senso fisico o materiale e in senso giuridico. L'oggetto del
contratto è possibile quando è astrattamente suscettibile di realizzazione.
L'inesistenza del bene comporta impossibilità originaria del contratto solo quando ha per
oggetto un bene insuscettibile di esistenza o di identificazione.

2. - I contraenti possono stabilire che il rapporto contrattuale sia determinato da un terzo (art.
1349 c.c.).
La legge prevede, precisamente, la possibilità che le parti deferiscano al terzo il compito di
determinare la prestazione dedotta in contratto.
Se non è diversamente stabilito, si presume per legge che le parti intendano affidarsi all'equo
arbitrio del terzo, e cioè che il terzo debba procedere secondo il criterio del migliore
contemperamento degli interessi dei contraenti. Se le parti si affidano al mero arbitrio del terzo,
questi può invece procedere alla determinazione del contratto secondo la su libera scelta.
Quando le parti si rimettono al mero arbitrio del terzo e questi non può o non vuole procedere
alla determinazione, e le parti non si accordano per la sua sostituzione, il contratto è nullo (art.
13492 c.c.).
La legge non prevede la sostituzione giudiziale del terzo in quanto il deferimento delle parti al
suo mero arbitrio sta ad indicare che esse si sono fidate esclusivamente del suo giudizio. La
determinazione fatta da altro terzo non potrebbe quindi considerarsi sostanzialmente
equivalente a quella originariamente prevista. Non trova allora applicazione il principio di
conservazione del contratto.
Quando e parti non si rimettono al mero arbitrio del terzo, e il terzo non può o non vuole
accettare, la determinazione è fatta dal giudice. La determinazione del terzo quale equo
arbitratore è nulla quando essa sia manifestamente iniqua o erronea ed anche in tal caso la
determinazione è fatta dal giudice (art. 13491 c.c.).
Altra causa di nullità della determinazione del terzo è la mala fede.
La mala fede rende nulla la determinazione del terzo anche se rimessa al suo mero arbitrio (art.
13492 c.c.). Per mala fede deve intendersi l’intenzionale parzialità della determinazione a favore
di uno dei contraenti.

3. - Le clausole d'uso o usi negoziali sono le pratiche generalizzate degli affari.


Le clausole d'uso s'intendono inserite nel contenuto del contratto salvo che risulti che esse non
sono state volute dalle parti (art. 1340 c.c.). Le clausole d'uso sono quindi considerate come
clausole contrattuali, e come tali prevalgono sulle norme dispositive di legge. Gli usi negoziali
possono, ad es., prevedere la variabilità della quantità o della qualità della merce entro
determinati limiti di tolleranza, l'obbligo di restituire i contenitori, la garanzia di buon
funzionamento, ecc.
Gli usi negoziali trovano applicazione senza che occorra la prova che le parti li abbiano
conosciuti e accettati.

4. - Le condizioni generali di contratto sono le clausole che un soggetto, il predisponente,

154
utilizza per regolare uniformemente i suoi rapporti contrattuali.
Il predisponente è di solito un imprenditore che utilizza le clausole generali per disciplinare in
modo uniforme i rapporti di erogazione di beni e servizi alla clientela.
Il fenomeno delle condizioni generali si è esteso al punto che difficilmente è possibile accedere a
beni o servizi senza sottostare ai regolamenti contrattuali che le imprese predispongono in forma
di clausole contenute in moduli, formulari o avvisi.

5. - Le condizioni generali sono efficaci nei confronti dell' aderente se al momento della
conclusione del contratto questi le conosceva o avrebbe dovuto conoscerle usando l'ordinaria
diligenza (art. 13411 c.c.).
La misura dell' ordinaria diligenza deve riportarsi ad un criterio di normalità, con riferimento a
ciò che è normale attendersi dalla massa degli aderenti in relazione al tipo di operazione
economica. L'applicazione di questo criterio esclude che all' aderente possa richiedersi un
particolare sforzo o una particolare competenza per conoscere le condizioni generali usate dal
predisponente.
Le condizioni generali normalmente non conoscibili sono senza effetto nel confronti dell'
aderente.
Le condizioni generali devono essere interpretate secondo i criteri di interpretazione valevoli per
il contratto (art. 1362 s. c.c.).
Una particolare regola interpretativa valevole per le condizioni generali è quella che in caso di
dubbio impone di adottare l'interpretazione più favorevole all'aderente (art. 1370 c.c.).

6. - Le clausole vessatorie sono condizioni generali che aggravano la posizione dell' aderente
rispetto alla disciplina legale del contratto. La legge prevede una serie di clausole vessatorie e ne
condiziona l'efficacia alla specifica approvazione scritta dell' aderente (art. 13412 c.c.).
Precisamente, non hanno effetto per l'aderente senza la sua specifica approvazione per iscritto
le condizioni che stabiliscono a favore del predisponente a) limitazioni di responsabilità; b)
facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l'esecuzione, ovvero che stabiliscono a carico
dell'aderente: c) decadenze; d) limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni; e) restrizioni alla
libertà contrattuale nei rapporti coi terzi; f) proroghe tacite o rinnovazioni del contratto; g)
clausole compromissorie e deroghe alla competenza dell' autorità giudiziaria.
E' opinione generalmente seguita che la previsione dell'onere formale della specifica
sottoscrizione riguardi esclusivamente le clausole indicate dalla legge e che essa non possa
estendersi analogicamente ad altre clausole egualmente gravose (tassatività delle clausole
vessatorie).
In mancanza della specifica approvazione per iscritto la clausola vessatoria è priva di effetto pur
se l'aderente ne abbia preso effettiva conoscenza al momento della conclusione del contratto.
La specifica approvazione per iscritto non è necessaria quando la clausola vessatoria sia stata
negoziata dalle parti.

7. - Già da tempo la dottrina aveva avvertito che il problema posto dal fenomeno delle condizioni
generali di contratto è quello di tutelare gli aderenti contro regolamentazione abusiva dei
rapporti contrattuali, e cioè contro l'abusivo aggravamento della posizione del contraente debole.
I diversi tipi di controllo sostanziale dei contratti d'impresa o addirittura la totale mancanza di
un tale controllo avevano creato una situazione di disparità tra gli imprenditori dei paesi europei
e avevano reso necessario un intervento comunitario volto a uniformare sul punto le legislazioni
nazionali.
L'intervento si è avuto con la Direttiva n. 93 del 5 aprile 1993, che ha imposto agli Stati membri
di adottare una tutela contrattuale minima del consumatore nei confronti del professionista
In esecuzione della Direttiva comunitaria la legge 6 febbraio 1996, n. 52, ha; dettato la disciplina
dei « contratti del consumatore» immettendola nella normativa codicistica dei contratti in

155
generale (art. 1469 bis s.): normativa inserita infine nel codice del consumo, emanato col d. 1gs.
6 settembre 2005, n. 206 (art. 33 s.).
Punti salienti di questa disciplina sono: l'ambito oggettivo, esteso a tutte le clausole contrattuali,
anche se non integranti condizioni generali di contratto; l'ambito soggettivo, limitato ai contratti
stipulati tra professionisti e consumatori; il divieto di inserimento di clausole vessatorie nei
singoli contratti e conseguente nullità delle stesse; la tutela inibitoria contro la predisposizione di
condizioni generali di contratto vessatorie.
In tal modo la nuova normativa ha previsto una duplice tutela sostanziale dei consumatori: una
tutela individuale, che può essere fatta valere mediante accertamento giudiziale della
vessatorietà delle clausole inserite nei singoli contratti, ed una tutela collettiva, volta a impedire
in via preventiva l'inserimento di condizioni di contratto nei singoli contratti.

8. - A differenza della norma dell'art. 1341 c.c., che prescinde dalle qualifiche delle parti, e parla
di predisponente e la nuova normativa nella formazione del contratto (il predisponente e
l'aderente), la normativa ha riguardo alle figure del professionista e del consumatore.
Ai fini dell' applicazione della disciplina a tutela del consumatore, professionista è il produttore o
distributore di beni o servizi che pone in essere il contratto nell’esercizio della sua attività
imprenditoriale o professionale.
Il consumatore, per converso, è la persona fisica che non agisce nell’esercizio della sua attività
professionale (art. 3 lett. a, cod. cons.).

9. - La normativa sui contratti del consumatore definisce in generale come vessatorie le clausole
che, « malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio
dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto» (art. 33 1 cod. cons.).
Il significativo squilibrio che connota la vessatorietà non attiene alle determinazioni dell' oggetto
e del corrispettivo. La normativa sui contratti del consumatore ha infatti inteso rimettere tali
determinazioni al gioco del libero mercato e della concorrenza, fermo l'onere del professionista
di formularle in modo chiaro e comprensibile. Ciò da cui il consumatore dev'essere protetto è
piuttosto l'abuso del potere regolamentare del contratto.
La vessatorietà è pertanto esclusa in relazione alle clausole che sono state «oggetto di trattativa
individuale», e cioè che sono il risultato di una negoziazione tra le parti, dovendosi intendere
per trattativa non la discussione del testo ma lo scambio diproposte e controproposte culminante
in apprezzabili concessioni da parte del professionista.
Senz' altro lecite sono poi le clausole che riproducono norme di legge o di trattati internazionali
vincolanti gli Stati dell'Unione Europea o che attuano principi di tali trattati. Le clausole non
sono vessatorie in quanto la conformità alle leggi o ai recepiti principi internazionali ne esclude
in radice l'abusività.

10. - L'accertamento della gravosità delle singole clausole è agevolato dalla legge che prevede un
elenco di clausole presuntivamente vessatorie (c.d. lista grigia). Le clausole rientranti in questo
elenco si presumono vessatorie fino a prova contraria. L’onere di tale prova incombe sul
professionista, ma la non vessatorietà della clausola nel concreto può anche essere rilevata
direttamente dal giudice.
L’elenco, comprendente 20 clausole, non è tassativo.
Clausole presuntivamente vessatorie sono quelle che ad es.: a) escludono o limitano la
responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore,
risultanti da un fatto o da un' omissione del professionista; b) escludono o limitano le azioni o i
diritti del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso
d'inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista; c)
escludono o limitano l'opponibilità da parte del consumatore della compensazione di un debito
nei confronti del professionista con un credito vantato nei confronti di quest'ultimo; d)

156
prevedono un impegno definitivo del consumatore mentre l'esecuzione della prestazione del
professionista è subordinata ad una condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla
sua volontà; e) consentono al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal
consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o ne recede, senza prevedere il diritto del
consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a
non concludere il contratto oppure a recedere; f) impongono al consumatore, in caso di
inadempimento o di ritardo nell'adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di
risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d'importo manifestamente eccessivo; ecc.
Una parziale deroga alla norma sulla lista grigia è sancita dal codice con riguardo ai contratti
aventi ad oggetto la prestazione di servizi finanziari e valori mobiliari.
Le clausole vessatorie sono nulle, ferma restando l'efficacia del contratto per la restante parte
(art. 361 cod. cons.).
La nullità è sancita in favore esclusivo del consumatore e può essere rilevata d'ufficio dal giudice
(art. 363 cod. cons.).

11. - Le clausole contrattuali devono essere formulate dal professionista «in modo chiaro e
comprensibile» (art. 351 cod. cons.).
Il testo della norma conferma che l'onere del professionista non si limita a fare conoscere al
consumatore il testo delle clausole ma richiede ulteriormente la utilizzazione di clausole
«intellegibili».
L'inosservanza dell'onere di 'parlar chiaro' può dar luogo a clausole incomprensibili o a clausole
ambigue, di cui sia dubbio il significato.
Le clausole ambigue vanno interpretate nel significato più favorevole al consumatore (art. 36 2
cod. cons.), conformemente alla regola dettata in tema d'interpretazione delle clausole inserite in
condizioni generali di contratto, moduli o formulari.
Quelle insuscettibili di essere comprese da un soggetto di media capacità e intelligenza devono
invece ritenersi non incluse nel contenuto del contratto.
Un peculiare effetto del difetto di trasparenza è quello di attrarre nella valutazione della
vessatorietà le clausole che determinano l'oggetto o il corrispettivo (art. 342 cod. cons.). Lo
squilibrio a carico del consumatore deve allora essere corretto, se del caso, riportando ad equità
il rapporto (ad es.: sostituendo un prezzo equo al prezzo difficilmente percettibile nel suo
ammontare).

12. - Un'importante novità introdotta dalla disciplina dei contratti del consumatore è
rappresentata dall' azione inibitoria, intesa a rimuovere le clausole abusive dai testi delle
condizioni generali di contratto (art. 37 cod. cons.).
Questa azione inibitoria si caratterizza come un rimedio collettivo in quanto non tutela il
consumatore quale parte di un determinato contratto ma tutela i destinatari
delle condizioni generali di contratto, cioè la generalità dei soggetti i cui rapporti contrattuali
sono destinati ad essere regolati dalle condizioni generali predisposte dal professionista.
L'azione è diretta a fare inibire dal giudice l'uso delle condizioni generali di contratto di cui sia
accertata la vessatorietà.
Conformemente al suo carattere collettivo l'azione inibitoria è esercitabile non dal singolo
consumatore ma dalle associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti nonché
dalle camere di commercio.

13. - La tutela del consumatore quale parte contrattuale debole si è aperta alla visione di una
tutela globale dei suoi rilevanti interessi. Questa tutela, già attuata su altri piani - sancendo ad es.
la responsabilità oggettiva o aggravata per i danni da prodotti difettosi - è stata formalmente
proclamata dalla legge sui diritti dei consumatori e degli utenti del 30 luglio 1998, n. 281,

157
trasfusa nel codice del consumo.
Il codice del consumo riconosce e garantisce I diritti dei consumatori, specificandoli e
indicandoli come diritti fondamentali.
Gli interessi protetti attengono alla salute, alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi,
ad un' adeguata informazione e ad una corretta pubblicità, all' educazione al consumo, alla
correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi, alla
promozione e allo sviluppo dell'associanismo libero, volontario e democratico tra i consumatori,
all' erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza (art.2 cod. cons.).
Particolarmente significativa appare l'indicazione del diritto dei consumatori alla correttezza nei
rapporti contrattuali. Essa conferma che la tutela contro l'abuso del potere contrattuale del
professionista trova il suo referente nel precetto della buona fede.

14. – La subfornitura designa una situazione di particolare dipendenza economica di un


imprenditore, il subfornitore, nei confronti di altro imprenditore, il committente. Il
subfornitore, precisamente, è l’imprenditore che organizza la propria attività in funzione della
lavorazione dei semilavorati del committente o della sua materia prima ovvero della fornitura di
beni o servizi conformi ai progetti esecutivi o alle istruzioni tecniche del committente, ed è
condizionato alla domanda di quest'ultimo nonché al rapporto instaurato, insuscettibile di essere
rimpiazzato mediante la cessione delle prestazioni a terzi.
A tutela del subfornitore la legge detta particolari prescrizioni a) sulla forma del contratto, b)
sulla determinatezza del contenuto, c) sui termini di pagamento del subfornitore e prevede d) la
nullità di alcune tipiche clausole vessatorie (l. 18 giugno 1998, n. 192).

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MODULO XLI
La causa del contratto
1. La causa del contratto
2. La causa concreta
3. I motivi
4. La presupposizione
5. Il negozio astratto
6. Contratti aleatori
7. Contratti a titolo oneroso e gratuito
1. - La causa è la ragione pratica del contratto, cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è
diretta a soddisfare.
La causa si distingue rispetto all' oggetto del contratto. L'oggetto indica il programma, ossia il
contenuto dell'accordo delle parti, mentre la causa indica l'interesse che tale programma è volto
a soddisfare.
La causa costituisce il fondamento della rilevanza giuridica del contratto.
Affinché il contratto sia riconosciuto come giuridicamente impegnativo non è sufficiente che
sussista l'accordo ma occorre anche che l'accordo sia giustificato da un interesse apprezzabile. È
in questo senso che la causa diviene elemento essenziale del contratto.
2. - Sebbene sia diffuso il riferimento alla causa tipica, quale astratta funzione economico-sociale
del negozio, occorre piuttosto riconoscere nella causa la ragione concreta del contratto.
In tal senso è decisivo osservare che la nozione di causa quale funzione pratica del contratto può
avere una sua rilevanza solo in quanto si accerti la funzione che il singolo contratto è diretto ad
attuare. Ora, rispetto al singolo contratto ciò che importa sapere è la funzione pratica che
effettivamente le parti hanno assegnato al loro accordo.
Ricercare l'effettiva funzione pratica del contratto vuoI dire, precisamente, ricercare l'interesse
concretamente perseguito. Non basta, cioè, verificare se lo schema usato dalle parti sia
compatibile con uno dei modelli contrattuali ma occorre ricercare il significato pratico dell'
operazione con riguardo a tutte le finalità che - sia pure tacitamente - sono entrate nel contratto.
Tenendo conto della causa concreta che il contratto è diretto a realizzare è possibile anzitutto
valutare la meritevolezza sociale dell'interesse perseguito. Tale valutazione presuppone infatti
che si sia accertato quale interesse o complesso di interessi stanno realmente alla base dell'
operazione negoziale.
3. - I motivi sono gli interessi che la parte tende a soddisfare mediante il contratto ma che non
rientrano nel contenuto di questo.
I motivi sono di regola irrilevanti in quanto le finalità esterne al contenuto del contratto non
possono incidere sui diritti ed obblighi delle parti senza compromettere di massima l'esigenza di
certezza della regola contrattuale.

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I motivi acquistano rilevanza giuridica se non rimangono nella sfera interna di ciascuna parte ma
si obiettivizzano nel contratto, divenendo interessi che il contratto è diretto a realizzare.
Gli interessi che il contratto è diretto a realizzare non sono per altro meri motivi ma, in buona
sostanza, sono interessi che concorrono a integrare la causa concreta del contratto. Di semplici
motivi, o motivi in senso proprio, può invece parlarsi, secondo la nozione sopra segnalata, con
riguardo agli interessi che non rientrano nel contenuto del contratto.
Anche i motivi propriamente detti possono avere una determinata rilevanza. In particolare, la
legge sanziona espressamente la nullità del contratto quando le parti s'inducono a concludere il
contratto esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe (art. 1345 c.c.).
Va poi ricordato che l'errore sul motivo è causa di annullabilità del testamento (art. 624 2 c.c.) e
della donazione (art. 787 c.c.) quando il motivo risulta dall' atto e sia stato il solo a determinare il
suo compimento.
4. - La presupposizione è una circostanza esterna che senza essere prevista quale condizione
del contratto ne costituisce un presupposto oggettivo.
Es.: il contratto di vendita viene stipulato sul presupposto che il compratore ha ottenuto o è certo
che otterrà un determinato finanziamento pubblico, senza che tale circostanza sia indicata come
una condizione del contratto.
Il venir meno della presupposizione importa il rimedio del recesso unilaterale a favore della
parte per la quale il vincolo contrattuale è divenuto intollerabile o inutile.
Il recesso può essere esercitato anche nell'ipotesi in cui il presupposto obiettivo del contratto sia
già in origine inesistente o impossibile a verificarsi.
5. - Nel suo significato più rigoroso l'astrattezza è intesa, come astrattezza sostanziale, e cioè
quale irrilevanza della causa ai fini della validità del negozio. In base a tale nozione il negozio
astratto è propriamente il negozio che si perfeziona a
prescindere dalla causa.
Questo negozio si contrappone al negozio causale quale negozio che ha la causa come suo
elemento essenziale.
Accanto all' astrattezza sostanziale si distingue poi l'astrattezza o astrazione processuale, la quale
esprime semplicemente l'esonero dalla prova della causa del negozio. Un ricorrente esempio di
questa astrazione è dato dalla promessa di pagamento (art. 1988 cc). La promessa dispensa il
destinatario di essa dall' onere di provare il rapporto sottostante. Il promittente può per altro
provare che la causa è insussistente o che è illecita. In tal caso si accerta che la promessa non ha
prodotto l'effetto suo proprio e che il promittente non è quindi obbligato nei confronti del
promissario.
La regola della causa quale requisito essenziale del contratto esprime una generale soluzione
negativa verso l'astrattezza sostanziale.
La regola causale non si applica tuttavia sempre col medesimo rigore e talvolta essa cede ad altre
esigenze della vita di relazione.
Il massimo rigore della regola causa e si coglie nei negozi traslativi di diritti reali immobiliari.
Tali negozi sono infatti assoggettati all'onere minimo della forma scritta, la quale comprende
anche l'elemento causale. Se quindi la causa non risulta dal contenuto del contratto, questo deve
reputarsi nullo.
Per i contratti che prevedono l'alienazione di altri diritti o la prestazione di servizi, che non
richiedono una determinata forma in ragione del loro oggetto, la stipulazione può essere
documentata senza che sia necessario indicare la causa dell' atto. La causa infatti si presume.
La presunzione di causa non comporta che il contratto sia astratto. Se si dimostra che la causa è
inesistente o illecita il contratto è senz'altro invalido. Così, ad es., le parti possono cedere il
contratto senza bisogno di indicare la ragione della cessione. Ma ciò non perché la cessione del
contratto sia un negozio astratto ma perché la causa si presume. Se per altro la causa non
sussiste o è illecita ne consegue la nullità del contratto.

160
Carattere eccezionale hanno le ipotesi di negozi astratti previste dalla legge, quale, ad es.,
l'assunzione dell'obbligazione effettuata mediante cambiale.

6. - Il contratto è aleatorio quando è a carico di una parte il rischio di un evento casuale che
incide sul contenuto del suo diritto o della sua prestazione contrattuale. L'assunzione del rischio
può inerire al tipo di operazione negoziale (tipico contratto aleatorio è quello di assicurazione:
art. 1882 c.c.) o può essere prevista dalle parti in deroga alla regola legale di ripartizione dei
rischi (contratti aleatori per volontà delle parti).
I contratti aleatori si contrappongono ai contratti commutativi, quali contratti in cui l'entità delle
reciproche prestazioni non dipende da fattori casuali.
I contratti aleatori non si contrappongono, invece, ai contratti corrispettivi in quanto l'aleatorietà
non esclude la corrispettività delle prestazioni.
Il carattere aleatorio del contratto rileva principalmente in tema di rescissione per lesione poichè
tale rimedio non è applicabile ai contratti aleatori (art. 1448 4 c.c.).

7. - Il contratto è a titolo oneroso quando alla prestazione principale di una parte corrisponde
una prestazione principale a carico dell' altra. L' onerosità si riscontra nei contratti a
prestazioni corrispettive e nei contratti associativi.
Il contratto è a titolo gratuito quando conferisce un bene o un servizio senza una
corrispondente prestazione a carico del beneficiario.
La previsione di una prestazione secondaria a carico del beneficiario, cioè di un onere o modo,
non toglie il carattere di gratuità dell' atto. In primo luogo la prestazione può infatti essere a
vantaggio dello stesso beneficiario. In secondo luogo, anche se a vantaggio del beneficiante o di
un terzo, il modo costituisce una semplice limitazione del beneficio attribuito.

MODULO XLII

L’interpretazione e l’integrazione del contratto

161
1. L’intepretazione del contratto
2. L’integrazione del contratto secondo buona fede
3. Norme di legge integrative del contratto
4. L’equità

1. – L’interpretazione è l’operazione che accerta il significato giuridicamente rilevante


dell’accordo contrattuale.
Il codice detta una serie di norme sulla interpretazione del contratto (art. 13621371). In via di
apertura è enunciato il principio basilare secondo il quale nell'interpretare il contratto si deve
indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle
parole (art. 13622 c.c.) (ossia, non limitarsi all' interpretazione letterale).
Seguono poi le norme che impongono di valutare il comportamento complessivo delle parti,
anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362 2 c.c.); di procedere all'interpretazione
complessiva delle clausole (art. 1363 c.c.: interpretazione sistematica); di presumere che le
espressioni generali siano limitate agli oggetti del contratto (art. 1364 c.c.), e di presumere che i
casi indicati a spiegazione di un patto abbiano semplice valore esemplificativo (art. 1365 c.c.:
interpretazione presuntiva).
Un secondo gruppo di norme stabilisce che nel dubbio il contratto deve interpretarsi nel senso in
cui possa avere qualche effetto (art. 1367 c.c.); le clausole ambigue devono interpretarsi secondo
le pratiche generali del luogo di conclusione del contratto o del luogo dell'impresa, se una delle
parti è un imprenditore (art. 1368 c.c.); le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto
devono interpretarsi nel senso più favorevole all'aderente (art. 1370 c.c.); nel dubbio persistente
il contratto deve infine essere interpretato nel senso meno gravoso per l'obbligato se si tratta di
contratto a titolo gratuito, e nel senso che realizzi l'equo contemperamento degli interessi delle
parti se è a titolo oneroso (art. 1371 c.c.).
Secondo l'opinione comunemente seguita, il primo gruppo di norme attiene all'interpretazione
c.d. soggettiva, la quale è diretta a chiarire la comune intenzione delle parti, conformemente al
principio di fondo sulla interpretazione del contratto; il secondo gruppo attiene invece
all'interpretazione c.d. oggettiva, la quale è diretta a fissare il significato del contratto quando è
dubbia la comune intenzione dei contraenti. In tal caso il significato del contratto si uniforma a
canoni legali improntati fondamentalmente alla conservazione dell'atto, alla tipicità e all'equità.
Tra il primo e il secondo gruppo di queste norme è collocata la regola che impone di interpretare
il contratto secondo buona fede (art. 1366 c.c.). La tendenza prevalente segna la regola al
secondo gruppo, ma appare preferibile riconoscere in essa il ruolo di principale criterio di
interpretazione soggettiva del contratto.
Nella interpretazione del contratto la buona fede rileva come obbligo di lealtà. Essa esige,
precisamente, di preservare il ragionevole affidamento di ciascuna parte sul significato dell'
accordo. In applicazione di tale criterio l'interprete deve adeguare l'interpretazione del contratto
al significato sul quale le parti - in relazione alle concrete circostanze potevano e dovevano fare
ragionevole affidamento.
Una regola inserita nel gruppo delle regole oggettive è quella che impone di intendere le
espressioni con più sensi nel senso più conveniente alla natura e all'oggetto del contratto (art.
1369 c.c.) (interpretazione funzionale).
2. - Accanto alle determinazioni convenzionali, e cioè alle disposizioni che si riconducono all'
accordo delle parti e ne costituiscono il contenuto, occorre distinguere l'integrazione del
contratto, cioè le determinazioni legali del rapporto che hanno titolo nella legge o in altre fonti
eteronome.
La regola di fondo dell'integrazione prevede che il contratto obbliga le parti non solo a quanto è
nel medesimo espresso ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in
mancanza, secondo gli usi e l'equità (art. 1374 c.c.). Altra fonte di diritto obiettivo del rapporto
contrattuale, alla quale occorre riconoscere particolare preminenza, è la buona fede (art. 1375

162
c.c.).
La buona fede si specifica in due fondamentali canoni di condotta. Il primo canone di buona
fede, valevole principalmente nella formazione e nella interpretazione del contratto, impone la
lealtà del comportamento.
Nell'esecuzione del contratto e del rapporto obbligatorio la buona fede si specifica come obbligo
di salvaguardia. Qui la buona fede impone a ciascuna parte l’obbligo di salvaguardare l'utilità
dell'altra nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio.
La buona fede non va confusa con la diligenza, la quale impone, l'adeguato sforzo volitivo e
tecnico per realizzare l'interesse del creditore e per non ledere i diritti altrui. L'obbligo della
buona fede, invece, vieta un comportamento sleale e, oltre, impone di salvaguardare l'utilità della
controparte, ma non giunge a richiedere un impegno elevato fino alla soglia dello sforzo
diligente.
Con riguardo all'obbligo di salvaguardia possono segnalarsi i seguenti comportamenti tipici di
buona fede.
a) Esecuzione di prestazioni non previste. Pur se il contratto non lo preveda, la parte è tenuta
secondo buona fede a compiere quegli atti giuridici o materiali che si rendono necessari per
salvaguardare l'utilità della controparte, sempreché si tratti di atti che non comportano un
apprezzabile sacrificio.
Ad es., il venditore di un immobile deve prestare il proprio consenso per rendere possibile la
rettifica dell' atto pubblico di vendita al fine di rimuovere un errore relativo ai dati catastali
dell'immobile venduto.
b) Modifìche del proprio comportamento. La parte è tenuta secondo buona fede a modificare il
proprio comportamento (prestazioni e oneri) se ciò si rende necessario per salvaguardare l'utilità
della controparte, salvo sempre il limite dell'apprezzabile sacrificio.
Al riguardo possono segnalarsi i casi nei quali la parte si rende conto che la prestazione come
prevista in contratto è inidonea a realizzare l'utilità della controparte perché, ad es., le indicate
misure del bene da produrre non ne consentirebbero un' appropriata utilizzazione o perché il
bene da produrre non è conforme a nuovi requisiti legali.
c) Tolleranza delle modifiche della prestazione di controparte. La parte è tenuta secondo buona
fede a tollerare che la controparte esegua una prestazione diversa da quella prevista se ciò non
pregiudica apprezzabilmente il proprio interesse.
Ad es., la parte non può rifiutare la prestazione eseguita in luogo diverso da
quello stabilito se questa inesattezza non gli impedisce di apprendere agevolmente il bene o il
servizio dovutogli.
d) Avvisi. La parte è tenuta a comunicare alla controparte le circostanze di cui sia venuta a
conoscenza se tali circostanze sono rilevanti per l'esecuzione del contratto.
Così, devono essere comunicate, ad es., le circostanze la cui conoscenza consentirebbe alla
controparte di evitare un danno o un inutile aggravio di costi ovvero di eseguire una prestazione
inesatta.
e) Esercizio di poteri discrezionali. La parte è tenuta secondo buona fede ad esercitare i suoi
poteri discrezionali in modo da salvaguardare l'utilità della controparte compatibilmente con il
proprio interesse o con l'interesse per il quale il potere è stato conferito.
Con riguardo alla materia delle promozioni, ad es., dove le nomine a posti di particolare
importanza e responsabilità richiedono un potere largamente discrezionale, la buona fede è
violata se la promozione venga rifiutata in base a motivazioni false o irrilevanti.

3. - Il contratto è ampiamente disciplinato da norme legislative generali e particolari. Tali norme


possono essere dispositive o cogenti.
L'applicazione delle norme dispositive dà luogo all'integrazione suppletiva del contratto, e le
stesse norme sono dette suppletive. Tali norme concorrono a determinare gli effetti del contratto
salva una diversa disposizione delle parti.

163
Le norme integrative del contratto possono assumere il carattere dell'inderogabilità quando esse
tutelano un interesse generale prevalente su quello delle parti, o anche l'interesse di una delle
parti contro la preminente forza contrattuale dell' altra. In generale, le disposizioni imperative si
applicano direttamente al rapporto contrattuale nonostante la diversa previsione delle parti (art.
1339 c.c.), realizzando un'integrazione cogente del contratto.
Così, ad es., la clausola che prevedesse una durata del contratto di affitto a coltivatore diretto
inferiore al limite legale sarebbe automaticamente sostituita dalla disposizione di legge che
prevede una durata minima di 15 anni (I. 3 maggio 1982, n. 203).
In deroga alla regola valevole in tema di nullità parziale del contratto (art. 1419 1 c.c.), la nullità di
singole clausole sancita nell'interesse di una parte non importa la nullità dell' intero contratto
(nullità di protezione).

4. – In mancanza della legge trovano applicazione, quali fonti integrative del contratto, gli usi
normativi (modulo II, n. 9).
La disciplina legale del contratto contiene numerosi richiami agli usi. Gli usi, precisamente, sono
richiamati per determinare termini o limiti o modalità del procedimento formativo del contratto
(art. 13262; 13332 c.c.), della diffida ad adempiere (art. 14542 c.c.), della risoluzione della vendita
per vizi (art. 14921 c.c.), ecc. Gli usi sono particolarmente richiamati per concorrere a
determinare le prestazioni contrattuali: luogo di consegna del bene mobile venduto (art. 1510 2
c.c.), termine di pagamento del prezzo (art. 1498 2 c.c.), ammontare del compenso dovuto al
mandatario (art. 1709 c.c.), ecc.

5. - L'equità è un fondamentale principio d'integrazione del contratto. Per tutti quegli aspetti del
contratto che non sono determinati dalle parti, dalle leggi o dagli usi, è infatti l'equità che
assurge a criterio generale di determinazione (art. 1374 c.c.).
Quale principio di integrazione del contratto l'equità è precisamente il criterio del giusto
contemperamento dei diversi interessi delle parti in relazione allo scopo e alla natura dell'
affare.
Lo stesso criterio equitativo opera nel contratti a titolo gratuito, dove la determinazione del
contratto deve procedere contemperando l'interesse dell'avente diritto (ad avere il massimo
quantitativo e qualitativo) e quello dell' onerato (al minore sacrificio possibile, sempre tenendo
conto dello scopo e della natura del contratto ).
Particolarmente rilevante è il ruolo dell' equità nella determinazione del compenso in tutti i
contratti di prestazioni d'opera o di servizi, nei casi in cui tale compenso non sia altrimenti
determinato o determinabile.

MODULO XLIII

L’efficacia del contratto

1. Effetti del contratto


2. Il principio del consenso traslativo
3. La condizione
4. Pendenza della condizione
5. La condizione potestativa
6. La condizione legale
7. Il termine
8. Il modo

1. – Gli effetti del contratto possono distinguersi secondo la natura del diritto costituito.
Precisamente gli effetti possono essere obbligatori, reali e autorizzativi.

164
L’effetto obbligatorio consiste in generale nella costituzione, alienazione o modificazione di un
diritto di credito. L’effetto reale consiste nella costituzione, alienazione o modificazione di un
diritto reale.
Si dice ad effetti reali il contratto che produce un effetto reale immediato.
L'immediatezza dell'effetto reale è espressione del più ampio principio
consensualistico, che trova generale applicazione nell' ambito di tutti i contratti di
alienazione.
L’effetto autorizzativo consiste nell’attribuzione di un potere o nella rimozione di un limite
all’esercizio di un diritto.

2. - Quando il contratto di alienazione ha per oggetto un bene determinato l'acquisto del diritto si
determina per effetto del consenso delle parti legittimamente
manifestato (principio del consenso traslativo) (art.1376 c.c.).
Nei contratti di alienazione aventi ad oggetto cose determinate solo nel genere il diritto si
trasmette a seguito della individuazione (art. 1378 c.c.).
L'individuazione è l'atto di assegnazione di cose concrete in esecuzione di un'obbligazione
traslativa generica. Quale atto di assegnazione l'individuazione costituisce un autonomo atto
giuridico.
L'individuazione è un atto dovuto dell'alienante, che richiede l'accettazione
dell'altra parte.
L'individuazione può anche non richiedere l'accettazione dell'alienatario. Quando infatti si tratta
di cose che devono essere trasportate da un luogo ad un altro, l'individuazione si perfeziona
mediante la consegna al vettore o allo spedizioniere
(art.1378, in fine, c.c.).
I contratti ad effetti reali non devono essere confusi con i contratti reali, cioè i contratti che si
perfezionano con la consegna della cosa che ne è oggetto, quali il mutuo (1813 c.c.), il comodato
(1803 c.c.), il deposito (1766 c.c.), il pegno (2786 c.c.), il riporto (1548, 1549 c.c.). In questi
contratti la consegna non è un mero momento esecutivo del contratto bensì un elemento
costitutivo, nel senso che senza la consegna il contratto non s’intende formato.

3. - Elementi accidentali del contratto sono la condizione, il termine e il modo.


La condizione è una clausola che fa dipendere l'efficacia o la risoluzione del contratto dal
verificarsi di un evento futuro e incerto (art. 1353 c.c.). La condizione che sospende l'efficacia del
contratto è detta condizione sospensiva. Quella che ne prevede l'eventuale risoluzione è detta
risolutiva.
La condizione si distingue poi in volontaria o legale secondo che sia posta dalle parti o dalla
legge.

4. – In pendenza della condizione l'acquirente di un diritto sotto condizione


sospensiva può compiere atti conservativi. Atti conservativi può compiere pure l'alienante di un
diritto sotto condizione risolutiva (art. 1356 c.c.).
Il compimento di atti conservativi concerne propriamente la possibilità di ottenere
provvedimenti giudiziari cautelativi.
In pendenza della condizione l'obbligato e l'alienante sotto condizione sospensiva e l'acquirente
sotto condizione risolutiva devono comportarsi secondo buona fede per conservare integre le
ragioni dell'altra parte (art. 1358 c.c.).
La parte, oltre a doversi comportare secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell'
altra parte, è obbligata a non impedire l'avverarsi della condizione. Se la condizione diviene
impossibile per causa imputabile alla parte, che aveva interesse contrario al suo avveramento,
essa si considera come avverata (art. 1359 c.c.) (es.: la parte si obbliga ad acquistare un bene se
questo risulterà completato dall' alienante entro una certa data, e poi ostacola il completamento

165
del bene).
La condizione ha di massima effetto retroattivo, nel senso che l'avverarsi di essa comporta
l'efficacia o l'inefficaccia del contratto con decorrenza dal momento della sua stipulazione (art.
1360 c.c.).

5. - La condizione si dice potestativa quando l'evento in essa dedotto è il fatto volontario di una
delle parti.
La previsione del fatto volontario di una parte come oggetto di condizione significa che, rispetto
al contratto, la parte è giuridicamente libera di compierlo o non compierlo. La condizione
potestativa viene quindi a tutelare il preminente interesse di una parte a decidere una propria
azione e a subordinare a tale scelta la sorte del contratto.
Se la parte può decidere direttamente in ordine al contratto deve parlarsi di condizione
meramente potestativa.
Condizione meramente potestativa e quella che fa dipendere l'efficacia o la
risoluzione del contratto dalla semplice manifestazione di volontà della parte. Ciò che
caratterizza la condizione meramente potestativa è che essa attribuisce alla parte un diretto
potere decisionale sulla efficacia o sulla inefficacia del contratto.
La legge sancisce la nullità dell' alienazione di un diritto o dell' assunzione di un obbligo
sospensivamente condizionate alla mera volontà dell'alienante o del debitore (art. 1355 c.c.) .

6. - La condizione legale (o candicio iuris) è una condizione posta dalla legge.


La condizione legale può essere sospensiva o risolutiva.
La condizione legale si differenzia da quella volontaria in quanto dipende dalla legge e non dalla
volontà delle parti. Consegue che la condizione legale è un requisito necessario di efficacia del
contratto mentre la condizione volontaria ha il carattere della accidentalità.
In linea di massima la disciplina dettata per la condizione volontaria risulta applicabile alla
condizione legale, salve le deroghe appropriate alla funzione dei requisiti normativi di efficacia.

7. - La condizione si distingue rispetto al termine in quanto essa rende incerto il rapporto mentre
il termine è una determinazione temporale che fa riferimento ad un evento certo nel suo
accadimento anche se è incerto il momento nel quale l'accadimento avrà luogo.
Conformemente alla tradizione romana il criterio distintivo deve quindi basarsi sulla certezza o
incertezza dell' evento (del se) mentre, ai fini della distinzione, non ha rilievo la certezza o
incertezza del tempo (del quando).
Nell' esempio classico il riferimento alla futura morte di una determinata persona non costituisce
condizione ma termine, essendo certo l'avvenimento (certo se) anche se incerto il tempo di esso
(incerto quando). La condizione si caratterizza invece per il riferimento ad un evento incerto
(incerto se) anche se a scadenza fissa (certo quando). Es.: il contratto si risolverà se alla
scadenza di 12 mesi non risulterà concessa la licenza.
Sul piano della disciplina la distinzione di maggior rilievo si coglie tra condizione sospensiva e
termine iniziale. Il termine iniziale non incide sull' attuale titolarità del diritto, di cui è rinviata
nel tempo solo l'esigibilità, mentre la condizione sospensiva conferisce al titolare un'aspettativa.

8. – Il modo o onere è la clausola dei negozi a titolo gratuito che obbliga il beneficiario dell'
attribuzione a devolverla in tutto o in parte per una data finalità. Anche la disposizione modale
può portare alla risoluzione del contratto. Nel modo, tuttavia, la risoluzione è una conseguenza
eventuale che deve essere prevista o desunta dal titolo e che rientra nel generale rimedio della
risoluzione per inadempimento. Nella condizione, invece, l’effetto risolutivo consegue
all’obiettivo verificarsi dell’evento in essa dedotto a prescindere da ogni valutazione di
responsabilità per l’inadempimento.

166
MODULO XLIV

I contratti tipici

1. Nozione di contratti tipici


2. I singoli contratti. La vendita. La permuta. La somministrazione
3. La locazione
4. L’appalto
5. Il trasporto
6. Il mandato
7. Il deposito
8. Il comodato
9. Il mutuo
10. Altri contratti speciali

1. - Il contratto tipico è il modello di un'operazione economica ricorrente nella vita di relazione. I


contratti tipici si distinguono in legali e sociali.
Il contratto tipico legale, detto anche contratto nominato, è una figura normativa che disciplina
un tipo di operazione economica (vendita, mutuo, ecc.).
Il contratto innominato è il contratto che non rientra in un dato tipo legale. La possibilità di
stipulare contratti innominati è espressamente prevista in sede di riconoscimento normativo
dell'autonomia contrattuale. Nell'esercizio di tale autonomia le parti possono infatti stipulare
contratti che non rientrano nei tipi legali purchè diretti a realizzare interessi meritevoli di
tutela secondo l'ordinamento giuridico (art. 13222 c.c.).
I contratti innominali possono assumere tipicità sociale, confermandosi ad un modello formatosi
nella pratica degli affari.

167
2. - La vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il
trasferimento di altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo (art. 1470 c.c.).
Obbligazioni principali del venditore sono quella di far acquistare al compratore la proprietà
della cosa o il diritto, quella di consegnare la cosa, quella di garantire il compratore dall'evizione
e dai vizi della cosa (art. 1476 c.c.).
In virtù del principio del consenso traslativo il compratore acquista il diritto per effetto stesso del
contratto, semprechè il venditore sia legittimato a vendere e si tratti di vendita di cose
determinate.
Se il venditore non è proprietario della cosa, è obbligato a procurarne l'acquisto al compratore
(art. 1478 c.c.).
L'evizione è la rivendica della cosa di parte di un terzo. Il compratore che subisce l' evizione ha
diritto al risarcimento del danno da parte del venditore. La garanzia è imprescrittibile.
Il venditore è inoltre tenuto a garantire che la cosa non sia gravata da garanzie reali o vincoli
derivanti da pignoramento o sequestro (art. 1482 c.c.), da oneri o diritti di godimento di terzi
(art. 1489 c.c.), che la cosa abbia le qualità essenziali o quelle promesse e non sia affetta da vizi
(art. 1490, 1497 c.c.).
Se la cosa è gravata da garanzie reali o altri simili vincoli, il compratore può sospendere il
pagamento del prezzo e può far fissare dal giudice un termine decorso il quale il contratto è
risolto se il bene non risulta liberato.
I vizi e la mancanza di qualità devono essere denunziati a pena di decadenza entro 8 giorni dalla
scoperta.
Effettuata la denunzia, l'azione di garanzia si prescrive in l anno (art. 1495 c.c.).
In esecuzione della Direttiva 44/99/CE il nostro legislatore ha dettato la disciplina della vendita
dei beni di consumo, ora contenuta negli articoli del codice del consumo emanato col d. lgs. 6
settembre 2005, n. 206 (art. 128 s.).
Punti salienti di questa disciplina sono: l) il suo ambito soggettivo, riferito ai contratti
intercorrenti tra professionisti (venditori e produttori) e consumatori; 2) il suo ambito oggettivo,
riferito alla vendita, ai contratti di appalto e di opera nonché in genere ai contratti finalizzati alla
fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre; 3) la delimitazione della nozione di beni
di consumo, con esclusione, tra l'altro, dei beni immobili; 4)1'obbligazione del venditore di
consegnare beni conformi al contratto, anche sotto il profilo quantitativo e qualitativo; 5)
l’esperibilità in via prioritaria dei rimedi della riparazione e della sostituzione in caso di non
conformità del bene al contratto; il prolungamento dei termini della denuncia dei difetti di
conformità (2 mesi) e della prescrizione dell'azione di inadempimento (26 mesi).

La permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose o
altri diritti, da un contraente all'altro (art. 1552 c.c.).
Alla permuta si applicano, in quanto compatibili, le norme della vendita.

La somministrazione è il contratto con il quale una parte si obbliga, verso il corrispettivo di un


prezzo, a eseguire prestazioni periodiche o continuative di cose (art. 1559 c.c.).
A differenza della vendita a consegne ripartite, la somministrazione ha per oggetto distinte
prestazioni attributive, autonomamente disciplinate.
L'inadempimento di una di esse non dà luogo di regola alla risoluzione del contratto, salvo che
sia di importanza tale da menomare la fiducia nell' esattezza delle successive prestazioni (art.
1564 c.c.).
Se non è fissato un termine, ciascuna delle parti può recedere dando congruo preavviso (art.
1569 c.c.).

3. - La locazione è il contratto col quale una parte (locatore) si obbliga a far godere all'altra

168
(locatario) una cosa mobile o immobile verso il pagamento di un canone.
La locazione è disciplinata dalle norme del codice (art. 1571 c.c.) e da leggi speciali per quanto
concerne le locazioni di immobili urbani (l. 27 luglio 1978, n. 392 e l. 9 dicembre 1998, n. 431) e
affitti di fondi rustici (l. 3 maggio 1982, n. 203, e successive modifiche).
La locazione conferisce al locatario un diritto personale di godimento nei confronti del locatore,
il quale è tenuto principalmente a mantenere la cosa in modo da consentirne l'uso normale o il
particolare uso convenuto e a garantirne il pacifico godimento (art. 1575 c.c.).
In particolare, il locatore è tenuto a garantire il locatario contro le molestie da parte di terzi che
pretendano avere diritti sulla cosa locata (molestie di diritto).
Se si tratta di molestie di terzi che non pretendono di avere diritti, il locatario non è garantito ma
può agire direttamente contro i molestatori (art. 1585 c.c.).
La locazione ha una durata massima di 30 anni (art. 1573 c.c.), mentre è fissata una durata
minima per i contratti aventi ad oggetto immobili adibiti ad uso abitativo (art. 2 l. 9 dicembre
1998, n. 431) o adibita ad uso diverso da quello di abitazione (art. 27 l. 27 luglio 1978, n. 392) e
per gli affitti agrari (l. 3 maggio 1982, n. 201).
Il contratto di locazione è opponibile al terzo acquirente nei limiti di un novennio semprechè il
contratto di locazione abbia data certa anteriore all' alienazione della cosa (art. 1599 c.c.).
La locazione ultranovennale è soggetta a trascrizione.
4. - L'appalto è il contratto col quale una parte assume con la propria organizzazione
imprenditoriale il compimento di un' opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro
(art. 1655 c.c.).
E' ammessa una limitata revisione del prezzo a seguito del sopravvenire di una imprevedibile
onerosità e un equo compenso a seguito di determinate difficoltà di esecuzione dell' opera o del
servizio (art. 1664 c.c.). Se l'opera è affetta da difformità o vizi, il committente può chiederne la
eliminazione a spese dell' appaltatore o la riduzione del prezzo, salvo il diritto alla risoluzione del
contratto se l'opera risulta del tutto inadatta alla sua destinazione (art. 1668 c.c.).
L'appaltatore è responsabile per la durata di 10 anni per la rovina o gravi difetti dell'edificio o di
altro immobile destinati a lunga durata (art. 1669 c.c.).

5. - Col contratto di trasporto una parte (vettore) si obbliga verso l'altra a trasferire persone o
cose da un luogo all'altro (art. 1678 c.c.).
Il codice civile disciplina il contratto di trasporto terrestre, mentre il contratto di trasporto aereo
e il contratto di trasporto marittimo sono disciplinati dal codice della navigazione e dalle leggi
speciali.
Nel trasporto di persone il vettore risponde per i danni che colpiscono la persona del passeggero
e le sue cose a causa di ritardi o disservizi nel trasporto, salva la prova di avere adottato tutte le
misure idonee ad evitare il danno (art. 1681 c.c.).
Nel trasporto di cose il vettore risponde per la perdita e l’avaria delle cose consegnategli, salva la
prova che il danno è derivato da caso fortuito, dai vizi delle cose o del loro imballaggio, dal fatto
del mittente o da quello del destinatario (un limite all'importo del risarcimento è stato introdotto
dalla 1. 22 agosto 1985, n. 450 e successive modifiche).

6. - Il mandato è il contratto con il quale una parte (mandatario) si obbliga a compiere atti
giuridici per conto dell'altra (mandante) (art. 1703 c.c.).
Il contratto si presume oneroso (art. 1709 c.c.).
Il mandato può essere con o senza rappresentanza (mod. XXXVII n. 10). Se il mandatario non
ha il potere di rappresentanza, egli assume gli obblighi e acquista i diritti derivanti dagli atti posti
in essere nei confronti dei terzi. I terzi non hanno rapporto col mandante, il quale può però
sostituirsi al mandatario per esercitare i diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato
(salvo che ciò possa pregiudicare i diritti del mandatario) (art. 1705 c.c.).
Il mandante può anche rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario

169
mentre se si tratta di immobili o beni iscritti in pubblici registri occorre un atto di trasferimento
da parte del mandatario.
Il mandatario è obbligato ad eseguire gli atti per i quali il mandato e stato conferito e gli atti
necessari al loro compimento (art. 1708 c.c.).
Cause di estinzione del mandato sono la scadenza del termine, la rinunzia del mandatario, la
morte o la sopravvenuta incapacità di una delle pari (salvo che il mandato abbia ad oggetto atti
relativi all'esercizio di un' impresa), la revoca del mandato.
Il mandante può revocare il mandato anche se ne era stata pattuita la irrevocabilità, ma risponde
dei danni se non ricorre una giusta causa (art. 17231 c.c.).
La revoca non ha effetto se il mandato è stato conferito anche nell'interesse del mandatario o di
terzi, salvo che ricorra una giusta causa (art. 17232 c.c.).
Il mandato collettivo, cioè conferito con unico atto e per un interesse comune, non può essere
revocato senza il consenso di tutti i mandanti, salvo che ricorra una
giusta causa (art. 1726 c.c.).

7. - Il deposito è il contratto quale una parte (depositario) riceve dall'altra (depositante) una
cosa mobile obbligandosi a custodirla e a restituirla in natura (art. 1766 c.c.).
Il deposito si presume gratuito salvo che la qualità profèssionale del depositario o altre
circostanze depongano per la sua onerosità (art. 1767 c.c.).
Il depositario deve restituire la cosa a richiesta del depositante, salvo che sia stato convenuto un
termine a favore del depositario (art. 17711 c.c.). La restituzione deve essere effettuata al
depositante o alla persona da questo indicata, senza che il depositario possa esigere la prova che
il depositante è proprietario della cosa depositata.
Il depositario è liberato dall' obbligo della restituzione se prova che la cosa gli è stata tolta in
conseguenza di un fatto a lui non imputabile. Non gli giova addurre il furto, poiché il furto è
evitabile con l'impiego della normale diligenza.
Norme particolari sono dettate per il deposito in albergo (art. 1783 s. c.c.), per il deposito nei
magazzini generali (art. 1787 s. c.c.), per il deposito bancario (art. 1834 c.c.). Il deposito bancario
è di regola un deposito di danaro, configurandosi allora come deposito irregolare.
Il deposito irregolare ha per oggetto denaro o altre cose fungibili con facoltà del depositario di
servirsene. Il depositario ne acquista la proprietà essendo obbligato a restituire cose nella stessa
quantità, specie e qualità (art. 1782 c.c.).

8. - Il comodato è il contratto col quale una parte (comodante) consegna all'altra


(comodatario) una cosa mobile o immobile affinchè se ne serva per un tempo determinato.
Il contratto è essenzialmente gratuito.
Il comodatario acquista un diritto personale di godimento sulla cosa, di cui può servirsi per l'uso
previsto o per l'uso normale in relazione alla natura della cosa. Il comodatario è tenuto a
custodire e conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia e non può concederla in
uso a terzi senza l'autorizzazione del comodante (art. 1804 c.c.)
Se non è stato convenuto un termine, la cosa deve essere restituita a richiesta
del comodante (art. 1819 c.c.).

9. - Il mutuo è il contratto col quale una parte (mutuante) consegna all'altra (mutuatario) una
determinata quantità di denaro o di cose fungibili, e l'altra parte si obbliga a restituire il
denaro o le altre cose nella stessa quantità e qualità.
Il mutuatario acquista la proprietà delle cose dategli a mutuo (art. 1814).
Il mutuo è presuntivamente oneroso, comportando l'obbligo del mutuatario di corrispondere gli
interessi nella misura del tasso legale o nella misura convenuta.
Se sono convenuti interessi usurari, eccedenti il limite fissato periodicamente con decreto
ministeriale, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi (art. 18152 c.c.).

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Il mutuo è un contratto reale in quanto si perfeziona con la consegna della cosa.
Carattere consensuale ha invece il preliminare di mutuo, col quale una parte promette all'altra di
darle a mutuo denaro o altre cose fungibili.

10. - Altri contratti speciali disciplinati dal codice civile sono il riporto (contratto col quale una
parte trasferisce all'altra parte titoli di credito per un determinato prezzo, e l'altra parte di
obbliga a ritrasferire alla scadenza altrettanti titoli verso il rimborso del prezzo, aumentato o
diminuito nella misura convenuta: art. 1548), la commissione (mandato avente ad oggetto
l'acquisto o la vendita di beni per conto del committente e in nome e del commissario: art. 1731
c.c.); la spedizione (mandato col quale lo spedizioniere assume l'obbligo di concludere un
contratto di trasporto in nome proprio e per conto del committente: art. 1737 c.c.); l'agenzia
(contratto col quale una parte (l'agente) assume l'obbligo di promuovere stabilmente la
conclusione di contratti in una zona determinata per conto dell' altra parte (preponente): art.
1742 c.c; il sequestro convenzionale (contratto col quale due o più persone affidano ad un terzo
una cosa di cui è controversa l'appartenenza affinché la custodisca e la restituisca all'avente
diritto: art. 1798 c.c.); la rendita perpetua, contratto col quale una parte conferisce all'altra il
diritto di esigere in perpetuo la prestazione periodica di denaro o altri beni fungibili, verso il
corrispettivo dell' alienazione di un immobile o della cessione di un capitale (art. 1861); la
rendita vitalizia, contratto col quale si attribuisce al beneficiario il diritto ad una rendita per la
durata della sua vita, verso il corrispettivo dell'alienazione di un bene, mobile o immobile, o della
cessione di un capitale (art. 1872 c.c.); l'assicurazione, contratto col quale una parte
(assicuratore), verso il pagamento di un premio, si obbliga a indennizzare l'altra parte
(assicurato) in caso di sinistri (assicurazione contro i danni) o a pagare un capitale o una rendita
al verificarsi di un evento attinente alla vita umana (assicurazione sulla vita) (art. 1882); il
contratto d'opera, contratto col quale una parte (prestatore d'opera) si obbliga nei confronti
dell'altra (committente) a compiere verso corrispettivo un' opera o un servizio, con lavoro
prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione (art. 2222 c.c.).
Il codice civile prevede anche una serie di tipici contratti bancari (art. 1834 s.).
Fra i contratti socialmente tipici non disciplinati dal codice civile va segnalato il leasing, o
locazione finanziaria, contratto col quale una parte si obbliga ad acquistare un bene e a metterlo
a disposizione dell' altra parte (utilizzatore) verso un canone e per un tempo determinato, con
facoltà per l'utilizzatore di acquisirne la proprietà alla scadenza dietro versamento di un
determinato importo.
Nell’ambito dei contratti tipici il codice colloca anche la mediazione, operazione in attuazione
della quale un soggetto (il mediatore) mette in relazione più parti per la conclusione di un
contratto senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, dipendenza o
rappresentanza (art. 1742).

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MODULO XLV

L'invalidità del contratto

1. Le forme della invalidità. La nullità


2. Cause di nullità. Mancanza di un elemento costitutivo
3. La illiceità
4. Nullità speciali
5. La frode alla legge
6. L'azione di nullità
7. Eccezionali ipotesi di efficacia del contratto nullo. La tardività della domanda di nullità
e la conversione
8. La sanatoria del contratto nullo
8. L'annullabilità
9. I vizi del consenso. L'errore Il. L'errore di calcolo
12. La violenza
13. Il timore reverenziale
14. Il dolo
15. Il dolo lecito (o dolus bonus)
l6. L'azione di annullamento
17. La convalida
18. La rettifica
19. La rescindibilità
20. L'azione di rescissione
21. La riduzione ad equità
22. La simulazione
23. Rilevanza della simulazione rispetto ai terzi
24. L'azione di simulazione

1. - La nullità è la più grave forma d'invalidità negoziale. Essa esprime una valutazione negativa
del contratto l) per la sua definitiva deficienza strutturale, ossia mancanza o impossibilità
originaria di un elemento costitutivo, ovvero 2) per la sua illiceità.
Il contratto nullo è senza effetto fin dall' origine. La nullità opera di diritto e può essere
giudizialmente accertata in ogni tempo.
La nullità si distingue in totale e parziale. La nullità totale investe l'intero contratto. La nullità
parziale in senso oggettivo investe una parte del suo contenuto mentre la nullità parziale in senso
soggettivo colpisce singoli rapporti di partecipazione al contratto. Essa è pertanto configurabile
relativamente ai contratti plurilaterali.
La nullità si distingue ancora in assoluta e relativa. La nullità assoluta può essere fatta valere da
tutte le parti e, oltre, da tutti i terzi interessati. Quella relativa designa la nullità che può essere
fatta valere da determinati legittimati. La nullità assoluta costituisce la regola ma la nullità
relativa trova crescente riscontro nel diritto positivo, in relazione ai casi di nullità sancita a tutela
di una delle parti (nullità di protezione n. 4).
La nullità del contratto esprime una valutazione negativa dell'ordinamento, la quale non esclude

172
che il contratto nullo possa avere una certa efficacia nei confronti dei terzi o anche delle parti (v.
avanti n.7, 8). Gli effetti che la legge eccezionalmente ricollega al contratto nullo e, in generale, la
disciplina normativa della nullità presuppongono che sussista un'operazione qualificabile come
contratto e alla quale sia riferibile la sanzione della nullità, presuppongono cioè l'esistenza del
contratto.
La nullità deve quindi essere tenuta distinta rispetto all'inesistenza quale mancanza di un fatto o
atto socialmente rispondente alla nozione di contratto.

2. - Prima causa di nullità è la mancanza o l'impossibilità originaria di un elemento costitutivo.


Elementi costitutivi del contratto sono l'accordo, l'oggetto, la causa e la forma, quando richiesta a
pena di nullità.
Per quanto attiene all'accordo la mancanza di esso deve intendersi come mancanza della
fattispecie oggettiva in cui si identifica giuridicamente l'accordo e non come deficienza della
volontà negoziale. Se poi non vi è un atto socialmente valutabile come accordo, deve senz' altro
parlarsi di inesistenza del contratto.
La mancanza dell' oggetto si riscontra quando il contenuto del contratto non è né determinato né
determinabile e quando il bene sul quale sono destinati a cadere gli effetti contrattuali è
insuscettibile di esistenza o di identificazione. Tradizionale, al riguardo, è il caso del bene perito
anteriormente alla sua alienazione.
Anche la mancanza della causa comporta di regola la nullità del contratto.
La mancanza di forma, infine, comporta la nullità quando si tratta di forma prevista dalla legge
come requisito necessario del contratto.

3. - Altra causa di nullità è la illiceità.


Il contratto è illecito quando è contrario a norme imperative (salvo che la legge preveda una
conseguenza diversa dalla nullità (art. 14181 c.c.)).
La nullità del contratto discende altresì dalla illiceità della causa. La causa è illecita quando è
contraria a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume (art. 1343 c.c.).
Illeciti possono essere anche i motivi (art. 1345 c.c.). Il motivo illecito rende nullo il contratto
quando sia determinante del consenso, esclusivo e comune ad entrambe le parti.
La contrarietà all'ordine pubblico indica la contrarietà ai principi basilari del nostro
ordinamento giuridico. Larga parte di tali principi trova espressione nella Carta costituzionale.
In particolare, rientra nell'ordine pubblico il rispetto dei diritti fondamentali della persona. La
contrarietà al buon costume esprime i canoni fondamentali di onestà pubblica e privata alla
stregua della coscienza sociale.
Atti contrari al comune senso di onestà sono considerati non solamente gli atti lesivi della
dignità sessuale ma in genere quelli che in un dato ambiente e momento storico sono condannati
dalla coscienza sociale. La giurisprudenza, ad es., è giunta a riconoscere come immorale il
contratto col quale una parte promette una prestazione patrimoniale per ottenere una
raccomandazione presso pubblici uffici.
Il contratto contrario al buon costume è nullo, ma le prestazioni eseguite non possono essere
ripetute (art. 2035 c.c.).
Avverte il codice (art. 14183 c.c.) che il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge.
Tradizionali casi di nullità comminata specificamente dalla legge sono, ad es., quelli concernenti
i divieti dei patti successori (art. 458 c.c.), del patto leonino (art. 2265 c.c.), del patto
commissorio (art. 2744 c.c.), ecc.

4. - Di recente si assiste al fenomeno di un sistematico intervento di leggi speciali, che utilizzano


la sanzione della nullità in funzione di tutela di contraenti deboli (nullità di protezione): vedi, ad
es., il T.U. delle leggi bancarie (d.lgs. 10 settembre 1993, n. 385), che prevede la nullità dei
contratti bancari non redatti per iscritto; la disciplina dei contratti del consumatore che sancisce

173
la: nullità delle clausole vessatorie (art. 33 s. cod. cons.), ecc.
Queste nullità non possono essere fatte valere dalla parte destinataria dei divieti.

5. - Illecito, e quindi colpito da nullità, è anche il contratto \n frode alla legge. Il contratto è in
frode alla legge quando costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa
(art. 1344 c.c.).
La frode si distingue rispetto alla contrarietà alla legge in quanto essa ne realizza una violazione
indiretta. Precisamente, il contratto fraudolento in sé considerato non incorre nella proibizione
di legge poichè il suo contenuto non integra un risultato vietato. La frode si realizza piuttosto
attraverso una combinazione di atti negoziali leciti preordinati al conseguimento di un risultato
finale illecito.
Esempi tipici di contratti in frode alla legge sono dati dalle interposizioni reali, mediante le quali
il soggetto elude un divieto di acquisto stipulando un mandato con un terzo, incaricato di
acquistare in proprio nome e di ritrasmettere il bene al mandante.

6. - L'azione di nullità è l'azione che tende all'accertamento della nullità del contratto. Il
provvedimento che accoglie la domanda è una sentenza dichiarativa in quanto la causa di nullità
opera di diritto. La sentenza si rende tuttavia necessaria per fare valere la nullità se la fattispecie
contrattuale si presenta come un titolo presuntivamente valido.
Legittimato ad esercitare l'azione è chiunque vi abbia interesse (art. 1421 c.c.). L'azione di nullità
è imprescrittibile (art. 1422 c.c.). L'azione di nullità può accompagnarsi alla domanda di
risarcimento del danno se ricorrono gli estremi della responsabilità precontrattuale. In tal caso,
come si è visto, è dovuto il risarcimento del danno nei limiti dell'interesse negativo, che
comprende, tra l'altro, la perdita delle occasioni favorevoli e la corresponsione degli interessi
sulle somme versate in esecuzione del contratto dal momento del pagamento.
A prescindere dalla responsabilità precontrattuale le prestazioni eseguite in tutto o in parte
costituiscono un indebito oggettivo in quanto prive di titolo e devono essere restituite.

7. - La nullità non esclude che il contratto possa essere rilevante nei confronti dei terzi e che
possa produrre effetti anche rispetto alle parti.
Nel nostro ordinamento si riscontrano due ipotesi di efficacia del contratto nullo, la tardività
della trascrizione della domanda di nullità e la conversione.
Tra gli atti soggetti a trascrizione la legge ricomprende le domande dirette a fare dichiarare la
nullità di atti soggetti a trascrizione (art. 2652, n. 6, c.c.). La sentenza che dichiara la nullità dell'
alienazione travolge anche i diritti dei terzi acquirenti, e cioè i diritti che i terzi hanno acquistato
dall'alienatario o dai suoi aventi causa. Tuttavia, se la trascrizione della domanda di nullità è
eseguita dopo 5 anni dalla trascrizione dell' atto nullo, la sentenza che dichiara la nullità non
pregiudica i diritti che i terzi di buona fede hanno acquisito in base ad un atto trascritto o iscritto
prima della trascrizione della domanda di nullità. L'inopponibilità della sentenza di nullità non
rende valido l'atto impugnato. Essa comporta tuttavia la rilevanza di tale atto che, assieme alla
buona fede dell' acquirente, concorre a costituire un efficace titolo di acquisto.
La conversione è una modifica legale del contratto che ne evita la nullità nel rispetto
sostanziale dello scopo delle parti.
Precisamente, il contratto nullo può produrre gli effetti di un diverso contratto, del quale abbia i
requisiti di sostanza e di forma, se, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, deve
ritenersi che esse lo avrebbero voluto se ne avessero conosciuto la nullità (art. 1424 c.c).
Presupposti di operatività della conversione sono l) la nullità del contratto; 2) l'idoneità degli
effetti giuridici modificati a soddisfare in misura apprezzabile gli interessi delle parti; 3) la
presenza nel contratto stipulato dei requisiti necessari per produrre i diversi effetti giuridici; 4)
l'ignoranza delle parti circa l'invalidità del contratto stipulato.
La modifica opera per effetto di legge ma non In contrasto con l'atto di autonomia privata, bensì

174
nel sostanziale rispetto del programma voluto dalle parti. Fondamento della conversione è il
principio di conservazione del contratto.

8. - Il nostro ordinamento non conosce una generale figura di sanatoria del contratto nullo.
In qualche caso eccezionale la legge ammette per altro la sanatoria del negozio nullo mediante
conferma. La conferma comporta la relativa efficacia dell'atto rispetto al confermante.
La conferma è prevista dalla legge con riguardo alla donazione, nel senso che la nullità di questa
non può essere fatta valere dagli eredi o aventi causa dal donante i quali, conoscendo la causa di
nullità, abbiano dato conferma o volontaria esecuzione alla donazione dopo la morte del donante
(art. 799 c.c.). Analoga sanatoria è prevista per il testamento (art. 590 c.c.).

9. - L'annullabilità è la forma d'invalidità del contratto suscettibile di annullamento a seguito


di sentenza.
L'annullamento è pronunziato su domanda della parte legittimata, alla quale spetta quindi la
decisione se mantenere o meno in vita il contratto. Legittimata è la parte nel cui interesse è
prevista l'invalidità del contratto.
A differenza del contratto nullo il contratto annullabile è provvisoriamente produttivo dei suoi
effetti. Il contratto diviene definitivamente efficace a seguito della prescrizione dell' azione di
annullamento o a seguito della convalida.
Cause di annullabilità sono l'incapacità legale o naturale della parte e i vizi del consenso (art.
1425 c.c.). Cause di annullabilità sono poi previste in particolari situazioni di abuso a danno di
una delle parti (es.: contratto concluso dal rappresentante in conflitto d'interessi col
rappresentato).
I vizi del consenso comprendono l'errore, la violenza, il dolo.
L'errore è una falsa rappresentazione della parte in ordine al contratto o ai suoi presupposti.
L'errore si distingue in errore vizio (o errore motivo) ed errore ostativo. L'errore vizio attiene alla
formazione della volontà della parte (senza l'errore la parte non avrebbe concluso il contratto).
L'errore ostativo attiene invece alla dichiarazione della parte (il contraente ha correttamente
formato la propria volontà ma questa è stata inesattamente dichiarata o trasmessa).
Si distingue ancora tra errore di fatto, che cade sugli elementi contrattuali o su circostanze
esterne, ed errore di diritto, che cade su norme giuridiche.
L'errore è causa di annullamento del contratto quando è essenziale e riconoscibile (art. 1428
c.c.).
L'errore è essenziale quando cade sulla natura o sull'oggetto del contratto; sull'identità
dell'oggetto della prestazione o su una qualità del medesimo che secondo il comune
apprezzamento deve ritenersi determinante del consenso; sull'identità o sulle qualità dell'altro
contraente, sempreché l'una o le altre siano state determinanti del consenso.
Oltre che essenziale l'errore deve essere anche riconoscibile da parte dell'altro contraente. La
riconoscibilità sussiste quando - in relazione al contenuto e alle circostanze del contratto e alle
qualità dei contraenti - una persona di normale diligenza avrebbe dovuto rilevare l'errore (art.
1431 c.c.), cioè avrebbe dovuto riconoscere la falsa rappresentazione della controparte.
L'errore sul motivo può essere decisivo per la parte ma di regola esso non è causa di
annullamento del contratto. Una deroga a questa regola è contenuta nella disciplina della
donazione, la quale può essere impugnata per errore sul motivo, se questo risulta dall' atto ed è il
solo che ha determinato il donante a compiere la liberalità (art. 787 c.c.).
Errore di diritto è l'errore che cade su norme giuridiche. Esso è causa di annullamento quando
abbia costituito la ragione unica o principale del consenso (art. 1429, n. 4, c.c.).
L’errore di calcolo non dà luogo all' annullamento ma alla rettifica del contratto salvo che,
concretandosi in errore sulla quantità, abbia assunto un'importanza determinante (art. 1430
c.c.).
Secondo la giurisprudenza l'errore di calcolo è solo l'errore nella elaborazione aritmetica dei dati

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esattamente assunti in contratto. Così, ad es., vi è errore di calcolo se le parti, dopo avere fissato
la quantità della merce venduta e il prezzo unitario di questa, computano inesattamente il prezzo
globale.

12. - La violenza è la minaccia che costringe la persona a stipulare un contratto non voluto.
Essa è causa di annullabilità del contratto quando consiste nella minaccia seria di un male
ingiusto e notevole alla persona o ai beni del contraente o di terzi.
Oltre che nella minaccia di una lesione antigiuridica alla persona o ai beni la violenza può
consistere nella minaccia di far valere un diritto. In tal caso il contratto è annullabile se la
minaccia è diretta a conseguire vantaggi ingiusti (art. 1438 c.c.).
L’ingiustizia del vantaggio si riscontra nella iniquità delle condizioni imposte al minacciato.
Esso si riscontra poi nel fatto stesso di estorcere un contratto mediante la minaccia di esercitare
un diritto volto alla tutela di interessi estranei al vantaggio che si vuole conseguire (es.: contratto
estorto con la minaccia di presentare una querela).

13. - Il timore riverenziale è la soggezione psicologica che il soggetto ha verso altri per
l'importanza della loro posizione nell' ambiente della famiglia, del lavoro o anche nell'
ambiente sociale.
La disciplina del contratto si occupa espressamente del timore riverenziale escludendo che esso
solo renda annullabile il contratto (art. 1437 c.c.). La norma si spiega in considerazione della
normale insufficienza della semplice soggezione psicologica a determinare il consenso
contrattuale.

14. - Il dolo è qualsiasi forma di raggiro che altera la volontà contrattuale della vittima.
Il dolo è causa di annullabilità del contratto quando è determinante del consenso, cioè quando il
raggiro induce il soggetto a stipulare un contratto che altrimenti non avrebbe stipulato. Si parla
in tal caso di dolo vizio (c.d. causam dans).
Il dolo vizio si distingue rispetto al dolo incidente (c.d. incidens), quale raggiro che non è
determinante del consenso ma incide sul contenuto del contratto (il contraente avrebbe
egualmente concluso il contratto ma a condizioni diverse). Il dolo incidente non dà luogo
all'annullamento del contratto ma solo al risarcimento del danno.
Il dolo può trarre in inganno anche sui motivi del contratto.
Il dolo posto in essere da un terzo è causa di annullabilità del contratto quando esso era noto al
contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 14392 c.c.).
Il dolo costituisce comunque un illecito in quanto lesivo della libertà negoziale.

15.- Tradizionalmente è esclusa l'annullabilità del contratto in presenza di dolo lecito,


comunemente chiamato dolus bonus, ossia della millantata esaltazione di un bene o di un
servizio. La irrilevanza del dolus bonus può giustificarsi in ciò, che la normale inidoneità di tale
pratica a trarre in inganno il cliente vale a far presumere che questi in concreto non sia stato
tratto in inganno.
L’esaltazione millantata dei beni e servizi dell'impresa è tollerata anche nella pubblicità
commerciale. Il limite è tuttavia superato quando si attribuiscono alla cosa o al servizio
specifiche qualità o risultati non rispondenti al vero. La pubblicità deve allora considerarsi
menzognera, e fonte di responsabilità extracontrattuale.

16. - L'annullamento del contratto è riservato all'iniziativa di parte: l'annullabilità non può
pertanto essere rilevata d'ufficio. È piuttosto onere della parte legittimata proporre la relativa
azione e, se convenuta in giudizio, far valere l' annullabilità del contratto.
Legittimata attiva all' azione di annullamento è la parte nel cui interesse è sancita l'invalidità del
contratto (art. 1441' c.c.), e cioè la parte che ha contrattato in stato di incapacità o il cui consenso

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è stato viziato da errore, dolo o violenza. Nei casi di incapacità legale il contratto può essere
impugnato dal rappresentante legale.
L'azione di annullamento è soggetta alla prescrizione quinquennale (art. 1442 1 c.c.).
Nei casi di vizi del consenso la prescrizione decorre dal momento in cui l'errore o il dolo sono
stati scoperti ovvero è cessata la violenza; nei casi di incapacità legale dal momento in cui la
parte incapace è divenuta maggiorenne ovvero è stata revocata l'interdizione o l'inabilitazione
(art. 14422 c.c.).
Al di fuori di questi casi la prescrizione decorre dal giorno della conclusione del contratto (art.
14423 c.c.). Si ha riguardo, cioè, al momento del suo perfezionamento e non della sua efficacia.
Anche dopo il decorso del termine di prescrizione l'annullabilità può essere fatta valere dalla
parte convenuta per l'esecuzione del contratto (art. 14424 c.c.). Ciò significa che la parte può
sempre far valere l'invalidità del contratto in via di eccezione, quando la controparte esercita nei
suoi confronti un diritto derivante dal contratto invalido.
L'annullamento del contratto ha effetto retroattivo e comporta In ogni caso l'obbligo di restituire
le prestazioni già eseguite secondo le regole dell'indebito oggettivo (art. 2033 s. c.c.).
L'annullamento del contratto non pregiudica i diritti dei terzi acquirenti di buona fede a titolo
oneroso salvo che l'annullamento dipenda da incapacità legale (art. 1445 c.c.).

17. - Il contratto annullabile può essere convalidato. La convalida è il negozio unilaterale


mediante il quale la parte legittimata all' azione di annullamento conferma il contratto
invalido. A seguito della convalida il contratto non è più annullabile da parte del convalidante.
La convalida può essere espressa o tacita. La convalida è espressa quando la parte manifesta la
volontà di confermare il contratto annullabile mediante un' apposita dichiarazione. La
dichiarazione deve contenere la specifica menzione del contratto e della causa d'invalidità (art.
14441 c.c.).
La convalida non ha effetto se persiste il vizio del consenso o lo stato d'incapacità.
Secondo la formula normativa il convalidante dev'essere in condizione di concludere
validamente il contratto (art. 14443 c.c.). Occorre allora che il convalidante abbia scoperto
l'errore o il dolo o che sia cessata la violenza; che abbia raggiunto la maggiore età o che sia stata
revocata la sentenza d'interdizione o inabilitazione.
Altrimenti la convalida è nulla.
La convalida è tacita quando la parte che è a conoscenza della causa di annullabilità dà
volontaria esecuzione al contratto (art. 14442 c.c.).
Anche la convalida tacita esige che il convalidante sia in condizione di stipulare validamente il
contratto. Essa è altrimenti senza effetto.

18. - La parte non in errore ha il potere di offrire di eseguire il contratto in modo conforme al
contenuto e alle modalità del contratto che la parte in errore intendeva concludere (art. 1432
c.c.). La rettifica estingue il diritto della controparte all' annullamento del contratto.
La facoltà di rettifica può essere esercitata senza limiti di tempo fino a quando, la controparte
possa far valere l'invalidità del contratto.

19. - La rescindibilità è una forma d'invalidità del contratto a tutela di chi contrae a condizioni
inique per il suo stato di bisogno o di pericolo.
Il contratto rescindibile è suscettibile di rimozione giudiziale su domanda della parte
danneggiata.
Lo stato di bisogno caratterizza la generale azione di rescissione, che richiede anche
l'approfittamento della controparte e la lesione oltre la metà, cioè una sproporzione tra
prestazione e controprestazione tale che il valore dell'una sia inferiore alla metà del valore
dell'altra (art. 1448 c.c.).
L'ipotesi del contratto concluso in stato di pericolo è caratterizzata da ciò, che la parte stipula il

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contratto per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un
danno grave alla persona (art. 1447 c.c.).
Qui non è richiesto il presupposto di una determinata lesione, essendo sufficiente, ai fini della
rescissione, che la necessità di evitare il pericolo abbia spinto il contraente a stipulare a
condizioni inique.
La rescindibilità è una forma d'invalidità analoga all'annullabilità, pur se caratterizzata da una
propria disciplina (che prevede la riduzione ad equità, un più breve termine di prescrizione, la
non convalidabilità del contratto, ecc.). Come il contratto annullabile quello rescindibile è
provvisoriamente efficace fin quando non sia esercitata l’azione di rescissione.
Il rimedio della rescissione non è applicabile ai contratti aleatori (art. 1448 4 c.c.). Questa
preclusione si spiega in base al rilievo che nei contratti aleatori la sproporzione tra le prestazioni
non ha significato di lesione perché essa rientra nel rischio connesso al contratto stipulato. La
parte non può quindi dolersi della sproporzione tra dare e avere se essa è il risultato sfavorevole
dell' alea assunta.

20. - Legittimato attivo all' azione di rescissione è il contraente che ha stipulato in stato di
pericolo (art. 14471 c.c.) o in stato di bisogno (art. 14481 c.c.).
L'azione di rescissione si prescrive in un anno a far data dalla stipulazione del contratto (art.
14491 c.c.).
Oltre che per l'eccezionale brevità del termine di prescrizione, il rimedio della rescissione si
distingue rispetto a quello dell' annullamento per il fatto che, decorso tale termine, esso non può
più essere fatto valere neppure in via di eccezione (art. 14492 c.c.).
La stipulazione del contratto rescindibile può integrare gli estremi del reato, e soprattutto del
reato di usura. Quando. ricorrono gli estremi del reato il termine di prescrizione dell' azione di
rescissione coincide col più lungo termine di prescrizione del reato (art. 14491 c.c.). Al riguardo è
fatto rinvio alla regola valevole in generale per l'azione di risarcimento del danno derivante da
reato (art. 29473 c.c.). In applicazione di tale regola quando si verifica il passaggio in giudicato
della sentenza penale o l'estinzione del reato per causa diversa dalla prescrizione, torna ad
applicarsi il termine annuale di prescrizione a far data dal verificarsi di tali fatti.
In quanto la rescissione priva di efficacia il contratto, le prestazioni già eseguite devono essere
restituite. Come per l'annullamento del contratto, al riguardo trovano applicazione le regole
dell'indebito oggettivo.
Il contratto rescindibile non ammette convalida (art. 1451 c.c.). La convalida espressa è pertanto
nulla.
La parte destinataria dell'azione di rescissione ha il potere di offrire una modifica del contratto
che sia sufficiente a ricondurlo ad equità. L'esercizio di questo potere estingue il diritto del
contraente leso alla rescissione del contratto (art. 1450 c.c.).
La riduzione ad equità costituisce un potere della parte destinataria dell' azione di rescissione.
La determinazione della modifica del contratto può essere rimessa al giudice.
Anche in questo caso non è il giudice che evita la rescissione, ma la parte che ha esercitato il
potere di rettifica.

22.- La simulazione è il fenomeno dell'apparenza contrattuale creata intenzionalmente. Si ha


simulazione, precisamente, quando le parti stipulano un contratto con l'intesa che esso non
corrisponda alla realtà del loro rapporto.
La simulazione si distingue in assoluta e relativa. Nella simulazione assoluta le parti fingono di
stipulare un contratto mentre in realtà non intendono costituire alcun rapporto contrattuale;
nella simulazione relativa le parti fanno apparire un contratto che è diverso da quello concluso
(art. 14142 c.c.). La simulazione relativa può cadere sul contenuto del contratto oppure sui
soggetti (interposizione fittizia).
Elementi caratterizzanti della simulazione sono l'apparenza contrattuale e l'accordo simulatorio,

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cioè l'intesa sul significato in tutto o in parte apparente del contratto.
I principi fondamentali ai quali è improntata la disciplina della simulazione possono così
assumersi.
l) Ciò che è simulato non ha effetto tra le parti. Tra le parti ha effetto la situazione realmente
voluta (salvi i limiti della prova della simulazione).
2) I terzi pregiudicati dal contratto simulato possono fare valere la situazione reale.
3) I terzi che hanno confidato in buona fede nel contratto simulato possono fare valere la
situazione apparente.
Regole puntuali sono poi dettate per regolare il conflitto tra i terzi che hanno confidato nella
serietà del contratto e terzi pregiudicati dalla simulazione.
La simulazione può avere ad oggetto anche i negozi unilaterali se e in quanto sussista l'accordo
simulatorio tra l'autore del negozio e il destinatario dell'atto (art. 1414 3 c.c.). Destinatario del
negozio è colui nella cui sfera si producono gli effetti dell' atto. Per destinatario si può anche
intendere colui al quale l'atto è formalmente indirizzato.

23. - Il problema della rilevanza esterna della simulazione concerne distintamente le seguenti
fasce di terzi: a) quelli che sono pregiudicati dal contratto simulato; b) gli aventi causa dal
simulato acquirente; c) i creditori. In linea di massima la tutela dei terzi prevale su quella delle
parti, mentre il conflitto tra le diverse categorie di terzi trova vari criteri di soluzione.
Con riguardo ai terzi pregiudicati dal contratto simulato vale la seguente regola: quando la
simulazione pregiudica i diritti dei terzi, questi possono dimostrare che il contratto è simulato e
fare valere la situazione reale (art. 14152 c.c.).
Terzi pregiudicati dal contratto simulato sono gli aventi causa dal simulato alienante e in genere
tutti coloro che in base alla situazione reale vantano un diritto che risulta escluso, inopponibile o
ridotto in base all'atto simulato.
La simulazione, per converso, non può essere opposta ai terzi che hanno acquistato in buona
fede diritti dal titolare apparente (art. 1415 1 c.c.). La simulazione pone uno specifico problema di
rilevanza anche nei confronti dei creditori delle parti. Occorre al riguardo distinguere fra
creditori del simulato alienante e creditori del simulato acquirente.
I creditori del simulato alienante conservano nei confronti del debitore la loro garanzia
patrimoniale sul bene apparentemente alienato. Essi possono agire pertanto per fare accertare
che l'alienazione stipulata dal debitore era simulata. Non possono per altro far valere la garanzia
patrimoniale in pregiudizio dei terzi acquirenti di buona fede (art. 1415 1 c.c.).
I creditori del simulato acquirente possono fare valere la loro garanzia patrimoniale sul bene che
risulta acquisito al patrimonio del debitore in base al contratto simulato. Precisamente, la
simulazione non può essere opposta ai creditori del simulato acquirente che in buona fede hanno
già compiuto atti di esecuzione sul suo patrimonio (art. 1416 1 c.c.).
Per quanto attiene poi al conflitto tra le due categorie di creditori, i creditori del simulato
alienante sono preferiti ai creditori del simulato acquirente se e in quanto il credito dei primi sia
sorto in un tempo anteriore alla stipulazione del contratto simulato.

24. - L'azione di simulazione è un'azione di accertamento. Essa è infatti normalmente diretta a


fare accertare giudizialmente l'inefficacia totale parziale del contratto e il reale rapporto
intercorrente tra le parti.
La legittimazione ad agire spetta alle parti e ai terzi interessati, cioè al terzi attualmente o
potenzialmente pregiudicati dalla situazione apparente.
La materia della prova è regolata diversamente secondo che siano terzi a far valere la
simulazione oppure le parti (art. 1417 c.c.). l terzi pregiudicati dalla simulazione possono dare la
prova di essa con qualsiasi mezzo, anche mediante testimoni e mediante presunzioni.
Le parti, invece, hanno l'onere di provare la simulazione mediante la controscrittura, essendo
loro preclusa la prova per testi e per presunzioni salvo che si tratti di far valere la illiceità del

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contratto dissimulato e salve le deroghe previste in generale al divieto della prova testimoniale
(art. 2724 c.c.).
L'azione di simulazione è imprescrittibile avendo natura di accertamento.
La giurisprudenza è però ferma nel distinguere tra azione di simulazione assoluta,
imprescrittibile, e azione di simulazione relativa, assoggettata alla prescrizione decennale.

MODULO XLVI

L’obbligazione

1. Nozione di obbligazione
2. Fonti dell’obbligazione
3. Obbligazioni della pubblica Amministrazione
4. I soggetti
5. La promessa al pubblico
6. La prestazione
7. Requisiti della prestazione
8. Criteri legali di determinazione della prestazione. La buona fede
9. La diligenza
10. I singoli aspetti della diligenza
11. Obbligazioni di dare, fare, non fare
12. Obbligazioni di mezzi e di risultato
13. La promessa del fatto del terzo
14. Obbligazioni alternative
15. Obbligazioni facoltative
16. Il termine dell' obbligazione
17. Il luogo delle prestazione
18. L’obbligazione naturale

1. - L'obbligazione è lo specifico dovere giuridico in forza del quale un soggetto, detto debitore, è
tenuto ad una determinata prestazione patrimoniale per soddisfare l'interesse di un altro
soggetto, detto creditore.
Oltre a designare la posizione debitoria il termine obbligazione indica il rapporto che intercorre
tra debitore e creditore. Questo rapporto prende comunemente il nome di rapporto obbligatorio.
L'obbligazione deve essere distinta rispetto all'onere. L'onere è un comportamento necessitato
del soggetto per il soddisfacimento di un interesse proprio. L'onere, precisamente, è un requisito
necessario per il conseguimento di un risultato favorevole. Se pertanto l'onerato non osserva il
comportamento prescritto il risultato non può essere conseguito a prescindere da ogni
valutazione di imputabilità o meno dell'inosservanza dell'onere: in ogni caso viene a mancare il
presupposto necessario per la produzione del risultato. Se, ad es., il soggetto vuole evitare il
maturarsi della prescrizione ha l'onere di compiere uno degli atti interruttivi di essa (art. 2943
c.c.).
L'obbligazione è invece imposta al soggetto per il soddisfacimento di un interesse altrui
giuridicamente tutelato. L'inadempimento comporta quindi una situazione giuridica che esige la

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riparazione dell'interesse leso.
L'obbligazione esprime una figura giuridica unitaria alla quale il nostro codice dedica una
disciplina generale (art. 1173 s. c.c.).
Alla disciplina dell' obbligazi6ne fa seguito la disciplina dei contratti, dei fatti illeciti e di alcune
tipiche fattispecie legali di fonti.

2. – Fonti dell’obbligazione sono il contratto, l’atto illecito e qualsiasi altro atto o fatto idoneo a
produrla in conformità dell’ordinamento giuridico.
Anche se derivante dal contratto il rapporto obbligatorio non deve essere confuso col rapporto
contrattuale. Rapporto obbligatorio e rapporto contrattuale esprimono nozioni distinte in
quanto l'obbligazione indica in generale il vincolo per cui una prestazione è dovuta da un
soggetto ad un altro mentre il rapporto contrattuale indica il complesso unitario delle posizioni
scaturenti dal contratto.
Oltre che di effetti obbligatori il contratto può inoltre essere fonte di altri effetti: effetti reali,
effetti estintivi, soggezioni, ecc.
La distinzione tra il rapporto contrattuale e le varie posizioni di debito e credito si coglie
chiaramente, ad es., in tema di cessione. Si ha infatti cessione del contratto quanto la parte cede
la titolarità del rapporto contrattuale. Deve invece parlarsi di cessione del credito se la parte cede
la singola pretesa creditoria avente titolo nel contratto.

3. - Le obbligazioni della pubblica Amministrazione sono regolate di massima dalla disciplina


generale di diritto comune. La preminenza pubblica dell'Amministrazione, titolare di poteri
autoritari per l'esercizio delle sue funzioni, non altera infatti la struttura del rapporto
obbligatorio in quanto le correlative posizioni di debito e credito si pongono su un piano di
formale parità giuridica.
L'applicazione di massima della disciplina di diritto comune può essere derogata dal titolo o
dalla legge. Si tratta per altro generalmente di deroghe giustificate dalle esigenze di struttura e di
funzionamento dell' Amministrazione, che non alterano la sostanza del rapporto, come, ad es., le
disposizioni sul procedimento di pagamento delle obbligazione pecuniarie dello Stato, sull'onere
probatorio posto a carico degli eredi del creditore, sul tasso d'interesse nelle obbligazioni di
rimborso tributario, ecc.

4. - I soggetti del rapporto obbligatorio (debitore e creditore) devono essere determinati o


determinabili.
Questo principio di determinatezza dei soggetti del rapporto obbligatorio segna anzitutto la
distinzione tra obbligazioni da una parte, e doveri generici dall'altra. I doveri generici sussistono
nei confronti della generalità dei consociati regolando la vita di relazione. L'obbligazione impone
invece un dovere specifico nei confronti del soggetto che è portatore del particolare interesse da
soddisfare. Il creditore, a sua volta, è titolare della pretesa all'adempimento nei confronti
esclusivi dell'obbligato. Il diritto di credito è, precisamente, un diritto relativo.
I soggetti del rapporto obbligatorio sono determinabili quando è stabilito dal titolo o dalla legge
il modo per la loro determinazione.
Tradizionali ipotesi di obbligazioni a soggetto determinabile sono quelle del legato obbligatorio
in favore di persona da scegliersi da parte dell'onerato o di un terzo (art. 631 2 c.c.), della
donazione a favore di persona da scegliersi da parte di un terzo (art. 778 2 c.c.) e della promessa al
pubblico.

5. - La promessa al pubblico è il negozio mediante il quale un soggetto s'impegna


pubblicamente ad eseguire una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata
situazione o compia una determinata azione (art. 19891 c.c.). La promessa è vincolante dal
momento stesso in cui essa è resa pubblica, e può essere revocata solo per giusta causa, e

181
comunque non dopo che la situazione si sia verificata o l'azione sia stata compiuta (art. 1990
c.c.).
La promessa al pubblico è un negozio unilaterale. Essa non va confusa con l'offerta al pubblico,
la quale è una proposta contrattuale e dà luogo alla formazione di un contratto a seguito
dell'accettazione altrui. La promessa al pubblico è invece fonte diretta dell'obbligazione del
promittente verso il beneficiario.

6. - Oggetto o contenuto del rapporto obbligatorio è la prestazione, ossia ciò che è dovuto dal
debitore al creditore.
La prestazione consiste nella realizzazione di una data finalità materiale o giuridica.
Elemento funzionale del rapporto obbligatorio è l'interesse del creditore.
L'interesse creditorio non deve necessariamente essere un interesse economico. Secondo il
codice la prestazione deve avere carattere patrimoniale e deve corrispondere ad un interesse,
anche non patrimoniale, del creditore (art. 1174 c.c.). Da questa norma si desume pertanto che
l'obbligazione può essere costituita per soddisfare i più vari interessi ideali, come interessi
morali, artistici, religiosi, ecc.

7. – Requisiti legali della prestazione sono la patrimonialità, la possibilità, la liceità e la


determinatezza o determinabilità.
La patrimonialità è un carattere specifico dell'obbligazione. Essa, precisamente vale a
distinguere l'obbligazione rispetto agli obblighi giuridici di contenuto non economico.
Gli altri requisiti sono invece condizioni di esistenza del rapporto obbligatorio.
Precisamente, se la prestazione è inizialmente impossibile, illecita o indeterminabile,
l'obbligazione non sorge; se la prestazione diviene successivamente impossibile, illecita o
indeterminabile, essa si estingue.

8. - Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175
c.c.). La correttezza o buona fede in senso oggettivo è un fondamentale principio di solidarietà
che il codice sancisce nella disciplina del contratto e, più in generale, nella disciplina
dell'obbligazione.
La buona fede sancita a carico dei soggetti del rapporto obbligatorio si specifica nell'obbligo della
salvaguardia. Precisamente, nel rapporto obbligatorio ciascun soggetto ha l'obbligo di
salvaguardare l'utilità dell'altro nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio.
La buona fede incide sulla posizione del creditore vietandogli di abusare del suo diritto e
obbligandolo ad attivarsi nell'interesse del debitore al .fine di evitare o contenere gli imprevisti
aggravi della prestazione o le conseguenze dell'inadempimento.
La buona fede incide sulla posizione del debitore, il quale non è semplicemente tenuto ad
eseguire la prestazione prevista nel titolo ma deve anche operare al fine di realizzare o di
preservare quegli interessi del creditore che sono connessi alla prestazione ma non entrano nel
risultato dovuto.
La buona fede oggettiva costituisce dunque un criterio generale di determinazione della
prestazione in quanto amplia la sfera degli interessi che il debitore deve perseguire ma integra la
sfera del comportamento dovuto sul piano di una doverosità attenuata, senza superare i limiti di
un apprezzabile sacrificio.

9. - Nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di


famiglia (art. 1176 c.c.). In generale la diligenza è l'impiego delle energie e dei mezzi idonei alla
realizzazione di un determinato fine. La diligenza dovuta dal debitore è l'impiego normalmente
adeguato delle energie e dei mezzi utili al soddisfacimento dell'interesse del creditore.
La diligenza dovuta dal debitore si pone come criterio fondamentale di determinazione della
prestazione obbligatoria e, insieme, come criterio di responsabilità. Come criterio di

182
responsabilità la diligenza indica lo sforzo che il debitore deve impiegare per evitare
l'inadempimento o l'inesattezza dell'adempimento. Come criterio di determinazione della
prestazione la diligenza indica il modello di precisione e di abilità tecnica cui il comportamento
dovuto deve conformarsi.
Il debitore è tenuto alla diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176 c.c.).
Questa tradizionale formula esprime la nozione di diligenza media, ossia della diligenza buona
ma non eccezionale. La diligenza del buon padre di famiglia è improntata al canone della
normalità, volendo significare in definitiva diligenza normalmente adeguata al fine.
Nell'adempimento delle obbligazioni professionali la diligenza va valutata con riguardo alla
natura dell'attività esercitata (art. 11762 c.c.). Questo riferimento non implica un diverso
significato della diligenza. La diligenza professionale è pur sempre diligenza media, che esige la
perizia normale della categoria professionale cui il debitore appartiene o dovrebbe appartenere
nell'assumere l'obbligazione.
La regola della diligenza media può essere variamente derogata dalla legge o dal titolo negoziale.
Il debitore può quindi essere tenuto ad un grado maggiore o minore di diligenza, ossia ad una
diligenza massima o minima. Al diverso grado della diligenza corrisponde una diversa misura di
responsabilità, particolarmente nel senso che l'obbligo della diligenza massima rende
responsabile il debitore anche per colpa lieve mentre l'obbligo della diligenza minima lo rende
responsabile solo per colpa grave.

10. - Singoli aspetti della diligenza sono la cura, la cautela, la perizia e la legalità.
Questi aspetti concorrono, in varia misura secondo la natura della prestazione, a integrare lo
sforzo diligente che il debitore è tenuto ad applicare per soddisfare l'interesse del creditore.
La cura indica l'attenzione volta al soddisfacimento dell'interesse creditorio. Sotto questo
aspetto la diligenza esige che il debitore prepari tempestivamente l'adempimento, prenda le
iniziative necessarie, controlli le proprie capacità e i propri mezzi, segua l'esecuzione della
prestazione.
Altro aspetto della diligenza è la cautela, ossia l'osservanza delle misure di cautela idonee ad
evitare che sia impedito il soddisfacimento dell'interesse che l'obbligazione è diretta a soddisfare
e che siano pregiudicati altri interessi del creditore giuridicamente tutelati. Ad es., la consegna e
il montaggio di una macchina nei locali del creditore devono essere eseguiti, con la prudenza
necessaria ad evitare danni alla macchina e ad evitare anche danni ai locali e agli altri beni del
creditore.
Un ulteriore aspetto della diligenza è costituito dalla perizia, ossia l'impiego delle adeguate
nozioni e strumenti tecnici.
Il debitore è tenuto di regola ad una normale perizia, commisurata al modello del buon
professionista, cioè ad una misura obiettiva che prescinde dalle concrete capacità del soggetto.
Deve escludersi, in particolare, che il debitore privo delle necessarie cognizioni tecniche sia
esentato dall'adempiere l'obbligazione con la perizia adeguata alla natura dell'attività esercitata.
Altro aspetto della diligenza è costituito dalla legalità, intesa come l'osservanza delle norme
giuridiche rilevanti al fine del soddisfacimento dell'interesse del creditore e al rispetto della sua
sfera giuridica.
L'osservanza della legalità si rende necessaria non solo nello svolgimento di attività giuridiche:
(es.: esecuzione di mandato) ma anche nello svolgimento di attività materiali assoggettate in
tutto o in parte a disciplina giuridica.

11. - Una classificazione tradizionale divide le obbligazioni in obbligazioni di dare, fare, non fare.
Obbligazioni di dare sono le obbligazioni aventi a contenuto il trasferimento di un diritto o la
consegna di un bene.
Le obbligazioni di dare si distinguono in specifiche e generiche. Le obbligazioni specifiche hanno
ad oggetto beni specificati nella loro identità mentre le obbligazioni generiche hanno ad oggetto

183
beni designati secondo l'appartenenza ad un genere, ossia secondo l'appartenenza ad una
categoria di beni.
In senso lato si definiscono obbligazioni di fare tutte le obbligazioni aventi ad oggetto un'attività
materiale o giuridica che non consista in un dare.
L'obbligazione di non fare è l'obbligazione negativa che ha ad oggetto un comportamento
omissivo del debitore, che può consistere in un non fare o anche in un non dare.

12. - Obbligazioni di mezzi sono le obbligazioni in cui il debitore è tenuto a svolgere un'attività a
prescindere dal conseguimento di una determinata finalità; obbligazioni di risultato sono invece
le obbligazioni in cui il debitore è tenuto a realizzare una determinata finalità a prescindere da
una specifica attività strumentale.
Tipica obbligazione di mezzi è, ad es., quella del medico, il quale è obbligato a prestare la propria
opera ma non a guarire il paziente, e, in genere, quella del professionista intellettuale.
Nelle obbligazioni di risultato si ha riguardo ad un dato effetto materiale o giuridico, essendo
lasciata al debitore la scelta discrezionale dei mezzi e dei modi per il suo raggiungimento. Tra le
obbligazioni di risultato possono annoverarsi, ad es., le obbligazioni pecuniarie.
La differenza tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato è la differenza tra due diversi
contenuti della prestazione dovuta. Precisamente, nelle prime la prestazione dovuta prescinde da
un particolare esito positivo dell'attività del debitore, e il debitore adempie quindi esattamente
l'obbligazione se svolge l'attività prevista nel modo dovuto.
Nelle seconde ciò che è dovuto è il risultato, e per adempiere esattamente l'obbligazione il
debitore deve conseguire tale risultato. Se il risultato non si realizza l'obbligazione è quindi
inadempiuta pur se il debitore abbia tenuto un comportamento diligente. Ciò vuol dire, ancora,
che la prova del comportamento diligente non è prova dell'adempimento.
La distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato non rileva ai fini
dell'applicazione della disciplina generale delle obbligazioni e della responsabilità contrattuale
ma ai fini della identificazione della prestazione dovuta.

13. - Tra le obbligazioni di risultato possono inquadrarsi le obbligazioni del fatto altrui.
Obbligazioni del fatto altrui sono le obbligazioni in cui il debitore è obbligato a che un terzo tenga
un certo comportamento positivo o negativo, stipulando o non stipulando un negozio giuridico,
assumendo un'obbligazione, rinunziando ad un diritto, astenendosi da un acquisto, eseguendo
un'opera muraria nel proprio fondo, ecc.
Chi promette l'obbligazione o il fatto di un terzo è tenuto a indennizzare l'altro contraente se il
terzo rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto promesso (art. 1381 c.c.).

14. - L'obbligazione alternativa è l'obbligazione in cui sono dovute due o più prestazioni ma un
solo adempimento (art. 1285 c.c.). Ad es.: il debitore si obbliga a concedere ipoteca al creditore o
a garantirlo mediante fideiussione bancaria.
Gli elementi che caratterizzano l'obbligazione alternativa sono a) la pluralità dell' oggetto e b)
l'unicità dell' adempimento.

a) La pluralità dell'oggetto è data da ciò, che tutte le prestazioni sono dovute fin dalla
costituzione del rapporto obbligatorio e fino al momento della concentrazione, cioè fino al
momento in cui sia esercitato il potere di scelta dell'una o dell' altra.
L'obbligazione alternativa si distingue quindi rispetto a quella facoltativa, in cui è dovuta una
prestazione ma il debitore ha la facoltà di liberarsi eseguendone una diversa.

b) Unicità dell' adempimento, vuol dire che il debitore è tenuto ad eseguire una sola delle
prestazioni dovute. Il debitore, precisamente, si libera eseguendo la prestazione prescelta da lui
stesso ovvero dal creditore o da un terzo secondo la previsione del titolo.

184
Il potere di scelta della prestazione da eseguire spetta al debitore se non risulta diversamente dal
titolo (art. 12861 c.c.).
La parte che non si avvale del potere di scelta decade da tale potere, il quale passa all’altra parte.
Con riguardo all'impossibilità sopravvenuta di una delle prestazioni occorre distinguere secondo
che tale impossibilità sia imputabile o meno ad una delle parti.
L'impossibilità sopravvenuta di una delle prestazioni non imputabile alle parti converte
senz’altro l’obbligazione alternativa in obbligazione semplice, concentrando il suo oggetto nella
prestazione possibile (art. 1288 c.c.).
Se l’impossibilità è sopravvenuta per causa imputabile ad una delle parti bisogna distinguere
secondo che la scelta spetti a) al debitore o b) al creditore.
a) Nel primo caso il debitore è liberato se una delle due prestazioni diviene impossibile per
causa a lui imputabile; se invece diviene impossibile per causa imputabile al creditore, il
debitore è liberato salvo che scelga di eseguire la prestazione possibile e chiedere il risarcimento
del danno b) Se la scelta spetta al creditore e la prestazione diviene impossibile per causa sua, il
debitore è liberato; salvo che il creditore decida di pretendere l’esecuzione della prestazione
possibile risarcendo il danno al debitore; se la prestazione diviene impossibile per causa
imputabile al debitore il creditore può esigere l’adempimento della prestazione possibile oppure
pretendere il risarcimento del danno per il mancato conseguimento della prestazione divenuta
impossibile (art. 1289 c.c.).

15. - L'obbligazione facoltativa (o con facoltà alternativa) è l'obbligazione in cui è dovuta una
prestazione ma il debitore ha la facoltà di liberarsi eseguendone un'altra.
Un esempio di obbligazione facoltativa è riscontrabile nell' ipotesi di legato di cosa altrui. Se il
legato è valido, l' onerato è obbligato a fare avere la proprietà della cosa al legatario ma è in sua
facoltà pagarne a questo il giusto prezzo (art. 6511 c.c.).
L'obbligazione facoltativa si considera un'obbligazione semplice essendo dovuta una sola
prestazione. Ne consegue che se tale prestazione diviene impossibile, l'obbligazione si estingue
senza che rilevi la possibilità di esecuzione della prestazione rimessa alla facoltà del debitore.

16. - Il termine dell'obbligazione è il tempo dell'adempimento, cioè il tempo nel quale o durante
il quale la prestazione dev'essere eseguita.
Il tempo può essere determinato con riferimento al calendario o ad un evento certo nel suo
accadimento. Il termine può essere riferito anche ad un evento di cui è incerto il momento del
suo accadimento (es.: il momento della morte). L'incertezza sul quando non rende incerta
l'obbligazione ma solo il momento della sua esecuzione.
Il termine si presume a favore del debitore (art. 1184 c.c.). Il termine a favore del debitore rende
la prestazione inesigibile fino al momento della scadenza.
Il termine può essere a favore esclusivo del creditore (art. 1194 c.c.). In tal caso il creditore può
esigere subito l'adempimento. Così, ad es., nel contratto di deposito il termine è a favore del
depositante, il quale ha diritto di riavere a richiesta il bene depositato.
Il tempo dell' adempimento può essere determinato dal titolo, dagli usi, dalla legge o dal giudice
(art. 11831 c.c.). Titolo è il contratto o altro atto costitutivo del rapporto obbligatorio. Esso è la
fonte primaria di determinazione del termine.
Se il termine non è determinato dal titolo si applicano gli usi e le particolari disposizioni
legislative.
In mancanza, si applica il criterio legale della immediata scadenza della prestazione. Se però un
termine è necessario, e non risulta altrimenti determinato o determinabile, esso è fissato dal
giudice.

Il computo del termine si effettua tenendo conto di alcune regole valevoli per la prescrizione,

185
appositamente richiamate (art. 11871 c.c.).
In particolare, il computo si effettua secondo il calendario comune; non si tiene conto del giorno
iniziale; se il termine scade in un giorno festivo, esso è prorogato al giorno seguente non festivo;
se il termine è indicato in mesi o anni, esso scade nel giorno corrispondente al giorno del mese
iniziale (ad es., il 10 aprile il debitore si obbliga di pagare entro due mesi: il termine scadrà il 10
giugno); se nel mese finale manca il giorno corrispondente, il giorno di scadenza è l'ultimo del
mese (art. 2963 c.c.).
Il contratto può derogare a queste regole (art. 11873 c.c.) in quanto la determinazione del termine
è rimessa anzitutto alla volontà delle parti.

17. Il luogo dell' adempimento è quello indicato dal contratto e, più in generale, dal titolo
(testamento, sentenza, ecc. ) (art. 11821 c.c.).
Il luogo può essere poi determinato dagli usi, i quali sono espressamente richiamati dal codice.
Se il luogo dell'adempimento non è indicato dal titolo né è determinato dagli usi trovano
applicazione i criteri determinativi legali.
Il codice prevede quattro criteri generali di determinazione del luogo della prestazione, espressi
nelle seguenti regole: a) l'obbligazione dev'essere adempiuta nel luogo desumibile dalla natura e
dalle circostanze della prestazione; l'obbligazione di consegnare una cosa certa e determinata
dev'essere adempiuta nel luogo in cui la cosa si trovava al tempo in cui è sorta l'obbligazione; c)
l'obbligazione pecuniaria dev'essere adempiuta al domicilio del creditore; d) in tutti gli altri casi
l'obbligazione dev'essere adempiuta al domicilio del debitore.
I pagamenti delle Amministrazioni statali sono disciplinati dalla normativa generale di
contabilità dello Stato, la quale indica come luogo di pagamento quello degli uffici delle tesorerie.

MODULO XLVII

Obbligazioni pecuniarie

l. Nozioni di obbligazione pecuniaria


2. Gli interessi
3. Interessi usurari
4. Anatocismo

l. - Obbligazioni pecuniarie sono le obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro (art.
12241 c.c.).
La specialità delle obbligazioni pecuniarie è data dalla specialità del denaro, che non è di regola
né un bene di consumo né un bene produttivo, non essendo direttamente idoneo a soddisfare un
determinato bisogno né a produrre altri beni. Il denaro è piuttosto un bene caratterizzato dalla
sua autonoma funzione quale mezzo generale di acquisto e di pagamento.
Il denaro è monopolio dello Stato ed ha un corso legale, ossia è mezzo legale di pagamento. Il
denaro avente corso legale in un dato ordinamento giuridico è la valuta.
I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del
pagamento e per il suo valore nominale (art. 12771 c.c.): in questa regola si esprime il principio
nominalistico.
Al principio nominalistico sono assoggettate le comuni obbligazioni pecuniarie, dette di valuta.

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Obbligazioni di valuta sono le obbligazioni pecuniarie aventi ad oggetto un importo nominale
di denaro.
Il principio nominalistico non si applica alle obbligazioni di valore.
Obbligazioni di valore sono le obbligazioni pecuniarie determinabili esclusivamente in ragione
di un dato valore economico (es.: obbligo di risarcimento del danno). Secondo la definizione
corrente in giurisprudenza i debiti di valore avrebbero senz'altro ad oggetto un "valore"
economico.

2. - Gli interessi sono le prestazioni pecuniarie percentuali e periodiche dovute da chi utilizza un
capitale altrui o ne ritarda il pagamento.
Caratteri degli interessi sono la pecuniarietà, la percentualità, la periodicità e l'accessorietà. Gli
interessi si distinguono anzitutto secondo la loro fonte. Si qualificano legali gli interessi che
hanno fonte nella legge, convenzionali gli interessi che hanno titolo nel contratto.
Gli interessi si distinguono poi secondo la loro causa. Al riguardo una distinzione di fondo va
fatta tra interessi compensativi e interessi moratori. Moratori sono gli interessi che costituiscono
una liquidazione forfettaria minima del danno per il ritardo nel pagamento dei debiti di denaro
(art. 1224 c.c.).
Compensativi sono in generale gli interessi aventi funzione remunerativa, cioè gli interessi che
rappresentano un compenso percentuale periodico dovuto in cambio del vantaggio della
disponibilità di una somma di denaro spettante al creditore.
Nell'ambito degli interessi che hanno funzione remunerativa possono distinguersi: a) gli
interessi sui capitali concessi a mutuo o comunque in godimento (frutti civili); b) gli interessi
sulle somme liquide ed esigibili (interessi di pieno diritto); c) gli interessi sulle somme dovute a
titolo di prezzo dal compratore che abbia già ricevuto il possesso della cosa produttiva di frutti o
di altri proventi (art. 1499 c.c.); d) gli interessi sulle somme dovute a titolo risarcitorio o
indennitario.
Queste varie ipotesi di interessi sono accomunate in ciò, che esse prescindono dalla mora del
debitore e trovano piuttosto fondamento nel principio della c.d. naturale fecondità del denaro,
ossia nel principio secondo il quale la disponibilità nel tempo del denaro altrui va remunerata
perché essa integra un obiettivo vantaggio economico.
Il principio della naturale fecondità del danaro è espresso in termini generali dalla norma che
sancisce la decorrenza degli interessi su tutte le somme liquide ed esigibili (interessi detti anche
di pieno diritto) (art. 12821 c.c.).
Requisiti degli interessi di pieno diritto sono la liquidità e la esigibilità del credito.
Credito liquido è il credito il cui ammontare è certo o accertabile mediante operazioni di mero
conteggio aritmetico.
Credito esigibile è il credito non soggetto a condizione sospensiva né a termine in favore del
debitore.

3. - Interessi usurari sono in generale gli interessi esorbitanti rispetto al valore di mercato. Per
legge sono senz’altro usurari gli interessi previsti in misura superiore alla soglia massima
periodicamente determinata dal Ministro del tesoro.
Sono inoltre usurari gli interessi che pur non superando tale soglia sono dati o promessi in
misura sproporzionata da chi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria (l. 7
marzo 1996, n. 108).
Sul piano civilistico la clausola degli interessi usurari è nulla e gli interessi non sono dovuti
nemmeno nella misura legale (art. 18152 c.c.).
Il carattere usurario degli interessi va accertato con riguardo esclusivo al momento in cui sono
promessi o convenuti.
L'usura costituisce anche reato (art. 644, 644 bis e ter c.p., nel testo introdotto dalla legge del
1996).

187
4. - Anatocismo è il diritto agli interessi sugli interessi (art. 1283 c.c.). Gli interessi anatocistici
sono legali o convenzionali.
Gli interessi anatocistici legali sono dovuti a seguito di domanda giudiziale. Essi decorrono dal
giorno della domanda sugli interessi che siano scaduti e dovuti da almeno 6 mesi. Per i primi 6
mesi, dunque, non spettano interessi anatocistici.
Gli interessi anatocistici possono poi avere fonte nella convenzione. La convenzione è nulla se
stipulata prima che siano divenuti esigibili gli interessi primari. Per poter produrre interessi
anatocistici, inoltre, gli interessi primari devono essere dovuti da almeno 6 mesi. Ciò vuol dire
che le somme dovute a titolo di interessi sono insuscettibili di produrre interessi anatocistici
prima che sia trascorso un semestre dal momento in cui è sorta l'obbligazione avente ad oggetto
tali somme.
La norma del codice sulla scadenza degli interessi anatocistici fa salvi gli « usi contrari» (art.
1283 c.c.).
Gli usi qui richiamati sono gli usi normativi (tali non sono gli usi bancari).

MODULO XLVIII

L'adempimento e gli altri modi di estinzione dell'obbligazione

l. La legittimazione ad adempiere e a ricevere la prestazione


2. L'adempimento del terzo
3. La legittimazione a ricevere
4. Il pagamento al creditore apparente
5. La quietanza
6. L'imputazione del pagamento. L'imputazione volontaria
7. L'imputazione legale
8. La surrogazione
9. L'offerta non formale di pagamento.
10. La mora del creditore e la liberazione coatti va dell' obbligazione
11. Modi di estinzione dell'obbligazione diversi dal pagamento. La dazione in pagamento
12. La novazione
13. La remissione
14. La compensazione
15. La confusione
16. L'impossibilità sopravvenuta
17. Liquidazioni negoziali

1. - Requisiti soggetti dell'adempimento sono la legittimazione dell' adempiente, detta


legittimazione ad adempiere, e quella del destinatario, detta legittimazione a ricevere.
La legittimazione ad adempiere designa la capacità del soggetto ad eseguire la prestazione; la
legittimazione a ricevere designa la capacità del soggetto ad accettare la prestazione con
effetto liberatorio per il debitore.

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La nozione di legittimazione non va confusa con quella di titolarità del rapporto obbligatorio. La
titolarità del rapporto obbligatorio è la spettanza delle posizioni di debito e di credito. Titolari del
rapporto obbligatorio sono il debitore e il creditore. La legittimazione è invece la capacità di
attuare le posizioni di debito e di credito.
Legittimati ad adempiere sono di regola il debitore e i suoi ausiliari, le persone autorizzate dalla
legge o dal giudice, e in genere tutti i terzi, salvo che il creditore abbia un apprezzabile interesse a
non ricevere la prestazione del terzo.
Il debitore è eccezionalmente privo della legittimazione ad adempiere nell'ipotesi di fallimento: i
pagamenti eseguiti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai
creditori concorsuali (art. 441 l. fall.).
L'incapacità del debitore non esclude invece la sua legittimazione ad adempiere.
Il debitore non può infatti ripetere la prestazione a causa della sua incapacità (art. 1191 c.c.). Ciò
comporta che l'adempimento eseguito dal debitore incapace è liberatorio e non può essere
legittimamente rifiutato dal creditore.
Il debitore incapace può tuttavia risultare pregiudicato da una prestazione eseguita con modalità
o contenuti diversi da quelli previsti, se tale diversità implica a suo carico un detrimento
economico superiore a quello richiesto dal preciso adempimento. In tal caso avrà diritto ad
essere indennizzato per il pregiudizio subito, ma entro i limiti dell' arricchimento conseguito dal
creditore.

2. – Si ha adempimento del terzo quando un soggetto esegue l'obbligazione altrui In nome


proprio al di fuori dell' esercizio di un' autorizzazione negoziale o di un ufficio.
Qualsiasi terzo può di regola adempiere un'obbligazione altrui anche contro la volontà del
creditore, se questi non ha interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione (art.
1180 c.c.).
Accanto all'interesse apprezzabile del creditore a che la prestazione non sia eseguita da persona
diversa dall'obbligato, la legge prevede l'opposizione del debitore manifestata al creditore quale
causa che legittima quest'ultimo a rifiutare la prestazione del terzo (art. 1180 2 c.c.).
L'adempimento del terzo ha per effetto l'estinzione dell'obbligazione del debitore nei confronti
del creditore. All'adempiente non compete il diritto di rimborso se il pagamento integra un atto
di liberalità. In caso contrario l'adempiente potrà far valere il diverso titolo in base al quale ha
eseguito l'obbligazione (mandato senza rappresentanza, gestione di affari altrui, ecc.), e potrà
giovarsi della surrogazione (n. 8) se ne ricorrono i presupposti. In mancanza di un titolo
specifico competerà al terzo l'azione di arricchimento.

3. - La legittimazione a ricevere spetta di regola al creditore ma può competere ad altri soggetti,


anche in via esclusiva. Questi altri legittimati sono, precisamente, il rappresentante, la persona
indicata dal creditore, la persona autorizzata dalla legge o dal giudice (art. 11881 c.c.).
Il creditore può non essere legittimato a ricevere a causa della perdita della disponibilità
giuridica del credito (es.: a seguito di fallimento: art. 44 2 l. fall.) o a causa della propria
incapacità.
Se il creditore è legalmente incapace unico legittimato a ricevere è il rappresentante legale del
creditore (art. 1190 c.c.)
Il pagamento al creditore incapace può liberare il debitore se questi prova che ciò che è stato
pagato è stato rivolto a vantaggio dell'incapace.

4. - Il pagamento fatto al non legittimato è inefficace nei confronti del creditore. Il debitore
rimane quindi obbligato ad eseguire la prestazione.
Il debitore è tuttavia liberato se il creditore ratifica il pagamento o se abbia profittato dell'
adempimento.
Il debitore è liberato anche se esegue il pagamento in buona fede a chi appare legittimato a

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riceverlo (art. 11891 c.c.).
L'effetto liberatorio del pagamento eseguito al non legittimato richiede due presupposti, uno di
carattere soggettivo, la buona fede del debitore; l'altro di carattere oggettivo, l'apparenza della
legittimazione in capo al ricevente.
La buona fede è la credenza del debitore che il ricevente sia il vero creditore o sia comunque
destinatario del pagamento.
L'apparenza di legittimazione del ricevente costituisce il presupposto obiettivo della fattispecie
liberatoria: affinché il debitore sia liberato occorre, precisamente, che il pagamento sia eseguito a
chi appare legittimato a ricevere in base a circostanze univoche, ossia in base a circostanze che
nella valutazione di un soggetto di normale diligenza inducano a ritenere effettivamente
esistente la legittimazione del ricevente.
Effetto del pagamento al creditore apparente è la liberazione del debitore e l'obbligo di chi ha
ricevuto il pagamento di restituirlo al vero creditore secondo la disciplina dell'indebito (art. 11892
c.c.).

5. - La prova del pagamento è di regola un onere a carico del debitore.


Prova documentale tipica è la quietanza. La quietanza è la dichiarazione scritta con la quale il
creditore attesta di avere ricevuto il pagamento in essa indicato.
La validità della quietanza può essere contestata per mancanza di veridicità. Se il debitore non ha
eseguito la prestazione o l' ha eseguita solo parzialmente, il creditore conserva infatti in tutto o in
parte il suo diritto. E' però a suo carico l'onere di provare che la quietanza in tutto o in parte non
risponde a verità.
La quietanza è inoltre nulla se estorta con violenza.
La quietanza può essere rilasciata mediante atto pubblico ossia mediante dichiarazione ricevuta
dal notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirle pubblica fede (art. 2699 c.c.)
ovvero mediante dichiarazione scritta.
A tal fine non è tuttavia essenziale la forma della scrittura privata richiesta per i contratti, ma è
sufficiente che la dichiarazione provenga dal creditore, pur se non firmata dal medesimo.
L'efficacia probatoria della quietanza riguarda esclusivamente la prestazione in essa indicata.
Una presunzione di pagamento ulteriore è legalmente attribuita alla quietanza solo con riguardo
agli interessi. Precisamente, il rilascio della quietanza per il capitale fa presumere il pagamento
degli interessi (art. 11992 c.c.).
Spesso la quietanza si accompagna all'espressa dichiarazione del creditore di ricevere la
prestazione a saldo di quanto dovutogli, ossia ad integrale soddisfacimento di quanto
spettantegli. Questa ulteriore dichiarazione non ha valore probatorio perché non ha ad oggetto
l'accadimento di un fatto. Essa non vale neppure come rinunzia ad eventuali altri crediti o
all'eventuale differenza della prestazione perché un tale significato negoziale e non si desume
con certezza da un atto di contenuto meramente dichiarativo. Affinché si possa parlare di
rinunzia o di transazione occorre piuttosto che la volontà remissiva o transattiva emerga dal
contesto dell'atto e abbia un oggetto sufficientemente determinato.

6. - L'imputazione del pagamento è il riferimento della prestazione al debito da estinguere tra


più debiti di eguale natura del debitore verso il creditore (art. 1193 s. c.c.).
L'imputazione si distingue in volontaria e legale. L'imputazione volontaria si distingue a sua
volta in imputazione per atto del debitore e per atto del creditore.
L'imputazione del pagamento spetta in primo luogo al debitore.
Il debitore non può però imputare il pagamento prima al capitale e poi agli interessi e alle spese
(art. 1194' c.c.). Questa preclusione sancisce un limite diretto al potere d'imputazione del
debitore. Tale limite, precisamente, importa l'inefficacia dell'atto nella parte in cui esso dà la
precedenza al capitale rispetto agli interessi e alle spese.
Se il debitore non esercita il diritto d'imputazione, tale diritto può essere esercitato dal creditore.

190
Il creditore, allora, può dichiarare nella quietanza a quale debito va imputato il pagamento: il
debitore che accetta la quietanza non può poi pretendere un'imputazione diversa, salvo che vi sia
stato dolo o sorpresa da parte del creditore (art. 1195 c.c.).
Il dolo indica il comportamento fraudolento del creditore diretto a trarre in inganno il debitore
(facendogli credere che l'imputazione fatta risponde ai criteri legali, che non può essere
contestata dal debitore, ecc.) mentre la sorpresa consiste in ciò, che il creditore approfitta delle
condizioni personali del debitore per fare senza opposizione un'imputazione a sé favorevole.

7. - In mancanza d'imputazione volontaria trovano applicazione i criteri legali d'imputazione,


ispirati ora a ragioni di favore per il debitore ora a ragioni di favore per il creditore (art. 1193 2
c.c.).
Un primo criterio legale d'imputazione è quello, che ascrive il pagamento agli interessi e alle
spese, poi al capitale (art. 1194 c.c.). Gli altri criteri legali sono i seguenti.
1) Tra un debito scaduto e un debito non scaduto la prestazione è imputata al debito scaduto.
2) Tra più debiti scaduti il pagamento è imputato a quello meno garantito.
3) Tra più debiti egualmente garantiti il pagamento è imputato a quello più oneroso per il
debitore.
4) Tra più debiti egualmente onerosi il pagamento è imputato al più antico, ossia a quello
scaduto da più tempo
5) L'ultimo criterio è quello della ripartizione proporzionale della prestazione tra le varie
obbligazioni.

8. - La surrogazione è il subingresso di un terzo nei diritti del ereditare in conseguenza del


pagamento del debito e col concorso. delle altre condizioni di legge(art. 1201 s. c.c.).
Funzione della surrogazione è quella di assicurare al terzo adempiente o mutuante il recupero di
quanto prestato consentendogli di avvalersi delle stesse azioni, garanzie e privilegi del creditore
soddisfatto.
Si distinguono tre tipi di surrogazione: l) la surrogazione per volontà del creditore: il creditore
surroga il terzo adempiente nei propri diritti verso il debitore (art. 1201 c.c); 2) la surrogazione
per volontà del debitore: il debitore che prende a mutuo la somma al fine di pagare il debito
surroga il mutuante nei diritti del creditore (art. 1202 c.c.); 3) la surrogazione legale: il terzo che
adempie è surrogato di diritto (art. 1203 c.c.).
La surrogazione legale è prevista a vantaggio del terzo adempiente in determinati casi, tra i quali
a) Il terzo adempiente è egli stesso creditore, e paga un creditore che per le sue
garanzie ha diritto di essergli preferito (art. 1203, n. l, c.c.).
b) Il terzo adempiente è compratore di un immobile, e paga i creditori garantiti
da ipoteca gravante sull'immobile acquistato (1203, n. 2, c.c.). La surrogazione ha effetto nei
limiti del prezzo dovuto.
c) Il terzo adempiente paga creditori che aveva interesse di soddisfare in quanto tenuto con altri
o per altri all'adempimento (art. 1203, n. 3, c.c.).
d) Il terzo adempiente è erede con beneficio d'inventario e paga con denaro proprio i debiti
ereditari (art. 1203, n. 4, c.c.).

9. - Il debitore ha un apprezzabile interesse a non subire pregiudizio dal ritardo imputabile al


creditore e a liberarsi dall'obbligazione.
L'interesse del debitore a non subire pregiudizio dal ritardo imputabile al creditore e di liberarsi
dall'obbligazione trova tutela giuridica negli istituti dell'offerta formale e non formale di
pagamento e della liberazione coattiva.
Mediante l'offerta non formale il debitore evita la mora. Il debitore, cioè, non risponde per il
ritardo se il creditore non accetta senza motivo legittimo la prestazione offertagli in forma
semplice o irrituale (art. 1220 c.c.).

191
L'offerta è non formale o irrituale quando non ha i requisiti formali dell'offerta solenne prevista
per la costituzione in mora del creditore.
L'offerta irrituale dev'essere seria ed esatta.
Le obbligazioni pecuniarie presentano un particolare problema di esattezza della prestazione con
riguardo alla offerta eseguita mediante titoli diversi dal denaro. Il problema va risolto
positivamente quando il debitore offre vaglia postali o assegni di conto corrente postale, libretti
postali o bancari, assegni circolari e altri analoghi titoli che documentano in maniera certa un
credito liquido e prontamente esigibile verso lo Stato o verso un istituto di credito. Tali titoli,
assumono infatti nell'economia moderna un significato ed una sicurezza equivalenti a quelli
della moneta.

10. - La mora del creditore è il ritardo dell'adempimento imputabile al creditore, il quale senza
motivo legittimo non accetta o non rende possibile la prestazione offertagli nelle forme di legge
o nelle forme d'uso (art. 1206 c.c.).
La mora comporta principalmente a carico del creditore il rischio dell'impossibilità sopravvenuta
della prestazione e l'obbligo di risarcire al debitore il danno derivante dal ritardo.
Il creditore è costituito in mora a seguito del rifiuto senza motivo legittimo di un'offerta formale.
A costituire in mora il creditore non basta invece un'offerta non formale di pagamento, che ha il
solo effetto di escludere la mora del debitore.
L'offerta formale della prestazione è anzitutto l'offerta eseguita nelle forme di legge. Essa si
distingue in offerta reale e offerta per intimazione (art. 1209 1 c.c.). La prima ha per oggetto la
consegna di denaro o altre cose mobili da farsi al domicilio del creditore; la seconda ha per
oggetto la prestazione di beni mobili da farsi in luogo diverso, la consegna di beni immobili e
tutte le prestazioni di fare (art. 12092, 12161, 1217 c.c.).
L'offerta reale consiste nella diretta presentazione del denaro o degli altri beni fatta da un
pubblico ufficiale, il quale li reca con sé e li mette materialmente a disposizione del creditore.
L'offerta per intimazione consiste nell'invito che un pubblico ufficiale rivolge al creditore di
riceversi il bene in un certo luogo e in un certo tempo (art. 1209 2, 12161 c.c.) ovvero di compiere
gli atti necessari per rendere possibile la prestazione (art. 1217 1 c.c.).
I requisiti di validità dell'offerta fatta nelle forme di legge sono anzitutto i requisiti sostanziali di
esattezza oggettiva e soggettiva della prestazione. Il codice, precisamente, richiede l) che l'offerta
sia fatta al creditore capace o a chi è legittimato a ricevere per lui; 2) che sia fatta da persona
legittimata ad adempiere; 3) che comprenda la totalità della prestazione dovuta e l'importo delle
spese liquide; 4) che sia fatta dopo la scadenza del termine, se questo è a favore del creditore; 5)
che sia fatta dopo l'avverarsi della condizione, se l'obbligazione è sottoposta a condizione
sospensiva; 6) che sia fatta personalmente al creditore o nel suo domicilio (art. 1208, n. 6, c.c.).
A costituire in mora il creditore occorre che l'offerta formale sia poi convalidata dal giudice con
sentenza passata in giudicato (art. 12071 c.c.).
Offerta formale della prestazione è anche l'offerta eseguita nelle forme d'uso cioè con
l'osservanza delle modalità della prassi costante e generalizzata in un determinato luogo o in un
determinato settore di affari. L'offerta nelle forme d'uso è anch'essa un'offerta formale o rituale.
Il creditore può essere costituito in mora sia mediante un'offerta fatta nelle forme legali sia
mediante un'offerta fatta nelle forme d'uso, tranne che si tratti della consegna di bene immobile,
per la quale occorre comunque l'offerta per intimazione notificata nelle forme processuali.
L'offerta nelle forme usuali avente ad oggetto la consegna di cose mobili ha effetto solo dal
giorno del deposito giudizialmente convalidato. A differenza dell'offerta reale o per intimazione il
debitore deve dunque procedere al deposito del bene dovuto se vuole costituire in mora il
creditore.
La costituzione in mora del creditore non libera il debitore dall' obbligazione. Ai fini della
liberazione dall'obbligazione occorre piuttosto il deposito se l'obbligazione ha per oggetto la
consegna di beni mobili o il sequestro se l'obbligazione ha per oggetto la consegna di cose

192
immobili. Il deposito e il sequestro devono essere giudizialmente convalidati. Riguardo alle
semplici obbligazioni di fare, a seguito dell'offerta per intimazione esse si estinguono secondo la
regola dell'impossibilità temporanea della prestazione.

11. - La dazione in pagamento, denominata dal codice prestazione in luogo dell'adempimento,


è la prestazione che il debitore esegue, col consenso del creditore, in sostituzione di quella
dovuta (art. 11971 c.c.).
La sostituzione della prestazione dovuta con altra prestazione implica la volontà negoziale sia del
creditore che del debitore, cioè l'accordo contrattuale di questi soggetti.
Il debitore che esegue una prestazione traslativa in sostituzione della prestazione dovuta è tenuto
verso il creditore alla garanzia della vendita, ossia risponde al pari del venditore per il mancato
realizzarsi dell'alienazione e per i vizi o mancanza di qualità. Il creditore può quindi avvalersi dei
rimedi del compratore. Al creditore è inoltre lasciata l'alternativa di esigere la prestazione
originaria e il risarcimento del danno (art. 11972 c.c.).
La pretesa all'esecuzione della prestazione originaria implica la risoluzione della dazione in
pagamento. La risoluzione non pregiudica tuttavia i diritti altrui, e, in particolare, non fa rivivere
le garanzie prestate dai terzi ed estinte a seguito della dazione in pagamento (art. 11973 c.c.).

12. - La novazione oggettiva è il contratto mediante il quale le parti estinguono l’obbligazione


originaria sostituendo ad essa una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso (art. 1230
c.c.) .
Elemento caratterizzante della novazione è l'intento novativo, ossia la volontà delle parti di
estinguere la precedente obbligazione e di sostituirla con la nuova (1'animus novandi).
Altro elemento caratterizzante della novazione la diversità della nuova obbligazione (1'aliquid
novi). Secondo la definizione normativa, infatti, le parti sostituiscono alla precedente
obbligazione una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso (art. 1230 1 c.c.).
La diversità dell'oggetto attiene alla prestazione mentre la diversità del titolo deve intendersi
come diversità della causa dell'obbligazione. L’obbligazione novanta ha un «titolo diverso»
quando la causa del contratto novativo non è riconducibile a quella del precedente rapporto (es.:
l'obbligo di pagare una somma di denaro per canoni anticipati di locazione si converte in obbligo
di pagare il prezzo dell'immobile).
Modifiche accessorie come l'apposizione o l'eliminazione di un termine non producono
novazione (art. 1231 c.c.).
La novazione non ha carattere satisfattivo in quanto non comporta il soddisfacimento
dell'interesse creditorio originario né di un interesse succedaneo ma la trasformazione del
rapporto obbligatorio in un nuovo rapporto.
L'inesistenza della precedente obbligazione rende la novazione « senza effetto» (art. 1234 1 c.c.).
Questa previsione deve intendersi nel senso che è senz'altro nulla la novazione di
un'obbligazione che deriva da fattispecie inesistente, nulla o annullata o che è già estinta. La
precedente obbligazione non è infatti un mero presupposto del contratto ma elemento essenziale
del suo oggetto, in quanto la novazione ha per oggetto la sostituzione di un'obbligazione con
un'altra.

13. - La remissione è il negozio unilaterale mediante il quale il creditore rinunzia gratuitamente


al diritto di credito.
La remissione rientra tra i modi di estinzione non satisfattivi.
La dichiarazione del creditore di rimettere il debito ha carattere recettizio in quanto per
produrre l'estinzione dell'obbligazione essa deve essere comunicata al debitore. Quest'ultimo può
rifiutare la remissione del debito, ma ha l'onere di comunicare il rifiuto al creditore entro un
congruo termine (art. 1236 c.c.).
Il negozio di remissione ha struttura unilaterale in quanto si perfeziona con la sola volontà del

193
creditore.
La remissione non richiede una forma particolare né occorre che la volontà del creditore sia
manifestata espressamente. In applicazione del principio secondo il quale le rinunzie non si
presumono, occorre per altro che l'intento remissivo sia inequivoco, analogamente a quanto
previsto in tema di novazione.
Il codice esclude espressamente che la rinunzia alle garanzie abbìa il significato di remissione del
debito (art. 1238 c.c.).
La remissione non pregiudica i diritti di usufrutto e di pegno costituiti sul credito.
Precisamente, la remissione estingue il rapporto obbligatorio intercorrente tra il creditore e il
debitore, ma essa è inopponibile ai terzi titolari di diritti di usufrutto e di pegno sul credito. In tal
senso manca una espressa previsione normativa, quale si riscontra in tema di confusione.
L'inopponibilità o inefficacia relativa della remissione discende per altro dal principio di
relatività degli atti di autonomia privata.

14. - La compensazione è in generale l'elisione di due reciproche obbligazioni, fino al limite


della loro concorrenza.
La compensazione rientra tra i modi satisfattivi di estinzione dell'obbligazione diversi
dall'adempimento. Ognuna delle parti realizza infatti il proprio diritto conseguendo il
soddisfacimento di un interesse succedaneo a quello originario, ossia l'interesse ad essere
liberato dal proprio debito.
La regola della compensabilità incontra dei limiti in divieti di legge che tendono ad assicurare un
diretto soddisfacimento dell'interesse creditorio in considerazione della sua speciale rilevanza.
Insuscettibili di compensazione sono, ad es., i crediti impignorabili (art. 1246, n. 3, c.c.), gli
alimenti legali, i crediti assistenziali familiari (assegno di mantenimento del coniuge separato,
l'assegno postmatrimoniale, ecc.).
Il codice prevede anche una incompensabilità volontaria, derivante dalla preventiva rinunzia del
debitore ad opporre in compensazione i propri crediti (art. 1246, n. 4, c.c.).
La compensazione può essere legale, giudiziale e volontaria, secondo che essa operi in forza di
legge, di provvedimento del giudice o per volontà delle parti.
La compensazione legale è la compensazione che ha luogo di diritto quando tra due persone
intercorrono l'una verso l'altra debiti pecuniari od omogenei, certi, liquidi ed esigibili. Tali
debiti si estinguono per le quantità corrispondenti (art. 1241 c.c.). La compensazione legale
estingue i debiti nel momento stesso in cui essi vengono a coesistere, ma il giudice non può
rilevarla d'ufficio (art. 12421 c.c.).
La non rilevabilità d'ufficio della compensazione impone al soggetto che se ne voglia avvalere
l'onere di eccepirla. La compensazione legale rientra pertanto fra le eccezioni «che possono
essere proposte soltanto dalle parti» (art. 112 c.p.c.).
Oltre che dal debitore la compensazione può però essere opposta sia dal fideiussore (1247 1 c.c.)
sia dal terzo datore di pegno o ipoteca (art. 12472 c.c.).
In presenza di più debiti la compensazione ha effetto in applicazione dei criteri legali
d'imputazione del pagamento (art. 1249 c.c.).
L'estinzione dell'obbligazione per compensazione comporta l'estinzione delle garanzie. Dal
momento della coesistenza dei debiti, precisamente, il creditore non può più avvalersi delle
garanzie annesse al suo credito.
Il creditore che paga il proprio debito o, pur potendosi avvalere della compensazione, non può
più giovarsi, in pregiudizio dei terzi, dei privilegi e delle altre garanzie, salvo che abbia pagato il
proprio debito ignorando «per giusti motivi» di essere a sua volta creditore (art. 1251 c.c.). In
tale ipotesi il creditore conserva eccezionalmente le sue garanzie.
La compensazione giudiziale e la compensazione pronunziata dal giudice, su richiesta di parte,
quando il debito della controparte opposto in compensazione è illiquido ma di pronta e facile
liquidazione (art. 12432 c.c.).

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A seguito dell’eccezione di compensazione giudiziale è possibile che il giudice accerti e
liquidi una parte del credito opposto, e dichiari la compensazione per la parte liquidata (art.
12432 c.c.). Così, ad es., se viene opposta in compensazione una pretesa risarcitoria, il giudice
può liquidare subito un importo minimo e pronunziare la compensazione in relazione a tale
importo.
La compensazione volontaria è la compensazione negoziale, ossia la compensazione che ha
titolo nella volontà delle parti a prescindere dai requisiti della compensazione legale o
giudiziale (art. 1252 c.c.).
La compensazione volontaria ha il medesimo fondamento di quella legale, ossia l'economia degli
adempimenti. Mediante la compensazione le parti semplificano i loro rapporti, evitano uno
scambio superfluo di adempimenti e riducono la prestazione dovuta al saldo tra dare e avere.

15. - La confusione è un modo di estinzione dell'obbligazione che ha luogo quando le posizioni


di debitore e di creditore si riuniscono nella stessa persona (art. 1253 c.c.).
La riunione nella stessa persona delle posizioni debitoria e creditoria deve intendersi come la
vicenda successoria per la quale il debitore succede nella posizione del creditore, il creditore
succede in quella del debitore o un terzo succede nelle posizioni di entrambi.
L'effetto estintivo della confusione è fondato sul venir meno della struttura bilaterale del
rapporto obbligatorio, quale relazione intercorrente tra un debitore e un creditore.
La confusione rientra fra modi satisfattivi di estinzione dell'obbligazione in quanto l'estinzione
del credito è correlativa al vantaggio della liberazione dal debito.
L'estinzione del rapporto obbligatorio a seguito di confusione comporta l'estinzione delle
garanzie che assistevano il credito, conformemente al principio di accessorietà dei diritti di
garanzia.
La confusione non pregiudica invece i diritti dei terzi.
Questo principio è espressamente affermato dal codice con riguardo ai diritti di usufrutto e di
pegno. Precisamente, la confusione non opera in pregiudizio dei titolari di diritti di usufrutto e
di pegno sul credito (art. 1254 c.c.).
L'erede con beneficio d'inventario conserva verso l'eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che
aveva verso il defunto, tranne quelli che si sono estinti per effetto
della morte (art. 4902, n. l, c.c.). Questa previsione deve essere intesa nel senso che crediti e
debiti del defunto verso l'erede rilevano come poste attive e passive dell'asse ereditario, e che la
confusione non altera il limite di responsabilità dell'erede quale risulta dall'entità dell'asse
ereditario in cui siano computate tali poste.

16. - L'obbligazione si estingue per l'impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da


causa non imputabile al debitore (art. 12561 c.c.).
L'impossibilità sopravvenuta della prestazione è una situazione impeditiva dell'adempimento
che il debitore non è in grado di superare né di prevenire con la diligenza richiestagli.
Il fondamento della causa estintiva dell'impossibilità sopravvenuta dev'essere ricercato nel limite
dell'impegno richiesto al debitore: il superamento di questo limite, segnato dalla diligenza
dovuta, non può essere preteso dal creditore.
Si afferma spesso che l'impossibilità sopravvenuta deve avere gli stessi caratteri dell' assolutezza
e dell'oggettività, onde la prestazione sarebbe impossibile solo se nessun debitore può eseguirla.
Il codice prevede per altro che la prestazione si considera divenuta impossibile anche quando la
cosa è smarrita senza che possa esserne provato il perimento (art. 12571 c.c.). E' certo, qui, che il
debitore è liberato a prescindere dalla circostanza che altri (l'abusivo ritrovatore) potrebbe
adempiere.
Non si dubita poi, ad es., che il debitore è liberato se la cosa è stata rapinata, essendo irrilevante
che altri (il rapinatore) potrebbe eseguire la prestazione. Non si dubita, inoltre, che nelle
obbligazioni di fare gli impedimenti che colpiscono la persona del debitore (malattie, lesioni,

195
ecc.) possono dar luogo ad impossibilità liberatoria.
Va quindi ribadito che la prestazione diviene impossibile quando sopravviene un impedimento
non prevedibile e non superabile con la dovuta diligenza.
L'impossibilità è definitiva quando l'impedimento è irreversibile o si ignora se possa venire
meno; è temporanea quando l'impedimento deriva da una causa prevedibilmente transitoria. Un
tipico esempio di impossibilità temporanea è dato dallo sciopero.
L'impossibilità definitiva estingue senz'altro l'obbligazione, salvo l'obbligo del debitore di dare
tempestiva comunicazione al creditore.
L'impossibilità temporanea sospende l'obbligo della prestazione, escludendo la responsabilità
del debitore per il ritardo (art. 12562 c.c.).
Anche se transitoria l'impossibilità dà luogo all'estinzione dell'obbligazione se essa perdura fino
a quando, « in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto », il debitore non può
essere ritenuto obbligato ovvero il creditore non ha più interesse a conseguire la prestazione (art.
12562 c.c.).
Con riguardo alle prestazioni aventi ad oggetto una cosa determinata, il creditore subentra nel
diritto di risarcimento o di indennizzo spettante al debitore verso terzi in conseguenza della
sopravvenuta impossibilità, e può pretendere dal debitore le prestazioni che questi abbia già
ricevuto a tale titolo (commodum repraesentationis) (art. 1259 c.c.).

17.- Le parti del rapporto obbligatorio possono disporre liquidazioni negoziali mediante le quali
il patrimonio del debitore è convertito in tutto o in parte in denaro. Tali operazioni prendono il
nome di volontarie in quanto si tratta di liquidazioni previste dall'autonomia delle parti e attuate
nell'esercizio di comuni poteri privati.
Sotto questo riguardo esse si differenziano quindi dalle liquidazioni giudiziarie, affidate
all'autorità giudiziaria o a pubblici ufficiali nominati e controllati da tale autorità (es.: il
fallimento).
Liquidazioni negoziali in funzione di pagamento sono la cessione dei beni ai creditori (art. 1971 s.
c.c.), la cessione in pagamento (art. 1198 c.c.), il mandato a riscuotere, mediante il quale il
creditore assume da parte del debitore l'incarico di riscuotere i crediti di questo e di soddisfarsi
sul ricavato.
MODULO XLIX

Cessione del credito e vicende dell’obbligazione dal lato passivo.

1. La cessione del credito


2. Efficacia della cessione nei confronti del debitore ceduto e opponibilità ai terzi
3. Garanzia dell' esistenza del credito e della solvenza del debitore ceduto
4. Il factoring
5. Le vicende dell'obbligazione dal lato passivo. La delegazione
6. L'espromissione
7. L'accollo

l. - La cessione del credito è il negozio mediante il quale il creditore (cedente) trasferisce il


diritto di credito ad un terzo (cessionario).
Il codice proclama espressamente il principio della libera cessione dei crediti, statuendo che il
creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito anche senza il consenso del
debitore (art. 1260).
In deroga al generale principio della libera cessione i crediti sono incedibili quando l) hanno
carattere strettamente personale e quando 2) la cessione è vietata dalla legge o 3) esclusa dalla
volontà delle parti.
La causa della cessione del credito è l'interesse che di volta in volta l'atto è diretto a realizzare e

196
che giustifica l'atto medesimo. Può quindi aversi una vendita del credito, una cessione in
pagamento, una cessione a causa di garanzia, e così via.
Il credito si trasferisce assieme ai suoi accessori. Diritti accessori espressamente menzionati
come oggetto della cessione sono i diritti di garanzia (art. 1263 1 c.c.).
Le garanzie si trasferiscono automaticamente, ma l'ipoteca richiede l’annotazione della
trasmissione in margine all'iscrizione ipotecaria (art. 2843 c.c.).

2. - Secondo il codice la cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto quando questi l'ha
accettata o quando gli è stata notificata (art. 12641 c.c.). Il debitore è liberato se paga al cedente
prima dell'accettazione o della notificazione, salvo che il cessionario dimostri che il debitore
stesso era a conoscenza dell'avvenuta cessione (art. 1264 2 c.c.). L'accettazione e la notificazione
di data certa sono requisiti di opponibilità della cessione ai terzi creditori.
In caso di conflitto tra più cessionari la cessione che per prima sia stata accettata o notificata
prevale sulle altre, anche se di data posteriore (art. 1265 1 c.c.). La stessa regola vale
relativamente alle costituzioni di pegno e di usufrutto (art. 1265 2 c.c.).

3. - Nella cessione a titolo oneroso il cedente è tenuto verso il cessionario alla garanzia dell'
esistenza del credito al tempo della cessione (art. 12661 c.c.).
La garanzia dell'esistenza del credito (nomen verum) rende responsabile il cedente in tutte le
ipotesi in cui il cessionario non consegue la titolarità del credito cedutogli o, avendola
conseguita, la perde per fatto del cedente.
Il cedente non garantisce invece la solvenza del debitore ceduto. Il pericolo di non potere
conseguire la prestazione è un rischio che grava di per sé sul creditore, e che passa quindi
normalmente al cessionario quale nuovo titolare del credito. E' però possibile, ed è anzi
frequente, che il cedente assuma la garanzia negoziale della solvenza del debitore (art. 1267 1 c.c.).
Il cedente che garantisce la solvenza del debitore ceduto risponde nei limiti di quanto ha
ricevuto. In caso di insolvenza del debitore ceduto il cessionario può cioè pretendere dal cedente
solo la restituzione di quanto gli abbia versato come corrispettivo della cessione.
La garanzia della solvenza viene meno se il cessionario non si attiva diligentemente per far valere
le sue ragioni creditorie verso il debitore ceduto (art. 12672 c.c.). A carico del cessionario è posto
in tal modo l'onere di prendere le normali iniziative giudiziali e stragiudiziali per la realizzazione
del credito: costituzione in mora, azione per l'adempimento, pignoramento, ecc. (non anche di
avvalersi dei rimedi cautelari).

4. - Il factoring è un contratto che ha ad oggetto la cessione globale dei crediti presenti e futuri
inerenti ad un' impresa a fronte di un finanziamento o di altre controprestazioni. La possibilità,
che il factoring offre, di una generale ed unitaria liquidazione dei crediti imprenditoriali, spiega
il frequente ricorso a questa figura e l'impulso che con essa ha avuto l'utilizzazione della cessione
del credito nel mondo degli affari.
L'ingresso del factoring nella pratica commerciale aveva suscitato perplessità in dottrina in
ordine alla sufficiente determinatezza dell' oggetto e in ordine alla derogabilità della norma sui
requisiti di opponibilità del contratto.
Le difficoltà di conciliare la nuova figura con la disciplina del codice sono state superate dalla
legge del 21 febbraio 1991, n. 52, regolante la cessione dei crediti di impresa.
La legge del 1991 sancisce espressamente la cedibilità dei crediti "anche prima che siano stipulati
i contratti dai quali sorgeranno", e dichiara sussistente il requisito della determinatezza dell'
oggetto anche nella cessione dei crediti di massa "se è indicato il debitore ceduto" (art. 3).
Il cedente assume legalmente la garanzia della solvenza dei debitori, ma "nei limiti del
corrispettivo pattuito" (art. 4).
Requisito di opponibilità della cessione è la data certa del pagamento del corrispettivo da parte
del cessionario.

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5. - I principali istituti negoziali mediante i quali si attua l'intervento di un nuovo debitore nel
rapporto obbligatorio sono la delegazione, l’espromissione e l'accollo.
La delegazione è l’incarico conferito da un soggetto, detto delegante, ad un altro soggetto, detto
delegato, di pagare o di obbligarsi a pagare ad un terzo, detto delegatario.
La delegazione si distingue in passiva e attiva.
Il codice prevede esclusivamente la delegazione passiva, quale fattispecie in cui il debitore
assegna al creditore un nuovo debitore, e questi si obbliga verso il creditore (art. 1268 c.c.).
La delegazione si dice attiva, quando il delegante è ereditare del delegato, e il conferimento
dell'incarico delegatorio è un modo di utilizzazione indiretta del credito che il delegante ha verso
il delegato.
La legge non prevede espressamente la delegazione attiva ma nella pratica negoziale è comune
che il delegante sia creditore del delegato e che attraverso l'incarico conferito al delegato utilizzi
il proprio credito verso quel soggetto. Nella pratica negoziale, anzi, è comune che la delegazione
sia al tempo stesso passiva e attiva, che cioè il delegante utilizzi il proprio credito verso il
delegato per liberarsi del suo debito verso il delegatario. La prestazione del delegato varrà allora
ad estinguere sia l'obbligazione del delegante verso il delegatario (rapporto di valuta) sia
l'obbligazione del delegato verso il delegante (rapporto di provvista). Inoltre, se il delegato si è
obbligato nei confronti del delegatario, la prestazione estinguerà al tempo stesso anche questa
obbligazione.
L'incarico delegatorio, ossia l'incarico conferito dal delegante al delegato, rientra nella nozione
del mandato. Esso richiede il consenso, sia pure tacito, del delegato. Il consenso del delegato è
necessario anche quando questi sia debitore del delegante. Non si tratta quindi di un atto
unilaterale, come sembrerebbe indicare l'espressione 'ordine' con la quale la dottrina ha
tradizionalmente denominato l'incarico delegatorio, in aderenza alla terminologia delle fonti
romane (iussum).
In esecuzione della delega il delegato può obbligarsi verso il terzo (il delegatario) o può senz'altro
pagare. La delegazione si distingue in delegazione promissoria o delegazione di pagamento
secondo che ricorra l'una o l'altra ipotesi. La delegazione promissoria si distingue ulteriormente
in delegazione astratta e titolata, e in delegazione cumulativa e privativa.

Nella delegazione promissoria il delegato si obbliga nei confronti del delegatario per conto del
delegante. L'assunzione del debito è un atto negoziale e unilaterale del delegato.
La promessa del delegato ha causa nei due rapporti sotto stanti che intercorrono tra il delegante
e il delegatario (il rapporto di valuta) e il delegante e il delegato (il rapporto di provvista). Al
riguardo si dice tradizionalmente che la delegazione ha una doppia causa.
La validità della promessa di pagamento fatta dal delegato prescinde di regola dai rapporti
sottostanti. La promessa di pagamento si qualifica allora come un negozio astratto.
L'astrattezza della promessa di pagamento caratterizza propriamente la delegazione ordinaria,
detta delegazione astratta o pura per distinguerla rispetto alla delegazione titolata. L'astrattezza
della delegazione si esprime nel principio della inopponibilità delle eccezioni relative ai rapporti
di provvista e di valuta.
L'astrazione della promessa di pagamento, quale risulta dal regime delle eccezioni, rafforza
sensibilmente la posizione del creditore rispetto al nuovo debitore.
L'ampio ricorso all'istituto della delegazione nella pratica degli affari, soprattutto in forma di
cambiale tratta, si spiega appunto in ragione della certezza della promessa fatta dal nuovo
obbligato. Il delegatario può infatti contare sull'impegno del delegato quale che sia la ragione per
la quale quest'ultimo ha accettato l'incarico delegatorio e si è obbligato nei suoi confronti.
Il delegato può rifiutarsi di pagare sollevando le eccezioni relative al rapporto di provvista solo se
risulti essere nullo il rapporto di valuta tra il delegante e il delegatario (art. 1271 2 c.c.). In tal caso
il delegato potrà sollevare al delegatario tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre al

198
delegante (tranne quella di compensazione ).
La delegazione cumulativa dà luogo alla costituzione di un'obbligazione che si aggiunge, senza
estinguerla, all'obbligazione originaria del delegante.
Alla delegazione cumulativa si contrappone la delegazione privativa o liberatoria, ossia la
delegazione che determina la liberazione del debitore originario. Essa richiede il consenso del
creditore mediante dichiarazione espressa (art. 1268 c.c.).

6. - L'espromissione è il negozio mediante il quale un terzo (espromittente) assume nei


confronti del creditore (espromissario) l'obbligazione del debitore espromesso) senza delega di
quest'ultimo (art. 12721 c.c.).
L'espromittente non può avvalersi delle eccezioni relative al suo rapporto col debitore originario
salvo diverso accordo col creditore (art. 12722 c.c.). L'espromittente può invece sollevare le
eccezioni relative al rapporto di valuta (espromesso-espromissario).
Non tutte le eccezioni relative al rapporto di valuta possono per altro essere opposte
dall'espromittente. Anzitutto, non possono essere opposte le eccezioni personali al debitore
originario, ossia le eccezioni che presuppongono una specifica legittimazione del soggetto (es.:
l'eccezione volta a far valere l’annullabilità del contratto per vizio del consenso).
L'espromittente non può neppure opporre le eccezioni che il debitore originario avrebbe potuto
opporre sulla base di fatti sopravvenuti all'espromissione (es.: remissione del debito) (art. 12723
c.c.). Questa regola si spiega in base all’idea che l’obbligazione principale è ormai quella
dell'espromittente e che la remissione o altre vicende favorevoli al debitore originario, divenuto
debitore sussidiario, non devono pregiudicare il preminente diritto del creditore verso il nuovo
obbligato.
Altra disposizione esclude che l'espromittente possa opporre al creditore l'eccezione di
compensazione che a quest'ultimo avrebbe potuto opporre il debitore originario. La
compensazione è inopponibile a prescindere dalla circostanza che essa si sia verificata prima o
dopo l'espromissione (art. 12723, in fine, c.c.)
Il regime delle eccezioni riguarda egualmente l'espromissione cumulativa e quella privativa.

Come la delegazione anche l'espromissione è normalmente cumulativa (o semplice) in quanto


costituisce in capo all'espromissario un nuovo credito che si aggiunge a quello del debitore
originario.

L'espromissione che comporta la liberazione del debitore originario è detta privativa o


liberatoria. A tal fine occorre una dichiarazione espressa dell'espromissario (art. 1272 1 c.c.).
A seguito dell'espromissione liberatoria le garanzie si estinguono, salvo che il garante acconsenta
al loro mantenimento (art. 1275 c.c.).
Questa regola, comune alla delegazione e all'accollo, non concerne i privilegi, i quali
sopravvivono, salvo che vi sia stata novazione del debito o che, trattandosi di privilegio speciale,
sia venuta meno la particolare situazione alla quale il privilegio è subordinato.

7. - L'accollo è il contratto mediante il quale il debitore (accollato) e un terzo (accollante)


convengono che questi assuma il debito del primo. Il creditore (accollatario) può aderire
all'accollo, rendendo irrevocabile la stipulazione a suo favore (art. 12731 c.c.).
L'accollo si distingue rispetto all'espromissione, che è un negozio intercorrente tra il creditore e
un terzo, mentre l'accollo è un accordo tra il debitore e un terzo.
L'accollo si distingue poi rispetto alla delegazione. Anche nella delegazione si riscontra un
accordo tra debitore e terzo, ma tale accordo ha per oggetto l'incarico di pagare al creditore o di
promettergli una data prestazione mentre con l' accollo il terzo fa proprio il debito dell'
obbligato.
L'accollo ordinario è un contratto a favore di terzo, precisamente a favore del creditore, il quale

199
acquista immediatamente il diritto verso il nuovo debitore. L'obbligazione dell'assuntore non
richiede un atto di consenso del creditore.
L’adesione di quest’ultimo non attiene alla perfezione dell’accollo, e vale solo a rendere
irrevocabile la stipulazione a suo favore (art. 12731 c.c.).
L'accollo non è qualificabile come contratto a favore di terzo quando esso comporta per espressa
condizione la liberazione del debitore originario. Qui l'effetto favorevole del subingresso di un
nuovo obbligato si accompagna all'effetto sfavorevole della perdita del credito verso il precedente
obbligato e il consenso del creditore si rende allora necessario per la produzione di tale effetto
sfavorevole.
In quanto l’accollante assume l’obbligazione dell’accollato egli può avvalersi di massima delle
eccezioni che avrebbe potuto opporre il debitore originario, salve le deroghe previste in tema di
espromissione (n. 6). Può inoltre opporre le eccezioni relative al rapporto con l’accollato
(rapporto di provvista).

L'accollo è normalmente cumulativo in quanto l'obbligazione dell'assuntore si aggiunge a quella


del debitore originario che continua ad essere obbligato verso l'accollatario (art. 1273 2 c.c.).
L'accollo si dice privativo o liberatorio quando il debitore originario viene liberato dalla sua
obbligazione. Il debitore originario può essere liberato mediante una dichiarazione espressa del
creditore (art. 12732 c.c.). La liberazione può anche costituire oggetto di una condizione espressa
dell' accollo. In tal caso la liberazione consegue all'adesione del creditore (art. 1273 2 c.c.).
Nell’'accollo liberatorio l'insolvenza dell'accollante non comporta una reviviscenza
dell'obbligazione dell'accollato. Il rischio dell'insolvenza del nuovo debitore grava pertanto
sull'accollatario.
Il debitore originario rimane tuttavia obbligato se il nuovo debitore era già insolvente al tempo
dell'accollo, ossia al tempo in cui si costituiva la nuova obbligazione in favore del creditore. Trova
infatti applicazione, per espresso richiamo del codice (art. 1274 3 c.c.), la disciplina della
delegazione privativa, e quindi in particolare anche la disposizione che nega la liberazione del
debitore originario se il nuovo obbligato era insolvente al tempo in cui assunse il debito (art.
12742 c.c.).
Il rischio dell'insolvenza preesistente dell'accollante grava invece sul creditore che abbia di sua
iniziativa liberato il debitore originario.

L'accollo interno (o semplice) è l'accollo che produce effetti esclusivamente rispetto alle parti,
debitore originario e accollante. L'accollo interno si contrappone a quello esterno, ossia
all'accollo direttamente efficace rispetto al creditore-accollatario.
La legge prevede e disciplina solo l'accollo esterno ma
nell'esercizio della loro autonomia le parti possono ben stipulare un accordo ad effetti
meramente interni.
Oltre che per volontà delle parti l'accollo può avere effetti meramente interni a seguito del rifiuto
dell'accollatario. In tal caso l'accollo esterno si converte in accollo interno.

Il termine accollo legale (o ex lege) designa l'assunzione cumulativa del debito in capo ad un
terzo per effetto di legge, ossia quale effetto di una determinata fattispecie secondo una
previsione normativa. Ad es., a seguito dell'alienazione dell'azienda l'alienatario risponde
assieme all'alienante dei debiti aziendali risultanti dai libri contabili (art. 2560 2 c.c.).
L'accollo legale si pone al di fuori del tema dei contratti in
quanto designa una vicenda che prescinde dalla volontà negoziale. In dottrina si è pertanto
criticato questo riferimento all'accollo, che è una figura tipicamente contrattuale. La
denominazione di accollo legale è per altro entrata nel linguaggio corrente e il suo significato si è
ormai univocamente delineato.

200
MODULO L

Le obbligazioni plurisoggettive

1. Le obbligazioni solidali passive


2. Il beneficio dell’ordine e il beneficio di escussione
3. Le obbligazioni solidali attive
4. Il regime delle eccezioni
5. Regressi e restituzioni
6. Atti modificativi concernenti modalità delle obbligazioni e atti di accertamento e
transazioni.
7. Sentenze
8. Le obbligazioni indivisibili
9. Le obbligazioni collettive

1. - Le obbligazioni solidali si distinguono in obbligazioni solidali passive e obbligazioni solidali


attive (art. 1292 c.c.). Le obbligazioni solidali passive sono le obbligazioni che fanno capo a più
debitori, tutti tenuti ad una sola prestazione in modo che l'adempimento dell'uno libera gli
altri.
I debitori sono obbligati in solido quando le obbligazioni a) derivano dalla stessa fonte, e b)
hanno ad oggetto un'unica prestazione, pur se con diverse modalità. In presenza di questi
presupposti il vincolo di solidarietà si costituisce in base alla regola generale della c.d.
presunzione di solidarietà, salvo che risulti diversamente dal titolo negoziale o dalla legge (gli
eredi, ad es., non sono tenuti in solido).
L'identità della prestazione non esclude che i singoli coobbligati siano tenuti con modalità
diverse (art. 1293 c.c.). Le modalità diverse possono concernere il tempo, il luogo ed altri aspetti
o circostanze che non alterino comunque la sostanziale identità del bene o del servizio dovuti.
Il lato esterno della solidarietà riguarda i rapporti tra debitori e creditori mentre il Iato interno
riguarda i rapporti tra i condebitori.
Il carattere solidale dei singoli rapporti importa, come si è visto, che tutti sono tenuti ad eseguire
la prestazione nella sua totalità. Dal lato esterno debiti e crediti hanno quindi ad oggetto l'intera
prestazione. Dal lato interno, invece, l'obbligazione si divide tra i diversi debitori o tra i diversi
creditori (art. 1298 c.c.).
Questa divisione "nei rapporti interni" vuol dire che il carico della prestazione si divide tra i vari
consorti, giustificando il diritto di regresso.
Nelle obbligazioni derivanti da illecito, in particolare, la prestazione si divide tra i responsabili in
proporzione alla gravità delle colpe e all'entità delle conseguenze dannose (art. 20552 c.c.). Nelle
obbligazioni derivanti da contratto la prestazione si divide tra i debitori secondo le quote
stabilite dai contraenti o in proporzione alla loro partecipazione all' affare.
Se non risulta diversamente le quote si presumono eguali (art. 12982, 20553 c.c.).
Le obbligazioni possono essere costituite anche nell'interesse esclusivo di alcuno dei debitori.
Modello tipico di obbligazione solidale ad interesse esclusivo di uno dei debitori è l' obbligazione

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fideiussoria.

2. – Il creditore può di regola rivolgersi per l'adempimento indifferentemente ad uno qualsiasi


dei condebitori secondo la sua libera scelta. Questa scelta può però essere limitata in ragione
delle diverse modalità con cui ciascun debitore è obbligato.
A favore di un condebitore, in particolare, può essere previsto il beneficio dell'ordine, in base al
quale il creditore ha l'onere di richiedere preventivamente l'adempimento ad altro debitore, o il
beneficio di escussione, in base al quale il creditore ha l'onere di procedere preventivamente in
via esecutiva sui beni di altro debitore.

3. - Le obbligazioni solidali attive sono le obbligazioni che fanno capo a più creditori, tutti
aventi diritto ad una sola prestazione in modo che l'adempimento fatto ad uno di essi libera il
debitore anche nei confronti degli altri.
La presunzione legale di solidarietà non opera con riguardo alle obbligazioni con più creditori. Se
più crediti derivano dalla stessa fonte e hanno ad oggetto la medesima prestazione, essi si
dividono tra i vari aventi diritto secondo la regola della parziarietà. La costituzione del vincolo di
solidarietà attiva deve quindi risultare dal titolo negoziale o da una speciale previsione
normativa. Un esempio di solidarietà attiva legale può ravvisarsi nei crediti della comunione
legale la cui riscossione rientri nell'ordinaria amministrazione.
Nelle obbligazioni solidali attive il debitore può pagare all'uno o all'altro dei creditori secondo la
sua scelta. La facoltà di scelta spettante al debitore viene meno quando uno dei creditori lo abbia
prevenuto mediante domanda giudiziale (art. 1296 c.c.).

4. - Le eccezioni che possono essere sollevate dal condebitore solidale o al con creditore solidale
si distinguono in comuni e personali. Le eccezioni comuni hanno ad oggetto cause di invalidità,
estinzione e inesigibilità che incidono su tutti i rapporti obbligatori. Eccezioni personali sono
invece quelle che attengono esclusivamente al rapporto del singolo condebitore o concreditore.
Le cause di invalidità possono costituire oggetto di eccezioni personali quando, ad es., siano
fondate sull'incapacità di agire o su un vizio del consenso del singolo condebitore. Eccezioni
personali sono ancora quelle fondate sulle diverse modalità della prestazione. Al singolo
condebitore, ad es., potrebbe essere stato accordato un più lungo termine di pagamento o il
beneficio di escussione.
In generale, delle eccezioni comuni possono avvalersi tutti i condebitori nel confronti del
creditore, e il debitore nei confronti di tutti i concreditori.
Per quanto riguarda le eccezioni personali vige invece la regola secondo la quale nelle
obbligazioni solidali passive il debitore non può giovarsi delle eccezioni personali agli altri
condebitori; nelle obbligazioni solidali attive il debitore non può giovarsi nei confronti di uno dei
creditori delle eccezioni personali agli altri concreditori (art. 1297 c.c.).
Questa regola subisce una deroga nelle obbligazioni solidali assunte nell'interesse esclusivo di
alcuno dei debitori o dei creditori. In tali obbligazioni il debitore può giovarsi delle eccezioni
personali al debitore principale o al creditore unico interessato.

5. - L'adempimento estingue interamente le obbligazioni solidali dal lato esterno. Precisamente,


l'adempimento dell'obbligazione eseguito da uno dei debitori libera tutti i condebitori;
l'adempimento ricevuto da uno dei creditori libera il debitore nei confronti di tutti i concreditori.
Nei rapporti interni, invece, l'adempimento dà luogo al diritto di regresso. Precisamente, il
debitore che ha pagato ha diritto di regresso nei confronti degli altri condebitori per la parte di
ciascuno di essi (art. 12291 c.c.). Le obbligazioni di rimborso non sono solidali.
Anche nelle obbligazioni solidali attive occorre distinguere l’effetto dell’adempimento nei
rapporti esterni (il debitore è liberato nei confronti di tutti i concreditori) e l’effetto di esso nei
rapporti interni. Nei rapporti interni, precisamente, il creditore che riceve l’adempimento è

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obbligato a restituire la prestazione agli altri con creditori, ciascuno in proporzione alla sua
parte.

6. - Oltre all’adempimento la disciplina normativa prevede singolarmente le varie cause di


estinzione delle obbligazioni solidali e i loro effetti dal lato esterno e dal lato interno. Tale
disciplina è ispirata ad un principio unitario, ossia il principio che le cause estintive giovano di
regola a tutti i condebitori e nei confronti di tutti i concreditori salvo che siano personali al
singolo debitore o creditore.
In particolare, gli atti compiuti da alcuno dei debitori o da alcuno dei creditori e diretti a
modificare modalità dell'adempimento o diretti all'accertamento dell'obbligazione, sono in
generale non opponibili agli altri condebitori o concreditori. Gli altri condebitori o concreditori
possono però approfittarne, salvo che risulti essersi voluto limitarne gli effetti al singolo debitore
o nei confronti del singolo creditore. Rilevano al riguardo dilazioni del termine, rateizzazioni del
debito, confessioni, transazioni, ecc.
Ad es., la transazione fatta da alcuno dei debitori o da alcuno dei creditori, e avente ad oggetto
l'obbligazione solidale, produce effetto solo nei confronti degli altri condebitori o con creditori
che dichiarano di volerne profittare (art. 1304 c.c.).

7. - Le obbligazioni solidali costituiscono rapporti obbligatori distinti che sul piano processuale
possono essere azionati singolarmente senza che sussista litisconsorzio necessario tra i
condebitori o tra i concreditori.
E' quindi possibile che venga decisa con sentenza una causa avente ad oggetto
l'obbligazione solidale ma alla quale siano rimasti estranei gli altri condebitori o concreditori. L'
estraneità alla causa comporta l' estraneità alla sentenza. La disciplina legale della solidarietà
prevede tuttavia che, analogamente agli atti negoziali di accertamento, gli altri condebitori o
concreditori possono profittare della sentenza.

8. - Indivisibile è l'obbligazione insuscettibile di adempimento parziale o per la natura della


prestazione ovvero per il modo in cui essa è stata voluta dalle parti (art . 1316 c.c.).
L'indivisibilità può essere materiale o economico-funzionale.
L'indivisibilità economico-funzionale sussiste quando la scomposizione della cosa o del servizio
in parti distinte comporta una grave perdita di utilità o di valore della prestazione, cioè quando le
singole porzioni, avulse dal resto, hanno un'utilità o un valore notevolmente inferiore alla loro
quota proporzionale (si pensi ad un'azienda o ad una pietra preziosa).
L'indivisibilità giuridica sussiste quando le singole parti non hanno i requisiti di legge per la
loro autonoma utilizzazione (un appartamento, ad es., non può essere diviso se le singole parti
non hanno i requisiti igienico-sanitari necessari per l'accertamento amministrativo della loro
abitabilità).
Le obbligazioni indivisibili rientrano nello schema della solidarietà poiché ciascun debitore è
tenuto ad eseguire l'intera prestazione (indivisibilità passiva) e ciascun creditore ha diritto di
ricevere l'intera prestazione (indivisibilità attiva).
Alle obbligazioni indivisibili si applica la disciplina della solidarietà salve alcune differenze
richieste dalla particolarità del vincolo (art. 1317 c.c.).
La principale differenza è data dalla operatività della indivisibilità anche nei confronti dei
creditori, con conseguente automatica costituzione del vincolo di solidarietà attiva a prescindere
da una specifica previsione del titolo.
Una disposizione particolare in tema di indivisibilità attiva è quella che impone all'erede del
creditore, che richiede in via giudiziale l'adempimento dell'intera prestazione, di dare cauzione a
garanzia dei coeredi (art. 1319 c.c.).
In dottrina si ritiene che sia onere dei coeredi far valere l'obbligo di cauzione del richiedente, e
che la sentenza di condanna debba in tal caso essere condizionata alla previa prestazione della

203
garanzia.

9. - Le obbligazioni collettive sono obbligazioni in cui la prestazione dev'essere eseguita


congiuntamente da parte di tutti i debitori o a favore di tutti i creditori. Nel primo caso tali
obbligazioni prendono il nome di obbligazioni collettive passive, nel secondo caso di obbligazioni
collettive attive.
Per un comune esempio di obbligazioni collettive passive si pensi alle obbligazioni assunte dai
componenti di un trio musicale. Diversamente dalle obbligazioni solidali, l'adempimento isolato
di un debitore non libera gli altri in quanto l'interesse del creditore è soddisfatto dalla
partecipazione di tutti i debitori all'esecuzione della prestazione.
L'obbligazione collettiva attiva ha per oggetto una prestazione che dev'essere eseguita
congiuntamente a favore di più creditori. Un adempimento isolato non è liberatorio e può essere
legittimamente rifiutato in quanto il diritto di ciascun creditore non è semplicemente quello di
ricevere la prestazione ma quello di riceverla assieme agli altri creditori. Si pensi, ad es.,
all'obbligazione assunta da un'agenzia turistica nei confronti dei componenti di una comitiva di
familiari.

MODULO LI

La responsabilità contrattuale

l. L' inadempimento
2. La responsabilità per inadempimento

204
3. La responsabilità per fatto degli ausiliari
4. Le clausole di esonero
5. La prova dell' inadempimento
6. La mora del debitore
7. Effetti della mora sul rischio
8. Il risarcimento del danno
9. Il nesso di causalità
10. Il concorso di colpa del danneggiato
11. Il dovere del danneggiato di evitare il danno
12. La compensazione del lucro col danno
13. La prevedibilità del danno
14. I danni futuri
15. La perdita di chance
16. La valutazione equitativa del danno
17. Il danno non patrimoniale
18. La lesione dei diritti fondamentali dell'uomo. Il danno biologico
19. Il risarcimento in forma specifica
20. Il danno nelle obbligazioni pecuniarie
21. Il risarcimento del maggior danno. La svalutazione monetaria
22. La clausola penale
23. L'azione di adempimento
24. La risoluzione del contratto per inadempimento
25. Effetti della domanda e della sentenza di risoluzione
26. La risoluzione su diffida
27. La clausola risolutiva espressa
28. Il termine essenziale
29. L'eccezione di inadempimento
30. L'eccezione di insolvenza
31. La caparra confirmatoria
32. Sopravvenuta impossibilità non imputabile di esecuzione del contratto
33. L'eccessiva onerosità sopravvenuta
34. L'azione surrogatoria
35. L'azione revocatoria
36. La fideiussione
37. Il mandato di credito
38. Il negozio autonomo di garanzia
39. La lettera di patronaggio

1. - L'inadempimento è la mancata o inesatta esecuzione della prestazione dovuta.


Esso si distingue in inadempimento totale (la prestazione è del tutto ineseguita) e adempimento
inesatto (la prestazione è quantitativamente o qualitativamente inesatta).
L'inadempimento si distingue ancora inadempimento definitivo (la prestazione non può più
essere eseguita) e ritardo (la prestazione è provvisoriamente ineseguita).
Occorre poi distinguere tra inadempimento imputabile e inadempimento non imputabile.
L'inadempimento imputabile è l'inadempimento che comporta la responsabilità del debitore,
cioè la soggezione all'obbligo del risarcimento del danno e agli altri rimedi sanzionatori.

2. - La responsabilità per l'inadempimento è prevista dal codice nel senso che il debitore che non
esegue la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che
l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da
causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

205
Sebbene questa formula sia spesso intesa nel senso che rileverebbe solo la impossibilità oggettiva
e assoluta, quale impedimento che nessuno al mondo sarebbe in grado di superare,
l'applicazione giurisprudenziale tende a identificare l'impossibilità liberatoria nell'impedimento
non prevedibile né superabile con la dovuta diligenza.
Va poi tenuto presente che nella disciplina dei contratti tipici sono enunciate varie regole di
responsabilità del debitore, che sono tuttavia riconducibili generalmente al criterio della colpa.

3. – Il debitore risponde dei fatti dolosi o colposi della persona di cui si avvalere (ausiliari)
nell’adempimento dell’obbligazione (art. 1228 c.c.).
La responsabilità del debitore per il fatto degli ausiliari prescinde dalla colpa nella scelta o nella
vigilanza dell'ausiliario medesimo. Si tratta dunque di una regola di responsabilità oggettiva.
Fondamento di questa regola è l'esigenza che chi si appropria dell'operato altrui ne assuma
anche il rischio per i danni arrecati ai terzi. Questo fondamento è comune alla norma che
sancisce la responsabilità extracontrattuale del preponente per il fatto dannoso dei suoi preposti
(art. 2049 c.c.).
Presupposti della responsabilità del debitore per il fatto dell'ausiliario sono: l) la posizione di
ausiliario dell'autore del fatto; 2) il carattere doloso o colposo del fatto; 3) la connessione tra il
fatto e le incombenze dell' ausiliario.
l) Ausiliario è la persona di cui il debitore si avvale per adempiere l'obbligazione.
Ausiliario può quindi essere non solo un dipendente ma chiunque presti un'attività utilizzata dal
debitore per eseguire la prestazione. Ciò che importa, ai fini della responsabilità del debitore, è
che l'attività dell'ausiliario sia inserita nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio.
Estraneo alla figura dell'ausiliario è il terzo che gestisce o è incaricato di un servizio pubblico o
che in generale svolge la sua attività al di fuori di ogni ingerenza del debitore.
2) Il debitore risponde del fatto doloso o colposo dell'ausiliario. Dunque, se il fatto dell'ausiliario
è immune da dolo o colpa, il debitore non è responsabile per l'inadempimento causato da tale
fatto.
3) Terzo presupposto è la connessione del fatto con le incombenze dell' ausiliario.
Affinché il debitore risponda del fatto dell'ausiliario occorre cioè che tale fatto sia compiuto
nell’esercizio dell'incarico conferito all'ausiliario medesimo, ma è anche sufficiente che l’incarico
sia occasione necessaria del fatto.

4. Il codice sancisce la nullità delle clausole che escludono o limitano preventivamente la


responsabilità del debitore per dolo o colpa grave (art. 12291 c.c.).
Il divieto ha carattere di ordine pubblico e il suo fondamento va ravvisato nell'esigenza di
assicurare al creditore un minimo e inderogabile impegno diligente da parte del debitore.
Le clausole vietate dalla legge sono quelle che escludono e quelle che limitano la responsabilità
del debitore. Nulle sono pertanto anche le clausole che limitano l'ammontare del danno
risarcibile o che privano il creditore del diritto di chiedere la risoluzione del contratto.
Nulle, ancora, devono reputarsi le clausole che esonerano da responsabilità il debitore per il fatto
dei suoi ausiliari. L'opinione contraria è però seguita dalla prevalente giurisprudenza.
Il divieto delle clausole di esonero concerne la responsabilità per inadempimento doloso o
gravemente colposo. Dallo stesso divieto di legge risulta dunque la liceità delle clausole volte a
esonerare il debitore da responsabilità per inadempimento dovuto a colpa lieve.
Neppure la responsabilità per colpa lieve può tuttavia essere preventivamente esonerata se si
tratta di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico (art. 1229 2 c.c.).
Obblighi derivanti da norme di ordine pubblico sono in generale gli obblighi volti a soddisfare
esigenze fondamentali della società civile.
Nei contratti del consumatore le clausole di esonero da responsabilità del professionista sono
reputate presuntivamente vessatorie (art. 33 cod. cons.) mentre la disciplina della vendita dei
beni di consumo sancisce senz'altro la nullità delle clausole che escludono o limitano i diritti che

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tale disciplina riconosce al consumatore (art. 1341 cod. cons.).

5. – In applicazione della norma generale sull’onere della prova (art. 2697 1 c.c.), il creditore che
agisce per il risarcimento del danno o per altri rimedi dovrebbe dare la prova del fatto che sta a
fondamento della sua domanda, cioè l’inadempimento.
La giurisprudenza più recente reputa tuttavia che solo l’onere di provare il suo diritto mentre è
onere del debitore provare di avere eseguito la prestazione. Reputa inoltre il nuovo orientamento
che la ripartizione dell’onere della prova tra creditore e debitore non cambi nè in ragione del
rimedio richiesto dal creditore (risarcimento del danno, risoluzione del contratto, ecc.) né in
ragione del tipo di inadempimento. Il creditore che lamenti l’inesattezza della prestazione può
quindi limitarsi ad allegare tale inesattezza essendo a carico del debitore la prova di avere
adempiuto esattamente.
In relazione al ritardo, è generalmente riconosciuto che il creditore può limitarsi a provare il suo
credito essendo onere del debitore dare la prova di avere tempestivamente adempiuto. Trova al
riguardo applicazione il principio di presunzione di persistenza del diritto.
In base a questo principio ogni diritto deve presumersi esistente se non risulta intervenuta una
sua causa di estinzione. Chi dà la prova del credito dà quindi la prova di un diritto che si presume
essere persistito pur dopo la scadenza del termine di pagamento: ma il credito persistito oltre il
termine di pagamento è per ciò stesso un credito insoddisfatto. Spetta allora al debitore dare la
prova che l’obbligazione si è estinta per adempimento o per altra causa.

6. – La mora del debitore è il ritardo imputabile al debitore.


Presupposti della mora sono la scadenza del termine, l’imputabilità del ritardo a dolo o colpa del
debitore e la costituzione in mora, cioè la richiesta del creditore salvo che ricorra uno dei casi in
cui tale richiesta non è necessaria. La mora che presuppone la richiesta del creditore è detta
anche mora ex persona, mentre la mora che si produce per il fatto stesso della scadenza
infruttuosa del termine è detta automatica o ex re.
La costituzione in mora deve essere fatta per iscritto (art. 1219 1 c.c.).
L’assenza di ritardo imputabile in mancanza della costituzione in mora ha fondamento nella
valutazione legale di tolleranza del ritardo da parte del creditore che alla scadenza
dell’obbligazione non esige il pagamento dovutogli.
Il codice prevede tre ipotesi nelle quali il debitore è costituito in mora automaticamente, cioè
senza una richiesta formale da parte del creditore: a) quando il debito deriva da fatto illecito; b)
quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non volere eseguire l'obbligazione; c) quando è
scaduto il termine, se la prestazione dev'essere eseguita al domicilio del creditore (art. 1219 2 c.c.).
Si tratta di ipotesi diverse dove comunque non vi è luogo per la valutazione legale di tolleranza
di ritardo.

7. - Il debitore che è in mora non è liberato dalla sopravvenuta impossibilità della prestazione,
anche se tale impossibilità deriva da causa a lui non imputabile (art. 1221 1 c.c.).
Questo effetto, chiamato ancora perpetuatio obligationis, non costituisce una sanzione
eccezionale della mora ma si inserisce coerentemente nell'ambito della responsabilità debitoria.
Precisamente, il debitore in mora non è liberato dalla sopravvenuta impossibilità della
prestazione in quanto si tratta di un evento che il tempestivo adempimento dell’obbligazione
avrebbe evitato, e che è quindi a lui imputabile.
Al debitore moroso è però dato provare che l'oggetto della prestazione sarebbe egualmente perito
presso il creditore (art. 12211 c.c.) o comunque che la prestazione sarebbe egualmente divenuta
inutilizzabile da parte del creditore.
Carattere sicuramente eccezionale deve riconoscersi alla previsione normativa che impone in
ogni caso al debitore di pagare il valore della cosa illecitamente sottratta (art. 1221 2 cc). Il codice
ha ampliato la vecchia formula, limitata all'ipotesi di cosa «rubata» (art. 1298 c.c. 1865), ma la

207
spiegazione della deroga rimane comunque legata alla tradizione storica dello sfavore verso il
furto.

8. - Rimedio generale contro l'inadempimento è il risarcimento del danno.


Il risarcimento del danno è il ristoro pecuniario del pregiudizio causato dall’inadempimento
(risarcimento per equivalente) o la sua rimozione diretta (risarcimento in forma specifica).
Il significato del danno si specifica in tre distinte nozioni. Il danno può essere anzitutto inteso
come evento lesivo, ossia come il risultato materiale o giuridico in cui si concreta la lesione di un
interesse giuridicamente tutelato.
Il danno può poi essere inteso come effetto economico negativo, cioè quale pregiudizio
patrimoniale che l'evento lesivo determina a carico del creditore.
In un terzo significato il danno può ancora essere inteso come l’ammontare pecuniario del
pregiudizio economico.
Il danno quale effetto economico negativo consiste nel danno emergente e nel lucro cessante
(art. 1223 c.c.). Il danno emergente è definito dal codice come la «perdita subita dal creditore».
Esso designa quindi la diminuzione della sfera patrimoniale del creditore conseguente
all'inadempimento.
Il danno emergente comprende, tra l'altro, il valore del mancato conseguimento della
prestazione, la diminuzione di valore della prestazione a causa della difettosità o mancanza di
qualità del bene che ne è oggetto, l'importo delle spese rese necessarie dall 'inadempimento, ecc.
Il lucro cessante è il guadagno patrimoniale netto che viene meno al creditore a causa
dell'inadempimento.
Si tratta di un danno normalmente futuro, che richiede in ogni caso una ragionevole certezza in
ordine al suo accadimento , e che deve spesso valutarsi in via equitativa.
Ipotesi di lucro cessante è, ad es., il mancato conseguimento dei frutti del bene a causa della
temporanea mancata disponibilità di esso, la perdita o diminuzione della capacità di guadagno,
ecc.

9. - Elemento costitutivo del diritto di risarcimento del danno è il nesso di causalità


intercorrente tra l’inadempimento e il danno.
Il nesso di causalità è quella relazione tra due eventi che identifica l’uno come conseguenza
dell’altro.
Il nesso di causalità tra inadempimento e danno è previsto dalla norma che sancisce la
risarcibilità di tutti i danni che sono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento (art.
1223 c.c.). La norma si applica anche alla responsabilità extracontrattuale (art. 2056 1 c.c.) e
riguarda sia l'evento lesivo sia gli effetti economici negativi.
La sussistenza del nesso causale dev’essere verificata in primo luogo in base al criterio della
condizione necessaria. Il criterio della condizione necessaria (o condicio sine qua non) identifica
la causa in tutti quei fatti senza dei quali un dato effetto non si sarebbe verificato.
Il nesso di causalità è ulteriormente determinato sulla base di criteri legali rispondenti a varie
teorie.
La teoria sul nesso di causalità accolta dalla giurisprudenza è quella della regolarità causale.
Secondo questa teoria il danno è conseguenza del fatto quando ne costituisca un effetto normale.
Il nesso causale è per altro riscontrabile anche quando il danno causato dal fatto non sia un
effetto normale sussiste un nesso causale tra fatto e danno quando il danno è la realizzazione di
un rischio specifico creato da quel fatto.
Rischio specifico di un evento è quello che lo rende probabile o che aggrava apprezzabilmente il
pericolo del suo verificarsi. Es.: chi trasmette un virus causa la malattia che da quel virus
eventualmente si sviluppi.
Il nesso di causalità può essere interrotto dal fatto del terzo o dal fatto del danneggiato. Il fatto
del terzo e il fatto del danneggiato interrompono il nesso di causalità quando si pongono come

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cause del danno indipendenti dalla causa originaria.

10. Se il fatto colposo del danneggiato ha concorso a produrre il danno, il risarcimento è


diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate: è
questo il principio del concorso di colpa del danneggiato (art. 12271 c.c.).
Ai fini del concorso di colpa del danneggiato rileva il fatto obiettivamente colposo a prescindere
dalla incapacità del danneggiato.

11. – Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando
l’ordinaria diligenza (art. 12272 c. c. ).
Questa regola non va confusa con la regola sul concorso di colpa del danneggiato.
Il concorso di colpa del danneggiato concerne il danno che il fatto obiettivamente colposo del
danneggiato concorre a causare: la regola del danno evitabile attiene invece al danno che ha
causa esclusiva nell'inadempimento o nell'illecito ma che il dovere di correttezza impone al
danneggiato di evitare.
Il dovere del danneggiato di cooperare per limitare la responsabilità del danneggiante rientra nel
generale dovere di correttezza, quale impegno di solidarietà che impone alla parte di
salvaguardare l'utilità dell'altra nei limiti di un apprezzabile sacrificio.
Un esempio tipico di doveroso intervento del danneggiato per evitare il danno è quello che
consiste nell'adottare misure idonee per limitare il propagarsi del fuoco appiccato dal
danneggiante.
Il dovere di evitare il danno non rileva nell'ipotesi di danneggiato interdetto o comunque
incapace d'intendere o di volere in quanto il dovere di correttezza presuppone la consapevolezza
della situazione che rende doveroso un certo intervento e l'idoneità del soggetto a determinare la
propria condotta.

12. - La compensazione del lucro col danno è il principio secondo il quale la determinazione del
danno risarcibile deve tenere conto degli effetti vantaggiosi per il danneggiato che hanno
causa diretta nel fatto dannoso.
Il principio non è espressamente sancito dal codice, ma esso è riconosciuto dalla giurisprudenza
come regola vigente in tema di risarcimento.
Es.: a causa del ritardo del debitore pecuniario il creditore è costretto a ricorrere al
finanziamento bancario, corrispondendo interessi che riducono il suo reddito imponibile
(l'esempio è tratto da C. 29 maggio 1990, n. 5045).
La rilevanza del lucro ai fini della compensazione col danno presuppone che il vantaggio sia
causato dall'inadempimento o dall'illecito e dev'essere inerente al bene o all'interesse leso.
Non rileva quindi, tra l'altro, un vantaggio che sia stato semplicemente occasionato
dall'inadempimento o dall'illecito.

13. - Il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi al tempo in cui è sorta
l’obbligazione (art. 1225 c.c.).
Il criterio della prevedibilità del danno ha fondamento nel principio del limite di normalità del
sacrificio imposto al debitore per il soddisfacimento dell’interesse del creditore e per il suo
risarcimento.
La regola della prevedibilità del danno vale appunto a contenere l'obbligo di risarcimento in
relazione al normale significato di utilità che la prestazione rappresenta per il creditore.
Il limite della prevedibilità del danno non vale nel caso in cui l'inadempimento sia doloso. Qui
l'inapplicabilità del limite si spiega in quanto il dolo esclude il fondamento della norma, esclude
cioè l'esigenza stessa di un proporzionamento del risarcimento in relazione ai limiti di normalità
dell’impegno economico assunto dal debitore.
Danno prevedibile è il danno di cui è probabile l'accadimento secondo un giudizio normalmente

209
diligente.
Il giudizio di prevedibilità del danno va riferito al tempo del sorgere dell'obbligazione.

14. - Il creditore e la vittima dell'illecito civile possono chiedere il risarcimento dei danni futuri.
Danni futuri sono quei danni di cui si prevede con ragionevole certezza il verificarsi in un
tempo successivo alla domanda di risarcimento o alla sentenza.
Tipica ipotesi di danno futuro è il danno che i congiunti della persona uccisa risentiranno nel
corso del tempo per il mancato apporto dei contributi assistenziali da parte della vittima.
I danni futuri non sono generalmente accertabili nel loro preciso ammontare, e lo stesso loro
accadimento, pur essendo ragionevolmente certo, è comunque basato su un calcolo di
probabilità. La valutazione di tali danni procede quindi di regola in via equitativa (vedi n. 16).

15. - Rispetto al danno futuro va distinta l'ipotesi della perdita di un'occasione favorevole
(chance). Tale perdita costituisce un danno attuale, che è risarcibile se e in quanto l'occasione
favorevole sia funzionalmente connessa alla cosa o al diritto leso.
Chi, ad es., è illegittimamente escluso da un concorso pubblico perde l'occasione di vincere il
concorso stesso.
Diversamente dal danno futuro, derivante da un evento che dovrà accadere, il danno attuale, da
perdita di occasione favorevole è un danno determinabile in via equitativa in ragione della
maggiore o minore probabilità dell'occasione perduta.

16. - Il danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare è determinato dal giudice
con valutazione equitativa, cioè secondo equità (art. 1226 c.c.).
L'equità ha qui il significato di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza
sul danno: la valutazione equitativa è, precisamente, un giudizio di mediazione tra le probabilità
positive e negative del danno effettivo. Estranei a tale giudizio sono i fattori che non incidono sul
danno, come ad es., le facoltose condizioni economiche del danneggiante.
Affinché si proceda a valutazione equitativa occorre che l’evento lesivo sia certo ma sia incerta la
sua estensione o l'estensione dei suoi effetti economici negativi.
La valutazione equitativa non deve sopperire all'inerzia del danneggiato. Se il danneggiato, pur
avendone la possibilità, omette di provare elementi utili per la
determinazione del danno, il giudice deve tenere conto solo degli elementi provati e di quegli
elementi che per la loro notorietà non hanno bisogno di prova.

17. - Danno non patrimoniale è la lesione di interessi non economici, ossia la lesione di interessi
che alla stregua della coscienza sociale sono insuscettibili di valutazione economica.
Il codice sancisce la regola della risarcibilità dei danni non patrimoniali «solo nei casi
determinati dalla legge» (art. 2059), cioè principalmente nei casi di danni derivanti da reato.
L'intervento della Corte costituzionale ha dato il via al superamento del limite sancito dal codice
civile e al riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale là, dove si tratti della
lesione di diritti fondamentali della persona. Il primo riconoscimento si è avuto con riguardo al
danno biologico (n. 18).

18. - Tra i danni che pregiudicano interessi fondamentali dell'uomo un rilievo particolare merita
il danno biologico, ossia il danno alla salute rappresentato dalle lesioni dell’integrità psicofisica.
In termini di danno biologico rilevano pertanto invalidità, menomazioni, deturpazioni,
impotenze sessuali, malattie nervose, insonnia, alterazioni mentali e qualsiasi altra lesione -
invalidante o meno - della realtà corporale e mentale della persona, senza riguardo alle
conseguenze economiche. Danno alla salute, in particolare, è anche il danno psichico, distinto
rispetto alla sofferenza morale (o patema d'animo).
L'attuale orientamento sulla risarcibilità del danno biologico si conforma all'indicazione data

210
dalla Corte costituzionale in una sentenza del 1986.
Posta dinanzi al problema della legittimità costituzionale della norma sul danno morale (art.
2059 c.c.), in quanto preclusiva del risarcimento del danno biologico, la Corte rispondeva
negativamente assumendo che la norma, rettamente interpretata, non esclude la normale
risarcibilità delle menomazioni della persona. Tali menomazioni, infatti, costituiscono lesioni
materiali del bene-persona, distinte rispetto ai danni morali, cioè alle sofferenze morali, cui
solamente va applicata la regola della risarcibilità, limitata ai casi previsti dalla legge.
Al riconoscimento della risarcibilità del danno biologico ha fatto seguito il riconoscimento della
risarcibilità dei danni da lesione degli altri diritti della personalità.

Il risarcimento del danno biologico è determinato in via equitativa mediante un prudente


apprezzamento dei vari fattori incidenti sulla gravità della lesione (età, possibilità di recupero,
ecc.).
L'esigenza di uniformare per quanto possibile i criteri di valutazione del danno biologico ha
portato all'emanazione di disposizioni in tema di responsabilità civile da circolazione di veicoli
che hanno ancorato l'entità del danno risarcibile alla percentuale di invalidità della vittima.
Utilmente utilizzate sono poi le compilazioni di 'tabelle' indicative delle prassi seguite in materia
dai vari tribunali.
Rispetto ad danno biologico si distingue il danno esistenziale, quale deterioramento della qualità
della vita.
Al danno esistenziale si tende a riconoscere rilevanza solo in quanto pregiudizio derivante dalla
lesione di un diritto della personalità.

19. - Il creditore ha diritto ad essere risarcito del danno per equivalente o in forma specifica, se
ne ricorrono le condizioni (art. 20581 c.c.). Il risarcimento in forma specifica è la diretta
rimozione della lesione e delle sue conseguenze.
Il risarcimento del danno in forma specifica è pur sempre un rimedio risarcitorio, ossia una
forma di reintegrazione dell'interesse del danneggiato mediante una prestazione diversa e
succedanea rispetto al contenuto del rapporto obbligatorio o del dovere di rispetto altrui. Esso
non va pertanto confuso col rimedio dell'esecuzione forzata in forma specifica quale strumento
per l'attuazione coercitiva del diritto (ad. es.: si tratta di risarcimento in forma specifica se il
creditore chiede l'abbattimento del muro che il debitore era obbligato a non elevare; si tratta di
esecuzione forzata se il creditore agisce in via esecutiva per fare costruire il muro che il debitore è
obbligato a costruire).
Il risarcimento in forma specifica incontra il limite della eccessiva onerosità. Il giudice può
infatti disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente se il risarcimento in forma
specifica risulta eccessivamente oneroso per il debitore (art. 2058 2 c.c.), ossia se comporta un
costo largamente sproporzionato rispetto all'entità economica del danno e al vantaggio
concretamente apportato al danneggiato.
La scelta tra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente spetta al creditore.
Se per altro il debitore offre il risarcimento in forma specifica, il rifiuto di tale offerta sarebbe
contrario a buona fede, perché precluderebbe al debitore di conseguire un risultato utile che non
comporta per il creditore un apprezzabile sacrifico, e che anzi è normalmente più adeguato al
fine risarcitorio.

20. - Nelle obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro la mora comporta a carico del
debitore l'obbligo degli interessi (art. 1224 1 c.c.). Questi interessi prendono il nome di interessi
moratori.
Gli interessi moratori hanno funzione risarcitoria: essi costituiscono, precisamente, una
liquidazione forfettaria minima del danno da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie.
Gli interessi moratori sono dovuti di regola nella misura legale anche se il creditore non prova di

211
avere sofferto un danno.
La pattuizione di interessi compensativi in misura superiore a quella legale importa un
automatico adeguamento degli interessi moratori alla superiore misura convenzionale (art. 1224 1
c.c.).
21. - Il creditore pecuniario che ha subito un danno maggiore di quello risarcito dagli interessi
moratori può pretendere l'ulteriore risarcimento, ma in tal caso deve dimostrare il danno
sofferto (12242 c.c.).
Si rientra in tal modo nella regola generale che pone a carico del danneggiato l'onere di provare il
danno di cui reclama il risarcimento.
Il ritardo può causare al creditore pregiudizi diversi in forma di lucro cessante (es.: mancato
impiego del denaro in un investimento vantaggioso) o di danno emergente (es.: maggiori
interessi pagati per reperire a mutuo la somma durante il ritardo) (art. 1223 c.c.).
Uno specifico danno cui è esposto il creditore pecuniario è quello della svalutazione, nel
significato corrente di deprezzamento della moneta o di perdita del suo potere di acquisto.
Questo danno costituisce un rischio gravante sul creditore quando esso si verifica prima della
mora del debitore.
Il danno da svalutazione conseguente alla mora è, invece, un pregiudizio che il ereditare subisce
a causa dell'inadempimento del debitore, cioè un pregiudizio specificamente connesso al ritardo
nell'adempimento e che il ereditare non avrebbe subito se il debitore avesse rispettato il termine
della prestazione.
Con la sentenza n. 19499 del 16 luglio 2008, la Cassazione ha innovato il precedente
orientamento enunciando il principio che nelle obbligazioni pecuniarie il maggior danno da
svalutazione è riconoscibile in via generale e presuntiva per qualunque creditore. La presunta
entità di tale danno è stata indicata nella eventuale differenza tra il tasso di rendimento medio
annuo dei titoli di Stato non superiore a 12 mesi e il saggio agli interessi legali.
Per quanto attiene al danno subito dal lavoratore per il ritardato pagamento della retribuzione,
la riforma del rito del lavoro del 1973 ha sancito che nel condannare il datore di lavoro al
pagamento delle somme dovute, il giudice «deve determinare, oltre gli interessi nella misura
legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo
credito» (art. 4293 c.p.c.), applicando a tal fine l'indice ISTAT dei prezzi dei beni di largo
consumo (art. 150 disp. att. c.p.c.).

22. - La clausola penale è il patto che determina in via preventiva e forfettaria il risarcimento
del danno per il ritardo o per l'inadempimento dell’obbligazione (13821 c.c.).
La prestazione stabilita dalla clausola penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno.
Il creditore non ha quindi l'onere di provare il danno subito né, d'altro canto, può pretendere il
risarcimento del danno ulteriore, salvo che sia stato diversamente convenuto. Da parte sua il
debitore non può utilmente provare che il danno effettivo è inferiore all'ammontare della penale.
Una penale eccessiva può però essere equamente ridotta dal giudice, se l'obbligazione è stata "in
parte" eseguita o se il suo ammontare è "manifestamente eccessivo" avuto riguardo all'interesse
che il creditore aveva all’adempimento.
Funzione della clausola penale è quella della liquidazione preventiva del danno. Essa è infatti
diretta a fissare preventivamente e vincolativamente l'ammontare del risarcimento del danno.
Il creditore che domanda la prestazione principale non può esigere anche la penale e, viceversa,
se pretende quest'ultima non può esigere anche la prestazione principale (art. 1383 c.c.). La legge
vieta il cumulo delle due pretese in quanto la penale è diretta a risarcire l'interesse del creditore
leso dalla mancata prestazione, e non è quindi compatibile col conseguimento di quest'ultima.
Il cumulo di penale e adempimento è invece ammesso quando la penale sia stabilita
esclusivamente per il ritardo (art. 1383 c.c.) o per l'inadempimento di una singola obbligazione,
diversa da quella di cui si chiede l'esecuzione, o per una particolare inesattezza della prestazione.
La clausola penale « ha l'effetto di limitare il risarcimento alla prestazione promessa» (art. 1382 2

212
c.c.).
La limitazione del danno risarcibile nella misura della clausola penale non opera in favore del
debitore responsabile per dolo o colpa grave. L'interpretazione della norma sulla clausola penale
deve infatti essere condotta nel sistematico rispetto dei principi inderogabili dell'ordinamento, e
in particolare del principio che vieta il preventivo esonero del debitore da responsabilità per dolo
o colpa grave (art. 1229 c.c.).

23. - L'azione di adempimento è l'azione diretta ad ottenere la condanna del debitore


all'adempimento dell'obbligazione.
La sentenza non è costitutiva in quanto il debitore è già tenuto ad adempiere, senza che occorra
un provvedimento del giudice, ma non è neppure di mero accertamento, in quanto la condanna è
un comando che integra la fonte dell'obbligazione con effetti propri e principalmente con l'effetto
di assoggettare il debitore all'esecuzione forzata. L'azione di adempimento serve appunto in
primo luogo a far conseguire al creditore un titolo esecutivo (art. 474 s. c.p.c.). La sentenza di
condanna è inoltre titolo per iscrivere ipoteca giudiziale (art. 2818 c.c.).
Presupposti dell'azione di adempimento sono l'inesecuzione totale o parziale della prestazione, e
la sua imputabilità al debitore. Il primo presupposto attiene allo stesso contenuto della
domanda. La domanda di condanna è infatti diretta ad ottenere in via giudiziaria cioè che il
creditore non ha conseguito dal debitore in attuazione del suo diritto, ossia l'esecuzione della
prestazione.
L'azione di adempimento presuppone inoltre la responsabilità del debitore in quanto
l'impossibilità a lui non imputabile lo libera dall'obbligazione.
Nei contratti a titolo oneroso al creditore è offerta l'alternativa della risoluzione del contratto. La
domanda di adempimento non preclude questa scelta. Il creditore può infatti chiedere la
risoluzione del contratto pur dopo aver agito per l'adempimento (art. 1453 1 c.c.). La domanda di
risoluzione esclude invece l'ulteriore possibilità di agire per l'adempimento.

24. - La risoluzione del contratto per inadempimento è il rimedio che consente alla parte non
inadempiente di sciogliersi dal rapporto contrattuale inadempiuto.
La risoluzione è un rimedio specifico contro l'inadempimento imputabile del contratto e
s'inserisce pertanto nel quadro della responsabilità per inadempimento.
Fondamento della risoluzione per inadempimento è l'esigenza di tutelare l'interesse della parte a
non essere più vincolata da un contratto reso inattuabile o inaffidabile dal grave inadempimento
della controparte.
Secondo la previsione del codice, il rimedio della risoluzione è applicabile ai contratti « con
prestazioni corrispettive » (art. 14531 c.c.).
La risoluzione può essere giudiziale o per diffida.
Contro l'inadempimento dell'altra parte, precisamente, il creditore ha per legge la scelta tra
risolvere direttamente il contratto mediante diffida (diffida ad adempiere) ovvero risolverlo.
mediante domanda al giudice. Nel primo caso il contratto si scioglie per effetto di un atto di
parte, ossia dell'esercizio di un diritto potestativo sostanziale del creditore, e l'eventuale azione
giudiziaIe è quindi diretta ad accertare la già avvenuta risoluzione (n. 26). Nel secondo caso,
invece, il contratto si scioglie per effetto della sentenza, la quale ha pertanto efficacia costitutiva.
Il contratto non può essere risolto se l'inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza,
avuto riguardo all'interesse dell'altra (art. 1455 c.c.).
Ai fini della risoluzione del contratto l'inadempimento, oltre che grave, dev'essere imputabile al
debitore, ossia dev'essere un inadempimento di cui il debitore risponde.
Se infatti il debitore non risponde dell'inadempimento, ciò vuol dire che la prestazione è
divenuta impossibile per causa a lui non imputabile. In tal caso trova applicazione la risoluzione
per impossibilità sopravvenuta.
La domanda di risoluzione non può essere accolta quando il contraente che la propone sia a sua

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volta inadempiente. In tal senso è una costante massima giurisprudenziale che considera
l'inadempimento di una parte come elemento impeditivo del suo diritto di risolvere il contratto
per inadempimento dell'altra.

25. - La proposizione della domanda di risoluzione produce l'immediato effetto di precludere al


debitore di adempiere la sua obbligazione (art. 14533 c.c.).
L'accoglimento della domanda provoca lo scioglimento retroattivo del rapporto contrattuale
eccettuata l'ipotesi di contratti a prestazioni continuate o periodiche (art. 1458 1 c.c.). Lo
scioglimento retroattivo del contratto comporta il sorgere di obblighi di restituzione e di
rimborso che sono di massima regolati dalle norme dell'indebito (art. 2033 s. c.c.).
La risoluzione del contratto comporta l'obbligo della parte inadempiente di risarcire il danno
sofferto dall'altra.

La risoluzione del contratto per inadempimento non pregiudica i diritti acquistati dai terzi
(14582 c.c.). Qui non si distingue tra terzi di buona e di mala fede. Ciò che conta è piuttosto che
l'acquisto sia anteriore alla risoluzione.
In tema di risoluzione giudiziale occorre però tenere presente il principio secondo il quale la
sentenza fa stato nei confronti delle parti, dei loro eredi e dei loro aventi causa (art. 2909 c.c.;
art. 111 c.p.c.). In applicazione di questo principio la sentenza che risolve il contratto è efficace
anche rispetto al terzo che abbia acquistato dopo la proposizione della domanda di risoluzione:
in tal caso l'acquisto del terzo viene meno.
Altro principio da tenere presente è quello che attiene all'onere della trascrizione.
Se l'acquisto del terzo è soggetto a tale onere (art. 2643 s. c.c.), esso è opponibile alla parte che
risolve solo in quanto sia stato trascritto prima della trascrizione della domanda di risoluzione
(art. 14582 c.c.).

26. - La risoluzione su diffida è la risoluzione di diritto attuata direttamente dal creditore


mediante un atto di intimazione. Con la diffida il creditore dichiara sciolto il contratto se il
debitore non adempirà l'obbligazione entro un certo termine (art. 1454 1 c.c.).
La diffida è un atto negoziale in funzione di autotutela del creditore contro l'inadempimento.
Presupposti della risoluzione per diffida sono: l'atto di diffida comunicato per iscritto al debitore;
la congruità del termine ultimo fissato per l'adempimento; l'inadempimento di non scarsa
importanza imputabile al debitore.
La diffida deve fissare un termine congruo per l'adempimento, di regola non inferiore a 15 giorni,
e contenere la dichiarazione che il contratto s'intenderà risolto se il debitore non avrà adempiuto
entro il termine fissato.
Scaduto infruttuosamente il termine indicato nella diffida, il contratto si risolve di diritto senza
ulteriori formalità. Non occorre quindi agire in giudizio, salva, in caso di contestazioni, l'azione
di accertamento.
Gli effetti della risoluzione rispetto alle parti e rispetto ai terzi sono gli stessi effetti della
risoluzione giudiziale.

27. - La clausola risolutiva espressa è il patto mediante il quale le parti assumono un


determinato inadempimento a condizione risolutiva del contratto (art. 14561 c.c.).
L'inadempimento dedotto nella clausola risolutiva dev'essere un evento determinato. Non basta
quindi un generico riferimento all'inosservanza del contratto ma occorre che la clausola
risolutiva specifichi l'inadempimento in relazione alla singola o alle singole obbligazioni
contrattuali.
L'operatività della clausola non richiede invece che l'inadempimento sia grave. In quanto sono le
parti che collegano la risoluzione del contratto ad un determinato inadempimento, non vi è
spazio per una valutazione intesa a stabilire se un tale evento sia sufficientemente grave per

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giustificare l'effetto risolutivo.
La risoluzione del contratto ha effetto «quando la parte interessata dichiara all'altra che intende
valersi della clausola risolutiva» (art. 14562 c.c.).
L'atto col quale la parte si avvale della clausola ha natura negoziale e funzione di autotutela. Esso
è unilaterale e recettizio.

28. - Il termine essenziale è il termine di carattere perentorio, la cui inosservanza comporta


l'automatica risoluzione del contratto (14572 c.c.).
La risoluzione del contratto per violazione del termine essenziale presuppone che l'inosservanza
del termine sia imputabile al debitore e abbia il carattere della gravità.
La violazione del termine essenziale comporta lo scioglimento del contratto senza che a tal fine
sia necessaria una pronunzia giudiziale o un atto del creditore. Si tratta quindi di una risoluzione
automatica.
Quale rimedio contro l'inadempimento la risoluzione del contratto per violazione del termine
non è per altro una vicenda necessaria e al creditore è lasciata pur sempre la possibilità di tenere
fermo il contratto. Precisamente, entro i 3 giorni successivi alla scadenza del termine essenziale il
creditore può comunicare al debitore che intende egualmente esigere l'esecuzione della
prestazione (art. 15471 c.c.). Se il creditore non si avvale di questa facoltà il contratto è senz'altro
risolto.
In pendenza del suddetto termine legale di 3 giorni la parte inadempiente rimane obbligata ma
il creditore può legittimamente rifiutare il pagamento in quanto tale termine è ad esclusivo suo
favore.

29. - L'eccezione d'inadempimento è la facoltà della parte contrattuale di sospendere


l'adempimento se l’altra parte non esegue o non offre di eseguire controprestazione (14601 c.c.).
Presupposti dell'eccezione d'inadempimento sono: la corrispettività delle prestazioni e
l’inadempimento della controprestazione (14601 c.c.) o quanto meno la sua esigibilità (art. 1460 1
c.c.). L’eccezione è inoppobile se la controprestazione è inesigibile.
L’eccezione d’inadempimento è un potere di autotutela che ha per effetto quello di legittimare la
sospensione dell’esecuzione della prestazione da parte del contraente non inadempiente fino a
quando l’altro contraente non adempia la sua obbligazione.
L’interesse del creditore tutelato con l’eccezione d’inadempimento si specifica come interesse a
non privarsi della prestazione senza avere il vantaggio della controprestazione cioè a non essere
messo in una situazione di diseguaglianza rispetto alla controparte.
Funzione dell'eccezione d'inadempimento è dunque quella di garantire l'eguaglianza delle
posizioni delle parti nell'esecuzione del contratto.
L'eccezione non richiede il requisito della gravità dell'inadempimento.
L'eccezione d'inadempimento, infatti, non estingue il contratto ma ne sospende l'esecuzione,
permettendo al debitore di eliminare un'inesattezza della prestazione che, per quanto di lieve
entità, lo esporrebbe comunque al risarcimento del danno.
Il codice esclude espressamente che il creditore possa rifiutarsi di eseguire la sua prestazione se,
avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede (art. 1460 2).
Il rifiuto del creditore di eseguire la propria prestazione risulta contrario a buona fede nelle
seguenti ipotesi: a) l'eccezione comporta per il debitore conseguenze eccessivamente onerose; b)
l'inadempimento è di lieve entità e l'eccezione comporta l'estinzione dell'obbligazione
dell'eccipiente; c) l'eccezione pregiudica un diritto fondamentale della persona.

30. - L'eccezione d'insolvenza è la facoltà della parte contrattuale di sospendere l'adempimento


se le condizioni patrimoniali della controparte sono divenute tali da mettere in evidente
pericolo il conseguimento della controprestazione (art. 1461 c.c.).
La sospensione dell'adempimento è un autonomo rimedio cautelare, che non è diretto contro

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l'inadempimento ma contro il pericolo d'inadempimento della controparte.
Il rimedio, precisamente, tutela l'interesse della parte a non privarsi della prestazione a fronte
del serio pericolo di non ricevere la controprestazione. Analogamente all'eccezione
d'inadempimento esso ha quindi la funzione di garantire l'eguaglianza delle posizioni delle parti
nell'esecuzione del contratto.
Sebbene la legge non ne faccia esplicita menzione, anche l'esercizio del rimedio della
sospensione dell'adempimento dev'essere rispettoso del principio di buona fede.
I rimedi della eccezione d'inadempimento e d'insolvenza possono essere esclusi
contrattualmente mediante la clausola di previo pagamento, comunemente, conosciuta come
solve et repete. La clausola di previo pagamento preclude alla parte di « opporre eccezioni al fine
di evitare o ritardare la prestazione dovuta» (art. 1462 1 c.c.).
La preclusione concerne l'opponibilità delle eccezioni. La parte non perde quindi il diritto di
esercitare le azioni e le domande riconvenzionali né gli altri rimedi stragiudiziali contro
l'inadempimento.

31. - La caparra confirmatoria è una somma di denaro o una quantità di cose fungibili che una
parte dà a garanzia dell'esecuzione di un contratto, con l'intesa che in caso di suo
inadempimento l'altra parte potrà recedere dal contratto e trattenere definitivamente la
somma o le cose ricevute. La parte che ha dato la caparra può legalmente recedere dal contratto
in caso d'inadempimento dell'altra parte, e ha diritto di esigere il doppio della caparra versata
(art. 1385 c.c.).

La caparra confirmatoria si distingue nettamente rispetto a quella penitenziale. La caparra


penitenziale ha infatti la funzione di corrispettivo del diritto di recesso mentre quella
confirmatoria ha la funzione di rafforzamento del vincolo contrattuale.
La caparra assolve anzitutto una funzione di garanzia dell'obbligazione. La parte ricevente ha
infatti il potere di incamerare la caparra in caso d'inadempimento dell'altra. Per questo verso la
caparra può essere accostata alla cauzione.
Altra funzione della caparra confirmatoria è quella di autotutela, in quanto ciascuna delle parti
ha il potere di recedere dal contratto in caso di inadempimento della controparte. Non si tratta
qui del diritto di libero recesso conferito dalla caparra penitenziale (art. 1386 c.c.) ma di un
potere che consente alla parte non inadempiente di risolvere il contratto senza dover proporre
azione giudiziale o intimare la diffida.
Il potere di risolvere il contratto può essere esercitato solo sul presupposto di un inadempimento
imputabile e di non scarsa importanza.
Un'ulteriore funzione della caparra confirmatoria è quella di preventiva liquidazione del danno
subito dalla parte recedente, a causa dell'inadempimento dell'altra.
Col trattenere la caparra ricevuta o con l'esigere il doppio della caparra versata, la parte che
risolve il contratto limita infatti la sua pretesa all'importo della caparra. D'altro canto, la parte
inadempiente non può provare che il danno effettivo è inferiore all'importo della caparra. Sotto
tale aspetto può ravvisarsi un accostamento con la clausola penale.
Ma, a differenza della clausola penale, che fissa un limite al danno risarcibile vincolante per
entrambe le parti, la caparra costituisce una predeterminazione del danno che non vincola la
parte fedele. Essa consente infatti a questa parte di recedere dal contratto trattenendo la caparra
o pretendendo il doppio della caparra a totale soddisfacimento del suo diritto di risarcimento
oppure di risolvere il contratto per via giudiziale e di esigere il risarcimento del danno «regolato
dalle norme generali» (art. 13853 c.c.). In tal caso la parte fedele che ha ricevuto la caparra non
può incamerarla ma può ritenerla nei limiti della sua riconosciuta pretesa risarcitoria.

32. - L'impossibilità sopravvenuta del contratto per causa non imputabile alle parti dà luogo alla
risoluzione del contratto: il debitore è liberato in quanto l'impossibilità estingue l'obbligazione

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(art. 1256 c.c.), ma non ha più diritto alla controprestazione (art. 1463 c.c.).
La regola della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta non imputabile alle parti
è espressione del c.d. sinallagma funzionale, ossia del principio di interdipendenza delle
prestazioni nell'attuazione del contratto.
L'impossibilità temporanea estingue l'obbligazione se in relazione al titolo dell'obbligazione o
alla natura dell'oggetto il debitore non può essere più ritenuto obbligato o il creditore non ha più
interesse a conseguire la prestazione (art. 12562 c.c.).
Gli effetti della risoluzione per impossibilità sopravvenuta sono di massima medesimi effetti
della risoluzione per inadempimento, salvo per quanto attiene ai terzi aventi causa. La
risoluzione per inadempimento non pregiudica infatti i diritti acquistati dai terzi (art. 1458 2 c.c.)
mentre la risoluzione per impossibilità sopravvenuta obbliga i terzi acquirenti a titolo gratuito
nei limiti del loro arricchimento (art. 20381 c.c.).

33. - Nei contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita, la parte può chiedere la
risoluzione del contratto se la sua prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per eventi
straordinari e imprevedibili (14671 c.c).
Nei contratti a titolo oneroso l'aggravio consiste nella sopravvenuta grave sproporzione tra i
valori delle prestazioni, per cui una prestazione non è più sufficientemente remunerata dall'
altra: nei contratti a titolo gratuito l' aggravio consiste nella sopravvenuta grave sproporzione tra
il valore originario della prestazione e il valore successivo.
L'eccessiva onerosità dà luogo al rimedio della risoluzione del contratto; nei rapporti a titolo
gratuito essa dà luogo al rimedio dell'equa riduzione della prestazione divenuta eccessivamente
onerosa.
Fondamento della norma sull'eccessiva onerosità è l'esigenza di contenere entro limiti di
normalità l'alea dell'aggravio economico della prestazione, e precisamente l'esigenza di
salvaguardare la parte contro il rischio di un eccezionale aggravamento economico della
prestazione derivante da gravi cause di turbamento dei rapporti socioeconomici .
L'eccessiva onerosità non può essere invocata nei contratti aleatori per loro natura o per volontà
delle parti (art. 1469 c.c.).
Anche la disciplina normativa dei contratti tipici può regolare particolarmente i rischi connessi
all'esecuzione del rapporto. Così, nell'appalto privato gli aumenti del costo dei materiali e della
mano d'opera dovuti a circostanze imprevedibili sono a carico dell'appaltatore nella misura del
10 per 100, e a carico del committente per l'eccedenza (art. 1664 1 c.c.).

34. - L'azione surrogatoria consiste nel potere del creditore (surrogante) esercitare in luogo del
debitore (surrogato) i diritti che questi ha verso terzi e che trascura di far valere (art. 2900
c.c.).
Mediante la surrogatoria, precisamente, il creditore si sostituisce al debitore ed esercita, in via
giudiziale o stragiudiziale, i diritti del debitore medesimo.
Presupposti della surrogatoria sono: il credito del surrogante, l'inerzia del debitore nell'esercitare
i suoi diritti verso i terzi, il pericolo d'insolvenza.
Oggetto della surrogatoria sono i diritti di credito e i diritti potestativi del debitore, aventi
contenuto patrimoniale e carattere non strettamente personale.
Fondamento della surrogatoria è la tutela del creditore contro l’inerzia del debitore che
impedisce l’incremento della sua garanzia patrimoniale.
L'esperimento dell'azione non conferisce al creditore un particolare diritto sul bene acquisito,
che ricade nella garanzia generica dei creditori. Se il bene viene espropriato, il creditore
surrogante concorre insieme agli altri eventuali creditori senza godere, in quanto surrogante, di
un diritto di prelazione.
L'azione surrogatoria deve tenersi nettamente distinta rispetto all'azione diretta, mediante la
quale in determinati rapporti è consentito al creditore di soddisfare il proprio credito esigendo la

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prestazione che il terzo deve al debitore così, ad es., i dipendenti dell'appaltatore hanno azione
diretta contro il committente per conseguire quanto loro dovuto, fino alla concorrenza del debito
del committente verso l'appaltatore (art. 1676 c.c.).

35. - L'azione revocatoria consiste nel potere del creditore (revocante) di domande
giudizialmente che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del
patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni (art. 2901 1 c.c.).
Funzione della revocatoria è quella di tutelare il creditore contro gli atti dispositivi che mettono
in pericolo la garanzia patrimoniale del debitore.
Presupposti dell'azione sono: il credito del revocante, il pregiudizio arrecato dall'atto alle ragioni
del ereditare, la conoscenza del pregiudizio da parte del debitore e la conoscenza del pregiudizio
pure da parte del terzo se l'atto è a titolo oneroso (gli atti a titolo gratuito sono revocabili anche
se il terzo era in buona fede).
L’atto compiuto prima del sorgere del credito può essere revocato quando ricorre l’estremo della
dolosa preordinazione.
Effetto della revocatoria non è l’oggettiva reintegrazione del patrimonio del debitore ma
l'inefficacia relativa dell'atto. La revocatoria dell'atto comporta precisamente la sua
inopponibilità al creditore revocante mentre rispetto alle parti e rispetto agli altri creditori l'atto
revocato conserva la sua efficacia.
La legge fallimentare prevede in favore della massa dei creditori l'apposito rimedio della
revocatoria fallimentare (art. 64 s. l. fall.). Questo rimedio non ha carattere di esclusività. Il
curatore fallimentare può infatti domandare giudizialmente che gli atti compiuti dal debitore in
pregiudizio dei creditori siano dichiarati inefficaci secondo le norme del codice civile (art. 66 l.
fall.).

36. - La fideiussione è il negozio mediante il quale un soggetto, detto fideiussore,garantisce un'


obbligazione altrui, obbligandosi personalmente nei confronti del creditore (art.1936 1 c.c.)
La fideiussione si struttura come negozio unilaterale, in quanto si perfeziona con la sola
dichiarazione del fideiussore nei confronti del creditore garantito.
Il fideiussore è coobbligato solidale del debitore principale (1944 1 c.c.) e il creditore può
chiedergli direttamente il pagamento senza l'onere di rivolgersi prima al debitore principale,
salvo che sia diversamente stabilito mediante la concessione del beneficio dell’ordine o il
beneficio di escussione (mod. XVI bis, n. 2).
La funzione di garanzia della fideiussione è tipicamente caratterizzata dal principio di
accessorietà. Il principio di accessorietà si esprime in tre regole: l) la fideiussione non è valida se
non è valida l'obbligazione principale; 2) il fideiussore può far valere nei confronti del creditore
tutte le eccezioni opponibili dal debitore principale (tranne quella dell'incapacità); 3) la
fideiussione non può eccedere ciò che è dovuto dal debitore né può essere prestata a condizioni
più onerose.
La fideiussione può essere assunta per obbligazioni future e per obbligazioni condizionali, ma è
necessaria l’indicazione dell’importo massimo garantito (art. 1938 c.c., modif. dalla 1. 17 febbraio
1992, n. 154).
Il fideiussore che paga il debito è legalmente surrogato nei diritti che il creditore aveva verso il
debitore principale (art. 1949 c.c.) e ha diritto di regresso verso quest'ultimo (art. 1950 c.c.).

37. - Il mandato di credito è il contratto mediante il quale una parte assume l’incarico di fare
credito ad un terzo in nome e nell'interesse proprio (art. 1958 c.c.).
L'elemento caratterizzante del mandato di credito è costituito dal particolare contenuto
dell'incarico, ossia la concessione del credito al terzo. La concessione del credito al terzo implica
la stipulazione di un contratto di finanziamento (mutuo, apertura di credito, ecc.) tra il
mandatario e il terzo.

218
La disciplina del mandato di credito costituisce il mandante quale fideiussore del mandatario. E'
questa un'ipotesi di fideiussione legale, che pur essendo adeguata alla finalità contrattuale
prescinde dalla volontà delle parti.
Nel mandato di credito distinguiamo allora il rapporto di mandato intercorrente tra il mandante
e il mandatario. Questo rapporto è regolato di massima dalle norme sul mandato, integrate e
modificate da quelle particolari norme che risultano appropriate alla finalità creditizia
dell'incarico.
Nel mandato di credito distinguiamo poi il rapporto di fideiussione intercorrente per legge tra
mandante e mandatario. A tale rapporto si applicano le norme sulla fideiussione.

38. Il negozio autonomo di garanzia è un negozio atipico mediante il quale un soggetto


(normalmente una banca o una compagnia di assicurazioni) si obbliga a titolo di garanzia ad
eseguire a richiesta del creditore la prestazione dovuta dal debitore senza potere sollevare
eccezione alcuna in ordine al rapporto garantito.
Nel nostro ordinamento manca la previsione generale del negozio autonomo di garanzia, che non
rientra quindi tra i negozi nominati.
La sua ammissibilità si giustifica per altro in ragione della meritevolezza dell’interesse
perseguitato dal creditore, quello di poter contare su una promessa di pagamento sottratta a
contestazioni dilatorie attinenti al rapporto di valuta.
Gli abusi ai quali può dar luogo la garanzia autonoma hanno posto il problema della tutela del
debitore contro un distorto uso di tale strumento.
L’ipotesi dell’abuso può ravvisarsi quando risulti già certa l’inesistenza o l’estinzione del diritto
garantito. In tal caso, il creditore che si avvale della garanzia realizza non più l’interesse
all’adempimento sicuro e non ritardato bensì quello di appropriarsi di una prestazione non
dovutagli. Il comportamento è allora contrario al precetto di buona fede.

39. - La lettera di patronaggio, chiamata anche lettera di conforto o di gradimento o, con


l'espressione originale francese, lettre de patronage, è una dichiarazione mediante la quale un
soggetto (raccomandante) manifesta .là destinatario la propria posizione d'influenza su un
terzo (raccomandato) e l'intento di esercitarla al fine di mantenere la solvibilità.
Nella pratica la lettera di patronaggio può assumere vario contenuto, ma gli elementi
caratterizzanti che ne consentono di identificare una nozione autonoma sono: 1) l'esternazione
della posizione d'influenza e 2) l'intento, espresso o tacito, di far valere tale posizione in modo
che il raccomandato possa onorare i propri impegni.
La lettera di patronaggio non è una promessa del fatto del terzo né assunzione di una garanzia
giuridica. Conseguentemente, l’insolvenza del raccomandato non dà luogo a pretese di
pagamento nei confronti del raccomandante.
La dichiarazione di patronaggio può comunque comportare una responsabilità extracontrattuale
del raccomandante nel caso in cui egli vanti o faccia credere di avere una posizione d’influenza
in realtà inesistente (ad es., il socio di maggioranza aveva già ceduto la sua partecipazione
sociale). Può comportare poi una responsabilità contrattuale nel caso in cui il raccomandante
non adempia il suo obbligo di diligente controllo del raccomandato o non osservi gli altri
obblighi assunti, anche tacitamente, con la lettera (ad es., obbligo di avvertire il creditore circa
il venir meno della posizione d’influenza).

219
MODULO LII

La responsabilità extracontrattuale: l’illecito

1. L’illecito civile
2. Gli elementi costitutivi dell’illecito. Il fatto.
3. Il dolo.
4. La colpa.
5. I singoli aspetti della colpa.
6. Distinzioni e gradi della colpa.
7. La prova della colpa.
8. Il danno ingiusto.
9. I singoli oggetti della tutela extracontrattuale. I diritti fondamentali.
10. La libertà negoziale.
11. L’ambiente.
12. La proprietà.
13. Il possesso.
14. Il credito.
15. I diritti potestativi.
16. La famiglia.
17. L’impresa.
18. L’informazione.
19. Gli interessi penalmente tutelati.
20. L’integrità patrimoniale.
21. Il nesso di causalità.

1. – La responsabilità extracontrattuale è la responsabilità sancita a carico dell’autore del fatto


doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto (l’illecito civile).
Il principio generale della responsabilità extracontrattuale è enunciato dall’art. 2043 c.c. Questa
norma indica nell' obbligo del risarcimento del danno la fondamentale sanzione della
responsabilità extracontrattuale e identifica gli elementi costitutivi della generale figura
dell'illecito civile: l) il fatto, 2) il dolo o la colpa, 3) il danno ingiusto, 4) il nesso di causalità tra il
fatto e il danno.
Accanto alla figura generale dell'illecito si pongono figure speciali di responsabilità civile,
caratterizzate dalla particolarità del fatto lesivo, in quanto compiuto nell’esercizio di una
determinata attività (es.: esercizio di attività pericolose) o dalla particolarità del rapporto
intercorrente tra il responsabile e l'autore del fatto (es.: insegnante-allievo).

220
Le figure speciali di responsabilità civile possono ricondursi nello schema della responsabilità
aggravata, caratterizzata dalla presunzione di colpa o nello schema della responsabilità oggettiva,
caratterizzata dalla irrilevanza della colpa.
Può trattarsi anche di figure complesse riconducibili in parte alla responsabilità aggravata e in
parte alla responsabilità oggettiva.
Fondamento della responsabilità civile è la violazione del precetto di rispetto altrui (alterum non
laedere).

2. Primo elemento costitutivo della generale figura dell'illecito civile è il fatto.


Il fatto è la vicenda che causa il danno ingiusto.
Il fatto non consiste necessariamente in un’azione umana. Esso può ben consistere in una
vicenda della natura (es.: un'inondazione, l’aggressione di un cane, ecc.). Ciò che importa è che la
vicenda sia riferibile ad un autore, cioè ad un soggetto che l’ha provocata o che aveva il dovere di
impedire. In fattispecie particolari di illecito il soggetto può rispondere di una vicenda che ha
non posto in essere, ma che gli è imputata in ragione di un particolare collegamento di fatto o di
diritto (es.: il proprietario dell'edificio risponde della caduta di un cornicione dovuta a vizio di
costruzione).
Il fatto può essere istantaneo o permanente secondo che si esaurisca nella produzione istantanea
dell’evento dannoso o continui a causare il danno nel tempo (es.: immissione continuata di
sostanze nocive).

3. - Il dolo designa un particolare momento psicologico del fatto illecito, l'intenzionalità. Fatto
illecito doloso, precisamente, è il fatto intenzionale.
Requisiti specifici del dolo sono: 1) la volontarietà del fatto; 2) la consapevolezza della
conseguenza dannosa derivante dal fatto; 3) la consapevolezza dell'ingiustizia del danno.
Non occorre che il soggetto ponga in essere il fatto al fine di arrecare il danno, ma è sufficiente
che voglia commettere il fatto con la previsione del pregiudizio che il fatto stesso è idoneo a
produrre (c.d. dolo eventuale).
Se, invece, manca la previsione del danno ingiusto deve ritenersi che il fatto non sia più doloso,
in quanto l'intenzionalità riguarderebbe un fatto non dannoso, cioè un fatto che nella
rappresentazione psicologica del soggetto è lecito (es.: porto via e distruggo mobili ritenendo
erroneamente che siano di poco valore e che il proprietario abbia un vantaggio dallo sgombero
dei locali).
Quale elemento dell'illecito il dolo va distinto rispetto al dolo-vizio. Nel primo significato il dolo è
infatti un requisito psicologico dell'illecito mentre nel secondo il dolo è una tipica e autonoma
fattispecie d'illecito - il raggiro - che può rilevare come vizio della volontà contrattuale ed esso
stesso come fatto illecito produttivo di un danno ingiusto (la lesione della libertà negoziale).
Il dolo non è elemento essenziale della figura generale dell'illecito. Ad integrare l'illecito è infatti
generalmente sufficiente la colpa, poichè il responsabile ha di massima il medesimo obbligo
risarcitorio sia che ricorra il dolo sia che ricorra la colpa. Si parla pertanto di normale
equivalenza di questi due elementi, richiesti dal codice in alternativa (art. 2043: « Qualunque
fatto doloso o colposo ... »).

4. – Colpa è in generale l’inosservanza della diligenza dovuta. La colpa che qualifica il fatto
illecito è l'inosservanza della diligenza dovuta nella vita di relazione.
Sebbene la colpa sia indicata tradizionalmente come elemento psicologico dell’illecito,
occorre tener presente che essa ha ormai assunto un significato obiettivo, quale obiettiva non
conformità al modello di condotta diligente.
Intesa nel suo significato obiettivo la colpa conserva un ruolo centrale nella teoria dell'illecito. La
figura generale dell'illecito è infatti pur sempre identificata nel fatto «colposo», cioè in un fatto
valutato negativamente alla stregua dei parametri obiettivi della diligenza. Le ipotesi di respon-

221
sabilità senza colpa – cioè di responsabilità oggettiva – sono invece circoscritte nell'ambito di
specifiche previsioni normative.
La rilevanza della colpa ha ragione nell'esigenza di delimitare il dovere di rispetto altrui entro
limiti di normalità e ragionevolezza, e nella idoneità della diligenza ad offrire modelli di condotta
improntati a tali limiti.

5. – In relazione ai vari aspetti della diligenza la colpa si specifica nella incuria, nella
imprudenza, nella imperizia e nella illegalità (modulo XLII, n. 10).
L'incuria, o negligenza in senso stretto, consiste nel difetto dell'attenzione volta alla salvaguardia
altrui. L'incuria si manifesta nella carenza di quell'attenzione che occorre normalmente nella vita
di relazione o che è specificamente richiesta dall'ufficio del soggetto o dal tipo della sua attività
(es.: l'autista si fa sorprendere da un colpo di sonno e la vettura va fuori strada; la madre
disattenta lascia cadere il neonato dalla culla, ecc.).
L'imprudenza consiste nel difetto delle misure di cautela idonee a prevenire il danno.
Anche con riguardo all'imprudenza si distingue tra l'inosservanza delle comuni norme di cautela
(es.: accendere un fiammifero in prossimità di materie infiammabili) e l'inosservanza di cautele
specifiche, adeguate ad una particolare situazione o attività (es.: non adottare le misure di
sicurezza atte a scongiurare che lo sbandamento di una vettura in gara ferisca gli spettatori).
L’imperizia è l’inosservanza delle regole tecniche proprie di una determinata attività.
L’inosservanza delle regole tecniche può dipendere dalla carenza della preparazione del soggetto
o dalla carenza dei mezzi tecnici impiegati.
La illegalità quale momento della colpa consiste nella inosservanza delle norme giuridiche che
prevedono specifiche misure idonee ad evitare o diminuire il pericolo di danni ingiusti.
Ad es., il limite legale di velocità è una misura di salvaguardia della incolumità degli utenti della
strada. Pertanto, la circostanza che l’autore di un investimento stradale andasse a velocità
superiore al limite legale è rilevante per la qualificazione del fatto come colposo.

6. – La doverosa osservanza delle appropriate regole tecniche e legali connota l’attività


professionale, che richiede una diligenza adeguata alla natura dell’attività esercita, la diligenza
professionale (art. 11762 c.c.).
L’inosservanza della diligenza professionale con pregiudizio dei terzi designa la colpa
professionale mentre l’inosservanza della diligenza alla quale tutti i consociati sono tenuti nella
vita di relazione, designa la colpa comune.
La colpa, sia essa professionale o comune, si distingue in lieve o grave secondo il grado della
diligenza dovuta: la colpa lieve consiste nella inosservanza della normale diligenza; quella grave
consiste nella inosservanza della diligenza minima.
Ad integrare l'illecito è di regola sufficiente una colpa lieve, ossia l’inosservanza della diligenza
del buon padre di famiglia o del buon professionista.
Una tradizione risalente al diritto romano fa carico al soggetto anche di una colpa lievissima,
ossia della colpa che consiste nella inosservanza della diligenza massima (in lege Aquilia et
levissima culpa venit: D. 9.2.44 pr.).
Questa opinione non ha riscontro nelle legge, ma va tenuto presente che la normale diligenza,
pur senza giungere al tetto della diligenza massima, è sempre una diligenza di grado elevato. Il
riferimento al buon padre di famiglia, e nel campo professionale al buon professionista, esprime
l'idea non della mediocrità ma di uno standard assumibile a modello di condotta.
Eccezionalmente la responsabilità extracontrattuale può essere limitata ai casi di colpa grave,
ossia ai casi di inosservanza delle elementari regole di prudenza o delle elementari regole
tecniche di una data professione.
Questo limite è posto, ad es., a favore del vettore marittimo nel trasporto amichevole (art. 414
c.nav.).
La limitazione di responsabilità ai casi di dolo e colpa grave è sancita a favore del professionista

222
intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà
(art. 2236 c.c.). La limitazione è sancita nella disciplina del rapporto d'opera intellettuale, ma si
ammette comunemente che essa sia applica bile alla responsabilità extracontrattuale.
La norma è interpretata non come autorizzazione data al professionista di usare una diligenza
minore del normale, bensì nel senso che non è richiesta al professionista una perizia superiore a
quella ordinaria della sua categoria. Il professionista generico, cioè, non è responsabile se causa
un danno che solo lo specialista era in grado di evitare. Il professionista generico deve per altro
astenersi dall’eseguire prestazioni che presentano speciale difficoltà, salvo che ricorra un caso di
necessità e urgenza e non sia reperibile uno specialista (es.: per tentare di salvare la vita di un
infortunato, un medico esegue un’operazione rientrata nella competenza di un chirurgo
specializzato).
Se la tutela di determinati interessi altrui non ha carattere di ordine pubblico, la responsabilità
del soggetto può essere preventivamente esclusa per il caso di colpa lieve.

7. - Come la prova degli altri elementi costitutivi dell'illecito, la prova della colpa è a carico del
danneggiato. In ciò si riscontra una delle più vistose differenze della responsabilità
extracontrattuale rispetto a quella contrattuale, dove è il debitore che ha l'onere di provare la sua
mancanza di colpa.
Va però rilevato che l'ingresso delle varie figure di responsabilità aggravata ha avuto luogo
attraverso l'inversione dell'onere probatorio in ordine alla colpa: inversione che incide sulla
tutela sostanziale sia in quanto ne agevola l'esercizio sia in quanto fa gravare sull'autore del
danno il rischio della causa ignota.
Il problema dell'onere probatorio è poi risolto in radice nelle figure di responsabilità oggettiva,
che prescindono dal requisito della colpa.
Al di fuori delle ipotesi di responsabilità aggravata e oggettiva il danneggiato deve dimostrare la
colpa dell'autore del danno, deve cioè provare che il danneggiante non ha osservato la diligenza
dovuta. Questa prova può tuttavia essere data anche mediante una presunzione di fatto ogni qual
volta si tratta di un danno normalmente evitato da una condotta diligente. Se, ad es., la mia
valigia cade su un viaggiatore ferendolo, potrà presumersi che essa era stata malamente
sistemata nell'apposito vano, senza che occorra dare la prova specifica della carente
sistemazione, ossia della mia colpa.

8. - Terzo elemento costitutivo dell'illecito civile è il danno ingiusto. Danno ingiusto è la lesione
di un interesse giuridicamente tutelato nella vita di relazione.
Il danno è elemento costitutivo dell'illecito civile perché il fatto è vietato in quanto lesivo di
interessi altrui. Per qualificare il fatto come illecito non occorre tuttavia che il danno si sia già
verificato, essendo sufficiente che il fatto sia causalmente idoneo a produrre il danno. La norma
che vieta di ledere l'altrui interesse ha infatti per oggetto il fatto in quanto causa di danno, e il
porre in essere quel fatto integra già l'illecito, ancor prima che il danno si sia verificato. Prima di
tale momento è quindi possibile fare ricorso ai rimedi preventivi, volti a inibire il fatto dannoso.
Solo con la produzione del danno sorge però l'obbligo di
risarcirlo. La produzione del danno, precisamente, è la vicenda in cui si realizza il fatto illecito
come fonte dell’obbligo di risarcimento.
Interessi giuridicamente protetti nella vita di relazione sono
anzitutto gli interessi tutelati dai diritti della personalità. Giuridicamente protetti sono poi gli
interessi economici tutelati dai diritti reali e dai diritti di credito.
Al di fuori di questi diritti si è andata affermata la crescente esigenza di rispetto della sfera
familiare, professionale e giuridica della persona. Altri interessi hanno quindi trovato tutela
nella vita di relazione attraverso specifiche norme civili e penali o attraverso il riconoscimento
giurisprudenziale della loro meritevolezza espresso direttamente mediante il riconoscimento
della risarcibilità della loro lesione.

223
Tenendo conto dei dati normativi e degli orientamenti giurisprudenziali, occorre procedere ad
una puntuale verifica dei singoli oggetti della tutela giuridica nella vita di relazione.

9. - Gli interessi tutelati in via primaria nella vita di relazione sono gli interessi fondamentali
della persona, ossia gli interessi che formano oggetto dei diritti della personalità.
Interessi della persona già riconosciuti nella tradizione civilistica come oggetto di tutela
extracontrattuale sono quelli attinenti all'integrità fisica, all'onore, alla libertà sessuale, al
nome, all'immagine, alla paternità morale delle opere dell'ingegno.
La clausola generale costituzionale che sanziona la tutela dei diritti fondamentali della
persona (art. 2) ha poi consentito il riconoscimento di diritti che non hanno una specifica
previsione nel codice o nella stessa Costituzione, ma che rispondono a sicure istanze della
società (riservatezza, identità personale, ecc.).
La tutela civile dei diritti fondamentali pone per altro due principali problemi. Il primo
concerne i limiti che i singoli diritti incontrano nel rispetto di altri prevalenti interessi altrui.
I limiti sono a volte puntualizzati dalla legge, come per il diritto all'immagine. In mancanza,
essi vanno desunti da una valutazione obiettiva degli interessi in conflitto alla stregua della
coscienza sociale. Significativi, al riguardo, gli spunti offerti dalla giurisprudenza in tema di
diritto di cronaca.
Altro problema attiene alla risarcibilità delle lesioni dei diritti fondamentali. Un risultato
ormai acquisito è il riconoscimento giurisprudenziale della risarcibilità del danno alla salute
e all'integrità fisica (c.d. danno biologico) in sé e per sé considerato, a prescindere dalle
conseguenze economiche negative. Analogo risultato s'impone anche con riguardo alla
lesione degli altri diritti della personalità (modulo I, n. 17).
Da segnalare, ancora, l'ulteriore tutela riconosciuta al nome e all'immagine di persone
famose contro l'altrui sfruttamento commerciale.

10. - La libertà negoziale, quale diritto alla libera esplicazione dell'autonomia privata, è un
diritto tutelato nella vita di relazione contro le ingerenze dei terzi volte ad alterarne
l'esercizio.
La libertà negoziale, precisamente, è tutelata contro le ingerenze che integrano la
responsabilità precontrattuale (violazione dei doveri di buona fede, recesso ingiustificato
dalle trattative, mancata avvertenza circa la invalidità o inefficacia del contratto: art. 1337,
1338 c.c.).
La libertà negoziale è poi tutelata contro la violenza e il dolo. La violenza e il dolo rilevano
come vizi della volontà contrattuale comportando l'annullabilità del contratto e come illeciti
civili in quanto lesivi della libertà negoziale.
La giurisprudenza è giunta ad ammettere la tutela della libertà negoziale anche al di fuori
delle tradizionali ipotesi della violenza e del dolo. In particolare, si è riconosciuto il diritto di
risarcimento del danno in favore di persone indotte a concludere affari negoziali in base a
informazioni errate colposamente fornite da terzi. Indicazioni significative al riguardo sono
date dai casi di informazioni errate fornite da istituti di credito circa la solvibilità di
determinate persone o da soggetti attendibili circa la proprietà o l'autenticità di beni.
In un noto precedente giurisprudenziale, ad es., era stato venduto un quadro come opera di
un famoso artista. Lo stesso artista lo aveva autenticato come proprio. Il quadro risultava
tuttavia un falso e l'artista veniva condannato a risarcire il danno subito dal compratore, che
aveva confidato nella certificazione di autenticità erroneamente fatta dal presunto autore.
In un altro inedito caso giudiziario, titoli cambiari falsi erano stati negoziati grazie alla
dichiarazione di autenticità rilasciata dal presunto obbligato, che era convinto trattarsi di
altri titoli, da lui effettivamente sottoscritti.
Queste indicazioni confermano che la lesione della libertà negoziale costituisce un danno
ingiusto.

224
11. - Il drammatico fenomeno dell'inquinamento ambientale ha sollecitato da più parti
interventi pubblicistici per la tutela dell'ambiente.
Sul piano privatistico si è avvertita la crescente tendenza a riconoscere nella conservazione
dell'ambiente un valore costituzionale, ora inteso come un aspetto del diritto alla salute ora
come un autonomo diritto della personalità.
E’ tuttavia prevalente l’idea che il danno ambientale rilevi solo sul piano pubblicistico
trattandosi di un danno della collettività. Questa idea è sembrata avere un puntuale
riscontro nella legge 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell'ambiente e nel
successivo codice dell’ambiente (d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152). Tale codice sanziona infatti il
diritto di risarcimento in capo allo Stato (art. 311).
La legge non prevede analogo diritto di risarcimento per i singoli cittadini, ammessi solo a
«denunciare» i fatti dannosi.
La mancata previsione nella legge speciale del diritto di risarcimento non vale tuttavia a
negare la tutela civile dei singoli, sancita dalle norme comuni sull'illecito.
L'inquinamento non lede infatti semplicemente un interesse dello Stato ma colpisce
individualmente tutti coloro che vengono costretti a vivere in una situazione di degrado
ambientale. Ciascuno è leso individualmente in quanto l'ambiente è una condizione di vita
della persona.
Una domanda di risarcimento potrebbe tuttavia trovare accoglimento solo in quanto il
singolo dimostrasse di avere subito un danno particolare, eccedente quello sofferto come
partecipe della generalità degli abitanti della zona colpita. Il danno sofferto dalla generalità
degli abitanti deve infatti essere globalmente risarcito allo Stato, e le pretese risarcitorie dei
singoli verrebbero quindi a duplicare il danno risarcibile.
Al riguardo occorre per altro considerare che la tutela civilistica non si esaurisce nel
risarcimento del danno per equivalente e che un rimedio appropriato potrebbe dimostrarsi
l'azione inibitoria. Esemplare è al riguardo il codice peruviano dell'ambiente (legge 8
settembre 1990), che nel terzo paragrafo del titolo preliminare riconosce al singolo il diritto
di esigere l'applicazione dei rimedi contro il danno ambientale.

12. – La lesione della proprietà altrui mediante fatti dolosi o colposi integra la classica
ipotesi di danno ingiusto.
Oltre alla lesione dolosa o colposa della proprietà costituisce danno ingiusto la lesione
dolosa o colposa dei diritti reali di godimento su cosa altrui (superficie, usufrutto, uso,
abitazione). In questi casi la distruzione o il deterioramento della cosa arrecano danni
distinti al proprietario e al titolare del diritto reale limitato dando luogo a distinte pretese
risarcitorie in ragione del valore dei rispettivi diritti.
Danno ingiusto è, ancora, la lesione dolosa o colposa di diritti su beni immateriali (diritti di
autore, brevetti, ecc.).
Per quanto attiene, invece, ai diritti reali di garanzia, la legge non prevede una pretesa
risarcitoria del creditore nei confronti del terzo che distrugga o deteriori l'oggetto del pegno
o dell'ipoteca. Ciò si spiega in quanto il pegno e l'ipoteca sono diritti strumentali alla
realizzazione di un diritto di credito e il danno lamentato riguarderebbe in definitiva proprio
il mancato soddisfacimento di tale diritto.
In caso di distruzione o deterioramento della cosa soggetta a privilegio, pegno o ipoteca, il
codice prevede piuttosto che l'indennità dovuta dall'assicuratore si surroga alla cosa,
rimanendo vincolata al soddisfacimento dei creditori pignoratizi e ipotecari, i quali possono
far valere i diritti di prelazione secondo il loro grado (art. 2742 1 c.c.).
Al diritto di proprietà vanno equiparate quelle posizioni di "proprietà sostanziale", come
quelle dell'acquirente con riservato dominio e del locatario finanziario, le quali comportano
il rischio della perdita e distruzione del bene. Il risarcimento è quindi dovuto al compratore

225
o al locatario finanziario perché il danno si ripercuote direttamente sulla loro sfera giuridica.

13. - L'intendimento del possesso quale situazione di fatto, secondo le vedute della dottrina
dominante, pone il problema se lo spoglio costituisca danno ingiusto. La giurisprudenza si è
orientata per la soluzione positiva, indicando nello spoglio «un fatto illecito produttivo di
responsabilità civile», dando quindi per scontato che la lesione del possesso o della
detenzione qualificata integra un danno ingiusto.
La soluzione giurisprudenziale appare corretta. Essa risponde all'esigenza di non far subire
al possessore e al detentore qualificato le conseguenze economiche negative dello spoglio,
cioè di un fatto che l'ordinamento valuta negativamente sancendone la repressione
mediante l'apposito rimedio delle azioni possessorie e di reintegrazione. La previsione
normativa di un’azione esperibile nei confronti di qualsiasi terzo attesta che il possessore e
il detentore qualificato sono portatori di un interesse giuridicamente tutelato nella vita di
relazione. La tutela consiste nella possibilità di reprimere lo spoglio e le molestie mediante
condanna alla restituzione del bene (art. 1168 c.c.) e alla cessazione delle molestie (1179):
rimedi che presuppongono il divieto di tali fatti e l'antigiuridicità della lesione da essi
prodotta.
A questi rimedi deve allora aggiungersi il rimedio del risarcimento del danno, sempreché
ricorrano gli estremi della tutela possessoria e gli estremi del dolo o della colpa. Ma gli
estremi del dolo o della colpa sono presunti in quanto sono normalmente presenti nello
spoglio e nelle turbative del possesso.
Per quanto attiene al danno risarcibile, il possessore può lamentare solo le conseguenze
negative consistenti nella temporanea perdita o turbativa del godimento della cosa,
precisamente per il tempo in cui sono durati lo spoglio o la molestia. A sua volta l'autore
dello spoglio o della molestia potrebbe opporre il suo diritto reale sul bene. L'autore dello
spoglio non può opporre il suo diritto al fine di paralizzare l'azione possessoria, ma ben può
opporlo per respingere la pretesa risarcitoria dell'attore, cioè può opporre in compensazione
il danno ingiusto che egli, titolare del diritto reale, abbia sofferto in conseguenza della
lesione del suo diritto da parte del possessore senza titolo.
La giurisprudenza è giunta a riconoscere la tutela risarcitoria del possessore e del detentore
qualificato anche nell'ipotesi di distruzione o danneggiamento della cosa.
E’ tuttavia il proprietario che subisce il danno rappresentato dalla perdita o diminuzione di
valore della cosa. Ed è pertanto al proprietario che compete il risarcimento di tale danno.

14. La lesione extracontrattuale del credito è ipotizzabile come perdita del diritto e come
inadempimento provocato dal terzo: il terzo, ad es., carpisce la buona fede del debitore e
acquisisce la prestazione in luogo del creditore o distrugge l’azienda dell’imprenditore, che
non può più eseguire le obbligazioni assunte verso i clienti.
La tesi tradizionalmente nega senz’altro che la lesione del credito da parte del terzo dia
luogo a responsabilità extracontrattuale. Questa tesi è basata sull’assunto che identificava il
danno ingiusto solo nella lesione di diritti assoluti.
In dottrina si è andata tuttavia affermando la tesi opposta, che estende la tutela aquiliana ai
diritti di credito e che ravvisa il danno ingiusto nel pregiudizio di tali diritti.
La tesi che ravvisa il danno ingiusto nella lesione del credito ha avuto l’avallo della
Cassazione. Già con una famosa sentenza del 1971 (la n. 174 del 26 gennaio 1971), le Sezioni
Unite ebbero a ripudiare l’assunto che limita il danno ingiusto alle sole lesioni di diritti
assoluti. La sentenza dichiarò, precisamente, che “l’art. 2043 non pone la distinzione fra
diritti assoluti e diritti relativi “e che il danno ingiusto può aversi “anche in dipendenza della
lesione di un diritto relativo”.
La sentenza del 1971 riconoscendo che anche il pregiudizio del credito può integrare gli
estremi del danno ingiusto ha certamente segnato una svolta importante della

226
giurisprudenza. Sarebbe tuttavia inesatto ritenere che ai fini della responsabilità
extracontrattuale la lesione dei crediti vada parificata alla lesione dei diritti assoluti.
Le decisioni giurisprudenziali che ammetto il risarcimento del danno per lesione di diritti di
credito riguardano infatti i casi in cui il diritto inerisce ad un rapporto di famiglia, di lavoro
subordinato o di società, e il fatto lesivo è costituito dell’uccisione o da altre gravi lesioni
della persona che estinguono tali rapporti precludendo l’erogazione delle prestazioni
inerenti (con riguardo alla famiglia vedi più specificamente aventi, al cap. 15).
Si tratta quindi di casi circoscritti, in cui il risarcimento può anche prescindere
dall’esistenza di un diritto di credito (si pensi al risarcimento riconosciuto al familiare non
avente diritto agli alimenti e tuttavia stabilmente assistito dall’ucciso), e in cui sembrano
piuttosto acquistare rilevanza la particolarità dell’interesse leso (integrità del rapporto
familiare, aziendale o societario) e la gravità del fatto lesivo.
Al di fuori dei suddetti casi non può dirsi che le pretese creditorie debbano essere
diligentemente salvaguardate da parte di tutti i terzi, e che l’illecito sia quindi riscontrabile
anche nelle lesioni colpose del credito.
Poniamo, ad es., che A, proprietario di una vettura, si fosse obbligato a venderla a B e che C
la distrugga eseguendo una manovra errata. Mentre è certo che C è obbligato a risarcire il
danno subito dal proprietario della macchina è altrettanto certo che egli non è tenuto a
risarcire il danno subito da B, promissario acquirente, in conseguenza della intervenuta
impossibilità di adempimento dell’obbligazione assunta dal proprietario della vettura.
L’esclusione di questo obbligo risarcitorio trova un preciso riscontro nella norma dell’art.
1259 c.c., la quale prevede il subingresso del creditore nei diritti del debitore verso il terzo
che abbia reso impossibile la prestazione. Precisamente, se la prestazione avente ad oggetto
una cosa determinata è divenuta impossibile, in tutto o in parte, il creditore subentra nei
diritti spettanti al debitore in dipendenza del fatto che ha causato l’impossibilità e può
esigere dal debitore quanto questi abbia conseguito a titolo di risarcimento.
Il creditore, dunque, non ha una propria pretesa risarcitoria verso il terzo danneggiante.
Piuttosto, è il debitore che può vantare una pretesa risarcitoria se e in quanto sia stato leso il
suo diritto di proprietà o altro diritto reale sulla cosa.
Il danno ingiusto per lesione colposa del credito deve altresì escludersi nell’ipotesi in cui il
fatto abbia provocato o concorso a provocare l’insolvenza del debitore (al creditore potrà
spettare, se del caso, solo il rimedio dell’azione revocatoria).
Mentre non risultano precedenti giurisprudenziali di responsabilità extracontrattuale per
lesioni colpose del credito, si segnala l’orientamento che riconosce la responsabilità, per
trascrizione dolosa, cioè la responsabilità di colui che acquista un immobile con la
consapevolezza che esso è stato già alienato e col proposito di trascrivere per primo e privare
il primo acquirente del suo acquisto.
La responsabilità del secondo acquirente che “coopera” all’inadempimento dell’alienante
presuppone la rilevanza del dolo, che converte in un’illecita operazione perfettamente lecita
pur se dannosa per il primo acquirente (la prevalenza della trascrizione anteriore è infatti
prevista dalla legge: art. 2644 c.c.).
Nella responsabilità per trascrizione dolosa può ravvisarsi l’applicazione del principio che
in generale riconosce la responsabilità per la dolosa lesione del credito. Nell’esempio di cui
sopra, così, chi ha distrutto la vettura risponderà nei confronti del promissario acquirente se
il fatto era stata intenzionalmente commesso a danno di quel soggetto. Anche nell’ipotesi di
revocazione può ammettersi la responsabilità del terzo che abbia dolosamente partecipato
all’atto che ha reso insolvente il debitore.

15. – Come i crediti, anche i diritti potestativi sono di regola estranei alla responsabilità
extracontrattuale in quanto il contenuto di tali diritti si esaurisce nel potere di modificare
una determinata sfera giuridica altrui senza che a questo potere corrisponda una situazione

227
di obbligo né da parte del titolare della posizione passiva – su cui grava una mera
soggezione – né da parte di terzi. Il fatto che rende impossibile l’esercizio del diritto non dà
luogo pertanto ad un danno risarcibile (es.: il terzo distrugge colposamente la cosa che
costituisce oggetto di un diritto di riscatto).
Come per il credito e il contratto deve tuttavia ravvisarsi il danno ingiusto quando la
lesione del diritto potestativo sia il risultato dolosamente perseguito dal terzo.

16. – Un consolidato orientamento giurisprudenziale riconosce ai familiari della vittima di


uccisione il risarcimento del danno per la perdita delle prestazioni di assistenza o di
collaborazione che essi traevano dalla vittima.
In questa ipotesi i familiari sopravvissuti non fanno valere un diritto della vittima ma un
proprio diritto di risarcimento per un danno che essi hanno subito. In passato si è
ravvisato tale danno nella perdita del diritto agli alimenti, e la rilevanza di tale lesione è
stata quindi addotta come conferma della tutelabilità extracontrattuale dei diritti di
credito.
In realtà, la pretesa risarcitoria viene riconosciuta ai familiari sopravvissuti anche quando
non sussisteva un obbligo giuridico della vittima di corrispondere prestazioni alimentari o
di collaborazione, essendo sufficiente la ragionevole certezza che di fatto la vittima
avrebbe effettuato tali prestazioni. La pretesa risarcitoria prescinde dunque dalla lesione
di un diritto di credito. Si tratta piuttosto della lesione del vincolo familiare che legava il
danneggiato alla vittima.
La tutela di questo vincolo trova fondamento nella sua particolare rilevanza sociale,
sempre più avvertita anche con riguardo alla famiglia “di fatto”.
Il riconoscimento dei diritti di famiglia come diritti fondamentali dell’uomo apre la porta
alla risarcibilità del danno non patrimoniale conseguentemente alla loro lesione anche
nella particolare specie del danno esistenziale (danno lamentato, ad es., dal figlio per la
mancata assistenza morale da parte del suo genitore (Cass., 7 giugno 2000, n. 7713)).
L’ultimo esempio consente di puntualizzare che l’assistenza morale da parte del genitore è
un diritto fondamentale della persona e la sua violazione può dar luogo ad un danno
ingiusto risarcibile anche se di natura non patrimoniale.
Altri singoli obblighi inerenti al rapporto coniugale, invece non sono di massima diritti
fondamentali e la loro inosservanza non dovrebbe comportare la risarcibilità del danno
non patrimoniale. Il punto non è tuttavia sicuro.
Il risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale può ammettersi, piuttosto,
quando esso sia stato provocato da fatti lesivi di diritti della personalità del coniuge
incidenti sul rapporto familiare (il mobbing).
Rispetto ai terzi, la tutela risarcitoria dei rapporti familiari in genere fa fronte della
estinzione del rapporto familiare causata dalla uccisione del familiare ma anche a fronte
di altri fatti lesivi di diritti della personalità (lesioni personali, calunnie, ecc.) che incidono
sul rapporto familiare comportando un aggravio economico delle prestazioni assistenziali
(es.: spese mediche che i congiunti devono sostenere in conseguenza delle condizioni della
vittima) o perdita delle prestazioni alimentari dovute o stabilmente corrisposte o un
deterioramento della qualità della vita della vittima.
Riassumendo: il danno ingiusto va ravvisato 1) nel danno, patrimoniale e non
patrimoniale, conseguente alla violazione di diritti fondamentali della persona incidente
sul rapporto familiare; 2) nel danno conseguente alla inosservanza di obblighi familiari
aventi ad oggetto un bene essenziale della persona.

17. - L’impresa è oggetto di tutela nella vita di relazione con riferimento alla concorrenza,
all’immagine imprenditoriale e all’integrità aziendale.
La tutela della concorrenza è, precisamente, tutela della concorrenza leale. Essa trova un

228
esplicito e tradizionale riconoscimento normativo nel divieto degli atti di concorrenza sleale. Tale
divieto è per altro circoscritto agli atti contrari alla correttezza professionale posti in essere da
altri concorrenti.
L’interesse a non subire concorrenza sleale va quindi distinto rispetto al più ampio interesse
all’immagine o al buon nome dell’impresa, ossia alla reputazione di solvibilità e di serietà
commerciale. Il buon nome dell’impresa è giuridicamente tutelato contro gli atti di denigrazione
e i falsi allarmi di insolvenza.
Gli atti di denigrazione commerciale che integrano l’illecito civile consistono nella dolosa o
colposa diffusione di notizie false, idonee a discreditare l’impresa.
In un precedente giurisprudenziale inedito il nome di un imprenditore era stato erroneamente
incluso da notiziari televisivi e dalla stampa tra quelli di coloro che avevano prodotto e posto in
commercio vino contenente una sostanza gravemente tossica. In conseguenza di tale notizia
l’imprenditore aveva sofferto una drastica caduta di affari, ed era stato poco dopo dichiarato
fallito.
Causa del discredito dell’impresa può essere anche l’alterazione dei suoi prodotti. In altro
precedente giurisprudenziale sono stati ravvisati gli estremi dell’illecito extracontrattuale nel
comportamento di un rivenditore commerciale che aveva messo in vendita cosmetici di marca
con confezioni manomesse, ledendo la reputazione ‘dei prodotti’.
L’imprenditore può poi subire pregiudizio per atti che ne attestino o facciano temere un
inesistente stato d’insolvenza. Si segnalano al riguardo l’erronea pubblicazione di protesti
cambiari e la temeraria istanza di fallimento.
La tutela dell’impresa ha riguardo, infine, all’azienda. L’interesse che qui rileva è l’interesse
all’integrità dell’azienda, a prescindere dalla tutela che può spettare sui singoli beni a titolo di
proprietà, brevetto, marchio, possesso, ecc.
Atti suscettibili di ledere l’integrità aziendale sono la privazione di dipendenti e la sottrazione
delle invenzioni e tecniche di produzione.
La privazione dei dipendenti costituisce per l’imprenditore danno ingiusto se provocato con
frode o violenza o mediante atti di uccisione o lesione dell’integrità fisica.
La giurisprudenza giustifica questa soluzione fondandola sulla risarcibilità della lesione del
diritto di credito. Ma si tratta di un fondamento troppo ampio, che a rigore dovrebbe portare ad
ammettere il diritto di risarcimento ogni qual volta il creditore non possa avvalersi delle
prestazioni del suo debitore (es.: chi investe con la propria vettura un avvocato dovrebbe
risarcire il danno subito da tutti i clienti dell’investito, costretti a rivolgersi ad altro legale).
La soluzione discende invece dal particolare rapporto di appartenenza che lega il lavoratore alla
organizzazione in cui è inserito: il lavoratore dipendente non è un semplice debitore ma un
‘elemento’ stabile della struttura lavorativa (impresa, amministrazione, ecc.), e la sua ‘perdita’
costituisce una menomazione di essa, e un danno economico per il suo titolare.
In un primo tempo la risarcibilità del danno era stata subordinata al
requisito della ‘insostituibilità’ del lavoratore, dovendo cioè trattarsi di un rapporto fondato sulla
particolare fiducia o particolari qualità del dipendente. Ma il riferimento a questo requisito
voleva semplicemente ribadire che il datore di lavoro non può pretendere il risarcimento del
danno per il venir meno di prestazioni lavorative che può procurarsi da altri con eguale
vantaggio economico: ciò in applicazione della regola della non risarcibilità del danno evitabile
(art. 12272 c.c.).
Se si tratta di inabilità lavorativa di breve durata, la sostituzione non è normalmente attuabile, e
le voci di danno che il datore di lavoro può far valere sono quelle della corresponsione a vuoto di
retribuzioni e oneri previdenziali. Pur non avendo natura retributiva gli oneri previdenziali
ineriscono al rapporto di lavoro, e si tratta quindi di spese rese inutili dal fatto illecito che ha
impedito al lavoratore di eseguire la prestazione.
Altro rilevante aspetto della tutela dell’integrità aziendale è quello che attiene ai segreti
industriali, cioè invenzioni e tecniche di produzione (c.d. know-how) in possesso esclusivo

229
dell’imprenditore. La legge penale punisce la rivelazione del segreto industriale da parte di chi ne
venga a conoscenza per ragione del suo stato, ufficio, professione o arte (art. 623 c.p.).
La giurisprudenza ha svincolato l’applicazione della norma dai presupposti della brevettabilità
dell’invenzione (la novità e l’applicabilità industriale (art. 2585 1 c.c.)) giungendo a ravvisare il
bene tutelato nella libertà e riservatezza dell’attività scientifica, tecnica e inventiva.
Per quanto la norma penale sia ampiamente interpretata, la tutela che essa appresta è limitata
nei confronti di coloro che sono vincolati al segreto, mentre nell’ambito privatistico il know-how
esige di essere tutelato in generale contro lo spionaggio industriale.
Rileva al riguardo il divieto degli atti di concorrenza sleale, che colpisce chi si vale direttamente o
indirettamente di ogni mezzo non conforme ai principi di correttezza professionale e idoneo a
danneggiare l’altrui azienda (art. 2598, n. 3, c.c.).
In tale previsione rientra l’atto di appropriazione compiuto dal concorrente che abbia
commissionato a terzi la sottrazione abusiva o abbia acquistato da terzi il know-how
abusivamente sottratto.

18. – Tra i « nuovi » diritti tutelati sul piano della responsabilità civile, si segnala in dottrina il
diritto all’informazione.
Al riguardo va però detto che nella vita di relazione non sussiste un generale diritto
all’informazione da parte dei terzi.
Il dovere di dare informazioni agli interessati è sancito infatti solo in ipotesi particolari o a carico
di determinati soggetti. Ad es., la pubblica Amministrazione è tenuta a dare le informazioni
richieste dal giudice nel processo (art. 213 c.p.c.).
Al di fuori di specifiche previsioni normative può essere riscontrabile un dovere di informare,
non tuttavia come dovere autonomo ma come un aspetto della diligenza che occorre impiegare
per evitare un danno a terzi. Precisamente, chi crea un pericolo per persone o cose deve
adoperarsi diligentemente per salvaguardare i terzi contro tale pericolo anche mediante
un’adeguata informazione.
Già le fonti romane segnalavano l’esempio del potatore, il quale è responsabile per colpa
dell’uccisione del servo altrui causata dal ramo gettato giù dall’albero se non abbia provveduto
ad avvertire i passanti del pericolo (Iustianini Inst. 4.3.5).
Il dovere d’informazione come momento della diligenza volta a scongiurare il pericolo di danni è
stato particolarmente evidenziato dalla legge sulla responsabilità del produttore (24 maggio
1988, n. 224).
Quest’ultimo risponde infatti dei danni materiali causati dal prodotto difettoso, e prodotto
difettoso è quello che «non offre la sicurezza che si può legittimamente attendere tenuto conto di
tutte le circostanze, tra cui […] le istruzioni e le avvertenze fornite» (art. 5). Da tale previsione si
desume che il produttore ha il dovere di accompagnare la messa in circolazione del prodotto con
le informazioni utili ad evitarne un uso pericoloso.
E’ poi la buona fede che rende doveroso dare un’informazione utile nelle trattative contrattuali e
nello svolgimento del rapporto obbligatorio (art. 1338 c.c.).
Il riscontro del dovere d’informazioni in singoli momenti della diligenza e della buona fede
conferma l’insussistenza di un generale e autonomo diritto all’informazione da parte dei terzi.
Se si esclude un generale e autonomo diritto all’informazione si pone l’ulteriore problema se
sussista il diritto all’esattezza delle informazioni ricevute.
Il problema si specifica in relazione a due diversi ipotesi, secondo che si tratti di notizie fornite a
richiesta dell’interessato oppure di notizie diffuse da fonti di informazione al pubblico, i c.d.
mass media (giornali, radio, ecc.).
Con riguardo alle notizie rilasciate a richiesta dell’interessato va detto che l’informazione deve
essere esatta, in quanto l’esattezza dell’informazione è una qualità che – per usare il linguaggio
del codice del consumo – l’informato può ragionevolmente aspettarsi. L’informazione dev’essere

230
esatta sia che venga rilasciata da chi aveva o ha assunto l’obbligo di informare sia da chi ha dato
l’informazione a titolo di cortesia (quest’ultimo risponderà però solo per colpa grave).
Il più delle volte l’informazione inesatta non ha rilevanti conseguenze economiche negative. Le
cronache giudiziarie segnalano il rilevante danno costituito dalla concessione di crediti rimasti
insoluti, quando si tratti di crediti concessi a persone che una non veritiera informazione aveva
indicato come solvibili.
Con riguardo alla seconda ipotesi sembra – ma sul punto la dottrina è divisa – che l’inesattezza
della notizia rilasciata dalla stampa o da altre fonti di informazione al pubblico, non costituisca
di per sé un danno ingiusto. Manca, infatti un bene sufficientemente determinato che possa
ritenersi giuridicamente tutelato nella vita di relazione. Può allora spiegarsi come non vi siano
precedenti giudiziari relativi ad azioni risarcitorie basate sulla semplice non verità della notizia
diffusa da mass media.
La diffusione di notizie erronee può essere piuttosto fonte di responsabilità extracontrattuale in
ragione degli interessi che tramite tale diffusione possono venire colpiti.
Deve ammettersi, così, la ricorrenza dell’illecito civile quando la notizia erronea sia idonea a
causare pregiudizio a persone o cose. In tal caso il danno ingiusto è costituito dalla lesione di un
interesse protetto (salute, proprietà, impresa, ecc.) e la diffusione della notizia erronea integra
l’atto lesivo, doloso o colposo. Si pensi, ad es., ad un’opera enciclopedica che indichi come
commestibile un tipo di fungo mortalmente velenoso.
Deve ammettersi, in particolare, anche la responsabilità extracontrattuale per informazioni
erronee lesive della libertà negoziale, tali, cioè, da indurre il destinatario ad acquisire beni o
servizi che altrimenti non avrebbe acquisito o ad acquisire beni o servizi ad un prezzo superiore a
quello di mercato. A questo riguardo può segnalarmi, ad es., la pubblicità menzognera, che è
qualificabile come illecito civile non solamente in quanto costituisce concorrenza sleale ma
anche in quanto è lesiva della libertà negoziale dei consumatori.
Si rende pertanto esperibile il rimedio dell’azione inibitoria, volta a impedire l’ulteriore
diffusione di tale pubblicità.
Va inoltre tenuto presente che le informazioni su caratteristiche del bene fatte dal venditore o dal
produttore mediante dichiarazioni pubbliche anche pubblicitarie concorrono a integrare come
promessa di qualità del bene di consumo, onde l’assenza di tali qualità dà luogo ai rimedi contro
l’inadempimento.
Una particolare ipotesi di danno ingiusto è ravvisabile nel danno derivante da informazione falsa
o incompleta diffusa mediante il ‘prospetto’.
Il prospetto è un atto giuridico informativo, legalmente obbligatorio, concernente sollecitazioni
al pubblico risparmio, ossia offerte al pubblico o annunci pubblicitari relativi ad operazioni su
valori mobiliari. Il prospetto deve contenere informazioni sull’organizzazione, la situazione
economica e finanziaria nonché l’evoluzione dell’attività di chi propone l’operazione.

19. A norma del codice penale il reato che abbia causato un danno patrimoniale o non
patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che secondo le leggi civili
rispondono per il fatto di lui (art. 1852).
Questa disposizione esprime la diretta connessione esistente tra illecito penale e illecito civile,
nel senso che il bene protetto dal divieto penale è anche un bene civilmente protetto nella vita di
relazione.
Precisamente, chi commette reato commette per ciò stesso un illecito civile nei confronti del
soggetto portatore dell’interesse penalmente tutelato: la vittima del reato. La lesione
dell’interesse protetto dalla norma penale, dunque, costituisce danno ingiusto.
L’entità del risarcimento dipende poi dall’accertamento del danno derivante dall’illecito. In tale
accertamento rileverà il danno quale conseguenza economica negativa dell’illecito e, per il
disposto dell’art. 185 c.p., anche il danno non patrimoniale.

231
Le conseguenze economiche negative saranno risarcibili secondo il criterio generale, che non ha
un riguardo limitato ai danni « ingiusti » ma comprende tutte le perdite patrimoniali e i mancati
guadagni derivanti direttamente dall’illecito (art. 1223 c.c.).
Il nuovo codice di procedura penale regola le interferenze tra illecito penale e illecito civile sul
piano processuale accordando alla parte lese la scelta di massima tra l’esercizio dell’azione civile
nel giudizio penale – nel qual caso è lo stesso giudice penale che condanna al risarcimento del
danno – e l’esercizio autonomo dinanzi al giudice civile.
L’azione proposta dinanzi al giudice civile può essere “trasferita” nel processo penale fino a
quando il giudice civile non abbia emesso sentenza (art. 751).
Se la parte lesa non si avvale della facoltà di trasferimento o se ha esercitato l’azione quando non
era più ammessa la costituzione di parte civile (art. 791), il giudizio civile prosegue
autonomamente rispetto a quello penale.
Nei casi in cui l’azione sia stata proposta dopo la costituzione di parte civile o dopo la scadenza
penale di primo grado, il giudizio civile rimane per altro sospeso fino alla conclusione di quello
penale con sentenza non impugnabile (art. 753).
La sentenza penale passata in giudicato ha effetto anche rispetto all’autonomo giudizio civile o
amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno. Precisamente, la sentenza di
condanna ha efficacia di giudicato relativamente all’accertamento del fatto, della sua illicetià
penale e della sua imputazione causale al condannato. La sentenza ha efficacia di giudicato anche
nei confronti del responsabile civile che sia intervenuto o sia stato citato nel processo penale (art.
6511).
La sentenza penale di assoluzione, la quale accerta che l’imputato non ha commesso il fatto o che
il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una legittima facoltà,
ha efficacia di giudicato anche nel giudizio civile (o amministrativo) per le restituzioni e il
risarcimento. La sentenza fa stato nei confronti della parte lesa che si sia costitutiva o che sia
stata posta in condizione di costituirsi parte civile; non fa stato nei confronti della parte lesa che
abbia iniziato e proseguito l’azione in sede civile.

20. – La giurisprudenza della Cassazione ha talvolta ravvisato il danno ingiusto nella lesione del
«diritto all’integrità del patrimonio».
Una sentenza identifica senz’altro il diritto all’integrità patrimoniale nella libertà negoziale,
definendolo come «diritto di determinarsi liberamente nello svolgimento dell’attività negoziale
relativa al patrimonio».
Qui il danno ingiusto è dato dalla lesione della libertà negoziale.
In altra sentenza si afferma che la norma sull’illecito aquiliano tutela il diritto di ogni cittadino
“alla propria integrità patrimoniale”. Non è tuttavia spiegato in quale senso si parla di integrità
patrimoniale.
Letteralmente intesa, l’integrità patrimoniale sta a significare l’integrità del patrimonio, cioè del
complesso dei diritti di carattere economico spettanti alla persona. Ne consegue che la lesione
dell’integrità patrimoniale costituisce danno ingiusto in quanto lesione di uno dei diritti che
concorrono a formare il patrimonio.
La denominazione di diritto all’integrità patrimoniale non sembra dunque indicare un’autonoma
posizione giuridicamente tutelata, ed è opportuno evitarla per evitare occasioni di confusione.

21. – Fatto illecito è quello che “cagiona” ad altri un danno ingiusto (2043 c.c.). Elemento
costitutivo dell’illecito è quindi il nesso di casualità intercorrente tra il fatto e il danno.
La regola causale del danno è dettata in tema di inadempimento, e sancisce la risarcibilità del
danno emergente e del lucro cessante che siano conseguenza immediata e diretta
dell’inadempimento (1223 c.c.).
La norma è espressamente richiamata dalla disciplina dell’illecito civile ai fini della
“determinazione” del danno. Questa specificazione non pone alcun limite all’applicazione di una

232
regola che concerne tutta l’area del danno risarcibile, sia che si tratti del danno che integra la
lesione dell’interesse protetto sia che si tratti delle conseguenze economiche negative.
A tale norma deve quindi egualmente riportarsi la rilevanza del nesso causale tra fatto e danno
ingiusto e tra fatto e danno risarcibile.
Trattandosi di un requisito costitutivo dell’illecito, la prova del
nesso causale tra fatto e danno grava sul danneggiato.
Il danneggiato deve provare, precisamente, che il danno lamentato è stato provocato dal
danneggiante o comunque è derivato da un fatto imputato alla sua sfera giuridica.

MODULO LIII

La responsabilità extracontrattuale: i soggetti

1. I soggetti tutelati
2. La capacità extracontrattuale

233
3. La responsabilità solidale
4. La disciplina dei rapporti
5. Il regresso
6. Il fondamento.

1. – La nozione di danno ingiusto quale lesione di un interesse giuridicamente tutelato nella vita
di relazione consente d'intendere che la responsabilità extracontrattuale può sussistere nei
confronti di qualsiasi soggetto che pur senza avere piena capacità giuridica sia comunque
portatore di un tale interesse.
Soggetti passivi di responsabilità extracontrattuale sono quindi anzitutto le persone fisiche, a
prescindere dalla loro cittadinanza. Le persone fisiche possono essere vittime di illecito civile fin
dal momento del concepimento. Fin da tale momento, infatti, la persona è portatrice di interessi
che esigono l'altrui rispetto. In particolare, il nascituro concepito ha un diritto attuale
all'integrità fisica, e la violazione dolosa o colposa di tale diritto importa l'obbligo del
risarcimento del danno.
Soggetti passivi di responsabilità extracontrattuale possono poi essere gli enti giuridici, sia
persone giuridiche sia gruppi dotati di soggettività (società di persone, associazioni non
riconosciute, comitati senza personalità giuridica, consorzi, ecc.).

2. – Per capacità extracontrattuale s'intende l'idoneità ad essere soggetti attivi di responsabilità


civile. Tale capacità compete alle persone fisiche e agli enti dotati di soggettività giuridica.
La legge civile non fissa un limite di età per la capacità extracontrattuale ma assume l'incapacità
di intendere o di volere come esimente di responsabilità.
Come gli altri enti giuridici, anche gli enti pubblici rispondono degli illeciti compiuti dai loro
organi e dipendenti nell'esercizio delle relative funzioni.
La responsabilità degli enti pubblici per l'operato dei loro funzionari e dipendenti è
espressamente prevista dalla Costituzione (art. 28).
La norma costituzionale, precisamente, statuisce che i funzionari e i dipendenti dello Stato e
degli altri enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e
amministrative degli atti compiuti in violazione dei diritti, e che la responsabilità civile si estende
all'ente cui essi appartengono.
Questa formula potrebbe far pensare che la responsabilità degli enti pubblici sia stata prevista
come una responsabilità indiretta. In realtà, la responsabilità dei funzionari e dipendenti
pubblici non esclude che anche l'ente sia direttamente responsabile. Come per gli enti giuridici in
generale, occorre al riguardo distinguere tra atti compiuti dagli organi nell'esercizio delle loro
funzioni e atti compiuti dai dipendenti nell'esercizio delle loro incombenze. I primi sono atti
diretta mente imputati all' Amministrazione in virtù del rapporto organico; i secondi sono
direttamente imputati all' Amministrazione in virtù del principio di preposizione, quando
sussista un nesso di "occasionalità necessaria" tra le incombenze e la produzione del danno.

3. – Se il danno è imputabile a più persone, ciascuna è responsabile solidale per l'intero nei
confronti del danneggiato (art. 2055 cc).
Presupposti della responsabilità solidale sono l'unicità del danno e la sua imputabilità a più
persone. Occorre cioè che vi sia una pluralità di responsabili in relazione al medesimo evento
lesivo.
La responsabilità solidale non sussiste, pertanto, in presenza di azioni di più soggetti dalle quali
scaturiscano distinti effetti dannosi.
Ai fini della responsabilità solidale non occorre, invece, che le azioni concorrenti rientrino in un
piano unitario. Il nostro codice non richiede infatti un agire "comune". Sussiste dunque la
responsabilità solidale pur se ciascuno dei responsabili abbia agito autonomamente o abbia
ignorato l'agire dell'altro.

234
Ciò che rileva è piuttosto che il medesimo danno sia imputabile ai vari responsabili, anche se a
diverso titolo. Può quindi venire in essere responsabilità solidale tra chi risponde a titolo
contrattuale e chi risponde a titolo extracontrattuale, tra chi risponde per colpa e chi risponde
per colpa aggravata o per responsabilità oggettiva, ecc.
Ad es., in un precedente giurisprudenziale riguardante la triste vicenda di un ragazzo di nove
anni deceduto per folgorazione elettrica, è stata riconosciuta la responsabilità solidale dell’Enel
per omessa adozione delle opere di protezione della linea elettrica e del genitore della vittima per
mancata sorveglianza del figlio (Cass., 15 giugno 1973, n. 1760).
Nell'ipotesi di danno prodotto da più azioni, ciascuna azione si pone come causa in quanto abbia
concorso alla sua produzione, cioè in quanto ne abbia creato un rischio specifico. Il danno
costituisce allora la risultante del complesso delle azioni.
In presenza di fatti illeciti che si susseguono nel tempo la giurisprudenza applica il principio
della causalità efficiente. In base a questo principio la responsabilità per il danno ricade
esclusivamente su colui che lo abbia autonomamente provocato, se il suo fatto è ultimo nel
tempo e sufficiente a causare l'evento. Il principio va però coordinato con quello del rischio
specifico, dovendosi ravvisare la responsabilità solidale quando la causa prossima costituisca
attuazione di un rischio specifico creato dalla causa precedente. Es.: l'investimento provoca il
ferimento e il ricovero del guidatore: ne approfitta un ladro che ruba la vettura rimasta aperta e
incustodita.
Il concorso nella produzione del danno dev'essere specificamente provato dal danneggiato. A tal
fine non basta provare la mera presenza del singolo in un gruppo di persone se non è identificato
l'autore del danno.
Ad. es., non si prova quale delle due persone che si trovavano nel locale abbia appiccato il fuoco:
nessuna delle due può essere reputata responsabile.
La mancata identificazione del singolo autore del danno non esclude la responsabilità solidale
del gruppo quando il danno sia scaturito dall' azione comune di un gruppo di persone. L'attiva
partecipazione ad un'azione comune rende solidalmente responsabile il singolo in quanto la sua
partecipazione contribuisce a creare il rischio specifico di danno inerente a quell'azione. Es.: un
gruppo di persone irrompe in un locale, travolgendo e danneggiando i mobili che lo arredano.

4. – La disciplina dei rapporti interni ed esterni dei corresponsabili del danno extracontrattuale
è governata dai principi delle obbligazioni solidali.
In applicazione di tali principi il danneggiato può rivolgersi ad uno qualsiasi dei responsabili per
reclamare il pagamento dell'intero.
Il responsabile non può opporre al danneggiato le cause di liberazione personali ad altri
responsabili né può opporre le cause di esenzione di responsabilità personali ad altri coautori del
danno. Il responsabile sarà tenuto per l'intero e in via esclusiva, anche se, ad es., il fatto sia
imputabile anche ad un’altra persona, incapace tuttavia di intendere e di volere.
Sul responsabile viene in tal modo a gravare l'obbligo di risarcimento del danno anche per la
quota causalmente imputabile ad altro coautore del danno. Ma ciò appare coerente col
fondamento della regola della responsabilità solidale.
Nei rapporti interni le quote dei responsabili solidali si determinano in ragione della gravità delle
rispettive colpe e delle conseguenze che ne sono derivate.
La gravità della colpa è data dall'entità della diligenza violata: tanto meno sono osservate le
regole di prudenza, di legalità e di perizia, tanto più grave è la colpa del soggetto.
Il criterio di ripartizione della responsabilità tra più persone è lo stesso criterio che attiene alla
diminuzione del risarcimento del danno in caso di concorso del fatto colposo del danneggiato, e
la colpa è quindi da intendere come obiettiva negligenza.

5. – Chi ha risarcito il danno può agire in via di regresso contro gli altri responsabili nella misura
determinata dalla gravità delle rispettive colpe e dalla entità delle conseguenze che ne sono

235
derivate (art. 20552 c.c.): in mancanza di prova contraria le singole colpe si presumono uguali
(art. 20553 c.c.).

6. – La regola della responsabilità solidale, già enunciata dal codice civile del 1865 (art. 1156), ha
fondamento nella funzione propria della solidarietà passiva, ossia nella funzione di garanzia del
creditore. Il danneggiato è infatti garantito da ciò, che ciascun responsabile è tenuto anche per la
parte di danno causalmente imputabile agli altri corresponsabili. Il creditore può quindi
pretendere l'intero dall'uno senza essere pregiudicato dall'insolvenza, dalla non rintracciabilità o
dalla personale non imputabilità dell' altro.
La regola della responsabilità solidale costituisce pertanto un rafforzamento legale del rimedio
del risarcimento del danno.

MODULO LIV

Le esimenti di responsabilità

1. L'incapacità
2. Caso fortuito e forza maggiore
3. Lo stato di necessità
4. Segue. Presupposti
5. Legittima difesa
6. Segue. Presupposti
7. Consenso dell'avente diritto
8. Esercizio di un diritto
9. Ordine superiore

Le esimenti di responsabilità sono in generale le circostanze che escludono la responsabilità


dell'autore del fatto dannoso.
Le esimenti si distinguono in esimenti personali di responsabilità e in cause di esclusione
dell'antigiuridicità (o esimenti oggettive di responsabilità). Le prime non autorizzano il
compimento del fatto ma lo giustificano (incapacità, caso fortuito o forza maggiore, stato di

236
necessità). La vittima può quindi talvolta ottenere un indennizzo. Le seconde rimuovono invece
il divieto di legge e non consentono al danneggiato alcun rimedio (legittima difesa, consenso
dell'avente diritto, adempimento di un dovere legale, esercizio di un diritto, ordine superiore).

1. - L'autore del fatto dannoso è esente da responsabilità se al momento di commetterlo era


incapace d'intendere o di volere (art. 2046 c.c.).
Ricondotta la colpa ad una nozione oggettiva, quale non conformità ad un obiettivo modello di
comportamento diligente, deve ammettersi che anche il fatto dannoso dell'incapace è suscettibile
di essere qualificato colposo.
Fondamento della norma che esenta dalle conseguenze del fatto dannoso chi non è in grado di
intendere o di volere non è allora l'assenza di un elemento costitutivo dell'illecito ma una
primaria ragione di protezione dell'incapace.
L'incapacità naturale, precisamente, è un'esimente personale di responsabilità sancita a tutela
dell'incapace.
La norma che esenta da responsabilità l’incapace non merita le critiche che una parte della
dottrina le muove, reclamandone l’abrogazione. La norma va invece approvata perché il
principio di salvaguardia dell'interesse dell'incapace risponde ad un'esigenza sempre avvertita
dalla coscienza sociale.
Diversamente dalla disciplina della responsabilità penale, che sancisce l'incapacità legale del
minore che non abbia compiuto 14 anni (art. 97 c.p.), il codice civile non prevede un'esenzione
legale d'imputabilità per i minori al di sotto di una certa età.
L'età immatura della persona dovrà comunque essere tenuta in massimo conto
nell'accertamento della capacità d'intendere e di volere, che potrà essere esclusa anche in via
presuntiva con una valutazione che dovrà essere svolta in concreto tenendo conto, se del caso,
anche di altri fattori che incidono negativamente sulla formazione della personalità (isolamento
sociale, mancanza d’istruzione, ecc.).
All’esonero di responsabilità dell’incapace fa riscontro la responsabilità di chi è tenuto alla sua
sorveglianza (genitori, tutori, personale sanitario, ecc.).
Il sorvegliante è tenuto al risarcimento del danno causato dall’incapace, ma se il danneggiato
non ottiene il risarcimento, il giudice, considerate le condizioni economiche del danneggiato e
dell’incapace, può condannare quest’ultimo a corrispondere un’equa indennità (art. 20472 c.c.).

2. – Sicure esimenti di responsabilità sono il caso fortuito e la forza maggiore.


Caso fortuito e forza maggiore non hanno un diverso significato. Il primo termine (il caso
fortuito) evidenzia l'aspetto della imprevedibilità mentre il secondo (la forza maggiore) quello
della irresistibilità: ma questi due aspetti concorrono a delineare la medesima nozione di evento
imprevedibile e inevitabile alla stregua della diligenza dovuta (es. l’improvviso malore
dell’autista gli fa perdere il controllo della guida della vettura).

3. – Lo stato di necessità è una situazione di fatto che costringe il soggetto a compiere un fatto
lesivo del diritto altrui al fine di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla
persona, non volontariamente causato né altrimenti evitabile (art. 2045 c.c.) (es.: chi sta per
essere travolto dalle acque, per salvarsi entra nella casa altrui danneggiandone la porta
d’ingresso).
L'autore del fatto necessitato è esentato dall'obbligo di risarcimento del danno ma è comunque
tenuto al pagamento di un'indennità equamente determinata dal giudice.
Lo stato di necessità è particolarmente qualificato dal vantaggio che l'autore del fatto ne trae in
termini di salvezza. Da qui la specifica previsione normativa che esonera da responsabilità
l'autore del fatto necessitato ma non esclude l'esigenza di tutela dell'interesse del danneggiato
prevedendo a suo favore la corresponsione di un indennizzo.

237
La giurisprudenza accoglie la tesi dell'antigiuridicità del fatto necessitato, ravvisando in esso una
fonte di responsabilità, seppure "attenuata". Ciò comporta, tra l’altro, che chi subisce il fatto
necessitato altrui può legittimamente difendersi contro tale aggressione.
Occorre tuttavia distinguere tra lo stato di necessità che comporta il sacrificio di un altrui diritto
della personalità e lo stato di necessità che comporta il sacrificio di un altrui diritto economico.
La prima fattispecie va qualificata come esimente personale di responsabilità. Qui i diritti che
collidono appartengono entrambi alla sfera della personalità. In considerazione
dell'apprezzabilità del fine (la salvezza personale), l'ordinamento può allora tollerare il fatto
lesivo compiuto al fine della salvezza ma non può autorizzare il sacrificio dell'altrui diritto della
personalità. La lesione di un tale diritto costituisce pur sempre un fatto antigiuridico,
consentendo, tra l'altro, alla vittima di opporre la legittima difesa (es.: per evitare che la zattera
di salvataggio affondi getto in mare l’altro occupante, il quale può legittimamente difendersi
colpendomi a morte).
La seconda fattispecie va qualificata come causa di esclusione dell'antigiuridicità (vedi l’esempio
di chi entra in casa altrui per salvare la vita: in tal caso il proprietario non potrebbero
legittimamente colpendo per impedirgli di entrare).
Sia come esimente personale di responsabilità sia come causa di esclusione dell'antigiuridicità, lo
stato di necessità obbliga comunque ad indennizzare il danneggiato. Fondamento comune di tale
obbligo è un'esigenza di equità sociale che impone un esborso economico a carico di chi
consegue la salvezza personale sacrificando un diritto altrui.

4. – Presupposti dello stato di necessità sono: a) il pericolo attuale, involontario e inevitabile di


un danno grave alla persona; b) la strumentalità e c) la proporzionalità del fatto dannoso rispetto
alla salvezza.
a) Pericolo di un danno grave alla persona è la minaccia di un serio pregiudizio alla vita, alla
salute o all'integrità fisica. Secondo la prevalente opinione può integrare il danno grave alla
persona la violazione di qualsiasi diritto fondamentale.
Il pericolo rileva sia che riguardi la persona di chi agisce per la salvezza sia che riguardi un terzo.
Si parla in quest'ultimo caso di soccorso necessitato.
Quando il soccorso consista nell'assistenza di una persona ferita o altrimenti in pericolo il dovere
giuridico del soccorso ne costituisce un'autonoma e assorbente causa di esclusione
dell'antigiuridicità, che fa venir meno l'obbligo dell'indennizzo.
L'obbligo dell'indennizzo deve inoltre escludersi quando il pericolo riguarda lo stesso
danneggiato (per liberare una persona minacciata in casa sua dalle fiamme, rompo la porta
d'ingresso dell'edificio).
Il pregiudizio può derivare dal fatto dell'uomo o da un evento naturale. Deve comunque trattarsi
di un pregiudizio serio, tale cioè da giustificare o rendere socialmente tollerabile l'invasione della
sfera giuridicamente altrui al fine di ottenere la salvezza.
Seria deve essere anche la minaccia, nel senso che l'accadimento del pregiudizio deve apparire
come ragionevolmente probabile.
Secondo l'opinione prevalente in dottrina, l'esimente dello stato di necessità è applicabile anche
in presenza di un pericolo putativo, ossia di un pericolo inesistente che per errore il soggetto
reputa reale. Occorre per altro che si tratti di un errore scusabile.
Si ritiene ancora che, analogamente a quanto previsto dalla norma penale (54 2 c.p.), lo stato di
necessità non possa essere invocato da chi abbia un particolare dovere giuridico di esporsi al
pericolo.
Occorre poi che il pericolo non sia altrimenti evitabile, ossia che non possa essere scongiurato
mediante interventi rispettosi dell'interesse altrui.
Il pericolo non deve neppure essere stato « volontariamente causato» dall'autore del fatto
dannoso. Questa previsione va interpretata estensivamente nel senso che l'esimente non è
applicabile quando il pericolo sia stato posto in essere volutamente o colposamente.

238
b) Il fatto dannoso compiuto in stato di necessità dev'essere strumentale alla salvezza, deve cioè
essere posto in essere al fine di scongiurare il pericolo.
L'errore del soggetto sulla idoneità del fatto a procurare la salvezza non esclude l'applicazione
dell'esimente dello stato di necessità qualora si tratti di un errore scusabile, ossia non colposo.
c) Il fatto dannoso deve poi essere proporzionato al pericolo, secondo la previsione del codice
penale (art. 541).
La proporzionalità deve intendersi nel senso che l’interesse salvaguardato non dev’essere
sensibilmente inferiore per qualità e quantità all’interesse sacrificato.
A favore di chi subisce il fatto dannoso necessitato la legge sancisce l'obbligo di corrispondere
un'indennità la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice.
L'indennità è oggetto di un diritto del danneggiato. L'equo apprezzamento del giudice non
attiene infatti alla corresponsione dell'indennità ma esclusivamente alla sua misura.
L'indennità non si identifica col risarcimento del danno, volto all'integrale ristoro del
pregiudizio, ma la sua funzione è pur sempre risarcitoria in quanto si tratta di una somma di
denaro intesa a dare al danneggiato un compenso per il danno subito.
Carattere specifico di questa indennità è la sua misura equitativa, che è compito del giudice
apprezzare tenendo conto di tutte le circostanze rilevanti ai fini della determinazione di
un’indennità obiettivamente giustificata (situazioni economiche delle parti, particolare gravità
del pericolo evitato, particolare apprezzabilità della motivazione del fatto, in quanto, ad es.,
compiuto per la salvezza altrui, ecc.).

5. – Il codice sancisce la non responsabilità di chi compie il fatto dannoso per legittima difesa di
sé o di altri (art. 2044).
La legittima difesa è prevista anche dal codice penale, che stabilisce la non punibilità di chi
commette il fatto per esservi costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui
contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempreché la difesa sia proporzionata all'offesa
(art. 52).
La legittima difesa è quindi causa di esclusione dell'antigiuridicità. Chi reprime
l'aggressione altrui non compie un atto antigiuridico e non arreca un danno ingiusto.
Fondamento della norma sulla legittima difesa è un'elementare esigenza sociale di autotutela
privata da parte di chi non possa ricorrere tempestivamente alla giustizia o alle forze dell’ordine.
Già le fonti romane segnalavano la liceità di chi usa violenza per reprimere l'altrui violenza (vim
vi repellere licet).
L’aggressore non può quindi né pretendere di essere risarcito o indennizzato né a sua volta può
avvalersi della legittima difesa nei confronti dell’aggredito.

6. – Presupposti della legittima difesa sono: a) il pericolo attuale e inevitabile di un danno


ingiusto; b) l’aggressione altrui; c) la strumentalità e proporzionalità della difesa.
La legittimità difesa presuppone anzitutto il pericolo di un danno ingiusto, cioè che il difensore o
un terzo siano minacciati nella persona o nei beni.
Sebbene la formula del codice sia al riguardo limitativa, si ammette comunemente che è
legittimo reprimere l’altrui aggressione pur quando questa sia volta a ledere interessi economici
(es.: respingo con un bastone chi vuole appiccare il fuoco alla mia casa).
Il pericolo deve poi essere attuale, deve cioè costituire una minaccia presente, scaturente da
un’aggressione in corso.
Quando il pericolo è futuro o è già terminato, non vi è luogo per la legittima difesa.
Il pericolo deve inoltre essere inevitabile.
Sebbene la norma penale non menzioni il requisito della inevitabilità del pericolo, la difesa deve
reputarsi non legittima sia quando l’aggredito possa ricorrere al giudice sia quando possa
scongiurare il pericolo mediante espedienti che non comportino un apprezzabile sacrificio.
b) Altro presupposto della legittima difesa è l'aggressione antigiuridica proveniente da colui nei

239
cui confronti la difesa è esercitata. Per essere legittima la difesa deve cioè essere esercitata nei
confronti dell'aggressore. Chi arreca danno ad un terzo estraneo all'aggressione non può quindi
invocare la legittima difesa ma, se del caso, lo stato di necessità.
L'aggressione antigiuridica consiste in un'azione positiva indirizzata alla produzione di un danno
ingiusto. Anche il danno proveniente da cose o animali può integrare l'illecito a carico di coloro
che ne rispondono in qualità di proprietari o di custodi.
L'aggressione deve essere reale, poiché un'aggressione solo apparente non integra la fattispecie
della minaccia di un danno ingiusto. Una legittima difesa putativa, esercitata erroneamente
contro un'aggressione inesistente, esula dalla previsione normativa della legittima difesa.
L'apparenza dell'aggressione rileva per altro sul piano della colpa, escludendo la responsabilità
del difensore quando la realtà era insuscettibile di accertamento con l'impiego della normale
diligenza.
c) Presupposti della legittima difesa sono ulteriormente, la strumentalità e la proporzionalità
dell'azione difensiva.
La difesa dev'essere anzitutto strumentale all'offesa, nel senso che essa dev'essere volta a
neutralizzare l'aggressione.
Un'azione difensiva che vada oltre questo scopo e danneggi l'aggressore più di quanto sia
necessario per fermare o prevenire l'aggressione, rende il difensore responsabile del danno
arrecato. Il danneggiante risponde tuttavia solo del danno eccedente.
La difesa deve poi essere proporzionale all'offesa, come prevede la norma penale (art. 52).
La proporzionalità tra difesa e offesa va accertata in relazione ai contrapposti interessi, ed esige
che l'interesse difeso non sia sensibilmente inferiore per qualità e quantità all'interesse
dell'aggressore sacrificato dalla difesa.
Va infine rilevato che non può avvalersi della esimente della legittima difesa chi abbia provocato
lo stato d’ira di una persona e venga aggredito da questa (es.: A ingiuria B, il quale reagisce
tentando di ferire A; quest’ultimo si difende colpendo a sua volta B).
In questo caso l’aggressore è tenuto al risarcimento del danno ma la provocazione sarà valutabile
come concorso di colpa del danneggiato (art. 1227 c.c.). Lo stesso principio è applicabile
relativamente al danno subito dall’aggressore.

7. – Il consenso dell'avente diritto è l'atto mediante il quale il soggetto autorizza un fatto lesivo
del proprio diritto.
Il codice penale prevede espressamente la non punibilità di chi lede o mette in pericolo un diritto
col consenso della persona che può validamente disporne. Il codice civile non detta analoga
disposizione. Il silenzio di questo codice non è tuttavia di ostacolo a riconoscere nel consenso
dell'avente diritto una causa di legittimazione del fatto. Il consenso dell'avente diritto esclude
invero l'antigiuridicità del fatto in quanto l'autorizzazione a ledere un diritto rimuove il dovere di
rispettare il diritto stesso.
Secondo il generale principio dell'autonomia privata il consenso deve essere prestato da chi è
legittimato a disporre del diritto. Il consenso prestato dal non legittimato è inefficace.
Occorre poi che il soggetto sia capace.
Al riguardo va rilevato che la capacità legale e quella naturale assurgono a presupposti essenziali
dell'atto. Trova infatti applicazione analogica la norma penalistica, la quale identifica la
fattispecie del consenso dell'avente diritto nel consenso prestato da chi può validamente
disporne. Il consenso prestato dall'incapace, legale o naturale, esula da tale fattispecie ed è
quindi di per sé nullo.
Il consenso è inoltre nullo quando abbia ad oggetto diritti indisponibili. Indisponibili sono
generalmente i diritti della personalità. Questa indisponibilità non è tuttavia assoluta. Anche
beni come l'integrità fisica e la salute possono essere parzialmente sacrificati per soddisfare un
superiore interesse di solidarietà umana. Sotto questo aspetto può essere legittimo, ad es., il
consenso a sperimentazioni umane. Degli altri interessi personalissimi può ammettersi un atto

240
di parziale disposizione quando alla stregua della coscienza sociale esso soddisfi il prevalente
interesse di libertà individuale.
Chi, ad es., partecipa ad un incontro di pugilato autorizza per ciò stesso un'ingerenza che arreca
normalmente danni alla persona e non potrà quindi pretendere di essere risarcito per le lesioni
subite (salvo che siano state violate le regole che disciplinano quello sport e che i giocatori
s'impegnano ad osservare).

8. – L’esercizio del diritto fa parte delle tradizionali cause giustificative del fatto. Già le fonti
romane rilevavano che non arreca danno ingiusto chi esercita il suo diritto.
Chi esercita un diritto non è responsabile anche se lede un interesse altrui in quanto il titolare si
avvale di una posizione di vantaggio che gli è legalmente riconosciuta e che prevale sugli interessi
altrui eventualmente confligenti. Il diritto esclude quindi in radice l'antigiuridicità del fatto.
Occorre tuttavia che il titolare non travalichi i limiti del suo diritto: limiti che possono consistere
nei diritti altrui con cui il diritto proprio deve coesistere.
Occorre inoltre tenere presente che l'esercizio del diritto non può spingersi fino all'abuso.
Già il divieto degli atti emulativi, risalente alle fonti, indica come abuso l'esercizio del diritto
volto al solo scopo del pregiudizio altrui.
La rilevanza costituzionale del principio di solidarietà sociale consente di ampliare il concetto di
abuso, fino a ricomprendervi ogni atto di esercizio del diritto che sacrifichi un interesse altrui
senza essere giustificato da un apprezzabile interesse del titolare.

9. – Altra causa di esenzione della "punibilità" prevista dal codice penale è l'adempimento di un
dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità (art.
511).
Gli ordini della pubblica Autorità, legittimamente dotata di poteri di comando non sono esimenti
soggettive di responsabilità ma cause di esclusione dell’antigiuridicità del fatto. Il dovere legale
scaturente dall' ordine rende infatti per ciò stesso lecita la condotta tenuta in osservanza di esso.
Il giudizio di liceità discende, precisamente, dalla conformità della condotta al dovere legale, a
prescindere dalla considerazione della gravità della sanzione o della probabilità della sua
applicazione.
Se si tratta invece di ordini illegittimi o di ordini provenienti da autorità straniere possono
ricorrere gli estremi della forza maggiore, occorrendo allora valutare l’effettività e la gravità del
danno minacciato in conseguenza dell’inosservanza dell’ordine (es.: a chi si trova in territorio
straniero viene ordinato di partecipare ad un’aggressione armata).

241
MODULO LV

Responsabilità speciali

Responsabilità aggravata e responsabilità oggettiva.

Figure di responsabilità aggravata


 Responsabilità dei genitori.
 Responsabilità degli insegnanti.
 Responsabilità del sorvegliante per il fatto dell'incapace.
 Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose.
 Responsabilità per danno da cose in custodia.
 Responsabilità per danno da animali.

Figure di responsabilità oggettiva


 La responsabilità dei preponenti.
 Segue. Presupposti.
 Responsabilità per danni arrecati da velivoli a terzi sulla superficie.
 Responsabilità per danni nucleari.

Figure complesse di responsabilità oggettiva e aggravata

 La responsabilità del produttore.


 Responsabilità per danni da circolazione di veicoli.
 Segue. La responsabilità del conducente.
 Segue. Collisione di veicoli.
 Segue. La responsabilità del proprietario e del costruttore del veicolo.
 Segue L'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile.
 Responsabilità per danni da rovina di edificio.
 Responsabilità processuale

1. – La centralità della colpa quale elemento caratterizzante la generale figura dell'illecito


esclude che la responsabilità civile possa essere ricondotta alla regola dell'antico diritto
germanico: «chi fa un danno, deve risarcirlo».
Anche l'attuale ordinamento conosce tuttavia ipotesi di responsabilità oggettiva, ossia di
responsabilità che prescinde dalla colpa del responsabile. Queste ipotesi devono essere
messe in relazione al fenomeno della enorme potenzialità di danno che macchine ed
industrie hanno via via sviluppato.
Particolarmente significativa nell’attuale esperienza è la massificazione dei danni causati
dalle grandi e medie imprese, di fronte alla quale si è avvertita la crescente necessità di
una più intensa tutela dei danneggiati.
Il problema, generato dall'accresciuta esposizione al pericolo di persone e beni, non ha
trovato nella legge una soluzione generalizzata in termini di responsabilità oggettiva, ma
due tipi di soluzione, quella della responsabilità oggettiva, che prescinde dalla colpa e

242
quella della responsabilità aggravata, che pone la presunzione di responsabilità vincibile
con la prova del caso fortuito.
La responsabilità oggettiva rientra nella nozione e nella disciplina dell'illecito e ne mostra
il medesimo fondamento: la violazione del dovere di rispetto altrui.
La mancanza di colpa non incide su questo fondamento, poiché il responsabile ha
comunque provocato un danno che non doveva arrecare, ossia un danno ingiusto.
La colpa, si è visto, non è una condizione essenziale della illiceità ma un requisito obiettivo
che risponde all'esigenza di delimitare il dovere di rispetto altrui entro canoni di
normalità. Esigenza prevalente è però quella di tutelare i terzi anche contro fatti
incolpevoli di coloro che mediante attività o cose espongono gli altri ad un pericolo non
completamente evitabile pur con l'impiego della diligenza adeguata alla natura dell'attività
o della cosa. Qui trova appropriata applicazione la regola della responsabilità oggettiva
conformemente al principio di giustizia sociale secondo il quale il rischio di danni a terzi
inevitabilmente connesso ad un'attività o ad una cosa dev’essere sopportato da chi esercita
quell'attività o utilizza quella cosa.

Figure di responsabilità aggravata

2. – I genitori e i tutori sono rispettivamente responsabili dei danni causati dai figli minori
non emancipati e dalle persone soggette alla loro tutela, con loro conviventi (art. 2048 1
c.c.).
Questa previsione normativa va coordinata con quella che sancisce la responsabilità per il
fatto dannoso degli incapaci (art. 2047 c.c.). Il coordinamento va inteso nel senso che
genitori e tutori rispondono dei fatti illeciti compiuti dai figli minori, pur se persone
capaci d'intendere e di volere, mentre la norma sulla responsabilità dei sorveglianti
riguarda in generale coloro che in ragione della loro incapacità d’intendere o di volere
sono affidati alla vigilanza altrui.
I genitori sono entrambi responsabili in via solidale.
La responsabilità dei genitori è una responsabilità per fatto altrui a titolo di colpa
personale, e precisamente di colpa presunta. Questi soggetti sono infatti ammessi a
provare di non avere potuto impedire il fatto (art. 2048 3 c.c.). Il consolidato orientamento
giurisprudenziale intende questa prova come prova di avere adeguatamente sorvegliato ed
educato il minore: si afferma in tal modo l'idea che il dovere dei genitori di impedire il
compimento di illeciti da parte dei figli ha fondamento nel loro ufficio, ossia nei compiti
che la legge impone ai genitori in via primaria nell'interesse dei figli, ma anche a
salvaguardia dei terzi.
L'autonomia di vita che nel costume sociale il minore consegue col superamento della
fanciullezza esclude che possa farsi carico ai genitori di vigilare fisicamente il figlio. La
vigilanza consiste piuttosto nel controllare ed eventualmente vietare che il figlio
intraprenda attività illecite.
Il dovere di sorveglianza dei genitori rimane poi sospeso per il tempo in cui il minore è
affidato ad insegnanti o svolga un'attività lavorativa presso terzi.
Il comportamento del minore contrario alla regola di convivenza sanzionata dalla
responsabilità civile può tuttavia avere origine da una carente educazione, ossia dalla
violazione di uno dei doveri fondamentali dei genitori (art. 147 c.c.). Si spiega allora come
la giurisprudenza esiga dai genitori non solo la dimostrazione di avere adeguatamente
sorvegliato il minore ma anche la dimostrazione di avergli impartito una buona edu-
cazione. A tal fine i genitori devono dimostrare di avere curato l'osservanza dell'impegno
scolastico da parte del minore, con esiti positivi risultanti dalle valutazioni di buona
condotta, di essersi adoperati per sottrarre il figlio ad eventuali cause di corruzione, ecc.
Le stesse modalità del fatto, poi, possono essere indicative della sua estraneità ad una

243
culpa in educando dei genitori, come quando si tratti di un danno arrecato
accidentalmente nel normale svolgimento di un'attività che costituisca libera e lecita
esplicazione della personalità (es.: incidenti verificatisi per mera distrazione o imprudenza
durante una gita o una pratica sportiva).
D'altro canto, la gravità del fatto può confermare essa medesima la mancanza di
un'educazione e di una guida adeguata.

3. – Oltre ai genitori sono gli insegnanti a rispondere del fatto illecito del minore (art.
20482 c.c.). La norma indica come responsabili il «precettore» e coloro che insegnano
un'arte o un mestiere.
Al di là di questa formula angusta, che conserva una terminologia ormai superata, la
norma va riferita a tutti coloro che per ufficio pubblico o incarico privato impartiscono al
minore un insegnamento (culturale, tecnico, sportivo, artistico, ecc.).
Gli insegnanti sono responsabili per il fatto illecito degli allievi minori sottoposti alla loro
vigilanza. Analogamente alla responsabilità dei genitori, quella degli insegnanti è una
responsabilità indiretta per colpa propria. Essi rispondono per il fatto commesso da altri
(gli allievi), ma ne rispondono per avere violato il loro dovere di vigilanza.
La responsabilità degli insegnanti si basa su una colpa presunta, e cioè sulla presunzione
di negligente adempimento dell'obbligo di sorveglianza degli allievi, vincibile con la prova
di avere esercitato la vigilanza mediante l'adozione di tutte le misure necessarie e adeguate
in relazione all'età e al grado di maturazione dei giovani.
La colpa presunta degli insegnanti concerne anche il danno che l'allievo arrechi a sè stesso
in quanto l'obbligo di vigilanza è imposto in primo luogo a tutela dei minori loro affidati.
Risulta quindi inoperante il principio del concorso di colpa.

4. – L’incapace d'intendere o di volere è esonerato da responsabilità per il danno arrecato


a terzi (art. 2046 c.c.), ma in luogo dell'incapace risponde chi era tenuto alla sua
sorveglianza, salva la prova di non avere potuto impedire il fatto (art. 2047 1 c.c.).
Il codice vigente ha distinto in chiari termini, da un canto, la responsabilità dei genitori,
tutori e insegnanti, i quali sono tenuti nella loro qualità per i fatti dannosi compiuti dai
minori, anche se capaci d'intendere e di volere (e quindi responsabili in proprio) e,
dall'altro, la responsabilità dei sorveglianti e di tutti coloro che sono tenuti alla
sorveglianza di persone incapaci d'intendere o di volere, ossia di persone esenti da
responsabilità in ragione della loro incapacità.
Presupposti della responsabilità per il fatto dell'incapace sono precisamente:
1) il fatto obiettivamente illecito compiuto da persona incapace d'intendere e di volere e 2)
il dovere di sorveglianza dell'incapace.
La responsabilità per il fatto dell'incapace presuppone anzitutto che il danno sia stato
arrecato da quest'ultimo mediante un fatto obiettivamente illecito. Deve cioè trattarsi di
un fatto di cui l'autore non risponde in ragione esclusiva della sua incapacità d'intendere o
di volere.
Occorre poi che il responsabile sia tenuto alla sorveglianza dell'incapace.
Al sorvegliante è concesso provare “di non avere potuto impedire il fatto”.
Il sorvegliante potrà superare la presunzione di colpa dimostrando di avere adottato tutte
le cautele normalmente appropriate in relazione allo stato e alle condizioni dell'incapace.
Il danneggiato che non ottiene dal sorvegliante il risarcimento del danno, o per
l'insolvenza o per la mancanza di colpa di quest'ultimo, può chiedere che il giudice
condanni l'incapace a corrispondere un equo indennizzo (art. 2047 2 c.c.).

5. – Chi svolge un'attività pericolosa per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è
tenuto a risarcire il danno causato, salvo che provi di avere adottato tutte le misure idonee

244
ad evitare il danno (art. 2050 c.c.).
La giurisprudenza definisce come pericolose quelle attività che per la loro stessa natura o
per le caratteristiche dei mezzi adoperati comportano la rilevante possibilità del verificarsi
di un danno per la loro spiccata potenzialità offensiva.
Se il pericolo non è intrinseco all'attività o ai mezzi adoperati, ma deriva occasionalmente
dalla negligente modalità del suo esercizio, l'attività non va qualificata come pericolosa.
In applicazione di questi criteri la giurisprudenza ha considerato come pericolose: le
attività edilizie; la produzione e distribuzione di energia elettrica e di gas in bombole, la
produzione di farmaci, la caccia, gare di sci, spettacoli con lancio di bandiere, ecc.
La responsabilità presunta colpisce sia coloro che svolgono l’attività pericolosa sia coloro
che la gestiscono. Estranei a tale responsabilità sono invece utenti e committenti che si
avvalgono di attività altrui senza né eseguirle né gestirle.
Gli utenti che eseguono un'attività pericolosa gestita da altri sono responsabili nei
confronti dei terzi (e degli altri utenti), ma se essi stessi sono danneggiati la regola della
responsabilità presunta si applica a loro favore.
La responsabilità per attività pericolose presuppone ancora che il danno sia originato da
tale attività. Secondo le massime giurisprudenziali occorre che l'attività sia in atto al
momento della produzione del danno o che almeno si sia trasfusa in oggetti o abbia dato
luogo a situazioni dotate di intrinseca potenzialità lesiva.
Il presunto responsabile è esente da responsabilità se prova di avere adottato «tutte le
misure idonee a evitare il danno» (art. 2050 c.c.).
Chi esercita un’attività pericolosa può allora liberarsi, secondo l'interpretazione giurispru-
denziale, quando provi di avere adottato le cautele che sono normalmente adeguate, cioè
le misure di prudenza e di perizia che sono normalmente appropriate in relazione alla
natura pericolosa di una data attività e che si conformano alle prescrizioni tecnico-
normative che governano l'attività stessa. Così, ad es., è stata esclusa la responsabilità
dell'imprenditore edile per i danni arrecati a terzi da un cantiere che era stato recintato e
segnalato con appositi cartelli vietanti l'ingresso.
La prova liberatoria attiene dunque alla diligenza professionale, confermandosi che la
responsabilità per l'esercizio di attività pericolose è una responsabilità aggravata per colpa
presunta.
La norma sulla responsabilità aggravata a carico di chi esercita un'attività pericolosa trova
indifferenziata applicazione anche a carico degli enti pubblici.

6. – Chi ha in custodia una cosa risponde del danno originato da essa, salva la prova del
caso fortuito (art. 2051 c.c.).
Presupposti della responsabilità per danni da cose sono: la derivazione del danno dalla
cosa e la custodia.
Dottrina e giurisprudenza sono ormai concordi nell'escludere che la cosa debba avere il
requisito di un'intrinseca pericolosità. Si osserva infatti che anche cose normalmente
innocue possano essere fonti di danno. Ha perduto rilievo anche la distinzione tra cose
inerti e cose dotate di un proprio dinamismo.
Ciò che importa è piuttosto che il danno derivi dalla cosa, che sia cioè esplicazione della
sua concreta potenzialità dannosa o, secondo la definizione giurisprudenziale, della sua
idoneità al nocumento, intesa come idoneità a produrre lesioni a persone o cose per una
sua connaturale forza dinamica o per l'effetto di concause umane o naturali.
La custodia è il potere di effettiva disponibilità e controllo della cosa.
Custodi della cosa sono coloro - privati o enti pubblici - che ne hanno il possesso o la
detenzione, legittimi o abusivi. Anche i locatari e i concessionari sono quindi presunti
responsabili per i danni prodotti dalla cosa o dalle parti della cosa affidata alla loro
sorveglianza e manutenzione.

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La responsabilità del custode è una responsabilità basata su una presunzione legale di
colpa: presunzione che può essere vinta dalla prova che il danno è dovuto a caso fortuito.
La prova del caso fortuito è, precisamente, la prova che il danno si è verificato per un
evento non prevedibile e non superabile con la diligenza normalmente adeguata in
relazione alla natura della cosa (es.: improvvisa apertura di una buca stradale causata da
una scossa tellurica).

7. – Chi ha in proprietà o si serve di un animale, risponde del danno causato da questo,


anche se smarrito o fuggito, salva la prova del caso fortuito (art. 2052 c.c.).
Primo presupposto della responsabilità per danni da animali è che il danno sia
«cagionato» dall'animale: ciò è inteso nel senso che il danno deve essere conseguente al
comportamento dell'animale, con esclusione quindi dei casi in cui l'animale è un corpo
inerte o mero veicolo d'infezioni.
Unanime interpretazione reputa irrilevante il requisito della pericolosità dell'animale: la
responsabilità presunta opera anche se il danno proviene da animale di indole mansueta.
Il dettato normativo richiede come secondo presupposto la proprietà o l'uso dell'animale:
dei danni risponde «il proprietario dell'animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha
in uso».
Presunto responsabile è dunque il proprietario o, in via alternativa, colui che si serve
dell'animale.
L'espressione "si serve" indica l'azione di chi utilizza una cosa per uno scopo ma essa va
interpretata estensivamente con riguardo a tutte le ipotesi di custodia dall’animale.
Di ciò offre conferma testuale la norma, che dichiara la responsabilità presunta del
proprietario dell'animale o di chi se ne serve, per il tempo in cui lo ha in uso, tanto se ne
abbia la custodia quanto se la custodia sia venuta meno a seguito di smarrimento o fuga
dell'animale («sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito»).
La norma sulla responsabilità per danni da animali sancisce una presunzione legale di
colpa in capo al custode, il quale è tenuto al risarcimento dei danni prodotti dall'animale
salvo che provi il caso fortuito.
Prova del caso fortuito non è la mera prova di una condotta diligente ma prova che il
danno si è verificato per l'insorgenza di un evento non prevedibile né superabile con la
diligenza normalmente adeguata in relazione alla natura dell'animale.

Figure di responsabilità oggettiva

8. – I preponenti sono responsabili per gli illeciti compiuti dai preposti nell'esercizio delle
incombenze loro affidate (art. 2049 c.c.).
La formula del codice sancisce questa responsabilità a carico dei «padroni» e
«committenti» per i fatti dei «domestici» e «commessi». Si tratta di una formula
antiquata il cui significato si è progressivamente ampliato fino a ricomprendervi tutti i
rapporti di preposizione, in base ai quali un soggetto utilizza e dispone del lavoro altrui.
Abbandonando il riferimento ai padroni e ai committenti oggi la norma può essere letta
senz'altro come responsabilità dei preponenti per i fatti dei loro preposti.
La responsabilità dei preponenti è una responsabilità oggettiva per fatto altrui: l'obbligo
di risarcire il danno arrecato dai preposti prescinde infatti da ogni valutazione di colpa.
Escluso ogni richiamo alla colpa, il fondamento della responsabilità deve essere ravvisato
nell'appropriazione dell'attività del preposto da parte del preponente.
Appare infatti conforme ad un'elementare esigenza sociale che chi dispone dell'attività
lavorativa altrui per i propri fini risponda per le conseguenze dannose di tale attività.

9. – Presupposti della responsabilità del preponente sono: 1) il rapporto di preposizione;

246
2) il fatto illecito del preposto; 3) la connessione tra incombenze e danno.
1) Il rapporto di preposizione è il rapporto mediante il quale un soggetto (preponente) si
appropria dell'attività altrui (preposto).
Il rapporto di preposizione ha riscontro quando il preposto è alle dipendenze del
preponente o è incaricato del compimento di un'opera o di un servizio sotto la sua
direzione. L'appropriazione dell'attività altrui può sussistere però anche al di fuori dello
schema del lavoro subordinato.
2) Altro presupposto della responsabilità del preponente è indicato dalla norma nel “fatto
illecito” del preposto.
L’ indicazione va intesa nel senso che il preponente risponde del fatto doloso o colposo del
preposto.
Il preponente non potrà quindi essere chiamato a rispondere del fatto del preposto in
presenza di cause che ne escludono l’antigiuridicità, come ad es., la legittima difesa.
3) Presupposto della responsabilità del preponente è poi la connessione tra incombenze e
danno.
La consolidata interpretazione giurisprudenziale reputa sufficiente che tra l’esercizio delle
incombenze e il danno sussista un nesso di “occasionalità necessaria”. E’ cioè sufficiente
che l’esercizio delle incombenze esponga il terzo all’ingerenza dannosa del preposto.

10. – Il codice della navigazione sancisce la responsabilità dell'esercente per i danni


causati dall'aeromobile a persone e cose sulla superficie dall'inizio delle manovre per il
decollo fino al termine di quelle di approdo (art. 965).
Si tratta di responsabilità oggettiva in quanto è espressamente statuito che l'esercente
risponde dei danni «anche per causa di forza maggiore».
La responsabilità è esclusa se il fatto è imputabile al dolo di persone presenti a bordo ma
estranee all'equipaggio sempreché l'esercente e i suoi dipendenti e preposti non abbiano
potuto impedirlo. È esclusa inoltre se il danno sia stato prodotto da colpa del danneggiato
(art. 9652 c. nav.).
Eccezionale norma di favore per l'esercente aereo quella che stabilisce un ammontare
massimo del danno risarcibile (art. 967 c. nav.).
Pur se entro i limiti di questo massimale, la responsabilità del vettore nei confronti dei
terzi prescinde dalla colpa mentre nei confronti dei passeggeri il vettore aereo è esentato
da responsabilità se prova di avere adottato le misure idonee.

11. – La spaventosa potenzialità dannosa dell'energia nucleare ha sollecitato da tempo sul


piano internazionale l'istituzione di organismi di controllo sul reperimento e l'utilizzazione
di materiali radioattivi.
Sul versante della responsabilità civile è stata emanata una disciplina apposita, (l. n. 1860
del 1962 e successive modifiche) caratterizzata 1) dalla natura oggettiva della
responsabilità sancita a carico degli esercenti impianti nucleari; 2) dalla limitazione
dell'importo massimo dell'obbligo di risarcimento a carico del responsabile; 3)
dall'intervento dello Stato e di un apposito fondo internazionale; 4) dall'obbligatorietà
dell'assicurazione della responsabilità.

Figure complesse di responsabilità oggettiva e aggravata

12. – La responsabilità del produttore è oggetto di un'apposita disciplina normativa (dPR


24 maggio 1988, n. 224), emanata a seguito di una Direttiva comunitaria (85/374) e
successivamente inserita con qualche modifica nel codice del consumo (art. 114 s.), che ha
inteso armonizzare le legislazioni degli Stati membri sulla base di una regola di favore per
il danneggiato da prodotti difettosi.

247
I dati caratterizzanti della nuova normativa sono i seguenti.
Il produttore risponde dei danni provocati da prodotti difettosi (art. 1).
Prodotto difettoso è il bene mobile, che non presenta la sicurezza che è ragionevole
attendersi in relazione alle circostanze. Il difetto può riguardare la fabbricazione, la
progettazione o l'informazione relativa al prodotto (es.: mancanza delle necessarie
istruzioni per l'uso).
Il danneggiato ha l'onere di provare il danno, il difetto e il nesso causale tra difetto e danno
(art. 81).
Al produttore è consentito liberarsi dalla responsabilità provando, tra l'altro, che il
prodotto non era stato da lui messo in circolazione o che al momento della immissione in
circolazione il prodotto non era difettoso o, trattandosi di difetti di progettazione, che lo
stato delle conoscenze scientifiche e tecniche non consentiva di considerare il prodotto
come difettoso (art. 6)
Il danneggiato ha diritto al risarcimento del danno arrecato alla sua integrità fisica e salute
e del danno arrecato a beni diversi da quello difettoso e destinati ad uso privato. Il danno a
cose è però risarcibile solo per la parte eccedente una data misura (euro 387,00) (art. 11).
Il diritto di risarcimento si prescrive in 3 anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o
avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, e non può comunque essere azionato dopo 10
anni dalla messa in circolazione del prodotto.
Il risarcimento del danno è escluso in tutto o in parte in ragione della colpa del
danneggiato, e non è dovuto se questi ha volontariamente usato il bene pur conoscendone
il difetto e il pericolo che ne derivava.
Sono nulle le clausole preventivamente limitative della responsabilità nei confronti del
danneggiato.
La legge sulla responsabilità del produttore non sottrae né menoma i diritti spettanti al
danneggiato in base ad altre leggi. Il danneggiato può quindi far valere la responsabilità
contrattuale o extracontrattuale del danneggiante in base alle norme codicistiche anche là
dove la fattispecie sia inquadrabile nell’ambito della legge speciale.
Circa la natura della responsabilità del produttore va detto che la legge speciale ha sancito
una regola differenziata che pone a carico del produttore una responsabilità oggettiva in
relazione ai danni da difetti di fabbricazione e una responsabilità aggravata in relazione ai
danni da difetti di progettazione e d'informazione.

13. – Il conducente è responsabile del danno causato dalla circolazione del veicolo, salva la
prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno (art. 2054 1 c.c.).
La speciale figura di responsabilità per danni da circolazione di veicoli è normativamente
delimitata con riguardo ai veicoli "senza guida di rotaie", ossia ai veicoli di trasporto
terrestre a guida libera (automobili, filobus, carrozze, biciclette, ecc.).
La nozione di circolazione stradale, sempre secondo la giurisprudenza, include qualsiasi
utilizzazione della via pubblica, anche mediante la sosta della vettura. Questa
interpretazione deve condividersi, perché anche il veicolo in sosta è un veicolo che
partecipa alla circolazione stradale, creando un pericolo d'urto con altri veicoli.
Di circolazione non deve invece parlarsi quando il veicolo non è in condizione di esplicare
la propria potenzialità dannosa, come nei casi di veicoli trasportati su altri veicoli o travolti
da forze naturali (alluvioni, frane, ecc.).

14. – La speciale responsabilità per danni da circolazione di veicoli grava anzitutto sul
conducente, ossia su colui che aveva la guida del veicolo al momento del verificarsi del
danno. Avere la guida del veicolo vuol dire averne i comandi di manovra, anche se tali
comandi non siano al momento esercitati.
Conducente del veicolo è quindi anche colui che lascia in sosta la vettura: egli risponderà

248
ad es. dei danni provocati dal veicolo messosi in movimento per essere stato collocato
senza freno su una strada in pendenza.
Al conducente è dato provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, ma egli è
comunque responsabile se il danno è derivato da vizio di costruzione o difetto di
manutenzione del veicolo (art. 2054 4 c.c.).
La responsabilità del conducente è una responsabilità alternativamente fondata sulla
colpa presunta e sul rischio. Precisamente, il conducente è responsabile per colpa se il
danno deriva da negligenza nella guida; è invece responsabile a prescindere dalla colpa se
il danno deriva da vizio di costruzione o da difetto di manutenzione.
Il difetto di manutenzione è un tipico caso di colpa, ma il conducente risponde anche del
difetto di manutenzione del veicolo di cui altri ha la proprietà o la custodia. Anche questa è
quindi chiaramente un'ipotesi di responsabilità oggettiva che grava sul conducente al di
fuori di ogni valutazione in termini di negligenza.
La legge, in definitiva, identifica un'area di rischio che grava sul conducente - e sugli altri
corresponsabili - segnata dalle ipotesi di vizio di costruzione e difetto di manutenzione. Al
di fuori di tale area opera il principio della colpa presunta: e il conducente potrà esonerarsi
da responsabilità provando la mancanza di qualsiasi addebito colposo nella guida del
veicolo.

15. – Nell’ipotesi di scontro fra veicoli la legge sancisce la presunzione che ciascun
conducente abbia egualmente concorso alla produzione dei danni subiti «dai veicoli» (art.
20543 c.c.).
Ciascun conducente si presume quindi avere provocato con pari colpa e con pari efficienza
causale i danni derivanti dallo scontro, sia quelli propri sia quelli riportati dall'altro
conducente. Conseguentemente, in applicazione del principio del concorso di colpa del
danneggiato (art. 12271 c.c.), ciascun conducente dovrà risarcire metà dei danni subiti
dall'altro e in egual misura sopportare la riduzione del diritto di risarcimento per i propri
danni.
Supponiamo, ad es., che a seguito di uno scontro tra un’autocisterna e un’autovettura, la
prima riporti un danno per il valore di 300 e la seconda per il valore di 500. In tal caso il
conducente dell’autocisterna sarà tenuto al risarcimento di 250 mentre il conducente
dell’autovettura sarà tenuto al risarcimento di 150. A seguito della compensazione
l’obbligazione del conducente dell’autocisterna si ridurrà a 100.

16. – Oltre al conducente la legge dichiara solidalmente responsabile il proprietario del


veicolo o altrimenti l'usufruttuario o il compratore con patto di riservato dominio.
Anche a questi soggetti è concessa una prova liberatoria. Ma la prova concerne
esclusivamente la circostanza che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la loro
volontà. Secondo la giurisprudenza questa circostanza è riscontrabile solo quando il
proprietario abbia concretamente adottato le opportune cautele volte ad impedire l'uso del
veicolo da parte di altri. In mancanza, la giurisprudenza giunge a confermare la respon-
sabilità del proprietario o dell'usufruttuario pur nel caso estremo di furto del veicolo,
prescindendo quindi dal riferimento puntuale alla loro volontà.
La prova liberatoria concessa al proprietario, o a chi in sua vece, non pone la colpa a
fondamento della sua responsabilità. Non può infatti parlarsi di una «colpa» del
proprietario che permetta ad altri, gratuitamente o a pagamento, l'uso del veicolo.
Quella del proprietario è una responsabilità oggettiva che si spiega in base al rilievo che il
fatto imputabile al conducente è pur sempre esplicazione di una potenzialità dannosa del
veicolo, ed è appropriato che il rischio di tale fatto ricada su chi ha il diritto di godimento
del veicolo e il diritto di concederne ad altri l’uso e il potere di impedirlo.
Del vizio di costruzione risponde solidalmente anche il costruttore, conformemente alla

249
nuova disciplina sulla responsabilità del produttore.

17. – La vastità del fenomeno della circolazione automobilistica e la gravità sociale dei
pericoli che essa comporta ha reso necessaria l'adozione dell'assicurazione obbligatoria
della responsabilità civile.
L'istituto dell'assicurazione obbligatoria evita al danneggiato il rischio dell'insolvenza del
responsabile e, attraverso la costituzione di un fondo di solidarietà («Fondo di garanzia
per le vittime della strada»), il rischio della sua mancata identificazione.
L'assicurazione obbligatoria non sostituisce ma integra la tutela sanzionata dalla
responsabilità civile.

18. – Il proprietario risponde dei danni causati dalla rovina dell'edificio, salva la prova che
i danni non sono dovuti a difetto di manutenzione o vizio di costruzione (art. 2053 c.c.).
Primo presupposto della responsabilità per danni da costruzione è la derivazione del
danno dalla rovina di una costruzione.
La nozione di rovina è quella di disgregazione violenta della costruzione, ma
l'interpretazione estensiva prevalsa in giurisprudenza giunge a ricomprendere in essa
anche i guasti e le malformazioni dell'edificio, che causino danni a terzi.
Secondo presupposto della responsabilità per danni da costruzione è la titolarità del
diritto di proprietà sulla costruzione. Responsabile è precisamente chi risulta essere
proprietario della costruzione al momento del verificarsi del danno, sia esso soggetto
privato o ente pubblico.
Il proprietario è esonerato da responsabilità se prova che la rovina non è dovuta «a difetto
di manutenzione o a vizio di costruzione ».
La responsabilità per rovina di edifici ha quindi un duplice carattere, trattandosi di
responsabilità per colpa con riguardo ai danni derivanti da carenza di manutenzione e di
responsabilità oggettiva con riguardo ai danni derivanti da vizio di costruzione.
La responsabilità per danni derivanti da difetto di manutenzione è tipicamente colposa. Il
proprietario risponde infatti per danni causati dalla mancanza della normale diligenza nel
controllare e riparare l'immobile. La responsabilità è aggravata in quanto è a carico del
proprietario la presunzione che la rovina sia dovuta a carente manutenzione
dell'immobile.
A carico del proprietario grava inoltre l'ulteriore presunzione che, in alternativa, il dann o
derivi da vizio di costruzione. Per vizio di costruzione s'intende qualsiasi difetto derivante
dall'inosservanza di regole tecniche o di regole legali ovvero derivante dall'impiego di
materiali carenti per qualità o quantità.
Se la rovina dipende da un vizio di costruzione, il proprietario è responsabile a prescindere
da ogni valutazione di colpa, e quindi anche nel caso di vizio occulto che non si manifesti
con segni visibili di pericolo di cedimenti dell'edificio (crepe, avvallamenti, ecc.).
Può allora dirsi che relativamente all'ipotesi di vizio di costruzione la responsabilità ha
carattere oggettivo gravando sul proprietario anche il danno non prevedibile né evitabile
con la normale diligenza (es.: danno da vizio occulto conseguente ad errore del
costruttore).
La responsabilità ha qui ragione nel pericolo di danno da rovina che ogni edificio può
comportare e sulla scelta normativa che il rischio di tale danno sia sopportato da chi è
titolare di un bene patrimoniale che può essere pregiudizievole per gli altri quale che sia la
diligenza impiegata.

19. – La responsabilità processuale è la responsabilità sancita dal codice di procedura


civile a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede
o colpa grave (art. 961 ), e a carico della parte che senza la normale prudenza abbia chiesto

250
l'esecuzione di un provvedimento cautelare o, similmente, abbia trascritto domanda
giudiziaria 3 o iscritto ipoteca giudiziale o agito in via esecutiva per la tutela o
realizzazione di un diritto di cui sia accertata l'inesistenza (art. 96 2).
Altra ipotesi di responsabilità processuale è prevista dal codice civile a carico del creditore
che abbia proceduto in mala fede nei confronti del terzo espropriato (art. 2920).
Anche la legge fallimentare prevede un'ipotesi di responsabilità per abusivo esercizio dello
strumento processuale. Essa sancisce infatti la responsabilità del creditore istante che
abbia chiesto con colpa la dichiarazione di un fallimento poi revocato (art. 213).
Un'opinione formatasi nell'ambito della dottrina processualistica esclude che la
responsabilità processuale sia una forma di responsabilità extracontrattuale. Si tratterebbe
piuttosto di una responsabilità di natura "processuale", regolata esclusivamente dalle
norme e dai principi del diritto processuale. In questa direzione si è ulteriormente
prospettata la costruzione unitaria della responsabilità processuale quale sanzione di
condotte processuali di parte svincolate dalle situazioni di diritto sostanziale fatte valere
nel giudizio.
L'idea di una responsabilità processuale estranea a quella civile non può essere condivisa.
La responsabilità processuale è una delle ipotesi di responsabilità speciale e, pur se
differenziata rispetto all'illecito di cui all'art. 2043 c.c., va inclusa nella categoria degli
illeciti extracontrattuali.
La norma processuale che sancisce la responsabilità di chi agisce o resiste con dolo o colpa
grave tutela appunto l'interesse del soggetto a non subire azioni o resistenze processuali
infondate, cioè di non subire turbative processuali.

251
MODULO LVI

I rimedi extracontrattuali

1. l risarcimento del danno.


2. L'inibitoria.
3. I presupposti.
4. L’inibitoria a tutela dei consumatori.
5. Segue. L’inottemperanza al provvedimento inibitorio.
6. L’inibitoria contro la discriminazione razziale.

1. – Come per l'inadempimento, così per l'illecito civile il rimedio fondamentale è rappresentato
dal risarcimento del danno.
La disciplina dell'illecito civile, da un lato fa espresso rinvio alle norme sul risarcimento del
danno per l'inadempimento, dall'altro detta norme apposite sul risarcimento del danno
extracontrattuale (art. 2056 s. c.c.).
Il rinvio alle norme sull'inadempimento non comprende il danno da mora (art. 1224 c.c.), che
riguarda esclusivamente le obbligazioni pecuniarie, né la disposizione sulla limitazione del
risarcimento del danno imprevedibile (art. 1225 c.c.).
Norme sul risarcimento del danno contenute nella disciplina dell'illecito sono quelle a) sulla
valutazione del lucro cessante, b) sul danno permanente, c) sul risarcimento in forma specifica e
d) sui danni non patrimoniali.
a) La norma sul lucro cessante dispone che questo deve essere valutato con equo apprezzamento
delle circostanze del caso (art. 20562 c.c.).
Si tratta di una regola che, in realtà, non è esclusiva del danno extracontrattuale. Il lucro
cessante è infatti determinabile sulla base di elementi che presentano un più o meno elevato
grado di probabilità. S'impone pertanto la valutazione equitativa in quanto non è normalmente
possibile provare con certezza il preciso ammontare del danno risarcibile (art. 1226 c.c.).
b) La norma sul danno permanente prevede che in caso di danno permanente alla persona il
giudice, tenuto conto delle condizioni delle parti e della natura del danno, può stabilire che il
risarcimento abbia luogo sotto forma di rendita vitalizia. In tal caso il giudice dispone le
opportune cautele (art. 2057 c.c.).
Funzione del risarcimento del danno in forma di rendita è quella di assicurare al danneggiato un
risarcimento idoneo a compensarlo via via che il pregiudizio sia subito nel corso della sua vita.
Presupposto del risarcimento in tale forma è dunque il carattere permanente della lesione
all'integrità fisica o alla salute della persona. A questo danno consegue di regola un effetto
economico negativo continuato in termini di mancato guadagno o di aggravio di spese (ad es.,
per la necessità di un'assistenza a pagamento).
Le « condizioni delle parti» di cui il giudice deve tener conto sono quelle situazioni personali ed
economiche che incidono sulla convenienza e sulla sicurezza del soddisfacimento dell'interesse
del danneggiato.
Tali sono, per quanto attiene al danneggiato, le situazioni d'incapacità e d'insolvenza (che
rendono probabile una rapida dispersione della somma capitale di risarcimento). Per quanto
attiene al danneggiante può rilevare una situazione economica che renda difficile o
particolarmente gravosa la corresponsione di una somma capitale (es.: il danneggiante ha come
unico bene la casa di abitazione e gode esclusivamente di un reddito da lavoro).
Secondo il codice il giudice deve tener conto anche della «natura» del danno. Per natura deve qui
intendersi il tipo e la gravità della lesione, che rilevano in quanto incidono sulla dipendenza del
danneggiato dalla prestazione risarcitoria per soddisfare le proprie esigenze di vita. Più il

252
danneggiante ha bisogno del risarcimento per il suo mantenimento, più è appropriato che esso
gli venga corrisposto in forma di rendita per tutto l'arco della sua vita.
Il giudice deve poi stabilire le «opportune cautele ». A tal fine la sentenza può disporre la
corresponsione di una rendita subordinatamente alla costituzione di un'idonea garanzia entro un
dato termine, scaduto inutilmente il quale acquista effetto la condanna al versamento di una
somma capitale.
Al risarcimento del danno in forma di rendita si applicano, in quanto compatibili, le norme sulla
rendita vitalizia (art. 1872 s. c.c.).
c) Il risarcimento in forma specifica è previsto dalla disciplina dell'illecito civile, (art. 2058 c.c.:
vedi capitolo …) ma si ammette comunemente che tale previsione non riguardi esclusivamente la
responsabilità extracontrattuale, essendo applicabile anche in tema di inadempimento.
d) Il codice dispone che i danni non patrimoniali devono essere risarcibili solo nei casi previsti
dalla legge (art. 2059 cc).
La previsione di questa norma nell'ambito della disciplina dell'illecito civile trovava ragione in
passato nell'idea che danni non patrimoniali risarcibili sono esclusivamente quelli derivanti da
reato. Si tratta per altro di un'idea ormai superata dalla riconosciuta risarcibilità del danno bio-
logico e dei danni derivanti in generale dalla lesione di diritti della personalità (vedi capitolo …).

2. – L’inibitoria è l'ordine giudiziale impartito ad un soggetto di astenersi da un


comportamento illecito.
L'inibitoria è espressamente prevista dal codice in ipotesi di fatti lesivi rispetto ai quali essa
costituisce un rimedio tipicamente adeguato, a fronte della insufficienza del risarcimento del
danno ad assicurare una compiuta reintegrazione dell'interesse leso.
Si tratta, in particolare, della contestazione e uso indebito del nome (71 c.c.) e dello pseudonimo
(9 c.c.), dell'abuso dell'immagine altrui (10 c.c.), della violazione dei diritti di autore (156 s. l. dir.
aut.) e di brevetto (83 l. brev.), della concorrenza sleale (2599 c.c.), della condotta antisindacale
del datore di lavoro (28 st. lav.), ecc.
Anche al di fuori di queste ipotesi l'inibitoria rappresenta il mezzo più appropriato di tutela dei
diritti. Ciò deve dirsi principalmente per i diritti della personalità, che hanno ad oggetto valori
non patrimoniali. Si avverte qui la preminente esigenza di consentire il ricorso ad un rimedio
giudiziale che prevenga lesioni irreversibiIi dei beni come la salute, l'onore, la riservatezza.
Ma pure là dove il danno del soggetto sia di natura economica e determinabile nel suo
ammontare, l'inibitoria rappresenta un rimedio prioritario, in quanto idoneo ad assicurare in via
diretta e immediata la salvaguardia dei diritti.
In mancanza di una generale previsione normativa, è tuttavia prevalsa in giurisprudenza
l'opinione, seguita dalla giurisprudenza secondo la quale l'inibitoria sarebbe un rimedio
eccezionale, applica bile solo nei casi espressamente richiamati dalla legge.
Sul problema la dottrina è attualmente divisa.
Sul piano del diritto sostanziale la più decisa contestazione dell'ammissibilità del rimedio
generale dell'inibitoria è venuta dalla dottrina che intende la responsabilità civile come tecnica di
allocazione dei danni. Questo assunto porta a negare il dovere di rispettare i diritti altrui e a
considerare arbitrario un ordine del giudice che incida sulla libertà della persona imponendole
un comportamento astensivo.
Si è però visto come questo assunto non possa essere condiviso poiché l'indicazione normativa
del fatto dannoso come illecito esprime la scelta dell'ordinamento nel senso del divieto, cioè del
dovere di non arrecare danni ingiusti ad altri.
Va allora respinta l'idea secondo la quale l'inibitoria inciderebbe sulla sfera di libertà della
persona: è infatti dovere di ciascuno rispettare gli altrui interessi giuridicamente tutelati nella
vita di relazione.
La legittimità del rimedio dell'inibitoria ha base propriamente nella nozione dell'illecito quale
violazione del dovere di non arrecare danno ingiusto (dovere già violato nel porre in essere una

253
fattispecie idonea a produrre il danno). Ne consegue che l'inibitoria non ha bisogno di essere di
volta in volta prevista da specifiche disposizioni normative, poiché il giudice può sempre imporre
l'osservanza di ciò che è già imposto dalla legge, convertendone il precetto astratto in precetto
concreto rivolto a determinati destinatari.

3. – Quale ordine di astensione da un fatto illecito, l'inibitoria deve avere ad oggetto un fatto che
persista o che non sia stato ancora posto in essere.
Nel primo caso deve trattarsi di un fatto continuativo, rispetto al quale sia ipotizzabile l'ordine di
cessazione (es.: inquinamento di una condotta idrica). Nel secondo caso deve trattarsi di un fatto
ragionevolmente temuto.
L'inibitoria, si è obiettato, non potrebbe essere esperita per prevenire un fatto temuto in quanto
non sussisterebbe l'illecito ma solo un mero pericolo d'illecito. L'obiezione è inattendibile perché
già prima del compimento dell'illecito sussiste il dovere legale di non provocare il danno
ingiusto.
Occorre però che il fatto sia idoneo a produrre il danno, che ne ponga cioè in essere un rischio
specifico.
L'inibitoria presuppone il danno ingiusto, non come evento già prodotto ma come evento da
impedire. Essa è precisamente diretta a prevenire un danno ingiusto, vietando il comportamento
idoneo a produrlo: comportamento illecito in quanto volto a produrre un danno ingiusto.
L'inibitoria presuppone ancora il dolo o la colpa, salvo che l'illecito da inibire prescinda da questi
elementi.
La contraria opinione è inattendibile perché si basa sulla concezione psicologica della colpa, che
deve invece essere intesa quale inosservanza dell'obiettivo standard della diligenza dovuta nei
vari rapporti sociali.
Si obietta, ancora, che l'inibitoria non può richiedere la colpa in quanto si tratta di un rimedio
preventivo e non sanzionatorio. Ma la prevenzione deve pur sempre concernere un illecito, non
essendo ammissibile vietare in via giudiziaria un comportamento che non sia antigiuridico. Ora,
un comportamento immune da colpa, in quanto obiettivamente conforme al dovuto sforzo di
diligente rispetto altrui, non è qualificabile come antigiuridico e non è quindi suscettibile di
essere inibito (es.: sarebbe inammissibile vietare l'attività di una fabbrica che osservi le misure di
salvaguardia conformi agli adeguati criteri tecnici e alle regole di comune prudenza).

4. – In attuazione di una Direttiva comunitaria (la n. 13 del 5 aprile 1993) è stata emanata in
Italia la disciplina dei contratti del consumatore. Questa disciplina, introdotta dapprima nel
codice civile agli articoli 1469 bis e seguenti, e poi inserita nel codice del consumo emanato col d.
lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (art. 33 s.), sancisce la nullità delle clausole vessatorie inserite nei
contratti tra professionista e consumatore.
Professionista è la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività
imprenditoriale o professionale. Consumatore è la persona fisica che agisce per scopi estranei
all’attività imprenditoriale eventualmente svolta. Vessatorie sono le clausole che determinano a
carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal
contratto.
Un’importante novità introdotta dalla disciplina dei contratti del consumatore è rappresentata
dall’azione inibitoria, intesa a rimuovere le clausole abusive dai testi delle condizioni generali di
contratto (art. 37 cod. cons.).
Questa azione inibitoria si caratterizza come un rimedio collettivo in quanto non tutela il
consumatore quale parte di un determinato contratto ma tutela i destinatari delle condizioni
generali di contratto, cioè la generalità dei soggetti i cui rapporti contrattuali sono destinati ad
essere regolati dalle condizioni generali predisposte dal professionista.
Conformemente al suo carattere collettivo l’azione inibitoria è esercitatile non dal singolo
consumatore ma dalle associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti nonché

254
dalle camere di commercio.
La legittimazione attiva delle associazioni dei professionisti si giustifica in quanto le condizioni
generali abusive ledono i consumatori ed altresì i professionisti del settore, svantaggiati dalla
presenza sul mercato di un concorrente che si avvale di un regolamento contrattuale
abusivamente più favorevole. Legittimati passivi sono i professionisti e le associazioni di
professionisti che utilizzano le contestate condizioni generali di contratto.
L’utilizzazione va intesa come impiego attuale delle clausole ma anche come loro
predisposizione. Non occorre quindi che il professionista abbia già iniziato ad avvalersi delle
condizioni generali che appaiono vessatorie, essendo sufficiente che abbia elaborato e reso noto
il testo di tali condizioni.
L’azione inibitoria prevista dalla disciplina dei contratti del consumatore sta a indicare la
illiceità della predisposizione di condizioni generali di contratto a carattere vessatorio, idonee a
danneggiare una generalità di consumatori.
Si tratta quindi di un rimedio che rientra nella nazione della inibitoria quale strumento di
prevenzione dell’illecito.

5. – Il punto debole del provvedimento inibitorio è dato dalla insuscettibilità della sua
esecuzione forzata.
Oggetto di esecuzione forzata possono essere solamente l’obbligo di risarcimento del danno
derivato dal comportamento inibito e l’obbligo di rimozione di quanto fatto in violazione del
divieto (art. 2933 c.c.).
L’esigenza, avvertita in generale con riguardo a tutte le sentenze in suscettibili di esecuzione
forzata, di assoggettare a coazione indiretta l’inosservanza del provvedimento inibitorio, è stata
tenuta presente dal codice del consumo, là, dove ha previsto la possibile imposizione da parte
del giudice di una sanzione pecuniaria a carico della parte per ogni giorno di inottemperanza del
provvedimento giudiziale emanato a tutela degli interessi collettivi dei consumatori (art. 140,
comma 7).

6. – In attuazione della Direttiva 2000/43/CE è stato emanato il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 per
la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.
La nuova disciplina sancisce la illiceità di qualsiasi pratica discriminatoria diretta o indiretta a
causa della razza o dell’origine etnica.
Il comportamento discriminatorio dà luogo al risarcimento del danno, patrimoniale e non
patrimoniale.
La legge prevede inoltre che il giudice ne ordini la cessazione e condanni alla rimozione degli
effetti.
Su delega della vittima sono legittimate ad agire le associazioni e gli enti accreditati dai
competenti ministeri (del lavoro e delle pari opportunità).
Le associazioni e gli enti accreditati sono legittimati ad agire in nome proprio nei casi di
discriminazione collettiva quando non siano identificabili in modo diretto e immediato le vittime
della discriminazioni.

255
MODULO LVII

Il pagamento d’indebito e l’azione generale di arricchimento.

Il pagamento d’indebito

1. La nozione
2. L’indebito oggettivo. Presupposti
3. Soggetti della ripetizione
4. Oggetto della ripetizione
5. Alienazione della cosa indebitamente ricevuta.
6. L’indebito soggettivo
7. L’indebito ricevuto dall’incapace
8. Indebito e pubblica Amministrazione

L’azione generale di arricchimento.

9. Il principio dell’ingiustificato arricchimento


10. Presupposti. a) L'arricchimento.
11. L'impoverimento.
12. La mancanza gdi una giusta causa.

256
13. L'indennizzo e la restituzione.
14. Sussidiarietà dell'azione.
15. L'azione di arricchimento nei confronti della pubblica Amministrazione.

1. - Pagamento d'indebito è l'esecuzione di una prestazione non dovuta. L'indebito si distingue


in oggettivo e soggettivo. Si ha indebito oggettivo quando l'adempiente esegue una prestazione in
base ad un titolo inesistente o inefficace (art. 2033 c.c.); si ha indebito soggettivo quando
l'adempiente esegue un debito altrui nell'erronea credenza di essere egli il debitore (art. 2036 1
c.c.).
Chi riceve un pagamento non dovuto è tenuto alla restituzione.
Quest'obbligo ha fonte nella legge. Il pagamento d'indebito rappresenta quindi una delle
fattispecie idonee a produrre l'obbligazione in conformità dell'ordinamento giuridico (art. 1173
c.c.).
Tale fattispecie è tipicamente distinta rispetto al fatto illecito in quanto anche l'indebito dà luogo
alla lesione di un interesse giuridicamente protetto, ma qui la lesione è causata dallo stesso
danneggiato.
Gli estremi dell’illecito potranno tuttavia sussistere nei casi in cui la prestazione sia stata estorta
con violenza o con dolo.

2. – Elementi dell'indebito oggettivo sono 1) il pagamento e 2) la mancanza di titolo. A differenza


dell'indebito soggettivo non è invece richiesto l'errore dell' adempiente.
Il pagamento che dà luogo all’indebito è non solamente la prestazione di
denaro ma in generale qualsiasi conferimento di beni. Esulano invece dalla nozione di
pagamento d’indebito le prestazione di fare e le prestazioni consistenti nel compimento di atti
giuridici.
La mancanza del titolo indica l’assenza dell’obbligo di eseguire la prestazione, che pertanto è
non dovuta. L’assenza dell’obbligo può derivare dalla invalidità, risoluzione o revoca del
contratto o del negozio unilaterale in esecuzione dei quali la prestazione è stata effettuata. Può
derivare inoltre dalla già avvenuta estinzione dell’obbligazione a seguito di pagamento o altra
causa estintiva.

3. – Titolare del diritto di ripetizione è l’adempimente, cioè colui al quale è imputato il


pagamento.
Il pagamento eseguito dal rappresentante (o dall'ausiliario) è imputato esclusivamente al
rappresentato.
Nell'ipotesi di pagamento effettuato da un terzo in nome proprio il pagamento è imputato
all'autore dell'atto, e a questo compete il diritto di ripetizione. Se però il pagamento è compiuto
su incarico del presunto debitore, quest'ultimo può surrogarsi nei diritti del mandatario verso i
terzi salvo che ciò possa pregiudicare i diritti del mandatario verso il mandante medesimo (art.
17052 c.c.). Se, quindi, il mandatario abbia ricevuto i mezzi per effettuare il pagamento, spetterà
senz'altro al mandante esercitare il diritto di ripetizione.
La regola che conferisce il diritto di ripetizione all'adempiente è derogata nell'ipotesi di
pagamento eseguito in buona fede al creditore apparente. La deroga discende dalla regola che
attribuisce efficacia liberatoria a tale pagamento (art.11891 c.c.).
Il legittimato apparente è tenuto a restituire la prestazione al vero creditore «secondo le regole
stabilite per la ripetizione dell'indebito» (art. 11892 c.c.). L'anomalia di questa previsione (diritto
di ripetizione in capo a chi non ha effettuato la prestazione), si spiega in ragione del fatto che il
vero creditore è colui a danno del quale il legittimario apparente ha ricevuto la prestazione non
dovuta.

257
4. – La ripetizione tende al recupero di quanto prestato. Chi ha ricevuto indebitamente un bene
determinato è tenuto a restituirlo nella sua identità (art. 20371 c.c.).
La restituzione di beni immobili trasferiti in proprietà richiede un atto scritto di ritrasferimento
suscettibile di trascrizione.
L'accipiente di mala fede deve restituire il bene con i frutti e gli interessi dal giorno del
pagamento. L'accipiente di buona fede deve restituire frutti e interessi dal giorno della domanda
(art. 2033, in fine, c.c.).
Esplicitamente richiamata dall'art. 2040 c.c. è la disciplina del possesso in materia di spese e
miglioramenti (art. 1149, 1150, 1151, 1152 c.c.).
Se la restituzione del bene è divenuta impossibile per perimento o altra causa, occorre
distinguere secondo che chi ha ricevuto la prestazione fosse in buona o in mala fede, cioè
secondo che ignorasse o conoscesse l'inesistenza o invalidità del titolo della prestazione.
Chi ha ricevuto la cosa in mala fede deve corrisponderne il valore (art. 20372 c.c.).
Chi ha ricevuto la cosa in buona fede è liberato nel caso di impossibilità della restituzione anche
se l’impossibilità sia stata da lui provocata. Egli è però sempre tenuto nei limiti del suo
arricchimento.
Chi riceve indebitamente una somma di denaro deve restituirla secondo il suo valore nominale, e
corrispondere gli interessi legali a far data dal giorno della domanda di ripetizione o dal giorno
della prestazione a seconda che sia in buona fede o in mala fede.

5. – Analogamente all'ipotesi del perimento, l'alienazione della cosa a terzi libera o no chi l’ha
indebitamente ricevuta a seconda della sua buona o mala fede.
Precisamente, chi ha ricevuto in buona fede una cosa determinata e la aliena a terzi prima di
conoscere l'obbligo di restituirla, non è più tenuto alla restituzione nei confronti di chi ha subito
l'indebito. È però tenuto a restituire il corrispettivo conseguito. Se il corrispettivo dev'essere
ancora pagato, nel diritto a ricevere il pagamento subentra chi ha subito l'indebito.
Se, poi, il bene è stato alienato a titolo gratuito, chi ha subito l'indebito può agire nei confronti
dell'alienatario nei limiti dell'arricchimento da questo conseguito (art. 20382 c.c.).
Chi ha ricevuto la cosa in mala fede o in mala fede l'ha rialienata è obbligato a restituirla nella
sua identità o a corrisponderne il valore.

6. – L’indebito soggettivo designa il pagamento del debito eseguito da chi si crede


erroneamente debitore (art. 20361 c.c.).
La fattispecie dell'indebito soggettivo è distinta rispetto a quella dell'indebito oggettivo ma il
diritto di ripetizione ha lo stesso fondamento.
Presupposti specifici dell’indebito soggettivo sono l’esistenza del credito in capo a chi riceve la
prestazione e l’errore scusabile dell’adempiente di essere tenuto al pagamento.
Fatto impeditivo del diritto alla restituzione è la circostanza che il creditore si sia privato in
buona fede del titolo o delle garanzie del credito (art. 2036 1, in fine, c.c.).
La buona fede dell’accipiente consista nell’ignoranza dell’errore scusabile dell’adempiente, e
quindi del diritto di quest’ultimo di ripetere la presatazione.
La ripetizione è disciplinata alla stregua dell'indebito oggettivo. Esplicitamente ribadita è la
norma che impone all'accipiente di restituire frutti o interessi dal giorno della domanda o del
pagamento a seconda che sia di buona o di mala fede (art. 2036 2 c.c.).
Le altre norme trovano puntuale applicazione in quanto costituiscono la disciplina comune
dell'istituto dell'indebito.
L'adempiente che non abbia diritto di ripetere la prestazione è surrogato legalmente nel diritto di
credito di chi ha ricevuto la prestazione (art. 20363 c.c.).

7. – L’incapace che ha ricevuto l'indebito - oggettivo o soggettivo - è responsabile solo nei limiti
in cui la prestazione è stata rivolta a suo vantaggio (art. 2039 c.c.).

258
Il 'vantaggio' non ha riguardo al mero valore economico della prestazione ma alla sua
ragionevole utilizzazione, tenuto conto dell'interesse e dell'autonomia di vita dell'incapace.
Questo limite, sancito dal codice in tema di pagamento al creditore incapace (art. 1190 c.c.), è
espressamente ribadito dalla norma sulla ripetizione conseguente all'annullamento del contratto
(art. 1443 c.c.).

8. – La pubblica Amministrazione è assoggettata alla disciplina comune dell'indebito e le relative


azioni sono di competenza del giudice ordinario.
Alla restituzione dell'indebito sono anche tenuti gli impiegati pubblici che abbiano ricevuto
somme di carattere retributivo o pensionistico in misura superiore a quella loro spettante.
Va però segnalato che la giustizia amministrativa si è mostrata sensibile all'esigenza di evitare al
dipendente un aggravio eccessivo, tale da pregiudicare il dignitoso soddisfacimento dei bisogni
di vita suoi e della sua famiglia.
L'orientamento prevalso ammette che il dipendente possa opporre che in concreto la
restituzione delle somme percepite gli impedirebbe di soddisfare i suoi essenziali bisogni di vita,
ma reputa l'eccezione infondata quando vi sia stata espressa riserva di recupero da parte dell'
Amministrazione e quando, comunque, il debito di restituzione sia stato rateizzato in maniera da
non incidere sensibilmente sul tenore di vita dell'impiegato e della sua famiglia.

L’azione generale di arricchimento.

9. – Chi si arricchisce senza una giusta causa a danno di un altro, è obbligato, nei limiti
dell'arricchimento, a indennizzare chi ha subito la correlativa diminuzione patrimoniale.
Questa regola, sancita dal vigente codice (art. 2041 c.c.), esprime un principio generale del
nostro ordinamento.
L'ingiustificato arricchimento rientra tra le fonti legali dell'obbligazione, ossia tra i fatti, diversi
dal contratto e dall'illecito, idonei a produrre obbligazioni in virtù di legge. La sua importanza
trascende tuttavia quella di singole fattispecie tipiche. L'ingiustificato arricchimento è infatti il
principio che sta a fondamento delle varie fonti legali di diritto privato.

10. – Presupposti dell'azione generale di arricchimento sono: a) l'arricchimento di un soggetto;


b) il correlativo impoverimento di altro soggetto; c) la mancanza di una giusta causa.
L'arricchimento consiste in qualsiasi vantaggio suscettibile di valutazione economica.
Questo vantaggio può essere rappresentato da un incremento patrimoniale o da un mancato
detrimento patrimoniale, risultante dall'avere evitato la perdita di un bene o risparmiato una
spesa.
Anche l'utilizzazione temporanea di un bene o di un servizio dà luogo ad un
arricchimento se il soggetto ha risparmiato il costo che essa normalmente comporta.

11. – Secondo presupposto dell'azione di arricchimento è il correlativo impoverimento di un altro


soggetto. L'azione di arricchimento spetta, precisamente, al soggetto a danno del quale
l'arricchimento sia stato conseguito.
Il danno consiste nel pregiudizio economico connesso alla lesione di un interesse giuridicamente
protetto, e in particolare nella perdita o mancata utilizzazione di un bene o, ancora, nella
mancata remunerazione di una prestazione resa ad altri.
L'impoverimento condiziona e delimita il diritto di indennizzo. Tale diritto è infatti determinato
in ragione della diminuzione patrimoniale dell’impoverito, e non può andare oltre, pur se
l’arricchito abbia conseguito un vantaggio superiore.

12. – L’arricchimento che dà luogo alla generale azione di arricchimento è quello conseguito

259
“senza giusta causa” (art. 20411 c.c.).
La mancanza di una giusta causa è il presupposto fondamentale e caratterizzante dell’azione.
L’arricchimento senza causa quando il vantaggio economico è correlato ad un impoverimento
altrui che non è remunerato e non costituisce né
liberalità né adempimento di un'obbligazione naturale. Es.: un terzo esegue il pagamento di un
debito altrui senza essere stato incaricato dal debitore e senza intento liberale; in esecuzione di
un contratto nullo un architetto elabora un progetto che viene utilizzato dal committente, ecc.

13. – L’ingiustificato arricchimento comporta a carico dell'arricchito un obbligo di indennizzo o


un obbligo di restituzione (art. 20411 c.c.).
L'indennizzo è determinato nella minor misura tra il valore del bene perduto dall'impoverito e il
valore del vantaggio conseguito dall'arricchito. Secondo l'interpretazione seguita dalla
giurisprudenza le valutazioni vanno fatte con riferimento al tempo della sentenza.
Nell'ipotesi in cui l'arricchimento abbia ad oggetto una cosa determinata, l'arricchito è tenuto a
restituirla in natura (art. 20412 c.c.) se essa esiste ancora al tempo della domanda. Es.: in
esecuzione di un mandato nullo il mandatario ha acquisito un bene impiegando i fondi del man-
dante.
L'obbligo della restituzione è subordinato alla sussistenza della cosa «al tempo della domanda ».
La mancata sussistenza della cosa può dipendere da perimento o alienazione. Le conseguenze di
questi eventi vanno specificate in analogia alla disciplina dell'indebito.

14. – L’azione di arricchimento ha carattere sussidiario in quanto essa è improponibile quando


l'impoverito può esercitare altre azioni per farsi indennizzare (art. 2042 c.c.).
Per un verso si conferma in tal modo la generalità del rimedio, esperibile ogni qual volta la fatti
specie dell'ingiustificato arricchimento non rientri nella previsione di altre norme giuridiche. Per
altro verso risulta anche la sua stretta residualità. Se l'impoverito può avvalersi di altri rimedi,
l'azione di arricchimento è senz'altro esclusa.

15. – L’azione di arricchimento è esperibile anche nei confronti dello Stato e degli enti pubblici.
Ciò è stato comunemente ammesso in dottrina e in giurisprudenza semprechè l'Am-
ministrazione abbia - seppure tacitamente - riconosciuto l'utilità acquisita.
Più di recente la giurisprudenza è però orientata a negare che l’Amministrazione sia tenuta a
titolo ingiustificato arricchimento a pagare per prestazioni non autorizzate nelle forme di legge.

260
MODULO LVIII

La trascrizione

1. Nozione di trascrizione
2. Atti soggetti a trascrizione
3. Opponibilità degli atti trascritti
4. La trascrizione del contratto preliminare
5. Pubblicità dichiarativa della trascrizione

1. - La trascrizione è il generale regime di pubblicità e di opponibilità degli atti immobiliari.


Essa si attua per mezzo di pubblici registri e ha principalmente ad oggetto gli atti che
costituiscono, modificano o estinguono diritti reali sui beni immobili e sui beni mobili
registrati.
Quale regime di opponibilità la trascrizione è caratterizzata dai due fondamentali principi della
dichiaratività (la trascrizione non ha effetto costitutivo) e della priorità temporale (l'atto
trascritto per primo prevale sugli atti trascritti successivamente, anche se questi siano di data
anteriore).
Il regime della trascrizione immobiliare si realizza attraverso un sistema di pubblicità a base
personale, e cioè un sistema di registri ordinati con riferimento alle persone e non ai beni. L'atto
è trascritto contro e a favore dei destinatari degli effetti di esso. I registri immobiliari consentono
di accertare quali sono gli atti trascritti contro o a favore di una determinata persona.
In alcune regioni, e precisamente nel Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige, è stato
conservato il sistema di pubblicità tavolare vigente nell' ordinamento austriaco (rd. 28 marzo
1929, n. 499).
Questo sistema si distingue rispetto a quello della trascrizione in quanto ha base reale, ha cioè
per oggetto il bene, ed ha efficacia costitutiva.

2. - Soggetti a trascrizione sono fondamentalmente i contratti traslativi della proprietà di beni


immobili e i contratti che costituiscono, trasferiscono o modificano diritti reali immobiliari di
godimento (art. 2643 c.c.). La legge indica poi dettagliatamente altri contratti soggetti a
trascrizione, e tra questi ad es. le locazioni ultranovennali.
Sono soggette a trascrizione, tra l'altro, anche le domande giudiziali e arbitrali che si riferiscono
ai diritti derivanti da atti soggetti a trascrizione (art. 2652, 2653 c.c.). Qui la trascrizione ha la
funzione di assicurare all'attore gli effetti favorevoli della sentenza di accoglimento della
domanda. La sentenza è anch' essa soggetta a trascrizione, ma gli effetti decorrono dalla
trascrizione della domanda (c.d. effetto conservativo o prenotativo).

3. – La trascrizione è un sistema di pubblicità dichiarativa al quale non si connettono né effetti


costitutivi né effetti sananti. Ciò vuol dire che il contratto si perfeziona ed è efficace a prescindere
dalla trascrizione e che la trascrizione non comporta la sanatoria o la convalida del contratto
nullo o annullabile.
Va però tenuto presente che sono trascrivibili le domande volte a far dichiarare la nullità o a far

261
pronunziare l’annullamento di atti soggetti a trascrizione. Se le domande sono trascritte dopo 5
anni dalla trascrizione degli atti impugnati la sentenza non pregiudica i diritti acquistati dai terzi
di buona fede. La sentenza di annullamento non pregiudica comunque i terzi che abbiano
acquistato in buona fede e a titolo oneroso in base ad atti trascritti anteriormente alla
trascrizione della domanda di annullamento, tranne che l’annullamento sia pronunziato a causa
di incapacità legale.

4. - L'effetto normale della trascrizione è quello di rendere opponibile 1 'atto trascritto rispetto
agli altri atti ugualmente soggetti a trascrizione o iscrizione. La prevalenza dell'atto si determina
secondo il principio della priorità temporale della trascrizione.
Il principio della priorità temporale della trascrizione è espresso nelle seguenti regole: 1) gli atti
soggetti a trascrizione non sono opponibili ai terzi che hanno acquistato diritti in base ad un atto
anteriormente trascritto; 2) a seguito della trascrizione non può avere effetto contro colui che ha
trascritto alcuna trascrizione di diritti acquistati verso il suo autore, anche se l’acquisto risalga a
data anteriore (art. 2644 c.c.).
In applicazione del principio della priorità temporale della trascrizione, tra più atti di
disposizione dello stesso diritto da parte del titolare prevale quello che è trascritto per primo a
prescindere dal momento in cui gli atti si sono perfezionati. Così, se il titolare aliena il medesimo
immobile con atti successivi a più acquirenti, diventa senz'altro opponibile 1'acquisto per il quale
è stato per primo adempiuto l'onere della trascrizione.

5. - Una norma inserita nel codice a seguito della 1. 28 febbraio 1998, n. 307, l'art. 2645 bis,
prevede la trascrizione del contratto preliminare avente ad oggetto diritti reali immobiliari,
anche se sottoposti a condizione o relativi a edifici da costruire. Il contratto definitivo e la
sentenza di esecuzione in forma specifica prevalgono sugli atti posteriormente trascritti o iscritti
contro il promittente alienante.
Una peculiarità della trascrizione del contratto preliminare è data dalla temporaneità del suo
effetto. La trascrizione, infatti, decade se entro 1 anno dalla scadenza del termine fissato per la
stipulazione del contratto definitivo non sia trascritto l'atto traslativo o la domanda giudiziale di
esecuzione del contratto preliminare.

262
MODULO LIX

Le cause di prefazione

l. La responsabilità patrimoniale
2. Il principio di pari trattamento dei creditori
3. I privilegi
4. Efficacia dei privilegi
5. Ordine dei privilegi
6. Privilegi convenzionali

1. - Il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e
futuri (art. 27401 c.c.). In questa norma si esprime il principio della responsabilità patrimoniale,
cioè della soggezione dei beni del debitore al soddisfacimento coattivo dei diritti di credito.
La responsabilità patrimoniale non può essere esclusa ma solo limitata e solo nei casi previsti
dalla legge (art. 27402 c.c.).
Tra i casi di limitazione della responsabilità possono segnalarsi il beneficio d'inventario, il
vincolo costituito mediante il fondo patrimoniale e i vincoli derivanti da atti di destinazione per
la realizzazione di interessi meritevoli di tutela (art. 2645 ter c.c.).

2. - I creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause
legittime di prelazione (art. 27411 c.c.). In questa norma si esprime il generale principio di pari
trattamento dei creditori (par condicio creditorum), ossia il principio secondo il quale i creditori
hanno eguale diritto di garanzia sui beni del debitore a prescindere dalla causa e dalla anteriorità
del credito.
Il generale principio di pari trattamento comporta che i creditori istanti e intervenienti
concorrono a pari grado nell' espropriazione del patrimonio del debitore, salve le cause legittime
di prelazione.
Cause legittime di prelazione sono i titoli che attribuiscono al creditore un diritto preferenziale di
soddisfacimento sui beni del debitore. Specificamente sono causa di prelazione il privilegio e le
garanzie reali.

3. - Il privilegio è una causa di prelazione stabilita dalla legge in considerazione della particolare
esigenza di tutela dell'interesse creditorio (art. 2745 c.c.).
Il credito privilegiato è preferito rispetto ai crediti chirografari, cioè non assistiti da cause di
prelazione. Nell' ambito dei crediti privilegiati la preferenza dipende dall' ordine stabilito dalla
legge, non dal tempo del sorgere del credito.
La preferenza rispetto ai creditori assistiti da pegno o ipoteca dipende dal carattere generale o
speciale dei privilegi.
Il privilegio generale ha ad oggetto tutti i beni mobili del debitore. Il privilegio speciale ha ad
oggetto determinati beni mobili o immobili (art. 2746 c.c.).
Privilegi generali sui mobili sono, tra gli altri, quelli che assistono i crediti aventi ad oggetto
retribuzioni dovute sotto qualsiasi forma ai lavoratori subordinati (art. 2751 bis, n. 1, c.c.) e i
crediti per tributi diretti dello Stato (art. 2752 c.c.).
Privilegi speciali sui mobili sono, ad es., i privilegi dei crediti dell' albergatore relativamente alle
cose portate dal cliente nell'albergo finchè vi si trovano (art. 27601 c.c.) e quelli dei crediti del
vettore relativamente alle cose trasportate finchè si trovano presso di lui (art. 2761 1 c.c.).
Privilegi speciali immobiliari sono, ad es., quelli dei crediti per le spese di giustizia fatte per l'
espropriazione di beni immobili relativamente al prezzo di tali immobili (art. 2770 1 c.c.) nonché
del credito dello Stato per l'imposta di successione relativamente gli immobili ai quali il tributo si

263
riferisce (art. 27721 c.c.).

4. - I privilegi generali non pregiudicano i diritti spettanti ai terzi sui singoli beni (es.: pegno) né
i diritti dei credi tori pignoranti se si tratta di privilegi per crediti sorti dopo il pignoramento (art.
27471 c.c.).
I privilegi speciali, invece, sono esercitati in pregiudizio di diritti acquistati dai terzi dopo il
sorgere del credito privilegiato (art. 27472 c.c.). Con particolare riguardo alle garanzie reali i
privilegi speciali mobiliari non prevalgono sul pegno (art. 2748 1 c.c.) mentre i privilegi speciali
immobiliari prevalgono sulle ipoteche. I creditori che hanno privilegio speciale su beni
immobiliari sono preferiti ai creditori ipotecari anche se si tratta di ipoteche iscritte
anteriormente al sorgere del credito privilegiato (art. 2748 2 c.c.).

5. - Per questo attiene all'ordine dei privilegi, i privilegi speciali sono preferiti ai privilegi
generali.
Disposizioni particolari stabiliscono le priorità dei singoli crediti, dando la prevalenza ai crediti
per spese di giustizia, preferiti anche ai crediti pignoratizi e ipotecari, nonché ai crediti di lavoro
(art. 2777 c.c.).
Gli ordini dei privilegi sono poi distintamente previsti con riguardo ai privilegi mobiliari e
immobiliari (art. 2778 s. c.c.).

6. - I privilegi hanno il carattere della legalità nel senso che sono stabiliti dalla legge.
I privati non possono statuire privilegi in quanto il principio di relatività del contratto non
consente alle parti di creare effetti a carico dei terzi.
Di privilegi convenzionali si parla quindi solo con riguardo a quei casi eccezionali in cui il
privilegio è stato previsto dalla legge ma la sua efficacia è subordinata a particolari forme di
pubblicità che devono essere eseguite dalle parti interessate (cfr. l'art. 2762 c.c. sul privilegio del
venditore di macchine, e l'art. 46 t.u. delle leggi bancarie emanato col d. 19s. 1 0 settembre 1993,
n, 385, sul privilegio delle banche sui crediti da finanziamenti ad imprese).

MODULO LX

Le garanzie reali

1. Il pegno
2. Vendita e assegnazione del pegno
3. Il pegno di crediti
4. L’ipoteca

264
5. Oggetto dell’ipoteca
6. L’ipoteca volontaria
7. L’ipoteca legale e giudiziale
8. L’ordine delle ipoteche
9. Estinzione dell’ipoteca

1. - I diritti reali di garanzia vincolano determinati beni al soddisfacimento del credito in via
preferenziale. Diritti reali di garanzia sono il pegno e l’ipoteca.
Il pegno è il diritto reale di garanzia costituito su cose mobili o diritti mobiliari, che conferisce
al creditore il diritto di prelazione sulla cosa o sul diritto ricevuto in pegno (art. 2784 c.c.).
Il pegno può essere costituito dal debitore o da un terzo in favore del debitore.
Il patto costitutivo del pegno su cosa mobile si perfeziona solo a seguito della consegna al
creditore della cosa o del documento che ne attribuisce la legittimazione esclusiva a disporre (art.
2786 c.c.). Consegnatario può essere anche un terzo in qualità di custode.
La permanenza del pegno nel possesso del creditore o del terzo custode condiziona il diritto di
prelazione pignoratizio (art. 2787 c.c.).
La prelazione inoltre può essere fatta valere solo se il patto costitutivo sia fatto per iscritto, abbia
data certa e indichi in modo determinante il pegno e il credito (art. 2787 c.c.).
Il creditore cui è consegnata la cosa ne diviene possessore, ma deve custodirla con la normale
diligenza, e non può usata né concederla in pegno o in godimento a terzi. Può però soddisfarmi
sui frutti civili, imputandosi prima alle spese per la conservazione del bene, poi agli interessi e al
capitale.

2. - Il creditore pignoratizio insoddisfatto può far vendere la cosa o il diritto ricevuto in pegno e
soddisfarsi sul ricavato. La vendita deve avvenire nelle forme previste dal codice (vendita al
pubblico incanto o a prezzo corrente tramite persona autorizzata dalla legge o dal giudice).
Il datore del pegno può consentire forme diverse e forme diverse possono anche essere previste
dal patto costitutivo del pegno.
Alternativa alla vendita è l’assegnazione della cosa. Precisamente, il creditore può domandare al
giudice che gli venga assegnata la cosa in proprietà previa stima del suo valore o al prezzo
corrente se si tratta di cosa avente un prezzo di mercato (art. 2798 c.c.).

3. - Oltre che su cose, il pegno può esse costituito su crediti e altri diritti aventi ad oggetto beni
mobili (art. 2800 c.c.).
Il patto costitutivo del pegno su crediti esige la forma scritta ed è efficace solo a seguito della
notificazione di esso al debitore del credito dato in pegno o della sua accettazione con atto di data
certa.
Al creditore va consegnato il documento che certifica il credito (art. 2801 c.c.).
Quando scade il credito dato in pegno è il creditore pignoratizio che deve riscuoterlo e depositare
il riscosso. Se il credito garantito è esigibile, il creditore pignoratizio può senz’altro soddisfare il
suo credito utilizzando il denaro riscosso (art. 2803 c.c.). Sempre nel caso in cui il credito
garantito sia esigibile, il creditore pignoratizio può chiedere l’assegnazione del credito ricevuto in
pegno o farlo vendere qualora questo credito non sia ancora scaduto (art. 2804 c.c.).
Nei confronti del creditore pignoratizio la posizione del debitore del credito dato in pegno è
equiparata a quella del debitore ceduto nei confronti del cessionario.

4. - L’ipoteca è il diritto reale di garanzia che ha ad oggetto beni immobili o diritti reali di
godimento sui beni immobiliari e conferisce al creditore ipotecario il diritto di seguito e il
diritto di prelazione (art. 28081 c.c.).
Il diritto di seguito è insito nel carattere reale della garanzia e significa che il creditore ipotecario
può fare espropriare il bene ipotecato chiunque ne sia divenuto proprietario.

265
Il diritto di prelazione significa che il creditore ipotecario può soddisfarsi sul ricavato della
vendita del bene o del diritto ipotecato con preferenza rispetto agli altri creditori, che non
abbiano un prevalente diritto di prelazione.
Il creditore ipotecario non ha il possesso del bene ipotecato ma può agire per far cessare
comportamenti suscettibili di provocare il perimento o il deterioramento di esso (art. 2813 c.c.).
L’ipoteca può essere volontaria, legale o giudiziale. Quale che ne sia la fonte, l’ipoteca si
costituisce comunque mediante l’iscrizione nei registri immobiliari (art. 2808 2 c.c.). L’iscrizione
ha quindi carattere costitutivo.

5. - L’ipoteca può avere ad oggetto la proprietà di beni immobili, l’usufrutto, la superficie, il


diritto dell’enfiteuta e il diritto del concedente, le rendite dello Stato, i beni mobili registrati
(autoveicoli, navi, ecc.).
L’ipoteca che ha ad oggetto diritti diversi dalla proprietà segue la sorte dei diritti sui quali è
costituita, ma può sopravvivere alla loro estinzione derivante da confusione o da altre cause
estintive (cfr., ad es., l’art. 2814 c.c.).

6. - L’ipoteca volontaria è concessa costituisce mediante contratto e anche mediante un atto


unilaterale del titolare del bene (art. 2821 c.c.). La concessione esige a pena di nullità la forma
dell’atto pubblico o della scrittura privata ed è efficace solo a seguito della iscrizione nei pubblici
registri.
La concessione di ipoteca su beni altrui o su beni futuri non può essere validamente iscritta
prima che il concedente sia divenuto titolare del bene o la cosa sia venuta ad esistenza (art. 2822,
2823 c.c.).
Particolarmente disciplinata è l’ipotesi di ipoteca costituita su beni indivisi (art. 2825 c.c.).

7. - L’ipoteca legale è l’ipoteca che ha titolo nella legge. Essa è prevista ad es., a favore
dell’alienante di un immobile a garanzia dei crediti derivanti dall’alienazione (art. 2817 c.c.)
L’ipoteca è iscritta d’ufficio dal conservatore dei registri immobiliari (art. 2834 c.c.).
L’ipoteca giudiziale è l’ipoteca che ha titolo in una sentenza di condanna al pagamento di una
somma di denaro o di altra prestazione o di condanna al risarcimento del danno da liquidarsi
successivamente (art. 2818 c.c.).

8. - L’ordine delle ipoteche dipende dalla data della iscrizione: l’ipoteca iscritta ad una data
prevale sulle ipoteche iscritte in data successiva. I creditori ipotecari di grado anteriore hanno
diritto di soddisfarsi sul ricavato della vendita del bene ipotecato con preferenza rispetto ai
creditori di grado successivo.
Il creditore di grado successivo che sia rimasto insoddisfatto a causa della prelazione esercitata
dal creditore di grado anteriore, può per altro beneficiare del diritto di surrogarsi nell’ipoteca
iscritta a favore del creditore di grado anteriore su altri beni dello stesso debitore. Su questi beni
la garanzia del surrogante prevale sulle ipoteche di data posteriore alla propria iscrizione (art.
2856 c.c.).

9. - Quale diritto avente funzione di garanzia di un credito l’ipoteca è accessoria al credito


garantito, e ne segue la sorte.
La cessione del credito ipotecario comporta quindi la trasmissione dell’ipoteca (la cessione deve
essere annotata a margine dell’iscrizione ipotecaria (art. 2843 c.c.)).
L’estinzione del credito ipotecario, poi, determina l’estinzione dell’ipoteca iscrizione ipotecaria.
La cancellazione deve essere consentita dal creditore o altrimenti ordinata con sentenza (art.
2882, 2884 c.c.).
Una particolare facoltà liberatoria dell’ipoteca è attribuita dalla legge al terzo acquirente del bene
ipotecato.

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Il terzo acquirente, precisamente, può liberare il bene dall’ipoteca depositando il prezzo a favore
dei creditori ipotecari. A tal fine occorre che l’acquirente notifichi la sua proposta a tutti i
creditori ipotecari iscritti, indicando tra l’altro l’importo del prezzo (pattuito col venditore o
dichiarato dall’acquirente medesimo). I creditori possono richiedere l’espropriazione del bene.
In mancanza, la liberazione del bene segue al deposito del prezzo (art. 2889 c.c.).

10. - Il codice sancisce la nullità del patto commissorio, mediante il quale si attribuisce al
creditore il diritto di appropriarsi dell’oggetto del pegno o dell’ipoteca nel caso in cui
l’obbligazione non venga adempiuta alla scadenza (art. 2744 c.c.).
L’interpretazione giurisprudenziale comprende nel divieto l’alienazione di un bene in garanzia,
sottoposta alla condizione risolutiva del mancato tempestivo adempimento dell’obbligazione.
Si riconosce invece la liceità del patto mediante il quale il creditore si riserva, per il caso di
inadempimento del debitore, il diritto di appropriarsi del bene al prezzo da stimare dopo
l’inadempimento (patto Marciano).

MODULO LXI

La prescrizione

1. Nozione di prescrizione
2. Effetto della prescrizione
3. Diritti imprescrittibili
4. Sospensione della prescrizione
5. Interruzione della prescrizione
6. I termini
7. Prescrizioni presuntive
8. La decadenza

1. - La prescrizione è un modo generale di estinzione dei diritti che non sono esercitati per il
tempo determinato (art. 29341 c.c.).
Fondamento della prescrizione è una valutazione legale di disinteresse del titolare che trascura a
lungo di far valere il suo diritto.
Questa valutazione normativa prescinde dalle ragioni per le quali in concreto il diritto non è
stato esercitato. Ciò che importa è che il diritto poteva essere esercitato e non è stato esercitato: è
infatti dal momento in cui il diritto può essere fatto valere che decorre la prescrizione (art. 2935
c.c.). Secondo l’interpretazione accolta dalla giurisprudenza, tuttavia, l’impossibilità di fatto non
impedirebbe il decorso della prescrizione.

2. - La prescrizione è un fatto estintivo del diritto rimesso alla discrezionalità del destinatario
dell' effetto liberatorio, il quale può eseguire il pagamento, rinunziare alla prescrizione, non

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opporsi alla domanda del titolare del diritto prescritto.
Il pagamento eseguito in adempimento di un debito prescritto non dà luogo a ripetizione (art.
(art. 2940 c.c.). Ai fini della irripetibilità occorre tuttavia che il pagamento sia eseguito
spontaneamente.
E' pertanto ripetibile il pagamento eseguito a seguito di messa in mora, di domanda giudiziale o
anche di minacce da parte del creditore.
La prescrizione può essere rinunziata solo da chi abbia disponibilità del diritto prescritto e solo
dopo che la prescrizione è compiuta (art. 2937 c.c.).
La prescrizione non è rilevabile d’ufficio dal giudice (art. 2938 c.c.). Il creditore ha quindi l’onere
di eccepire la prescrizione del credito.
Se il debitore non eccepisce la prescrizione nei confronti del suo creditore, gli altri creditori
possono far valere la prescrizione in luogo del debitore. La prescrizione può altresì essere fatta
valere da qualsiasi terzo che risulterebbe pregiudicato dall' accoglimento della domanda
opponibile mediante l’eccezione di prescrizione.

3. - La prescrizione estingue di massima tutti i diritti. Dalla estinzione per prescrizione sono
eccettuati tuttavia i diritti indisponibili e quei diritti che la legge dichiara espressamente
imprescrittibili (art. 29342 c.c.).
Diritti indisponibili sono principalmente i diritti della personalità.
Nell'ambito delle azioni patrimoniali sono dichiarate imprescrittibili, tra le altre, l'azione di
rivendicazione (art. 9483 c.c.) e la petizione di eredità (art. 5332 c.c.). La prima riflette la
imprescrittibilità del diritto di proprietà.

4. - Coerentemente con il fondamento dell'istituto, la valutazione legale di disinteresse del


titolare, il codice prevede la sospensione del corso della prescrizione in determinati casi in cui la
relazione intercorrente tra le parti ostacola l'esercizio del diritto per il rapporto di coniugio
intercorrente tra di esse, per la soggezione di una parte alla potestà dell' altra, ecc. (art. 2941
c.c.).
La sospensione della prescrizione è poi prevista nei casi in cui il titolare è impedito dalla sua
condizione di minorenne o di infermità mentale per il tempo in cui non ha un rappresentante
legale (e per altri 6 mesi dopo la nomina del rappresentante o la cessazione dell'incapacità). E'
prevista anche una sospensione per cause belliche (art. 2942 c.c.).
Le cause di sospensione possono intervenire durante il decorso del termine di prescrizione. In tal
caso esse non cancellano il periodo di prescrizione già maturato. Venuta meno la causa di
sospensione, il termine di prescrizione torna a decorrere e il nuovo periodo di prescrizione sarà
sommato a quello eventualmente già maturato.

5. - L'interruzione indica l'arresto del decorso del termine di prescrizione con conseguente
cancellazione del periodo di prescrizione già maturato. A seguito della interruzione torna a
decorrere un nuovo termine prescrizionale.
Cause che interrompono a prescrizione sono la domanda giudiziale diretta a far valere il diritto
soggetto a prescrizione, il ricorso all' arbitrato, la costituzione in mora, (art. 2943 c.c.), il
riconoscimento del diritto da parte dell'obbligato (art. 2944 c.c.). La domanda giudiziale vale
anche a sospendere il decorso della prescrizione per tutta la durata del giudizio.
Se la prescrizione ha per oggetto un'azione, l'interruzione si interrompe solo a seguito della
proposizione della domanda.

6. - I diritti si prescrivono in generale nel termine di 10 anni, salvo che la legge preveda termini
più lunghi (es.: la servitù si prescrive in 20 anni: art. 1073 1 c.c.) o termini più brevi.
Prescrizioni di 5 anni sono previste, tra l'altro, con riguardo al diritto di risarcimento del danno
da illecito extracontrattuale (art. 29471 c.c.), ai canoni locatizi e agli interessi (art. 2948 1 n. 3, 4

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c.c.).
Tra le prescrizioni più brevi possono segnalarsi quelle concernenti l'azione del consumatore
diretta a far valere i difetti di conformità del bene di consumo vendutogli: 26 mesi (art. 132 4 cod.
consumo) e l'azione di annullamento dell'atto di disposizione di beni immobili della comunione
posto in essere da un coniuge senza il consenso dell'altro: l anno (art. 184 2 c.c.).

7. - Prescrizioni presuntive sono le presunzioni che comportano la presunzione legale


dell'avvenuto pagamento del debito (art. 2954 s. c.c.). Trascorso il periodo di prescrizione, cioè,
si presume legalmente che il creditore abbia percepito quanto dovutogli.
La presunzione di pagamento può essere vinta dal riconoscimento del debito o dal giuramento
prestato dal creditore di non aver ricevuto la prestazione.
Prescrizioni presuntive sono previste, tra l'altro, con riguardo ai crediti dell'albergatore: 6 mesi
(art. 2954 c.c.); dei lavoratori per le retribuzioni corrisposte a periodi non superiori al mese: 1
anno (art. 2955, n. 2, c.c.); dei professionisti per il compenso dell'opera prestata: 3 anni (art.
2956, n. 2, c.c.), ecc.

8. - La decadenza è un modo di estinzione dei diritti per il mancato adempimento di un onere


nel termine perentoriamente stabilito dalle parti o dalla legge. Ad es., il compratore ha l’onere di
denunziare i vizi della cosa entro 8 giorni dalla loro scoperta. Il compratore che non effettua
tempestivamente la denunzia perde il diritto alla garanzia. Assolto l’onere dalla denunzia il
diritto di garanzia è soggetto alla prescrizione di 1 anno (art. 1495 c.c.).
Fondamento della decadenza è l'esigenza di limitare rigorosamente nel tempo i poteri che
incidono su situazioni giuridiche altrui evitando così il protrarsi dell' incertezza di tali situazioni.
Coerentemente a tale fondamento la decadenza non è suscettibile né di sospensione e neppure di
interruzione. L'unico modo per non incorrere nella decadenza è quello di esercitare
tempestivamente il potere.
La decadenza può essere stabilita anche mediante patto, ma il termine previsto non deve essere
talmente breve da rendere eccessivamente difficile la sua osservanza.

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