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Una società per raggiungere la convivenza pacifica stabilisce delle regole di comportamento
espresse attraverso comandi che impongono un comportamento da seguire per non incedere
nella sanzione. Le norme sono poste da un’autorità titolare di un potere normativo e sono rivolte
a tutti i cittadini dando così vita al carattere della generalità. Le norme sono individuate in regole
o proposizioni astratte e la norma può essere applicata in tutte le occasioni in cui si verifichi la
fattispecie astratta disciplinata (carattere dell’astrattezza). Nel caso la fattispecie astratta della
norma venga attuata allora incorreremo nella fattispecie concreta.
ESEMPIO: L’articolo 2043 del C.C. stabilisce che chiunque (carattere della generalità) leda un
diritto di un altro soggetto provocandogli un danno (carattere dell’astrattezza) è tenuto a risarcire
i danni provocati (sanzione).
La Generalità e l’Astrattezza distinguono i precetti normativi da altri precetti come le sentenze e
gli atti amministrativi che invece riguardano fattispecie specifiche come ad esempio l’obbligo di
leva o la sentenza di un giudice a pagare una determinata somma. I Regolamenti sono degli atti
amministrativi che hanno i caratteri della generalità e dell’astrattezza e sono considerati fonti del
diritto.
I mezzi di coazione o le sanzioni rappresentano gli strumenti per assicurare l’esecuzione del
comportamento prescritto dalla norma. Essi sono costituiti “dalla pena o alla sanzione”, cioè la
minaccia della privazione di un bene in seguito alla violazione della norma. Questa privazione
può riguarda una libertà (movimento, in seguito alla detenzione) o alcune attività lavorative (es.
interdizione legale). Altro strumento è dato dalla sanzione pecuniaria, cioè l’obbligo di pagare
una somma di danaro. Ciò vale quando si tratta di un rapporto nei confronti dello Stato mentre
nel diritto privato (cioè fra due privati) questi strumenti consistono: 1) nell’invalidità, che priva
di efficacia gli atti; 2) nei mezzi ripristinatori, che ripristina appunto la situazione giuridica come
si presentava prima dell’azione contraria al comando di legge; 3) negli strumenti risarcitori, nel
caso in cui non si possa ripristinare la situazione giuridica e allora tutti i danni provocati al
soggetto leso vengono ripagati con una somma di danaro equivalente; 4) nelle pene private, nel
caso appunto in cui la somma da pagare non sia nei confronti dello Stato ma bensì nei confronti
di un privato. Nel nostro ordinamento sono previsti anche i danni morali che avvengono nel
momento in cui un danno provocato ad un soggetto privato è così grave da indurre l’ordinamento
ad obbligare colui che l’ha causato a pagare una sanzione ulteriore. Le sanzioni e gli altri
strumenti sono dettati dalle norme secondarie che trovano la loro efficacia nelle norme primarie,
che se violate portano all’applicazione delle secondarie. Alcune norme impongono un
comportamento da seguire ma non prevedono nessuna sanzione e sono dette norme imperfette.
La previsione della sanzione da parte delle norme fa assumere a queste i caratteri della
giuridicità.
L’applicazione della sanzione o degli effetti giuridici di una norma avviene attraverso atti chiamati
sentenze emanate dai giudici. La sentenza segue la norma e rappresenta una sua mera
attuazione. I giudici non creano norme ma applicano quelle già esistenti (principio di legalità).
Per poter applicarle i giudici effettuano un’interpretazione che può anche discostare dal senso
originario della disposizione. In altri casi i giudici possono giudicare secondo equità cioè applicano
una regola che creano apposta per quel caso e che non si allontani dai principi delle norme
fondamentali vigenti. L’insieme delle norme giuridiche forma l’ordinamento giuridico che viene
detto anche diritto oggettivo.
Abbiamo norme organizzative che regolano l’organizzazione degli enti pubblici, cioè le strutture
attraverso cui lo Stato persegue i suoi obiettivi. Abbiamo norme con contenuto definitorio in
quanto costituiscono una spiegazione di termini utilizzati in altre disposizioni e sono utilizzate
per l’individuazione del contenuto di altre norme. In altri casi la norma dispone di una fattispecie
astratta non per imporre un comando ma per consentire ai privati di esercitare il proprio diritto
di autonomia. Abbiamo poi la distinzione tra norme proibitive, che interdicono l’assunzione di un
comportamento; norme permissive, che lo permettono; norme precettive, che lo impongono.
Abbiamo poi le norme del diritto premiale, che sono quelle che premiano invece di punire (es. le
norme del condono fiscale). L’ordinamento italiano non è basato solo sul binomio divieto/libertà
ma le norme giuridiche vengono utilizzate per promuovere l’effettivo acquisto ed esercizio dei
diritti da parte dei cittadini, ovvero al raggiungimento degli obiettivi dell’eguaglianza sostanziale,
quindi persegue una funzione promozionale.
Alcune norme sono derogabili, cioè i soggetti possono decidere di adottarle in maniera diversa
da quella legale. La norma è dispositiva quando pone una regola che si applica se questa non
viene derogata dalle parti oppure la norma è suppletiva quando la regola può essere determinata
dai soggetti. Le norme che non ammettono deroghe sono chiamate cogenti. Abbiamo poi una
distinzione tra norme generali, speciali ed eccezionali. Le norme speciali sono quelle che si
applicano ad una determinata materia o categoria (es. norme sul fallimento del debitore
insolvente); le norme generali sono quelle non subiscono nessuna riduzione nel loro campo di
applicazione; le norme eccezionali sono quelle che il loro contenuto contrasta con quello generale
e sono applicabili solo nei casi previsti dalla legge.
Le norme impongono una regola di comportamento e sanciscono una sanzione nel caso di
inosservanza. Le norme vengono redatte con una tecnica di tipo casistico o regolamentare, in
questo caso il giudice se manca uno o più presupposti previsti dalla fattispecie astratta non può
applicare la norma. Il legislatore moderno usa una tecnica diversa detta delle clausole generale.
Queste clausole regolano le fattispecie astratte ma sono incomplete perché hanno un contenuto
generico che deve essere deciso dal giudice al momento. Ad esempio la buona fede nei contratti,
il cui comportamento non è precisato nel contenuto. Altra clausola è quella dell’ordine pubblico.
Queste clausole generali sono norme-valvola perché assicurano la completezza dell’ordinamento.
La clausola generale non viola il principio di legalità ed è sempre costituita da un contenuto che
vincola l’interprete. Il contenuto è elastico e può variare in conseguenza all’introduzione di nuove
disposizioni. Ciò può contrastare con la certezza del diritto, cioè che la norma deve essere
conoscibili e intellegibile prima della sua applicazione (ignorantia legis non excusat). Questa
tecnica è utile per due motivi, il primo consente di adeguare rapidamente le normative al caso
concreto e il secondo garantisce la risposta dell’ordinamento alla richiesta di giustizia anche nei
casi non regolati e assicura la completezza del diritto oggettivo.
L’ordinamento giuridico si divide tra le norme di diritto pubblico e di diritto privato. Le prime sono
quelle norme che disciplinano il rapporto tra gli enti pubblici e i privati cittadini. Gli enti pubblici
possono adottare strumenti di autotutela e possono difendere i propri interessi lesi. Queste
norme sono caratterizzate da una disparità di posizioni e stabiliscono le modalità di legittimo
esercizio del potere amministrativo e autoritativo degli enti pubblici. Le norme di diritto privato
disciplinano i rapporti e in conflitti di interesse tra privati e sono caratterizzate da posizioni di
uguaglianza e quindi dall’assenza di poteri do sovraordinazione. La Pubblica Amministrazione ha
una generale capacità di diritto privato (agire iure privatorum) in quanto stipula contratti,
partecipa alla costituzione delle società di capitali e compie attività regolate dal diritto privato. Il
diritto pubblico si divide in: diritto costituzionale, che è formato dalle norme di organizzazione
dei principali poteri dello Stato e dai principi fondamentali; il diritto penale, che individua i
comportamenti antisociali e lesivi e li punisce; il diritto amministrativo, che disciplina il
funzionamento della Pubblica Amministrazione e regola il suo rapporto con i privati; il diritto
processuale, che regola l’attività giurisdizionale. Il diritto privato è articolato in varie branche
come il diritto civile, che disciplina i rapporti tra soggetti che non esercitano attività di impresa;
il diritto commerciale, che regola le imprese e i rapporti tra gli imprenditori; e altre branche come
il diritto del lavoro, il diritto agrario, il diritto industriale e il diritto di navigazione.
UNITARIETA’ DELL’ORDINAMENTO
La separazione tra Diritto Pubblico e Diritto Privato è frutto di un’ideologia dell’Ottocento in cui
lo Stato dove garantire l’ordine e doveva ridursi all’esercizio delle funzioni di polizia e di difesa.
Il diritto privato non regola solo i rapporti patrimoniali ma tutela e sviluppa gli interessi
esistenziali che lo Stato si fa carico di promuovere. La funzione promozionale del diritto conferma
che l’ordinamento si fa carico di perseguire interessi di alcune categorie di privati. L’unitarietà
dell’ordinamento costituisce un valore giuridico che è garanzia dell’attuazione degli interessi e
dei principi posti a base della nostra costituzione.
La norma costituisce il contenuto di un atto di volontà espresso dall’autorità che detiene il potere
normativo. Abbiamo numerose fonti di produzione e sono un numero clausus. La norma dopo
che viene adottata deve essere pubblicata e resa conoscibile ai cittadini attraverso le fonti di
cognizione. Le fonti di produzione sono elencati nell’articolo 1 delle Disposizioni preliminari al
Codice Civile e sono 1) le leggi, 2) i regolamenti, 3) le norme corporative, 4) gli usi. Questa
disposizione è stata parzialmente abrogata poiché le norme corporative sono state eliminate e
con l’entrata in vigore della costituzione sono state aggiunte anche la Costituzione, le leggi
costituzionali, le fonti comunitarie e le leggi regionali. Si possono creare delle antinomie risolvibili
con il criterio gerarchico cioè che la norma di fonte superiore non può essere contrastata dalla
norma di fonte inferiore. In caso di contrasto un giudice preposto provvede ad eliminare
l’antinomia attraverso l’annullamento o disapplicazione della norma inferiore. L’annullamento
consiste in giudizio di legittimità da parte del giudice preposto che accerta l’esistenza del
contrasto e la norma viene dichiara illegittima e viene annullata divenendo inefficace. La
disapplicazione invece è un procedimento di tipo diffuso ed è pratico da qualsiasi giudice che
notando l’antinomia decide di disapplicare quella norma in quel determinato caso.
LE FONTI INTERNE
tutela dei diritti fondamentali delle persone e attengono i rapporti economici, familiari e di lavoro.
Abbiamo poi le leggi emanate dal parlamento e gli atti ad esse equiparati ovvero i decreti legge
e i decreti legislativi. Questi ultimi sono emanati dal Governo sotto il controllo del Parlamento. I
decreti legge sono adottati dal Governo in casi straordinari di necessità ed urgenza e quindi non
si può portare avanti l’intero iter legislativo. Il Parlamento però deve convertire in legge entro
60 giorni dalla loro pubblicazione e la mancata conversione comporta la perdita di efficacia sin
dall’inizio. Il decreto legislativo è adottato dal Governo su delega del Parlamento che definisce
l’oggetto e indica i principi e le direttive da seguire. Sono equiparate alle leggi anche le leggi
regionali che in seguito alla riforma del Titolo V permette alle Regioni di avete potestà legislativa
in alcune materie stabilite dall’articolo 117. La Corte Costituzionale pone il controllo della
legittimità su queste tipologie di fonti.
LE FONTI COMUNITARIE
Le principali norme sono quelle dei trattati istitutivi. Gli organi europei esercitano il potere
normativo attraverso i regolamenti e le direttive. I regolamenti sono atti normativi direttamente
efficaci negli Stati membri. Le norme dei trattati e dei regolamenti hanno efficacia orizzontale,
cioè devono essere rispettate da tutti. Le direttive sono atti normativi rivolti agli Stati che sono
tenuti ad emanare provvedimenti interni per attuare i principi delle direttive. L’efficacia è di tipo
verticale, cioè si applica nei soli rapporti tra i cittadini e lo stato. Altri atti sono i pareri e le
raccomandazioni e non hanno efficacia cogente. Se esiste un contrasto tra la norma interna e la
norma comunitaria, viene disapplicata l’interna. Inoltre le norme comunitarie devono attenersi
ai principi delle Costituzioni nazionali.
LE FONTI SECONDARIE
In questa categoria abbiamo i regolamenti che sono adottati dal Governo, dagli organi
amministrativi regionali, provinciali e comunali. I regolamenti sono atti amministrativi e il loro
contenuto è di tipo normativo. Abbiamo varie tipologie di regolamenti: 1) esecutivi o attuativi,
integrano il contenuto della norma della fonte primaria; 2) autonomi, regolano una materia non
disciplinata e costituiscono l’unica fonte di disciplina per quella materia; 3) organizzativi,
regolano l’organizzazione della Pubblica Amministrazione. I Regolamenti sono fonti secondarie e
la loro emanazione è autorizzata da una norma di legge e non deve violare le norme superiori.
Una disposizione legislativa può autorizzare un regolamento a derogare una o più norme di legge
e in questo caso abbiamo la delegificazione, cioè la legge non regola più una materia per
lasciarne il compito ai regolamenti. Il controllo della legittimità è diffuso, è il giudice a decidere
se applicare o no quel determinato regolamento
LA CONSUETUDINE
È l’ultima fonte normativa insieme agli usi normativi. La consuetudine si forma quando i
consociati svolgono un determinato comportamento ritenendolo giuridicamente vincolante. È
costituito da due elementi: di tipo materiale, che consiste nella ripetizione dello stesso
comportamento da parte dei consociati; di tipo psicologico, che consiste nella convinzione dei
consociati di osservare un precetto normativo. La consuetudine non può essere contra legem e
non si può abrogare una legge per desuetudine o uso contrario da parte della collettività. La
consuetudine va adottata nel caso in cui è richiesto dalle fonti sovraordinate (consuetudo
secundum legem) oppure in quelle materie non disciplinate da nessuna fonte (consuetudo
praeter legem).
IL CODICE CIVILE
Il Codice Civile è la principale fonte normativa ed è adottata con legge ordinaria. Nel XIX secolo
il codice rappresentava il raggiungimento della liberalità, poiché riuscì a regolare i diritti dei
privati, soprattutto riguardanti la proprietà. Altre caratteristiche del Codice sono il fatto di essere
riconosciuto e di essere completo. Ai giorni nostri, deve essere riconosciuto dalla carta
costituzionale che sancisce i rapporti economici, personali e familiari del cittadino e si fa carico
di promuoverli. Il codice civile italiano regola anche la materia commerciale mentre il Diritto
Commerciale fino al 1942 trovava disciplina del Codice di Commercio. Con il codice del 1942 si
è sancito la fine di un regime differenziato tra atti privati e atti di commercio.
L’efficacia delle norme incontra limiti di tipo temporale e spaziale. Le Leggi ordinarie sono efficaci
dopo 15 giorni dalla loro pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Questo periodo è chiamato
vacatio legis e permette ai cittadini di prendere conoscenza della disposizione. La vacatio legis
può essere accorciata o allungata per motivi di necessità. La norma perde efficacia se viene
abrogata. L’abrogazione può essere totale o parziale e può essere espressa, quando una norma
abroga una disposizione precedente, tacita, quando la nuova norma è incompatibile con la
precedente oppure quando disciplina l’intera materia. Esiste un apparente contrasto tra norma
generale e norma speciale, che viene risolto in favore della norma speciale perché appunto
questa ha la funzione di regolare il caso in maniera differenziata. L’abrogazione può essere
effettuata mediante referendum abrogativo (art. 75 Costituzionale). La sentenza della Corte
Costituzionale riguardo l’illegittimità o l’annullamento di una legge o regolamento comportano
l’eliminazione della norma che perde efficacia ex tunc, cioè sin dall’inizio. Quando una norma
sostituisce un’altra norma in tema di regolazione dei rapporti poiché non si sa quali norme attuare
si usano norme del diritto transitorio altrimenti si deve far fede al principio dell’irretroattività.
Solo in campo penale i cittadini non possono essere puniti per una legge che al momento del
compimento non era definita tale ai fini penali.
L’interpretazione alla lettera della norma è detta letterale mentre quella fa riferimento
all’intenzione del legislatore è detta logica o anche teleologica. Tutte le norme devono essere
interpretate e abbiamo quindi: l’interpretazione dichiarativa, quando il significato della norma è
congruo al suo significato letterale; l’interpretazione estensiva, quando il significato della norma
è più ampio rispetto al suo significato letterale; l’interpretazione restrittiva, quando il significato
della norma è meno esteso rispetto al suo significato letterale; infine è impossibile praticare
un’interpretazione abrogante.
Per individuare la ratio legis si possono utilizzare due metodi: 1) il metodo storico, che consiste
nel calare la norma nel contesto storico in cui il legislatore fu spinto ad emanarla; 2) il metodo
sistematico, che consiste nel capire il senso della legge rispetto alle altre norme dell’ordinamento.
Nel momento in cui l’interpretazione adegua una norma al mutato senso complessivo
dell’ordinamento, viene chiamata interpretazione evolutiva.
L’INTERPRETAZIONE AUTENTICA
L’interpretazione autentica consiste appunto in quel procedimento svolto dal giudice, che
attraverso l’emanazione di una sentenza, esprime il suo chiarimento riguardo quella disposizione.
Questo potere deriva dall’autorità posta nel giudice ed è vincolante per tutti ed ha efficacia
retroattiva.
L’ANALOGIA
Nel caso non esista nessuna norma specifica che regoli il caso concreto, si ricorre al procedimento
analogico, descritto negli art. 13 e 14 delle disposizioni preliminari al codice civile. Il giudice
applica una regola ricava dall’analogia legis, ovvero applica una norma riguardante una
fattispecie diversa ma simile a quest’ultima. Tra le due fattispecie deve esistere similitudine, cioè
la stessa ratio. Esempio: fino a poco tempo fa le norme della navigazione marittima venivano
utilizzate per la navigazione aerea. Non si può adottare questo procedimento nelle norme penale
e nelle norme eccezionali. Per le prime perché non si può punire una persona con una legge non
esistente al momento del compimento del reato; per le seconde invece, esse rappresentano
un’eccezione e come tali devono essere utilizzate solo nelle fattispecie comprendenti. Se non
può utilizzare l’analogia legis, allora il giudice creerà di sua volontà la nuova norma, attenendosi
ai principi fondamentali dell’ordinamento, dando vita al procedimento dell’analogia iuris.
Ogni soggetto coinvolto in una relazione regolata dal diritto è titolare di una posizione o di una
situazione giuridica soggettiva, che può essere attiva (se l’interesse è tutelato) o passiva (se
l’interesse non è tutelato). Il legame tra la posizione attiva e passiva costituisce il rapporto
giuridico. Si possono evidenziare 3 profili strutturali: 1) l’oggetto, detto anche bene giuridico e
che è dato dal bene oggetto di interesse dei soggetti; 2) gli interessi regolati, che sono necessari
ai fini dell’esistenza stessa del rapporto giuridico; e 3) il contenuto del rapporto, che è costituito
dalla regola di condotta che i soggetti del rapporto devono tenere.
Il rapporto giuridico possiede un profilo funzionale costituito dalla regolazione degli interessi in
conflitto. In ogni rapporto esiste un interesse prevalente o meritevole tutelato rispetto ad altri.
Il legislatore sancisce a carico del titolare della situazione attiva dei limiti o veri e propri doveri
da osservare. Esempio: il creditore nell’attuare il rapporto obbligatorio deve comportarsi secondo
buona fede in modo da preservare l’interesse del debitore (art.1175 c.c.). Il rapporto è formato
da posizioni attive o passive soltanto in relazione del loro contenuto principale e solamente ai
fini dell’individuazione del regime tipico. Il rapporto giuridico è la disciplina di un conflitto di
interessi in cui si riconosce un complesso di facoltà, obblighi e doveri ai soggetti interessati.
Le situazioni giuridiche sono divise in due grandi categorie a seconda che realizzano un interesse
di natura personale o di natura patrimoniale. Il sistema di tutela utilizzato dal nostro legislatore
è basato sul modello del rapporto patrimoniale e del suo paradigma che è il diritto soggettivo.
Tra le singole posizioni abbiamo il diritto soggettivo che consiste in una situazione che consente
al titolare di soddisfare il proprio interesse su un determinato bene. I diritti soggettivi possono
essere divisi in diritti assoluti o diritti relativi. Gli assoluti sono caratterizzati dal fatto che il
titolare è autorizzato a soddisfare il proprio interesse attraverso una relazione diretta e
immediata sul bene, egli può autonomamente realizzare le proprie pretese sull’oggetto del
rapporto. Il proprietario del diritto assoluto pretende dai consociati l’astensione da ogni
comportamento che possa interrompere o turbare la diretta soddisfazione dei suoi interessi, e
perciò è rivolta ergo omnes e un esempio semplice è la proprietà. L’assolutezza di questi diritti
si manifesta nell’ambulatorietà, cioè diritti esercitati su beni appartenenti ad altro proprietario
(esempio dell’usufrutto). I diritti assoluti a contenuto patrimoniale sono tipici, cioè stabiliti dalla
legge e costituiti dal diritto di proprietà e dagli altri diritti reali, di godimento o di garanzia. I
diritti della personalità sono tutti diritti assoluti. Vengono utilizzati vari strumenti per proteggere
questi strumenti, abbiamo quindi: 1) da azioni di reintegra, che consentono al titolare del diritto
di ottenere il ripristino della sua diretta relazione con il bene nel caso questa sia turbata; 2) da
azioni risarcitorie, che assicurano al titolare il risarcimento del danno subito e quindi una
reintegra solamente quantificabile in danaro; 3) da azioni inibitorie, per mezzo delle quali si può
ottenere un provvedimento che impedisca a determinati soggetti di continuare nel loro
comportamento lesivo; 4) da azioni di accertamento del diritto, che sono finalizzate a render
chiara l’esistenza della situazione giuridica.
I diritti soggettivi relativi consentono al titolare di soddisfare l’interesse sul bene solamente per
il tramite di un’attività che deve essere eseguita da un’altra persona ben individuata. Il rapporto
giuridico tipico è l’obbligazione. In questi tipi di rapporti, il titolare della posizione attiva
(creditore) pretende dai soggetti passivi (debitori) il compimento dell’attività di soddisfacimento
del suo interesse (prestazione). Il diritto è detto relativo perché viene fatto valere solo nei
confronti di determinate persone, cioè inter partes. Mentre al diritto soggettivo assoluto
corrispondeva come profilo passivo il dovere, nel diritto soggettivo relativo corrisponde come
profilo passivo l’obbligo. Gli strumenti di tutela del diritto relativo sono costituiti: 1)
dall’esecuzione in forma specifica, il titolare può ottenere l’effettiva attuazione della prestazione;
2) dal risarcimento del danno che assicura una reintegra di una somma di danaro equivalente
del patrimonio del creditore; esistono poi strumenti di tipo contrattuale come: 3) risoluzione del
contratto e eccezione di inadempimento, in cui il debitore sia obbligato a fare una prestazione
ma abbia diritto a una controprestazione da parte del creditore stesso, si tratta dei contratti
sinallagmatici o di scambio. In questo caso colui che non ha ottenuto la controprestazione può
chiedere di essere liberato dal proprio debito. Esistono poi rapporti relativi di tipo personale come
ad esempio l’obbligo di coabitazione, assistenza e fedeltà dei coniugi.
La distinzione tra diritti assoluti e relativi appare in crisi perché ai diritti relativi viene riconosciuta
rilevanza erga omnes. Anche al diritto relativo è attribuita tutela aquiliana cioè se un terzo
impedisce l’esecuzione della prestazione, è obbligato a risarcire i danni sofferti dal creditore. In
questo modo vuol dire che tutti devono astenersi dal tenere comportamenti impeditivi
dell’adempimento. Ciò non vuol dire che non si ha più distinzione tra diritti assoluti e diritti relativi
ma che semplicemente vengono adottati i medesimi strumenti per la protezione delle differenti
fattispecie.
Il diritto potestativo consiste nel potere attribuito ad un soggetto di modificare la sfera giuridica
altrui, con una propria unilaterale dichiarazione di volontà. Un esempio ci è dato dall’enfiteuta
che può acquistare con una sua dichiarazione unilaterale la proprietà anche senza la volontà del
proprietario, espropriandolo purché paghi il prezzo determinato dalla legge. Colui che si trova
obbligato a subire l’azione si trova in una situazione detta di soggezione. Nella potestà invece il
potere invasivo è concesso per la realizzazione di un interesse che è proprio del titolare della
sfera giuridica invasa. Un esempio è dato dai genitori che amministrano i beni dei figli minori
(articolo 320 c.c.). L’onere è una posizione ibrida e consiste in un comportamento che un
soggetto deve tenere per la realizzazione di un interesse proprio. L’interesse legittimo invece si
caratterizza per consentire ad un soggetto di far valere una norma posta nell’interesse dal
Pubblica Amministrazione ma per la realizzazione di un interesse proprio del soggetto che la
invoca. L’aspettativa di diritto è una posizione strumentale e si configura nel momento in cui un
soggetto non titolare di diritto soggettivo è destinatario dello stesso. È tutelata attraverso
strumenti di tipo conservativo come l’acquisto fatto sotto condizione sospensiva. L’aspettativa
non tutelata è detta di mero fatto e ne è un esempio il designato erede, che fin al momento in
cui il de cuius è in vita non può esercitare nessun diritto di aspettativa. Lo status consiste nella
posizione che un soggetto riveste nell’ambito di una formazione sociale e ne comporta
l’assunzione di una serie di diritti e di obblighi ben determinati.
Gli interessi diffusi rappresentano quegli interessi che meritano tutela ma sono interessi rivolti a
beni della vita non passibili di appropriazione esclusiva. Fanno capo ad un numero imprecisato
di persone non facilmente individuabili come ad esempio la salubrità dell’ambiente. Questi
interessi non sono tutelabili con i normali strumenti e per questo in alcuni casi l’ordinamento
individua soggetti esponenziali che rappresentano tutti i titolari di tali interessi e sono legittimati
ad agire per la tutela degli stessi. L’esigenza di tutela viene spesso realizzata attraverso un’azione
inibitoria che impedisca la produzione della lesione invece dell’azione risarcitoria. Figura analoga
è data dagli interessi collettivi, cioè quelli che appartengono ad un numero imprecisato di soggetti
che però costituiscono un gruppo o una comunità intermedia. Ad esempio gli interessi dei
lavoratori dipendenti, degli appartenenti ad una categoria professionale e soprattutto dei
consumatori a cui l’ordinamento assicura un trattamento particolare per poter ridurre lo squilibrio
che hanno rispetto al professionista.
La titolarità è il rapporto tra il soggetto e la situazione. Questa situazione può essere trasmessa
ad altro soggetto e abbiamo così il “dante causa o autore”, cioè colui che cede il diritto, e “l’avente
causa o successore”, colui che riceve il diritto. Se la situazione è facilmente trasmissibile è detta
“occasionale”. Nel campo patrimoniale le situazioni giuridiche sono disponibili e trasmissibili, cioè
possono essere cedute attraverso un atto tra vivi (contratto) o per causa di morte (disposizione).
Molti diritti non sono trasferibili ad altri soggetti e la loro titolarità è detta organica o istituzionale
e ne sono un esempio i diritti a contenuto personale e sono detti intrasmissibili. L’insieme delle
posizioni giuridiche appartenenti ad un soggetto costituisce la sfera giuridica mentre il patrimonio
è l’insieme delle sole situazioni a contenuto patrimoniale.
I soggetti di diritto sono quelle entità a cui sono riconducibili rapporti giuridici di ogni genere e
sono individuati attraverso l’attribuzione della capacità o personalità giuridica. La capacità è un
attributo che l’ordinamento riconosce ad un ente, in virtù del quale esso viene abilitato ad essere
titolare di situazioni giuridiche soggettive, queste entità vengono denominate “persone” e sono
tutti gli esseri umani, definite “persone fisiche” per distinguerle da altre entità definite “persone
giuridiche”. In un primo momento il concetto di persona veniva attribuito sulla contrapposizione
tra le persone libere e i servi e i liberti; l’ordinamento moderno invece riconosce la capacità
giuridica a tutti gli individui portando avanti il concetto di persona e dei suoi attributi.
Il diritto romano con “capax” indicava colui che poteva prendere un’eredità, un legato, un
fidecommesso in successione. Il nostro ordinamento non da una definizione precisa ma individua
il momento in cui si acquisisce e in cui si perde la capacità giuridica. La capacità giuridica presenta
varie caratteristiche come la generalità, cioè la capacità giuridica spetta a tutti gli uomini e viene
così eliminata la “morte civile”, cioè il privare della capacità giuridica chi avesse riportato una
condanna penale; è insopprimibile; è attributo essenziale della persona. Il riconoscimento della
capacità giuridica ha un duplice significato: 1) ripudio nei confronti dello schiavismo; 2)
presupposto per l’attuazione dell’eguaglianza formale. Viene così considerata come un vero e
proprio diritto inviolabile. Alcuni teorici, sostenitori della teoria organica della capacità
definiscono la personalità giuridica come attributo generale riconosciuto agli esseri umani, viene
così identificata con la soggettività giuridica. Si parla di capacità speciali per considerare singoli
tipi di rapporto che possono entrate nella titolarità di una persona se questa possiede alcune
capacità ulteriori. La salute incide sulla capacità giuridica come ad esempio nel caso degli
interdetti e degli inabilitati affetti da un dichiarato vizio di mente. Influisce anche l’onore come
stabilito dal Testo unico bancario che afferma che i soggetti che svolgono funzioni in banca
devono avere tra i propri requisiti anche l’onorabilità. Il sesso incide per quanto riguarda il lutto
vedovile e il servizio militare; mentre l’età per quanto riguarda l’essere titolari di certi rapporti
di lavoro da parte dei minori.
Le persone giuridiche acquistano la capacità giuridica con la nascita. Secondo il codice civile per
nascita è sufficiente che il feto venga alla luce vivo e quindi colui che nasce morto non è persona
dal momento che “qui mortui nascuntur neque nati neque procreati videntu” (coloro che nascono
morti non si considerano né nati né procreati). L’ordinamento inoltre riconosce generale capacità
di essere destinatario di un diritto al nascituro (nasciturus), che può acquistare qualunque bene
con qualunque atto che verrà compiuto dai suoi genitori esercitanti la legale rappresentanza. Al
concepito (concepturus) questa capacità è riconosciuta in relazione al testamento e alla
donazione, purché si tratti di futuro figlio di persona vivente al momento della donazione o morte
del testatore. Molto discusso è il danno da procreazione in seguito ad una malattia genetica o
altra patologia trasmessa dal genitore al figlio nell’atto del concepimento. La dottrina nega che
vi sia danno risarcibile poiché il bene da risarcire dovrebbe essere già esistente al momento del
danneggiamento ma non è così. Il diritto alla vita, disciplinato dall’articolo 1 della legge del 22
maggio 1978 n°194 tratta dell’interruzione volontaria della gravidanza, tutelando la vita umana
sin dall’inizio; il limite è posto nel momento in cui è in pericolo la vita della madre e quindi si
ricorre all’aborto terapeutico.
La capacita giuridica si perde con la morte ed è la medicina legale a stabilire i criteri per il suo
accertamento. La morte biologica appunto dice che la morte dell’uomo non coincide con la morte
dell’intero organismo quindi si fa ricorso alla morte clinica che viene fatta coincidere con la fine
di ogni attività del sistema nervoso centrale ed è detta anche morte celebrale o cervello piatto.
Questo accertamento viene compiuto dal medico necroscopo e dall’ufficiale di stato civile che
redige l’atto di morte. Questo viene inserito nei registri dello stato civile e costituisce prova di
morte facendo evincere luogo, giorno e ora del decesso. La verifica della morte di una persona
può essere dimostrata con qualsiasi mezzo di prova (art.452). La morte del soggetto provoca
l’estinzione dei diritti di carattere personale come il diritto all’integrità fisica, al nome, ai rapporti
familiari e si estinguono anche i rapporti reali legati alla durata della sua esistenza come l’uso,
l’abitazione, l’usufrutto e anche i rapporti intuitu personae come il mandato e il rapporto di
lavoro. Cessano i rapporti di diritto pubblico come il pagamento di multe o di ammende. Mentre
i rapporti patrimoniali vengono trasmessi in successione agli eredi o ai legatari della persona
estinta. Abbiamo poi il caso della commorienza (art.4) che dice che nel caso sussistano particolari
legami tra due persone, la sopravvivenza dell’una rispetto all’altra può avere rilievo nel campo
delle successioni per causa di morte. Un esempio è dato dal rapporto tra due coniugi, in cui uno
diventa l’erede dell’altro.
L’ordinamento disciplina l’ipotesi della scomparsa di una persona, ovvero l’incertezza circa la sua
esistenza fisica. Sussistono due casi opposti: il primo il voler conservare i beni in vista di un
eventuale ritorno; il secondo, la volontà dei successori di essere immessi nel possesso o nella
titolarità dei rapporti giuridici dello scomparso. L’art.48 stabilisce che nel caso una persona si
allontani dal proprio domicilio, o residenza e non se ne hanno più notizie, attraverso un’istanza
di alcuni soggetti indicati dalla legge o dal pubblico ministero è possibile chiedere al tribunale la
nomina di un curatore speciale che gestisca i beni dello scomparso. Il presupposto unico è la
scomparsa del soggetto. Questa è una situazione di fatto e legittima l’intervento giudiziario al
fine di conservare i suoi beni.
L’ASSENZA
Se la scomparsa della persona prosegue per più di due anni, il tribunale può dichiararne l’assenza
(art.49). Possono richiedere la dichiarazione di assenza al tribunale i presunti successori legittimi
e chiunque creda di avere diritti sui beni dello scomparso. In seguito ad un provvedimento
giudiziale, gli eredi vengono immessi nei suoi beni. Vengono aperte le carte testamentarie e si
passa ad un regime finalizzato alla tutela dei possibili eredi. Questi vengono immessi nel
possesso temporaneo, poiché potranno esercitare i diritti relativi al bene ma nel caso si abbia il
ritorno dello scomparso allora questi diritti verranno restituiti. A garanzia di tale restituzione gli
eredi prestano idonea cauzione. I debitori sono esonerati temporaneamente dall’esecuzione della
prestazione. Gli eredi possono chiedere l’autorizzazione al tribunale per poter vendere un
determinato bene e viene stabilito il reimpiego del prezzo. Per quanto riguarda il matrimonio,
questo non viene sciolto finché non viene dichiarata la morte presunta e il coniuge superstite
non è libero a meno che non abbia ottenuto il divorzio. L’assenza cessa o con il ritorno del
soggetto o con l’accertamento della sua morte. Nel primo caso cessano gli effetti della
dichiarazione di assenza e il soggetto riavrà in dietro i suoi beni. Nel secondo caso si aprirà la
successione con decorrenza dal momento della morte.
Se la scomparsa della persona prosegue per almeno dieci anni, il tribunale può dichiarare la
morte presunta (art.58) e questa dichiarazione avviene con sentenza e la morte è fissata nel
giorno al quale risalgono le ultime notizie. In alcuni casi questo termine è accorciato come ad
esempio nel caso di scomparsa in seguito a operazioni belliche o in occasione di sciagure o
infortuni. In seguito alla dichiarazione di morte presunta si adotta lo stesso regime conseguente
alla morte accertata, si apre la successione e gli eredi acquisiscono la proprietà dei beni. Se lo
scomparso ritorna ha diritto alla restituzione dei beni e solo al prezzo non consumato ricavato
dalla loro vendita. La dichiarazione di morte scioglie il matrimonio e quindi il coniuge superstite
può sposarsi, e nel caso di ritorno dello scomparso il secondo matrimonio viene invalidato, ciò
non può accadere nel caso venga accertata la morte anche se avvenuta successivamente al
secondo matrimonio.
L’articolo 2 del Codice Civile stabilisce che la capacità d’agire si acquista con la maggiore età,
salvo che la legge non definisca un’età diversa. La capacità d’agire è la capacità di compiere tutti
gli atti per i quali non sia richiesta un’età diversa dai 18 anni. La capacità d’agire indica una
qualità del soggetto che consiste nell’attitudine a compiere validi contratti o atti negoziali in
genere. È capace di agire chi è riconosciuto idoneo dall’ordinamento a porre in essere tali atti.
La capacità d’agire ha una finalità di protezione poiché infatti l’ordinamento intende tutelare
coloro che sono d’età molto giovane o che non sono capaci di intendere e volere. In questo modo
l’ordinamento li considera sforniti di capacità d’agire ed è la legge ad individuare le persone che
sono incaricate di compiere queste azioni al posto dell’incapace. Gli incapaci possono ugualmente
compiere atti di gestione o disposizione del loro patrimonio ma sono annullabili e possono essere
resi inefficaci con sentenza del giudice su istanza di chi rappresenta l’incapace, dei suoi eredi o
aventi causa o dell’incapace dopo che abbia acquisito la capacità. Se è la legge ad autorizzare
l’incapace alcuni atti, questi non possono essere annullati. Il legislatore in questo modo vuole
favorire la partecipazione delle persone incapaci poiché l’incapacità determina una sorta di
emarginazione. Ad esempio l’età minore rappresenta un motivo per cui gli altri consociati non
concludono accordi con i minori poiché questi accordi sono facilmente annullabili. Esiste un’unica
eccezione prevista dall’articolo 1426 del c.c. che stabilisce che l’accordo non può essere annullato
nel caso in cui il minore con artifici e raggiri riesca a nascondere la sua minore età all’altra parte
che non può richiedere l’annullamento secondo la regola latina “malitia supplet aetatem”. La
capacità di agire è uno schema formale perché conferisce il potere di amministrare e disporre
dei propri beni al compimento dei 18 anni cioè in un momento essenziale della propria esistenza.
La centralità della persona umana ha portato ad un cambio progressivo della capacità d’agire
riguardando soprattutto i profili di carattere personale ed esistenziale. Si deve distinguere la
condizione del minore di età da quella degli altri soggetti incapaci. È stata abbassata l’età per
l’autorizzazione al compimento di alcuni atti come ad esempio il compimento dei 14 anni per
dare il proprio consenso all’adozione oppure il compimento dei 16 anni per riconoscere un figlio
naturale. Negli ordinamenti stranieri questi criteri di capacità di agire speciale sono adottati
anche nel campo patrimoniale mentre in Italia no. Il secondo strumento è dato dalla capacità
naturale o di discernimento che è quella capacità che possiede chiunque sia maturo per assumere
determinate decisioni. In questo caso il riconoscimento è previsto dalla legge 4 maggio 2001 che
prevede la possibilità da parte del giudice di sentire il minore anche di età inferiore ai 12 anni,
dotato di maturità di giudizio, per accertare la situazioni in cui versi. Un altro strumento è quello
dell’istituto dell’amministrazione di sostegno che consente di privare il soggetto infermo della
propria capacità soltanto con riguardo a singoli e determinati atti, con riguardo agli atti al cui
compimento non sia in grado di provvedere da solo. L’interdetto può essere autorizzato dal
giudice a compiere da solo atti di ordinaria amministrazione o soddisfare piccoli bisogni personali
della vita quotidiana. L’inabilitato può ottenere che il giudice gli riconosca la possibilità di porre
in essere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione anche senza l’intervento del curatore, come
accettare un’eredità o acquistare auto o casa.
La legge 8 marzo 1975 n°39 ha stabilito la maggiore età ai 18 anni. Il calcolo degli anni avviene
seguendo il computo civile cioè la maggiore età si acquista alla mezzanotte del giorno
corrispondente a quello della nascita. Il minore è incapace anche se in alcuni casi la sua volontà
è rilevante come ad esempio la possibilità di riconoscere un figlio da parte del genitore che abbia
compiuto i 16 anni (art.250 V); il sedicenne può contrarre matrimonio (art.84) e quindi assume
la capacità di stipulare le convenzioni matrimoniali. Si applica la nota regola latina secondo cui
“habilis ad nuptias, habilis ad pacta nuptialia”, così con il matrimonio il minore acquisisce lo stato
di minore emancipato. Il minore 14enne per essere adottato deve dare il proprio consenso. La
legge sull’aborto (legge 22 maggio 1978 n.194) riconosce alla donna minore di chiedere
l’interruzione della gravidanza con l’assenza di chi esercita la potestà o con l’autorizzazione del
giudice. La legge sul diritto d’autore riconosce al minore 16enne la possibilità di compiere atti
relativi alle opere di ingegno. Il minore deve essere sentito dal giudice in caso di adozioni o di
affidamento preadottivo nel caso abbia meno di 12 anni. Dai 14 ai 16 anni si acquista la capacità
lavorativa. La Convenzione di Strasburgo riconosce il diritto all’informazione, il diritto ad
esprimere la propria opinione e ad essere consultato nei procedimenti che lo riguardo e il diritto
ad essere assistito da un rappresentante speciale.
Il minore non può compiere nessun atto di tipo personale tranne nei casi prima elencati. Gli atti
di tipo patrimoniale sono compiuti per il minore dai genitori che esercitano la relativa potestà
(potestà dei genitori). I contratti conclusi solo dal minore sono annullabili. Il minore non può fare
testamento (art.591). Può porre in essere atti non negoziali nei quali non rileva la volontà
consapevole dell’uomo. Il minore può compiere atti illeciti e in questo caso è necessario che sia
capace di intendere e volere nel momento in cui agisce (art.2046). Può porre in essere fatti
umani come ritrovare un oggetto smarrito e consegnarla alle competenti autorità o rinvenire un
tesoro (art.927 e 932). La potestà è una posizione giuridica complessa perché è costituita da
obblighi e da poteri e diritti. Tali doveri riguardano la sfera personale del minore che i genitori
devono mantenere, istruire ed educare (art.147) e la sfera patrimoniale. I genitori sono muniti
di potere rappresentativo nei confronti del minore. La rappresentanza è un istituto che consente
ad un soggetto (rappresentante) di compiere atti giuridici in nome e nell’interesse di un altro
soggetto (rappresentato). I genitori possono esercitare l’ordinaria amministrazione mentre per
gli atti straordinari è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare. La distinzione tra le due
tipologie consiste nel fatto che i primi sono finalizzati al mantenimento dei beni e alla percezione
dei frutti prodotti mentre gli altri comportano una modifica della consistenza patrimoniale del
minore. Tra gli atti in cui i genitori devono essere autorizzati si ha (art.320 III) la compravendita
di beni del minore, la costituzione di garanzie reali, l’accettazione di eredità e la contrazione di
mutui. Il minore non ha né capacità di agire e né capacità imprenditoriale e i genitori non possono
avviare imprese in nome e per conto del figlio, possono però continuarla nel caso il minore l’abbia
ereditata. Gli atti compiuti dai genitori senza l’autorizzazione sono annullabili entro il termine di
5 anni da quando il minore ha raggiunto i 18 anni (art.1442). L’istanza è esposta dal minore
stesso o dai genitori, dagli eredi o gli aventi causa. Non può essere proposta dalla controparte
contrattuale. In un caso non è annullabile, quando con astuzia abbia occultato la sua minore età.
I genitori rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni. Esso,
utilizzando il termine rappresentanza con riguardo a una persona che ancora non è venuta ad
esistenza, sembra prevedere l’ipotesi di rappresentanza di un soggetto futuro. I genitori agiscono
in nome e nell’interesse di un individuo non titolare della capacità giuridica ma lo sarà alla
nascita. I futuri genitori del nascituro sono tenuti ad agire nel suo interesse qualora il nascituro
sia chiamato ad una successione in caso di morte o sia donatario di un bene. In entrambi casi
occorre distinguere il nascituro concepito dal nascituro non concepito. Il primo può essere sia
erede legittimo che testamentario mentre il secondo può succedere solo attraverso testamento
o se figlio di una determinata persona vivente al momento dell’apertura della successione o se
si tratta di donazione a suo favore. L’amministrazione dei beni lasciati in eredità a favore di
nascituri è attribuita ai soggetti interessati ugualmente all’eredità.
Il C.C. prevede alcuni istituti per tutelare i maggiori di età che si trovino in condizioni fisiche o
psichiche tali da renderli inidonei a provvedere da soli alla cura dei propri interessi. Questi istituti
sono: l’amministrazione di sostegno, l’interdizione e l’inabilitazione. L’amministrazione è uno
strumento di tutela per i soggetti deboli, ha carattere flessibile ed elastico, si presta a far fronte
a varie situazioni di debolezza e fragilità che colpiscono il soggetto. L’amministratore di sostegno
non può compiere tutti gli atti di cura e di gestione del patrimonio dell’incapace ma soltanto i
singoli atti espressamente indicati dal giudice nel decreto di nomina, per il resto il beneficiario
conserva la sua capacità di agire. L’amministratore di sostegno può svolgere sia funzioni di
rappresentanza dell’incapace sia funzioni di assistenza. Nel primo caso si realizza una forma di
rappresentanza legale, l’ads agisce per nome e conto dell’incapace, mentre nel secondo caso
l’ads assiste l’incapace che partecipa in prima persona all’atto. Dunque mentre il tutore
rappresenta l’interdetto e il curatore assiste l’inabilitato, l’amministratore di sostegno può
realizzare ed assistere il beneficiario.
L’ads è uno strumento di protezione per coloro che hanno una menomazione fisica o psichica e
che si trovino nell’impossibilità parziale o temporanea di provvedere alla cura dei propri interessi.
L’ads ricorre in varie situazioni: anziani, portatori di handicap, soggetti costretti a lunghe degenze
ospedaliere, malati di alzhaimer e Parkinson ecc.. L’ads è pronunciato con decreto dal giudice
tutelare, e può essere legittimato a richiederla innanzitutto il coniuge, la persona stabilmente
convivente, alcuni parenti stretti, nonché il tutore ed il pubblico ministero. Il giudice definisce
nel decreto di nomina i poteri dell’amministratore, precisando gli atti che l’amministratore deve
compiere da solo, in nome e per conto del beneficiario, e gli atti in cui interviene nella semplice
funzione di assistente. Negli atti non specificati il beneficiario conserva la capacità di agire. La
durata della nomina può essere a tempo determinato o indeterminato e in ogni sotto la
sorveglianza del giudice. Il decreto di nomina è soggetto a pubblicità affinchè i terzi siano a
conoscenza dell’eventuale incapacità del soggetto e degli atti per i quali egli deve essere
rappresentato.
La nomina dell’amministratore di sostegno avviene di norma ad opera del giudice tutelare però
il C.C. all’art.408 disciplina la designazione in previsione dell’incapacità. Il soggetto nel pieno
possesso delle facoltà mentali può con apposito atto scritto designare colui che si prenderà cura
di lui nel caso si ritrovi in una condizione di completa o parziale incapacità. La designazione
spetta al soggetto beneficiario mentre la nomina spetta al giudice tutelare.
Egli è incapace di agire soltanto per determinati atti indicati dal giudice tutelare la nomina
dell’ads. Per gli altri atti conserva la capacità di agire, infatti è capace di fare testamento e di
gestire il proprio patrimonio. Conserva piena capacità per ciò che concerne la sfera personale ed
esistenziale (contrarre matrimonio). Per gli atti nei quali occorre l’assistenza o rappresentanza
dell’ads, l’ads deve tener conto del parere dell’incapace e agire nel suo esclusivo interesse. Si
distinguono gli atti di straordinaria amministrazione da quelli di ordinaria. L’ads è nominato per
il compimento di atti che vanno oltre l’ordinaria amministrazione (acquistare bene, accettare
eredità, donare o assumere obbligazioni). Gli atti compiuti dall’ads che violano le leggi sono
annullabili come quelli compiuti dal beneficiario senza l’ausilio dell’ads nei casi in cui era previsto.
L’INTERDIZIONE
L’art.414 prevede che la persona di maggiore età e il minore emancipato sono interdetti quando
si trovino in condizione di abituale infermità di mente che li rende incapace di provvedere ai
propri interessi. Si ricorre all’interdizione nelle situazioni più sfortunate nelle quali
l’amministrazione di sostegno risulta inidonea, ciò perché tale istituto confina il disabile in una
condizione di pressoché completa incapacità anche sul piano personale. Essa pertanto può essere
dichiarata solo nel caso in cui ricorrano determinati presupposti: abituale infermità di mente,
incapacità di provvedere alla cura dei propri interessi e inidoneità di ogni altra misura ad
assicurare adeguata protezione all’incapace. Può essere legittimato a richiederla innanzitutto il
coniuge, la persona stabilmente convivente, alcuni parenti stretti, nonché il tutore ed il pubblico
ministero.
L’INABILITAZIONE
L’inabilitazione riguarda i soggetti che pur essendo affetti da vizio abituale di mente non sono
considerati del tutto inetti ad amministrare il proprio patrimonio. È disposta dal tribunale con
procedure analoghe all’interdizione. Il curatore viene scelto dal giudice tutelare e in ogni caso il
giudice deve verificare se l’inabilitando abbia prima dell’incapacità individuato una persona di
fiducia da nominare come curatore.
L’EMANCIPAZIONE
Sia l’inabilitato che il minore emancipato sono assoggettati ad una potestà chiamata curatela. Il
curatore aiuta l’inabilitato e l’emancipato nei casi di straordinaria amministrazione. Il minore non
può fare testamento mentre l’inabilitato si. Il minore può essere autorizzato all’esercizio
dell’attività di impresa e in tal caso può svolgere da solo anche gli atti di straordinaria
amministrazione.
L’interdizione legale rappresenta una pena accessoria combinata a chi è stato condannato
all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore ai 5 anni e per reato doloso. Si tratta
di un istituto punitivo di un soggetto che si è macchiato di reati infamanti. L’interdetto legale non
può compiere atti di natura patrimoniale ma può compiere atti di natura personale. Nei casi in
cui compia atti a contenuto patrimoniale essi sono affetti da annullabilità assoluta. Non determina
un’incapacità di agire il fallimento nell’esercizio della propria attività personale.
L’ordinamento disciplina una situazione di fatto che si verifica quando un soggetto pur essendo
legalmente capace di agire, versi al momento della stipula dell’atto una concreta situazione di
incapacità di intendere e volere. Tale situazione viene definita incapacità naturale o non
dichiarata. Non è importante stabilire da quale causa sia determinata l’incapacità, ma è possibile
che si tratti di soggetto affetto da stabile vizio di mente ma ciò nonostante non sia stato
dichiarato infermo. Nel caso questi compia un atto a contenuto personale o patrimoniale, questo
è annullabile. L’annullamento va proposta entro 5 anni dal suo compimento.
Straniero è colui che non è cittadino italiano ma risiede nel nostro paese. La condizione giuridica
dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
L’ordinamento riconosce allo straniero i diritti costituzionali inviolabili e i diritti civili che vengono
assicurati al cittadino italiano che si trovi nello Stato dello straniero secondo il principio di
reciprocità.
La capacità giuridica e di agire non competono solo alle persone fisiche ma anche ad altri enti
detti persone giuridiche. La funzione delle persone giuridiche è quella di consentire la costituzione
di un centro di imputazione di rapporti giuridici autonomo rispetto a tutti gli altri soggetti
compresi quelli che hanno contribuito o contribuiscono a formarlo. La ragione fondamentale per
la quale viene costituito questo centro di imputazione dei rapporti costituisce lo scopo della
persona giuridica. La creazione di una persona giuridica assicura una stabile destinazione dei
beni proprio perché l’autonomia patrimoniale impedisce ogni commistione di vicende. Inoltre
coloro che hanno destinato i beni allo scopo sono sicuri che il loro patrimonio non subisca alcuna
conseguenza connessa all’attività dell’ente. Mancando lo scopo o essendosi esaurito la persona
giuridica si estingue o si trasforma.
L’essenza primaria della persona giuridica consiste nel perseguimento di uno scopo preciso. Lo
scopo deve risultare dall’atto costitutivo e dallo statuto e può avere qualsiasi natura purché sia
lecito e determinato o determinabile. Non deve trattare lo scopo di lucro altrimenti si parlerà di
società. Insieme allo scopo costituiscono elementi strutturali le persone fisiche, il patrimonio, la
denominazione e la sede. Il patrimonio è costituito dai beni necessari al raggiungimento dello
scopo. La denominazione è il segno distintivo che identifica la persona giuridica, può essere un
nome di fantasia purchè non sia falsa o tragga in inganno terzi. La sede è il luogo in cui opera
l’organo amministrativo dell’ente. La presenza di tutti gli elementi permette la richiesta di
riconoscimento dell’organo nei confronti dello Stato. Il riconoscimento viene conferito con
l’iscrizione in un apposito albo tenuto presso le prefetture. Entro 120 giorni, il prefetto o l’autorità
regionale o provinciale devono provvedere se sussistono i presupposti di liceità e meritevolezza
dello scopo ad iscrivere l’ente nel registro.
LE ASSOCIAZIONI
LE FONDAZIONI
Le fondazioni sono enti creati dalla volontà di un fondatore allo scopo di amministrare determinati
beni e destinarli ad un preciso fine. A differenza dell’associazione qui è fondamentale l’elemento
patrimoniale. La fondazione si costituisce con atto unilaterale o per testamento. L’atto costitutivo
inter vivos deve avere forma pubblica per garantire la spontaneità dell’atto del disponente (come
con le donazioni). Se avviene mediante testamento non occorre la forma pubblica. Altra cosa è
il negozio di dotazione che attribuisce determinati beni a favore dell’ente. Ha contenuto
patrimoniale e ha come fine il dotare la fondazione del patrimonio necessario per raggiungere il
fine. Tra l’atto costitutivo e il negozio di dotazione esiste un collegamento negoziale bilaterale
cioè le vicende dell’uno influiscono sull’altro. Gli amministratori gestiscono il patrimonio e il
perseguimento dello scopo, mentre non esiste l’assemblea. La fondazione si estingue a seguito
del raggiungimento dello scopo, dell’impossibilità o per i casi previsti dall’atto costitutivo. Se il
patrimonio diventa insufficiente, l’autorità governativa prevede la trasformazione. Le fondazioni
possono devolvere i propri beni ad altre fondazioni simili.
Le fondazioni di norma non perseguono scopi lucrosi ma in assenza di divieto nell’atto costitutivo,
possono svolgere attività di impresa ma i proventi dovranno essere utilizzati solamente per il
raggiungimento dello scopo (fondazioni di impresa). La fondazione non può fallire in quanto non
è obbligata a depositare bilanci. Abbiamo poi le fondazioni di famiglia che sono destinate a
vantaggio di una o più famiglie determinate.
LE FONDAZIONI DI PARTECIPAZIONE
Sono quelle che non hanno richiesto il riconoscimento all’autorità governativa e sono considerate
una sorta di schema per piccoli sodalizi del libero associazionismo garantito dall’art.18
costituzionale. Il codice riconosce autonomia patrimoniale imperfetta, cioè si ha un fondo
comune formato dai versamenti degli associati (art.37). La rappresentanza spetta al presidente
o direttore mentre gli altri organi sono diretti dai patti siglati dagli associati (art.36). Per quanto
riguarda le obbligazioni, ne rispondono gli amministratori che le hanno contratte e i creditori
possono soddisfarsi sul patrimonio degli amministratori e su quello dell’associazione. Per quanto
riguarda l’acquisto di beni immobili, l’art.2659 consente la trascrizione dei contratti che le
associazioni non riconosciute compiono.
I COMITATI
I comitati sono enti che hanno come scopo il soccorso e l’assistenza o la promozione di un’opera
pubblica (art.39). Coloro che danno vita al comitato per mezzo di contratto associativo sono detti
promotori. Dopo che i terzi vengano a conoscenza del programma si può partire con la raccolta
fondi. Coloro che gestiscono la raccolta fondi sono responsabili nei confronti dei terzi per gli atti
di gestione compiuti in nome del comitato. Delle obbligazioni rispondono i promotori e non i
sottoscrittori. I comitati non hanno autonomia patrimoniale ma hanno autonomia processuale.
Il comitato si estingue per insufficienza dei fondi, per il raggiungimento dello scopo o per
l’impossibilità.
Gli enti non profit rappresentano il “terzo settore”, cioè enti privati perseguono interessi di
rilevanza collettiva. Lo Stato promuove la nascita degli enti non profit poiché sono attività che
non producono utili e gli avanzi di gestione sono riutilizzati per gli scopi organizzativi. L’ente non
svolge attività commerciale salvo che non sia strumentalmente utile al raggiungimento degli
scopi sociali. Tra questi enti non profit abbiamo le O.N.L.U.S., cioè le Organizzazioni Non Lucrative
di Utilità Sociale create con il decreto legislativo del 4 dicembre 1997 n°460. Non possono essere
ONLUS gli enti pubblici, le società commerciali (tranne le cooperative), le fondazioni bancarie, i
partiti, i movimenti politici, le associazioni di categoria e le organizzazioni sindacali. Le ONLUS
operano per l’assistenza sociale e socio-sanitaria, beneficenza, istruzione, sport dilettantistico,
valorizzazione dell’interesse storico, artistico e ambientale. Denominazione e segni distintivi
devono contenere il termine ONLUS e vengono iscritte in un’Anagrafe tenuta dal ministero delle
Finanze. Dall’atto costitutivo deve emerge l’assenza di finalità lucrose.
Ci sono altre tecniche che consistono nei patrimoni dedicati, cioè un insieme di rapporti destinati
ad uno scopo che sono nella titolarità di una persona ma nello stesso tempo separati rispetto al
resto del patrimonio. Il codice prevede diverse ipotesi di destinazione patrimoniale: il fondo
patrimoniale, l’eredità giacente, il patrimonio dedicato ad un affare e i vincoli di destinazione.
Queste si distinguono per la gestione dei beni, della comunicazione tra il patrimonio separato e
quello di origine e della coincidenza proprietaria. In altri abbiamo una completa segregazione
patrimoniale come nel trust. Ciò consiste in un rapporto fiduciario in cui il trustee gestisce un
patrimonio di un altro soggetto, disponente, per uno scopo prestabilito. Il trustee diviene il solo
e legittimo proprietario dei beni e deve attenersi all’atto istitutivo. L’effetto più importante è la
segregazione patrimoniale in quanto i beni in trust sono separati dal patrimonio delle persone
coinvolte, con la conseguenza che non possono mai essere toccati da vicende patrimoniali e
personali. I beni in trust sono soggetti ad un duplice vincolo: di destinazione (lo scopo del
disponente) e di separazione (separare dal patrimonio). In Italia ciò è stato introdotto da poco
e prevede che un soggetto mediante atto pubblico destina determinati beni immobili o mobili
per scopi meritevoli a vantaggio di un beneficiario. Questo può essere un disabile, pubbliche
amministrazioni o enti o persone fisiche. L’importante è che la destinazione patrimoniale risponda
ad un interesse meritevole. Il vincolo non può eccedere i 90 anni o la durata della persona
beneficiaria. Questa fattispecie viene utilizzata nel diritto di famiglia nel caso in cui i conviventi
more uxorio costituiscono un vincolo su alcuni beni per destinarli al fabbisogno famigliare.
Per la persona fisica, il luogo dove dimora abitualmente e vive è detto residenza (art.43 II). La
residenza è un quid facti ed è caratterizzata dall’intenzione del soggetto di stabilirsi in un
determinato luogo. È contenuta negli uffici anagrafe di ogni comune. In caso di trasferimento il
soggetto deve comunicarla al comune, ciò occorre per pubblicarlo ai terzi. Il domicilio (art.43 I)
è il luogo dove la persona svolge la sua attività di lavoro e i suoi affari. È un quid iuris e può
coincidere con la residenza. Può essere speciale se eletto per un singolo affare. Il minore ha il
domicilio nel luogo di residenza della famiglia. L’interdetto ha il domicilio del tutore. La dimora è
il luogo dove un soggetto soggiorna occasionalmente (villeggiatura). Le pubblicazioni per il
matrimonio vanno fatte nel comune di residenza degli sposi. Le notificazioni vanno inviate nel
comune di residenza. La successione si apre nel luogo del suo domicilio. Al domicilio vanno
adempiute le obbligazioni.
La persona giuridica ha un luogo chiamato sede (art.16) e questa è stabilita dall’atto costitutivo
ed è detta. La sede è il luogo dove opera l’organo amministrativo della persona giuridica. La sede
effettiva invece è dove si svolgono le attività amministrative e di direzione dell’ente. Possono
esserci anche sedi secondarie individuate dalle filiali e succursali.
Il rapporto giuridico lega un conflitto di interessi a riguardo di un bene della vita, cioè di una
cosa sulla quale si appuntano contrapposti interessi di vari soggetti. L’oggetto del rapporto
giuridico è costituito dal bene che è al centro della disciplina del conflitto. La cosa da cui, dunque,
il proprietario o il titolare di ogni diritto reale può trarre direttamente l’utilità a cui ha interesse,
costituisce l’oggetto del rapporto giuridico. L’art.1174 individua nella prestazione l’oggetto
dell’obbligazione. Diverso dall’oggetto è il contenuto del contratto che è costituito dall’insieme
dei comportamenti che i soggetti titolari delle situazioni giuridiche, attive o passive, possono o
devono tenere. È stabilito dalla legge o dalla volontà delle parti.
I rapporti giuridici non hanno tutti contenuto patrimoniale, alcuni sono funzionali alla
soddisfazioni di interessi di tipo personale (cioè non economico). I diritti della personalità sono
ad esempio diritti soggettivi assoluti non patrimoniali, in tali rapporti è difficile individuare un
bene specifico che costituisca l’oggetto, si confonde con l’interesse stesso che l’ordinamento
riconosce come meritevole di tutela. I diritti di tipo patrimoniale sono attuabili attraverso
l’esecuzione in forma specifica (esempio procedura che assicura la prestazione al creditore)
mentre l’esecuzione non è prevista e forse non ipotizzabile per i diritti a contenuto non
patrimoniale.
Il concetto di costituzione del rapporto indica la venuta ad esistenza della relazione giuridica
mentre l’acquisto del rapporto implica che il rapporto venga assunto nella titolarità di un
soggetto: la nascita incide sull’esistenza del rapporto, mentre l’acquisto sulla sua titolarità.
L’acquisto di un diritto si dice a titolo originario quando il momento costitutivo coincide con quello
acquisitivo, ad esempio i rapporti patrimoniali o diritti della personalità (hanno origine con la
persona stessa). L’acquisto è a titolo derivativo allorchè si verifica un mero passaggio del
rapporto e cioè della situazione attiva o passiva da un soggetto all’altro. L’acquisto avrà effetto
soltanto se colui che cede il rapporto, il dante causa, sia effettivamente titolare dello stesso.
Sotto tale profilo l’acquisto a titolo originario è pertanto certo, infatti gli acquisti a titolo originario
hanno la caratteristica dell’effetto purgativo: cioè determinano l’automatica estinzione di tutti i
diritti precedentemente esistenti sul bene.
Un tipo di vicenda estintiva è la prescrizione. È una vicenda estintiva dei diritti soggettivi e quindi
del rapporto che essi costituiscono: rappresenta un generale modo di estinzione di quasi tutti i
diritti patrimoniali, che consegue al mancato esercizio delle facoltà. Chi infatti omette per un
lungo periodo di tempo il contenuto dei diritti dimostra di non esserne interessato: ciò rende
evidente che l’esigenza di tutela, che aveva giustificato la nascita del rapporto viene meno. La
prescrizione può essere fatta valere solamente dal titolare della situazione passiva. Perché la
prescrizione maturi sono necessari alcuni presupposti ovvero dal mancato esercizio per un
periodo di tempo stabilito dalla legge di tutte le facoltà che costituiscono un diritto che poteva
essere esercitato. In primo luogo l’inerzia del titolare deve essere assoluto, nel senso che deve
riguardare tutto il contenuto del diritto mentre in secondo luogo è necessario che l’inerzia del
titolare non sia stata determinata da un ostacolo giuridico e allo stesso modo non decorre se il
concreto esercizio del diritto dipende dal passaggio di un determinato periodo di tempo o dal
verificarsi di un evento futuro. La prescrizione decorre solo da quando l’impedimento è rimosso.
Un ostacolo all’esercizio può essere anche di mero fatto o dipende da motivi di carattere morale
e personale. L’impedimento di fatto ha rilievo solo nei casi elencati dalla legge. Esso determina
la sospensione che comporta che il decorso del termine di prescrizione si fermi per tutto il periodo
per cui sussiste l’impedimento previsto dalla disposizione di legge. Il termine generale della
prescrizione, detto ordinario, è decennale. Esistono prescrizioni più brevi: quinquennali (nel caso
del credito per risarcimento dei danni per responsabilità extra-contrattuali), annuale (per i diritti
che nascono dai contratti di mediazione e trasporto). Esistono anche prescrizioni più lunghe quali
quelle dei diritti reali in re aliena che si estinguono per non uso ventennale. Perché maturi la
prescrizione c’è bisogno che l’inerzia del titolare si protragga per tutto il periodo senza
interruzione. L’interruzione fa decorrere da capo il termine previsto dalla legge. Un tipo
particolare è la prescrizione presuntiva la quale consente al debitore di dimostrare che, essendo
passato un certo lasso di tempo da quando il credito è venuto ad esistenza, lo stesso si è estinto
per adempimento.
LA DECADENZA
La decadenza rappresenta una vicenda estintiva del rapporto, che consegue al mancato
compimento di un atto entro un determinato periodo di tempo. Nella prescrizione l’inerzia deve
riguarda il contenuto del diritto mentre nella decadenza il titolare del diritto è onerato di compiere
un solo atto determinato dalla legge, in mancanza del quale si estinguerà il rapporto. Ad esempio
si pensi alla decadenza dalla garanzia per i vizi della cosa venduta, ove tali vizi siano scoperti il
compratore deve denunziare al venditore entro 8 giorni dalla scoperta, pena la decadenza della
garanzia. La decadenza può essere prevista dalla legge o anche dalle parti.
Con l’espressione fatto giuridico si indica l’evento preso in considerazione dalla legge, al cui
verificarsi viene collegata una vicenda del rapporto giuridico (nascita, modificazione o
estinzione). In pratica, fatto giuridico è ogni evento, naturale o umano, cui viene ricollegata una
vicenda. Tale vicenda, poiché conseguenza di un fatto è anche detta effetto giuridico.
I negozi possono essere unilaterali se la regolazione degli interessi è fatta da una sola parte e si
distinguono in recettizi e non recettizi. I primi sono quelli che producono effetti quando
pervengono a conoscenza di un soggetto destinatario, è sufficiente che giungano al suo indirizzo
e si reputano conosciuti salvo che il destinatario medesimo dimostri di non aver potuto, senza
sua colpa, averne notizia. I negozi non recettizi invece producono effetti da quando è emessa la
dichiarazione. I negozi possono essere bilaterali o plurilaterali quando cioè la regolazione degli
interesse avviene d’accordo tra due o più soggetti. Dal punto di vista del contenuto, i negozi
sono di tipo patrimoniale o personale, a seconda della natura dei rapporti giuridici che ne sono
oggetto. Il negozio giuridico è oggetto di vari istituti quali quelli che regolano la manifestazione
della volontà, la validità e l’efficacia dell’atto negoziale.
Ogni strumento di tutela può farsi valere dai privati solamente in sede giudiziale, solo
eccezionalmente in privato è abilitato all’autotutela. Il giudice cui venga chiesta la tutela deve in
primo luogo accertare che effettivamente sussista la posizione di diritto invocata, e che essa sia
stata lesa. L’accertamento avviene in un giudizio detto di cognizione. Il giudice non è abilitato
ad accertare i fatti di ufficio se non in casi eccezionali. Deve essere chiamato in causa dal
soggetto interessato. La richiesta deve essere proposta nei confronti di altro soggetto, titolare
della situazione passiva. A seguito si instaura un giudizio, ovverosia un processo che si svolge
nel contraddittorio delle parti. Le parti sono tenute a dimostrare che si sono verificati i fatti
giuridici che hanno determinato la costituzione, la modificazione o l’estinzione del rapporto
giuridico. Sono sempre le parti onerate a dimostrare i fatti che hanno prodotto le vicende
invocate in giudizio.
La dimostrazione di un fatto giuridico costituisce per i soggetti sui grava un onere. Il soggetto
interessato deve adempiervi per la tutela del suo diritto. L’ordinamento ripartisce l’onere della
prova. Infatti chi invoca una particolare vicenda estintiva o modificativa del diritto dovrà
dimostrare il fatto che l’ha prodotto. L’onere della prova rappresenta un rischio per il soggetto
che ne è gravato. A volte l’onere della prova può essere trasferito dal soggetto onerato alla
controparte, la cosiddetta inversione dell’onere della prova. Può essere stabilita per accordo tra
le parti o per volontà della legge.
I MEZZI DI PROVA
Gli strumenti per dimostrare in giudizio i fatti giuridici sono detti mezzi di prova. In via di principio
sono stabiliti dalla legge. Il mezzo di prova può preesistere al processo come ad esempio un atto
scritto con il quale il creditore dichiara di aver ricevuto il pagamento (quietanza). Altre prove
sono create nel processo e per questo motivo si chiamano costituendi, esempio testimonianza,
e per trovare accesso nel processo devono essere articolare dalle parti con una loro istanza,
l’istanza è vagliata dal giudice, che può ammetterle o meno. Per essere ammesse le prove devono
essere ammissibili, ossia idonee, e rilevanti, cioè che siano orientate a dare dimostrazione di un
fatto che il giudice ritiene utile ai fini della sua decisione.
LA CONFESSIONE E IL GIURAMENTO
Esistono prove ad efficacia legale, cioè quelle in cui il giudice è obbligato ad accoglierle, ad
esempio il riconoscimento che una parte faccia di un fatto a sé sfavorevole. La confessione è una
dichiarazione che una parte fa di fatti a sé sfavorevoli, può essere giudiziale se fatta in giudizio,
o stragiudiziale se fatta fuori dal giudizio, ad esempio attraverso una lettera rivolta alla
controparte. Il giuramento al contrario è una dichiarazione che la parte fa in giudizio di fatti a sé
favorevoli. Il giuramento viene prestato con particolari formalità ed è assistito con una sanzione
di tipo penale per cui chi giura il falso può in separato processo essere condannato ad una pena
detentiva nonché al risarcimento dei danni alla controparte. Il giuramento non può essere
espletato se una delle parti non lo deferisca all’altra. Il deferimento è una sorta di sfida che chi
ritiene di aver ragione può appunto utilizzare per sfidare l’altra parte a giurare che i fatti da essi
opposti siano veri. Colui che è deferito ha anche una terza possibilità, può ribaltare la sfida sulla
controparte. In ogni caso il giuramento definisce la controversia perché vincola il giudice e
pertanto esso è detto decisorio. Esiste il giuramento suppletorio che serve solamente ad
integrare le prove già acquisite.
LA PROVA SCRITTA
Mezzo di prova molto importante è costituito dal documento e cioè dalla prova scritta. L’atto
scritto può essere redatto da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato, in tal caso ha
forma di atto pubblico. Tale atto ha valenza di prova legale fino a quando non si è accertato il
giudizio che il pubblico ufficiale ha dichiarato il falso. Valore probatorio più limitato ha invece la
scrittura privata autenticata. In tal caso l’ufficiale si limita ad attestare che l’atto è stato
sottoscritto in sua presenza. Pertanto l’attestazione fa piena prova sempre fino a querela di falso.
Anche la scrittura privata, cioè l’atto scritto non redatto da pubblico ufficiale ha efficacia di prova
legale ma soltanto nei confronti della parte contro cui è fatta valere ma solo se, la parte contro
cui è fatta valere non disconosca la sottoscrizione. Particolare rilevanza probatorio ha il
documento informatico. Si deve al riguardo distinguere il documento con sottoscrizione
elettronico dal documento con sottoscrizione digitale, che si ha con una particolare procedura
che si attiva attraverso l’uso di chiavi asimmetriche di cui uno è segreta.
Molto rilevante ai fini giuridici è l’individuazione del momento in cui l’atto è stato posto in essere.
Tra le parti vale la data apposta sul documento, diversa è la situazione rispetto ai terzi. Se la
scrittura è autenticata la data si riferisce al giorno dell’apposizione della firma. Negli altri casi la
data certa si ha dal giorno della registrazione del documento. La registrazione è un adempimento
di tipo fiscale che riguarda in generale i contratti. Infine l’atto acquista data certa dal giorno in
cui sia intervenuto qualsiasi altro evento successivamente al quale non sarebbe stato più
possibile la sua sottoscrizione.
Il principio per cui l’atto scritto fa prova solamente contro la parte da cui proviene trova
un’eccezione nel caso di scritture contabili tenute dall’imprenditore.
LA PROVA TESTIMONIALE
La prova testimoniale consiste nella narrazione che un terzo estraneo alla causa faccia dinanzi
al giudice di un fatto o di una circostanza cui egli stesso ha assistito. Tale mezzo è liberamente
valutabile dal giudice che può anche non ritenere attendibile quanto riferito del teste.
LE PRESUNZIONI SEMPLICI
Ultimo mezzo di prova previsto dal codice è costituito dalle presunzioni. Esse sono prove di
carattere logico in quanto si basano su ragionamenti logici in virtù dei quali si giunge
deduttivamente a scoprire un fatto ignoto.
L’inversione legale dell’onere della prova viene effettuata attraverso la presunzione legale. In
alcuni casi l’ordinamento esonera dal rischio una delle parti stabilendo che un fatto in presenza
di determinate condizioni, deve ritenersi verificato e dunque ribaltando sulla controparte l’onere
di dare la contraria dimostrazione. Si parla in tal caso di presunzione legale. Quando la
presunzione può essere vinta da prova contraria, si parla di presunzione relativa per distinguerla
da presunzione assoluta che è in nessuno modo vincibile.
LA PRESCRIZIONE PRESUNTIVA
È un meccanismo in virtù del quale decorso un determinato periodo di tempo dalla nascita di un
credito, l’ordinamento presume che esso sia stato estinto per pagamento: si tratta di una
presunzione di pagamento. Il debitore però in mancanza di quietanza può dare dimostrazione
del pagamento con qualunque altro mezzo. Succede spesso che per debiti di norma vengono
estinti subito, il debitore si privi della quietanza o non la richieda. Pertanto in tali ipotesi
l’ordinamento decorso un periodo di tempo dalla nascita del credito, presume a favore del
debitore, che costui abbia adempiuto al proprio obbligo.
Il codice non disciplina il negozio in generale ma detta delle regole riguardanti il contratto. In
particolare ciò che riguarda la manifestazione di volontà contrattuale, i requisiti di validità e di
efficacia. Queste regole appartenenti all’art.1323 costituiscono la disciplina comune a tutti i
contratti tipici e atipici. L’art.1323 stabilisce che il contratto è l’accordo con cui due o più parti
creano, modificano o estinguono tra loro un rapporto giuridico patrimoniale. Le caratteristiche
principali sono che è un atto negoziale, cioè manifestazione di volontà produttiva di effetti
giuridici, è un negozio bilaterale o plurilaterale, e di avere un contenuto patrimoniale, cioè
produce effetti nei rapporti economicamente valutabili. È considerato fonte di rapporti di natura
obbligatoria, cioè può avere efficacia reale e quindi costituire, modificare o estinguere rapporti
reali. Dall’autonomia privata, cioè il potere dei singoli di autoregolamentarsi, va distinta
l’autonomia collettiva, cioè il potere attribuito dalla legge agli enti esponenziali di regolare
interessi. Le regole poste dall’autonomia privata hanno forza di legge tra le parti (art.1372),
devono stare pactis cioè devono osservare quanto pattuito. Il concetto di autonomia contrattuale
comprende: 1) libertà di concludere o meno il contratto, la libertà di contrarre; 2) libertà di
scegliere la persona dell’altro contraente; 3) libertà di determinare il contenuto del contratto,
libertà contrattuale; 4) libertà di scelta della forma da dare all’accordo; 5) libertà di creare
contratti atipici. L’art.1322 stabilisce che le parti possono liberamente determinare il contenuto
del contratto nei limiti imposti dalla legge, possono cioè stabilire se e come gestire i propri
interessi.
La più importante limitazione riguardo al contenuto del contratto è data dalla previsione della
causa. La causa è la ragione giuridica ed economica che giustifica ogni effetto prodotto dal
contratto. Non basta la volontà del soggetto ma occorre una ragione giuridica ed economica
apprezzabile da parte dell’ordinamento. Ad esempio lo scambio, il trasferimento di un proprio
diritto in cambio del pagamento di un prezzo. Abbiamo poi i contratti a titolo gratuito (mandato
gratuito o comodato), contratti di liberalità, in cui vi sia un’apprezzabile causa. Abbiamo poi i
contratti a causa associativa in cui lo scopo dei contraenti è comune come ad esempio il contratto
di società in cui le parti conferiscono beni e servizi per l’esercizio comune di un’attività
economica. Nel diritto di famiglia abbiamo la causa familiare intesa come gli interessi personali
e patrimoniale utili per la gestione del menage familiare. Il principio causalistico è inderogabile
altrimenti si incorrerà nella nullità radicale dell’atto (art.1418). La causa deve essere lecita. Altro
limite è imposto dall’abusività, cioè contratti stipulati tra un professionista ed un consumatore,
in questo modo si vuole evitare che il professionista abusi della sua maggiore forza contrattuale.
Il codice prevede una serie di contratti che hanno causa atipica che cioè perseguono apprezzabili
interessi già considerati tali dall’ordinamento ed ha predisposto per tali contratti una disciplina
che lascia all’autonomia privata un margine più o meno ampio di specificazione ed anche di
deroga alle norme previste dalla legge. Chiaramente la libertà delle parti di modellare il
contenuto di un contratto tipico è comunque circoscritta agli elementi che non ineriscono al
profilo causale già fissato ex lege. I privati possono concludere anche contratti atipici non
riconducibili a nessuno schema previsto dalla legge, ma a condizione che gli stessi perseguano
interessi meritevoli di tutela. Il giudizio di meritevolezza, relativo alla sussistenza di una causa
idonea deve essere espresso in relazione ad ogni contratto ciò perché la causa è la funzione
concreta che il contratto svolge.
La più importante ipotesi di obbligo legale di contrarre è disciplinata dall’articolo 2597 che impone
al monopolista legale di concludere contratti con chiunque ne faccia richiesta e di conservare la
parità di condizione con tutti i clienti. Qui il limite è triplice: a) il monopolista non può rifiutarsi
di contrarre con chi glielo richieda; b) non può conseguentemente scegliersi il contraente ma
deve soddisfare le richieste di tutti; c) deve osservare la parità di trattamento tra tutti i clienti.
Colui che non ha ottenuto la stipula del contratto potrà richiede al giudice l’emissione di una
sentenza che si sostituisca al contratto medesimo. Analoga disciplina è prevista per i pubblici
servizi di linea. Un’imposizione del contenuto del contratto si verifica anche quando la legge
prevede determinate clausole e cioè parte del regolamento degli interessi. Se i contraenti
concludono l’accordo devono osservare le clausole previste dall’ordinamento. L’ordinamento
inoltre prescrive i limiti dell’autonomia contrattuale attraverso il fenomeno dell’integrazione del
contratto. Infatti il contratto produce non soltanto gli effetti voluti dalle parti ma anche quelli
voluti dalla legge.
Il contratto deve possedere una serie di requisiti essenziali, nel senso che la loro mancanza ne
determina la nullità. Questi requisiti sono: l’accordo, la causa, l’oggetto e la forma. L’accordo
individua l’essenza del contratto, il quale infatti è costituito dall’accordo di due o più parti. Il
codice regola il procedimento conclusivo dell’accordo, il quale è anche detto “perfezionamento
del contratto”. Esso regola però anche la fase antecedente all’accordo, detta delle trattative.
Questa è una fase eventuale in quanto non è riscontrabile nella maggioranza dei rapporti di
limitato rilievo economico. L’ordinamento sancisce un generale obbligo etico: le parti in pendenza
di trattative devono comportarsi secondo buona fede, una buona fede oggettiva che rappresenta
un’applicazione specifica del generale principio di correttezza che grava su entrambe le parti. Un
obbligo tipico della buona fede durante lo svolgimento delle trattative è rappresentato dal dovere
di informazione, un altro impone la chiarezza del linguaggio, ancora l’obbligo di segreto circa le
informazioni riservate che le parti abbiano appreso durante le trattative. Infine le parti hanno
l’obbligo di porre in essere gli atti che gli competono ai fini della validità e dell’efficacia del
contratto. Le trattative possono considerarsi chiuse quando le parti raggiungono un accordo
definitivo su tutti i punti in discussione.
Nello svolgimento delle trattative possono intercorrere tra le parti degli accordi che
rappresentano atti preparatori. Queste intese provvisorie possono essere sempre rivedute da
ciascuna delle parti fino al momento della stipula del contratto. È possibile anche che gli accordi
interlocutori vengano documentati in testi provvisori di contratto da integrare in alcuni elementi
essenziali o secondari. Infatti i privati finchè non manifestano l’intenzione di vincolarsi, l’accordo,
seppur completo, non può dirsi perfezionato. Inoltre le parti possono decidere di raggiungere un
accordo che pur non costituendo il contratto vero e proprio, le obblighi comunque a concluderlo
in un secondo momento. L’accordo prende il nome di contratto preliminare, contemplato dal
codice all’art.1351. Il contratto preliminare deve, a pena di nullità, rivestire la stessa forma del
contratto che le parti si obbligano a concludere successivamente. Tale fattispecie si utilizza
quando le parti non vogliono o non possono ancora addivenire alla definizione dell’affare ma
intendono assicurarselo con un idoneo strumento giuridico. Questo è il preliminare bilaterale. Si
può discorrere anche di un preliminare unilaterale in cui il vincolo alla stipula viene assunto da
uno solo dei contraenti. Se colui che è obbligato a concludere al contratto non adempie
l’obbligazione, l’altra parte può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non
concluso. Da non confondere con il contratto preliminare è il contratto stipulato in una data forma
che le parti si impegnano a riprodurre in un’altra forma, fattispecie denominata contratto
preliminare improprio o compromesso. Altra fattispecie da non confondere con il contratto
preliminare è il contratto normativo con il quale le parti si accordano sul contenuto dei futuri
rapporti contrattuali ma rimangono pienamente libere instaurarli o meno.
LA RESPONSABILITA’ PRECONTRATTUALE
Le parti hanno l’obbligo di comportarsi secondo buona fede durante le trattative. La violazione
di tale obbligo comporta la nascita in capo all’agente l’ulteriore obbligo di risarcire i danni
cagionati alla controparte. La responsabilità in questione è detta precontrattuale, anche detta
aquiliana. Il codice si limita a prevedere una sola fattispecie di comportamento di malafede, cioè
quando una parte pur essendo a conoscenza di una causa di invalidità del contratto, la taccia
alla controparte, inducendola così a concludere un accordo inutile. La giurisprudenza ha tipizzato
altre specifiche fattispecie come ad esempio, l’ingiustificato recesso delle trattative. Infatti il
recesso diviene illecito se viene esercitato senza una giustificata ragione e in uno stato avanzato
delle trattative. Viola il dovere di comportarsi secondo buona fede anche chi inizia delle trattative
senza alcuna intenzione di concludere il contratto. Costituisce violazione del dovere di buona
fede anche il comportamento di chi, mediante artificii o raggiri, induca la controparte alla
conclusione del contratto.
LA PRELAZIONE
Con il patto di prelazione una parte, detta promittente, si obbliga nei confronti di un’altra parte,
detta prelazionario, a preferirla rispetto ad altri soggetti, a parità di condizioni nell’ipotesi in cui
decida di stipulare un determinato contratto. Tale vantaggio si traduce nell’attribuzione al
prelazionario di un diritto potestativo ad essere preferito. La prelazione può essere anche
gratuita. L’inadempimento del promittente comporta in capo al medesimo l’obbligo di risarcire i
danni cagionati al prelazionario ma non anche il potere per quest’ultimo di riscattare il bene
oggetto della prelazione nei confronti dei terzi acquirenti. In ciò si differisce la prelazione
volontaria da quella legale. La prelazione legale infatti ha efficacia reale ed è dunque opponibile
anche al terzo acquirente del bene.
La proposta e l’accettazione possono essere revocate finchè il contratto non sia concluso. La
revoca è un negozio giuridico unilaterale con il quale un soggetto contraddice una propria
precedete dichiarazione negoziale, privandola così della sua efficacia. La revoca deve essere
espressa non potendosi desumere dai fatti concludenti. Dal momento in cui si perfeziona il
contratto la revoca è preclusa, tuttavia a tutela dell’accettante che abbia in buona fede intrapreso
l’esecuzione del contratto prima di avere avuto notizia della revoca della proposta, la legge
stabilisce l’obbligo per il proponente di indennizzarlo delle spese affrontante e delle perdite subite
per l’iniziata esecuzione del contratto.
Vi sono una serie di ipotesi in cui la proposta acquista il carattere dell’irrevocabilità. In questi
casi la revoca non produce alcun effetto. La perdita di revoca da parte del proponente non può
essere a tempo indefinito. Ove il dichiarante non abbia fissato il termine di efficacia della proposta
irrevocabile, si ritiene che essa sia nulla e come tale, si converta in proposta pura e semplice.
Inoltre la proposta irrevocabile rimane ferma anche in caso di morte o sopravvenuta incapacità
dell’autore, a meno che la natura dell’affare escluda tale efficacia. Ciò viene tutelato
dall’ordinamento per fornire all’oblato la tranquillità per riflettere sull’affare senza correre il
rischio di un mutamento di volontà della controparte. Diversamente avviene nel patto di opzione,
esso è un contratto con il quale le parti si accordano affinchè una di esse rimanga vincolata alla
propria dichiarazione mentre l’altra sia libera di accettarla o meno. Mentre la proposta
irrevocabile è per sua natura gratuita, il patto di opzione è naturalmente onerosa: chi si vincola
alla propria dichiarazione riceve infatti in cambio una controprestazione. Tuttavia si deve
configurare l’opzione a titolo gratuito. La forma che deve rivestire il patto di opzione deve essere
uguale alla forma del contratto che le parti intendono concludere.
I contratti possono essere anche gratuiti, cioè contemplare prestazioni a carico di uno solo dei
contraenti (mandato gratuito). Si dice in tal caso che il contratto è unilaterale, nel senso che pur
essendo un negozio bilaterale fondato sull’accordo tra le parti, comporta obblighi in una sola
direzione. Esso è irrevocabile dal momento in cui giunge a conoscenza dell’oblato. Un’altra
caratteristica di questo contratto è che l’accettazione dell’oblato è considerata superflua. Quindi
il contratto si conclude se la proposta non venga rifiutata entro un termine giudicato congruo in
considerazione della natura dell’affare o degli usi, o chiaramente non appena l’oblato dichiari di
accettare.
La forma è il mezzo con il quale i soggetti esprimono il loro consenso. Il consenso può essere
espresso attraverso comportamenti inequivocabili dai quali si desume la volontà senza che i
soggetti la dichiarino ed allora la forma del contratto è detta tacita. Oppure il consenso può
essere espresso attraverso parole o simboli ed allora la forma del contratto è detta espressa. La
dichiarazione espressa può essere orale o scritta, vige il principio della libertà delle forme. La
legge però prevede per alcuni contratti la forma solenne, la quale pertanto diviene elemento
essenziale degli stessi (forma scritta per i contratti concernenti beni immobili). La forma
convenzionale è quella pattuita dalle parti per i loro futuri contratti.
LA FORMA DIGITALE
Il progresso della tecnologia ha condotta alla possibilità di stipulare contratti per via telematica,
si parla di forma elettronica. Per poter soddisfare il requisito legale della forma scritta il
documento informatico deve essere sottoscritto con firma elettronica. La firma elettronica
qualificata è quella ottenuta attraverso una procedura informatica che garantisce la connessione
univoca al firmatario. La firma digitale è un particolare tipo di firma elettronica qualificato su un
sistema di chiavi asimmetriche, cioè una chiave pubblica e una privata, la chiave privata è
riservata al titolare mentre quella pubblica al destinatario. Questi contratti sono chiaramente
contratti stipulati tra persone lontane.
Per un’esigenza di celerità il codice civile prevede un altro schema di conclusione del contratto,
mediante inizio di esecuzione. A ciò si ricorre allorchè per la natura dell’affare o in base ad altre
circostanze, non appare possibile procedere secondo l’iter scandito da due momenti: quello
conclusivo dell’accordo (scambio di proposta-accettazione) e quello esecutivo, in cui il
regolamento contrattuale viene attuato. L’esigenza di celerità consiglia di omettere il momento
dell’accettazione o di farlo appiattire su quello dell’esecuzione. L’art.1327 stabilisce che su
richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi non sia necessaria preventiva
accettazione, colui che ha ricevuto la proposta può darvi immediata esecuzione. L’esecuzione
segna il momento conclusivo e in questo caso esecuzione e perfezionamento coincidono.
L’accettante deve provvedere a dare immediata comunicazione dell’avvenuta esecuzione al
proponente, in mancanza dovrà risarcire i danni. Ai fini del perfezionamento del contratto è
necessario e sufficiente l’incontro di volontà delle parti. Vale sia per i contratti ad efficacia
obbligatoria (accordi di obbligazioni), sia per i contratti ad efficacia reale (accordi con
trasferimento di proprietà). L’art.1376 sancisce che la proprietà o il diritto si trasmettono e si
acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato (principio del
consenso traslativo). La consegna del bene è richiesta in alcune ipotesi ai fini dell’opponibilità
dell’acquisto ai terzi.
Una deroga alla regola del consenso è costituita dai contratti reali. L’ordinamento oltre all’accordo
ritiene necessario anche la consegna del bene dedotto in contratto (traditio) dall’uno all’altro dei
contraenti. Non va confusa con la categoria dei contratti ad efficacia reale poiché la distinzione
riguarda il perfezionamento del contratto, mentre la distinzione tra contratti ad effetti obbligatori
e contratti ad effetti reali riguarda la tipologia di conseguenze giuridiche che scaturiscono dal
contratto. I due criteri si combinano e così i contratti consensuali possono essere ad efficacia
obbligatoria (es. locazione), ad efficacia reale (es. compravendita). Nella categoria dei contratti
reali rientrano alcuni contratti ad efficacia reale (il mutuo e il pegno) e altri ad efficacia
obbligatoria (comodato o deposito). Da un punto di vista più pratico, la consegna del bene ha
una funzione di pubblicità.
Altra deroga alla regola del consenso è rappresentata dalle condizioni generali di contratto,
rispetto ai quali la volontà di uno dei contraenti non è ritenuta necessaria dalla legge per la
produttività di effetti. L’esigenza posta alla base della disciplina è quella dell’uniformità. Ad
esempio l’imprenditore ha necessità di uniformare il contenuto, cioè regole uguali per tutti i
clienti, in modo da risparmiare i tempi e i costi delle trattative. Le condizioni generali di contratto
(art.1341) sono clausole contrattuali che un contraente ha unilateralmente predisposto per la
generalità dei suoi contratti. Le clausole hanno efficacia anche se non accettate dalla controparte
è sufficiente che siano conosciute o semplicemente conoscibili da parte del cliente usando
l’ordinaria diligenza. L’imprenditore ha l’onere di pubblicizzare adeguatamente. Il cliente dovrà
osservare le clausole predisposte anche se non le abbia accettate e conosciute. Il principio del
consenso viene derogato perché la mera conoscibilità fa sì che una clausola entri nel contenuto
normativo del contratto. Bisogna però che si tratti di condizioni predisposte unilateralmente e in
maniera generale, e che la semplice conoscenza non si sostituisce all’accettazione laddove si
tratti del contenuto minimo del contratto, ovvero siano clausole che rappresentano gli elementi
essenziali.
L’imprenditore può uniformare i suoi contratti ma non deve abusare di questo potere per imporre
clausole che siano gravose per i clienti e quindi vantaggiose per lui. Per evitare ciò il C.C. ha
previsto le clausole vessatorie, ovvero condizioni che ritiene troppo vantaggiose per il disponente
e gravose per la controparte e sono: a) condizioni che stabiliscono, a favole del predisponente,
limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione; b)
condizioni che sanciscono a carico del non predisponente decadenze, limitazioni alla facoltà di
opporre eccezioni, restrizioni alla sua libertà contrattuale nei rapporti con i terzi, tacita proroga
o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità
giudiziaria. Tali clausole per essere valide necessitano di un’apposita accettazione per iscritto:
devono essere sottoscritte in maniera autonoma. Sarà necessaria la doppia sottoscrizione. Il
requisito formale è richiesto ad substantiam, e la clausola vessatoria non approvata per iscritto
è radicalmente nulla.
Alcune clausole, come ad esempio quelle delle polizze assicurative o dei contratti bancari non
sono trattabili dal normale cliente il quale non ha alternative: può solamente accettare il
contratto così come è o rinunciare. Il codice con l’aggiunta degli articoli dal 1469 bis al 1469
sexies ha disciplinato queste fattispecie trattando le clausole abusive, ovvero clausole vessatorie
riversate in mala fede dall’imprenditore nei contratti con i consumatori.
Capitolo 16 LA VOLONTA’
VOLONTA’ E DICHIARAZIONE
Il codice si occupa del problema che esiste tra la volontà e la sua manifestazione. Perché ci sia
negozio giuridico la volontà deve essere esternata e comunicata ai terzi. Possono esserci
incongruenze tra la volontà e la sua manifestazione. In questi casi vengono in conflitto due
interessi opposti, quello dell’autore della dichiarazione, che non avendo voluto il negozio
pretende che non produca effetti, e quello di chi la dichiarazione l’ha ricevuta, che avendo fatto
affidamento sull’altrui manifestazione pretende l’efficacia del contratto. Tale ultimo interesse
corrisponde ad un interesse di tipi generale, quello della sicurezza dei traffici. Il conflitto è risolto
in base a regole di responsabilità, di buona fede e di diligenza che bilanciano gli interessi in gioco.
L’ordinamento tutela l’affidamento nella serietà della dichiarazione dell’altro soggetto, ma lo
tutela fino al limite della buona fede e della diligenza, finchè chi ha ricevuto la dichiarazione non
abbia saputo (buona fede) o non sia stato nella possibilità di sapere (diligenza) della divergenza
tra dichiarazione e volontà. L’ordinamento tutela anche il dichiarante nel caso in cui la divergenza
dipenda da fattori esterni, cioè non abbia nessuna responsabilità. Abbiamo varie fattispecie: 1)
quella delle dichiarazione fatte ioci causa o docendi causa, cioè per gioco o durante una
rappresentazione teatrale per scopo didattico, non ha efficacia, è inesistente; 2) della violenza
fisica, ovvero nel caso in cui il soggetto accompagna con la forza la mano di un antro per fargli
sottoscrivere un negozio, la dichiarazione esiste ed è imputabile al dichiarante, ma non esiste la
volontà che è stata esorta, il dichiarante non è responsabile e va tutelato, il contratto è nullo e
non produce effetto; 3) si ha poi l’errore ostativo quando c’è incongruenza tra dichiarazione e
volontà; 4) è valido il contratto che taluno concluda con riserva mentale, cioè manifestando
consapevolmente una volontà che non vuole.
IL CONTRATTO SIMULATO
Nel contratto simulato vi è in un certo senso divergenza tra volontà e dichiarazione. Tuttavia tale
divergenza è volontaria: essa sussiste tra ciò che le parti si sono dichiarate, che corrisponde al
loro reale volere, e ciò che hanno intenzionalmente dichiarato ai terzi. Riguarda cioè il rapporto
tra la dichiarazione interna e quella esterna pubblicizzata ai terzi. Sussiste in tale ipotesi dunque
un accordo simulatorio che le parti hanno posto in essere per creare l’apparenza. Il contratto
dichiarato ai terzi si chiama contratto simulato, e quello interno si chiama dissimulato e l’atto
che lo contempla si chiama controdichiarazione o scrittura di verità. La simulazione può essere
assoluta o relativa. Assoluta quando le parti dichiarano tra loro di non volere il negozio simulato
e di non volere nessun altro negozio in sostituzione di quello; è relativa quando le parti dichiarano
tra loro di volere un negozio diverso da quello apparente. La simulazione relativa se concerne il
tipo negoziale o l’oggetto del contratto viene definita oggettiva; invece è soggettiva quando il
negozio simulato risulta stipulato con un soggetto diverso da quello indicato nella
controdichiarazione. Per quanto riguarda gli effetti del contratto simulato vanno distinte le ipotesi
di efficacia tra le parti, verso i terzi e verso i creditori. Tra le parti vale ciò che emerge dalla
controdichiarazione. Verso i terzi invece coloro che hanno acquistato un bene dal simulato
acquirente, cioè da colui che soltanto apparentemente risulta titolare di un bene o di un diritto,
l’acquisto è salvo se compiuto in buona fede. Coloro invece che hanno subito un pregiudizio
dall’atto simulato possono in ogni caso far accertare la simulazione per rimuoverlo. In caso di
simulazione il terzo acquirente di buona fede, prevale sui terzi danneggiati dalla simulazione, se
ha trascritto il suo acquisto prima della trascrizione della pretesa di costoro. Per il rapporto con
i creditori, la simulazione non è opponibile ai creditori del simulato acquirente che abbia in buona
fede compiuto atti di esecuzione sui beni che siano stati oggetto del contratto simulato. In caso
di conflitto tra creditori del simulato alienante e creditori del simulato acquirente prevalgono i
primi a patto che il credito che vantano sia anteriore al patto simulato. Per quanto concerne la
prova della simulazione, siccome la controdichiarazione è segreta, i soggetti terzi e i creditori
danneggiati dalla simulazione stessa potranno dare la relativa dimostrazione con ogni mezzo e
dunque anche con presunzioni o con testimoni. Così non vale per le parti che devono dar prova
per mezzo di un atto scritto.
Il negozio può essere colpito anche da un’altra patologia: i vizi di volere. Si tratta di ipotesi,
l’errore, la violenza e il dolo, nelle quali si ha un’alterazione della volontà negoziale. Il negozio,
la cui volontà non si è formata liberamente è pertanto annullabile.
L’ERRORE
L’errore vizio, detto anche errore motivo, si verifica quando l’ignoranza o la falsa conoscenza
della realtà empirica, oppure l’ignoranza oppure la falsa conoscenza della realtà giuridica, hanno
indotto il soggetto ad emettere una dichiarazione che egli non avrebbe fatto o avrebbe fatto in
maniera diversa, se tale realtà avesse rettamente conosciuto. L’errore è rilevante per
l’ordinamento soltanto se è essenziale, se ha spinto il contraente a volere ciò che altrimenti non
avrebbe voluto. È la legge a stabilire quando vi sia essenzialità, essa è ravvisata quando l’errore
ha riguardato la natura del contratto oppure l’identità o una qualità essenziale dell’oggetto.
Anche l’errore di diritto, quello che cada su una norma, può essere essenziale quando è stata
l’unica ragione o principale per la conclusione del contratto. L’errore deve essere inoltre
riconoscibile alla controparte. Deve ritenersi causa di annullabilità anche l’errore che fosse
conosciuto in concreto dalla controparte che dunque abbia concluso in malafede il contratto. Non
dà luogo all’annullamento l’errore di calcolo, esso è rilevante solo se consiste in un errore sulla
quantità che sia stato determinante per il consenso. L’annullamento può essere evitato se la
controparte offra di modificare le condizioni contrattuali, uniformandole a quelle alle quali
l’errante voleva concludere.
L’ERRORE OSTATIVO
LA VIOLENZA
La violenza morale e la violenza psichica sono vizi della volontà. Consiste nella minaccia di un
male ingiusto e notevole contro la persona o i suoi beni tale da far volere a costui un contratto
che altrimenti non avrebbe voluto. La violenza deve consistere nella minaccia di un male ingiusto
e notevole. Il male è notevole quando sia in grado di impressionare qualsiasi persona sensata.
Si deve tener conto anche delle condizioni personali del soggetto minacciato. Non si considera
notevole il timore riverenziale.
IL DOLO
Il dolo è un vizio della volontà e consiste nell’inganno ordito da un soggetto ai danni di un altro
soggetto al fine di indurlo in errore e spingerlo a concludere un contratto. Questo è il dolo
contrattuale da distinguere dal dolo commissivo, che consiste in un comportamento attivo e
dinamico del soggetto per indurre l’altra parte in errore, o dal dolo omissivo, che consiste in un
comportamento passivo, quale il silenzio o la reticenza, che miri al medesimo effetto. Altra
distinzione è quella tra dolus malus, che conduce all’annullabilità e dolus bonus, che consiste in
quell’esagerazione pubblicitaria finalizzata a reclamizzare un prodotto ed è irrilevante per
l’annullabilità del negozio. Inoltre si parla di dolo incidente quando il soggetto avrebbe comunque
concluso quel contratto anche senza quei raggiri, ma l’avrebbe concluso a condizioni diverse più
vantaggiose. Ciò non comporta l’annullabilità ma soltanto l’obbligo di risarcire il danno al
soggetto raggirato.
Una seconda accezione del termine “parte” ha invece riguardo ai titolari del rapporto nascente
dal contratto. Di regola chi emette la manifestazione di volontà è anche il soggetto nella cui sfera
giuridica ricadranno le conseguenze del contratto. Vi sono ipotesi in cui assistiamo ad una
dissociazione tra la parte in senso formale e la parte in senso sostanziale. In tal caso si discorre
di sostituzione nella manifestazione della volontà contrattuale. La sostituzione può avvenire in
nome proprio o in nome altrui. Ad esempio per il primo caso, una parte consegna all’altra una o
più cose mobili e quest’ultima si obbliga a pagarne il prezzo a meno che non decida di restituirle
entro il termine stabilito. La figura più importante invece ad agire in nome altrui è costituita dalla
rappresentanza.
Quando il rappresentante agisca per un interesse contrastante con quello del dominus, si
configura l’ipotesi di abuso del potere rappresentativo. Questo conflitto di interessi causa
l’annullabilità del contratto ma a condizione che il conflitto fosse conosciuto o riconoscibile da
parte del terzo. Particolari ipotesi di conflitti di interessi è dato dalla fattispecie del contratto con
sé stesso, quando cioè il rappresentante concluda un contratto con sé stesso, in tal caso si
presume che egli abbia preferito le sue ragioni a quelle del rappresentato. Anche in questo caso
l’impugnazione può essere proposta dal solo rappresentato. Il contratto può essere valido solo
se il rappresentato lo abbia specificamente autorizzato.
La causa del contratto è definita come la ragione o la funzione giuridico-economica del negozio.
Essa deve essere giustificata da un interesse oggettivo alla produzione degli effetti medesimi. La
causa dunque svolge la funzione di giustificare la produzione degli effetti. La funzione giuridico-
economica dell’atto può consistere in un primo luogo nello scambio: infatti la maggior parte dei
contratti sono a prestazioni corrispettive. Il legame reciproco esistente in tali contratti prende il
nome di sinallagma. Con il termine sinallagma generico si intende definire il rapporto reciproco
di giustificazione causale che intercorre tra l’una e l’altra prestazione. L’espressione sinallagma
funzionale designa invece il legame che sussiste tra la prestazione e la controprestazione durante
tutta la vita del rapporto contrattuale, per cui se una delle due prestazioni viene meno, l’altra
non ha ragione di esistere. I contratti sinallagmatici o a prestazioni corrispettive sono
normalmente contratti commutativi nel senso che il rapporto dalla prestazione alla
controprestazione è definita alla stipula del contratto. Qualora il sinallagma presenta un
I CONTRATTI ASTRATTI
La mancanza di causa rende il contratto nullo. Ci sono alcuni contratti nei quali gli effetti si
producono anche in mancanza di causa perché chi è chiamato ad adempiere non può sottrarsi
all’obbligo, questo tipo di negozio prende il nome di contratto astratto. Essi sono costituiti da
manifestazioni di volontà che producono effetti passibili di coinvolgere anche terzi, cioè soggetti
diversi dall’autore dell’atto. Ad esempio la cambiale, che rappresenta un credito in cui una
persona assume un debito verso un credito e può promettere il pagamento attraverso la
sottoscrizione della cambiale. Tale titolo è destinato alla circolazione e con esso viene
chiaramente ceduto il credito oggetto della promessa. Nei confronti di terzi il promittente non
può eccepire l’eventuale mancanza di causa, deve solamente pagare il debito e richiederne la
restituzione al primo prenditore. Si tratta di una disciplina finalizzata a garantire la certezza e la
celerità dei traffici. Dell’atto detto astrazione materiale va distinta l’astrazione processuale, che
non comporta alcuna scissione tra il negozio e la sua causa ma produce un effetto di natura
processuale. Di negozi astratti si parla per descrivere quei contratti o atti unilaterali che non
hanno una causa interna ma sono a causa esterna, trovano giustificazione in un’altra fattispecie
a cui sono collegati. Ad esempio il trasferimento di un bene effettuato dal mandatario senza
rappresentanza a favore del mandante rinviene la sua causa all’esterno, nel precedente contratto
di mandato stipulato tra le parti. Per la validità di questi negozi è sufficiente l’expressio causae,
cioè risulti lo scopo dell’autore di collegare casualmente quest’ultimo alla vicenda esterna.
CAUSA E TIPO
legge è lecita, la causa in concreto voluta dalle parti è diretta alla realizzazione di interessi
individuali diversi.
Abbiamo i contratti nominati o con causa tipica. La qualificazione è la riconduzione del contratto
al tipo legale e ha la funzione di consentire l’applicazione al rapporto della disciplina che la legge
contempla per quello schema. Il regolamento applicato è integrativo con norme suppletive o
dispositive, completa l’insufficiente disciplina prevista dalle parti. Il contratto produrrà anche
effetti integrativi (detti naturali) voluti dalla legge. Non può essere derogata alle parti e viene
sostituita alla clausola pattizia quella legale (art.1339). La seconda funzione della causa è di
consentire la qualificazione del contratto e l’individuazione della sua disciplina legale. Le parti
possono concludere contratti atipici dotati di idonea causa, detti socialmente tipici perché la loro
tipicità è sociale e non legale. La loro disciplina deve trarsi dalla funzione svolta dall’operazione
economica. Si possono applicare alcune norme previste per i contratti nominati qualora sussista
l’eadem ratio che permetta il ricorso all’analogia legis. Questo passaggio da uno schema tipico
ad uno atipico prevede tappe intermedie che scandiscono la fuga dalla tipicità. Le somiglianze si
rispecchiano in figure intermedie tra la tipicità e l’atipicità assoluta. Vi è principalmente il
contratto misto in cui la causa è la fusione delle funzioni proprie di due schemi legali. Ad esempio,
una persona custodisce e ripara la macchina, contemporaneamente ci sono i caratteri del
deposito e la prestazione d’opera. Prima bisognava individuare il tipo prevalente (teoria
dell’assorbimento) mentre ora vengono applicate le norme di entrambi i contratti (teoria della
combinazione) purchè siano compatibili con l’interesse manifestato. Un altro tipo di contratto
misto è rappresentato dal contratto in cui sono presenti due cause autonome come ad esempio
nella vendita mista a donazione in cui i contraenti pongono in essere un contratto di
compravendita, il cui ricavato è devoluto in beneficenza.
L’allontanamento dal tipo può essere realizzato attraverso varie figure, la principale è quella del
negozio indiretto. Questo mette in evidenza lo scollamento tra la funzione tipica del contratto e
quella concreta che esso persegue. Ad esempio il mandato irrevocabile a vendere senza
rendiconto, il mandato ha l’obbligo di compiere atti nell’interesse di un altro e la sua causa è
quella di assicurare al mandante che un altro soggetto amministrerà i suoi interessi. In questo
modo si evita il pagamento del doppio passaggio di proprietà e attraverso questo schema tipico
si persegue una finalità illecita e abbiamo quindi il contratto in frode alla legge che verrà
considerato nullo per illiceità della causa concreta. Abbiamo poi il negozio fiduciario in cui lo
scopo pratico è ulteriore e diverso rispetto a quello tipico del negozio posto in essere. La
realizzazione dello scopo pratico voluto dalle parti è affidata ad un patto accessorio (pactum
fiduciae) che riduce inter partes gli effetti tipici che il negozio produce erga omnes. Il negozio
fiduciario è un negozio di trasferimento della titolarità di un diritto il cui esercizio viene però
limitato da un accordo interno tra le parti, con cui l’avente causa si obbliga ad esercitare il diritto
stesso secondo quanto pattuito con il dante causa. Un soggetto, detto fiduciante, può trasferire
ad un altro, detto fiduciario, la proprietà di un bene affinchè l’acquirente lo amministri
nell’interesse dello stesso dante causa o di altri, per poi ritrasferirlo alla scadenza di un dato
termine o a semplice richiesta (fiducia cum amico). Può essere utilizzato anche come garanzia
reale (fiducia cum creditore). Il negozio principale produce effetti reali, il fiduciario acquista la
proprietà del bene mentre il factum fiduciae ha efficacia obbligatoria. Se il fiduciario non adempie
gli obblighi del pactum fiduciae e se il bene viene venduto, il fiduciante potrà richiedere il
risarcimento ma non la restituzione del bene. Il negozio fiduciario si distingue dal negozio
simulato poiché in quest’ultimo le parti non voglio le conseguenze giuridiche del contratto e la
sua inefficacia può essere fatta valere. Nel negozio indiretto e nel negozio fiduciario le parti
vogliono gli effetti tipici del contratto come mezzo per perseguire uno scopo diverso.
IL COLLEGAMENTO NEGOZIALE
LA CAUSA ILLECITA
La causa esistente deve essere lecita altrimenti il contratto è nullo (art.1418). La terza funzione
della causa è quella di consentire una valutazione dell’atto di autonomia in relazione a norme e
principi posti a tutela di interessi generali. La causa è illecita allorchè contrasti con norme
imperative, ordine pubblico e buon costume (art.1343). La funzione giuridico-economico del
singolo contratto va valutata avendo riguardo ai concreti interessi perseguiti dai contraenti
(causa in concreto). Il giudizio di liceità investe anche i contratti tipici, in cui sarà il modo con
cui lo schema tipico viene concretamente utilizzato a contrastare con norme imperative, ordine
pubblico e buon costume. Tutti i contratti sono sottoposti al duplice controllo di liceità e
meritevolezza: il primo, in negativo, verifica che lo scopo perseguito non sia in contrasto con
norme e principi dell’ordinamento; il secondo, in positivo, accerta che gli interessi dei contraenti
costituiscano un’adeguata causa.
La liceità della causa viene valutata attraverso 3 parametri: 1) le norme imperative, sono quelle
disposizioni che pongono un divieto inderogabile dalle parti. La norma può porre testualmente
la nullità (nullità testuale) come per l’art.2744 che vieta e dichiara nulli i patti commissori, i quali
in caso di inadempimento, il creditore è abilitato a far proprio un bene del debitore inadempiente.
La nullità può derivare implica temente dalla natura imperativistica della norma a meno che non
sia la legge a disporre diversamente (nullità virtuale); 2) l’ordine pubblico, è una clausola
generale, il cui contenuto è specificato dal giudice. I principi di ordine pubblico sono regole che
emergono dal senso delle norme e dei principi dell’ordinamento. Ad esempio i valori della
famiglia, della persona, gli interessi sociale. Sono contrastanti con l’ordine pubblico le clausole
riservate dalle banche nei propri moduli per imposizione dell’associazione dei banchieri. 3) il
buon costume è una clausola generale. Il contenuto è definito in negativo: è contrario al buon
costume ciò che ripugna alla coscienza sociale o alla morale collettiva. La matrice di tale clausola
è da cercare al di fuori dell’ordinamento. Un esempio è dato dal patto con cui un candidato alle
elezioni si impegni, dietro corrispettivo, a far convergere i voti dei suoi sostenitori a favore di
altro. Il contratto contro il buon costume è detto contratto immorale e presenta una peculiarità,
chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che costituisca offesa al buon costume non può
ripetere quanto ha pagato.
L’art.1344 stabilisce che “si reputa altresì illecita la causa quando il contratto costituisce il messo
per eludere l’applicazione di una norma imperativa”, questa norma tratta il contratto in frode alla
legge, ovvero il contratto non è vietato dalla legge ma il suo scopo contrasta con un divieto
legislativo. Un esempio è dato dalla vendita con patto di riscatto posta in essere in luogo di un
mutuo ipotecario con patto commissorio. Il patto commissorio è l’accordo con cui debitore e
creditore in caso di inadempimento, stabiliscono che la proprietà del bene dal primo dato in
pegno o in ipoteca passi al secondo. La ratio del divieto è quella di evitare che il creditore
approfitti della sua posizione per imporre accordi svantaggiosi. In questo modo assicurando un
bene ad un creditore si froderebbero i restanti. Il negozio in frode alla legge non va confuso con
il contratto simulato, poiché in quest’ultimo il raggiro avviene fingendo degli effetti mentre in
realtà se ne vogliono altri, mentre nel primo gli effetti reali sono quelli che si vogliono. Il contratto
in frode alla legge va distinto dal contratto in frode ai creditori, quest’ultimo non viola nessuna
norma ma è utilizzato per sottrarre al patrimonio alcuni beni in modo da non poterli far aggredire
dai creditori.
L’art.1325 afferma che l’oggetto è un elemento essenziale del contratto, se manca determina la
nullità dell’autoregolamento. Il codice non dà nessuna definizione di oggetto ma abbiamo due
grandi tendenze: la prima è quella che individua il bene, inteso come l’utilità economica che
attrae l’interesse delle parti gestito dal contratto. L’oggetto va distinto dalla prestazione che
costituisce l’oggetto del rapporto obbligatorio e consiste nel comportamento dovuto dal debitore
per soddisfare il creditore. Quando l’obbligo di una prestazione discende da un contratto l’oggetto
della prestazione e l’oggetto del contratto coincidono. Il bene quale utilità economica va distinto
dal bene quale cosa che forma oggetto di diritti. La seconda è quella che attribuisce al termine
oggetto il significato di contenuto, cioè l’insieme di clausole che costituiscono il regolamento di
interessi. Ove per oggetto si intenda il contenuto del contratto diventa difficile distinguerlo dal
concetto di causa. La nozione di contenuto è più ampia mentre la causa è la sintesi degli effetti
essenziali di questo.
LA DETERMINAZIONE DELL’OGGETTO
L’oggetto deve essere determinato o quanto meno determinabile, pena la nullità del contratto. I
criteri per la determinazione dell’oggetto possono essere forniti dalla legge o dalle parti. Nella
prima ipotesi si assiste al fenomeno dell’integrazione eteronoma del contenuto del contratto da
parte di norme imperative o suppletive. La determinazione dell’oggetto di un contratto da parte
di un terzo, detto arbitratore è generalmente ammessa nell’ipotesi in cui siano le stesse parti a
prevederla (parti legate da un vincolo di amicizia stabiliscono la vendita di un bene stabilita da
un tecnico). In mancanza di un equo apprezzamento le parti potranno rivolgersi al giudice. Se
le parti non si accordano per sostituire l’arbitratore il contratto è nullo.
L’oggetto deve essere lecito, cioè non deve contrastare con le norme imperative, ordine pubblico
e buon costume. L’oggetto deve essere inoltre possibile. Si distingue la possibilità fisica e
giuridica. La prima indica la possibilità di esistenza del bene stesso o almeno l’astratta possibilità
che essa venga ad esistere. La possibilità dell’oggetto inoltre deve essere originaria, deve
sussistere al momento della conclusione del contratto. È difficile invece distinguere l’impossibilità
giuridica da quella della illiceità.
La causa non deve essere confusa con gli obiettivi che ciascuna delle parti persegue con il
contratto. Essi sono infatti i motivi. La causa è lo scopo pratico concretamente perseguito dai
contraenti mentre i motivi sono quelle finalità ulteriori che ciascuna delle parti si prefigge e che
dipende dalla realizzazione della funzione oggettiva del contratto. I motivi sono irrilevanti per
l’ordinamento nel senso che la loro mancata attuazione non influenza la validità o l’efficacia del
contratto. In pratica ogni parte supporta il rischio della mancata attuazione del suo progetto.
Viceversa il motivo illecito è in genere rilevante. Nei contratti lo è quando abbia rappresentato
l’unico motivo comune ad entrambe le parti. I fini illeciti non possono non colorare di illiceità il
contratto e renderlo così nullo, ad esempio colui che concede in locazione la propria abitazione
ad un prezzo elevato per potervi stabilire un’attività illecita.
Il codice attribuisce alle parti la possibilità di far emergere i motivi nell’ambito del contratto, di
dare cioè ad essi rilievo attraverso meccanismi in virtù dei quali la loro mancata attuazione incida
sul contratto medesimo. Tali elementi accidentali del contratto sono la condizione, il termine e
modus. Essi sono definiti accidentali per distinguerli da quelli essenziali. Quest’ultimi sono
richiesti a pena di nullità e la loro eventuale mancanza condiziona la validità del contratto. Per
questo motivo sono definiti condizioni o requisiti di efficacia.
LA CONDIZIONE
IL TERMINE
Il termine è un evento futuro ma certo al cui verificarsi il contratto comincerà a produrre i suoi
effetti o cesserà di produrne. Caratteristica peculiare del termine è la sua certezza, l’incertezza
del termine può riguarda il quando.
IL MODUS
Gli effetti cui le parti risultano assoggettate in virtù del loro consenso possono essere di fonte
pattizia ma anche legali o naturali. Le concrete conseguenze giuridiche sono individuate da un
procedimento ermeneutico che è detto di interpretazione, esso consiste nell’attribuzione di un
significato alla comune volontà contrattuale così come è stata espressa. L’interpretazione
stabilisce anche la causa che il contratto persegue, qualificandolo e cioè riconducendolo ad uno
dei tipi disciplinati dalla legge. La qualificazione è fondamentale in quando a seconda del tipo di
contratto sarà applicabile una determina disciplina prevista dal legislatore. L’attività ermeneutica
svolta dal giudice è regolata da alcune disposizione normative. La comune intenzione delle parti
deve essere individuata non soltanto dalla lettera del contratto ma anche da elementi extra
contrattuali, quale il comportamento che i contraenti hanno tenuto posteriormente alla
conclusione del contratto. Le clausole del contratto inoltre non vanno interpretate separatamente
in quanto il senso di ciascuna può chiarire il contenuto delle altre.
Quando si parla di effetti del contratto si riferisce alle conseguenze giuridiche prodotte da esso.
Le parti potrebbero aver omesso particolari aspetti del loro rapporto che sono rilevanti. Appunto
perciò il legislatore ha predisposto una disciplina dispositiva o suppletiva che completa la volontà
carente dei contraenti. A volte è possibile sostituire una clausola che è contrastante con quella
legale. gli effetti del contratto si distinguono in costitutivi, modificativi o estintivi. Possono poi
distinguersi in effetti obbligatori e effetti reali: i primi si verificano quando dal contratto nasce
un rapporto obbligatorio, i secondi invece quando dal contratto nascono diritti reali ovvero il
trasferimento di diritti di qualunque genere. In questi contratti ad efficacia reale il semplice
Il contratto obbliga le parti non solo a quanto espresso in esso, ma anche a tutte le conseguenze
che derivano dalla legge o in mancanza dagli usi e le equità. Durante l’esecuzione del contratto
le parti poi devono comportarsi secondo buona fede, devono cioè agire preservando l’interesse
altrui.
L’art.1372 dopo aver sancito al primo comma, che il contratto ha forza di legge tra le parti,
specifica nel secondo comma che esso non produce effetti rispetto ai terzi se non nei casi previsti
dalla legge (relatività delle sfere giuridiche). I terzi possono subire, in conseguenza della stipula
di un contratto delle ripercussioni (vendita di un immobile locato, il conduttore che rispetto alla
vendita è terzo, dal momento della stipula pagherà il canone al nuovo proprietario, si avrà un
effetto indiretto o riflesso). Inoltre sebbene il contratto abbia efficacia tra le parti, quest’ultime
sono interessate ad ottenere che i terzi prendano atto degli effetti che sono stati prodotti dall’atto
e siano tenuti in un certo senso a rispettarli, questo è il concetto di opponibilità degli effetti del
contratto. Un contratto è opponibile quando le parti di un accordo contrattuale possono ottenere
che i terzi rispettino gli effetti da esso prodotto.
LE CONDIZIONI DI OPPONIBILITA’
In alcuni casi i contratti possono produrre per i terzi anche effetti diretti purchè siano per essi
degli effetti favorevoli. Ciò avviene nel contratto a favore di terzi regolato dall’art.1411, che è un
accordo concluso tra due parti di cui una è detta stipulante e l’altra è detta promittente. Si tratta
normalmente di prestazioni corrispettive. Il promittente si impegna ad effettuare la propria
prestazione in favore di un terzo anziché dello stipulante (una persona [stipulante] acquista
presso un’agenzia [promittente] un pacchetto turistico per un terzo beneficiario). Perché il
contratto sia valido c’è bisogno che lo stipulante vi abbia un interesse: in altre parole che vi sia
una ragione giuridicamente apprezzabile che giustifichi l’attribuzione patrimoniale al terzo
beneficiario. Siccome il terzo beneficiario subisce effetti favorevoli la sua accettazione non è
necessaria per il perfezionamento del contratto, la sua dichiarazione di voler profittare del
beneficio, ha quale conseguenza solamente quella di rendere la stipulazione immodificabile e
irrevocabile; il suo rifiuto comporta che il promittente dovrà effettuare la sua prestazione a
vantaggio dello stipulante a meno che le parti non abbiano stabilito diversamente. Analoghe
conseguenze si hanno quando lo stipulante revochi il terzo beneficiario prima della sua
pronuncia. Se il terzo muore, il promittente dovrà eseguire la prestazione in favore degli eredi
salvo diversi patti. Il terzo nemmeno dopo la sua dichiarazione diviene parte del rapporto
contrattuale, ma semplicemente titolare di un diritto di credito nei confronti del promittente, in
ciò sta la differenza con il contratto per persona da nominare. Non è ammesso che il contratto
produca effetti sfavorevoli per il terzo. A tale principio risponde la disciplina della promessa del
fatto del terzo, in cui qualcuno promette ad un altro che un terzo si assumerà un’obbligazione o
terrà un comportamento. L’accettazione del terzo è fondamentale e ove essa manchi l’autore
della promessa è tenuto ad indennizzare l’altro contraente.
La trascrizione riguarda principalmente i rapporti aventi ad oggetto beni immobili. Sono soggetti
a trascrizione i contratti traslativi della proprietà, nonché gli atti che costituiscono, modificano o
estinguono diritti reali o diritti personali di godimento ultranovennali sui beni in questione. Infine
sono soggette a trascrizione alcune domande giudiziali che riferiscono ai diritti in questione. Nella
trascrizione vige il principio di tassatività, per cui soltanto gli atti e le domande elencate dal
codice sono trascrivibili. La trascrizione di norma è un obbligo per il notaio e un onere per le parti
che devono adempiere se intendono ottenere il rispetto da parte dei terzi. La funzione principale
della trascrizione è quella di dirimere i conflitti tra più aventi causa dallo stesso autore. Ad
esempio, tra i vari acquisti effettuati da più acquirenti sul medesimo bene, non prevale il primo
in ordine cronologico bensì quello che per primo è stato trascritto, anche se stipulato
successivamente. L’effetto della trascrizione produce effetti anche se il secondo acquirente che
trascrive per primo sia in malafede, sia cioè a conoscenza del precedente trasferimento. Perché
scatti il meccanismo della trascrizione è necessario tuttavia che sia rispettato il principio di
continuità delle trascrizioni. Infatti la trascrizione operata a carico di un soggetto non produce
effetto se non è stato trascritto l’atto anteriore d’acquisto, cioè è necessario che a monte vi sia
una catena di trascrizioni che consente di risalire a un acquisto a titolo originario che cioè, non
presuppone la titolarità di un precedente dante causa. La trascrizione però non sana i vizi del
titolo. Nel conflitto tra acquirenti e creditori dell’alienante la trascrizione non vale a rendere
opponibile a questi ultimi l’acquisto se effettuata dopo che sia avvenuto il pignoramento. La
trascrizione deve essere effettuato presso l’ufficio dei registri immobiliari, per ottenerla occorre
tenere un titolo e alla domanda vanno allegati la copia dell’atto e una nota in doppio originale
che contenga i dati identificativi delle parti, il titolo di cui si chiede la trascrizione e la sua data e
il nome del pubblico ufficiale che ha redatto l’atto.
Per le altre categorie di beni vigono meccanismi pubblicitari diversi. Per quanto concerne gli atti
di trasferimento della proprietà o di costituzione di diritto di usufrutto, uso o pegno sui mobili,
l’opponibilità è garantita dal principio “possesso vale titolo”. Tale norma risolve i conflitti
consentendo la prevalenza di chi abbia conseguito in buona fede il possesso in base ad un titolo
astrattamente idoneo. Nel conflitto tra acquirente e creditori dell’alienante, il primo può opporre
il suo acquisto ai secondi quando l’acquisto ha data certa anteriore al pignoramento, se manca
la data l’acquisto è opponibile quando l’acquirente abbia conseguito il possesso del bene. Il
principio “possesso vale titolo” non trova applicazione nel caso di alienazione di universalità di
mobili per le quali vige la regola della prevalenza dell’atto di data anteriore. Nelle ipotesi in cui
il contratto oggetto la concessione di un diritto personale di godimento, nel conflitto tra più
concessionari prevale quello che per primo abbia conseguito godimento sul bene.
LA NULLITA’
La forma più grave di invalidità è la nullità ed è stata pensata dal legislatore come conseguenza
per i casi in cui il contratto manchi di uno degli elementi essenziali o sia illecito. La nullità
determina automaticamente l’inefficacia del contratto, l’improduttività delle conseguenza
giuridiche è un effetto legale della nullità. Se il contratto avrà avuto esecuzione le prestazioni
eseguite senza titolo andranno restituite in base alla regola della ripetizione dell’indebito. L’azione
di nullità, cioè il potere di chiedere al giudice il relativo accertamento, è assoluta nel senso che
chiunque è interessato può richiederla. Infine la nullità è insanabile e può riguardare l’intero
negozio o soltanto una parte di esso.
LA NULLITA’ RELATIVA
È il caso in cui l’azione di nullità può esercitata da uno solo dei contraenti.
Proprio perché la nullità tutela interessi di tipo generale, non è ammessa la convalida del
contratto nullo. Tuttavia esistono alcuni tipi di sanatoria eccezionale del negozio nullo previste in
materia di testamento e donazione. Ad esempio la nullità della disposizione testamentaria non
può essere fatta valere da chi, conoscendo la causa della nullità, ha dopo la morte del testatore
confermato la disposizione o dato ad essa volontaria esecuzione. Oppure ad esempio la nullità
della donazione non può essere fatta valere dagli eredi del donante che, essendo a conoscenza
della causa di nullità, abbiano confermato la donazione o l’abbiano volontariamente eseguita
dopo la morte del donante. È così ammessa la conversione del contratto nullo. Il giudice quindi
quando sussistono tre elementi: 1) il nuovo contratto deve essere di per sé valido e tutti i suoi
elementi costitutivi devono essere contenuti nell’atto nullo; 2) deve sussistere la volontà
ipotetica, si deve cioè accertare che le parti, se avessero saputo dell’invalidità avrebbero voluto
il diverso contratto; 3) la nullità non deve derivare da illiceità. Allora il giudice potrà dichiarare
che il contratto invalido produca gli effetti di un altro contratto valido. Tale conversione è detta
sostanziale perché essa incide sulla sostanza dell’atto. Il contratto nullo rimane tale per le parti
e per i terzi anche se trascritto. Tuttavia l’esigenza di certezza dei traffici ha spinto il legislatore
a prevedere un temperamento della regola di assoluta improduttività di effetti del negozio nei
confronti dei terzi di buona fede aventi causa dall’acquirente.
L’ANNULLABILITA’
L’annullabilità è una fattispecie di invalidità a carattere tassativo, cioè che trova applicazione nei
soli casi espressamente previsti dalla legge. È prevista in linea generale nei casi di incapacità di
agire o naturale di una delle parti, ovvero quando sussistano vizi della volontà. Ancora nei
contratti conclusi dal rappresentante in conflitto di interesse col rappresentato e nei contratti con
sé stesso. L’annullabilità non opera automaticamente ma è necessaria una specifica azione da
parte di uno dei contraenti. La sentenza del giudice non si limita ad accertare l’annullabilità ma
produce l’effetto dell’annullamento. Esistono peraltro ipotesi di annullabilità assoluta, come ad
esempio, gli atti compiuti da un condannato in stato di interdizione legale. Nei casi di annullabilità
relativa, la parte tutelata può anche rinunciarvi e così far sanare l’atto. Tale sanatoria può
avvenire in tre modi: in primo luogo attraverso l’inerzia, e cioè facendo maturare la prescrizione
in quanto l’annullabilità può farsi valere soltanto entro il termine di 5 anni, di regola dal giorno
della conclusione del contratto o dal giorno in cui è cessata la violenza, o dal giorno in cui è stato
scoperto l’errore o il dolo, o dal giorno in cui sia cessato lo stato di interdizione o di inabilitazione
o il minore abbia raggiunto la maggiore età; in secondo luogo l’invalidità può essere sanata con
la convalida espressa attraverso una dichiarazione negoziale della parte che rimuove così
l’invalidità rendendo valido il contratto; infine la convalida può avvenire anche in modo tacito
allorchè la parte legittimata a far valere l’annullabilità esegue volontariamente il contratto pur
essendo a conoscenza della causa di invalidità.
LA RESCISSIONE
Il primo istituto che viene in rilievo quale rimedio allo squilibrio tra le prestazioni contrattuali è
rappresentato dalla rescissione. Essa si verifica quando la sproporzione economica tra
prestazione e controprestazione dipende dall’approfittamento, da parte di uno dei contraenti di
una situazione di difficoltà della controparte. I casi di rescissione sono tassativi e sono regolati
dagli articoli 1447 e 1448. Il primo di essi è costituito dal contratto concluso in stato di pericolo,
cioè quei casi in cui una parte abbia acconsentito a concludere un contratto per salvare sé o altri
dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Elementi della fattispecie sono: l’esistenza
di un attuale stato di pericolo che minaccia la persona, la conoscenza dello stato di pericolo da
parte dell’altro contraente, le condizioni inique alle quali la parte è costretta a contrarre in cambio
dell’aiuto che la controparte promette di offrire. L’iniquità viene valutata dal giudice. Il secondo
caso tratta la rescissione per lesione, cioè quando in un contratto la prestazione di una delle parti
ecceda di più della metà il valore della controprestazione. È necessario però che tale lesione sia
la conseguenza dell’approfittamento che una parte abbia fatto dello stato di bisogno dell’altro.
La rescissione non determina l’inefficacia del contratto, è necessaria la sentenza del giudice per
privare il contratto di efficacia. L’azione per richiedere la rescissione è relativa, cioè dalle persone
in stato di pericolo. La rescissione si prescrive in un anno dalla conclusione del contratto e
decorso tale termine l’interessato non potrà più farla valere. Il contratto rescisso non va più
eseguito e se esso abbia già avuto esecuzione, quando prestato va restituito in base alle norme
sulla ripetizione dell’indebito. Tale retroattività vale solo per le parti e infine la rescissione non si
applica ai contratti aleatori, nei quali il rischio di una sproposizione tra le prestazione è insito
nella causa stessa del negozio.
IL CONTRATTO USURAIO
La legge definisce usurari gli interessi che superano del 50% il tasso medio fissato dal ministero
del Tesoro. Comunque risultano altresì usurai gli interessi, anche se inferiore a tale limite che
risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro, quando chi li ha richiesti
si trova in condizione di difficoltà economica-finanziaria. Tuttavia per la configurazione del reato
di usura è sufficiente il mero dato oggettivo del superamento del limite legale, a prescindere
dalla sussistenza o meno di uno stato di bisogno e dal dato soggettivo dell’approfittamento della
controparte.
Il consumatore è la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o
professionale. Il professionista è la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria
attività imprenditoriale o professionale. Il legislatore ritiene il consumatore un soggetto affetto
da una condizione di debolezza strutturale, o meglio di asimmetria contrattuale, che richiede
l’intervento statuale al fine di garantire un riequilibrio delle posizioni contrattuali.
Le vendite stipulate fuori dai locali commerciali rappresentano una situazione di debolezza per il
consumatore perché l’iniziativa contrattuale presa dal professionista coglie di sorpresa il
consumatore, che spesso non ha la possibilità di confrontarla con altre offerte. In questa
categoria di contratti rientrano: a) quelli stipulati durante la visita del professionista al domicilio
del consumatore o sul posto di lavoro del consumatore o nei locali in cui si trovi il consumatore;
b) durante un’escursione organizzata dal professionista al di fuori dei propri legali commerciali;
c) in luoghi aperti al pubblico; d) per corrispondenza o in base ad un catalogo che il consumatore
ha avuto modo di consultare senza la presenza del professionista. Il legislatore ha attribuito al
consumatore il diritto di recesso dei contratti negoziati fuori dai locali commerciali alle stesse
condizioni dei contratti a distanza. Tali contratti non possono essere applicati per la costruzione,
vendita e locazione dei beni immobili; per la fornitura di prodotti alimentari o bevande o di altri
prodotti di uso domestico; per i contratti di assicurazione; per i contratti relativi a strumenti
finanziari.
La risoluzione del contratto può essere provocata volontariamente da entrambe o da una delle
parti. Nel primo caso il contratto è sciolto per mutuo dissenso mentre nel secondo caso il
contratto è sciolto per l’esercizio unilaterale del diritto potestativo di recesso, che può essere
attribuito ad una o ad entrambe le parti. Tale diritto può essere esercitato finchè il contratto non
abbia avuto un minimo di esecuzione. Nei contratti ad esecuzione continuata invece il contraente
può recedere anche successivamente. Se inoltre è previsto un corrispettivo per il recesso, questo
non ha effetto finchè non è stata eseguita la controprestazione. Il corrispettivo prende il nome
di multa penitenziale, invece quello versato anticipatamente viene chiamato caparra penitenziale
con la quale si stabilisce che se a recedere è chi ha dato la caparra, la perde, mentre se a
recedere è chi l’ha ricevuto, questi deve restituire il doppio.
La risoluzione del contratto per i contratti a prestazioni corrispettive si verifica nei casi in cui un
avvenimento sopravvenuto impedisca la realizzazione dello scambio di prestazioni. Questi
avvenimenti sono 3 e previsti dalla legge: inadempimento di una delle parti che conduce alla
risoluzione cosiddetta per inadempimento. La controparte ha vari strumenti di tutela, può agire
in giudizio per ottenere l’adempimento ove sia ancora interessata all’affare oppure può chiedere
la risoluzione e sciogliersi dal vincolo. In entrambi i casi è fatto salvo il suo diritto al risarcimento
dei danni. È importante però che l’inadempimento non sia di scarsa importanza. La risoluzione
fin qui esposta viene detta risoluzione giudiziale e la sentenza del giudice ha effetto costitutivo.
La risoluzione che non dipende da una sentenza del giudice è detta risoluzione legale. La prima
fattispecie di risoluzione legale è costituita dalla diffida ad adempiere. La parte non inadempiente
può intimare per iscritto alla controparte di adempiere entro un congruo termine, di norma non
inferiore a 15 giorni, con espressa avvertenza che l’inutile decorso del termine darà luogo alla
risoluzione del contratto. Anche la clausola risolutiva comporta la risoluzione del contratto. Essa
è quella clausola in cui i contraenti abbiano espressamente convenuto che il contratto si risolva
nel caso una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. Inoltre
si può avere la risoluzione del contratto per mancato rispetto del termine essenziale. Il termine
è essenziale quando il suo mancato rispetto fa sì che la prestazione non risulti più di alcun utilità
per la controparte. Se la parte nel cui interesse è previsto il termine essenziale vuole evitare
l’effetto risolutivo è tenuto a comunicarlo all’altra entro 3 giorni dalla scadenza del termine.
Inoltre una parte può utilizzare come mezzo di autotutela le eccezioni di inadempimento cioè
può rifiutare di adempiere la propria prestazione se l’altra parte non adempie
contemporaneamente con la propria. L’eccezione di inadempimento non può essere sollevata nel
caso in cui dal contratto o dalla natura dell’affare risultino termini diversa di adempimento per
ciascuna delle parti. Le eccezioni di inadempimento è però soltanto un rimedio temporaneo. La
sua evoluzione potrà consistere nell’adempimento ritardato o nella risoluzione definitiva del
contratto.
Tale ipotesi di risoluzione concerne solo i contratti ad esecuzione continuata o periodica. Infatti
se la prestazione di una delle parti è divenuta nel tempo, a causa del sopraggiungere di
avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la
risoluzione del contratto. Quindi sono necessari i due presupposti di eccessiva onerosità
sopravvenuta, e l’imprevedibilità e straordinarietà degli eventi che hanno causato tale squilibrio.
Questo rimedio non si applica ai contratti aleatori.
Nel codice civile del secolo scorso la persona nella sua fisicità non costituiva materia su cui lo
Stato avesse interesse ad intervenire. Con il codice civile del 1942 che trova completamento con
l’entrata in vigore della Costituzione del 1948, al centro dell’indagine giuridica si pone la
consapevolezza che la personalità è altro rispetto alla capacità e non coincide con la soggettività
giuridica. La persona oltre che realtà fenomenica è intesa come portatrice di quell’insieme di
valori che fotografano la poliedricità dell’esistenza umana. La visione dell’uomo nella sua
complessità supera la dimensione statica della capacità giuridica, per recuperare la persona nella
sua dimensione vitale e unitaria fatta di interessi, bisogni, diritti, obblighi e rapporti. Ne consegue
la necessità: a) di distinguere tra situazioni giuridiche soggettive a sfondo patrimoniale e
situazioni giuridiche di natura esistenziale; b) di riconoscere il carattere strumentale delle
situazioni giuridiche soggettive patrimoniali rispetto a quelle esistenziali; c) di ritenere che i diritti
della personalità siano attratti nell’orbita delle situazioni esistenziali. L’ubi consistam dei diritti
della personalità si risolve nel riconoscimento della superiorità dei valori di cui è portatrice la
persona. I diritti che tutelano la persona nei suoi valori essenziali sono detti diritti della
personalità e sono inviolabili. A questo si aggiungono anche i successivi documenti internazionali
che hanno dato più rilievo a questo fenomeno, come la Dichiarazione Universale dei diritti
dell’uomo (1948), la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (1950), la Carta di Nizza (2000).
I diritti della personalità intendono assicurare alla persona le condizioni fondamentali dello
sviluppo fisico-psichico della persona. Sono appunto il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla
salute, all’onore, alla reputazione, all’identità sessuale, alla riservatezza, al nome, all’immagine,
allo status ecc.. I diritti fondamentali operano tutti in funzione di tutela della dignità umana. Si
discute riguardo all’esistenza di un unico “diritto della personalità” che considera e tutela la
persona nella sua unitarietà o si debba discutere di “diritti della personalità” al plurale,
considerazione le molteplicità previste dalle leggi. Questa teoria è definita atomistica o anche
pluralistica, in contrapposizione alla prima che è detta monistica. Le concezioni atomistiche non
possono però essere accettate perché non si può frantumare l’unitarietà della persona e delle
sue situazioni giuridiche. Questi diritti presentano caratteristiche ben precise sono cioè: a)
assoluti, possono essere fatti valere erga omnes; b) inalienabili; c) intrasmissibili, si estinguono
con la morte del titolare (eccetto il diritto d’autore); d) irrinunciabili; e) imprescrittibili.
L’art.2 si pone come norma fondamentale di tutela, una sorta di clausola generale che evidenzia
la scelta di protezione integrale della persona e degli interessi di cui essa è portatrice. L’ampia
formulazione dell’art.2 ha fatto emergere due diverse posizioni. In un primo senso è negata
l’esistenza di diritti diversi rispetto a quelli enumerati a livello costituzionale. L’art.2 riassume i
singoli diritti tutelati a livello costituzionale. Dall’altro lato però, in modo prevalente, si nota come
non sia possibile enumerare i singoli diritti della personalità per l’impossibilità di porre un limite
al progressi allargamento della sfera che tutela la dignità della persona. L’art.2 consente quindi
l’ingresso di nuovi diritti in una prospettiva di sempre maggiore tutela della dignità umana.
Nell’ambito dei diritti personali si distinguono i diritti civili, che proteggono la persona fisica nei
rapporti privati, dai diritti pubblici, che invece si occupano di definire la posizione della persona
nei confronti dello Stato e degli altri enti pubblici. I diritti che impongono allo Stato degli obblighi
a protezione del cittadino sono detti diritti sociali (es. diritto alla salute, al lavoro, all’istruzione).
Mentre i diritti che postulano una sfera di libertà nei confronti dello Stato sono detti diritti di
libertà. Per quanto riguarda i diritti inviolabili e le libertà fondamentali, alla posizione del titolare
del diritto corrisponde un obbligo di non ingerenza da parte dei terzi, e tra questi abbiamo il
diritto alla vita, all’integrità psico-fisica, al nome e all’immagine, all’onore e alla reputazione,
all’identità sessuale, alla riservatezza, alla paternità morale e infine alle libertà civili. A
quest’ultima categoria appartengono altre libertà contemplate singolarmente dalla costituzione
e cioè la libertà personale (art.13), la libertà di circolazione e di residenza (art.16), la libertà di
religione (art.19), la libertà di associazione (art.18), la libertà di sciopero (art.40), la libertà di
iniziativa economica (art.41) e la libertà di manifestazione del pensiero (art.21). La categoria dei
diritti di libertà civile ha bisogno dell’intervento costante del diritto positivo per essere reso
attuale, come ad esempio l’intervento dello Stato per l’attribuzione delle frequenze radio-
televisive. Per diritti fondamentali intendiamo quelli che: a) sono tali a prescindere dall’ottica
rimediale offerta dalla responsabilità civile o dalla possibilità di agire in giudizio; b) sono da
considerare essi stessi delle norme che connotano l’ordinamento e ne conformano le scelte; c)
sono al vertice della gerarchia dei valori.
Il diritto alla vita non viene affrontato in maniera diretta dalla nostra Costituzione ma si può
capire che è tutelato poiché sono presenti norme che vietano la pena di morte e norme penali
contro l’omicidio. Trattano del diritto alla vita invece altri documenti internazionali a cui l’Italia
ha aderito come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e la Carta di Nizza. Nel codice
civile è molto importante l’art.1322 che appunto stabilisce come e quando una persona può
disporre di un suo bene meno che del suo corpo. Questa limitazione stabilisce appunto come
nell’ordinamento italiano anche se in maniera implicita viene tutelato il diritto alla vita.
Non si sa di preciso in quale momento ha inizio il diritto alla vita. Prendendo spunto dal codice
civile notiamo come l’unico riferimento sia all’art.1 in cui si dice che la capacità giuridica si
acquista al momento della nascita. Però ciò non evita che il nascituro non possa essere portatore
di interessi giuridicamente rilevanti. Una parte della dottrina sottolinea come l’evoluzione
biologica dell’individuo si compia lungo un continuum che delinea la condizione del nascituro e il
suo essere persona dimostra come l’acquisto della soggettività giuridica si compia già a partire
dalla fecondazione. Ciò però è indimostrato. Il nostro ordinamento riconosce al concepito la
titolarità di determinate situazioni giuridiche in tema di successioni e donazioni. Il soggetto nato
è legittimato ad agire per ottenere il risarcimento del danno conseguente ad un’errata diagnosi
o terapia ed è diritto del nascituro quello di richiedere il risarcimento del danno per morte del
genitore. Quest’ultimo caso però presuppone sempre la nascita per l’attuazione del diritto. La
tesi che vede nell’embrione una persona non ha un solido appoggio normativo perché nel caso
in cui l’evento nascita non si realizzi, il diritto dovrebbe (contrariamente alla realtà) consolidarsi
iure successionis in capo al genitore al genitore superstite o eventuali fratelli. Inoltre se il feto è
definito come una persona, si dovrebbe, nel caso in cui un medico provochi l’errore del feto,
agire per vie penali in quanto vi è stato un omicidio e ciò concretamente non avviene. L’embrione
gode di un particolare regime visto che l’ordinamento riconosce al non ancora nato la possibilità
di divenire titolare di posizioni giuridiche patrimoniali. Inoltre l’ordinamento riserva all’embrione
un diverso grado di tutela ora più ora meno elevato. Per quanto riguarda l’aborto, questo è un
fenomeno che tocca il legislatore nel determinato momento storico così come il concepimento in
vitro. Il prodotto di un aborto spontaneo, così come un’interruzione volontaria della gravidanza
è definito “prodotto abortivo” ed ammesso alla sepoltura se abbia superato le 20 settimane.
L’esigenza di tutela degli interessi della madre consente alla donna di accedere gratuitamente
alle tecniche di interruzione della gravidanza. La legge intende rivalutare la posizione della donna
senza privare di ogni tutela il feto. La legge esclude che l’aborto possa considerarsi uno
strumento di controllo delle nascite o peggio, frutto di un mero capriccio. La diversa tutela
giuridica di cui gode l’embrione in vitro rispetto a quello in utero serve al legislatore italiano per
ribadire con decisione la propria scelta di valore, portando alle estreme conseguenze la
declamata fedeltà al principio della tutela del diritto alla vita fin dal suo inizio.
Un discorso diverso va fatto per il trattamento medico. L’attività di disposizione del corpo è
necessario per recuperare quella condizione di equilibrio psico-fisico nella quale è fatta consistere
la salute. In questo caso non si incorre nei divieti previsti dall’art.5 c.c.. L’art.32 Cost. tratta del
diritto alla salute e rende lecito l’esercizio dell’attività medica purchè la persona si sottoponga
volontariamente al trattamento. Il consenso è il requisito necessario ma non sufficiente per la
liceità del trattamento sanitario. Il collegamento fra inviolabilità della libertà personale e tutela
della salute spiega perché il trattamento terapeutico non incorra nei limiti dell’art.5. Ad esempio
nel caso un paziente giunga privo di sensi al pronto soccorso e abbia bisogno di un interevento,
si ritiene che in questo caso vi sia un consenso presunto poiché il medico interviene per salvare
la vita della persona. L’art.32 però ammette anche che il singolo può rinunciare al trattamento
medico o chirurgico come nel caso dei Testimoni di Geova che per loro religione non possono
accettare trasfusioni di sangue, in questo caso c’è bisogno dell’espresso rifiuto da parte
dell’interessato. Il consenso non è previsto nel caso in cui il trattamento medico è necessario per
la tutela della collettività (es. debellare malattie infettive). Per quanto riguarda le persone malate
di disturbi psichici, la legge subordina la degenza ospedaliera coattiva al rifiuto del soggetto di
sottoporsi ad indifferibili interventi terapeutici. Il sindaco assume il provvedimento, con relazione
medica e notifica al giudice tutelare entro 48 ore, questi emana un decreto motivato di convalida
nelle successive 48 ore. Ogni terapia deve essere praticata in modo da garantire il rispetto della
persona e della sua dignità. Il rispetto della persona e della sua dignità è il fondamento
dell’istituto dell’amministratore di sostegno. In tema di risarcimento del danno alla salute la
giurisprudenza ha individuato alcune fattispecie di danno come il “danno biologico”, il “danno alla
vita di relazione” e il “danno esistenziale”.
La legge 1°Aprile 1999 n°91 riforma la disciplina riguardante i trapianti di organi e tessuti. I
prelievi devono essere fatti esclusivamente sui soggetti in cui è accertata la condizione di morte.
La legge si ispira sui principi di trasparenza e pari opportunità e individua nella necessità medica
e nella compatibilità clinica gli unici criteri di selezione. L’introduzione delle liste d’attesa ha
permesso di risolvere il problema dell’equità nella distribuzione degli organi basandosi su
Con lo sviluppo delle tecnologie e il pericolo di compromissione dell’intimità personale sono sorti
due nuovi diritti molto importanti: il diritto all’identità personale e quello alla riservatezza. Il
diritto all’identità personale si afferma come fondamentale strumento di tutela della persona nei
confronti di tutte le rappresentazioni non corrette della stessa provenienti da giornali, mass
media e altri mezzi di diffusione delle informazioni. Trova il suo fondamento nell’art.2 cost. e va
distinto dal diritto all’integrità fisica, al nome, al diritto all’immagine e alla riservatezza. Tra diritto
all’identità personale e diritto al nome c’è un legame forte dovuto al fatto che il nome è un
importante strumento di identificazione della persona dal punto di vista fisico. Mentre il diritto
all’identità personale tutela la persona proprio nella sua connotazione sociale, cioè nel suo essere
capace di proiettare all’esterno quel bagaglio di esperienze, conoscenze, gusti, opinioni, abitudini
chef anno della singola esperienza umana una vicenda unica ed irripetibile. Legato all’identità
personale è anche l’identità digitale, cioè l’insieme di processi di gestione dell’identità personale
che nel mondo ICT (tecnologie ed informazione) si realizzano attraverso autenticazione,
autorizzazione, individuazione di profili, informazioni biometriche ecc.. Dal punto di vista statico
rappresenta i dati che servono ad identificare il soggetto (username, password ecc.), dal punto
di vista dinamico, rimanda al complesso di tecniche che consentono di identificare il soggetto
attraverso incroci di informazioni. Il diritto all’identità personale è un diritto fondamentale
assoluto e non patrimoniale. Dal punto di vista risarcitorio è considerato un danno in re ipsa,
cioè il soggetto leso non deve dimostrare il verificarsi di ulteriore pregiudizio patrimoniale o
morale.
Il diritto al nome (art.6 c.c.) identifica la persona dal punto di vista sia fisico che simbolico. Il
nome, inteso come prenome, cognome e anche pseudonimo distingue la persona e ne evoca le
caratteristiche, gli eventuali difetti o i presumibili pregi. Il nome è espressione del diritto della
persona a godere della propria identità in un determinato contesto sociale. All’interesse esclusivo
del nome si affianca l’esigenza pubblica dell’identificazione sociale. Si sono sviluppate due teorie:
la prima in cui il diritto al nome sia un interesse specifico dello Stato e un eventuale illecito,
quindi, venga compiuto in primis nei confronti dello Stato; la seconda invece prevede il diritto al
nome assimilabile come un diritto di proprietà, ma questa ipotesi è troppo rigorosa in quanto la
proprietà tratta di beni esterni al soggetto. Da queste due ipotesi si è giunti ad una terza che
ritiene che il diritto al nome rientri fra i diritti della personalità. La lesione del diritto al nome si
ha in conseguenza di determinati atti diretti come 1) negare, 2) usurpare, 3) privare, 4)
contestare l’uso del nome altrui. La P.A. tiene aggiornati i registri dello stato civili ed un eventuale
danno, smarrimento, distruzione di un atto civile provoca il risarcimento alla persona interessata
di danni sia morali che patrimoniali. Per quanto riguarda i terzi, il danno è riconosciuto se un
terzo con dolo o con colpa tenga una condotta con cui nega o impedisca a qualcuno l’uso del
proprio nome. Ad esempio, nell’elenco telefonico venga trascritto vicino al proprio numero un
nominativo diverso. Si ha danno anche nell’uso indebito del nome da parte di altra persona ma
in questo caso l’utilizzo deve essere indebito e deve provocare al soggetto un pregiudizio
economico o anche soltanto morale. La legge tutela alla stessa maniera anche lo pseudonimo,
laddove questo identifica socialmente la persona. Non si utilizza lo pseudonimo quando la legge
imponga l’espresso utilizzo del nome.
Per diritto alla riservatezza si intende il diritto della persona alla tutela di tutte quelle vicende
personali e familiari che i terzi non abbiano interesse a conoscere. L’ordinamento si propone la
tutela della persona da ogni forma di intromissione nella sua vita privata. La meritevolezza
dell’interesse alla conoscenza e divulgazione di determinate informazioni si desume dal rilievo
culturale, didattico o sociale che essa assume. Pur trattandosi di un diritto assoluto non
patrimoniale e inalienabile, esistono dei limiti alla tutela. Il primo è rappresentato dalla mancanza
di interesse della persona a tenere celate le vicende della sua privata. Il limite della riservatezza
non opera allorchè la persona non si opponga alla conoscenza pubblica di vicende relative alla
sua sfera privata. Il consenso non assume rilievo perché il danneggiato vede violata a sua
insaputa la propria sfera di riserbo. Può la persona pattuire un corrispettivo per la diffusione di
notizie relative a proprie situazioni personali. Il diritto alla riservatezza non occupa grande spazio
tra la giurisprudenza poiché il baricentro dell’interesse sembra essersi spostato dal diritto a non
veder invasa la propria sfera privata al profilo del controllo sulla circolazione delle informazioni
personali.
LA PRIVACY
Al diritto alla riservatezza (right to be let alone) si è affiancato e sostituito il diritto a controllare
l’utilizzo che dei propri dati altri ne faccia. Si fonda sull’acquisita consapevolezza che non si possa
né ostacolare la circolazione dell’informazione né ancorare la tutela della persona al profilo
statico del divieto. Raccolta, trasformazione, aggregazione, elaborazione, circolazione,
conservazione delle informazioni devono reputarsi fasi di un processo cui noi siamo esposti. Dalla
tutela del diritto alla riservatezza si trascorre così in una prospettiva dinamica, al diritto alla
protezione dei dati personali. Con il Testo Unico in materia di Privacy il legislatore tenta di porre
ordine in una materia che trovava la sua fonte in diversi provvedimenti legislativi. Ha introdotto
nuove garanzie per i cittadini ed ha modificato e semplificato alcune procedure. Fine della
normativa è la protezione dei dati personali definiti dalla stessa come informazioni relative ad
una persona (fisica o giuridica). A differenza della riservatezza, la protezione dei dati personali
mira ad evitare intromissioni indesiderate nella vita privata dell’individuo e a garantire che le
operazioni di trattamento dei dati avvengano nel rispetto della veridicità delle informazioni
relative a soggetti determinati. La positivizzazione del “Diritto alla protezione dei dati personali”
è importante perché espressione della consapevolezza di tutela della dignità della persona che
può essere compromessa dall’evoluzione delle tecnologie informatiche. Sul piano patologico e
rimediale appare chiaro che un trattamento che determini la lesione del diritto alla privacy
giustifichi l’azione risarcitoria, senza che sia necessario allegare eventi lesivi di ulteriori diritti. Il
danno non patrimoniale non sussiste in re ipsa al verificarsi di una violazione del giusto
procedimento al trattamento dei dati. L’art.11 parla di un vero e proprio diritto di signoria
procedimentale sui propri dati, attribuendo un potere di monitoraggio che si estende alle ipotesi
in cui il trattamento è effettuato per fini diversi rispetto a quelli per i quali il dato è stato acquisito.
Il rapporto di coniugio è quello che lega marito e moglie. Parenti sono coloro che hanno un
ascendente comune (art.74). Affini sono i parenti dell’altro coniuge (art.78). Non esiste vincolo
di affinità tra i parenti dei due coniugi (es. il fratello del marito non ha nulla a che vedere con il
fratello della moglie di lui); tra gli affini di un coniuge e l’altro coniuge, e gli affini di questo, non
esiste alcun vincolo di affinità (es. tra le mogli di due fratelli); le seconde nozze del coniuge
superstite non creano affinità tra il nuovo marito e gli affini del primo matrimonio; l’affinità non
cessa con la morte del coniuge salvo per effetti determinati (cessazione degli alimenti).
IL GRADO
GLI ALIMENTI
queste in proporzione delle loro condizioni economiche (art.441). Altre ipotesi di soggetti tenuti
agli alimenti sono rappresentate dal coniuge cui sia imputabile la nullità del matrimonio in favore
dell’altro coniuge di buonafede ove non vi siano obbligati (art.129 bis); dai genitori in favore del
figlio non riconoscibile, se divenuto maggiorenne e si trovi in stato di bisogno (art.279); e dal
donatario che è tenuto a prestare gli alimenti al donante con precedenza su tutti gli altri obbligati
(art.437). L’obbligo alimentare può essere adempiuto a scelta dell’obbligato o provvedendo
direttamente a mantenere l’alimentando nella propria abitazione o corrispondendogli un assegno
periodico anticipato (art.443). La facoltà di scelta viene meno in seguito ad intervento del
giudice. Per l’assegno di divorzio a favore dell’ex coniuge è previsto dalla legge il solo rimedio
dell’unica soluzione mediante somma capitalizzata, ritenuta equa dal giudice e d’accordo con le
parti (art.5 legge divorzio). Una volta corrisposto l’assegno alimentare non può essere
nuovamente richiesto. La sua corresponsione decorre soltanto dal giorno della domanda
giudiziale o dal giorno della costituzione in mora dell’obbligato quanto questa sia seguita entro
6 mesi dalla domanda giudiziale (art.445). L’obbligazione alimentare è per sua natura variabile
nel tempo ed è soggetta a revisione e l’obbligo può anche cessare con provvedimento del giudice
nel caso le condizioni patrimoniali delle parti si modificano. L’obbligo degli alimenti cessa con la
morte dell’obbligato. Gli obblighi alimentari del suocero e della suocera, e quelli del genero e
della nuora cessano per passaggio a nuove nozze della persona che ha diritto agli alimenti e
quando il coniuge da cui deriva l’affinità, i figli nati dalla sua unione con l’altro coniuge e i loro
discendenti sono morti (art.434). Il diritto agli alimenti termina quando l’alimentando esca dallo
stato di bisogno. La cessazione dell’obbligo in capo ad un obbligato non causa l’estinzione del
diritto alimentare ma determina il sorgere dell’obbligo in capo al congiunto successivo. Il credito
degli alimenti è indisponibile, insuscettibile, di cessione, di compensazione, di rinuncia, di
transazione e di compromesso in arbitrato, è non sequestrabile, né pignorabile e non è soggetto
all’esercizio dell’azione surrogatoria, ed è escluso dalla massa fallimentare nei limiti necessari
per il fallito e la sua famiglia, è imprescrittibile ed è intrasmissibile agli eredi. Questa è
l’obbligazione degli alimenti detta legale, cioè stabilita dalla legge. Può essere a base volontaria
e costituita quindi per accordo bilaterale (contratto di rendita vitalizia o contratto atipico detto di
vitalizio alimentare) o per disposizione testamentaria (legato di alimenti). Il credito alimentare
elabora quel progetto di Stato Sociale in cui appunto si punta alla realizzazione del principio di
solidarietà e di aiuto reciproco tra i membri di una stessa famiglia. L’obbligazione alimentare
gode di una specifica tutela civile, penale, processuale, comunitaria ed internazionale. Attraverso
l’istituto degli alimenti, lo Stato si mette in una posizione di secondo piano per quanto riguarda
il raggiungimento del principio di solidarietà in quanto per sostenere chi è in difficoltà da priorità
ai famigliari e come ultima alternativa interviene il settore pubblico.
Da un po’ di tempo la cosiddetta famiglia di fatto viene tutelata dall’ordinamento perché infatti
rappresenta una formazione sociale idonea a svolgere le medesime funzioni attribuite
dall’ordinamento alla famiglia “legittima” e non si pone in contrasto con questa.
L’art.317 bis riconosce la rilevanza della famiglia non fondata sul matrimonio costituita dai
genitori conviventi e dai loro figli. Dalla norma si desume l’applicabilità della disciplina che regola
la potestà dei genitori sia nelle famiglie naturali che in quelle di fatto, e l’affidamento dei figli
minori. Stabilisce l’attribuzione della potestà sul figlio naturale all’unico genitore che l’ha
riconosciuto, la titolarità della potestà ad entrambi ma l’esercizio riservato al genitore naturale
con cui convive. Se questi non convive l’esercizio spetta al genitore che prima l’ha riconosciuto.
La rottura della convivenza e la cessazione della stessa trova problematiche riguardo l’esigenza
di garantire la situazione del convivente. Questo può continuare ad abitare nella casa di abituale
residenza dei conviventi dei loro figli proprio per la presenza di questi che sono a lui affidati;
mentre per tutelare il convivente oggetto della pretesa restitutoria si è prima percorsa la via
della donazione remuneratoria mentre ora si riconosce piuttosto un dovere morale e sociale di
mantenimento del convivente (non praticabile in positivo, ovvero il mantenimento).
Capitolo 29 IL MATRIMONIO
IL MATRIMONIO: PROFILI GENERALI
Il matrimonio fonda le sue origini nel diritto romano e a partire dal Basso Impero nel diritto
canonico. Il suo inserimento nel nostro ordinamento risulta compiuto con l’introduzione del
divorzio nel 1970 e gli accordi modificativi del Concordato, siglati con la Santa Sede nel 1984.
Il matrimonio può essere inteso sia come rapporto sia come atto. Per quanto riguarda il primo,
il matrimonio fa riferimento all’insieme dei diritti e dei doveri che intercorrono tra i coniugi. Per
quanto riguarda il secondo profilo, il matrimonio è definito come negozio giuridico solenne,
bilaterale, di natura familiare, mediante il quale un uomo e una donna assumono impegni di
stabile convivenza e di aiuto reciproco nei modi e forme stabiliti dalla legge. Al matrimonio si
attribuisce natura negoziale, perché è espressione di volontà dei coniugi; natura bilaterale per
escludere la visione che attribuiva efficacia costitutiva alla dichiarazione dell’ufficiale mentre sono
i nubendi ad esprimere la propria volontà; infine è un negozio familiare perché costituisce la
nascita di un rapporto familiare (coniugio).
LA PROMESSA DI MATRIMONIO
L’art.79 prevede la promessa di matrimonio, gli sponsali per escludere la sua impegnatività
giuridica nonché la validità di clausole penali o di altri patti che vincolino direttamente o
indirettamente al matrimonio. La promessa non ha alcuna vincolatività sul piano giuridico.
L’inadempimento è rilevante soltanto quando sia “senza giustificato motivo” (art.81), in questo
caso è dovuto alla parte incolpevole un risarcimento limitato all’interesse contrattuale negativo,
cioè per le spese fatte le obbligazioni assunte in vista del matrimonio.
IL MATRIMONIO CIVILE
È quello celebrato dinanzi all’ufficiale dello stato civile. È interamente disciplinato, per quanto
concerne i presupposti, i requisiti di forma e di sostanza e gli effetti, dalle norme del codice civile.
Si contrappone al matrimonio concordatario e si aggiunge al matrimonio celebrato di fronte a un
ministro di culto acattolico.
Gli impedimenti matrimoniali sono proibizioni legali da cui risultano i requisiti positivi e negativi
richiesti per contrarre matrimonio. La mancanza o l’esistenza di uno di tali requisiti costituisce
impedimento matrimoniale. Si distinguono impedimenti assoluti e relativi, e dispensabili e non
dispensabili. Gli impedimenti assoluti escludono il soggetto dalla celebrazione del matrimonio
(età, interdizione, mancanza della libertà di stato, divieto temporaneo di nuove nozze). Gli
impedimenti relativi precludono il matrimonio con una determinata persona (parentela, affinità,
adozione, affiliazione, impedimento da delitto). Dispensabili sono gli impedimenti che possono
essere rimossi mediante autorizzazione del giudice (età, parentela, affinità, divieto temporaneo
di nuove nozze). Solo il divieto temporaneo di nozze se violato provoca l’irregolarità del
matrimonio mentre gli altri producono l’invalidità. Occorrono i seguenti requisiti:
a) ETA’ (art.84), la capacità matrimoniale si acquista con l’acquisizione della capacità di agire
(18 anni). L’art.84 prevede l’autorizzazione giudiziale per il minore che abbia compiuto 16 anni,
accertata la maturità psicofisica;
b) SANITA’ MENTALE (art.85), il soggetto non sia interdetto per infermità di mente. L’interdizione
provoca l’annullabilità del matrimonio, mentre al contrario la semplice incapacità naturale è
anch’essa causa di annullabilità ma non è impedimento per il matrimonio;
c) LIBERTA’ DI STATO (art.86), è vietato nel caso una o entrambe le parti siano già legate da
vincolo di precedente matrimonio.
Bisogna inoltre che non ci siano i seguenti impedimenti:
a) PARENTELA, AFFINITA’, ADOZIONE, AFFILIAZIONE: sono impedimenti al matrimonio derivanti
da consanguineità (art.87). Questo divieto agisce se esiste vincolo di parentela in linea retta
all’infinito, in linea collaterali fino al 2° grado per l’affinità e fino al 3° per la parentela;
b) DELITTO: sorge l’impedimento da delitto in seguito alla condanna di uno dei nubendi per
l’omicidio o il tentato omicidio del coniuge dell’altro (art.88). Tale inadempimento è inderogabile
e di ordine pubblico;
c) DIVIETO TEMPORANEO DI NUOVE NOZZE: vieta alla donna di contrarre nuove nozze prima
del termine di 300 giorni successivi all’estinzione del vincolo di precedente matrimonio (art.89).
La ratio è quella di assicurare la filiazione legittima.
Il rispetto dei 300 giorni è condizione di regolarità del matrimonio e la sua violazione comporta
una semplice multa. Il divieto non sussiste se il divorzio è pronunciato per separazione dei coniugi
(per almeno 3 anni), ovvero sia sciolto o annullato per inconsumazione o per impotenza del
marito.
LE OPPOSIZIONI
Competente a celebrare il matrimonio è l’ufficiale di stato civile del comune (art.107) in cui siano
state richieste le pubblicazioni. Si può anche celebrare dinanzi all’ufficiale di stato civile di
comune diverso e in tale ipotesi l’ufficiale di stato civile del comune originario richiede per iscritto
l’ufficiale del luogo dove il matrimonio si deve celebrare motivando la richiesta. Nel caso uno
degli sposi è impossibilitato ad accedere alla casa comunale, l’ufficiale deve dirigersi nel luogo
ove si trova l’interessato. Il matrimonio è valido in presenza di almeno 4 testimoni, in mancanza
il matrimonio è irregolare e vengono sanzionate ammende. Bisogna che si celebri in luogo
pubblico. Un’eccezione al principio consensualistico è dato dal matrimonio per procura (art.111)
utilizzato soprattutto per militari o persone al seguito delle forze armare in tempo di guerra e
coloro che risiedono all’estero. L’ufficiale legge gli articoli 143,144 e 147, la mancanza giudica
irregolare il matrimonio. Infine i coniugi stabiliscono il regime patrimoniale, secondo legge è la
divisione dei beni. L’atto di matrimonio va iscritto nei registri di matrimonio del comune in cui è
avvenuta la celebrazione e trascritto nei registri del comune di residenza degli sposi.
Il sistema delle invalidità matrimoniali comprende le ipotesi in cui per un vizio concernente il
momento costitutivo del vincolo coniugale, il matrimonio può essere impugnato. L’invalidità va
distinta dallo scioglimento per causa di divorzio. Il divorzio concerne la mancanza di funzionalità
del rapporto matrimoniale, sia pur validamente costituito, e i suoi effetti sono prodotti ex nunc
dalla sentenza. Il matrimonio è nullo quando sono legittimati all’azione tutti coloro che vi hanno
interesse e l’azione è imprescrittibile. Il matrimonio è annullabile quando si rende impugnabili il
matrimonio per vizi meno gravi concernenti elementi essenziali, applicando il termine di
prescrizione di 10 anni.
LE NULLITA’
suscettibile alla rimozione con autorizzazione, o impedimentum criminis tra gli sposi. L’azione
può essere esercitata dai coniugi, dagli ascendenti prossimi, dal pm e da tutti coloro che vantino
interesse legittimo. È nullo il matrimonio contratto dopo la dichiarazione di morte presunta del
coniuge di uno degli sposi, in caso di assenza scatta il favor matrimonii. Altra ipotesi si ha nel
caso i due sposi siano dello stesso sesso e in questo caso si ha addirittura inesistenza del
matrimonio.
LE IPOTESI DI ANNULLABILITA’
IL MATRIMONIO PUTATIVO
imporgli il versamento di una congrua indennità che non può essere inferiore ad una somma
corrispondente al mantenimento per 3 anni, in aggiunta al diritto del coniuge in buona fede di
percepire gli alimenti.
Il nuovo concordato affida alla giurisdizione ecclesiastica la potestà di giudicare la nullità del
matrimonio concordatario e sancisce che le relative sentenze ecclesiastiche siano dichiarate
inefficaci nello Stato. Per il vecchio concordato la giurisdizione ecclesiastica in tema di invalidità
del matrimonio concordatario era esclusiva. Nel nuovo sistema l’opinione prevalente ritiene
abrogata la riserva di giurisdizione in favore dei tribunali ecclesiastici. Competenti a giudicare
della nullità del matrimonio concordatario sarebbero i tribunali civili, creando così problemi tra
giurisdizione civile ed ecclesiastica.
Il matrimonio religioso acquista effetti civili mediante un collegamento tra celebrazione canonica
ed ordinamento statuale. Il matrimonio concordatario deve essere preceduto dalle pubblicazioni
affisse alle porte della chiesa parrocchiale e da quelle affisse alla casa comunale. Trascorso il
periodo senza che vi siano state opposizioni, l’ufficiale di stato civile rilascia nulla osta alla
celebrazione del matrimonio. La celebrazione avviene secondo il rito cattolico e il parroco ha
l’obbligo di dar lettura degli art.143,144,147 sui diritti e doveri dei coniugi, una mancanza non
comporta invalidità. Al termine il celebrante compila l’atto di matrimonio in doppio originale. Il
matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico produce gli effetti del matrimonio
civile dal giorno della celebrazione se trascritto. Il parroco trasmette uno dei due originali
all’ufficiale di stato civile del comune, immediatamente o entro 5 giorni dalla celebrazione, questi
entro 24 ore dalla ricezione deve provvedere alla trascrizione. Oltre alla trascrizione tempestiva,
abbiamo la trascrizione tempestiva ritardata, dovuta alla presenza di possibilità di errori e quindi
l’ufficiale di stato prende tempo per poter svolgere le dovute indagini, e la trascrizione tardiva,
che per metto a uno dei due contraenti di poter effettuare la trascrizione con il consenso dell’altro
in un secondo momento, conservando però nel periodo che va dal momento della celebrazione
al momento della trascrizione, lo stato libero ininterrottamente.
I rapporti interni della famiglia si configurano come “equilibrio delle libertà” o meglio dei diritti
fondamentali, in funzione di una loro espansione sia pure nel segno del rispetto e della solidarietà
poiché il singolo, calato nel contesto sociale e della famiglia, è necessariamente legato agli altri
dai “doveri di solidarietà politica, economica e sociale” e dunque familiare. La legge 19 maggio
1975 n°151, di riforma del diritto di famiglia si è posta il dichiarato intento di adeguare la
previgente disciplina alle norme costituzionali. Abbiamo quindi la rivalutazione del modello
associativo nell’assetto dei rapporti coniugali e familiari, con l’affermazione della posizione
paritaria, sul piano morale, sociale e giuridico di tutti i membri della famiglia; il principio
solidaristico di collaborazione di tutti i componenti della famiglia e nell’interesse della famiglia;
una più accentuata strumentalizzazione dei rapporti patrimoniali alla realizzazione di quelli
personali; la parificazione della filiazione naturale e quella legittima.
I SINGOLI DOVERI
D) DOVERE DI COABITAZIONE: può essere intesa sia come convivenza materiale, sessuale
e morale, sia come ristretto di comunanza fisica nel luogo in cui si svolge la vita coniugale;
La parità dei coniugi si manifesta con pienezza nel principio della necessità dell’accordo nel
governo della famiglia per decisioni riguardanti gli stessi coniugi o di quelle concernenti i figli
soggetti alla potestà dei genitori. È l’unica regola che può garantire una partecipazione a pari
titolo nella conduzione di vita familiare ed è l’unica compatibile con i principi di eguaglianza e
pari dignità.
I coniugi devono fissare di comune accordo la residenza familiare (art.144). Con il termine
residenza si fa riferimento al luogo o ai luoghi dove si svolge la vita in comune della famiglia,
per assicurare, soprattutto in presenza di figli, un’armoniosa vita familiare. Nell’art.145 si regola
l’intervento del giudice nel caso in cui i coniugi non riescano a concordare una decisione comune
su uno degli affari essenziali della famiglia. Il giudice svolge un’attività conciliativa, se soltanto
uno dei coniugi chiede il suo intervento tentando di aiutare gli stessi coniugi a individuare una
soluzione concordata. Se ciò risulta impossibile, il giudice può sostituire la sua volontà a quella
dei coniugi. La norma non collega sanzioni immediate alla violazione da parte dei coniugi della
decisione del giudice se richieste da entrambi.
L’art.146 sospende il diritto all’assistenza morale e materiali nei confronti del coniuge che si
allontana senza giusta causa dalla residenza familiare e rifiuta tornarvi. Il giudice può disporre il
sequestro dei beni del coniuge in questione nella misura idonea a garantire gli obblighi di
contribuzione. La norma enumera come ipotesi di giusta causa di allontanamento, la proposizione
della domanda di separazione o di annullamento o di scioglimento del matrimonio.
COGNOME E CITTADINANZA
La patria potestà è stata sostituita con la potestà di entrambi i genitori. Ciò è dovuto all’eguale
responsabilità dei genitori nei riguardi della prole per il fatto della procreazione. Questo principio
si affianca al principio dell’eguale responsabilità dei coniugi nelle funzioni di governo della
famiglia. Rilevante significato assume il richiamo alle capacità, inclinazioni naturale e alle
aspirazioni dei figli che devono guidare i genitori nell’adempimento dei fondamentali doveri di
istruire ed educare la prole. Anche il figlio è chiamato a contribuire in relazione alle proprie
sostanze e capacità. L’obbligo al mantenimento non cessa con la maggiore età ma solo nel
momento in cui il destinatario abbia acquistato un’indipendenza patrimoniale che gli consenta di
distaccarsi dall’originario nucleo familiare.
Nel nostro ordinamento l’unità della famiglia riceve tutela soltanto se assicuri all’individuo nel
gruppo familiare l’armonico sviluppo della personalità e la garanzia dei diritti di libertà e di dignità
umana. Se viene a mancare, cade l’interesse della collettività al mantenimento della sua
coesione. Divorzio e separazione personale dei coniugi appaiono come gli estremi mezzi di tutela.
La separazione di fatto è quella prodottasi “in fatto” tra i coniugi attraverso la cessazione della
convivenza, senza alcuna formalizzazione del giudice. È priva di effetti giuridici ma rileva per il
diritto e a più fini, come ad esempio a proposito del divorzio. La separazione legale segue ad un
procedimento giudiziale. Si fonda sulla circostanza che si siano verificati fatti tali da rendere
intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della
prole. La separazione legale può essere tanto giudiziale (pronunciata dal giudice), quanto
consensuale (concordata dai coniugi). In entrambi i casi, i coniugi si presentano dal presidente
del tribunale per tentare la conciliazione e nel fallimento regolare i rapporti personali e
patrimoniali.
Nella separazione giudiziale, il regolamento degli effetti viene determinato dal giudice. In sede
di separazione consensuale, i coniugi presentano un regolamento concordato dei futuri rapporti
tra i coniugi e con la prole affinchè venga omologato dal tribunale. Sono disponibili dai coniugi
tutte le situazioni giuridiche soggettive di cui essi siano esclusivi titolari (soprattutto il
mantenimento). Il giudice pretende modifiche nell’interesse della prole nonché della valutazione
di legittimità, liceità, ma anche meritevolezza della tutela dell’accordo. Vige il principio della non
ingerenza del giudice per quanto concerne le cause della crisi coniugale.
L’art.151 afferma che la separazione può essere chiesta da entrambi i coniugi o da uno soltanto,
adducendo l’esistenza di una causa che rende intollerabile la prosecuzione della convivenza o
reca grave pregiudizio all’educazione della prole. Talune visioni riconducono la normativa
riformata negli schemi della separazione colpevole poiché il giudice, pronunziando la
separazione, dichiara a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione. Ma ciò viene smentito
dal richiamo alla mancanza di qualsiasi influenza dell’accertamento dell’addebito sul diritto di
chiedere e di ottenere la separazione giudiziale. La disciplina della separazione personale non
può essere letta in chiave sanzionatoria.
Con la separazione personale si estinguono gli obblighi sia di natura personale che di natura
patrimoniale incompatibili con lo stato di separazione. Cessa l’obbligo di coabitazione e non opera
la presunzione di concepimento in costanza di matrimonio durante la separazione. Per il resto si
parla di trasformazioni. Il dovere di fedeltà si trasforma in un generico dovere di rispettare
l’onore, il decoro e la dignità dell’altro coniuge; il dovere di contribuzione viene sostituito
dall’obbligo di mantenimento; per quanto riguarda i figli, il dovere di contribuzione rimane
invariato ma cambiano le modalità; i coniugi poi hanno piena autonomia per le decisioni relative
alla propria sfera giuridica; la solidarietà sopravvive attraverso la funzione dell’obbligo di
mantenimento. Al coniuge colpevole non spetta il diritto al mantenimento, mentre rimane se
versa in stato di bisogno l’obbligazione alimentare. Il coniuge separato con addebito perde i suoi
diritti successori e conserva a carico della successione un mero legato ex lege per la
somministrazione di una rendita alimentare qualora ne godesse. Le conseguenze dell’addebito
sono esclusivamente di ordine patrimoniale.
e materno. Il compito di vigilare sul corretto svolgimento delle relazioni familiari nei riguardi
della prole compete al giudice. Questi deve verificare se sussistono le condizioni per disporre
l’affidamento condiviso. Egli deve accertare se effettivamente sia possibile che ciascuno dei
genitori continui ad occuparsi, in misura paritaria, dei figli e se questi possano, trascorrere il
proprio tempo tanto con l’uno quanto con l’altro dei genitori. Un ruolo decisivo può giocare la
circostanza che il padre e la madre non abitino troppo distanti tra di loro in modo da consentire
al figlio di avere presso ognuna delle due abitazioni un centro di interesse e di affetti. Il giudice
può ascoltare il minore che abbia compiuto i 12 anni ed anche quello di età inferiore qualora sia
dotato di capacità di discernimento. Il giudice può rinviare l’adozione dei provvedimenti relativi
all’affidamento dei figli. Il rinvio è finalizzato all’esperimento di un tentativo di mediazione
familiare: cioè mira a rinviare la separazione o favorire un accordo dei genitori relativamente alla
prole. I coniugi sono invitati a discutere le loro posizioni e a definire i criteri e le modalità per
l’affidamento dei figli e per il loro mantenimento. Allorquando non sia possibile, il giudice
stabilisce che i figli siano affidati ad uno solo dei genitori, fissando tempi e modalità della
presenza presso ciascun genitore.
I riflessi principali dell’affidamento condiviso si scorgono sul piano dell’esercizio della potestà.
Questa resta congiunta in capo ad entrambi i genitori. Sono in pari misura titolari del relativo
potere-dovere ed in maniera congiunta lo esercitano. L’esercizio congiunto riguarda sia gli atti di
ordinaria amministrazione che quelli di straordinaria amministrazione con una differenza molto
importante. Per quanto riguarda i primi, i genitori possono decidere separatamente mentre per
i secondi, bisogna avere il consenso di entrambi i genitori. In caso di disaccordo interviene il
giudice ed adotta i provvedimenti che ritiene opportuni. Tutte le decisioni devono essere adottate
avendo unicamente di mira l’interesse morale e materiale dei figli.
Il dovere dei genitori di mantenere ed educare la prole non viene meno per effetto della
separazione. Le parti possono sottoscrivere pattuizioni in merito, con le quali definire la misura
della contribuzione a carico di ciascuno. L’importante è che tali accordi rispondano all’interesse
dei figli e non riducano o penalizzano le loro prerogative. Sono soggetti al controllo da parte del
giudice, il quale valuta la decisione di ridistribuire gli oneri di mantenimento. Qualora i coniugi
nulla abbiano disposto, il codice civile indica la regola della proporzionalità quale misura della
contribuzione. Ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale
al proprio reddito. Ciascuno dei genitori deve provvedere alle esigenze di vita materiale e
spirituale della prole, durante la crisi della famiglia. Il giudice può anche fissare la corresponsione
di un assegno periodico al fine di attuare concretamente e pienamente la proporzionalità nella
contribuzione. L’assegno è determinato in considerazione di una serie di parametri. La sua misura
deve tenere conto delle attuali esigenze del figlio (palestra e altri hobby). Il secondo parametro
è rappresentato dal tenore di vita goduto dal figlio in costanza di matrimonio. L’assegno può
subire variazioni se varia uno dei parametri. Il giudice deve considerare i tempi di permanenza
del figlio presso ciascun genitore e assume importante in quelle ipotesi in cui non è possibile una
perfetta condivisione dell’affidamento. L’assegno va fissato tenendo conto delle disponibilità
economiche di entrambi i genitori ed è stabilito dal giudice solo se necessario. Il mantenimento
deve essere garantito dai genitori verso il figlio minore di età ma anche verso il maggiorenne
che per cause non imputabili alla sua volontà non disponga dei mezzi economici necessari per
provvedere a se stesso. Ai figli maggiorenni portatori di handicap vengono applicate le norme
riguardanti i figli minori di età.
Se non è possibile l’affidamento condiviso allora il giudice decide di affidare i figli minori ad uno
solo dei coniugi. Il giudice effettua i dovuti accertamenti e imbattendosi nell’impossibilità può
anche sentire il minore che abbia compiuto i 12 anni o minore di questa età che abbia acquisito
maturità di discernimento e decidere il rimedio migliore per tutelare l’interesse del minore. In
questo modo si estromette uno dei genitori dalla crescita del minore. I riflessi di questa scelta si
scorgono sull’esercizio della potestà. Questa rimane in capo ad entrambi però solo il genitore a
cui è affidato il minore può esercitarla. L’altro è tenuto a controllare e ad intervenire per decisioni
di maggiore interesse per la prole. In caso di affidamento condiviso il giudice può optare per
l’affidamento esclusivo qualora non sussistano più le condizioni pattuite. Il giudice può accertare
che il genitore che si è rivolto a lui ha agito in malafede o con dolo e in questo caso lo considera
responsabile e lo condanna al pagamento dei danni e delle spese di giudizio.
A seguito della separazione si pone la questione di definire a quale dei coniugi debba essere
assegnata la casa familiare. La casa familiare è caratterizzata da un’abitualità e stabilità della
dimora da parte della famiglia. Rappresenta un elemento di continuità delle abitudini domestiche
e un importante punto di riferimento per la prole minorenne. Il giudice deve valutare una serie
di elementi al fine di dar priorità all’interesse dei figli e non può prescindere dalle decisioni
assunte dai coniugi in sede di regolazione dei rapporti economici, dando rilievo a chi possa essere
più onerato sul piano economico. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno quando
il coniuge assegnatario non vi abiti più oppure cessi di abitarvi stabilmente o ancora conviva
more uxorio con un’altra persona o contragga nuovo matrimonio, così vengono meno le ragioni
che hanno giustificato l’iniziale assegnazione in suo favore. Può esserci anche la possibilità che
sia il coniuge non assegnatario a richiedere la modifica dell’assegnazione in sede di separazione.
Ciò avviene quando l’altro coniuge cambi residenza o domicilio.
L’Art.156 bis prevede il divieto per la moglie di usare il cognome del marito per evitare grave
pregiudizio di ordine morale, psicologico, o economico sia attivamente che passivamente
LA RICONCILIAZIONE
Capitolo 34 IL DIVORZIO
PROFILI GENERALI
La legge 1 dicembre 1970 n°898 ha introdotto nel nostro ordinamento lo scioglimento del
matrimonio per divorzio. Il divorzio si basa sull’accertamento che la “comunione spirituale e
materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita”. Il divorzio rappresenta il
“rimedio” al fallimento del matrimonio, allorchè non è più considerato come rapporto umano che
assicura l’armonico sviluppo della personalità e la garanzia dei diritti di libertà e di dignità umana.
anni ininterrotti, a far tempo dalla prima comparizione dei giudici dinanzi al presidente del
tribunale o dall’inizio della separazione di fatto.
Le altre cause di divorzio sono: la condanna per delitto; per incesto; per violenza carnale; per
atti di libidine violenti; per ratto a fine di libidine; per ratto di persona minore di 14 anni;
condanna per omicidio volontario di un figlio o per tentato omicidio del coniuge o di un figlio;
condanna all’ergastolo o a una pena superiore a 15 anni; per pronunzia all’estero di divorzio o
di annullamento del matrimonio; per non consumazione del matrimonio; per mutamento di sesso
di uno dei coniugi.
L’ASSEGNO DI DIVORZIO
A seguito del divorzio sorge l’obbligo per uno dei coniugi di corrispondere un assegno periodico
all’altro, quando quest’ultimo non abbia mezzi adeguati o non possa procurarseli per ragioni
oggettive. È consentito ai coniugi di presentare domanda congiunta di divorzio almeno per quelle
cause che attribuiscono ad entrambi la legittimazione all’azione, concordando così la
regolamentazione di rapporti personali e patrimoniali, oltre all’affidamento dei figli e al
mantenimento dei medesimi da sottoporre a valutazione del giudice. Come elementi di
assegnazione e di determinazione dell’assegno si fa riferimento alle condizioni economiche dei
coniugi, ai motivi della decisione e al contributo personale ed economico dato alla conduzione
familiare e personale ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Ulteriore effetto, in ambito
patrimoniale, è la perdita dei diritti successori per i coniugi divorziati.
Il tribunale dispone a quale dei coniugi debbono essere affidati i figli minori, sancendo a carico
dell’altro l’obbligo di contribuire al mantenimento. L’accordo tra i genitori va tenuto in conto
soltanto ed in quanto esso sia compatibile con l’interesse del minore ed idoneo ad assicurare il
soddisfacimento delle sue esigenze.
Capitolo 35 LA FILIAZIONE
PROFILI GENERALI
Il fatto naturale della procreazione origina tra i genitori da un lato e il figlio generato dall’altro
un rapporto tra situazioni soggettive complesse che si definisce rapporto di filiazione. Si distingue
la filiazione legittima dalla filiazione naturale a seconda che i figli siano o meno nati in costanza
di matrimonio. I figli concepiti al di fuori del matrimonio (figli naturali) possono essere
riconosciuti o non riconosciuti. Il riconoscimento avviene o per atto volontario di uno o di
entrambi i genitori o per dichiarazione giudiziale di paternità e maternità. Tra i figli naturali non
riconosciuti bisogna distinguere quelli riconoscibili e quelli irriconoscibili. Questi ultimi sono nati
da genitori legati da rapporti di parentela (filiazione incestuosa). Il rapporto di filiazione può
essere originato da un legame che si definisce “civile” come nel caso della filiazione adottiva.
Abbiamo quindi lo status di figlio legittimo, di figlio adottivo, di figlio naturale riconosciuto, di
figlio naturale non riconosciuto ma riconoscibile e infine di figlio naturale irriconoscibile. Tutte
queste tipologie di status però di fronte alla legge hanno pari dignità e diritti. I figli acquistano
con la nascita il diritto al mantenimento, istruzione ed educazione.
LA FILIAZIONE LEGITTIMA
I presupposti per lo status di figlio legittimo sono: il matrimonio dei genitori, il parto della moglie
e il concepimento in costanza di matrimonio ad opera del marito. I primi due requisiti sono
facilmente accertabili, mentre il terzo è nascosto “dai veli della natura”. Per ritenere che il figlio
sia stato concepito dal legittimo marito della donna che lo ha partorito, la legge ricorre a due
presunzioni (art.231 e 232) cioè la presunzione di paternità e quella di concepimento in costanza
di matrimonio. Per la prima si considera padre del figlio concepito durante il matrimonio il marito
della donna da cui nasce il figlio. Per la seconda invece, si ritiene concepito nel matrimonio il
figlio che sia nato nel termine prescritto di 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio e non
oltre 300 giorni dallo scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili dello stesso. Tale
presunzione non opera quando siano decorsi 300 giorni dalla pronunzia o omologazione della
separazione. La presunzione di concepito durante il matrimonio è assoluta quando opera in
favore della legittimità. Il figlio nato nel periodo precisato si presume concepito in costanza di
matrimonio mentre quello nato al di fuori è considerato automaticamente illegittimo. Se il figlio
nasce prima che siano decorsi 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio il figlio è reputato
legittimo se uno dei due coniugi o il figlio stesso non ne disconoscono la paternità. È esclusa la
legittimità del figlio soltanto nel caso in cui questo sia nato dopo che siano trascorsi 300 giorni
dalla cessazione del matrimonio. È sempre consentito ai coniugi o ai loro eredi di provare che il
figlio è stato concepito durante il matrimonio o la convivenza.
La filiazione legittima può essere provata o per mezzo dell’atto di nascita o mediante il possesso
di stato. Quando manca il primo viene preso in considerazione il secondo, se manchino entrambi
allora sono ammissibili altri mezzi di prova esercitando l’azione di reclamo di stato. Gli elementi
necessari del possesso di stato sono: il nomen, cioè il soggetto abbia portato il cognome del
padre che egli pretende di avere; il tractatus, cioè il soggetto sia stato sempre trattato come
figlio e il presunto padre abbia sempre adempiuto agli obblighi; la fama, cioè il soggetto viene
considerato come figlio dalla realtà sociale.
Con “azioni di stato di figlio legittimo” sono indicate le azioni dirette ad ottenere il riconoscimento
o il disconoscimento dello status di figlio legittimo. L’azione di disconoscimento della paternità
(art.235) mira a far cadere la presunzione di paternità del marito. Per promuovere questa azione
bisogna accertare l’esistenza di determinate condizioni: la mancata convivenza tra i coniugi nel
periodo compreso tra il 300° e il 180° giorno prima della nascita; l’impotentia coeundi quanto
quella generandi, riferita al periodo di concepimento; l’adulterio commesso dalla moglie; o la
possibilità che la moglie abbia celato al marito la propria gravidanza o nascita del figlio. La prova
principe è quella ematologica che consente di dimostrare se il figlio presenti caratteristiche
genetiche o di gruppo sanguigno compatibile con quelle del presunto padre. È esclusa la
confessione come mezzo di prova. Se l’azione viene accolta, il figlio perde lo status di figlio
legittimo retroattivamente e con effetti erga omnes ed acquista lo status di figlio naturale
riconosciuto della madre e ne assume il cognome. Il presunto padre può proporre l’azione entro
1 anno dal giorno della nascita del figlio, o dal giorno del suo ritorno, o dal giorno in cui ha avuto
notizia della nascita, o dal giorno in cui è venuto a conoscenza dell’adulterio commesso dalla
moglie. Per il figlio minore invece il termine dell’azione è fissato in 1 anno a decorrere dal
compimento della maggiore età o dal momento in cui sia venuto a conoscenza dei fatti. La madre
può proporre l’azione entro 6 mesi dalla nascita del figlio. Se il titolare dell’azione di
disconoscimento muore senza averla promossa ma ancora in tempo, l’azione si trasmette ad
ascendenti e discendenti. L’impugnativa della paternità è l’azione diretta a disconoscere la
paternità legittima nel caso in cui il figlio sia nato prima dei 180 giorni dalla celebrazione del
matrimonio. Può essere promossa da padre, madre e figlio stesso.
Il figlio che si ritenga legittimo, ma che non possa provare il corrispondente status tramite atto
di nascita o continuo possesso di stato, può esercitare l’azione di reclamo della legittimità. Tale
azione è preclusa se l’attore risulta figlio legittimo di altre persone. L’azione di reclamo della
legittimità è esercitata dal figlio nei confronti dei pretesi genitori o, in caso di morte, dei loro
eredi. È imprescrittibile riguardo al figlio, se è morto in minore età o nei 5 anni successivi alla
maggiore età, può essere esercitata dai suoi discendenti secondo il termine di prescrizione
ordinario. Il figlio può provare il tutto attraverso l’esistenza del matrimonio e la maternità, in
quanto per la paternità e il concepimento in costanza di matrimonio opereranno le due
presunzioni.
LA FILIAZIONE NATURALE
I figli naturali sono quelli nati da genitori non sposati tra loro. La maggiore differenza concerne
i rapporti di parentela, che il riconoscimento instaura soltanto tra figlio riconosciuto e genitore il
quale ha proceduto al riconoscimento.
Il riconoscimento produce effetti soltanto nei confronti del genitore che l’abbia effettuato
(art.258), il quale assume tutti i doveri e i diritti che ha nei confronti dei figli legittimi. Se il
riconoscimento è effettuato da un solo genitore, la potestà sul figlio spetta esclusivamente a
costui. Se il figlio sia stato riconosciuto da entrambi i genitori, la potestà spetta congiuntamente
ad entrambi se essi convivono; se i genitori non convivono, l’esercizio della potestà spetta al
genitore con il quale convive il figlio; se quest’ultimo non convive con nessuno dei due, la potestà
spetta al genitore che l’ha riconosciuto per primo. L’eliminazione del divieto di riconoscimento
del figlio adulterino comporta che il figlio possa essere riconosciuto come tale da persona già
sposata e la decisione spetta al giudice. Questi decide sull’inserimento nella famiglia legittima di
uno dei genitori, sempre che abbia acconsentito l’altro genitore naturale e i componenti della
famiglia legittima.
I figli naturali riconosciuti godono degli stessi diritti morale e materiali dei figli legittimi. I figli
naturali hanno diritto alla medesima quota ereditaria dei figli legittimi. Ai figli legittimi è
riconosciuta la facoltà di soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante
ai figli naturali, che possono opporsi, rimettendo tale scelta al giudice. Relativamente al rapporto
tra fratelli si differenzia la posizione tra fratelli germani ed unilaterali nel caso in cui un soggetto
muoia senza lasciare prole, né genitori, né ascendenti. Al figlio naturale non si estendono i
rapporti di parentela con i componenti della famiglia del genitore. A suggellare l’appartenenza
del figlio al gruppo familiare del genitore che abbia effettuato il riconoscimento è l’assunzione
del nome. Se ciò non avviene il figlio naturale continua ad avere il cognome della madre. Se
viene riconosciuto dopo la maggiore età, il figlio può volontariamente assumere il cognome
paterno aggiungendolo o sostituendolo. Nel caso di minore invece spetta al giudice decidere
tenendo i considerazione l’interesse del minore e del suo diritto all’identità personale.
Il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dell’autore del riconoscimento,
da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse. Tale azione è imprescrittibile
ed esperibile anche dopo la legittimazione. Il difetto di veridicità consiste in una situazione
obiettiva di divergenza tra la realtà dei fatti e le risultanze dell’atto di nascita sul responsabile
del concepimento. Il riconoscimento può essere impugnato per violenza da parte dell’autore del
riconoscimento, entro 1 anno dal giorno in cui la violenza è cessata o se minore, dal giorno del
conseguimento della maggiore età. Abbiamo poi l’interdizione giudiziale dell’autore del
riconoscimento, secondo cui il riconoscimento può essere impugnato dal tutore o dal soggetto
stesso (in caso di revoca dell’interdizione) entro 1 anno. La legittimazione attiva all’azione di
impugnazione per violenza e per interdizione giudiziale può essere esercitata anche dai
discendenti, dagli ascendenti o dagli eredi dell’autore del riconoscimento.
L’istituto della legittimazione consente al figlio nato fuori dal matrimonio di acquisire lo status di
figlio legittimo (art.280), purchè si tratti di figli naturali riconoscibili. Esistono due forme di
legittimazione: per susseguente matrimonio e per provvedimento del giudice. La legittimazione
per susseguente matrimonio produce effetti con due condizioni: il riconoscimento e il
matrimonio. La legittimazione per provvedimento del giudice può essere richiesta nel caso non
si possano raggiungere le due precedenti condizioni o per impossibilità (morte o presunta morte
di un coniuge, scomparsa, assenza, interdizione) o per gravissimo ostacolo (impedimenti di
ordine morale, malattie ripugnanti, impotenza). La mancanza di stato libero per precedente
matrimonio rientra tra i casi di gravissimo ostacolo poiché si può divorziare.
LA PROCREAZIONE ASSISTITA
eterologa dona il seme non può essere considerato padre. Per la maternità invece, viene
considerata madre colei che partorisce, anche nel caso di maternità surrogata (o in affitto) e
mère porteuse (donna che abbia accettato di portare a termine la gravidanza per conto altrui).
Nel caso di procreazione di tipo eterologo, il coniuge o il convivente che abbia acconsentito alla
realizzazione delle stesse “non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità”. Il
donatore non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale. Per quel che riguarda la posizione
giuridica dell’embrione, è vietata la sperimentazione e la ricerca clinica, la selezione a scopo
eugenetico, la clonazione, la produzione di più embrioni di quelli strettamente necessari ad un
unico e contemporaneo impianto e comunque in un numero maggiore di tre, la crioconservazione
e la soppressione. Per quanto riguarda il divieto di fecondazione eterologa, tale tecnica è
consentita in altri paesi Europei (Spagna) e ciò genera il turismo procreativo; per quanto riguarda
la questione relativa agli embrioni, si preclude agli aspiranti genitori di conoscere l’eventuale
esistenza di patologie e malformazioni genetiche a carico dell’embrione; per quanto riguarda la
situazione delle coppie con soggetti portatori di malattie genetiche, è stata estesa la possibilità
di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita anche alla coppia in cui uno dei coniugi è
affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili come l’HIV.
Capitolo 36 LE ADOZIONI
PROFILI GENERALI
L’affidamento familiare consiste nella ricezione da parte del minore di cura ed assistenza
dall’esterno temporaneamente senza perdere i contatti con la famiglia d’origine e nella
prospettiva di un suo reinserimento in quest’ultima. L’adozione invece mira ad assegnare
definitivamente al minore un nuovo nucleo familiare nei casi in cui la sua famiglia d’origine lo
abbia abbandonato, o non si sia dimostrata idonea ad ottemperare al compito educativo cui essa
è deputata.
L’adozione dei minori in stato di abbandono crea un vincolo di filiazione parificata pressoché
interamente a quella fondata sul fatto naturale del legame di procreazione tra genitori e figli. È
necessario che gli adottanti siano uniti in matrimonio da almeno 3 anni (anche conviventi); che
tra essi non sussista separazione neppure di fatto; che si tratti di soggetti idonei ad educare ed
istruire in grado di mantenere i minori che intendono adottare; che la loro età superi di almeno
18 anni e non più di 45 anni quella dell’adottando. Il consenso del minore ha effetto vincolante
qualora abbia compiuto i 14 anni sia per l’adozione sia per l’affidamento familiare. Il giudice deve
sentire il minore che abbia compiuto 12 anni e colui inferiore di 12 anni che abbia capacità di
discernimento. Ulteriore presupposto inderogabile è l’accertamento dello stato di adottabilità del
minore in situazione di abbandono. La nozione di stato abbandono consiste nella privazione
dell’assistenza materiale e morale da parte dei genitori di sangue, tale da far risultare il minore
“privo” di una propria famiglia. Lo stato di adottabilità può cessare per la sopravvenuta adozione,
per il raggiungimento della maggiore età, per la revoca da parte del giudice, ammessa in 2
condizione: venir meno dello stato di abbandono o se si accerta la lesione dell’interesse del
minore. Alla dichiarazione dello stato di adottabilità segue la scelta della coppia che in concreto
si mostri più idonea a corrispondere alle esigenze di allevamento e di cura di un determinato
minore dichiarato in stato di adottabilità. È previsto un periodo di affidamento preadottivo del
minore della durata di 1 anno, prorogabile per 1 altro anno. Se non sorgono difficoltà, il tribunale
pronunzia l’adozione e il provvedimento instaura un rapporto di filiazione legittima tra adottanti
e l’adottato ed estingue il rapporto con la famiglia di origine.
Esistono adozioni “in casi particolari”, non legittimanti, cioè che non fanno acquisire lo stato di
figlio legittimo né recidono i legami con la famiglia di origine. 1) quando il minore orfano di
madre e di padre può essere adottato da persone a lui legate da un vincolo fino al 6° o da
persone con cui ha un rapporto stabile e duraturo; 2) il figlio legittimo, legittimato o naturale di
uno dei coniugi possa essere adottato con adozione non legittimante dall’altro; 3) il minore
handicappato che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o
progressiva che sia orfano di madre e di padre; 4) constata impossibilità di affidamento
preadottivo, si ricorre quando l’adozione legittimante si prospetti difficile (minore affetto da grave
malattia o handicap).
L’ADOZIONE INTERNAZIONALE
L’adozione legittimante assume particolari cautele allorchè una delle parti coinvolte sia cittadino
straniero o residente all’estero, si tratta di adozione internazionale. Le persone residenti in Italia
che vogliono adottare un minore straniero residente all’estero presentano dichiarazione di
responsabilità al tribunale per i minori, questi dichiara loro l’idoneità all’adozione e se sono
presenti i requisiti gli aspiranti possono conferire incarico a curare la procedura di adozione ad
un ente che avrà il compito di svolgere le pratiche per l’adozione con le autorità del paese estero.
Se l’adozione deve perfezionarsi in Italia, il tribunale dei minori riconosce l’autorizzazione
straniero come un affidamento preadottivo, decorso il periodo di affidamento si pronunzia
l’adozione e il minore acquisterà la cittadinanza.
L’adozione del maggiore di età ha come obiettivo la trasmissione del nome e del patrimonio
familiare ad un soggetto privo di discendenza diretta. Il tribunale accerta se conviene l’accordo
all’adottando e pronunzia il provvedimento. L’adottando deve aver compiuto 18 anni e non essere
figlio adottivo di altra persona. È vietato adottare il proprio figlio naturale. L’adozione dei
maggiori di età costituisce un legame di filiazione “civile”. Si ha quindi rapporto tra adottante e
adottato e non interrompe i legami con la famiglia di origine. Il figlio adottato acquista diritti
successori ma è escluso il contrario.
La potestà dei genitori consiste nel potere-dovere, spettante ai genitori, di proteggere, educare,
istruire i figli minorenni, e di curarne gli interessi patrimoniali. Si basa su due momenti
qualificanti ovvero il rispetto della parità dei genitori e la considerazione preminente
dell’interesse del figlio minore.
L’art.330 sanziona la violazione e la trascuratezza dei doveri di genitore, con pregiudizio per il
figlio, comminando la decadenza dalla potestà e, nei casi più gravi, l’allontanamento del figlio o
del genitore dalla residenza familiare. L’art.333 disciplina la condotta del genitore pregiudizievole
ai figli. Non è necessario un comportamento colpevole dei genitori perché si possano applicare i
provvedimenti ma è sufficiente l’esistenza di situazioni di pregiudizio al minore.
La potestà dei genitori sul figlio minore può cessare al raggiungimento della maggiore età, in
virtù dell’emancipazione del minore o per altre cause (decadenza, incapacità ecc.). Essa è
affidata ad entrambi i genitori, i quali devono esercitarla di comune accordo. In ipotesi di conflitto
che riguardi questioni di straordinaria amministrazione, è ammesso il ricorso al giudice. In una
prima fase, il giudice assume la figura di “suggeritore”, indicando quale soluzione ritiene più
idonea a tutelare l’interesse del figlio e l’unità familiare. La seconda fase se necessaria, si
conclude con un provvedimento giurisdizionale, il giudice attribuisce con esclusivo riferimento
alla questione prospettata, l’esercizio della potestà a quello dei genitori che ritiene più idoneo a
curare l’interesse del figlio. Nel caso di lontananza o altro impedimento, l’esercizio della potestà
passa all’altro genitore.
Il dovere-potere di custodia è collegato al generico dovere di assistenza che incombe sui genitori
e fonda il dovere del figlio minore di non allontanarsi senza consenso dalla casa familiare.
La piena parità dei genitore, in ordine alla potestà sui minori, si estende alla gestione degli
interessi, l’amministrazione del patrimonio dei minori e la rappresentanza in tutti gli atti civili
che essi non possono compiere da soli. I genitori possono compiere congiuntamente gli atti
eccedenti l’ordinaria amministrazione mentre disgiuntamente quelli di ordinaria
amministrazione. In caso di conflitto di interessi tra genitori e figlio verrà nominato un curatore
speciale che assicuri la garanzia degli interessi dei minori coinvolti. Nel caso è solo un genitore
in conflitto di interessi con il figlio allora la potestà si trasferisce in capo all’altro genitore.
L’usufrutto legale dei genitori sui beni del figlio è espressione del principio di solidarietà familiare,
in quanto il figlio contribuisce in proporzione alle proprie sostanze e al proprio reddito. L’usufrutto
legale è indisponibile ed è vietata l’alienazione, il pegno e l’ipoteca. E inoltre viene sottratto
dall’esecuzione dei creditori. L’esecuzione è possibile sui frutti dei beni del minori e soltanto se i
debiti siano stati contratti per soddisfare i bisogni della famiglia. Sono esclusi dall’usufrutto legale
alcune categorie di beni: beni acquistati dal figlio con i proventi del lavoro; beni lasciati o donati
al minore per intraprendere una carriera, arte o professione; beni lasciati o donati alla condizione
che i genitori non ne avessero l’usufrutto; beni pervenuti al figlio per eredità, legato o donazione
e accettati contro la volontà di uno o entrambi i genitori. La cattiva amministrazione del
patrimonio del minore può spingere il tribunale a prendere provvedimenti e rimuovere uno dei
genitori o entrambi dal ruolo di amministratori (in questo caso viene nominato curatore speciale).
Per quanto riguarda il regime patrimoniale, il legislatore ha optato per una piena partecipazione
a pieno titolo di entrambi i coniugi per via del principio di pari dignità morale e giuridica e di
solidarietà familiare e coniugale. In questo modo è stato vietato il fenomeno della dote, ovvero
costituire un diritto di godimento in favore di un coniuge su beni appartenenti all’altro, poiché in
questo modo veniva messa in secondo piano la figura della donna. Il regime legale però può
essere cambiato dai coniugi ma non deve contrastare, a pena di nullità, con i principi
fondamentali ed irrinunciabili riguardanti il diritto familiare.
LE CONVENZIONI MATRIMONIALI
Non tutti i beni possono rientrare in regime di comunione, e possiamo quindi distinguere i beni
che sono immediatamente e ope legis inclusi nella comunione, i beni che devono
necessariamente appartenere al patrimonio di ciascun coniuge e i beni che si considerano della
comunione soltanto se sussistenti allo scioglimento della stessa (de residuo). Abbiamo per la
prima categoria i beni acquistati da ciascuno dei coniugi dopo il matrimonio. Per la seconda
categoria invece le aziende costituite dopo il matrimonio e gestite da entrambi i coniugi, se
questa però è fondata prima allora entrano nella comunione solo gli utili e gli incrementi. Infine
la terza categoria prevede i beni costituiti dai redditi dell’attività separata di ciascun coniuge e
dai frutti dei beni personali acquistati da ciascun coniuge durante il matrimonio. Questi
rimangono nella titolarità esclusiva di ciascun coniuge fino allo scioglimento della comunione per
questo si parla di comunione de residuo. Restano al di fuori della comunione i beni acquisiti da
ciascun coniuge prima del matrimonio o dopo lo scioglimento della comunione, i beni acquistati
dal coniuge in sostituzione di un bene personale e i beni ottenuti a titolo di risarcimento del
danno.
Il regime della responsabilità riguardante i beni comuni dei coniugi si fonda sulla distinzione tra
obbligazioni comuni e obbligazioni personali. Alle prime rispondono in via diretta i beni della
comunione e in via sussidiaria i coniugi con il loro patrimonio personale nella misura del 50%.
In questa categoria rientrano i debiti assunti per l’interesse della famiglia, anche se intraprese
da uno solo dei coniugi. Alla seconda categoria appartengono invece le obbligazioni intraprese
per scopi che non riguardano la famiglia e in questo caso ne risponde il coniuge in questione con
il suo patrimonio personale.
Oltre alle cause convenzionali (mutamento del regime) si hanno altre cause di scioglimento
come: assenza, morte presunta, annullamento del matrimonio, divorzio, separazione personale,
separazione giudiziale dei beni, fallimento di uno dei coniugi. Segue la fase della divisione del
patrimonio comune in cui si effettuano i rimborsi e le restituzioni. La comunione può essere
sciolta per separazione giudiziale dei beni qualora uno dei coniugi sia inabilitato o interdetto o
abbia mal amministrato o non contribuisca nella misura dovuta.
LA COMUNIONE CONVENZIONALE
La comunione convenzionale tra coniugi rappresenta una modifica attuata dai coniugi al regime
della comunione legale dei beni. Ci sono limiti inderogabili riguardo norme collegate al regime
patrimoniale primario della famiglia e ai principi di solidarietà, eguaglianza e proporzionalità della
contribuzione. Non si possono derogare l’eguaglianza delle quote e la posizione paritaria
nell’amministrazione dei beni comuni. È possibile sia escludere alcuni beni sia includerne atti.
È il regime per il quale ciascun coniuge conserva la titolarità dei beni acquistati durante il
matrimonio. Ciascun coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui è titolare
esclusivo.
IL FONDO PATRIMONIALE
L’IMPRESA FAMILIARE
Si intende quella nella quale prestano lavoro in maniera continuativa il coniuge, i parenti entro
il 3° e gli affini entro il 2°, dell’imprenditore. Il lavoro della donna è considerato uguale a quello
dell’uomo. I familiari hanno diritto al mantenimento, agli utili e agli incrementi, diritto di
partecipazione, poteri decisionali, gestione straordinaria, indirizzi produttivi e cessazione
dell’impresa. Hanno tutti ugual valore nella divisione degli utili ma non dividono le perdite.
Se si osserva qualcuno che coltiva un fondo altrui, costui può essere o un usufruttuario o un
enfiteuta o un affittuario. Da questa equivalenza sorge la necessità di indagare in che cosa le
situazioni reali si distinguono da quelle non reali ed in particolare dalle obbligazioni (affittuario).
La prima caratteristica delle situazioni reali è l’inerenza tra la situazione reale ed il bene che ne
è oggetto: il diritto reale grava praticamente sulla cosa, mentre l’obbligazione grava sulla
persona del debitore e non sul bene. Altra caratteristica è l’immediatezza: i diritti reali
consentono al titolare di trarre dal bene l’utilità che questo può dare, grazie alla sola attività del
soggetto stesso. Nelle obbligazioni invece il creditore per realizzare il proprio interesse, ha
bisogno della collaborazione del debitore. Per quanto riguarda la struttura nei diritti reali vi è
solo un dovere generico, incombente sulla generalità dei consociati, di rispettare la situazione;
nel diritto personale invece vi è la presenza di una specifica relazione tra le due situazioni
giuridiche contrapposte del creditore e del debitore. I diritti reali inoltre sono caratterizzati
dall’assolutezza: si fanno valere nei confronti di tutti i terzi, l’obbligazione invece si fa valere solo
nei confronti del debitore. Inoltre la tutela esterna si fonda sulla limitazione della tutela alle sole
fattispecie reali; il diritto di credito infatti non sarebbe dotato della medesima tutela qualora
venga pregiudicato da un terzo, estraneo al rapporto obbligatorio. Altra differenza è che i diritti
reali attribuiscono al titolare il diritto di sequela, il quale esprime il potere di perseguire la cosa
presso qualsiasi soggetto al quale si è aggiunta, e di opporre a lui il diritto reale. Il diritto di
godimento di natura obbligatoria invece è inopponibile al nuovo titolare del bene. Altra
caratteristica dei diritti reali è la tipicità, infatti i privati possono costituire un diritto reale soltanto
ricorrendo ad una delle poche figure tipicamente previste dalla legge. Nei rapporti obbligatori
vige la regola della tipicità.
Il termine bene assume diverso significato nel linguaggio comune. L’art.810 definisce i beni come
le cose che possono formare oggetto di diritti. Per l’ordinamento non vi è coincidenza fra bene e
cosa giacchè le cose possono essere qualificate come beni solo se suscettibili di formare oggetti
di diritto. Le cose per diventare beni devono avere utilità, idoneità al soddisfacimento di interessi
umani, autonomia, scarsità ecc.. L’art.810 presuppone che le cose che possono formare oggetto
di diritti sono quelle appropriabili, suscettibili cioè ad entrare a far parte del patrimonio privato.
Il codice oltre alla categoria dei beni materiali, prospetta altre utilità o valori come i servizi, o le
opere dell’ingegno. I beni vengono classificati in corporali (dotati di materialità corporea) ed
incorporali (privi di materialità ma percepibili con i sensi o con l’intelligenza). I beni si differenzia
poi in immobili, a loro volta in immobili per natura (suolo, alberi, case) e immobili per
determinazione di legge (mulini, bagni); e mobili, che comprendono tutti gli altri beni. Ci sono
molte distinzioni tra beni immobili e mobili. Infatti per i negozi che si riferiscono ai diritti reali
immobiliari si richiede l’atto scritto, a pena di invalidità, e la trascrizione in pubblici registri a fini
di notizia e opponibilità ai terzi. Ancora è differente la rispettiva concedibilità in garanzia, infatti
i beni immobili sono oggetti di ipoteca mentre i beni mobili sono oggetti di pegno. Sono poi beni
specifici le cose individuate mediante caratteri propri come ad esempio il cavallo Varenne; sono
beni generici quelle cose non individuate singolarmente come ad esempio un cavallo. Nella
compravendita la proprietà delle cose specifiche si acquista con il semplice consenso; mentre la
proprietà delle cose generiche si acquista solo con la specificazione o individuazione. Ed ancora,
nell’obbligazione consegnare una determinata quantità di cose generiche non può mai diventare
impossibile mentre per le cose specifiche può diventarlo. I beni fungibili sono le cose che si
pesano, si contano, si misurano e perciò possono essere sostituite con altre dello stesso genere.
I beni infungibili sono quelli che non possono essere indifferentemente sostituiti con altri. I beni
consumabili sono quelli che non possono essere utilizzati senza essere consumati; gli
inconsumabili sono quelli che si prestano ad un’utilizzazione continua, senza che restino distrutti
o alterati. I beni divisibili sono le cose che possono essere frazionate in modo omogeneo senza
che se ne alteri la destinazione economica; tutti gli altri sono gli indivisibili.
Vi sono beni come le cose semplici, i cui elementi sono talmente compenetrati fra loro che non
possono staccarsi senza alterare la fisionomia del tutto. Ma le cose possono presentarsi come
risultato dell’unione di più elementi, ovvero il rapporto con altre cose. Ad esempio chi acquista
una biblioteca, acquista i libri che la compongono. Occorre distinguere le cose composte dalle
cose connesse. Quelle composte sono quelle in cui più cose formano un nuovo bene (casa), si
ha connessione invece quando due o più cose vengono poste in una connessione particolare per
cui è possibile distinguere una cosa principale e una accessoria. Figure di connessione sono
l’incorporazione e la pertinenza. Si ha incorporazione quando una cosa mobile è naturalmente o
artificialmente compenetrata in un’altra immobile. Sono pertinenti le cose destinate in modo
durevole a servizio o ornamento ad altra cosa. La pertinenza si distingue dalla cosa accessoria
in quanto solo nella pertinenza è ravvisabile un vincolo durevole di destinazione. E infine il nesso
pertinenziale si distingue dall’universalità dei mobili, cosa principale e pertinenza possono essere
tanto mobili che immobili mentre le universalità possono essere solo beni mobili.
LE UNIVERSALITA’
Le universalità di cose sono quel complesso di cose che appartengono alla stessa persona ed
hanno una destinazione unitaria. Nell’universalità l’unione delle cose è soltanto ideale e si verifica
in funzione della comune destinazione delle varie cose. Le singole cose che compongono
l’universalità non perdono la loro autonomia. Alle universalità non si applica il principio secondo
cui il possesso di buona fede vale titolo per cui quando il possesso delle universalità di mobili si
fondi su un acquisto in buona fede e con titolo idoneo non si verifica acquisto istantaneo della
proprietà come per i mobili, bensì la relativa usucapione è decennale. Invece per i beni immobili
l’usucapione si attua in dieci solo se non vi sia titolo idoneo.
IL PATRIMONIO
Il patrimonio è l’insieme di tutti i diritti, obblighi e altre situazioni giuridiche soggettive, facenti
capo ad una persona e valutabili economicamente. È titolare di un patrimonio anche chi ha solo
debiti. È possibile anche che alcuni beni, pur continuando ad appartenere ad un soggetto
debbano essere considerati come distinti dal restante patrimonio, in virtù di una particolare
destinazione.
I FRUTTI
Per frutto si deve intendere ciò che proviene da un altro bene. Il frutto naturale proviene
direttamente da un altro bene e diventa autonomo con la separazione. Dai frutti naturali vanno
distinti i frutti civili, che provengono da altro bene come corrispettivo del godimento che altri ha
su quel bene (interesse, canone delle locazioni) e che a differenza dei frutti naturali non si
acquista in un dato momento, bensì giorno per giorno in ragione della durata del diritto.
L’art.832 del codice civile afferma che il proprietario “ha diritto di godere e disporre delle cose in
modo pieno ed esclusivo”. Si riprende così l’ideologia presente nel Code Napoleon, secondo il
quale il proprietario ha il diritto di sfruttare il bene nel modo più assoluto, purchè non ne faccia
un uso proibito dalla legge. La proprietà oltre ad essere il diritto reale per eccellenza, è il prototipo
del diritto soggettivo, definito come il potere, attribuito alla volontà del soggetto, e garantito
dall’ordinamento giuridico, di conseguire il soddisfacimento dei propri interessi. Il diritto
soggettivo è nato per esprimere un interesse individuale ed egoistico, non altruistico. L’art.832
inoltre aggiunge che il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed
esclusivo, “entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabili dall’ordinamento giuridico”.
L’inciso mette in luce l’aspetto di dovere connesso con l’esercizio della proprietà. L’art.42 della
Costituzione dichiara che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne
determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale
e di renderla accessibile a tutti”. Ciò conferisce al legislatore il potere di porre regole e limiti allo
scopo di assicurare la funzione sociale della proprietà e di renderla accessibile a tutti.
Il diritto di godere consiste nella facoltà del proprietario di utilizzare la cosa. Il diritto di disporre
della cosa si concreta nel potere del proprietario di compiere attività giuridica di carattere
negoziale sulla cosa. Il diritto di proprietà presenta precisi caratteri: 1) la pienezza (o
illimitatezza, o generalità) per cui la proprietà costituisce un diritto che consente al proprietario
ogni lecita utilizzazione del bene; 2) esclusività, nel senso che la proprietà concede il diritto di
escludere qualsiasi altro soggetto dal godimento del bene e che sulla stessa cosa non può
esistere più di un diritto di proprietà; 3) elasticità, che esprime la circostanza per la quale il
diritto di proprietà rimane potenzialmente integro, per quanto numerosi ed estesi siano i limiti
ai poteri del proprietario; 4) autonomia ed indipendenza, nel senso che il diritto di proprietà non
presuppone mai l’esistenza di un parallelo diritto altrui di portata maggiore; 5) imprescrittibilità,
che stabilisce appunto che la proprietà non si può perdere per “non uso” bensì soltanto per l’uso
altrui (usucapione); 6) perpetuità, cioè la mancanza di ogni preventiva determinazione di durata,
l’assenza di limiti temporali. Secondo la dottrina moderna però, ha perso spessore la teoria del
godere e del disporre come condizioni fondamentali poiché esistono situazioni soggettive di
proprietà in cui temporaneamente o definitivamente, in tutto o in parte, è esclusa la facoltà di
godimento o di disposizione, o entrambe. Questo problema porta alla conclusione
dell’affermazione della non esistenza di un contenuto minimo della proprietà. Lo stesso vale per
l’esclusività, visto che nell’ordinamento sono previste anche proprietà non esclusive, bensì
collettive o sdoppiate.
In senso orizzontale, la proprietà immobiliare si estende sino all’ambito dei propri confini. In
senso verticale, la proprietà teoricamente si estende all’infinito, ossia al sottosuolo ed allo spazio
sovrastante il suolo. Il proprietario non può opporsi all’attività di terzi che si svolga in profondità
o altezza tale ove manchi un interesse ad escluderla (es. scavo di una galleria).
I RAPPORTI DI VICINATO
A causa della contiguità dei fondi, ci possono essere conseguenze negative per l’immobile del
vicino, il cui diritto di godere e disporre non è meno ampio e meritevole di tutela. La legge
disciplina questa materia attraverso varie disposizioni: 1) riguardo le distanze, stabilisce che
quando il proprietario voglia realizzare costruzioni, piantagioni, scavi, muri, pozzi, cisterne, fossi,
tubi, forni, camini, magazzini, stalle ,depositi, impianti, canali ecc., la distanza da osservare è
tanto maggiore quanto più tali installazioni sono alte o invasive, perché nocive o pericolose. In
mancanza di disposizioni regolamentari, è stabilita la distanza minima di 3 metri. L’obiettivo è
quello di evitare la realizzazione di intercapedini troppo ridotte con pericolo per l’igiene edilizia.
Il proprietario danneggiato, se violata la norma regolamentare, può ottenere risarcimento e
rimozione dell’opera, mentre nel caso non venga viola nessuna norma, allora può ottenere solo
il risarcimento; 2) riguardo alla comunione forzosa del muro e sulla costruzione in aderenza,
stabilisce che il proprietario di un fondo contiguo al muro altrui, posto sul confine o a distanza
inferiore di 1 metro e mezzo può ottenere una sentenza costituiva per cui il muro diventa comune
e previo pagamento della metà del suolo e del muro, può appoggiare su di esso il suo edificio o
far combaciare le due opere murarie; 3) riguardo all’apertura di luci e vedute si ha una distinzione
tra di esse: le prime sono quelle che non consentono di affacciarsi e danno soltanto passaggio
alla luce ed all’aria e possono essere aperte senza il rispetto di distanze legali, mentre le seconde
permettono l’affaccio ed una visuale, diretta o laterale ovvero obliqua (balconi e finestre) e per
queste sono stabilite distanze dal fondo vicino; 4) riguardo alle acque, queste sono oggetto di
proprietà privata anche nella qualità di acque esistenti sul fondo, che appartengono al
proprietario stesso; a lui è attribuito il diritto di utilizzare l’acqua per i bisogni del proprio fondo,
sia di disporne a favore di altri soggetti; è posto il divieto di deviare il corso dell’acqua a danno
del vicino, l’obbligo di restituire al corso naturale le colature e gli avanzi dell’acqua dopo averne
fatto utilizzazione, il divieto di pregiudicare le falde acquifere. Ciò mira a garantire l’interesse
privato al maggior godimento possibile, ma in proporzione alle esigenze del proprio fondo,
dell’acqua, quale bene economico scarso ed essenziale per l’attività economica; 5) abbiamo
anche disposizioni riguardo lo stillicidio e gli scoli, queste regolano alcuni aspetti passivi, pesi o
vincoli, ai quali si deve sottostare in materia di acque. Il proprietario del fondo ha l’obbligo di
costruire i tetti in modo tale che le acque piovane scolino nel suo terreno non potendo farle
cadere nel fondo del vicino. Il proprietario deve ricevere le acque che scolano naturalmente dal
fondo superiore e non può impedire lo scolo, né può renderlo più gravoso. Ognuno deve
sopportare l’acqua che gli manda la natura; 6) è regolamentato anche ciò che concerne l’accesso
e il passaggio nel fondo, il proprietario di un fondo è tenuto a permettere l’accesso di terzi al
fondo per l’esercizio della caccia, per il compimento di opere necessarie al vicino e per il recupero
da parte del vicino della sua cosa che si trovi accidentalmente nella proprietà altrui o del suo
animale sfuggito alla custodia; 7) altro fenomeno di interesse riguarda le immissioni, l’art.844
stabilisce il criterio fondamentale per cui ciascun proprietario deve sopportare le attività altrui le
cui conseguenza eventualmente si propaghino da un immobile all’altro. Il limite è dato dalla
normale tollerabilità. Si deve tener conto della destinazione normale del bene, della condizione
dei luoghi, dell’entità delle stesse immissioni e delle conseguenze sulle persone che vivono in un
certo ambiente; nel caso di immissione intollerabile, occorre distinguere se il giudice ritiene
prevalenti le ragioni proprietarie, allora l’immissione è illecita e al danneggiato spetta la tutela
inibitoria e risarcitoria, se invece il giudice ritiene prevalente le ragioni della produzione, allora
autorizza l’immissione e assicura un indennizzo al proprietario del fondo immesso; 8) infine
abbiamo gli atti di emulazione, che sono stabiliti dall’art.833 che dispone che “il proprietario non
può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere, o recare molestia ad altri”. È
vietato ad esempio il piantare alberi senza apprezzabile utilità per il proprietario, al solo fine di
togliere luce e panorama al vicino.
La comunione ricorre quando il diritto di proprietà o altro diritto reale su uno stesso bene,
appartiene a più persone (art.1100). Il concetto di comunione rientra nel concetto generale di
contitolarità di diritti. La comunione risulta meramente transuente ed aperta al diritto potestativo
di scioglimento dal quale conseguirà la divisione del bene in porzioni, oggetto ciascuna di solitaria
e generale proprietà. Ciascun contitolare ha il diritto di godere di tutte le utilità che il bene può
fornire e questo suo diritto ha come oggetto non una determinata parte materiale del bene ma
bensì una quota ideale del bene stesso, la quale esprime la partecipazione del concorrente nei
limiti del diritto degli altri contitolari. La conseguenza è che la prima, al pari della seconda, gode
di elasticità, per cui se uno dei comproprietari venga meno, le altre quote ideali si espandono.
La comunione presenta affinità con il condominio e la società ma va distinta. Il condominio si ha
quando la comunione di più persone sul suolo e su talune parti dell’edificio coesiste con la
proprietà esclusiva dei piano o di porzioni di piano. La comunione cede il posto alla società
quando allo scopo di godimento delle cose comuni si aggiunge l’esercizio volontario di un’attività
volta alla produzione e allo scambio. Abbiamo diverse tipologie di comunione: a) comunione
tacita familiare, in cui i componenti svolgono attività coordinata da un capo; b) comunione
ereditaria, in cui coeredi gestiscono il patrimonio del defunto; c) comunione legale tra i coniugi;
abbiamo pure: a) comunione volontaria, che si costituisce per accordo dei partecipanti; b)
comunione incidentale, che si costituisce indipendentemente dalla volontà; c) comunione
ordinaria, in cui ogni partecipante può chiedere la divisione; d) comunione forzosa, in cui invece
è negata la divisione; e) comunione propria, in cui il soggetto è suscettibile di godimento; f)
comunione impropria, in cui l’oggetto non è suscettibile di godimento.
La disciplina giuridica della comunione evidenzia che l’interesse del singolo comunista è
subordinato a quello del gruppo. La fonte principale per la disciplina del rapporto di comunione
è la volontà dei costituenti, vengono poi le norme legislative speciali per i vari tipi di comunione
e infine si applicano le norme generali contenute nell’articolo 1100. I diritti dei singoli comunisti
consistono nel diritto all’uso della cosa comune, senza alterarne la destinazione, nel diritto di
disposizione della quota, ogni partecipante può disporre della sua quota, alienandola o
ipotecandola; nel diritto al godimento degli utili. Per le decisioni si applica il principio
maggioritario, la maggioranza si calcola in base al valore economico delle quote. La decisione
della maggioranza è vincolante, per gli atti di ordinaria amministrazione è richiesta la
maggioranza semplice, mentre per quelli di straordinaria amministrazione è richiesta la
maggioranza qualificata, ossia i 2/3 del valore complessivo della cosa comune. Le spese
deliberate gravano sui partecipanti alla comunione in proporzione delle rispettive quote. La
cessazione della comunione si attua mediante la divisione.
LA MULTIPROPRIETA’
Nella multiproprietà più soggetti si trovano a godere del medesimo bene immobile, ma ciascun
multiproprietario ne gode a turno in periodi diversi. Esistono diverse fattispecie di multiproprietà.
La multiproprietà immobiliare consiste nell’acquisto del diritto all’uso di un alloggio in un periodo
predeterminato ogni anno. La multiproprietà alberghiera consente all’acquirente di fruire
dell’unità immobiliare oggetto di godimento all’interno di una struttura alberghiera. La
multiproprietà azionaria si basa sull’intestazione del complesso immobiliare ad una società per
azioni.
Oggetto di diritto sono sia i beni materiali che i beni immateriali. Tra questi ultimi si annoverano
il nome, la ditta, l’insegna, il marchio, le opere dell’ingegno e via discorrendo. Le invenzioni atte
all’applicazione industriale sono oggetto di proprietà industriale; le opere letterarie, artistiche,
scientifiche sono oggetto di proprietà intellettuale. La proprietà intellettuale viene regolata dalle
norme sul diritto d’autore mentre la proprietà industriale dalle norme sul diritto di inventore. La
differenza tra la proprietà e questi due diritti è che questi ultimi pur essendo diritti assoluti come
la proprietà, consentono uno sfruttamento diverso dal godimento delle altre cose. Oggetto del
diritto d’autore e del diritto d’inventore non è il bene materiale in cui si concreta l’idea bensì
l’idea stessa. In secondo luogo l’oggetto del diritto non offre in sé un immediato vantaggio
economico e inoltre hanno durata limitata nel tempo, mentre il diritto di proprietà offre un
immediato vantaggio economico, che può dare un bene mobile o immobile, ed è potenzialmente
perpetuo. Nel diritto d’autore e di inventore si distinguono un aspetto morale e uno patrimoniale;
quello morale è diretto ad assicurare la tutela dell’identità personale dell’autore dell’opera mentre
quello patrimoniale riguarda l’utilizzazione economica esclusiva dell’opera. Entrambi sono
caratterizzati dalla novità dell’opera, infatti solo se è nuova si riconosce lo sforzo creativo
dell’autore.
IL DIRITTO D’AUTORE
Il diritto d’autore tutela quelle opere dell’ingegno che appartengono alla musica, alle arti
figurative, all’architettura, al teatro e via discorrendo. Nel diritto d’autore si distinguono il diritto
della personalità che tutela l’identità personale dell’autore e il diritto per l’autore di pubblicare o
meno l’opera, di modificarla e quando concorrono gravi ragioni morali di ritirarla dal commercio
con l’obbligo di indennizzare coloro che hanno acquistato il diritto di riprodurre o diffondere
l’opera stessa. L’autore senza limiti di tempo può chiedere che gli sia riconosciuta la paternità
dell’opera. Il diritto d’autore ha un contenuto patrimoniale riguardante l’utilizzazione economica
esclusiva dell’opera. Tale diritto è riconosciuto per tutta la vita dell’autore e per i 70 anni
successivi alla sua morte a favore dei suoi eredi. Scaduti i diritti di utilizzazione economica,
l’opera cade in pubblico dominio. Le azioni di tutela del diritto patrimoniale dell’autore sono
l’azione di accertamento, con la quale l’autore può ottenere che il suo diritto di utilizzazione
economica esclusiva dell’opera sia accertato; e l’azione di interdizione delle violazioni, diretta ad
impedire la continuazione o la ripetizione di una violazione già verificatasi.
LA PROPRIETA’ INDUSTRIALE
La fortuna della nozione di diritto reale è stata collegata al fiorire di una società prevalentemente
agricola. Con l’affermarsi dell’industria e delle attività terziarie si è avuto un declino scientifico e
pratico del diritto reale.
L’ENFITEUSI
L’enfiteusi costituisce quel diritto reale di godimento su cosa altrui che attribuisce al titolare lo
stesso potere di godimento del fondo spettante al proprietario, salvo l’obbligo di migliorare il
fondo e di pagare al proprietario concedente un canone periodico. L’enfiteusi si attua
prevalentemente per i fondi rustici ma può essere anche costituita su fondi urbani. La norma
generale sull’enfiteusi è contenuta nell’art.957 e può sorgere per usucapione, testamento e
contratto. Può essere costituita in perpetuo o a tempo determinato. Se è a tempo determinato
la sua durata non può essere inferiore ai 20 anni. Il concedente (direttario) ha diritto al
versamento del canone e al miglioramento del fondo, il diritto di chiedere la devoluzione del
fondo e di trattenere alla fine dell’enfiteusi, le addizioni fatte dall’enfiteuta che possono essere
tolte senza nocumento del fondo, pagandone il valore al tempo della riconsegna. Il concedente
ha per converso l’obbligo di rimborsare al cessare dell’enfiteusi, i miglioramenti effettuati
dall’enfiteuta. L’enfiteuta dalla sua parte ha diritto sui frutti del fondo, sul tesoro, sulle
utilizzazioni del sottosuolo e sulle accessioni, al rimborso dei miglioramenti e delle addizioni non
separabili. Per converso ha l’obbligo di pagare le imposte e gli altri pesi che gravano sul fondo,
l’obbligo di pagare al concedente un canone periodico, di migliorare il fondo però a differenza
dell’usufruttuario, l’enfiteuta non è vincolato alla preesistente destinazione economica del fondo.
L’enfiteuta ha infine l’obbligo di fare una ricognizione del diritto del concedente, quando ne venga
fatta richiesta 1 anno prima del compimento del ventennio, per evitare il maturarsi
dell’usucapione. Infine è vietato la subenfiteusi.
ESTINZIONE DELL’ENFITEUSI
L’enfiteusi si estingue per decorso del tempo, per perimento del fondo, per confusione, per non
uso ventennale del diritto da parte dell’enfiteuta, per effetto di affrancazione o devoluzione.
LA SUPERFICIE
Il diritto di superficie consiste nel diritto di erigere e mantenere una costruzione separatamente
dalla proprietà del suolo sul quale essa insiste. Si tratta dunque di un fenomeno di proprietà
separata, in virtù del quale si trovano a coesistere due diritti di proprietà, quella sul suolo e
quella del soprassuolo o sottosuolo. L’art.952 prevede due situazioni giuridiche: il diritto del
superficiario sul suolo, nei confronti del proprietario di esso, e il diritto dello stesso superficiario
sulla stessa costruzione. La seconda è un normale diritto di proprietà, mentre la prima configura
il diritto di superficie. Esso può nascere per usucapione, per contratto o per testamento.
Legittimato a costituire il diritto è soltanto il proprietario del suolo. Per quanto riguarda la durata
ed estinzione del diritto, il diritto di superficie può essere costituito in perpetuo o a tempo
determinato. Quando è costituito a tempo determinato, allo scadere del termine, il proprietario
del suolo diventa proprietario anche della costruzione. Il diritto di superficie può estinguersi
anche per prescrizione. Questa non si può ottenere se la costruzione è stata già eseguita. Ed
infine la superficie si estingue per consolidazione (il riunirsi nel diritto di proprietà e di quello di
superficie nella stessa persona).
L’USUFRUTTO
L’usufrutto riconosce all’usufruttuario il diritto di godere ed usare della cosa altrui, traendo da
essa tutti i frutti e l’utilità che può dare, con l’obbligo di non mutarne la destinazione economica
(art.981-984). L’usufrutto può gravare su qualunque specie di bene che però in linea generale
deve essere infungibile e inconsumabile. Se l’usufrutto abbia ad oggetto cose consumabili, allora
l’usufruttuario ha l’obbligo di restituire beni dello stesso genere e qualità. L’usufrutto non può
eccedere in nessun caso la vita dell’usufruttuario o i 30 anni se si tratta di persona giuridica. È
ammesso l’usufrutto congiuntivo, cioè costituito a favore di più soggetti, l’usufrutto si estinguerà
alla morte dell’ultimo usufruttuario che sopravvive. L’usufrutto può acquistarsi per legge, per
contratto, per usucapione e per testamento. L’usufrutto può estinguersi per morte
dell’usufruttuario, per decorso dei 30 anni nel caso di persona giuridica, per prescrizione a
seguito di non uso ventennale, per consolidazione, e per totale perimento del bene. Ancora
l’usufrutto si estingue per rinuncia dell’usufruttuario, per annullamento, per rescissione, per
risoluzione del contratto e infine a causa dell’abuso da parte dell’usufruttuario. L’usufruttuario
ha diritto di conseguire il possesso della cosa, di servirsene e farne propri i frutti per l’intera
durata dell’usufrutto. Ha diritto ad un’indennità per i miglioramenti apportati al fondo, e il diritto
di portar via alla cessazione dell’usufrutto, quelle addizioni la cui rimozione non muti la
destinazione economica del bene. Infine l’usufruttuario ha il diritto di cedere il proprio usufrutto,
di concedere ipoteche sull’usufrutto e di locare il bene. L’usufruttuario ha l’obbligo di restituire la
cosa al termine dell’usufrutto e non deve modificare la destinazione economica del bene ed
inoltre deve usare la diligenza del buon padre di famiglia nell’esercizio del suo diritto. Il nudo
proprietario dal canto suo deve curare le riparazioni straordinarie del bene, deve far fronte a tutti
quei carichi a carattere non annuale posti sulla proprietà ed infine deve concorrere con
l’usufruttuario alle spese di lite.
L’USO E L’ABITAZIONE
Il diritto di uso (art.1021) attribuisce al suo titolare (usuario) il potere di servirsi di un bene e se
esso è fruttifero, di raccoglierne i frutti ma solo limitatamente a quanto occorre ai bisogni suoi e
della sua famiglia. Ancor più ristretto è il diritto di abitazione (art.1022) che conferisce al titolare
soltanto il diritto di abitare una casa limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia. Entrambi
hanno carattere personalissimo, quindi non possono essere ceduti o locati.
Gli oneri reali sono prestazioni positive a carattere periodico che sono dovute da un soggetto in
quanto è nel godimento di un determinato bene, e consistono nel dare o nel fare qualche cosa
(es. canone enfiteutico). Nell’onere reale, obbligata è la cosa e non la persona e si costituisce
soltanto nei casi previsti dalla legge. L’onere reale si estingue per le ordinarie cause estintive dei
diritti reali, ad esempio il perimento del fondo, abbandono del fondo stesso. In altre ipotesi la
persona che è nel possesso assume obblighi per i quali non risponde soltanto con la cosa stessa
ma anche con il suo patrimonio. Queste sono le obbligazioni reali. L’onere reale in quanto diritto
gravante sul bene di cui si entra in possesso, obbliga al pagamento di tutte le prestazioni scadute
anche se compiutasi precedentemente al rapporto del soggetto con il bene mentre le obbligazioni
reali obbliga al pagamento delle sole prestazioni maturate dopo l’inizio della relazione con il bene.
La servitù (art.1027) consiste nel peso (o limitazione) imposto sopra un fondo (fondo serviente)
per l’utilità di un altro fondo (fondo dominante). I caratteri essenziali sono: l’appartenenza dei
due fondi a soggetti diversi, l’indivisibilità, e l’impossibilità di consistere in un facere, cioè la
servitù può consistere soltanto in un non facere o in un pati del proprietario del fondo servente.
La servitù al pari di ogni altro diritto reali, è espressamente prevista e regolata dalla legge, cioè
tipica. La volontà dei costituenti stabilisce in concreto una serie indefinita di vincoli reali
corrispondenti a diversi utilizzazioni del bene.
Affinchè il vincolo rappresenti il diritto reale della servitù prediale occorrono una serie di requisiti:
1) praedia vicina esse debent, ovvero il concetto di vicinanza non inteso in senso assoluto ma in
senso relativo. Cioè sussiste la vicinitas anche se i due fondi sono separati da un terzo fondo
appartenente al proprietario del fondo dominante o da una strada; 2) predialità, esprime che la
servitù è posta a vantaggio del fondo e non del proprietario, cioè questo riceve il vantaggio della
servitù attraverso il bene; 3) utilità per il fondo dominante, deve essere obiettiva, nel senso di
concretarsi in un vantaggio riconducibile alla situazione e alla destinazione obiettiva del fondo
dominante, tale da giovare a chiunque ne divenga proprietario. Se il patto tra privati impone una
limitazione o un peso che non possegga queste caratteristiche, si avrà un patto magari
ammissibile, ma non costitutivo della servitù prediale (servitù irregolare). Questa è priva del
seguito, ovvero dell’opponibilità erga omnes del vincolo e dell’ambulatorietà passiva e attiva.
Non costituiscono servitù reale sia il patto di non concorrenza (ad es. l’impegno di non esercitare
attività industriale o commerciale nel proprio fondo per favorire l’attività del vicino); sia le servitù
aziendali (ad es. il diritto di affiggere la propria insegna sul muro del vicino). L’utilità può
consistere nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante (ad es. servitù di non
edificare).
TIPI DI SERVITU’
Abbiamo diverse classificazioni: 1) le servitù apparenti, cioè quelle che si manifestano con opere
visibili e permanenti destinate al loro esercizio, come la servitù di stillicidio, di acquedotto, di
passaggio; 2) le servitù non apparenti, sono quelle per le quali non sono richieste tali opere,
come la servitù di pascolo e di non edificare; 3) le servitù affermative, cioè quelle per il cui
esercizio è richiesto un comportamento attivo del proprietario del fondo dominante, che il
proprietario del fondo servente deve sopportare (es. passaggio); 4) le servitù negative, sono
quelle che comportano solo un non facere a carico del proprietario del fondo servente (es. servitù
di non costruire oltre una certa altezza); 4a) le servitù continue, sono quelle in cui è richiesta
solamente nella fase anteriore all’esercizio (es. servitù di acquedotto, bisogna costruirlo…); 4b)
servitù discontinue, sono quelle per il cui esercizio è richiesta l’attività ripetuta del proprietario
del fondo dominante (es. la servitù di passaggio); 5) le servitù volontarie o coattive, a seconda
che si costituiscano per volontà dei singoli o per legge; 6) servitù temporanee o perpetue, con
riferimento alla durata.
LE SERVITU’ COATTIVE
Le servitù coattive (art.1032) sono quelle che trovano il loro titolo nella legge. Esigerle è un
diritto potestativo che la legge accorda al proprietario del fondo dominate. Sono ottenute con
sentenza costitutive e il proprietario del fondo servente ha diritto ad un’indennità. Le servitù
coattive sono tipiche. Le principali figure sono la servitù di acquedotto coattivo (art.1033), che
consiste nel diritto di far passare acque proprie attraverso fondi altrui, tramite un acquedotto; la
servitù di passaggio coattivo, che consiste nel diritto al passaggio sul fondo vicino per accedere
alla via pubblica, questa è ottenibile sia quando non sia possibile far altrimenti (interclusione
assoluta), sia quanto il proprietario del fondo potrebbe procurarsi il passaggio altrove ma con
dispendio e disagio (interclusione relativa).
Le servitù si estinguono (art.1072) per confusione o per prescrizione estintiva ventennale, cioè
per non uso della servitù protratto per 20 anni. Il termine di prescrizione decorre diversamente
nelle servitù negative ed affermative. Nelle servitù negative, decorre da quando il proprietario
del fondo servente ha violato il divieto; nelle servitù affermative continue, da quando si è
verificato un fatto contrario all’esercizio della servitù (es. otturamento dell’acquedotto); nelle
servitù affermative discontinue, dall’ultimo atto di esercizio del diritto (es. ultimo passaggio). Le
servitù si estinguono per scadenza del termine, per il verificarsi della condizione risolutiva previsti
nel titolo, o per l’abbandono del fondo servente da parte del proprietario che voglia sottrarsi alle
spese per la servitù.
Capitolo 46 IL POSSESSO
CONCETTI ED ELEMENTI
Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della
proprietà o di altro diritto reale (art.1140). Il possesso si concreta in una relazione di fatto
intercorrente tra un soggetto e un bene. Tale situazione può essere anche di semplice immagine
o apparenza di un diritto, e potrebbe avere origine illegittima o illecita (es. ladro). Le ragioni che
giustificano questo particolare favor risiedono nel rispetto dell’effettività e dell’esperienza
pratica; e nella necessità della salvaguardia dell’ordine pubblico e della pace sociale.
L’usucapione è frutto della valutazione positiva da accordare a chi effettivamente utilizza la cosa,
rispetto a chi, pur avendone eventualmente il diritto, non lo faccia. Gli elementi del possesso
sono il corpus possessionis, che si identifica con il comportamento materiale che il soggetto
assume nei confronti del bene (elemento oggettivo); e l’animus possidendi, che si identifica nella
volontà del possessore di esercitare sul bene i poteri del proprietario o del titolare di altro diritto
reale (elemento soggettivo). La necessità dell’animus distingue il possesso dalla detenzione.
Sono suscettibili di possesso i beni materiali, le energie naturali, le universalità di cose, i mobili
registrati e i titoli di credito. Va ammesso anche il possesso delle servitù negative. Non sono
suscettibili di possesso le universalità di diritto, le parti non separabili di cose composte, le
pertinenze, lo spazio aereo, i beni demaniali.
L’acquisto originario del possesso si realizza con l’apprensione fisica della cosa, accompagnata
dall’animus possidendi. L’apprensione non fa acquistare il possesso se si verifica per tolleranza
altrui. L’acquisto derivativo del possesso si realizza con la consegna o la traditio della cosa,
oppure con la successione nel possesso. La perdita del possesso si verifica quando viene meno
uno degli elementi del possesso: corpus od animus. La successione e l’accessione nel possesso
sono due forme di congiunzione del possesso previste per far godere all’attuale possessore gli
effetti di un precedente possesso. La successione nel possesso si verifica alla morte del
possessore, poiché il possesso continua nel suo erede con gli stessi caratteri che aveva rispetto
al defunto. L’accessione nel possesso si verifica a favore del successore a titolo particolare che
può unire al proprio possesso quello del suo autore ai fini dell’usucapione.
LA DETENZIONE
La detenzione può definirsi come un mero potere di fatto sulla cosa, non accompagnato
dall’intenzione di esercitare un’attività corrispondente ad un diritto reale. Il detentore si trova in
un rapporto di mera contiguità fisica con la cosa, ma è consapevole e riconosce di non poter
vantare alcun diritto sulla cosa stessa (es. il locatario). L’elemento che differenzia detenzione e
possesso è l’aniums: animus possidendi, in caso di possesso; animus destinendi, in caso di
detenzione. La detenzione può essere nell’interesse proprio (detenzione qualificata, ad es. il
locatario) o nell’interesse altrui (detenzione non qualificata, ad es. domestici). La differenza ha
rilievo in tema di tutela della situazione detentiva. Il codice favorisce la qualificazione della
disponibilità materiale di un bene quale possesso, anziché quale detenzione, mediante 3
presunzioni: 1) presunzione generale di possesso, nella quale chi esercita il potere di fatto si
presume possessore salvo che si provi che ha cominciato ad esercitarlo semplicemente come
detentore; 2) presunzione di possesso intermedio, nella quale il possessore, fornita la prova di
possedere ora e di aver posseduto in passato, si presume abbia posseduto anche nel periodo
intermedio; l’onere di provare l’interruzione spetta a chi nega il possesso intermedio; 3)
presunzione di possesso anteriore, nella quale il possessore esercita il suo potere sulla base di
un titolo e si presume abbia cominciato a possedere dalla data del titolo stesso. In mancanza di
titolo il possesso attuale non fa presumere il possesso anteriore. Il mutamento della detenzione
in possesso prescrive che la detenzione non può tramutare in possesso nei casi previsti cioè: per
causa proveniente da un terzo che titolare della proprietà trasferisca tale diritto al detentore;
per opposizione del detentore che rende noto al proprietario di tenere il bene per conto ed in
nome proprio.
Esistono circostanze che danno al possessore una tutela più ampia: 1) possesso legittimo o ad
usucapionem, deve essere continuo, cioè il possessore non deve aver abbandonato il bene; non
interrotto, cioè non c’è stata azione di terzi in contrasto col possesso; non violento e non
clandestino. Porta all’usucapione ventennale degli immobili e decennale dei beni mobili registrati;
2) possesso di buona fede, è quello di chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto. Questo
possesso porta all’usucapione decennale dei beni immobili, all’usucapione triennale dei beni
mobili registrati e all’acquisto immediato dei beni mobili. Il possesso di buona fede è qualificato
dall’esistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento del diritto.
Effetto del possesso è la tutela possessoria. Nei confronti del proprietario della cosa, il possessore
ha diritto al rimborso delle spese fatte, e se di buona fede, anche a far sua una certa quota di
frutti. Se taluno aliena a più persone diverse il medesimo bene mobile, tra queste è preferita
colei che ne ha acquistato il possesso in buona fede anche se è di data posteriore. L’usucapione
istantanea sancisce il principio secondo cui, in materia mobiliare, il possesso, unito alla buona
fede, vale titolo, cioè consente all’acquirente di acquistare a titolo originario, e libero dai vincoli
non risultanti dal titolo, il bene mobile cedutogli da un falso proprietario, benché quest’ultimo
non avesse il potere di trasferirglielo legittimamente; mentre il proprietario originario perde il
suo diritto e non può rivendicare il bene. I presupposti per l’applicazione sono che: 1) l’oggetto
non deve essere un bene mobile registrato, né una universalità di mobili; 2) che l’avente causa
deve ricevere il possesso; 3) che egli sia in buona fede al momento della consegna; 4) occorre
un titolo valido ed astrattamente idoneo.
L’art.922 indica i modi di acquisto della proprietà, ossia quei fatti giuridici che hanno per effetto
l’acquisto della proprietà di una cosa. Si distinguono in originari e derivativi. Nei primi, l’acquisto
della proprietà non dipende da un egual diritto del precedente titolare, o per non essere da
questo derivante o in quanto il diritto sorge per la prima volta nel patrimonio dell’attuale
proprietario (esempio: invenzione, usucapione, accessione, occupazione). I secondi invece
dipendono dall’esistenza di un diritto di un precedente proprietario e sono costituiti da negozi
traslativi della proprietà (compravendita), dai trasferimenti coattivi (espropriazione), dalla
successione a titolo di eredità o legato.
L’usucapione (art.1158) consente l’acquisto a titolo originario della proprietà o dei diritti reali di
godimento per effetto del possesso protratto per un certo tempo. Le ragioni che lo giustificano
sono: 1) esigenza di rendere certa e stabile la proprietà; 2) favorire colui che si occupa di un
bene rispetto al proprietario inerte. Ha titolo per l’usucapione, chi abbia esercitato il possesso in
modo continuo e non interrotto (requisito della continuità); non violento né clandestino
(possesso non viziato); e protratto per un certo periodo di tempo (requisito della durata).
Oggetto del possesso deve essere un bene suscettibile di usucapione cioè, un bene in commercio
e non demaniale.
In relazione alla durata del possesso abbiamo diverse tipologie di usucapione: 1) usucapione
ordinaria, per l’acquisto della proprietà o degli altri diritti reali di godimento su beni immobili e
su universalità di mobili e mobili si compie col decorso di 20 anni; 10 anni per i beni mobili
registrati; 2) usucapione abbreviata richiede ulteriori requisiti come la buona fede al momento
dell’acquisto del possesso, un titolo valido ed astrattamente idoneo al trasferimento del diritto
ma inefficace in pratica e la trascrizione del titolo. Dalla trascrizione decorre il tempo necessario
pere usucapire. Il decorso del tempo necessario è di 10 anni per i beni immobili mentre per i
beni mobili ne bastano 3. Per questi ultimi abbiamo due ipotesi diverse: a) se vi è il titolo
astrattamente idoneo e la buona fede, l’acquisto è immediato; b) se il possessore è di malafede,
l’usucapione si compie con il decorso di 20 anni. 3) usucapione speciale viene definita una
particolare forma di usucapione, limitata alla “piccola proprietà rurale” e detta perciò “usucapione
agraria”. Si riducono i termini a soli 15 anni di possesso per la forma ordinaria mentre a 5 anni
per quella abbreviata.
DISCIPLINA DELL’USUCAPIONE
L’art.1165 estende all’usucapione le disposizioni generale valide per la prescrizione sia in materia
di sospensione o di interruzione sia per il computo immediato dei termini. La prescrizione
riguarda la perdita del diritto mentre l’usucapione l’acquisto del diritto.
L’ACCESSIONE
Si verifica quando una proprietà preesistente attira nella sua orbita altre cose che prima erano
estranee. L’accessione si verifica sempre a favore del proprietario della cosa principale. Abbiamo
varie tipologie: 1) accessione di mobile ad immobile: l’immobile per eccellenza è il suolo, che
attrae nella sua orbita tutti i mobili che vi vengono impiantati, di cui il proprietario del suolo
diventa proprietario secondo il principio “quid quid inaedificatur solo cedit”. 2) accessione di
immobile ad immobile: ricorre nelle ipotesi di: a) alluvione, cioè insensibile e progressivo
incremento di terreno portato dalle acque ad un fondo, ed il proprietario del fondo acquista la
proprietà di tali incrementi; b) avulsione, che consiste nel distacco da un fondo di una
considerevole parte di terreno che si unisce ad un altro fondo; c) alveo abbandonato, che si ha
quando un fiume abbandoni il letto principale e in tal caso l’alveo abbandonato rimane
assoggettato al regime di demanio pubblico; d) isola formata nel fiume, la quale appartiene al
demanio pubblico. 3) accessione di mobile a mobile si distingue in: a) unione o commistione,
cioè quando due o più cose mobili di proprietari diversi, vengono ad unirsi in modo da formare
un corpo unico. La proprietà della cosa è comune in proporzione al valore delle rispettive cose.
Se una delle cose può considerarsi principale allora il suo proprietario acquista per intero la
proprietà corrispondendo agli altri proprietari il valore delle cose; b) specificazione, quando si
crea una nuova cosa con materia appartenente ad altri. La proprietà della cosa ottenuta spetta
a colui che ha compiuto il valore (previo pagamento del valore della materia utilizzata) oppure
spetta al proprietario della materia se il valore di essa è di molto superiore al valore della mano
d’opera. 4) accessione invertita, rappresenta un modo di acquisto a titolo originario che opera in
modo inverso a quello dell’accessione. Si verifica quando nella costruzione di un edificio si occupa
in buona fede una porzione del fondo attiguo ed il proprietario di questo non fa opposizione entro
3 mesi dal giorno in cui ebbe inizio la costruzione. Il costruttore è tenuto a pagare al proprietario
del suolo il doppio del valore della superficie occupata, oltre al risarcimento dei danni. L’istituto
di accessione invertita ha trovato sviluppo nel campo del diritto pubblico in sede di espropriazione
per pubblica utilità. Il fenomeno prevede che si determini a favore della pubblica amministrazione
l’acquisto a titolo originario della proprietà del suo occupato senza titolo. Il privato perde la
proprietà e ottiene un risarcimento superiore all’indennità di esproprio ma inferiore all’integrale
valore venale del bene poiché quest’operazione risiede nella prevalente tutela del pubblico
interesse. Quando l’attività della pubblica amministrazione non ha come scopo la tutela del
pubblico interesse, allora si tratta di occupazione usurpativa e il risarcimento dei danni
corrisponde all’integrale valore venale del suolo, oltre interessi e rivalutazione monetaria e inoltre
l’area illegittimamente appresa va restituita al proprietario anche se vi è realizzata l’opera
pubblica.
Sotto il profilo della tutela della situazione, alle obbligazioni sono attribuite azioni personali intese
ad ottenere sanzioni nei confronti unicamente del debitore. Ai titolari di diritti reali sono invece
concesse azioni dette appunto reali, dotate dell’efficacia erga omnes. Sul piano dei limiti
soggettivi, l’azione personale si ferma al debitore; il titolare di azione reale può agire contro
chiunque. Sul piano dei limiti oggettivi, l’azione reale non è più percorribile solo quando il bene
cui mira sia stato dissipato o distrutto.
Le azioni poste a difesa della proprietà sono dette petitorie, in contrapposizione a quelle poste a
difesa del possesso, dette possessorie. Le azioni petitorie mirano ad accertare ed affermare la
titolarità del diritto di proprietà contro chi la contesti direttamente, negandola, o indirettamente,
vantando diritti reali limitati sul bene. Altri rimedi spettanti al proprietario sono a) le azioni
possessorie, b) le azioni di enunciazione, c) il sequestro giudiziario, che può essere richiesto per
quei beni dei quali sia controversa la proprietà o il possesso o per i quali sia opportuna la custodia
o la gestione; d) l’azione di consegna di beni mobili o di rilascio di immobili, e) l’azione per il
risarcimento dei danni. Le azioni petitorie sono 4: l’azione di rivendicazione, l’azione negatoria,
l’azione di regolamento di confini, l’azione per apposizione di termini. 1) L’azione di
rivendicazione, o rivendica, è l’azione con cui il proprietario rivendica la cosa propria da chiunque
la possiede o la detiene senza titolo. L’azione di rivendicazione può essere esperita sia verso i
terzi, sia nei confronti di ogni acquirente susseguente, per ottenere il bene. La rivendica si arresta
esclusivamente dinanzi all’acquirente di beni immobili che abbia trascritto il titolo anteriormente
alla trascrizione del titolo del rivendicante o della stessa rivendica; e nei beni mobili di fronte ad
un acquisto a titolo originario effettuato in buona fede a titolo astrattamente idoneo. Legittimato
all’azione è chi sostiene di essere proprietario. Sul piano probatorio la prova presenta delle
difficoltà particolari tanto che si parla di probatio diabolica. Il problema viene risolto con gli istituti
dell’usucapione, dell’accessione e successione nel possesso. Legittimato passivamente è chi
possiede o detiene la cosa abusivamente cioè senza titolo. La posizione del convenuto sul piano
probatorio è meno gravosa di quella dell’attore per il fatto che egli è il possessore o il detentore
materiale della cosa e quindi non deve provare nulla. Se la domanda di rivendica viene accolta,
il possessore o detentore abusivo restituisce la cosa e i frutti. In caso di buonafede, il possessore
acquista i frutti maturati dopo la rivendica mentre restituisce quelli maturati dopo la domanda
giudiziale e i frutti percipiendi, cioè quelli ch avrebbe potuto percepire dopo la domanda se avesse
usato la normale diligenza del buon padre di famiglia. Il possessore di malafede restituisce tutti
i frutti fin dal momento in cui ha cominciato a possedere. Il possessore di buona o malafede ha
diritto al rimborso dopo la restituzione, delle somme spese per riparazione straordinarie e ad
un’indennità per miglioramenti apportati al bene e per le addizioni. Al possessore di buona fede
è riconosciuto a tutela del suo diritto al rimborso, lo ius ritentionis. 2) l’azione negatoria può
definirsi come l’azione con cui il proprietario tende ad ottenere dal giudice la dichiarazione di
inesistenza dei diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio e di
far cessare le turbative o le molestie della proprietà. È sufficiente dimostrare il possesso in forza
di un titolo idoneo, mentre sul convenuto incombe l’onere di provare la qualità di proprietario.
3) l’azione di regolamento di confini presuppone una situazione di conflitto derivante
dall’inesistenza o incertezza dei confini fra fondi. Legittimati all’azione sono solo i titolari dei fondi
confinanti. L’onere della prova è diviso ugualmente fra le due parti. In mancanza, decide il giudice
attenendosi ai confini delle mappe catastali. 4) l’azione per apposizione di termini, può essere
definita come l’azione con cui ciascuno dei proprietari limitrofi può chiedere, quando sia certo il
confine dei fondi, che siano posti o ripristinati, a spese comuni, i segni materiali e tangibili di tale
confine, i quali mancano o sono irriconoscibili.
I diritti reali limitati sono tutelabili erga omnes con le azioni poste a difesa di detta categoria di
diritti. Il titolare può esercitare le azioni di carattere petitorio, proporzionate all’estensione del
suo diritto. Potrà quindi utilizzare la rivendica nel duplico contenuto di azione di mero
accertamento e di azione recuperatoria, mirante a recuperare l’interezza dell’esercizio del proprio
diritto e ad ottenere la cessazione di impedimenti e turbative allo stesso. Il titolare di diritto reale
limitato gode dell’azione negatoria, per far dichiarare l’inesistenza dei diritti affermati da altri,
incompatibili con il proprio; dell’azione per il risarcimento dei danni ex art.2043; delle azioni di
enunciazione se si tratta di godimento; ed è infine legittimato alle azioni a tutela del possesso.
LE AZIONI POSSESSORIE
Le azioni possessorie sono costituite dalla azione di reintegrazione o di spoglio, e dalla azione di
manutenzione. A differenza delle azioni petitorie, le azioni possessorie assicurano una tutela
soltanto provvisoria, che prescinde dall’accertamento del diritto. 1) l’azione di reintegrazione, o
di spoglio, è l’azione con cui il possessore, spogliato del possesso, chiede di essere integrato in
esso. Lo spoglio deve avere i requisiti della violenza e della clandestinità che non deve essere
necessariamente di nascosto ma anche operata in modo che la vittima non lo sappia. Legittimati
attivamente alla reintegra sono il possessore ed anche il detentore. Non gode dell’azione chi
detiene per ragioni di servizio o di ospitalità. Legittimato passivo è l’autore materiale o morale
dello spoglio. Il termine per proporre l’azione è di 1 anno dalla sofferta lesione, altrimenti va in
decadenza; mentre se lo spoglio è clandestino, il termine decorre dal giorno della scoperta. 2)
l’azione di manutenzione ha il fine di far cessare le turbative, sotto forma di molestia, di fatto o
di diritto, all’integrità del possesso. È tutelabile soltanto il possesso avente ad oggetto un bene
immobile o un’universalità di mobili. Deve essere ultrannuale, continuo e non interrotto, non
acquistato con violenza o con clandestinità. Legittimato attivamente all’azione è solo il
possessore. Legittimato passivo è l’autore materiale o morale della molestia o dello spoglio non
violento o non clandestino. Il termine per proporre l’azione è quello di 1 anno dalla molestia o
dello spoglio, oppure va in decadenza.
LE AZIONI DI NUNCIAZIONE
Le azioni di enunciazione sono azioni cautelari che tendono alla conservazione di uno stato di
fatto, mirando a prevenire un danno o un pregiudizio che può derivare da una nuova opera o da
una cosa altrui. Esistono due tipologie: 1) denunzia di nuova opera è l’azione con cui il
proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore, denunzia un’opera da
altri intrapresa quando abbia ragione di temere che da essa possa derivare danno alla cosa che
forma oggetto del suo diritto o possesso. È necessario che l’opera non sia terminata e non sia
trascorso 1 anno dal suo inizio altrimenti l’azione decade. 2) denunzia di danno temuto è quella
con cui il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore, si rivolge
all’autorità giudiziaria, quando tema che da un albero, una costruzione ecc. stia per derivare un
danno grave e prossimo alla cosa che forma oggetto del suo stato di diritto. Il giudice se ritiene
fondata l’azione dispone i provvedimenti più opportuno (fermo dei lavori, demolizione,
arretramento).
L’obbligazione (art.1174) è considerata un rapporto giuridico in forza del quale il titolare della
posizione passiva, e cioè il debitore, per volontà dell’ordinamento, è tenuto ad eseguire una
determinata prestazione di carattere patrimoniale in favore del titolare della situazione attiva
che si chiama creditore. Il predetto rapporto è un rapporto unico, avente un lato attivo (creditore)
L’oggetto dell’obbligazione è ciò che suscita l’interesse giuridicamente protetto del creditore. La
soddisfazione di tale interesse può essere determinata sia dall’oggetto della prestazione sia dalla
stessa prestazione che il debitore è tenuto a realizzare nei confronti del creditore (prima ipotesi,
committente che ha interesse alla realizzazione dell’edificio; seconda ipotesi, attore di teatro che
si assume l’obbligo di recitare di una rappresentazione teatrale). In base all’oggetto
dell’obbligazione, si distinguono le obbligazioni di genere, quando oggetto della prestazione è
una cosa generica o una quantità di cose fungibili, dalle obbligazioni di specie riguardanti una
cosa determinata. Quanto alle obbligazioni di genere, l’art.1178 prevede che il debitore è tenuto
a prestare cose di qualità non inferiore alla media. Altra distinzione che si usa fare in base
all’oggetto è quella tra le obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Qualora obbligo del
debitore sia il dovere di compiere quanto è possibile per la soddisfazione del creditore, si parla
di obbligazione di mezzi (es. dottore), mentre nel caso in cui il debitore deve assicurare al
creditore il raggiungimento del risultato, si discorre di obbligazioni di risultato (es. appaltatore).
Con riferimento al momento dell’adempimento si è soliti distinguere le obbligazioni aventi ad
oggetto una prestazione istantanea ed obbligazioni aventi ad oggetto una prestazione di durata.
L’esecuzione della prestazione è istantanea nelle obbligazioni che si estinguono grazie al
compimento di un unico atto, mentre in quelle aventi ad oggetto una prestazione di durata,
l’esecuzione si prolunga nel tempo. Di regola nelle obbligazioni è imposto al debitore, quale
prestazione: a) di dare, fare o non fare, in questi casi il creditore riceve l’utilità dal solo
comportamento del debitore; b) di sopportare, in tal caso è il creditore che può conseguire
l’utilità con il proprio comportamento che il debitore non deve impedire. Quanto alle obbligazioni
di dare, esse sono quelle aventi a contenuto il trasferimento di un diritto o la consegna di un
bene; mentre le obbligazioni di non fare, hanno ad oggetto un comportamento omissivo del
debitore. Infine è configurabile una prestazione che consista nel prestare il consenso per la
conclusione del contratto.
La coercibilità dell’obbligazione consiste nella possibilità per il creditore di realizzare in ogni caso
con la tutela e i mezzi concessi dall’ordinamento giuridico (art.2907) ciò che gli è dovuto dal
debitore inadempiente o almeno l’equivalente in denaro mediante azione processuale che gli
consente di operare sul patrimonio del debitore.
LE OBBLIGAZIONI NATURALI
Vi sono poi ipotesi in cui l’ordinamento non concede al creditore l’azione per ottenere
coattivamente quanto dovutogli dal debitore ma lo tutela in modo più attenuato escludendo la
restituzione di quanto sia stato spontaneamente prestato da un soggetto non incapace. Infatti
l’art.2034 discorrendo di obbligazioni naturali sancisce che non è ammessa la ripetizione di
quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la
prestazione sia stata eseguita da un incapace. Per spontaneità si intende che il creditore fosse
stato consapevole di avere effettuato un pagamento senza esservi tenuto. Se invece il creditore
avesse pagato per errore e cioè perché si ritenesse obbligato ad adempiere, egli avrebbe potuto
ripetere quanto prestato. Quanto al secondo presupposto dell’irripetibilità va precisato che il
debitore può ripetere quanto prestato se al momento dell’adempimento era incapace di agire o
si trova in uno stato di momentaneo di incapacità di intendere e di volere. Infine requisito
dell’adempimento dell’obbligazione naturale è la proporzionalità. La prestazione deve cioè essere
adeguatamente proporzionata ai mezzi di cui l’adempiente dispone nell’interesse da soddisfare.
Le obbligazioni naturali si distinguono in due categorie: a) doveri morali o sociali; b) casi tipici
previsti dalla legge; la legge esplicitamente in alcune fattispecie non accordi azione ma esclude
la ripetizione di quanto pagato (debito da giuoco o scommessa, debito prescritto). Le obbligazioni
naturali infine vanno distinte dagli atti di liberalità in quanto l’obbligazione naturale è un atto
giuridicamente libero ma moralmente o socialmente dovuto mentre gli atti di liberalità sono atti
sia giuridicamente che socialmente e moralmente liberi.
A volte il debitore non si libera dalla propria obbligazione con l’esecuzione di una sola
obbligazione (obbligazione cumulativa). Le obbligazioni alternative e le obbligazioni facoltative o
con facoltà alternativa, si distinguono in virtù del particolare contenuto. La loro caratteristica è
data dalla complessità del loro oggetto, il debitore tuttavia si libera adempiendo una sola
prestazione. Nell’obbligazione alternativa sono contemplate due o più prestazioni ma il debitore
si libera eseguendone una sola. È necessario che le prestazioni siano originariamente possibili
perché qualora una delle due prestazioni non lo fosse, l’obbligazione sarebbe semplice. Il
debitore non può costringere il creditore a ricevere parte dell’una o dell’altra. La scelta della
prestazione da seguire di regola, spetta al debitore. Può essere formalizzata tanto con
l’esecuzione di una delle due prestazioni tanto con una dichiarazione espressa. Dal potere di
scegliere tuttavia si decade se non viene tempestivamente esercitata, infatti se il termine
stabilito per la scelta trascorre inutilmente, la scelta è fatta dal giudice. Se viene fissato solo il
termine per l’adempimento, esso si considera coincidente con quello della scelta. Dopo la scelta
l’obbligazione diviene semplice. Dopo la concretazione, l’impossibilità sopravvenuta della
prestazione consegue l’estinzione del rapporto. Se la scelta spetta al debitore, si distinguono due
ipotesi: se l’impossibilità dipende da causa imputabile al debitore, l’obbligazione diviene
semplice; mentre se l’impossibilità dipende da causa imputabile al creditore, il debitore è liberato
dall’obbligazione. Se la scelta dipende dal creditore e una delle prestazione è divenuta
impossibile per causa del creditore, il debitore è liberato dall’obbligazione, se invece
l’impossibilità dipende da causa imputabile al debitore, il creditore può pretendere l’altra
prestazione o esigere il risarcimento del danno. Se poi la scelta è operata da un terzo, e questi
scelga la prestazione divenuta impossibile, se l’impossibilità è imputabile al debitore, il creditore
può scegliere tra la risoluzione e il risarcimento per equivalente; mentre se l’impossibilità è
imputabile al creditore, il debitore sarà liberato. Situazione ancora diversa si ha quando entrambe
le prestazioni sono diventate impossibili, se l’impossibilità non sono imputabili né al debitore né
al creditore, l’obbligazione si estingue; se invece l’impossibilità è imputabile a uno dei due,
ciascuno potrà pretendere il risarcimento nei confronti dell’altro. Diversa dall’obbligazione
alternativa è quella facoltativa, nella quale una sola è la prestazione dovuta, ma il debitore in
virtù di una disposizione di legge o di un patto ha una facoltà di liberarsi anche effettuando una
prestazione differente.
La complessità del rapporto può dipendere anche dal fatto che il credito e il debito appartengano
a più persone, cioè nell’obbligazione solidale. L’obbligazione è in solido quando più debitori sono
obbligati per la medesima prestazione, ciascuno può essere costretto all’adempimento per la
totalità oppure quando tra più creditori ciascuno ha diritto di chiedere l’adempimento dell’intera
obbligazione. L’obbligazione solidale presuppone tanti rapporti obbligatori quanti sono i soggetti
attivi e passivi. Il debitore solidale che abbia pagato l’intero ha diritto ad esercitare l’azione di
regresso, cioè potrà richiedere agli altri debitori il pagamento delle rispettive quote, se uno dei
condebitori è insolvente, la perdita si ripartisce tra tutti gli altri. Ugualmente nella solidarietà
attiva, chi ha ricevuto l’intera prestazione dovrà attribuire agli altri creditori la rispettiva quota.
LE OBBLIGAZIONI PARZIARIE
Le obbligazioni parziarie sono caratterizzate dal fatto che l’obbligo dei debitori o il diritto dei
creditori è proporzionale alla partecipazione di ciascuno al vincolo obbligatorio. Cioè quando ci
sono più debitori, il dovere di adempiere sopra ciascuno pro-quota e quando ci sono più creditori,
il diritto di esigere il credito può essere riconosciuto a ciascuno solo per la propria quota.
LE OBBLIGAZIONI INDIVISIBILI
L’obbligazione è indivisibile quando la prestazione ha per oggetto una cosa o un fatto che non è
suscettibile di divisione. Qui interesse del creditore è soddisfatto dall’oggetto e non dalla
prestazione. L’indivisibilità può essere oggettiva qualora l’oggetto della prestazione non può
essere diviso senza fargli perdere il suo valore. L’indivisibilità può essere soggettiva allorchè
l’oggetto è di per sé divisibile ma nel caso in cui venisse diviso, non potrebbe più soddisfare
l’interesse del creditore. Se ci sono più debitori e un solo creditore, quest’ultimo può pretendere
l’adempimento dell’obbligazione da uno solo dei debitori. Mentre se ci sono più creditori ed un
solo debitore, ciascuno dei creditori può pretendere l’esecuzione dell’intera prestazione dall’unico
debitore. Se uno dei creditori ha rimesso il debito o ha consentito a ricevere un’altra prestazione
in luogo di quella dovuta, il debitore non è liberato verso gli altri creditori. Mentre nell’ipotesi in
cui vi siano più debitori e si sia verificata la liberazione di un singolo debitore per una causa
estintiva diversa dall’adempimento, si libereranno anche gli altri condebitori se l’estinzione non
sia personale al debitore. In tal caso gli altri condebitori rimangono obbligati per l’intero, detratto
il valore della quota del debitore liberato.
Le obbligazioni pecuniarie sono quelle che hanno ad oggetto una somma di danaro. I debiti
pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e
per il suo valore nominale. Pertanto il debitore deve pagare la somma di denaro prevista nel
rapporto, benché il suo valore effettivo possa nelle more, essersi modificato a causa della
svalutazione. Ciò però vige per i debiti di valuta, mentre per quelli di valore, il denaro è
considerato per il suo potere di acquisto. Tuttavia anche nei debiti di valuta le parti possono
predisporre delle pattuizioni per contrastare i rischi della svalutazione monetaria.
I crediti liquidi ed esigibili di somma di danaro producono interessi di pieno diritto. La liquidità si
verifica nel momento in cui la somma di danaro viene ad essere determinata nel suo ammontare.
L’esigibilità consiste nell’essersi verificata la scadenza del credito pecuniario. Gli interessi
costituiscono i frutti civili, cioè il corrispettivo che il debitore deve pagare al creditore per
l’utilizzazione del suo denaro e per tale motivo sono detti corrispettivi e si distinguono dagli
interessi compensativi che invece sono dovuti al fine di compensare il creditore per il mancato
godimento del suo denaro. L’obbligazione consistente nella corresponsione degli interessi è
un’obbligazione accessoria ed autonoma rispetto a quella principale. La misura del tasso di
interesse è di norma quella legale. Se le parti intendono pattuire interessi differenti (interessi
convenzionali), la pattuizione deve essere fatta per iscritto.
La legge considera usurari gli interessi che eccedano il tasso medio della metà. Se sono contenuti
interessi usurari, il patto è nullo, e gli interessi non sono dovuti nemmeno nella misura legale.
Gli interessi non possono produrre a loro volta interessi (divieto dell’anatocismo). Soltanto quelli
scaduti da 6 mesi possono produrre interessi dal giorno della domanda giudiziale.
Gli interessi moratori sono quelli dovuti dal debitore in caso di ritardo dell’adempimento. Essi
hanno la funzione di consentire una liquidazione forfetaria del danno per il ritardo del pagamento.
Il creditore ha diritto di pretendere tali interessi a condizione che richieda ritualmente al debitore
di adempiere l’obbligazione. Se poi il creditore in conseguenza del ritardo ha subito pregiudizi
maggiori, può ottenere il risarcimento, ma deve soddisfare i normali oneri di dimostrazione.
Tuttavia se le parti hanno convenuto la misura degli interessi moratori, l’eventuale maggior
danno non è risarcibile.
può assumere la garanzia della solvenza apponendo la clausola “salvo buon fine”. La garanzia
comunque cessa se la mancata realizzazione del credito è dipesa da negligenza del cessionario.
Il factoring è il contratto con cui un imprenditore cede, dietro corrispettivo, i propri crediti,
presenti e futuri ad una società di factoring, che diviene quindi cessionaria di tali crediti. La
società di factoring o factor può curare le operazioni di riscossione, gestire tutti gli aspetti
attinenti al credito fino alla sua scadenza e può accollarsi anche il rischio dell’insolvenza dei
debitori. Il prezzo pagato dalle società di factoring non risponde all’intera entità dei crediti ceduti.
Questo è il prezzo che il cedente deve pagare per il vantaggio che ottiene dall’operazione. Per
effettuare la surrogazione dei crediti commerciali c’è bisogno che il cedente sia un imprenditore,
che i crediti ceduti siano sorti da contratti stipulati dal cedente nell’esercizio dell’impresa ed infine
che il cessionario sia una banca o un intermediario finanziario abilitato. Se il cedente garantisce
la solvenza del debitore, la cessione avviene pro-solvendo; se il cessionario rinuncia in tutto o in
parte alla garanzia si avrà una cessione pro-soluto; qualora il cessionario abbia pagato in tutto
o in parte il corrispettivo della cessione e il pagamento abbia data certa, la cessione è opponibile:
agli altri aventi causa del cedente, il cui titolo di acquisto non sia stato reso efficace
anteriormente alla data del pagamento; al creditore cedente che abbia pignorato il creditore
dopo la data del pagamento; al fallimento del cedente dichiarato dopo la data del pagamento.
La successione del credito può essere a titolo universale oppure a titolo particolare. Quest’ultima
può derivare da un apposito atto di disposizione oppure può essere conseguenza di un
pagamento effettuato da un terzo, nel qual caso si avrà surrogazione. Solo in alcuni casi previsti
dalla legge il pagamento del terzo può comportare la trasmissione del credito dall’originale
titolare a colui che ha effettuato l’adempimento. Con la surrogazione il solvens, cioè colui che
paga il debito altrui, si sostituisce al creditore soddisfatto, subentrando nella sua medesima
situazione di titolare della situazione attiva. In caso di pagamento parziale, il terzo surrogato e
il creditore concorrono nei confronti del debitore in proporzione di quanto è loro dovuto. La
surrogazione può avvenire per volontà del creditore o per volontà del debitore. Infine la
surrogazione ha luogo di diritto, infatti opera automaticamente a favore del terzo, al quale è
riconosciuta la facoltà di pagare un debito altrui indipendentemente dal consenso del debitore o
del creditore. Ad esempio quando si parla del fideiussore, che dopo aver pagato nei confronti del
creditore, viene surrogato nei confronti del debitore garantito.
LA DELEGAZIONE
Può avvenire anche la modificazione del lato passivo. Esse possono comportare l’effettiva
trasmissione del debito dall’originario debitore ad un nuovo soggetto con liberazione del primo.
È però necessario il consenso del creditore in quanto una persona può essere solvibile e l’altra
no. Senza l’espressa volontà del creditore, il debitore precedente non viene liberato ma si
aggiunge un nuovo soggetto passivo a quello che già c’era. Il sub ingresso di un nuovo obbligato
può essere sostitutivo o cumulativo. La successione nel debito può essere a titolo originale,
particolare o universale. Si ha a titolo universale quando il nuovo debitore subentra per intero o
per quota nei rapporti del debitore originario; mentre si ha a titolo particolare quando il nuovo
debitore succede in base ad un titolo negoziale che ha per oggetto specifici rapporti obbligatori.
Per gli atti tra vivi la modifica del lato passivo può avvenire per iniziativa del debitore, del
creditore o di un terzo. Delegazione, espromissione e accollo rappresentano gli istituti predisposti
dal legislatore per regolare tali iniziative. Nei casi in cui un terzo si assume un debito altrui
perché a sua volta ha un proprio debito nei confronti del debitore originario, il rapporto tra terzo
e debitore si chiama rapporto di provvista e quello tra debitore e creditore, quello nel quale
interviene il terzo, si chiama rapporto di valuta. Nella delegazione passiva o di debito, il debitore
(delegante) invita un terzo (delegato) ad obbligarsi verso il creditore (delegatario) assumendo il
rapporto di debito che sussiste tra il debitore-delegante e il creditore-delegatario. Il delegato
indirizza così al delegatario una dichiarazione con la quale si obbliga verso di lui ad assumere il
debito, se il delegatario lo ritiene opportuno, accetta la delegazione. Il debitore originario non è
liberato dalla sua obbligazione salvo che il creditore dichiari espressamente di svincolarlo. Con
la liberazione del debitore originario si può sia realizzare la sostituzione del nuovo debitore nel
rapporto obbligatorio originario (effetto privativo), sia la costruzione di un nuovo rapporto che
prende il posto del precedente che si estingue (effetto novativo). Nella prima ipotesi il delegato
può utilizzare le eccezioni che verso il creditore avrebbe potuto utilizzare il debitore liberato;
nella seconda ipotesi no. La delegazione passiva può essere altresì coperta o allo scoperto. Si ha
la prima allorchè sussista un rapporto di provvista, cioè un preesistente credito del delegante
nei confronti del delegato. Si ha invece delegazione allo scoperto quando non vi è rapporto di
provvista. Il delegato non è dovuto ad accettare neanche se sia debitore del delegante. Se il
delegante non potrà opporre al delegatario le eccezioni del rapporto di valuta e del rapporto di
provvista si discorrerà di delegazione pura. Qualora invece il delegato abbia assunto l’obbligo nei
confronti del delegatario di pagargli o quanto lui deve al delegante o quanto quest’ultimo deve
al delegatario, si ha la figura della delegazione titolata. Diversa ancora è la delegazione di
pagamento che si ha quando il debitore incarica il delegato non di obbligarsi ma di effettuare
direttamente il pagamento al creditore-delegatario.
L’ESPROMISSIONE
Con l’espromissione (art.1272) un terzo (espromittente) assume di sua spontanea volontà, verso
il creditore (espromissario) il debito di altro soggetto (espromesso) il quale rimane estraneo
all’operazione giuridica. Nell’espromissione il terzo non adempie ma assume solo l’obbligo, in
altri termini, promette che pagherà. L’espromittente è obbligato in solido con il debitore originario
se il creditore non dichiari espressamente di liberare quest’ultimo. Si avrà quindi espromissione
cumulativa se il terzo è obbligato in solido con il debitore originario, ed espromissione liberatoria
o privativa se il creditore libera il debitore originario.
L’ACCOLLO
Anche la cessione del contratto incide sulla titolarità del rapporto obbligatorio. Più che al
contratto, riguarda gli effetti o il contenuto del contratto stesso poiché si possono cedere non i
fatti accaduti bensì i rapporti giuridici che ne sono derivati e che durano oltre l’accadimento
stesso. L’art.1406 dispone che ciascuna parte può sostituire a sé (cedente) un terzo (cessionario)
nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, purchè l’altra parte (ceduto)
vi consenta. La cessione di contratto può essere adottata per varie cause, l’accordo di cessione
non ritiene una forma determinata, si ritiene però che la cessione pretenda la stessa forma del
contratto ceduto. L’art.1406 limita la possibilità di cessione ai soli contratti con prestazioni
corrispettive. Il consenso del contraente ceduto rappresenta a differenza della cessione dei
crediti, un elemento costitutivo della cessione del contratto. Ci sono ipotesi in cui la sostituzione
si raggiunge anche con il solo accordo tra cedente e cessionario, ad esempio nella separazione
consensuale tra coniugi, questi possono pattuire che uno subentri all’altro nel contratto di
locazione. Limiti della cedibilità possono derivare dalla natura del contratto come nel caso in cui,
i contraenti debbano rivestire una particolare qualità. Se il ceduto non libera il cedente, esso
deve dare notizia al cedente dell’eventuale inadempimento da parte del cessionario entro 15
giorni. Se ciò non avviene il cedente ha solo l’obbligo di risarcire i danni. Il cedente è tenuto a
garantire al cessionario la validità del contratto, tuttavia il cedente non è tenuto a garantire al
cessionario che il ceduto adempirà le sue obbligazioni. Una siffatta garanzia può formare oggetto
di un patto espresso. Accanto alla cessione del contratto che si realizza su una base di un
accordo, vi è una cessione legale. qui è la legge a decidere il sub ingresso di un terzo nel rapporto
contrattuale. Altro fenomeno distinto dalla cessione del contratto è il subcontratto, nel quale non
si ha una sostituzione di un soggetto, ma si dà vita ad un nuovo contratto.
Tenuto all’adempimento è soltanto il debitore. Secondo l’art.1180 però, l’obbligazione può essere
adempiuta da un terzo, anche contro la volontà del creditore, se questi non ha interesse al che
il debitore esegua personalmente la prestazione. L’adempimento del terzo è un atto libero in
quanto il terzo interviene spontaneamente senza un preventivo accordo né col creditore
Perché l’adempimento produca l’estinzione dell’obbligazione, è necessario che esso sia esatto o
perfetto. L’esattezza deve essere riscontrata sia sotto il profilo soggettivo, nel senso che la
prestazione deve essere effettuata in favore di chi ne ha diritto, sia sotto il profilo oggettivo, nel
senso che essa deve essere proprio quella dedotta dal rapporto obbligatorio. Il pagamento
effettuato nei confronti di chi non è creditore ne è legittimato a riceverlo non libera il solvens.
Nei rapporti tra il solvens e colui che ha ricevuto il pagamento, che è detto indebito, perché a lui
non dovuto, si verificherà la nascita di un’obbligazione perché quest’ultimo dovrà di norma
restituire quanto ricevuto (art.2033). Il debitore si libera se esegue il pagamento in favore di chi
appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche ed è liberato ove prova di essere
stato in buonafede (creditore apparente). Tuttavia l’apparenza che vale a giustificare il debitore
deve essere basata su fatti oggettivamente controllabili e non essere il risultato di un’impressione
del debitore. Il creditore apparente ha l’obbligo di restituire quanto ricevuto al vero creditore,
liberando così il solvens.
L’esatto adempimento deve essere totale o integrale, nel senso che deve comportare l’esecuzione
di tutta la prestazione dovuta. Infatti, salvo che la legge o gli usi dispongano diversamente, il
creditore può rifiutare l’adempimento parziale. La disposizione in esame non trova esecuzione
quando le prestazioni ripartite siano state espressamente pattuite oppure si debbano ritenere
consentite dalla natura del contratto. Se il creditore vi consenta, l’esecuzione parziale libera il
debitore per la parte eseguita. La prestazione poi, oltre ad essere integrale, deve essere anche
esatta, cioè proprio quella che è stata dedotta nel titolo. Tant’è che il debitore non può liberarsi
eseguendone una diversa, anche se di valore uguale o maggiore. Il creditore ha l’onere di
rifiutare la prestazione inesatta o denunciare l’inesattezza entro un termine fissato dal legislatore
volta per volta. La prestazione diversa, la prestazione in luogo di adempimento (dazio insolutum)
deve essere autorizzata dal creditore. Le parti, in luogo della prestazione originariamente
pattuita si accordano a trasferire un oggetto, se questo oggetto è una cosa determinata la datio
si realizzerà all’atto in cui l’accordo sia stato raggiunto mentre, se si tratta di cose generiche,
l’effetto estintivo si produrrà solo con la specificazione. La prestazione in luogo dell’adempimento
può anche avvenire attraverso una cessione di un credito del debitore verso terzi a favore del
creditore. In questa fattispecie l’obbligazione si estingue e il debitore è liberato soltanto a seguito
della riscossione del creditore da lui ceduto. Se l’obbligazione ha per oggetto la prestazione di
cose determinate solo nel genere, il debitore deve prestare cose di qualità non inferiore alla
media.
Può verificarsi che al momento del pagamento, il debitore abbia più debiti della medesima specie
nei confronti dello stesso creditore. Qualora il debitore effettui un pagamento per un importo che
non comprenda la totalità del valore di tutti i suoi debiti, sarà necessario stabilire a quali debiti
il pagamento vada imputato. Il problema non si pone qualora l’oggetto dei vari debiti sia diverso.
L’art.1193 riconosce al debitore la facoltà di dichiarare, quando paga, quale debito intende
soddisfare. Qualora il debitore non eserciti tale facoltà, l’eventuale imputazione spetta al
creditore. Va precisato che il debitore potrà sempre condizionare l’imputazione effettuata dal
creditore. In mancanza di imputazione sia del debitore che del creditore, il pagamento va
imputato innanzitutto al debito già scaduto, tra più debiti scaduti a quello meno garantito, tra
più debiti ugualmente garantiti al più oneroso, tra più debiti ugualmente onerosi al più antico.
LA NOVAZIONE
La novazione (art.1230) è il primo dei modi di estinzione regolati dal codice. Per novazione
l’obbligazione si estingue quando le parti sostituiscono l’originaria obbligazione con una nuova
obbligazione con oggetto o titolo diverso. Questa è la novazione oggettiva, costituita da un patto
tra creditore e debitore. Con l’originaria obbligazione si estinguono anche i vari privilegi, pegni,
ipoteche che garantivano il credito originale, tale estinzione può essere tuttavia da un’espressa
convenzione delle parti. Il debitore si obbliga ad eseguire una nuova obbligazione. Differente è
la novazione soggettiva, ove non si modifica l’oggetto o il titolo ma bensì viene sostituito il
debitore.
LA COMPENSAZIONE
Quando due soggetti sono obbligati reciprocamente, i due debiti ai sensi dell’art.1241, si
estinguono per le quantità corrispondenti alle condizioni fissate dalle altre norme del codice. La
finalità dell’istituto è quella di porre al sicuro la parte adempiente dal pericolo di non ricevere il
contrapposto pagamento e quindi evitare tra le parti eventuali atti solutori separati. Pertanto
quando un creditore chiede il pagamento al proprio debitore, che sia contemporaneamente suo
creditore, questi anziché adempiere, potrà opporre l’esistenza del proprio credito e quindi la
compensazione. La compensazione legale si verifica soltanto se i due debiti hanno per oggetto
una somma di denaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere e sono liquidi ed
esigibili. La sentenza con cui il giudice rileva l’avvenuta compensazione legale è dichiarativa, cioè
si limita all’accertamento dell’evento. Esistono espressi divieti alla compensazione stabiliti dalla
legge (incompensabilità dei crediti alimentari). Inoltre viene esclusa la compensazione qualora
dei terzi abbiano acquistato diritto di usufrutto o di pegno su uno dei crediti in un periodo
anteriore al momento della coesistenza dei debiti. Chi ha pagato un debito mentre poteva
invocare la compensazione non può più valersi, salvo che ne abbia ignorato l’esistenza per giusti
motivi. Infine abbiamo anche la compensazione volontaria, cioè quella espressa dalla volontà
delle parti anche se non ricorrono alcune condizioni di legge.
LA REMISSIONE
LA CONFUSIONE
IMPOSSIBILITA’ SOPRAVVENUTA
legata alla particolare condizione del debitore, ed assoluta, cioè non attuabile da nessuno. Ad
ogni modo viene considerato impossibile anche la prestazione astrattamente possibile, ma che
richieda uno sforzo troppo elevato al debitore. Inoltre l’impossibilità deve essere totale altrimenti
il debitore si libererà eseguendo la parte che è rimasta possibile della prestazione.
In base all’art.1218 il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al
risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da
impossibilità della prestazione derivante da cause a lui non imputabili. Il debitore ove la sua
obbligazione non sia adempiuta incorre nella responsabilità contrattuale, la quale consiste nella
succedanea obbligazione di risarcire il danno. Se l’inadempimento è assoluto, l’obbligazione di
risarcire il danno, si sostituisce a quella originaria. Se invece l’inadempimento è relativo, l’obbligo
di risarcire il danno si aggiunge alla prestazione dell’obbligazione originaria, che continua ad
essere dovuta.
Prima del definitivo inadempimento può verificarsi una situazione intermedia di ritardo. La
situazione che si determina a seguito di un ritardo è chiamata mora del debitore, essa può
condurre all’inadempimento assoluto se la prestazione non viene più eseguita, ma può essere
anche sanata se il debitore adempie. In tal caso però quest’ultimo non si libera dall’obbligo di
risarcire il danno per il ritardo. Presupposti per la mora sono la scadenza del debito e la colpa
del debitore nel ritardo. Perché il debitore incorra nella responsabilità del ritardo occorre che il
creditore lo costituisca in mora mediante apposita intimazione o richiesta fatta per iscritto. La
mora segna il momento a partire dal quale il ritardo del debitore inizia ad avere conseguenze
giuridiche. In alcuni casi la mora produce i suoi effetti anche senza atto di intimazione da parte
del creditore. Si discorre di mora ex re. La mora è ex re quando il debito deriva da fatto illecito,
quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non voler adempiere, quando la prestazione deve
eseguirsi al domicilio del credito entro un determinato termine. La costituzione in mora produce
principalmente l’effetto di far sorgere l’obbligo del debitore di risarcire il danno cagionato dal
ritardo. Se l’impossibilità sopravviene dopo la costituzione in mora, la posizione del debitore è
aggravata perché egli è responsabile anche per il caso fortuito e la forza maggiore. Il debitore
non è considerato in mora se tempestivamente ha fatto offerta della prestazione dovuta, a meno
che il creditore l’abbia rifiutata per un motivo legittimo.
A seguito dell’inadempimento, il creditore può far valere le sue ragioni sul patrimonio del
debitore. Il creditore per aggredire il patrimonio del debitore, deve necessariamente seguire un
procedimento denominato “esecuzione forzata”. Abbiamo diverse forme di esecuzione forzata:
esecuzione forzata in forma specifica, esecuzione forzata per equivalente, esecuzione forzata per
espropriazione. L’esecuzione forzata in forma specifica viene utilizzata ogniqualvolta sia
configurabile un’identità fra il bene dovuto, il bene aggredito nel patrimonio del debitore e il bene
conseguito. In questo modo il creditore ottiene in modo forzoso, lo stesso risultato che avrebbe
conseguito con lo spontaneo adempimento del debitore, ma ciò non è sempre possibile, infatti
l’oggetto della prestazione potrebbe essere non più esistente sicchè il creditore non è più in
grado di conseguirlo. Quanto alle obbligazione di fare, il creditore potrà ottenere che il facere sia
eseguito da un terzo a spese dell’obbligato. Diverso discorso va fatto per le obbligazioni
consistenti in un fare infungibile, eseguibile cioè solamente dal debitore. In tal caso non sarà
possibile l’esecuzione forzata in forma specifica dell’obbligazione. Nei casi in cui non è possibile
l’esecuzione forzata in forma specifica, il creditore avrà diritto al risarcimento del danno. Ben
diversa dall’esecuzione forzata in forma specifica è il risarcimento del danno in forma specifica.
Quando l’esecuzione forzata in forma specifica non sia possibile, il debitore avrà l’obbligo di
risarcire il danno. Il creditore allora si avvarrà dell’esecuzione forzata per equivalente o per
espropriazione che non presuppongo identità tra bene dovuto, bene aggredito e bene conseguito.
Attraverso queste procedure, i beni del debitore vengono trasformati in denaro a mezzo di
vendite, sul cui ricavato il creditore potrà soddisfarsi.
Altri mezzi contrattuali che rafforzano la posizione del creditore sono la clausola penale e la
caparra. Con la clausola penale (art.1382) creditore e debitore stabiliscono l’entità del danno
che dovrà essere pagato nel caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, la penale
sarà dovuto indipendentemente dalla prova del danno. La penale non è naturalmente dovuta se
il ritardo o l’inadempimento siano dovuti a cause non imputabili al debitore. Diversa dalla clausola
penale è la multa penitenziale che costituisce il corrispettivo per il recesso, ossia la possibilità
per una o l’altra parte di recedere dal vincolo obbligatorio previa corresponsione di una somma
di denaro. A differenza della clausola penale, la caparra confirmatoria può essere dedotta solo in
contratto a prestazioni corrispettive e serve a rafforzare l’intento di obbligarsi delle parti.
Consiste in una somma di denaro o in una certa quantità di cose fungibili e ha la funzione di
rafforzare il vincolo contrattuale e di costituire un deterrente all’inadempimento. Quindi l’altra
parte rispetto all’inadempiente può oltre che recedere il contratto può trattenere la caparra come
risarcimento del danno. Se inadempiente è la parte che ha ricevuto la caparra, l’altra può
recedere il contratto e richiedere il doppio della stessa. Diversa è la caparra penitenziale che è
una clausola che attribuisce, a fronte di una somma versata anticipatamente, ad una o ad
entrambe le parti di recedere dall’impegno assunto.
LA TUTELA SINALLAGMATICA
Ultimo rimedio generale a tutela del credito è l’azione di adempimento mediante la quale il
creditore può ottenere la condanna del debitore ad adempiere. Altro rimedio è quello della
riduzione del prezzo che consente al creditore di ridurre la sua prestazione proporzionalmente al
valore della controprestazione. Altro rimedio ancora è quello dell’eccezione di inadempimento
che consente al creditore di sospendere l’adempimento della propria obbligazione se l’altra parte
non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria.
Per responsabilità patrimoniale si intende lo stato di soggezione del patrimonio del debitore nei
confronti del creditore. L’art.2740 stabilisce che il debitore risponde dell’adempimento delle
obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Se il creditore non riuscirà a soddisfare il
proprio credito per carenza di beni da aggredire, potrà in futuro agire aggredendo ulteriori bene
fino a soddisfarsi. La responsabilità patrimoniale è illimitata poiché solo la legge può prevedere
limitazioni della stessa. Il codice prevede alcune misure per tutelare il credito. Alcune sono di
stimolo alla volontà del debitore affinchè adempia, altre tendono alla conservazione del suo
patrimonio. Per il principio della par condicio credito rum, si può determinare un non
soddisfacimento parziale o totale del creditore interessa, ove l’ammontare dei crediti concorrenti
sia maggiore dell’attivo liquido realizzato con l’espropriazione.
La garanzia generica offerta dal debitor può essere insufficiente. Se vi sono molti creditori la
possibilità di utile recupero delle loro ragioni si assottigliano. I creditori hanno tutti eguale diritto
perché a tutti è offerta la garanzia patrimoniale generica dei beni del debitore, in caso di
inadeguatezza i creditori potranno realizzare solamente una quota percentuale eguale del loro
credito. Un rafforzamento della garanzia per il creditore è realizzato dalle cosiddette garanzie
reali; esse sono il pegno e l’ipoteca e costituiscono insieme ai privilegi, legittime cause di
prelazione (art.2741), in quanto attribuiscono al creditore il diritto di soddisfarsi con preferenza
rispetto agli altri creditori detti chirografari, i quali potranno concorrere soltanto sulle somme
che eventualmente residuino dopo che sia stato pagato integralmente il credito garantito. Tali
garanzie attribuiscono al creditore il diritto di sequela, cioè la possibilità di espropriare il bene da
esse gravato anche se sia stato venduto a terzi. Sono rapporti capaci di vincolare un determinato
bene all’esclusiva garanzia di un determinato creditore. In quanto garanzie, sono caratterizzate
dall’accessorietà, sicchè sono travolte dall’estinzione del rapporto garantito. Il creditore può
procurarsi anche delle garanzie personali. Queste comportano che, in aggiunta al debitore, altro
soggetto sia obbligato ad adempiere per l’ipotesi di inadempimento del primo. Si costituisce un
altro rapporto personale di natura obbligatoria con funzione di garanzia, avente per soggetto
attivo il creditore stesso, ma per soggetto passivo non il debitore bensì un terzo, e cioè il garante.
Quest’ultimo potrebbe essere inadempiente, ma in tal caso il creditore avrà la possibilità di
soddisfarsi non su uno, bensì su due patrimoni (debitore principale e garante). In questa garanzia
generica consiste appunto il vantaggio per il creditore.
Tipico istituto che realizza la garanzia personale a carico di terzi è la fideiussione (art.1936-
1957). Il rapporto che ne deriva e che vincola anche un altro soggetto (fideiussore) è accessorio,
perché diretto a garantire l’obbligazione principale senza la quale non potrebbe valere. La
fideiussione non è valida se non è valida l’obbligazione principale, salvo che sia prestata per
un’obbligazione assunta da un incapace. La fideiussione non può eccedere ciò che è dovuto dal
debitore, né può essere prestata a condizioni più onerose. La garanzia fideiussoria nasce da un
accordo tra il credito ed il fideiussore anche all’insaputa o contro la volontà del debitore. Sarà
necessaria la volontà espressa del fideiussore di garantire l’obbligazione del debitore. Dal punto
di vista strutturale, la fideiussione è un contratto a favore di terzo (il creditore) concluso tra il
garante ed il debitore o di un negozio unilaterale del fideiussore rifiutabile dal creditore. Il
fideiussore può garantire un debito condizionale o futuro. Nota è la figura della fideiussione
omnibus che si configura allorquando un soggetto, a fronte di un’apertura di credito in suo favore
da parte della banca, offre a garanzia il patrimonio di un fideiussore che garantirà la banca per
tutte le obbligazioni che il beneficiario del credito assumerà nei confronti della banca stessa. Tale
contratto è destinato alla garanzia di tutti i debiti presenti e futuri del debitore verso la banca.
Tale operazione trova limite nell’art.1956 secondo cui il fideiussore per un’obbligazione futura è
liberato se il creditore ha fatto credito al terzo, pur conoscendo che le condizioni patrimoniali
erano tali da rendere notevolmente più difficile il soddisfacimento del credito. Il legislatore
esclude la liberazione del fideiussore nel caso in cui la banca, senza speciale autorizzazione del
garante, faccia credito al debitore, pur essendo a conoscenza della sua negativa situazione
economica. Ulteriore tutela per il fideiussore che garantisce per le obbligazioni future è quella
predisposta dall’art.1938 secondo cui è necessaria la fissazione di un importo massimo garantito
oltre il quale il fideiussore non risponde. Le parti possono prevedere che il fideiussore non sia
tenuto a pagare prima dell’escussione del debitore principale. Ove il fideiussore venga convenuto
dal creditore deve indicare i beni del debitore principale da sottoporre ad esecuzione. Il debito si
divide in tanti parti quanti sono i fideiussori e ogni fideiussione può esigere che il creditore
richieda solo la sua parte. Il fideiussore rimane vincolato anche dopo la scadenza
dell’obbligazione principale purchè il creditore entro 6 mesi abbia proposto le sue istanze contro
il debitore e le abbia diligentemente continuate. Se il fideiussore ha limitato la sua fideiussione
allo stesso termine dell’obbligazione principale, il termine, che il creditore ha per proporre e per
continuare le proprie istanze contro il debitore è ridotto a 2 mesi. Il fideiussore che ha pagato il
debito è surrogato nei diritti del creditore. Se vi sono più debitori principali obbligati in solido, il
fideiussore che ha garantito per tutti può esercitare l’azione di regresso nei confronti di ciascuno
di essi per ripetere integralmente ciò che ha pagato. L’azione di regresso non può essere
esercitata dal fideiussore se ha omesso di avvisare il debitore del pagamento fatto, e quest’ultimo
abbia ugualmente pagato il debito. Se il fideiussore ha pagato senza averne dato avviso al
debitore principale, questi può opporgli le eccezioni che avrebbe potuto opporre al creditore
all’atto del pagamento. In entrambi i casi è fatta salva al fideiussore l’azione per la ripetizione
contro il creditore. Il fideiussore può evitare i rischi derivanti dal dovere agire in regresso, agendo
nei confronti del debitore affinchè questi gli procuri la liberazione o presti le garanzie necessarie
per assicurargli il soddisfacimento delle eventuali ragioni di regresso quando il fideiussore stesso
sia convenuto in giudizio per il pagamento; quando il debitore sia divenuto insolvente; quando
il debitore si sia obbligato di liberarlo dalla fideiussione entro un tempo determinato; quando il
debitore sia divenuto esigibile per la scadenza del termine; quando siano decorsi 5 anni e
l’obbligazione principale non abbia un termine. La fideiussione si estingue per il venir meno
dell’obbligazione principale o quando la surrogazione del fideiussore nei diritti, nel pegno, nelle
ipoteche, o nei privilegi, del creditore non possa avere effetto per fatto attribuibile al debitore.
Non è sufficiente l’inerzia del creditore, né è rilevante l’eventuale maggiore difficoltà ad attuare
il diritto di surroga per la diminuita consistenza del patrimonio del debitore. Altra forma di
garanzia personale è prevista in materia di titoli di credito ed è costituita dall’avallo, con cui si
garantisce il pagamento di una cambiale o di un assegno. Particolarità è rappresentata
dall’autonomia dell’obbligazione dell’avallante rispetto all’obbligazione garantita. Diffusa nella
prassi bancaria è la lettera di gradimento o lettre de patronage, con cui un soggetto presenta un
aspirante mutuario alla banca che deve concedere il mutuo, fornendo notizie sul conto di tale
soggetto e rassicurando sulla serietà e solidità finanziaria ed economica. Quest’ultimo ha
l’obbligo di non dichiarare il falso e di fornire notizie diligentemente controllate e vagliare. In
caso contrario, potrebbe configurarsi un’ipotesi di dolo del terzo, e risponde delle responsabilità
extracontrattuali. Alla stessa funzione di garanzia personale assolve anche il mandato di credito.
Se una persona si obbliga verso un’altra a fare credito a un terzo, quella che ha dato l’incarico
risponde come fideiussore di un debito futuro. Esempio può essere il caso in cui due genitori
diano incarico ad una banca affinchè questa apra un conto corrente in favore del loro figlio
minorenne.
Il principio della par condicio creditorum stabilisce che se un debitore ha più creditori, questi
hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore. Qualora più creditori abbiano
promosso l’espropriazione forzata ed il ricavato della vendita non sia sufficiente a soddisfare
integralmente le loro pretese, vi sarà una ripartizione del ricavato proporzionale all’ammontare
dei corrispondenti crediti. Nel caso in cui la consistenza patrimoniale del debitore non sia
sufficiente a soddisfare le pretese di tutti i creditori, i meno solleciti rimarranno insoddisfatti. A
questi creditori non rimarrà che intentare una nuova procedura esecutiva su qualche bene
scampato alla precedente procedura o su quelli che dovessero subentrare nel patrimonio del
debitore. La parità di trattamento si attuerà solo nell’ambito dei creditori che avranno
diligentemente tutelato il proprio credito. Nel caso in cui l’azione esecutiva è collettiva (es.
fallimento) è la stessa legge ad assicurare la parità di trattamento tra i creditori e sarà compito
di un soggetto terzo curare gli interessi di tutti i creditori. Il principio della par condicio creditorum
non è assoluto, infatti, la legge prevede cause legittime di prelazione in presenza delle quali il
creditore che ne sia titolare (creditore privilegiato) è preferito nel riparto della somma ricavata
dalla vendita forza dei beni del debitore, rispetto agli altri creditori che non ne possono vantare
(creditori chirografari). Il creditore privilegiato ha diritto di far valere per intero il suo credito sul
bene oggetto di prelazione. Il creditore munito di una causa di prelazione gode del diritto di
sequela o di seguito sullo stesso bene, nel senso che può aggredirlo anche se il debitore lo abbia
alienato a terzi. Il creditore chirografario per poter aggredire il bene fuoriuscito dal patrimonio
del debitore, deve prima esercitare vittoriosamente l’azione revocatoria. L’art.2741 enumera tra
le cause di prelazione, i privilegi, il pegno e le ipoteche. Rappresentano ipotesi per le quali la
legge determina l’ordina de seguire tra i creditori preferiti sia tra le diverse cause di prelazione
sia nell’ambito della stessa causa di prelazione. Se la cosa soggetta a privilegio, pegno o ipoteca
perisce o è deteriorata, il creditore perde la possibilità di esercitare il diritto di prelazione. Se il
debitore si era assicurato contro i danni, si verifica un’ipotesi di surrogazione reale, in cui
l’impresa di assicurazione pagherà l’indennità ai creditori privilegiati e non al debitore.
I PRIVILEGI
I privilegi sono accordati direttamente dalla legge in considerazione della natura di taluni crediti
ritenuti meritevoli di una maggior tutela. La loro fonte è dunque legale sicchè essi rappresentano
una qualità del credito il quale nasce in effetti già assistito dal privilegio. Le parti non possono
creare privilegi oltre quelli stabiliti dalla legge, in qualche caso, la legge condiziona l’esistenza
del privilegio alla volontà; ed in tale ipotesi si parla di privilegio convenzionale. In altri casi, la
sua efficacia è subordinata al fatto che il creditore detenga presso di sé il bene oggetto della
prelazione, come nel caso del privilegio dell’albergatore per il corrispettivo dei suoi servizi e
somministrazioni; in tale ipotesi si parla anche di pegno legale. I privilegi garantiscono un
determinato credito individuato dalla legge. Essi possono essere di vari tipi. Sono in particolare
mobiliari o immobiliari; sono poi speciali quando la prelazione è attribuita sul ricavato dalla
vendita di un determinato bene; sono generali allorchè possa attuarsi su tutti i beni del debitore.
Il privilegio generale non costituisce un diritto soggettivo, ma un modo di essere o una qualità
del credito e non attribuisce il diritto di sequela. Il privilegio generale sui mobili non può
esercitarsi in pregiudizio dei diritti spettanti ai terzi sui mobili che ne formano oggetto. Il
privilegio speciale costituisce un diritto reale di garanzia ed è per questo che è munito del diritto
di sequela. Il privilegio speciale si può far valere anche in danno di terzi acquirenti dei beni su
cui essi gravano. Il credito assistito da privilegio speciale risente delle vicende che interessano
la cosa sulla quale il privilegio grava. Il perimento totale o parziale della cosa incidono sul
privilegio, estinguendolo o riducendolo proporzionalmente. Ove due crediti privilegiati vengano
fatti valere sul medesimo bene, il concorso dei creditori è regolato, in virtù di un ordine che è
stabilito dalla legge, in considerazione del rilievo e della tutela accordata a ciascuna dei crediti
concorrenti. Di norma il privilegio speciale prevale rispetto a quello generale: tuttavia, esistono
privilegi generali che, per la loro valenza sociale, vengono anteposti a quelli speciali. Se i crediti
hanno pari privilegio, essi concorreranno tra loro in proporzione del rispettivo importo. Il credito
garantito da pegno prevale su quello assistito da privilegio speciale mobiliare, quello assistito da
privilegio speciale immobiliare prevale sul credito ipotecario. Se un privilegio prevale sul pegno,
prevarrà anche su altri privilegi proposti al pegno, pur se essi siano di grado anteriore. In taluni
casi la legge prevede che il credito assistito da privilegio generale mobiliare possa essere
soddisfatto sussidiariamente sul prezzo ricavato dalla vendita degli immobili di proprietà del
debitore. In tal caso il privilegio generale non diviene immobiliare perché si esercita sul bene
mobile denaro. Di conseguenza il creditore non ha diritto di sequela ed è tutelato nei confronti
di chi ha iscritto ipoteca o è divenuto titolare di un privilegio speciale.
IL PEGNO
Il pegno (art.2784) è una garanzia reale che conferisce al creditore garantito (pignoratizio) la
prelazione e la sequela su un bene mobile di proprietà del debitore o di un terzo datore
(costituente). Possono essere oggetto di pegno non solo i beni mobili, ma anche le universalità
di mobili, i crediti e altri diritti aventi per oggetto beni mobili. La cosa resta riservata al futuro
soddisfacimento del creditore e costui, in caso d’inadempimento dell’obbligazione, può far
vendere la cosa ricevuta in pegno od anche domandare al giudice che la cosa gli venga assegnata
in pagamento fino alla concorrenza del debito. Le parti possono anche stabilire al riguardo
modalità particolari. Unico limite è costituito dal divieto del patto commissorio. Il creditore ha
diritto di soddisfarsi sul ricavato della vendita con prelazione rispetto agli altri creditori e ciò
anche se la cosa sia passato in proprietà di terzi. Se la cosa si deteriora in modo da far temere
che essa divenga insufficiente alla sicurezza del creditore, questi può in ogni momento chiedere
al giudice l’autorizzazione alla vendita, con accantonamento del ricavato a garanzia del credito.
Eguale diritto ha il costituente. Il pegno ha natura accessoria, sicchè se è invalido il rapporto
principale, esso risulta privo di causa. Il pegno si costituisce con apposito contratto tra il creditore
e il proprietario del bene oggetto della garanzia che si perfeziona con la consegna della cosa al
creditore o ad un terzo designato dalle parti sicchè si configura come contratto reale. Per la
costituzione del diritto è necessario che l’accordo sia riversato in atto scritto, avente data certa,
se il valore del credito garantito ecceda la somma di euro 2,58. Il creditore può esercitare tutte
le azioni a difesa del possesso della cosa, ove l’abbia perduto, nonché l’azione di rivendicazione
se questa spetta al costituente. Il creditore non può, senza il consenso del costituente, usare
della cosa, salvo che l’uso sia necessario per la sua conservazione, né concederne ad altri il
godimento. È vietato il subpegno perché il creditore pignoratizio non può disporre della cosa che
ha ricevuto in pegno e quindi non può darla a sua volta in pegno. Se il creditore abusa della
cosa, il debitore può ottenere il sequestro della cosa stessa. Il creditore può far suoi i frutti della
cosa, imputandoli alle spese e agli interessi e poi al capitale. Il creditore è tenuto a custodire la
cosa ricevuta in pegno e risponde della perdita e del deterioramento di essa. È tenuto a restituire
la cosa quando il debito è stato interamente pagato. Il pegno è indivisibile e garantisce il credito
finchè questo non è integralmente soddisfatto. Il debitore ha diritto di non versare la somma
dovuta se il creditore non restituisce la cosa o non ne dimostra il perimento dovuto a causa a lui
non imputabile. Il pegno può avere ad oggetto crediti e in questo caso il creditore pignoratizio
sarà tenuto a riscuotere il credito ricevuto in pegno e, se questo ha per oggetto danaro o altre
cosa fungibili, deve effettuarne il deposito nel luogo stabilito d’accordo o altrimenti determinato
dall’autorità giudiziaria. Prima della scadenza del credito oggetto di pegno il credito pignoratizio
è tenuto a riscuotere gli interessi del credito e le altre prestazioni periodiche. Il debitore del
credito dato in pegno può opporre al creditore pignoratizio le eccezioni che gli spetterebbero
contro il proprio creditore. Per il pegno di un credito occorrono, ai fini della prelazione, l’atto
scritto e la notifica della costituzione al debitore o la sua accettazione con un atto di data certa.
Non è necessario lo spossessamento la cui funzione è rendere conoscibile il vincolo, ed è già
prestata dalla notificazione al debitore. Si discute se sia ammissibile un pegno su un credito
futuro. Tale figura viene ammessa solo se sussiste il rapporto giuridico dal quale il credito
garantito potrà nascere e non già se tale rapporto potrà eventualmente nascere in futuro tra le
parti. Ammissibile è il pegno su cosa indivisa. Il pegno grava sulla quota e lo spossessamento è
possibile soltanto con il consenso di tutti i condomini. Discussa è la figura del pegno irregolare.
A garanzia del soddisfacimento di un credito dal debitore vengono consegnate al creditore cose
fungibili. Qualora il credito dovesse effettivamente sorgere il creditore ha la possibilità di
compensare il credito che vanta in tutto o in parte con la somma ricevuta in pegno. Se il debitore
sarà inadempiente, il creditore pignoratizio sarà tenuto a restituire una cosa dello stesso genere
e qualità. Si è fuori dalla fattispecie del pegno che dà luogo ad un diritto reale su cosa
determinata della quale il creditore non acquista la proprietà. Il pegno si estingue di regola con
l’estinzione dell’obbligazione garantita, o per rinuncia alla garanzia da parte del creditore
pignoratizio o dell’estinzione del diritto gravato dalla garanzia.
L’IPOTECA
Con l’ipoteca il creditore acquista una garanzia reale su un determinato bene immobile del
debitore o di un terzo (datore d’ipoteca). Il bene rimane nella disponibilità del proprietario ma il
creditore può soddisfarsi con prelazione rispetto agli altri creditori. L’ipoteca è un diritto reale
sicchè attribuisce al creditore il diritto di sequela. Possono essere oggetto di ipoteca gli immobili
che sono in commercio con le loro pertinenze, i mobili registrati e le rendite dello Stato. L’ipoteca
si estende ai miglioramenti, alle costruzioni e alle accessioni dell’immobile ipotecato. Possono
essere garantite anche obbligazioni risultanti da titoli all’ordine o al portatore. In caso di titoli
all’ordine l’ipoteca viene iscritta a favore dell’attuale possessore e si trasmette ai successivi
possessori che non sono tenuti ad effettuare l’annotazione sul titolo. Per i titoli al portatore
l’ipoteca a favore degli obbligazionisti deve essere iscritta con l’indicazione dell’emittente, della
data dell’atto di emissione, della serie, del numero e del valore delle obbligazioni. L’ipoteca può
essere costituita su un bene in comunione e in questo caso la garanzia va concessa da tutti i
condomini sull’intero bene o dal singolo comproprietario sulla propria quota. Formano oggetto di
ipoteca anche i diritti reali di godimento su beni escluse le servitù. In caso di ipoteca
sull’usufrutto, la garanzia si estingue al cessare dell’usufrutto. In caso di ipoteca sulla nuda
proprietà, l’estinzione dell’usufrutto determina l’acquisto della proprietà piena a favore di chi ha
concesso l’ipoteca e conseguentemente si estende ad essa anche l’ipoteca. Nel caso sia costituita
su un diritto di enfiteusi, l’ipoteca gravante sul diritto dell’enfiteuta si estende alla piena proprietà
e l’ipoteca gravante sul diritto del concedente si risolve sul prezzo dovuto per l’affrancazione. In
caso di devoluzione o cessazione dell’enfiteusi, le ipoteche si risolvono sul prezzo dovuto per i
miglioramenti. Solo se l’enfiteusi si estingue per prescrizione, si estingue l’ipoteca. Caratteristica
dell’ipoteca è l’indivisibilità, che sussiste per intero sopra tutti i beni vincolati, sopra ciascuno di
essi e sopra ogni parte. L’ipoteca garantisce il credito fino alla sua estinzione. L’ipoteca segue il
bene e abilita il creditore ad agire nei confronti del terzo acquirente e non è personalmente
obbligato, può pagare il debito garantito ed evitare l’espropriazione. Il terzo acquirente può
rilasciare il bene ai creditori con una dichiarazione resa presso la cancelleria del Tribunale
competente per l’espropriazione in maniera che quest’ultima non avvenga contro di lui, ma
contro l’amministratore dei beni. Il terzo può liberare il bene dalle ipoteche attraverso la
purgazione delle ipoteche, cioè attraverso l’offerta al creditore ipotecario di una somma pari al
prezzo d’acquisto del bene, o pari al valore dello stesso da lui dichiarato, se si tratta di beni
acquistati a titolo gratuito. Se nessun creditore offre di acquistare il bene per un prezzo superiore
di almeno un decimo a quello offerto dal terzo acquirente, il bene è liberato dall’ipoteca in seguito
al pagamento della somma offerta dal terzo acquirente. Questo ha diritto di sub ingresso nelle
ipoteche costituire a favore del creditore soddisfatto sugli altri beni del debitore. Differente
posizione è quella del terzo datore d’ipoteca che non assume nessuna obbligazione nei confronti
del creditore ipotecario e non può essere condannato ad adempiere alcuna obbligazione nascente
dal rapporto garantito. Il terzo datore può solo pagare i crediti ipotecati. Non può invocare il
beneficio della preventiva escussione del debitore, a meno che tale beneficio non sia stato
espressamente convenuto. Sia il terzo acquirente che il terzo datore d’ipoteca possono far valere,
nei confronti del creditore, le eccezioni non fatte valere dal debitore o quelle spettanti a
quest’ultimo dopo la condanna. L’ipoteca si costituisce mediante iscrizione del titolo nei registri
immobiliari del luogo in cui si trova l’immobile. L’iscrizione è una forma di pubblicità e ha natura
costitutiva perché completa la fattispecie che determina la nascita del diritto. I titoli costitutivi
dell’ipoteca sono di tre tipi: a) legale; b) giudiziale; c) volontario. L’ipoteca è legale quando è
direttamente la legge a stabilire a quale creditore competa, per la garanzia di quale credito e su
quali beni. È riconosciuta all’alienante sui beni alienati ed a garanzia del pagamento del prezzo
nella compravendita di immobili e di autoveicoli, e ai coeredi, ai soci e agli altri condividenti per
il pagamento dei conguagli sopra gli immobili assegnati ai condividenti ai quali incombe l’obbligo
di pagare il conguaglio in conseguenza del fatto che il valore del bene ricevuto è maggiore della
rispettiva quota. La previsione di legge non è sufficiente a costituire l’ipoteca; è necessaria
l’iscrizione che avviene d’ufficio ad opera del Conservatore dei registri immobiliari. Tali ipoteche
prevalgono sulle trascrizioni o iscrizioni già eseguite contro l’acquirente o il condividente. È
necessario che l’iscrizione avvenga contemporaneamente con la trascrizione del titolo di acquisto
o della divisione. L’ipoteca può essere giudiziale; titolo per la sua iscrizione sui beni del debitore
è ogni sentenza di condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione
ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente, nonché tutti gli altri
provvedimenti giudiziari ai quali la legge attribuisce tale effetto (lodi, sentenze, decreti).
L’ipoteca è volontaria se è concessa sulla base di un contratto o anche di una dichiarazione
unilaterale del debitore, da farsi, a pena di nullità, per atto pubblico o per scrittura privata. Si
esclude la possibilità di costituire ipoteca volontaria per testamento. Legittimato a concedere
l’ipoteca è il proprietario del bene e nel caso in cui la concessione avviene ad opera di un
rappresentante senza poteri, l’iscrizione può essere validamente effettuata solo quando il
proprietario abbia ratificato la concessione stessa. Per l’ipoteca su cosa futura valgono le stesse
considerazioni, cioè è validamente iscritta solo quando la cosa sia venuta ad esistenza e fino a
quel momento il costituente ha l’obbligo di fare in modo che la cosa venga ad esistenza. Un bene
immobile può essere oggetto anche di una pluralità di ipoteche. Esse non conferiscono ai creditori
uguale diritto, si applica un ordine di tipo temporale in virtù del quale l’ipoteca che è stata iscritta
anteriormente prevale su quelle iscritte successivamente. Al fine di evitare che il creditore iscriva
ipoteca per una somma di molto superiore al proprio credito o su una quantità eccessiva di beni,
la legge ammette la riduzione dell’ipoteca che si attua in alcuni casi, riducendo la somma per la
quale è stata presa l’iscrizione, in altri casi restringendo l’iscrizione a una parte soltanto dei beni.
L’iscrizione del credito fa collocare nello stesso grado, oltre il credito principale, anche le spese
dell’atto di costituzione d’ipoteca. L’ordine di preferenza tra più creditori ipotecari è determinato
dalla data dell’iscrizione. Ogni iscrizione riceve un numero d’ordine in base all’ordine temporale
di presentazione delle richieste e tale numero d’ordine determina il grado dell’ipoteca. Precedere
qualche creditore ipotecario nell’ordine significa avere maggiori possibilità di vedere soddisfatto
il proprio credito. ESEMPIO: Tizio iscrive ipoteca per primo su immobile per 100.000 euro; Caio
iscrive ipoteca per secondo su stesso immobile per 100.000 euro; se dalla vendita si ricava solo
100.000, Tizio soddisfa interamente il credito, mentre Caio per niente. Se due o più persone si
presentano a chiedere l’iscrizione contro la stessa persona o sugli stessi immobili, le iscrizioni
sono eseguite sotto lo stesso numero e i creditori concorrono tra loro in proporzione dell’importo
dei loro crediti. È consentito lo scambio di grado tra creditore ipotecari purchè non leda i creditori
aventi gradi successivi. ESEMPIO: su uno stesso immobile gravano 3 ipoteche di grado diverso:
1) Tizio di 1°grado per 100.000 euro; 2) Caio di 2°grado di 200.000 euro; 3) Sempronio di
3°grado di 300.00 euro; Tizio può scambiare posto con Caio poiché a Sempronio non cambia
nulla, ma se è Sempronio a voler scambiarsi con Tizio, in questo caso lede il diritto di Caio. Al
fine di evitare un’ingiusta compromissione la legge consente a Sempronio di soddisfarsi al
massimo per 100.000 euro (cifra richiesta anche da Tizio), dopodiché tocca a Caio soddisfarsi
per i suoi 200.000 euro, e di conseguenza di nuovo a Sempronio, e in ultimo a Tizio. Il creditore
ipotecario può soddisfare la pretesa di altro creditore che vanti un’ipoteca anteriore surrogandosi
nella sua posizione: surrogazione reale. La surrogazione nel grado ipotecario può avvenire in
forza della legge allorchè si verificano i presupposti della surrogazione del creditore perdente.
ESEMPIO: Debitore ha due fondi (Corneliano e Aureliano), sul primo si ha ipoteca di Tizio del
1990 per 100.000 euro, e Sempronio del 2000 per 50.000 euro, sul secondo si ha ipoteca di tizio
del 1990 per 100.000 euro, e Caio del 1995 per 50.000. Se Tizio espropria il fondo Aureliano,
che viene venduto per 100.000 euro, si soddisfa interamente e Caio né per uno e né per l’altro
anche se è anteriore alla proposta di Sempronio. La legge ha previsto un meccanismo in base al
quale Caio potrà surrogarsi nell’ipoteca che Tizio aveva sul fondo Corneliano a tutto svantaggio
di Sempronio che dovrà subire il rischio di rimanere insoddisfatto se dalla vendita del fondo in
questione non si dovesse ricavare abbastanza per soddisfare anche le sue pretese. L’iscrizione
dell’ipoteca conserva il suo effetto per 20 anni dalla sua data. Per evitare l’estinzione
dell’iscrizione si procede alla rinnovazione che deve eseguirsi prima che scadano i 20 anni. Può
estinguersi il diritto di ipoteca o attraverso il perimento della cosa oggetto dell’ipoteca, o lo
spirare del termine per la cui durata l’ipoteca era stata concessa, o l’esercizio dell’azione
ipotecaria, o per la rinuncia del titolare, o per l’estinzione del debito garantito. L’ipoteca è
soggetta a una propria prescrizione che vale soltanto contro il terzo acquirente che non è
obbligato personalmente. Tale prescrizione ha durata di 20 anni dalla data di trascrizione dell’atto
di acquisto da parte di terzo. Una volta che l’ipoteca si sia estinta si potrà procedere alla
cancellazione che può essere consentita dal creditore o essere ordinata dal giudice. Nel primo
caso, l’atto di consenso alla cancellazione deve provenire da persona capace e deve rivestire le
forme richieste per il negozio di concessione dell’ipoteca, nel secondo caso, essa non può essere
effettuata se la sentenza non è passata in giudicato.
Si ha la decadenza del beneficio del termine di adempimento previsto in favore del debitore
qualora quest’ultimo abbia diminuito le garanzie prestate o non abbia dato quelle promesse o
sia venuto a trovarsi in una situazione di insolvenza. Decade anche per il debitore che abbia
seriamente manifestato per iscritto la sua intenzione di non volere o potere adempiere. Ciò
consente al creditore di esigere immediatamente la prestazione di agire tempestivamente in via
esecutiva, o di intervenire nell’esecuzione eventualmente già iniziata da altri creditori. Il creditore
evita il rischio di intraprendere l’azione esecutiva quando nel patrimonio del debitore non vi siano
più beni da aggredire. Se il debitore non offre in garanzia altri beni in sostituzione di quelli periti
o deteriorati, il creditore pignoratizio o ipotecario può chiedere l’immediato pagamento del suo
credito. Ciò vale anche per la vendita a rate, ove il mancato pagamento di una pluralità di rate
o anche una sola che ecceda l’ottava parte del prezzo, legittima il creditore a pretendere il
pagamento dell’intero importo.
LA SURROGAZIONE REALE
Si parla di surrogazione reale quando, per volontà di legge, si sostituisce una cosa a un’altra
quale oggetto di un rapporto giuridico. Si tratta del riconoscimento, in favore del creditore, di un
diritto di sub ingresso nei diritti del debitore allorchè la prestazione avente ad oggetto una cosa
determinata sia divenuta impossibile.
La tutela del credito nei confronti dell’inadempimento ha limiti insuperabili. Infatti è nullo il patto
con il quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la
proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto commissorio è vietato
anche se accede ad un contratto di anticresi. Il divieto si estende anche ai patti che abbiano ad
oggetto beni non gravati da alcuna garanzia reale. Sono vietati tutti quei negozi mediante i quali
le parti intendono realizzare un fine concreto vietato dalla legge. Siffatti accordi saranno
dichiarati nulli in quanto stipulati in frode alla legge. La finalità del divieto è individuata nella
lotta a fenomeni usurari che si nasconderebbero nel patto o nella tutela del debitore in stato di
bisogno dalle coartazioni del creditore. Il patto non è valido nemmeno qualora sussista una
sproporzione tra consistenza del credito e valore del bene oggetto della garanzia. È lecito il patto
marciano con il quale il creditore, nell’ipotesi di inadempimento, diventa proprietario della cosa
ricevuta in garanzia, ma non prima di aver corrisposto al debitore la differenza tra l’ammontare
del credito e l’eventuale maggior valore del bene oggetto della garanzia.
Il diritto di ritenzione è uno strumento di tutela del credito che consiste in uno stimolo per il
debitore ad adempiere. L’ordinamento consente al creditore di trattenere legittimamente una
cosa del debitore sino all’adempimento. Trova origine nella legge (in questo caso è opponibile ai
terzi) o nella volontà delle parti. Può essere usato solo nelle ipotesi previste dalla legge e non
per analogia, altrimenti, la ritenzione dell’oggetto integra un illecito penale (estorsione). La
ritenzione ha funzione rafforzativa, perché stimola il debitore a pagare per ottenere la
restituzione; conservativa, perché il creditore può trattenere il bene finchè non viene soddisfatto
dal debitore; e infine è una fattispecie di autotutela. Si parla di ritenzione privilegiata quando i
creditori possono ritenere la cosa finchè il loro credito non sia soddisfatto oppure venderla
secondo le norme stabilite per il pegno. Se il diritto di ritenzione è attribuito ad un creditore
chirografario allora si parla di ritenzione semplice e questi può solo ritenere la cosa fino
all’adempimento. Particolare forma del diritto di ritenzione si ha nel pegno gordiano, ovvero un
debitore concede in pegno un bene al suo creditore ma nel frattempo contrae altro debito con
questi; il creditore potrà legittimamente esercitare il diritto di ritenzione sullo stesso oggetto.
L’AZIONE SURROGATORIA
L’AZIONE REVOCATORIA
Di fronte al pericolo di una esecuzione forzata, il debitore può essere indotto a sottrarre i propri
beni alle pretese del creditore, facendo in modo che la titolarità di questi passi ad altri soggetti.
Siffatta operazione può essere conclusa o fingendo di stipulare alienazioni con amici compiacenti
o concludendo effettivamente delle vendite dalle quali il debitore preferisce ricevere meno del
valore effettivo dei beni. Nella prima ipotesi il creditore potrà invocare le norme in tema di
simulazione per tutelare le sue ragioni, mentre nella seconda potrà avvalersi dell’azione
revocatoria. Il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a termine o solamente
eventuale, può domandare che non siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di
disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni. Tale azione è
detta pauliana o revocatoria ordinaria. L’azione revocatoria protegge il creditore da eventuali atti
con i quali il debitore si liberi dei suoi beni alienandoli in modo da sottrarli alle azioni esecutive
del creditore o da renderle più difficili. L’azione in questione è subordinata a taluni presupposti.
Ci si deve trovare dinnanzi ad un atto di disposizione, da parte del debitore, di beni che
compongono il suo patrimonio, tale da poter arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore.
Sicchè, ove l’atto non pregiudichi la garanzia patrimoniale offerta al creditore, esso non potrà
essere impugnato. Un atto di disposizione, seppur diminuisca notevolmente la garanzia
patrimoniale, non è pregiudizievole delle ragioni del creditore se nel residuo patrimonio del
debitore permangono beni di valore complessivo ampiamente superiore all’entità del debito. Non
costituisce pregiudizio l’adempimento di un debito scaduto, atteso che il debito già incideva sul
patrimonio del debitore. Allo stesso modo non sono considerati pregiudizievoli gli atti di
disposizione compiuti dal debitore al fine di effettuare il pagamento del debito scaduto. Può
esserci pregiudizio per il creditore in caso di datio in solutum, qualora viene data in pagamento
una cosa di valore superiore all’oggetto del debito ed in caso di novazione. Ulteriore condizione
per l’utile esercizio della revocatoria è di tipo soggettivo: essa è data dalla conoscenza da parte
del debitore del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni del creditore (scientia damni). Se l’atto
di disposizione è anteriore al sorgere del credito, non basta la conoscenza, ma è necessario che
esso sia stato dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il futuro creditore. L’ordinamento
tutela il terzo che abbia acquistato un diritto sul bene a titolo oneroso. Questi è danneggiato
dalla revocatoria ma gli residua la possibilità di chiedere al debitore la restituzione del
corrispettivo pagato. In questo caso è necessario dimostrare che anche il terzo era consapevole
della dannosità dell’atto. Se l’atto di disposizione a titolo oneroso sia anteriore al sorgere del
credito, per la revoca è indispensabile dimostrare che il terzo abbia partecipato alla dolosa
preordinazione volta al pregiudizio del creditore. L’azione revocatoria non determina l’effetto
restitutorio della retrocessione del bene al debitore in quanto il bene trasferito resta a tutti gli
effetti nella titolarità di chi lo ha acquistato e non rientra nel patrimonio del debitore. Si tratta di
un’efficacia relativa perché riguarda il creditore revocante, che solo dover aver esperito
vittoriosamente l’azione, può procedere all’esecuzione forzata sul bene. Gli altri creditori, rimasti
inerti, non possono né aggredire il bene né possono intervenire nel procedimento esecutivo. A
differenza dell’azione surrogatoria, la revocatoria non ricostituisce effettivamente la consistenza
del patrimonio del debitore. E mentre gli effetti della surrogatoria avvantaggiano tutti i creditori,
essa fa sì che un bene rimanga o sia acquisito nella titolarità e nel patrimonio del debitore, gli
effetti della revocatoria avvantaggiano solo il creditore procedente. L’azione revocatoria si
prescrive in 5 anni dalla data in cui l’atto di disposizione dell’atto lesivo è compiuto.
IL SEQUESTRO CONSERVATIVO
Quando il creditore ha il fondato sospetto di perdere le garanzie del proprio credito può chiedere
al giudice il sequestro conservativo dei beni stessi. Effetto principale del sequestro è
rappresentato dal fatto che i beni vengono sottratti alla disponibilità del debitore. Funzione
principale del sequestro conservativo è quella di impedire che i beni del debitore sfuggano ad
un’eventuale azione esecutiva del creditore. Oltre ad una sottrazione giuridica, il sequestro
comporta anche una sottrazione materiale, in quanto i beni sequestrati vengono affidati per
l’ordinaria amministrazione ad un custode che, tuttavia, può anche essere individuato nella
persona dello stesso debitore. Si tratta di un rimedio preventivo, utile in particolare rispetto ai
beni mobili che difficilmente potrebbero essere recuperati dal creditore con l’esercizio dell’azione
revocatoria, e di una misura cautelare che presuppone una certa urgenza da parte del creditore
nel tutelare le sue ragioni. Per ottenere tale misura è necessario dimostrare di essere creditore
e provare l’esistenza di un fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito e che ciò sia
ricollegabile ad un comportamento del debitore. Il pericolo di subire danno può riguardare
l’eventualità di una sottrazione materiale, di un danneggiamento, di una distruzione o
dell’alienazione di beni.
Le fonti dell’obbligazione sono il contratto, il fatto illecito, ed ogni altro atto o fatto idoneo a
produrla in conformità dell’ordinamento giuridico (art.1173). Il codice prevede un sistema
aperto, caratterizzato cioè dall’atipicità delle fonti. Uno stesso fatto può essere fonte di
obbligazioni diverse, come accade nel caso del vettore che si era impegnato a trasportare un
soggetto da un luogo a un altro e nel tragitto provochi un incidente dal quale derivi un danno al
trasportato. Il vettore è obbligato a risarcire il danno subito dal trasportato non solo in via
contrattuale ma anche in via extracontrattuale costituendo il comportamento del vettore un fatto
illecito. La fonte rinvia all’origine genetica del vincolo, il titolo rappresenta la giustificazione
teleologica del vincolo obbligatorio. Il titolo implica un giudizio sull’idoneità della fonte.
Fonte dell’obbligazione sono sia i contratti ad effetti obbligatori sia i contratti ad effetti reali.
L’illecito rappresenta un fatto contrario alla legge e che, allo stesso tempo, lede la situazione di
vantaggio di un soggetto, creando a suo favore il diritto ad ottenere il risarcimento del relativo
danno e la corrispondente obbligazione.
LE ALTRE FONTI
LE PROMESSE UNILATERALI
Le promesse unilaterali consistono in atti negoziali unilaterali di cui la dichiarazione resa dal
soggetto che fa la promessa (promittente) è idonea a produrre effetti di natura obbligatoria a
suo carico. La manifestazione di volontà di colui che intende obbligarsi ad una determinata
prestazione determina la nascita dell’obbligazione. Nell’ambito delle promesse unilaterali il codice
enumera la promessa di pagamento, la ricognizione di debito, la promessa al pubblico ed i titoli
di credito. Promessa di pagamento e ricognizione di debito consistono in una dichiarazione
unilaterale astratta, cioè senza riferimento al rapporto sottostante, oppure titolata, cioè con
riferimento al rapporto sottostante. Va precisato che promessa di pagamento e ricognizione di
debito non sono vere fonti di obbligazione. Esse costituiscono a favore del destinatario un mezzo
di prova dell’esistenza dell’obbligazione. La rilevanza della promessa di pagamento e della
ricognizione di debito non si manifesta sul piano sostanziale ma su quello processuale, in quanto
il destinatario della promessa e della dichiarazione sono dispensati dall’onere di provare il
rapporto fondamentale.
I TITOLI DI CREDITO
Anche i titoli di credito contengono una promessa del debitore che non necessita di alcuna
accettazione dell’altra parte. La funzione dei titoli di credito è quella di mobilizzare la ricchezza
e di costituire un veicolo di circolazione dei diritti o dei beni più rapido e più sicuro rispetto ai
modi tradizionali di circolazione dei diritti e dei beni stessi. Il credito può essere ceduto e quindi
circolare seguendo le norme previste per la cessione dei crediti. Innanzitutto, il cessionario
acquista il credito solo se il cedente ne sia l’effettivo titolare. Nella cessione del credito, questo
è trasferito al cessionario con i privilegi, con le garanzie e con gli accessori che lo caratterizzavano
in capo al cedente. La cessione del credito non produce i suoi effetti nei confronti del debitori se
non dal momento della notifica da parte del cessionario che deve affrettarsi ad effettuare tale
adempimento anche al fine di rendere inopponibile il suo acquisto nei confronti di eventuali
ulteriori cessionari dello stesso credito. Il cessionario, per poter pretendere il pagamento del
credito da parte del debitore, deve anche legittimarsi agli occhi di questi dando la prova
dell’avvenuta cessione. Al fine di evitare tutti questi inconvenienti, si è pensato di far circolare i
crediti secondo la legge di circolazione dei beni mobili tramite l’incorporazione del diritto di
credito in un bene mobile rappresentato da quel pezzo di carte che è il titolo di credito. Con la
consegna materiale del documento si garantisce la trasmissione della titolarità del diritto di
credito. In caso di più alienazioni a diversi soggetti, prevale colui che ne ha conseguito per primo
il possesso in buona fede. Inoltre, chi ne ha conseguito per primo il possesso del documento non
deve dare alcuna prova del titolo di acquisto proprio e di quello dei precedenti titolari. Colui a
cui viene trasferito il titolo di credito acquista un diritto nuovo, autonomo rispetto al diritto del
precedente titolare e il debitore non gli può opporre le eccezioni che poteva opporre a
quest’ultimo. Ad esempio, se il compratore di un’auto, non potendo comprare il bene in contanti,
ha rilasciato delle cambiali che vengono poi girate, non può opporre al terzo l’eccezione che
l’auto non è stata ancora consegnata. Il debitore deve innanzitutto pagare al terzo e poi può
rivolgersi al venditore per essere rimborsato. Chi compra l’auto attraverso l’emissione di
cambiali, si impegna a corrispondere all’alienante una determinata somma a scadenze ripartite.
La causa che giustifica e sottintende l’emissione del titolo prende il nome di rapporto
fondamentale che va distinto dal rapporto cartolare che nasce con l’emissione del documento.
Con riferimento al rapporto fondamentale i titoli di credito si distinguono in titoli astratti e titoli
causali. I primi possono essere rilasciati in base ad una pluralità di rapporti fondamentali e la
causa dell’emissione, cioè il rapporto fondamentale, non viene indicata sul titolo. I titoli causali
sono emessi sulla base di un rapporto fondamentale di un’unica specie che risulta dal contesto
del titolo. I titoli di credito vanno distinti tra titoli nominativi, all’ordine e al portatore. Per ciò che
concerne i titoli al portatore, essi circolano in virtù della mera consegna del documento il cui
semplice possesso legittima il possessore all’esercizio del diritto incorporato nel titolo. Ad
esempio, il solo fatto di possedere una banconota legittima il possessore a far valere il diritto di
credito rappresentato nella carta-moneta. Nei titoli all’ordine, invece, non è sufficiente il possesso
del documento per essere legittimati a far valere il diritto incorporato nel titolo, essendo
necessaria anche la dimostrazione della coincidenza fra la persona indicata nell’intestazione del
titolo e la persona che, possedendolo, lo presenta al debitore. Tipici esempi di titoli all’ordine
sono la cambiale e l’assegno. Il diritto incorporato nei titoli all’ordine si trasferisce mediante
girata che consiste in una dichiarazione, scritta sul titolo e sottoscritta dal creditore cedente
(detto girante) con la quale questi ordina al debitore di eseguire la prestazione ad un soggetto
diverso (giratario). La girata può essere piena, se contiene l’indicazione della persona a favore
della quale è fatta, o in bianco, se consiste solo nella firma. Il giratario può trasferire il titolo a
favore di altra persona mediante nuova girata. Ognuna delle successive girate è firmata dalla
persona che nella precedente è indicata come giratario. Nei titoli nominativi l’intestazione ad un
nome risulta oltre che dal documento anche dal registro dell’emittente, ossia del debitore che ha
emesso il titolo. Il possessore di un titolo nominativo è legittimato all’esercizio del diritto in esso
menzionato per effetto dell’intestazione in suo favore contenuta nel titolo e nel registro
dell’emittente. Tipici esempi di titoli nominativi sono le azioni di società e la polizza di carico. Il
trasferimento del diritto e la circolazione della legittimazione possono avvenire sia mediante la
doppia annotazione del nome dell’acquirente sul titolo e nel registro dell’emittente, sia mediante
il rilascio di un nuovo titolo e una successiva annotazione del nuovo titolare sul registro
dell’emittente, sia mediante girate che deve essere piena e contenere l’indicazione del giratario
e autenticata da un notaio o agente di cambio. In questo, il giratario per legittimarsi all’esercizio
del diritto contenuto nel titolo, deve ottenere l’iscrizione del proprio nome nel registro
dell’emittente, altrimenti il trasferimento ha efficacia solo inter partes. La legittimazione del
possessore del titolo a far valere il diritto incorporato nel documento può non essere sufficiente
a soddisfare le pretese, atteso che il debitore può comunque opporre, se ne ricorrono gli estremi,
talune eccezioni. Esse si distinguono in eccezioni reali, che riguardano il contenuto del documento
e si possono opporre a qualunque possessore del titolo, ed eccezioni personali, che si possono
opporre soltanto ad un possessore determinato. Le eccezioni reali riguardano la forma, come nel
caso della cambiale, che deve contenere la denominazione di cambiale inserita nel contesto del
titolo. In mancanza di questo requisito formale il documento non può essere considerato titolo
di credito e l’eccezione può essere opposta a chiunque. Eccezioni reali sono pure quelle fondate
sul contesto del titolo, sulla falsità di firma e sul difetto di capacità o di rappresentanza al
momento dell’emissione del titolo. Le eccezioni personali sono quelle ce derivano da rapporti che
non risultano dal titolo e sono opponibili a colui con il quale il rapporto si è svolto. Sono personali
anche le eccezioni relative ai vizi della volontà. Esse sono opponibili soltanto al terzo che ne sia
a conoscenza e non al terzo in buona fede. Per i titoli all’ordine e nominativi, sia in caso di
distruzione che in caso di smarrimento o di sottrazione, è prevista la procedura
dell’ammortamento con la quale si mira a distruggere l’efficacia del titolo e a procurare a chi ha
perduto il possesso del titolo un documento che di questi faccia le veci. Chi è stato vittima deve
denunziare l’accaduto al debitore e chiedere con ricorso al Presidente del Tribunale del luogo in
cui il titolo è pagabile l’ammortamento del titolo stesso. Se il Presidente del Tribunale accerta la
verità dei fatti denunciati pronuncia l’ammortamento con decreto che va pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale e va notificato al debitore. Se nei 30 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale non viene proposta opposizione, il decreto di ammortamento diventa definitivo e il titolo
di credito perde efficacia. Nei 30 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, chi si trova in
possesso del titolo può proporre opposizione contro il decreto di ammortamento davanti al
Tribunale che lo ha emesso.
LA PROMESSA AL PUBBLICO
Ulteriore fonte dell’obbligazione è la promessa al pubblico. Il promittente, unica parte del relativo
negozio, rimane vincolato in conseguenza della sua sola dichiarazione, indipendentemente
dall’accettazione del destinatario. Chi, rivolgendosi al pubblico, promette una prestazione a
favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione, rimane
vincolato da tale promessa non appena questa è pubblicata (art.1989). Naturalmente colui che
compirà l’atto o si troverà nella situazione richiesta dalla promessa acquisterà il diritto alla
prestazione promessa. Tale vincolo cessa qualora entro l’anno dalla promessa non sia stato
comunicato al promittente l’avveramento della situazione o il compimento dell’azione da essa
prevista. Evidente è la differenza tra la promessa al pubblico e l’offerta al pubblico. Quest’ultima
è una proposta di contratto ad un destinatario indeterminato che richiede l’accettazione ed è
revocabile finchè questa non sia portata a conoscenza del proponente. La promessa al pubblico
è vincolante di per sé ed è revocabile solo per giusta causa. La revoca non è ammessa dopo che
sia stata compiuta l’azione o si sia verificata la situazione prevista nella promessa. Per la revoca
è necessario che ciò sia reso al pubblico nella stessa forma della promessa o in forma
equivalente. Se l’azione è stata compiuta da più persone separatamente, la prestazione
promessa spetta a colui che per primo ne ha dato notizia al promittente. Costituiscono offerta al
pubblico le vendite a premi, dove il premio è immediato e consiste in un oggetto o in uno sconto
sull’acquisto dello stesso o di altro prodotto. Nono sono promesse al pubblico nemmeno i concorsi
a pronostici legati ai risultati sportivi. Mentre è una promessa al pubblico la prassi con cui il
venditore invita il compratore a raccogliere punti, bollini ecc. al fine di ricevere un certo prodotto.
Anche la gestione di affari costituisce fonte delle obbligazioni. Chi, senza esservi obbligato,
assume scientemente la gestione di un affare altrui, è tenuto a continuarla e a condurla a termine
finchè l’interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso. Il fatto produttivo è l’iniziale
assunzione dell’affare altrui. L’attività del gestore d’affari è in esecuzione di un obbligo scaturito
da un’iniziativa da lui spontaneamente ed unilateralmente intrapresa. Gli effetti giuridici
dell’istituto consistono nell’obbligazione di continuare a condurre a termine la gestione. La
negotiorum gestio costituisce un eccezionale caso di ingerenza nell’altrui sfera giuridica senza
un preventivo consenso del titolare di essa. Per essere lecita e poter produrre i diritti ed obblighi
suoi propri e non costituire invece un illecito, deve avvenire in presenza dei seguenti presupposti.
1) è necessario che il titolare dell’affare sia assente o impedito. L’elemento dell’absentia domini
si realizza con la semplice mancata opposizione dell’interessato. 2) è necessaria l’utiliter
coeptum. La gestione deve essere avviata in vista dell’oggettiva realizzazione di un utile per il
titolare dell’affare. L’utilitas deve essere tale che anche il gerito l’avrebbe posta in essere, agendo
da buon padre di famiglia. 3) essenziale è l’animus aliena negotia gerendi, cioè il gestore deve
sapere di gestire un affare che non è proprio. L’assunzione della gestione deve essere
consapevole e spontanea. Non vi deve essere espresso divieto del titolare dell’affare che rende
invece illegittima la gestione (prohibitio domini). La gestione d’affari può essere rappresentativa
o no, a seconda che il gestore agisca oppure no anche in nome del gerito con quella contemplatio
domini, che è propria della rappresentanza diretta. La gestione d’affari può avere ad oggetto atti
giuridici sia di ordinaria amministrazione sia di straordinaria amministrazione, solo in casi di
urgenza. Il gestore potrebbe compiere non solo atti materiali ma anche attività e cioè un insieme
di atti tra loro funzionalmente collegati per la realizzazione di uno scopo unitario. L’attività del
gestore non può riguardare atti di natura aleatoria. La gestione è fonte di obblighi sia per il
gestore che per il gerito. Il gestore è soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da un
mandato e quindi anche all’eventuale risarcimento del danno in caso di negligenza. Una volta
che la gestione è condotta a termine, il gestore è tenuto a rendere il conto ed a restituire al
dominus quanto abbia ricevuto per effetto della gestione. Qualora la gestione sia stata utilmente
iniziata, l’interessato deve adempiere le obbligazioni, deve tenere indenne il gestore di quelle
assunte, e rimborsargli tutte le spese necessarie o utili con gli interessi. Si ritiene che il gerito
non abbia alcun obbligo di pagare un compenso al gestore per l’attività svolta. Nei casi in cui la
gestione sia rivolta a realizzare interessi primari e fondamentali di terzi determinati o esigenze
sociali alle quali è riconosciuta una tutela prevalente, l’attività del gestore è in grado di produrre
effetti anche in presenza di un divieto del gerito. Qualora mancasse uno dei requisiti previsti, si
costituirebbe un atto illecito. Il gerito potrà fare suoi gli effetti di siffatta gestione con un atto di
ratifica. La ratifica produce gli effetti derivanti dal mandato. La gestione termina con la morte
del gestore quando l’affare intrapreso è stato concluso o quando l’interessato o il suo erede
intervengano per curarlo personalmente.
PAGAMENTO DELL’INDEBITO
Il pagamento di indebito si ha quando qualcuno esegue una prestazione che non era tenuto a
fare perché non sussisteva alcun rapporto obbligatorio, in questo caso abbiamo un indebito
oggettivo. Chi ha eseguito tale pagamento ha diritto di ripetere ciò che ha pagato, nonché ad
avere i frutti e gli interessi dal giorno del pagamento se chi lo ha ricevuto era in malafede, o, se
questi era in buonafede, dal giorno della domanda. L’azione di ripetizione, che si prescrive nel
termine ordinario di 10 anni, decorre, nell’ipotesi di inesistenza o di nullità del vincolo,
dall’esecuzione della prestazione, mentre, nelle altre ipotesi, dall’avveramento della condizione
risolutiva o dalla sentenza che accerti la caducazione del vincolo stesso per annullamento,
rescissione o risoluzione. Ha carattere personale. Chi ha ricevuto indebitamente una cosa
determinata è tenuto a restituirla. Se la cosa è distrutta, chi ha ricevuto in malafede deve
corrispondere il valore; se è deteriorata, deve corrispondere l’equivalente o la restituzione o
un’indennità per la diminuzione di valore. Se la cosa è distrutta o deteriorata, chi ha ricevuto in
buonafede non risponde di nulla. Se invece è stata alienata, se è in buonafede restituisce il
corrispettivo eseguito; se è in malafede invece deve restituire il corrispettivo o in natura. Se il
soggetto che ha ricevuto è affetto da incapacità legale o naturale, sia in buona che in malafede,
sarà tenuto a restituire nei limiti delle sue possibilità. L’indebito soggettiva può essere ex latere
accipientis ed ex latere solventis. La prima si ha qualora il debitore adempie nei confronti di un
soggetto che non è creditore o che non è legittimato a ricevere. Se il solvens ha eseguito il
pagamento a chi appariva legittimato, l’azione di ripetizione deve essere esperita dal vero
creditore, altrimenti il debitore deve pagare nuovamente, però nei confronti del vero creditore e
pretendere la restituzione dal falso creditore. Si ha indebito soggettivo ex latere solventis quando
taluno paghi il debito altrui ritenendo di esservi obbligato. Qui l’accipiens ha astrattamente titolo
per trattenere quando ricevuto dal momento che qualsiasi terzo può adempiere un debito altrui.
Se però chi ha pagato riteneva di essere tenuto all’adempimento in base ad un errore scusabile,
può ripetere ciò che ha pagato, sempre che il creditore non si sia privato in buona fede del titolo
o delle garanzie del credito. Non è ammessa azione di ripetizione per le prestazioni che, anche
da parte di colui che le ha eseguite, sono finalizzate al conseguimento di uno scopo contrario al
buon costume.
Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di altro, è tenuto, nei limiti dell’arricchimento,
a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. L’ordinamento non
ammette trasferimenti di ricchezza senza un fatto giuridico considerato meritevole. Se
l’arricchimento ha per oggetto una cosa determinata, chi l’ha ricevuta deve restituirla in natura.
L’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare altre azioni per
farsi indennizzare. Ha carattere sussidiario e non si può proporre quando le altre azioni siano
divenute improponibili o sia inefficienti. La natura dell’azione è personale. È indispensabile che
l’arricchimento sia avvenuto mediante danno ad altro soggetto. Deve trattarsi di arricchimento
da parte di uno dei soggetti, che sia attuale al tempo della domanda e che consista in una
effettiva attribuzione patrimoniale. È necessario l’elemento del depauperamento di un’altra
persona che può consistere tanto nella perdita di un elemento patrimoniale quanto nella
diminuzione del suo valore. È indispensabile la sussistenza di un nesso di causalità immediato e
diretto tra l’arricchimento e l’impoverimento. Non può mancare una causa giustificatrice
dell’arricchimento dell’uno e dell’impoverimento dell’altro.
dissimulata, donazione mista oppure vendita mista a donazione. Le parti possono anche
omettere ogni riferimento al prezzo, così permettendo il rinvio al criterio legale di
determinazione. Si ricorre a tale rimedio qualora le parti abbiano inteso riferirsi al giusto prezzo.
Inoltre è consentito su impulso di uno dei contraenti, la nomina da parte del presidente del
tribunale, di un terzo arbitratore al quale è affidato il compito di individuare il congruo prezzo.
Il venditore ai sensi dell’art.1476 deve garantire il compratore dall’evizione della cosa alienata.
Si ha evizione quando l’acquirente è privato del diritto sul bene acquistato, in virtù di un
provvedimento dell’autorità giudiziaria attestante un difetto nel diritto del disponente. Il mero
pericolo di rivendica della cosa acquistata, ad opera di terzi, fa nascere in capo al compratore,
che versi in buona fede, la facoltà di sospendere il pagamento del prezzo stabilito. Tale facoltà
può essere evitata allorquando il venditore presti idonea garanzia a fronte della rivendica temuta.
Al pericolo di rivendica va equiparata l’ipotesi in cui la cosa sia gravata da garanzie reali o vincoli.
Il compratore può far fissare dall’autorità giudiziaria un termine entro cui il venditore deve
liberare dal peso la cosa alienata. Qualora entro il termine stabilito, non si sia ottenuto il risultato
sperato, il contratto si intende risolto. Se invece ciò che era soltanto temuto assume obiettiva
consistenza e cioè il terzo che pretende di avere diritti sulla cosa, instaura un giudizio in danno
del compratore, quest’ultimo ha l’onere di provvedere alla chiamata in causa del venditore.
L’omessa chiamata consegue la sentenza di condanna del convenuto. Infine quanto l’evizione
totale della cosa è compiuta a favore del terzo, il venditore è obbligato a sollevare il compratore
evitto. In particolare dovrà risarcirgli il danno, corrispondergli il valore dei frutti eventualmente
restituiti al terzo, le spese sostenute per la denuncia della lite. Qualora l’evizione sia solo
parziale, l’acquirente evitto può esercitare l’azione di risoluzione contrattuale o di riduzione del
prezzo, oltre a pretendere i risarcimenti dei danni.
Ulteriore obbligazione del venditore consiste nella garanzia che la cosa venduta sia immune da
vizi che la rendono inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il
valore. La conseguenza di tali vizi è la risoluzione contrattuale per inadempimento del venditore.
Tuttavia i contraenti possono concordemente escluderla o evitarla: tale patto sarà inefficace ove
il venditore abbia in malafede taciuto al compratore i vizi della cosa. Inoltre tale garanzia non
sarà dovuta se al momento della conclusione del contratto, l’acquirente conosceva i vizi della
cosa, ovvero avrebbe potuto facilmente conoscerli usando un atteggiamento minimamente
diligente. L’acquirente della cosa viziata dispone dell’azione redibitoria, consistente nella
risoluzione del contratto per vizi, e l’azione estimatoria, con la quale il compratore chiede una
riduzione del prezzo. Le due azioni non potranno essere esercitate congiuntamente. Il
compratore decade dal diritto alla garanzia se non denuncia i vizi al venditore entro 8 giorni dalla
scoperta o entro il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge. Le azioni edilizie si
prescrivono in un anno dalla consegna della cosa.
Anche l’acquirente ha delle obbligazioni, consistenti nel pagamento del prezzo dovuto nonché
delle spese anche accessorie occorse per la vendita. Il prezzo stabilito deve essere corrisposto
entro i termini temporali e nel luogo indicato nel regolamento convenuto. In mancanza di
specifica pattuizione, l’obbligazione deve essere adempiuta al momento della consegna e nel
luogo ove questa si esegue. Qualora il prezzo non debba essere pagato al momento della
consegna, tale obbligazione dovrà essere eseguita nel domicilio del venditore. Le spese vanno
identificate con quelle necessarie per la redazione dell’atto pubblico e per la trascrizione. Per
spese fiscali invece occorre intendere gli obblighi fiscali derivanti dalla stipulazione della vendita.
Allorquando il regolamento negoziale contenga una clausola con cui il compratore si riservi il
proprio gradimento, la vendita si perfezionerà solo nel momento in cui il compratore comunichi
IL RIPORTO
LA PERMUTA
Ai sensi dell’art.1552 la permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della
proprietà di cose o di altri diritti da un contraente all’altro. Trattasi di contratto consensuale ad
effetti reali, differisce dalla vendita per la mancanza del prezzo. Al pari della vendita può produrre
effetti obbligatori, si pensi alla permuta di cosa presenta con cosa futura, nonché alla permuta
di cose altrui. Il permutante evitto ha facoltà di scelta tra la restituzione della cosa data in
permuta o il controvalore economico della cosa evitta, fatto salvo in entrambi i casi il risarcimento
del danno. È ammessa l’evizione bilaterale, in tal caso non potendo entrambi i contraente riavere
la cosa permutata, avranno la possibilità di richiedere ciascuno all’altro il solo risarcimento in
denaro.
IL CONTRATTO ESTIMATORIO
Con il contratto estimatorio il tradens consegna una o più cose mobili all’accipiens che si obbliga
a pagarne il prezzo, ovvero la restituzione delle medesime nel termine stabilito. Viene utilizzato
per la distribuzione di beni ad alto rischio di invenduto. È pertanto un contratto normalmente di
impresa a carattere reale, perfezionandosi con la consegna dei beni. A differenza della vendita,
l’accipiens non acquista la proprietà dei beni, ma un mero potere di disposizione residuando in
capo ad esso due obbligazioni tra loro alternative: l’obbligo di pagamento del prezzo, ovvero di
restituzione del termine. La predeterminazione del prezzo è elemento fondamentale per il
perfezionamento del contratto. L’accipiens non è liberato dall’obbligo di pagamento del prezzo
se la restituzione delle cose a lui consegnate è divenuta impossibile, anche per causa a lui non
imputabile. L’accipiens sopporterà anche il rischio rappresentato dal deterioramento della cosa,
fatta salva la normale usura. Il tradens può ugualmente accettare la restituzione delle cose ormai
divenuta incommerciabili, potendo richiedere il risarcimento del danno.
LA SOMMINISTRAZIONE
LA LOCAZIONE
La locazione (art.1571) è il contratto con cui una parte (locatore) si obbliga a far godere all’altra
(conduttore o locatario) una cosa mobile o immobile per un tempo determinato e verso il
pagamento di un corrispettivo. Nessuna forma è imposta per la sua valida stipulazione salvo i
contratti di locazione di immobili aventi durata superiore a 9 anni, per la quale è richiesta la
forma dell’atto pubblico o della scrittura privata, e per la trascrizione dell’atto la forma dell’atto
pubblico, della scrittura privata o giudizialmente accertata. La locazione va distinta dall’affitto,
avente ad oggetto esclusivamente beni produttivi, laddove il godimento della cosa esige l’attività
del soggetto. Il corrispettivo da rendere al locatore deve essere determinato o almeno
determinabile e può consistere in una qualsiasi prestazione, anche in un facere o in un non
facere. È possibile una successione a titolo particolare nel contratto qualora il locatore vi esprime
il proprio consenso. Può essere un contratto a tempo determinato comunque, a una durata
massimo di 30 anni. Per quanto riguarda la locazione di un immobile per l’esercizio di una
professione, nel silenzio delle parti avrà durata di 1 anno. La locazione a tempo determinato si
intende cessata con lo spirare del termine convenuto senza che sia necessaria la disdetta, mentre
nei contratti in locazione a tempo indeterminato, una parte deve comunicare all’altra la disdetta
(negozio unilaterale recettizio). È possibile che il contratto si rinnovi tacitamente, cioè con la
persistenza del conduttore nella detenzione della cosa all’indomani del termine stabilito.
L’AFFITTO
Quando il bene produttivo necessita di un esercizio di una determinata attività da parte del
conduttore, le parti addivengano alla stipula di un contratto di affitto (art.1615) in virtù del quale,
l’affittuario si obbliga a curare la gestione del bene, in conformità alla destinazione economica,
facendo propri i frutti e le altre utilità, dietro il pagamento di un corrispettivo. Il locatore ha
l’obbligo principale di consegnare il bene in stato da servire per l’uso e la produzione al quale è
destinato, con i suoi accessori e pertinenze. L’affittuario non ha alcun potere dispositivo, ne di
subaffittare il fondo. L’affittuario deve rispettare i limiti e gli obblighi inerenti al godimento del
bene e il locatore ha anche un potere di controllo, consistente nell’accesso ai luoghi e di ispezione
dei medesimi. L’affittuario ha l’obbligo di custodire il bene e di utilizzarlo con diligenza e
competenza. Se muta la destinazione economica e produttiva del bene, il locatore può chiedere
la risoluzione dell’affitto. L’affittuario ha l’obbligo principale di pagare il canone. In caso di
rapporto a tempo indeterminato potrà recedere dando congruo preavviso.
È il più importante contratto agrario, avrà durata massima di 30 anni, fatto salvo il caso dei fondi
destinati al rimboschimento, il cui massimo è stabilito in 99 anni, e un minimo di 15 anni. Si può
addivenire alla stipula di tale contratto, allorquando l’oggetto del negozio sia costituito da un
terreno avente destinazione agricola con carattere di permanenza. L’entità del canone relativo
all’affitto è stabilito dalla legge.
IL CONTRATTO DI TRASPORTO
trasportare. Il vettore sarà responsabile dei sinistri che coinvolgeranno la persona durante il
viaggio, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Qualora si tratti
di cose, il vettore sarà responsabile, dal momento della consegna fino al rilascio dei beni nelle
mani del destinatario. La prova liberatoria non sarà limitata al caso fortuito bensì estesa alla
dimostrazione della perdita o dell’avaria dei beni siano dipesi dalla natura o dai vizi della cosa
ovvero dal suo imballaggio. È un contratto a forma libera, bilaterale e consensuale. Differente è
la figura dello spedizioniere il quale ha il solo obbligo di concludere in nome proprio e per conto
del mandante un contratto di trasporto, non assumendo il pertinente rischio.
IL MANDATO
Il mandato (art.1703) è il contratto con il quale il mandatario si obbliga a compiere uno o più
atti giuridici per conto del mandante. È un contratto consensuale, naturalmente oneroso, e
intuitu personae. Il mandato deve avere la stessa forma degli atti cui esso inerisce e può essere
con o senza rappresentanza. Nel primo caso, il mandatario ha il potere di impegnare
direttamente il mandante spendendo il suo nome, anche nei riguardi dei terzi; nel secondo caso
il mandatario agisce in proprio nome e una volta conclusa la propria attività è obbligato a
devolvere al mandante i risultati. Se il mandatario non adempi a tale obbligo, il mandante può
rivendicare i beni mobili dal mandatario, mentre per i beni immobili o mobili registrati il
mandante può ricorrere all’esecuzione forzata in forma specifica. In tale contratto il mandante è
tenuto a somministrare al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del contratto e per
l’adempimento di tutte le obbligazioni eventualmente contratte verso i terzi, deve rimborsare le
anticipazioni con gli interessi legali, pagare il compenso dovuto, risarcire i danni subiti a causa
dell’incarico condotto a termine. Il mandatario ha diritto al compenso a prescindere dal buon
esito dell’affare. Egli deve eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia, non
può eccedere i limiti stabili nel contratto, in tal caso l’atto esorbitante resta a carico del mandato
stesso. È obbligato a rimettere al dominus tutto quanto ricevuto in esecuzione del contratto di
mandato. Il mandato si estingue al compimento dell’affare, all’esecuzione da parte di entrambi i
contraenti delle attività contrattualmente dovute, per revoca da parte del mandante. Se avviene
senza giusta causa, prima della scadenza del termine finale o prima del compimento dell’affare,
il mandante è tenuto al risarcimento dei danni subiti dal mandatario. Anche il mandatario ha
facoltà di rinunciare al mandato per giusta causa. Ed infine la morte o la sopravvenuta incapacità
del mandante o del mandatario, rappresentano le ulteriori cause di estinzione del mandato.
LA COMMISSIONE
L’AGENZIA
Con il contratto di agenzia una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto
dell’altra, la conclusione di contratti in una determinata zona (art.1742). L’agenzia è un contratto
a prestazioni corrispettive, mediante il quale una parte si impegna, a proprie spese e con una
propria organizzazione a promuovere dietro corrispettivo la conclusione di affari per conto di
LA MEDIAZIONE
Ai sensi dell’art.1754, il mediatore è colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione
di un affare senza essere legato ad una di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza e di
rappresentanza. Il rapporto di mediazione sorgerebbe sia nel caso in cui gli interessati
conferiscono preventivamente incarico al mediatore, sia nel caso in cui accettino l’attività da
questi svolta, non essendo necessario la stipula di accordi tra il mediatore e le parti del contratto.
Il mediatore deve essere iscritto nell’apposito Albo del Mediatore. Per il diritto alla provvigione
in capo al mediatore, è necessario che tra la conclusione dell’affare e l’attività del mediatore
sussista un nesso di causalità. La misura della provvigione in mancanza di patto, è stabilita dalle
giunte camerali. Inoltre il comportamento scorretto delle parti è sanzionato nei casi di frode al
mediatore, allorquando, le parti simulano l’abbandono dell’affare per poi concluderlo in un
secondo momento. Se invece l’affare è concluso da più mediatori, ciascuno di essi ha diritto ad
una quota della provvigione. Se il mediatore non indica il nome di una delle parti, risponde
dell’esecuzione del contratto.
L’ASSICURAZIONE
nel pagamento di una somma di denaro, equivalente al valore economico della perdita. È
possibile che i contraenti convengano l’esclusione di una parte del danno dalla garanzia
assicurativa. Un soggetto può contemporaneamente o successivamente stipulare più contratti di
assicurazione per coprire il medesimo rischio, con l’obbligo di avvisare ciascun assicuratore del
coinvolgimento di altre imprese assicuratrici. La coassicurazione va distinta dalla riassicurazione,
laddove si tratta di un solo assicuratore che conclude il contratto con l’assicurato e poi si assicura
per il rischio assunto. L’assicuratore che paga l’indennità si surroga fino alla concorrenza del suo
ammontare nei diritti del surrogato verso i terzi responsabili.
L’assicurazione sulla vita ricorre allorquando l’assicuratore si obbliga a pagare un capitale o una
rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana. È possibile assicurarsi per una somma
qualsiasi. Può essere stipulato sulla propria vita o su quella di un terzo, ma in questo caso è
necessario che questi o il suo legale acconsentino alla conclusione del contratto.
L’APPALTO
L’appalto è il contratto col quale una parte (appaltatore) assume con organizzazione dei mezzi
necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un
corrispettivo in denaro. È un contratto oneroso, il prezzo può essere convenuto dalle parti a
corpo o a misura. Esso è determinato avuto riguardo alle tariffe esistenti o è operata dal giudice
adito. È un contratto ad esecuzione prolungata e può essere a volte di durata se prendiamo in
considerazione l’appalto di manutenzione. Generalmente è stabilito un termine finale per
l’esecuzione dei lavori ed è l’appaltatore che gestisce il ritmo dei lavori. L’opera deve essere
intesa come una modificazione dello stato materiale delle cose esistenti. Il servizio invece come
l’insieme delle attività utili in senso economico. Il committente può nominare un direttore dei
lavori come suo rappresentante. Possono esserci in corso d’opera variazioni dell’opera rispetto
al progetto. Quelle di iniziativa dell’appaltatore non possono essere eseguite senza
l’autorizzazione del committente, quelle necessarie conseguono il diritto per l’appaltatore a
ricevere il relativo corrispettivo. L’appaltatore è obbligato innanzitutto al compimento dell’opera,
ma deve anche garantire che l’opera stessa sia immune da vizi o difformità. Tale garanzia è
inoperativa nel caso in cui il committente abbia accettato l’opera e le difformità e i vizi da lui
conosciuti o conoscibili, purchè non siano stati in malafede taciuti dall’appaltatore. Il committente
che voglia beneficiare di tale garanzia deve denunciare alla controparte la difformità e i vizi entro
60 giorni dalla scoperta, e tale azione va in prescrizione in 2 anni. Il committente può richiedere
l’eliminazione delle difformità e dei vizi a spese dell’appaltatore; nella proporzionalità riduzione
del prezzo dell’opera, nella risoluzione contrattuale. Il committente ha diritto di verificare l’opera
prima della consegna. L’onere dell’iniziativa della verifica è a carico dell’appaltatore. Qualora il
committente senza giusti motivi, ometta di adoperarsi alla verifica, l’opera è da considerarsi
accettata. L’esito della verifica deve essere comunicato all’appaltatore attraverso una
dichiarazione finale che prende il nome di collaudo. Gli effetti dell’accettazione liberano
l’appaltatore dalla responsabilità per vizi palesi dell’opera.
IL MUTUO
Il mutuo è il contratto con il quale una parte (mutuante) consegna all’altra (mutuaria) una
determinata quantità di denaro o cose fungibili, e l’altra si obbliga altrettante cose della stessa
specie e qualità. È un contratto a titolo oneroso, e salvo patto contrario, chi ha ricevuto a prestito
una somma deve corrispondere anche gli interessi. Gli interessi potranno essere quelli legali o
ad un tasso diverso pattuito per il quale è richiesta ad sustantiam la forma scritta, se sono dovuti
interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti gli interessi. Il mutuo a titolo gratuito
consiste per il mutuario nella restituzione del tandundem eiusdem generis et qualitatis, mentre
in quello a titolo oneroso, il mutuario è obbligato a pagare il compenso stabilito a fronte del
godimento del bene consentito dal mutuante. Il contratto si perfeziona con la traditio brevi mani,
ovvero con la materiale consegna del bene dato a mutuo. Il mutuante ha il diritto all’intera e
immediata restituzione dell’intero ammontare del mutuo, qualora il mutuario, obbligandosi ad
una restituzione rateale, venga meno al pagamento anche di una sola rata. È indispensabile la
fissazione di un termine finale e se i contraenti non l’hanno stabilito, questo è stabilito dal giudice.
I CONTRATTI BANCARI
La principale attività della banca consiste nella raccolta di capitali, al fine di poterli concedere in
uso a terzi. Le operazioni finanziarie vanno distinte in attive e passive. Le prime sono operazioni
in cui la banca fornisce direttamente capitali a terzi; le seconde riguardano il momento di raccolta
dei capitali. È riservato l’esercizio dell’impresa bancaria alle società per azioni o cooperative per
azioni a responsabilità limitata. La Banca d’Italia ha poteri di ispezioni e di richiesta di
comunicazioni. Le operazioni attive si identificano nell’apertura di credito bancario,
nell’anticipazione bancaria e nello sconto; le passive nei depositi bancari. Le operazioni
accessorie attengono alla figura del servizio di cassetta di sicurezza e al deposito dei titoli in
amministrazioni.
IL DEPOSITO BANCARIO
Nei depositi di una somma di denaro presso una banca, questa ne acquista la proprietà, ed è
obbligata a restituirla nella stessa specie monetaria alla scadenza del termine convenuto, ovvero
a richiesta del depositante, con l’osservanza del periodo di preavviso stabilito dalle parti o dagli
usi (art.1834). Si distinguono due forme di deposito bancario: i depositi in denaro ed i depositi
dei titoli in amministrazione. Se la funzione del deposito fosse quella di consentire al depositante
di lucrare gli interessi, abbiamo la fattispecie del mutuo oneroso. Se la funzione è quella di
garantire la pronta esigibilità delle somme depositate a pronta richiesta del depositante, avremo
la fattispecie del deposito irregolare. Sotto il profilo strutturale si tratta di contratto reale che si
perfeziona con la consegna del denaro al banchiere. È un contratto a titolo oneroso prevedendo
la corresponsione degli interessi a carico della banca. I prelevamenti ed i versamenti si eseguono
alla sede della banca presso la quale si è costituito il rapporto. La dottrina classifica la fattispecie
negoziale in esame in base allo scopo perseguito dal depositante o in virtù della forma che essa
assume: da un lato, si avrà allora il deposito a vista ed il deposito vincolato, e dall’altro, i depositi
ordinari o semplici, i depositi in conto corrente ed i depositi a risparmio o fruttiferi. I depositi
ordinari o semplici non riconoscono nessuna facoltà al depositante di versare altre somme né di
compiere prelevamenti. I depositi a risparmio consentono sia versamenti che prelevamenti
successivi all’accensione del conto e sono denominati conto correnti, anche se a differenza di
questi, le operazioni vanno fatte in contanti. I depositi in conto corrente sono caratterizzati dalla
possibilità di emettere e versare assegni. I depositi transitori in cui la banca detiene somme per
scopi concordati con il depositante senza corrispondere interessi; i depositi a scopo di
circolazione hanno funzione di provvista al fine di consentire l’emissione di assegni circolari di
pari importo; i depositi a scopo di adempimento ed i depositi cauzionali assolvono la stessa
funzione del pegno irregolare. Il deposito può essere attestato dal rilascio di un libretto di
deposito a risparmio su cui il banchiere annota le operazioni di prelevamento e versamento. Nella
pratica commerciale vi sono libretti nominativi, pagabili al portatore, ma contrassegnati da un
nome. Nei libretti nominativi, i prelevamenti possono essere fatti solo dall’intestatario del libretto
o da un suo rappresentante. Il libretto al portatore è un documento di legittimazione: se la banca
adempie senza dolo o colpa grave al pagamento nei confronti del portatore è liberata dal proprio
obbligo. Il deposito di titoli in amministrazione si distingue dai depositi in denaro, mancando in
esso una diretta mediazione creditizia. Nei depositi di titoli difetta il trasferimento della proprietà
dal depositante al depositario. Oggetto del deposito possono essere non solo i titoli di Stato,
azioni o obbligazioni, ma anche i titoli al portatore o nominativi (cambiali o titoli di merci). Il
contratto di deposito di titoli in amministrazione è un contratto reale che si perfeziona con la
consegna dei titoli alla banca depositaria. Il credito della banca per le commissioni maturate ha
natura di privilegio speciale sui titoli depositati. La Monte Titoli si contraddistingue per essere il
proprio capitale sottoscritto unicamente alla Banca d’Italia e dai depositari, ed ha per esclusivo
oggetto lo svolgimento di servizi volti alla negoziazione ed alla custodia dei valori depositati.
Con il servizio di cassette di sicurezza, la banca risponde verso l’utente per l’idoneità e la custodia
dei locali e per l’integrità della cassetta, salvo il caso fortuito (art.1839). È un contratto
consensuale ad esecuzione continuata, in cui l’utente, previo pagamento di un canone, usufruisce
del diritto di introdurre personalmente presso una cassetta custodita nei locali della banca una
serie di oggetti, su cui la banca non ha poteri di controllo, ma unicamente obbligo di custodia. Il
sistema di accesso si presenta abbastanza complesso e ciò in virtù della necessaria cooperazione
tra banca e cliente che richiede, per l’accesso, un sistema “a due chiavi”. Ulteriore forma di
garanzia e sicurezza è data dal riscontro della firma depositata dal fruitore del servizio e dai suoi
eventuali delegati al momento in cui si dà corso al rapporto fiduciario. Per parte della dottrina
siffatto contratto non è assimilabile al deposito, poiché la banca si limita a mettere a disposizione
un servizio di cassette, di cui può fruire unicamente il cliente. Sembra preferibile l’impostazione
dottrinale che rinviene un negozio a causa mista, nel quale sono presenti gli elementi propri della
locazione e del deposito, offrendo la banca un determinato servizio di cassetta situato nel proprio
locale, ed impegnandosi al mantenimento degli obblighi di apertura dei locali nei giorni stabili,
nonché di sicurezza e custodia della cassetta. La banca risponderà della sottrazione o del
danneggiamento dei beni custoditi nel locale solo nel caso in cui tali eventi fossero dipesi
dall’inadempimento o dal non corretto adempimento dell’obbligazione di garantire l’integrità
della cassetta sia da furti che da eventi naturali. Le obbligazioni assunte dalla banca nel servizio
delle cassette di sicurezza si articolano in una triplice direzione: obbligo di concedere l’uso di
locale idoneo; obbligo di custodire i locali; obbligo di tutelare l’integrità della cassetta. La banca
sarà libera di adottare qualsiasi misura ritenuta idonea a garantire la sorveglianza. La prova
liberatoria della banca potrà consistere nella dimostrazione del caso fortuito, non essendo
sufficiente la dimostrazione dell’imprevedibilità del fatto, in virtù del maggior aggravio di
responsabilità in capo alla stessa. Grava sulla banca l’onere di dimostrare che l’inadempimento
dell’obbligazione di custodia è ascrivibile ad impossibilità della prestazione ad essa non
imputabile e, al fine di escludere la colpa, è insufficiente la generica prova della diligenza.
L’apertura di credito è un’operazione attiva con la quale la banca si obbliga a tenere a disposizione
dell’accreditato una data somma di denaro per un certo periodo o a tempo indeterminato
(art.1842). È un contratto consensuale e ad effetti obbligatori, è fondamentale l’accreditamento
di una determinata somma di cui il fidatario può disporre, dietro promessa di restituzione
all’istituto della medesima somma. Le pratiche commerciali equiparano l’apertura del credito al
fido bancario. L’apertura del credito va distinto dalla promessa di mutuo perché la possibilità di
utilizzo parziale della somma rende concreta ed operativa l’erogazione. La proprietà del denaro
resta all’istituto di credito fino al primo utilizzo: da tale momento inizierà a decorrere il computo
degli interessi. Vista l’analogia col mutuo, si parla anche di mutuo consensuale. La dottrina
rinviene una funzione tipica ed autonoma, atta a consentire la messa a disposizione di una
somma al fine di soddisfare un interesse meritevole di tutela da parte dell’accreditato. Si tratta
di contratto bilaterale a prestazione corrispettive, poiché a fronte dell’accreditamento da parte
della banca, corrisponde l’obbligo in capo al fidatario di pagare le provvigioni nonché l’obbligo
L’ANTICIPAZIONE BANCARIA
LO SCONTO
Lo sconto è il contratto con il quale la banca, previa deduzione dell’interesse, anticipa al cliente
l’importo di un credito non ancora scaduto che costui vanta verso terzi, mediante la cessione,
salvo buon fine, del credito stesso (art.1858). Dalle teorie sulla natura giuridica discendono
differenti conseguenze: a) per gli assertori della natura di compravendita di creditori lo sconto è
un contratto consensuale; b) per chi sostiene la natura di contratto creditizio, si è di fronte ad
un tipico contratto reale; c) qualora lo scontro sia assimilato al mutuo si tratterebbe di un
contratto reale. La giurisprudenza approda alla ricostruzione secondo cui lo sconto è un contratto
di prestito, che trova attuazione mediante il meccanismo della cessione del credito. Gli interessi
sono calcolati dalla banca a partire dal giorno dello sconto e fino al giorno in cui il credito diventa
esigibile e corrispondono, in genere, al tasso praticato per l’interesse attivo. Oltre all’interesse
le banche matureranno sull’operazione anche una commissione o provvigione. Tra gli elementi
essenziali del rapporto vi è la cessione pro solvendo del credito dallo scontatario alla banca. Il
trasferimento della titolarità del credito avviene pertanto a titolo definitivo, con la banca che ne
acquisisce la proprietà. L’eventuale inadempimento del terzo è condizione essenziale per l’azione
di restituzione, il cui onere graverà sulla banca. In caso di insolvenza del ceduto, poiché il
pagamento dello scontatario determina una retrocessione del credito, la banca è tenuta
comunque a conservare integre le pretese dello scontatario contro il debitore ceduto. Lo sconto
extra cartolare consente una certa libertà di applicazione oggettiva della fattispecie, estensibile,
per parte della dottrina, a tutti i crediti vantati nei confronti dei terzi, non ancora ceduti ed
astrattamente cedibili. La giurisprudenza ritiene che l’operazione di anticipazione su ricevuta
bancaria si distingue dal contratto di sconto: tale fattispecie si sostanzia in dichiarazioni scritte,
firmate e rilasciate dal creditore con cui questi attesta di aver ricevuto una somma di denaro
versata a mezzo banca a saldo di una determinata fattura. Per parte della dottrina e della
giurisprudenza è ammissibile anche lo sconto di cambiali di favore, o di cambiali sottoscritte in
assenza di un rapporto commerciale sottostante, ma unicamente al fine di procurare credito al
favorito. Si tratta di un comune finanziamento, assimilabile al mutuo garantito con cambiali. Lo
sconto presenza analogie con il contratto di factoring, che ha come fine la realizzazione di
smobilizzo e liquidazione di crediti derivanti da attività di impresa. I suddetti crediti non sono
cartolari. Lo sconto si differenzia dal forfaiting: in tale operazione, mancando la clausola “salvo
il buon fine”, non vi sarà responsabilità sussidiaria del cedente: le banche tenderanno a garantirsi
“scontando” titoli che presentano un elevato grado di sicurezza. L’accordo di castelletto non è di
carattere obbligatorio e non andrà a delimitare un obbligo della banca nei confronti dello
scontatario. Il castelletto rappresenta un limite a designare la misura entro cui la banca è
disposta a sopportare il rischio dello sconto titoli. Nella maggior parte dei casi, lo sconto avviene
su girata di cambiali o di assegni bancari: in tal caso vi sarà sconto minimo, essendo l’assegno
incassabile unicamente a vista. Il perfezionamento del contratto si ha attraverso una complessa
procedura che prevede la consegna dei titoli alla banca, con la redazione da parte di quest’ultima
di un documento nel quale vengono riportati gli estremi idonei all’identificazione dei titoli. La
banca invia al cliente una lettera di accreditamento del ricavo al netto. Tale procedura consente
all’istituto di credito la valutazione della congruità dei titoli consegnati, nonché dei requisiti di
bancabilità da essa offerti. Lo scontatario non potrà richiedere la restituzione degli effetti, salvo
che la banca non acconsenta al richiamo delle cambiali. La banca ha a disposizione due tipi di
azione: l’azione cambiaria, esperibile nei confronti tanto del debitore quanto del giratario-
scontatario, prevede o l’elevazione del protesto o la presentazione al pagamento se sulla
cambiale è apposta la clausola “senza protesto” o “senza spese” debitamente sottoscritta. La
banca potrà, nei confronti dello scontatario, effettuare anche l’azione causale, fondata sul
rapporto sottostante di sconto, allorquando sia prescritta l’azione cambiaria, o la stessa non
possa essere esercitata. Questi adempimenti da un lato cautelano il debitore da una potenziale
duplicità di azione e dall’altro dimostra l’effettiva infruttuosità dell’azione posta in essere sul
titolo dal possessore del medesimo. La suddetta tutela non è possibile in una prassi commerciale
frequente quale lo sconto di tratte non accettate o per le quali sia vietata l’accettazione. La banca
non è garantita dall’eventuale esistenza del credito cartolare verso terzi.
Il conto corrente è un tipico contratto bancario. Da esso nasce un vero e proprio rapporto
obbligatorio tra cliente e banca. Il rapporto è disciplinato secondo il sistema del conto corrente,
ovvero solo se il cliente è titolare di un’apertura di credito o di un deposito presso un determinato
istituto bancario, è possibile concludere e poi dare esecuzione al contratto. Il regolamento di
conto corrente ha esecuzione attraverso un sistema di partita doppia dare/avere tra banca e
cliente con possibilità di determinare in ogni momento il saldo attivo e passivo. È netta la
differenza rispetto al conto corrente ordinario perché in suddetto contratto i crediti annotati sono
inesigibili ed indisponibili fino alla chiusura. La dottrina evidenzia un collegamento funzionale tra
il mandato e altro contratto atto a creare la disponibilità di cassa. Sarebbe ravvisabile una
struttura complessa del vincolo, in quanto composta da tre distinti momento: 1) la costituzione
di provvista, 2) una successiva attività gestoria, 3) attività contabile. Gli assertori della tesi
unitaria sottolineano la natura di contratto innominato risultante dalla combinazione di più
contratti tipici, con prevalenza del mandato. Sembra da preferirsi in virtù della decisiva
considerazione per cui la banca risponde secondo le regole del mandato per l’esecuzione degli
incarichi ricevuti dal cliente. Il cliente della banca, parte debole del contratto, potrà essere
unisoggettivo o plurisoggettivo, in questo caso abbiamo un conto cointestato. Il fenomeno della
È principio consolidato di ogni forma di civile convivenza il divieto di arrecare danni ad altri. Si
deve la prima elaborazione dell’istituto in esame al diritto romano: precisamente alla Lex Aquilia,
che consacra la regola del neminem laedere. Essa aveva la funzione di “sanzionare” il
comportamento colpevole tenuto dall’autore del fatto illecito lesivo dell’altrui sfera giuridica. Nel
corso dei secoli, la responsabilità civile è venuta a coincidere con ulteriori scopi: si è ritenuto che
la “minaccia” di dover risarcire il danno prodotto potesse avere un effetto deterrente rispetto a
condotte potenzialmente lesive (funzione preventiva). Più di recente, si è sottolineato come
obiettivo primario della responsabilità aquiliana la riparazione del pregiudizio patito dalla vittima
(funzione riparatoria): ciò anche alla luce ddel contemporaneo sviluppo di forme di assicurazione.
Si possono individuare diversi modelli teorici che la dottrina ha posto a fondamento del sistema
della regola aquiliana. In corrispondenza con la funzione sanatoria dell’istituto è la concezione
etica della responsabilità civile. Secondo questa impostazione, la responsabilità civile
rappresenta la sanzione di un atto colpevole e di un atto contrario al dovere giuridico e morale
di non cagionare danno ad altri. È chiaro come la concezione morale dell’illecito ruoti intorno al
requisito della colpevolezza. Questo modello della responsabilità civile presuppone la colpa o il
dolo del danneggiante, sicchè la sua condotta lesiva della sfera giuridica del terzo possa essere
valutata in termini di riprovevolezza e conseguente biasimo. Nell’ambito della concezione etica
non possono trovare spazio fattispecie di responsabilità oggettiva (senza colpa) o aggravata (con
colpa presunta). Due fenomeni portarono al declino dell’idea di una responsabilità civile fondata
principalmente sul principio della colpa soggettiva: il proliferare in tutta l’area della Western
Legal Tradition, di fattispecie di responsabilità ora oggettiva ora semplicemente aggravata, in
connessione con l’esercizio di attività ritenute pericolose. Tali previsioni testimoniavano la
necessità di garantire le ragioni della vittima in occasione di lesioni di beni particolarmente
rilevanti. La rivoluzione industriale segnò l’istituto della responsabilità civile anche con il
diffondersi delle prime forme di assicurazione obbligatoria, anch’esse caratterizzate dalla
spiccata finalità riparatoria più che sanzionatoria. Si ha un secondo modello teorico della
responsabilità civile e cioè quello tecnicistico, fondato sulla visione della regola aquiliana quale
puro e semplice strumento di allocazione dei danni. Questa concezione dell’illecito civile esalta
la funzione riparatoria della responsabilità extracontrattuale. Ulteriore ricostruzione teorica del
sistema della responsabilità civile è quella offerta da una posizione dottrinale che si situa “a metà
strada” tra la concezione etica e quella tecnicistica dell’istituto: la concezione eclettica. Secondo
tale modello, la responsabilità civile sarebbe riconducibile a due sistemi autonomi e regolati da
principi differenti: la responsabilità per colpa e quella per rischio. Il primo sistema sarebbe
caratterizzato dall’indagine circa l’elemento soggettivo della colpevolezza del danneggiante,
mentre il secondo troverebbe fondamento esclusivo nella particolare attività esercitata dal
danneggiante. La responsabilità per colpa avrebbe funzione essenzialmente sanzionatoria e
preventiva, mentre quella per rischio esclusivamente riparatoria. Per quanto concerne lo
specificum del nostro ordinamento e dell’art.2043, appare costruito intorno al principio “nessuna
responsabilità senza colpa” tipico della concezione etica dell’istituto. Tuttavia presenta nelle
disposizioni successive una serie di fattispecie caratterizzate ora dal paradigma della
responsabilità oggettiva, ora da quello della responsabilità aggravata, ma accomunate dalla
sostanziale marginalizzazione dell’elemento soggettivo della colpevolezza.
Il codice civile affronta l’istituto della responsabilità aquilana sotto diversi angoli visuali.
L’art.1173 si occupa delle fonti delle obbligazioni, che rinviene nel contratto e nel fatto illecito.
Su tale dizione si fonda la summa divisio tra la responsabilità contrattuale e quella aquiliana (o
extracontrattuale). In altre parole, incorre nella prima colui che viola una o più regole scaturenti
da una pattuizione contrattuale; è, di contro, extracontrattuale l’illecito compiuto in dispregio del
divieto generale di arrecare danni ad altri ed attuato da un soggetto non legato da alcun
precedente vincolo contrattuale con il danneggiato. Risultano differenti quanto all’onere
probatorio a carico di chi agisce e del covenuto, alla prescrizione applicabile ed alla natura dei
danni risarcibili. Colui che asserisce di aver subito un danno in conseguenza dell’altrui violazione
di un’obbligazione contrattualmente stabilita, deve limitarsi alla prova del fatto. Viceversa,
nell’illecito aquiliano grava sull’attore anche la prova dell’elemento soggettivo, doloso o colposo.
Sul piano della prescrizione, poi il diritto all’azione basata sulla responsabilità contrattuale si
prescrive in 10 anni, quello che attiene ad un illecito aquiliano, salve le ipotesi di termine breve,
si estingue in 5 anni. Quanto ai pregiudizi ammessi a risarcimento, nel caso di responsabilità da
contratto, sono quelli prevedibili, a meno che il fatto non sia ascrivibile al dolo del soggetto
agente; se si tratta di illecito aquiliano, la vittima ha diritto a vedersi risarcire entrambe le
categoria di danno menzionate, indipendentemente dalla prevedibilità o meno dei pregiudizi
patiti ed a prescindere dalla qualificazione soggettiva dell’evento.
L’art.2043 afferma che qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto,
obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno. Tale regola, moderna erede della Lex
Aquilia, contiene la miglior esplicazione possibile dell’istituto in esame e basta seguirne
l’andamento per fare propria la “nomenclatura” ed acquisire i concetti principali, che interessano
la materia. Il primo elemento che si ricava dal dato testuale è l’atipicità dell’illecito, come denota
la dizione “qualunque fatto”. Il nostro ordinamento rimette alla casistica concreta l’individuazione
dei “fatti” generatori di illecito aquiliano. La responsabilità aquiliana è ampiamente interessata
dall’evoluzione socio-economico e risponde spesso ad un disegno di “ingegneria” sociale,
l’opzione per un sistema fondato sull’atipicità assicura all’istituto in oggetto una perenne capacità
di autorigenerazione. Il che, tuttavia, non elimina la prerogativa del legislatore di intervenire
direttamente per fissare un regime speciale dell’illecito per determinate materie considerate
strategiche o peculiari. In sostanza, la scelta per un sistema di illecito civile atipico è sin qui
risultata vincente.
L’art.2043 fa riferimento, poi al fatto, che genera l’altrui danno. Gli autori hanno ritenuto che la
dizione dell’art.2043 vada sostituita con quella di atto, nel senso di “fatto umano” assistito da
volontà e consapevolezza. In questa direzione conduce la qualificazione che la stessa
disposizione contiene, allorchè discorre “fatto doloso o colposo”: si è notato che tanto il dolo
quanto la colpa sono elementi soggettivi propri della condotta umana. Se alla responsabilità
civile si attribuisce una prevalente se non esclusiva connotazione soggettivistica, è corretto
ritenere che a generarla sia un atto riconducibile alla volontà umana; in altre parole ciascuno
deve rispondere unicamente di quanto da lui posto in essere volontariamente. Nondimeno, è lo
stesso codice civile a prevedere fattispecie in cui il titolo della responsabilità non coincide con il
dolo o la colpa. Si pensi al caso dei “padroni e dei committenti”, all’esercizio di un’attività
pericolosa. Del resto, è innegabile che il meccanismo dell’obbligazione risarcitoria abbia risentito
della spinta verso forme di “socializzazione” dei danni, di cui è espressione, altresì, il crescente
ricorso a fattispecie di assicurazione.
L’art.2043, al fine di identificare l’elemento fondativo della serie causale che comportato la
lesione della sfera giuridica del terzo, discorre genericamente di “fatto”. Nella prospettiva della
responsabilità civile, per “fatto” deve intendersi quell’accadimento materiale, a vario titolo
attribuibile ad un soggetto che innesca la progressione eziologica che porterà infine al danno da
risarcire. Parte della dottrina al fine di identificare tale condotta necessariamente dell’uomo
sarebbe stato tecnicamente più opportuno fare riferimento alla nozione di atto, anziché a quella
di fatto illecito. In realtà, queste critiche non hanno pregio. Nello specifico, nulla vieta che
l’evento materialmente produttivo del danno sia una evenienza naturale come, ad esempio, nel
caso dell’aggressione di un animale oppure di una valanga, “allocata”, però, ai fini della
responsabilità civile, in capo ad un soggetto determinato. Invece, dovrà farsi riferimento al fine
di stabilire se quel determinato evento, umano o naturale, sia oppur no giuridicamente
riconducibile alla sfera di responsabilità di un individuo specifico, vuoi perché lo ha cagionato con
una sua azione, vuoi perché non ne ha impedito il verificarsi nonostante a ciò fosse tenuto. In
tal senso, viene qui in rilievo la distinzione del fatto in azione ed omissione, a seconda che il
soggetto venga ritenuto responsabile del danno perché ha contribuito materialmente a
determinarlo con una propria attività positiva oppure perché è rimasto semplicemente inerte
rispetto alla serie causale produttiva del danno, nonostante avesse l’obbligo giuridico di attivarsi
al fine di impedire l’evento lesivo. Parte della dottrina preferisce ricondurre l’omissione all’ambito
soggettivo della colpevolezza e discorrere perciò di colpa omissiva. In effetti, perché l’omissione
assuma rilevanza ai fini dell’imputazione della responsabilità civili è necessario che preesista una
norma giuridica volta a pretendere coattivamente un’attività positiva dal soggetto rimasto invece
inerte. Si assiste di conseguenza ad una tipizzazione delle condotte omissive illecite,
contrariamente all’atipicità dell’illecito.
L’IMPUTABILITA’
Tuttavia il “fatto” per essere riconducibile ad una condotta volontaria, deve accompagnarsi ad
un ulteriore presupposto, proprio della sfera soggettiva del suo autore. In tal senso l’art.2046
impone che, onde essere dichiarato responsabile, il soggetto agente avesse la capacità
d’intendere e di volere nel momento in cui ha commesso il fatto dannoso, “a meno che lo stato
di incapacità non derivi da sua colpa”. La condotta deve essere accompagnata dall’imputabilità
di essa al soggetto. A differenza dell’imputabilità nel campo penale, ove è la legge stessa a
fissare le cause che la escludono, rispetto alla responsabilità civile compete al giudice, caso per
caso, accertare se in concreto, all’atto della condotta tenuta, il soggetto fosse oppur no in grado
di intendere e di volere. In ogni caso, in assenza di imputabilità, del danno rispondono colui o
coloro che erano tenuti alla sorveglianza dell’incapace, a meno che non dimostrino “di non aver
potuto impedire il fatto”. Se tuttavia, non v’è alcun soggetto tenuto alla sorveglianza, “il giudice
in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l’autore del fatto a
un’equa indennità”.
Non si può discorrere di responsabilità se non in presenza di un evento che generi un danno.
Alcune condotte illecite, specie in diritto penale, sono perseguite a prescindere dalla loro
attitudine a produrre danno. Viceversa, nel settore in esame, in assenza di effetto dannoso
dell’agire, non si giustifica l’intervento. Le definizioni di danno viene a coincidere con la lesione
dell’altrui sfera giuridica. È bene sottolineare che affinchè sorga l’obbligazione risarcitoria, il
danno cagionato ad altri deve essere ingiusto. L’ingiustizia risulta essere il presupposto prioritario
del danno risarcibile. Per danno ingiusto si deve intendere la lesione di un interesse
giuridicamente tutelato nella vita di relazione. In altri termini, il danno può qualificarsi come
ingiusto quando è, al contempo, non iure e contra ius, cioè non è giustificato dall’esercizio di un
diritto ed, ancora, lesivo di una posizione giuridico altrui. Il danno rileva quale complessiva
perdita economica prodottasi nel patrimonio del danneggiato in conseguenza dell’evento lesivo.
In genere, questa nozione di danno, puramente economica, viene in considerazione soprattutto
nella fase della quantificazione del risarcimento dovuto.
La dottrina si divide secondo due differenti impostazioni: l’una che identifica l’ingiustizia con
l’antigiuridicità (violazione di un diritto), l’altra che ritiene sufficiente la lesione di un interesse
meritevole di tutela. Affidandosi alla prima tesi, si è ritenuto che potessero essere oggetto di
risarcimento in caso di lesione i soli diritti soggettivi assoluti tipici e i diritti reali e i diritti della
personalità. Al contrario, secondo l’ulteriore tesi è la stessa visione del danno ingiusto quale
danno antigiuridico da contestare, bensì la semplice compromissione di un interesse ritenuto
meritevole di protezione. Entrambe le impostazioni risultano superate attraverso
un’impostazione mediana. Si preferisce ricostruire la nozione di danno ingiusto in relazione alla
lesione di situazioni ritenute giuridicamente meritevoli di protezione rispetto alla vita di relazione.
È rimessa alle corti (diritto vivente) la delicata opera di selezionare quali situazione giuridiche
soggettive ammettere a risarcimento
Non si è mai dubitato che l’art.2043 sia destinato ad offrire tutela ai diritti assoluti e in particolari
a quelli inerenti la persona (diritti della personalità) ed i beni (proprietà e altri diritti reali). Per
quanto concerne i diritti della personalità non bisogna considerare soltanto quelli espressamente
riconosciuti nel dettato codicistico, in quanto la dottrina ormai da tempo ha imparato ad utilizzare
la clausola aperta dell’art.2 cost.. L’art.2043 è destinato ad offrire tutela ai privati rispetto alle
violazioni dolose o colpose dei diritti reali ed in particolare della proprietà. Vengono puniti tanto
gli atti immediatamente lesivi del bene sul quale insiste il diritto reale, tanto le azioni che
impediscono l’esercizio di determinate facoltà proprie delle posizioni giuridiche in esame. Per
quanto riguarda la tutela alle lesioni di quella particolare situazione di fatto qualificato come
possesso, la giurisprudenza pare ormai essersi assestata sul riconoscimento della risarcibilità
delle lesioni subite dal possessore, in quanto questi, sebbene non sia titolare di alcun diritto, è
comunque riconosciuto quale portatore di un interesse giuridicamente tutelato nella vita di
relazione. Mentre nella proprietà la tutela aquiliana punisce ogni condotta invasiva colposa o
dolosa, nel possesso si ritiene possa ricevere tutela solamente contro le ingerenze altrui che
rivestano gli estremi dello spoglio o delle molestie. Per quanto riguarda il risarcimento del danno,
nella proprietà il risarcimento è commisurato nella perdita di valore economico subita dal bene
mentre nel possesso esso è proporzionato al tempo in cui lo spoglio o le molestie hanno reso
impossibili o difficoltoso il pieno godimento del bene.
L’interesse legittimo è la situazione soggettiva di cui è titolare il cittadino nei confronti della
Pubblica Amministrazione e che si risolve nella pretesa a che l’ente pubblico uniformi il proprio
agire alla disciplina di legge. L’art.2043 disciplina la sola tutela dei diritti soggettivi e non degli
interessi legittimi. I fattori di evoluzione e di superamento della preconcetta visione della non
risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo, sono stati molteplici e soprattutto al grazie
al coinvolgimento italiano nell’ordinamento comunitario. Così sono maturati i presupposti perché
la Cassazione sancisse che tra le situazioni soggettive, la cui violazione è suscettibile di cagionare
un danno ingiusto, vi è anche l’interesse legittimo. Pertanto il cittadino che abbia riposto un
affidamento oggettivo su un determinato agire della P.A. e che si veda leso nella propria legittima
attesa, ha diritto di conseguire il relativo risarcimento.
Quando uno degli stipulanti sia stato indotto alla conclusione di determinate operazioni negoziali
da informazioni errate colposamente fornite da terzi, può concorrere al risarcimento dei danni
ex art.2043. Presupposto della risarcibilità del danno è che l’informazione errata sia fornita da
un terzo in ragione della sua qualifica professionale o dalla sua posizione giuridica rispetto al
negozio
FATTISPECIE PARTICOLARI
Fattispecie particolari riconosciute come suscettibili di ricevere tutela ex art.2043 sono: il danno
psichico subito da un congiunto in occasione della morte o delle gravissime lesioni subite da un
parente. Differente dal danno psichico è la lesione del vincolo familiare, grazie alla quale ai
familiari dell’individuo ucciso o gravemente menomato viene riconosciuto il diritto al risarcimento
del danno per la perdita delle prestazioni di assistenza e collaborazione che esse avrebbero
ricevuto dalla vittima. Altra fattispecie particolare è quella del danno derivante dalla nascita; la
dottrina ha distinto due ipotesi: quello subito dai genitori, in ragione di una procreazione non
voluta a causa di errore medico o per difetto dei mezzi contraccettivi; l’altra ipotesi è il danno
pre-natale che si verifica quando il neonato presenti delle patologie ereditarie non diagnosticate
per errore medico prima della nascita: in tal caso il sanitario è tenuto a risarcire tanto i genitori,
tanto il nato. Ulteriore ipotesi è quella del danno ambientale, la disposizione sancisce che
qualunque fatto doloso o colposo che comprometta l’ambiente obbliga l’autore del fatto al
risarcimento nei confronti dello Stato. Parte della dottrina continua ad ipotizzare la risarcibilità
del danno ambientale subito dal privato, allorchè questi riesca a dimostrare di aver subito una
lesione particolare, diversa ed accedente rispetto alla collettività. Ulteriore fattispecie è quella
indicata come “cable case”, collegata agli eventi pregiudizievoli occorsi ai privati in ragione
dell’interruzione di un servizio di fornitura elettrica da parte dell’Enel. I più recenti orientamenti
tendono ad escludere la risarcibilità dell’ente pubblico per i danni subiti dagli utenti a causa
dell’interruzione del servizio, soprattutto quanto il disservizio dipenda da un evento fortuito
oppure da un fatto del terzo che con propria attività abbia causato danni alle condutture
dell’elettricità.
LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE
Non sempre cagionare danno ad altri è di per sé illecito, la condotta dannosa assume tale
carattere soltanto allorquando sia accompagnato dal carattere dell’ingiustizia. Le cause di
giustificazione che escludono l’antigiuridicità del fatto dannoso sono: la legittima difesa, il
consenso dell’avente diritto, l’esercizio di un diritto e l’obbedienza ad un ordine superiore, queste
sono le cause di giustificazione oggettive. Mentre quelle soggettive sono: incapacità di intendere
e di volere, e lo stato di necessità. Per discorrere di legittima difesa è richiesta la necessità di
difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che vi
sia proporzione tra difesa e offesa. Per quanto riguarda il consenso dell’avente diritto, colui che
sacrifica un diritto altrui, con il consenso specifico di chi poteva disporne, non va contro alla
responsabilità civile. Presupposti della causa di esclusione della responsabilità sono la
legittimazione del consenziente, la validità del consenso e la disponibilità del diritto di cui
consente la lesione. E infine è evidente che non cagionerà alcun danno antigiuridico a terzi chi
esercita un proprio diritto o obbedisca ad un ordine legittimo superiore. Per quanto riguarda le
cause di giustificazione personali o soggettive, non risponde alle conseguenze del danno chi non
aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui l’ha commesso. Inoltre esime da
responsabilità anche lo stato di necessità ovvero l’aver agito dalla necessità di voler salvare sé
o gli altri dal pericolo attuale, a condizione che il pericolo non sia stato volontariamente causato
o non fosse altrimenti evitabile dall’autore. È previsto in favore del soggetto leso in conseguenza
dell’azione necessitata del danneggiante, la prestazione di un’equa indennità, la cui misura è
rimessa all’equo apprezzamento del giudice. Relativamente al caso fortuito e alla forza maggiore,
entrambe risultano funzionali alla descrizione di un evento inevitabile in relazione alla diligenza
normalmente esigibile da un individuo.
Il legislatore ha regolato alcune ipotesi speciali di responsabilità nell’ottica del favor victimae e
della necessità di non lasciare alcun danno senza una riparazione. Una delle risposte elaborate
dal legislatore al fine di favorire le ragioni della vittima è stata quella di alleggerire l’onere
probatorio, elaborando due figure di responsabilità speciali, la responsabilità oggettiva e quella
aggravata. Entrambe le figure esonerano il danneggiato dall’onere della prova della colpevolezza
del danneggiante, lasciando in capo alla vittima esclusivamente l’onere di dimostrare la
sussistenza degli elementi soggettivi, cioè il danno e il nesso causale. Nella responsabilità
oggettiva l’onere probatorio inerente alla colpevolezza del danneggiante è cancellato in maniera
sostanziale, cioè essa prescinde del tutto dai requisiti soggettivi della colpa o del dolo. Mentre
nella responsabilità aggravata non vi è l’assenza dell’elemento soggettivo, bensì l’inversione
dell’onere probatorio ad esso relativo: cioè sarà lo stesso danneggiante a dover fornire una prova
contraria alla sua presunzione di colpevolezza.
Qualora il rischio del potenziale verificarsi della lesione del terzo non possa essere in nessun
modo eliminato, le disposizioni del codice inquadrano la fattispecie nel novero della responsabilità
oggettiva, imponendo al danneggiante di risarcire i danni oggettivamente a lui imputabili. Al
contrario se il rischio dell’avverarsi del danno è collegato alla cosa o alle attività pericolose e sia
eliminabile, si avrà ipotesi di responsabilità aggravata, ove la colpevolezza si presume ed è il
danneggiante a dover dimostrare l’avvenimento fortuito, eccedente la propria sfera di diligenza
che abbia cagionato il danno. Si è soliti discorrere di responsabilità aggravato in considerazione
del peculiare regime di presunzione di colpa incombente sul danneggiante. Si considerano
fattispecie di responsabilità oggettiva quella dei padroni e dei committenti, del proprietario e del
veicolo, quella connessa alla custodia di cose, o di animali di quella da prodotta difettoso.
Costituiscono ipotesi di responsabilità aggravata quella del sorvegliante, dei genitori e degli
insegnanti e quella derivante dall’esercizio di attività pericolose.
I genitori ed i tutori sono responsabili de fatto illecito cagionato dai figli minori non emancipati,
dalle persone soggette alla loro tutela e con loro conviventi (art.2048). La responsabilità dei
genitori è inquadrata nel novero delle fattispecie di responsabilità per fatto proprio e a titolo di
colpa presunta. I genitori sono chiamati a rispondere dei danni materialmente cagionati da un
terzo da un soggetto (il minore) rispetto al quale l’ordinamento attribuisce loro un dovere di
vigilanza e controllo. La colpa imputabile ai genitori si traduce nel non aver adeguatamente
sorvegliato (culpa in vigilando) oppure educato (culpa in educando) il minore. La culpa in
educando si rinviene nell’ipotesi in cui il figlio minore, pur non vivendo più con i genitori, compia
un atto illecito di tale gravità da rendere palese il difetto di un’idonea educazione. I genitori sono
liberati dalla responsabilità solo se provino di non aver potuto impedire il fatto del minore e di
aver impartito al figlio un’adeguata educazione e di aver esercitato sullo stesso la vigilanza
necessaria in relazione alla sua età ed istruzione. Ciò riguarda non solo i genitori, ma anche i
precettori. L’insegnante al fine di soddisfare l’onere probatorio deve dimostrare di non aver
potuto impedire il fatto. L’insegnante deve essere stato in grado di attivare un intervento
correttivo o repressivo, e deve dimostrare in via precauzionale tutte le misure disciplinari e
organizzative idonee.
Tipica ipotesi di responsabilità oggettiva per fatto altrui è l’art. 2049 che dispone testualmente
che “i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro
domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. È applicabile alle
fattispecie in cui si ha un soggetto (il preponente) che utilizza a diverso titolo il lavoro di altri
(preposti). Rientrano in questa fattispecie la responsabilità dell’imprenditore in genere, quella
dell’appaltante, delle imprese bancarie, degli Enti ospedalieri, dell’agenzia ecc.. Al preponente
non viene data alcuna possibilità di dimostrare la propria irresponsabilità per il fatto preposto e
si prescinde da ogni valutazione circa l’effettiva colpevolezza del responsabile. La disposizione
risponde all’unica logica secondo cui il fatto di utilizzare l’attività lavorativa altrui comporta anche
l’assunzione dei rischi connessi a tale attività. I presupposti di questa fattispecie sono 3: il
rapporto di preposizione, il fatto illecito del preposto e il legame diretto tra l’attività propria del
preposto ed il danno. Per quanto concerne il rapporto di preposizione, perché esso sussista in
concreto sono necessari due elementi: l’appropriazione dell’attività altrui ed il potere di direzione
del preponente rispetto all’attività del preposto. Per quanto concerne il secondo presupposto di
cui alla disposizione in esame, il fatto illecito del preposto, è necessario osservare come la
fattispecie della responsabilità del preponente sia applicabile esclusivamente al fatto doloso o
colposo del preposto. In sostanza la responsabilità del preponente presuppone la responsabilità
del preposto per tale danno.
LE ATTIVITA’ PERICOLOSE
L’art.2050 è dedicato alla disciplina dei danni conseguenti l’esercizio di attività pericolose e
stabilisce che qualora un soggetto, nell’esercizio di un’attività pericolosa, per sua natura o per
natura dei mezzi adoperati, arrechi un pregiudizio a terzi è tenuto al risarcimento del danno
prodottosi a meno che non riesca a provare di aver adottato tutte le misure idonee al fine di
evitare il danno. Sono prese in considerazione le attività svolte nelle fabbriche o collegate al
trasporto di materiali esplosivi o infiammabili, ed inoltre anche le attività in materia di
prevenzione degli infortuni e di tutela dell’incolumità pubblica. Oltre questi casi in cui la
pericolosità è normativamente esplicata, il giudizio su di essa è rimesso alla valutazione del
giudice di merito. Tutte quelle attiva che abbiano una pericolosità intrinseca o dipende dalle
modalità di esercizio o dai mezzi di lavoro abitualmente impiegati sono definite pericolose. La
giurisprudenza distingue le attività intrinsecamente pericolose da quelle che sono tali solo per le
caratteristiche dei mezzi adoperati. Il criterio di pericolosità in questi casi va individuato nella
possibilità del verificarsi di un danno in connessione con essa, non soltanto nell’ipotesi di danno
che sia conseguenza di un’azione specifica ma anche il danno derivante dall’omissione delle
misure precauzionali. Per questo motivo sono giudicate pericolose le attività edilizie, il servizio
ferroviario e quello portuale, la produzione di energia elettrica e la produzione e accensione di
fuochi d’artificio. Perché possa operare la presunzione di colpevolezza a carico del danneggiante
è necessario il preventivo accertamento dell’esistenza del nesso eziologico tra l’esercizio
dell’attività pericolosa e l’evento dannoso: la prova relativa al nesso di causalità è affidata
all’iniziativa esclusiva del danneggiato. Per la prova liberatoria posta a capo dell’esercente
l’attività pericolosa, la presunzione di colpevolezza può essere sciolta tramite una prova della
propria estraneità all’eventus damni estremamente rigorosa, dal momento che è posto a carico
del presunto danneggiante l’onere di dimostrare l’adozione di “tutte le misure idonee ad evitare
il danno”.
L’art. 2051 stabilisce che ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in
custodia, salvo che provi il caso fortuito. Elemento indispensabile è la diretta relazione tra la
cosa in custodia e l’evento dannoso, intesa nel senso che la prima abbia prodotto direttamente
il secondo. Non rientrano nell’ambito applicativo tutte quelle ipotesi in cui la cosa abbia
semplicemente costituito lo strumento mediante il quale l’uomo abbia causato il danno a terzi
tramite la propria azione od omissione: il danno deve essere cagionato indipendentemente dal
comportamento volontario di chi serve della cosa. La norma trova applicazione con solo
riferimento ai danni che derivino non dall’azione umana, ma dal dinamismo delle cose stesse.
Non assume rilevanza, al fine di escludere la responsabilità, che il processo sia stato provocato
da elementi esterni alla res tutte le volte in cui essa sia suscettibile di produrre danni
indipendentemente dal comportamento volontario di colui che se ne serve. Altro presupposto è
quello della custodia, intendendo per essa il potere di materiale disponibilità della cosa e di
effettivo controllo della stessa. È frequente che la responsabilità per i danni da cose in custodia
sia estensibile a più soggetti, ai quali la custodia stessa faccia capo a pari titolo o anche per titoli
diversi, che però comportino tutti l’attuale esistenza di poteri di uso, di gestione e di controllo
del bene: è il caso, ad esempio, della comproprietà della cosa. Unica prova liberatoria offerta al
custode della cosa per andare esente da responsabilità è quella del caso fortuito. In particolare
il comportamento del custode è assolutamente estraneo alla struttura dell’illecito. Il custode a
fronte della sola prova del nesso di causalità tra res ed eventus damni è tenuto ad offrire la prova
contraria mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito e cioè di un fatto completamente
estraneo alla sua sfera di controllo, avente impulso causale autonomo e carattere di
imprevedibilità ed assoluta eccezionalità.
L’art. 2052 prevede che il proprietario di un animale risponde del danno cagionato dall’animale
stesso, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il
caso fortuito. Vista la drastica riduzione dell’utilizzo di animali quale forza lavoro, l’art.2052
conserva per lo più una residuale sfera di applicazione in ordine degli animali domestici o di
compagnia ed ai danni da questi cagionati. Presupposto oggettivo di questa fattispecie di
responsabilità presunta è che autore materiale della lesione ai terzi sia lo stesso animale. La
presunzione di responsabilità presuppone il collegamento eziologico dell’evento dannoso ad
un’azione materiale dell’animale e pertanto essa non trova applicazione nel caso in cui il danno
dipenda da un comportamento colpevole del proprietario o del custode di esso. Condizione
implicita di tale forma di responsabilità deve essere individuata non nella pericolosità dell’animale
ma nella sua suscettibilità ad essere governato ed a divenire di proprietà dell’uomo. La norma
individua come responsabili del danno cagionato dall’animale il proprietario o chi se ne serve per
il tempo in cui lo ha in uso. La responsabilità del proprietario dell’animale è esclusa in tutti i casi
in cui il danno sia cagionato mentre l’animale sia nella materiale disponibilità di altri, con
correlativo trasferimento del dovere di custodia. Tale principio della responsabilità del custode
trova applicazione indipendentemente dal fatto che l’evento dannoso si sia verificato mentre
l’animale era effettivamente sotto il controllo dell’affidatario oppure a seguito di smarrimento o
fuga dello stesso. Il danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile dallo Stato. Al fine di
ottenere il risarcimento dei danni subiti, il danneggiato dovrà provare esclusivamente il nesso
causale tra il fatto dell’animale ed il danno subito. A seguito di siffatta dimostrazione, il
proprietario per sottrarsi alla responsabilità è tenuto a fornire la prova del caso fortuito. Non è
sufficiente che il proprietario o custode provino di aver usato l’ordinaria diligenza nella custodia
dell’animale, ma occorre la prova del caso fortuito, cioè di un evento imprevedibile, inevitabile,
assolutamente eccezionale. Può consistere in un fatto del terzo o nella colpa dello stesso
danneggiato, purchè tale evento presenti i predetti caratteri dell’imprevedibilità e dell’assoluta
eccezionalità. Nell’ipotesi di scontro tra veicolo ed animale, il concorso fra le presunzioni di
responsabilità stabilite a carico del conducente del veicolo e del proprietario dell’animale
comporta la pari efficacia di entrambe le presunzioni. Se soltanto uno dei soggetti interessati
superi la presunzione di responsabilità posta a suo carico, la responsabilità graverà sull’altro.
Mentre, in ipotesi di superamento della presunzione da parte di tutti i soggetti coinvolti
nell’incidente, ciascuno andrà esente da responsabilità, che al contrario, graverà su entrambi
qualora nessuno raggiunga la prova liberatoria. I danni cagionati dai veicoli a trazione animale
non rientrano nell’ambito di applicazione della responsabilità dei proprietari o custodi dell’animale
bensì di quella del conducente o del proprietario del veicolo.
ROVINA DELL’EDIFICIO
L’art. 2053 stabilisce che il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei
danni cagionati dalla loro rovina, salvo che provi che questa non è dovuta a difetto di
CIRCOLAZIONE DI VEICOLI
L’art. 2054 prende in considerazione 3 tipologie di danni connesse alla circolazione dei veicoli
senza guida di rotaie: 1) quelli derivanti a persone e cose dal fatto del conducente; 2) quelli
cagionati da vizi di costruzione; 3) quelli attuabili ad un difetto di manutenzione. La
responsabilità per tali danni è attribuita al conducente del veicolo ed al proprietario di esso. Il
conducente risponde per un fatto proprio, essendo l’autore materiale del danno; al contrario, il
proprietario, l’usufruttuario e l’acquirente risponderanno a titolo indiretto, in virtù del rapporto
di tipo dominicale che vantano nei confronti del bene attraverso cui è stato realizzato l’illecito.
L’art. 2054 non si applica ai veicoli circolanti su rotaie. Per circolazione deve intendersi il
movimento, la sosta e la fermata dei veicoli sulla strada. Ciò indipendentemente dalla natura,
pubblica o privata, della strada. Per conducente deve intendersi il soggetto che, anche in maniera
occasionale, si trova alla guida del veicolo. Si considera tale anche colui che lascia la vettura in
sosta, come in caso di danni arrecati da un veicolo che, sebbene parcheggiato, si muova per
effetto di un guasto al sistema frenante. L’unica prova liberatoria offerta al conducente è la
dimostrazione “di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”, sebbene egli rimanga
comunque responsabile dei danni riconducibili a vizio di costruzione o a difetto di manutenzione
del veicolo. Il conducente è tenuto a dimostrare di aver posto in essere ogni forma di cautela
possibile, ma comunque entro i limiti della normale diligenza. La prova liberatoria non deve
necessariamente essere offerta in modo diretto ma può risultare anche dall’accertamento che il
comportamento della vittima sia stato il fattore causale esclusivo dell’evento dannoso non
evitabile da parte del conducente. In tal senso, vengono rilevate le esimenti del caso fortuito e
della forza maggiore o del fatto del terzo. Ogni veicolo può circolare solo se la responsabilità del
conducente è garantita da una polizza assicurativa. Le prestazioni del Fondo di Garanzia Vittime
della strada per ristorare le vittime di un sinistro stradale in cui il veicolo sia sprovvisto di
assicurazione o sia rimasto sconosciuto, hanno natura risarcitoria e non meramente
indennizzatoria. Oltre al conducente del veicolo sono indicati come responsabili solidali per i
danni conseguenti alla circolazione del veicolo: il proprietario dell’autovettura o, in alternativa,
l’usufruttuario e l’acquirente con patto di riservato dominio della stessa. La disciplina codicistica
prevede come unica causa di esonero la dimostrazione che la circolazione del veicolo è avvenuta
contro la sua volontà. La giurisprudenza ha ormai consolidato che per vincere la presunzione di
responsabilità non è sufficiente dimostrare che la circolazione del veicolo sia avvenuta senza il
consenso del proprietario (invito domino) ma è necessario che detta circolazione si sia realizzata
contro la sua volontà (prohibente domino). Per i danni, invece l’art. 2054 tratta di danni arrecati
a persone o cose. Relativamente ai danni delle persone, un’ipotesi è rappresentata dalle lesioni
subite dal terzo trasportato. Il vettore si impegna a trasportare cose o persone, rispondendo per
ogni danno che essi subiscano in ragione della circolazione, a meno che non riesca a provare di
aver adottato tutte le misure precauzionali idonee ad evitare il danno. Per quanto riguarda i
danni cagionati alle cose, si ha l’ipotesi della collisione tra veicoli, stabilendo che fino a prova
contraria, ciascuno dei conducenti si presume abbia concorso ugualmente a produrre il danno
subito dai singoli veicoli. Sicchè in caso di sinistro, al fine di rendere inoperante la presunzione
in esame, non sarà sufficiente la dimostrazione dell’altrui colpa, ma risulterà necessario fornire
la prova liberatoria in ordine alla propria colpevolezza. Il diritto al risarcimento dei danni
conseguenti alla circolazione dei veicoli si prescrive in 2 anni.
La disciplina della responsabilità del produttore è confluita nel Codice del Consumo. Il produttore
è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto. La responsabilità del produttore
rappresenta un particolare regime di responsabilità, specificamente destinato a disciplinare il
risarcimento dei danni connessi alla circolazione sul mercato di prodotti che, a causa di un difetto
di produzione, arrechino un danno a chi li utilizza o terzi. La responsabilità oggettiva, per cui il
risarcimento, al fine di ottenere il risarcimento, è tenuto a provare esclusivamente l’esistenza
del difetto senza che assuma alcun rilievo la colpevolezza del produttore. La responsabilità da
prodotto difettoso è escluso soltanto: 1) se il produttore non ha messo il prodotto in circolazione;
2) se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo in
circolazione il prodotto; 3) se il produttore ha fabbricato il prodotto per la vendita o per qualsiasi
altra forma di distribuzione a titolo oneroso, né lo ha fabbricato o distribuito nell’esercizio della
sua attività professionale; 4) se il difetto è dovuto alla conformità del prodotto a una norma
giuridica imperativa o a un provvedimento vincolante; 5) se lo stato delle conoscenze scientifiche
e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva
ancora di considerare il prodotto come difettoso; 6) nel caso del produttore o fornitore di una
parte componente o di una materia prima, se il difetto è interamente dovuto alla concezione del
prodotto in cui è stata incorporata la parte o materia prima o alla conformità di questa alle
istruzioni date dal produttore che la ha utilizzata. Per produttore si intende chi pone in essere il
prodotto finito, con esclusione tanto del produttore di un singolo componente del prodotto finito
tanto del produttore della materia prima. Sono equiparati al produttore sia l’importatore del
prodotto sia il fornitore, a meno che non abbia comunicato al danneggiato gli elementi idonei ad
identificare il produttore entro 3 mesi dalla relativa richiesta. Per prodotto deve intendersi ogni
bene mobile, anche incorporato in altro bene mobile o immobile. Il prodotto è difettoso quando
non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze,
come la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, l’uso al quale esso può essere
ragionevolmente destinato. Sono a carico del produttore il danno cagionato dalla morte o da
lesione personali, e la distruzione o il deterioramento di una cosa diversa dal prodotto difettoso,
purchè di tipo normalmente destinato all’uso o consumo privato e così principalmente utilizzata
dal danneggiato. Il danno alle cose è risarcibile soltanto nella misura in cui ecceda la somma di
387 euro: al fine di evitare una serie infinita di trivial claims. Il diritto al risarcimento del danno
derivante da responsabilità oggettiva del produttore si prescrive in 3 anni dal giorno in cui il
danneggiato ha scoperto il difetto. Il produttore non risponde dei danni del suo prodotto quando
siano trascorsi 10 anni dalla messa in circolazione dello stesso. Il danneggiato, dopo aver provato
la colpa del produttore, può ottenere risarcimento dei danni di un prodotto immesso sul mercato
da 10 anni, qualora non sia passato il termine prescrizionale ordinario di 5 anni decorrenti
dall’incidente.
Ai fini della configurazione della responsabilità aquiliana, non è sufficiente che si verifichi un fatto
illecito, né di per sé basta che vi sia un pregiudizio: tra il fatto e il danno (ingiusto) deve
intercorrere un nesso di causalità, nel senso che il secondo deve essere stato cagionato dal
primo. Il nesso di causalità sussiste quando senza l’azione o omissione del responsabile l’evento
dannoso non si sarebbe verificato. Il nesso di causalità tra fatto e danno ingiusto ha la funzione
precipua di distinguere quali danni siano effettivamente risarcibili in quanto ascrivibili
giuridicamente alla condotta umana. È questo il principio della causalità giuridica: in relazione al
verificarsi di un danno, dovranno considerarsi fatti causalmente rilevanti dal punto di vista
giuridico esclusivamente quelli legati all’evento dannoso da una relazione di immediata e diretta
consequenzialità secondo la normale dinamica degli accadimenti. Il risarcimento del danno deve
comprendere tanto la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto siano
conseguenza immediata e diretta dell’illecito. Sicchè dovranno selezionarsi, dal punto di vista
della rilevanza giuridica, esclusivamente quelli il cui legame causale con il danno sia diretto ed
immediato. Un evento dannoso può essere l’effetto di più condotte, attive ed omissive: in questo
caso si discorre di concause, che hanno cagionato il danno. L’art. 2055 dispone che se il fatto
dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno. È
ovvio che colui che ha risarcito il danno ha diritto di regresso contro ciascuno dei coautori. Il
nesso causale può dirsi interrotto quando nella sequenza causale si inserisce un altro evento,
che prende il sopravvento nella genesi del danno. Le causa che per antonomasia interrompono
il nesso causale sono il caso fortuito e la forza maggiore. Si tratta di cause naturali che si
producono indipendentemente dalla volontà umana; la forza maggiore consiste in un evento
naturale al quale è impossibile opporre resistenza. Il caso fortuito è un avvenimento
imprevedibile ed inevitabile, che abbia determinato il danno, e sfugge ad ogni possibile controllo
umano. Sono esclusi dal risarcimento i danni che siano da ricollegare ad un evento anomalo
sopravvenuto e quelli che la vittima stessa, con ordinaria diligenza, avrebbe potuto evitare.
Attualmente si afferma la teoria della causalità inadeguata, secondo cui la teorica equivalenza di
tutte le concause giuridicamente rilevanti rispetto ad un determinato danno è temperata dalla
concreta idoneità di un fattore causale sopravvenuto di sganciarsi dalle concause anteriori e di
assurgere, così a causa determinante esclusiva.
LA PERDITA DI CHANCE
Il danno da perdita di chance è stato utilizzato al fine di aggirare il problema della ricostruzione
del legame eziologico che può legare un fatto noto (la condotta pregiudizievole del danneggiato)
ad uno ignoto (la perdita di un risultato utile astrattamente conseguibile dal danneggiato). Con
il riconoscimento del danno da perdita di chance si ha una sostanziale dilatazione dell’area del
danno risarcibile, che copre la perdita non soltanto dell’utilità finale, ma anche dell’opportunità
di conseguire tale utilità. Generalmente si discorre di perdita di chance intendendo la perdita
attuale di un miglioramento futuro e possibile. La chance non è una mera aspettativa di fatto ma
un’entità patrimoniale a sé stante. Originariamente il danno da perdita di chance non era stato
ritenuto autonomamente risarcibile. Soltanto con la progressiva svalutazione del dogma della
riconducibilità dei soli diritti assoluti alla sfera di tutela ex.art.2043 si è potuti giungere all’attuale
qualificazione della perdita di chance quale danno autonomo, immediatamente riconducibile alla
sfera di tutela dell’art.2043. Il riconoscimento della risarcibilità della perdita di chance si traduce
in una sorta di “allargamento” della sfera di incidenza del nesso di causalità, che andrebbe a
coprire, quale conseguenza diretta dell’agire del danneggiante, non soltanto la perdita del bene
finale bensì anche la perdita della mera probabilità di conseguire tale bene. Estremamente
difficile e dibattuto è risultato essere l’inquadramento del danno da perdita di chance,
qualificandolo correttamente quale perdita attuale di un’utilità futura e possibile, il danno da
perdita di chance non risulta essere più un danno futuro bensì presente ma appare agevolmente
inquadrabile nel novero del danno patrimoniale e precisamente del danno emergente. Il ridotto
grado di concretizzazione di essa inciderà esclusivamente sull’entità (sul quantum) del
risarcimento.
LA RESPONSABILITA’ SOLIDALE
Come dispone l’art.2055, se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in
solido al risarcimento del danno. Il vincolo di solidarietà che lega i coautori comporta che il
danneggiato possa pretendere, da ciascuno dei coobbligati, la totalità della prestazione
risarcitoria. Presupposti della fattispecie sono esclusivamente l’unicità del danno prodottosi e
l’imputabilità di esso a più soggetti. L’unicità del fatto dannoso richiesta dalla norma non deve
essere intesa in senso assoluto, ma relativo alla posizione del soggetto leso, ricorrendo il vincolo
di solidarietà anche se l’eventus damni sia derivato da azioni o omissioni differenti, imputabili a
diverso titolo ai vari autori di esse. Tanto i rapporti esterni, tra danneggiato e corresponsabili,
quanto quelli interni, tra i diversi corresponsabili, sono regolati dalle norme in tema di
obbligazioni solidali. È chiaro come ciascun responsabile non possa opporre al danneggiato né le
cause di liberazione né quelle di esenzione di responsabilità proprie degli altri coobbligati. Le
quote del risarcimento complessivo dovute da ciascuno si determinano in virtù della gravità della
rispettiva colpa e dell’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Colui che ha risarcito la
totalità del danno ha la possibilità di agire in regresso contro ciascuno degli altri corresponsabili
in ragione delle rispettive quote.
L’art. 2056 richiama l’art. 127 che prescrive che “se il fatto colposo del creditore ha concorso il
danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che
ne sono derivate”. Al II comma sancisce che non è dovuta alcuna forma di risarcimento
nell’ipotesi in cui il danneggiato avrebbe potuto evitare ogni lesione usando l’ordinaria diligenza.
La prima ipotesi presuppone il concorso colposo del danneggiato nella produzione dell’evento
lesivo e quindi una sua condotta attiva. Nella seconda ciò che rileva è la mancata attivazione del
soggetto leso, dal momento che le conseguenze lesive del danno avrebbero potuto essere
impedite o almeno attenuate tramite un comportamento diligente del danneggiato. Nel caso di
concorso del fatto del danneggiato, il risarcimento deve essere proporzionalmente ridotto in
ragione dell’entità percentuale dell’efficienza causale del comportamento della vittima. Al II
comma l’ordinaria diligenza del danneggiato deve essere valutata esclusivamente alla luce della
sua condotta successiva al verificarsi del danno, restando irrilevante i comportamenti tenuti
anteriormente ad esso.
Il risarcimento consiste nel ripristino della situazione lesa e costituisce l’essenza della funzione
“riparatoria” della responsabilità civile. Tale obiettivo, può essere raggiunto o mediante la
“monetizzazione” del pregiudizio ovvero attraverso la reintegrazione in forma specifica. Nel primo
caso, il giudice determina una somma di danaro che funge da equivalente del danno patito. L’art.
IL DANNO PATRIMONIALE
Il danno ingiusto viene distinto in due categorie principali: il danno patrimoniale e quello
extrapatrimoniale. Il primo incide sulla sfera economico-patrimoniale del soggetto leso. A sua
volta viene suddiviso nelle due varianti del danno emergente e del lucro cessante. Con la prima
espressione si allude alla “perdita secca” o diminuzione patrimoniale patita dalla vittima. Con la
seconda, ci si riferisce al guadagno che la vittima ha perso in conseguenza della lesione subita
e, di conseguenza, quello connesso al lucro cessante è un danno normalmente futuro.
Il danno extrapatrimoniale tratta di una lesione che non incide sulla sfera patrimoniale della
vittima, ma si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona
non connotati da rilevanza economica. L’art. 2059 sancisce che il danno non patrimoniale deve
essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge. Il legislatore ha inteso prevenire il rischio
di un utilizzo speculativo della responsabilità civile. Il risarcimento del danno patrimoniale da
fatto illecito è caratterizzato dall’atipicità. Il risarcimento del danno non patrimoniale è connotato
da tipicità, poiché tale danno è risarcibile soltanto nei casi determinati dalla legge. Il danno non
patrimoniale viene scisso nel danno biologico in senso stretto (integrità fisica), nel danno morale-
soggettivo (sofferenza psichica e patema d’animo), e nel danno esistenziale (ulteriori pregiudizi).
È prevista la risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente a reato. Ciò significa che ogni
reato obbliga al risarcimento il colpevole. Nell’ipotesi in cui il fatto illecito si configuri anche come
reato, allora, il danno non patrimoniale sarà risarcibile, tanto in favore della persona offesa tanto
in favore degli ulteriori eventuali danneggiati. La nozione di danno morale definisce il patimento
o il turbamento che il soggetto subisce in conseguenza del reato. Esistono altri casi di
risarcimento dei danni non patrimoniali previsti da leggi ordinarie in relazione alla
compromissione di valori personali come il trattamento illecito dei dati personali. Il risarcimento
del danno patrimoniale è sempre collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona, ad
esempio, la riservatezza, la libertà personale e la non discriminazione. Fuori dai casi determinati
dalla legge, il danno non patrimoniale è risarcibile quando venga accertata la lesione di un diritto
inviolabile della persona, si ha l’ingiustizia costituzionalmente qualificata.
La quantificazione del danno pone molteplici complesse questioni. L’art. 2056 stabilisce che il
risarcimento dei pregiudizi causati in via extracontrattuale si applichino alle disposizioni dettate
I rapporti giuridici trasmissibili possono essere trasferiti dal loro titolare attuale (dante causa)
ad altro soggetto (avente causa) attraverso o successione tra vivi o mortis causa. Questo
secondo caso avviene soltanto in caso di morte del dante cause che prende il nome di “de cuius”.
Alcuni rapporti (come i diritti personali) si estinguono con la morte del titolare, altri invece
sopravvivono e costituiscono l’eredità o asse ereditario. Questi necessitano di una nuova titolarità
che viene assicurata con la successione mortis causa, ovvero consentendo l’acquisto da parte di
persone indicate dal defunto o individuate dalle disposizione di legge. Se queste mancano allora
lo Stato dopo aver estinto le obbligazioni del defunto acquisisce al proprio patrimonio l’eventuale
residuo attivo. La morte costituisce il fatto giuridico in conseguenza del quale avviene il
trasferimento e la giustificazione di esso. La successione per causa di morte è contemplata anche
dalla Costituzione all’art.42 in tema di acquisto della proprietà privata. L’ordinamento riconosce
il diritto di alcuni familiari (eredi legittimari) ad avere riservata una quota del patrimonio del de
cuius. La successione mortis causa costituisce una fattispecie di acquisto a titolo derivativo
perché consiste nel subentro da parte di un soggetto nella titolarità di rapporti appartenenti ad
altro.
La successione per causa di morte può essere: 1) a titolo universale quando all’avente causa
sono devoluti tutti i rapporti già appartenenti al de cuius o una quota degli stessi, e questo
fenomeno viene detto anche successione ereditaria e il successore è chiamato erede; 2) a titolo
particolare quando il successore subentra in un singolo rapporto, egli prende il nome di legatario
e la disposizione che lo investe del rapporto si chiama legato. L’erede può essere istituito dalla
volontà del de cuius o dalla legge attraverso le disposizioni che individuano la successione
legittima. Il legatario è indicato dal de cuius solo attraverso il testamento. Egli riceve un diritto
o un vantaggio in virtù di un atto di liberalità, una sorta di “donatario dell’ultima ora” cui il
testatore garantisce un beneficio. Il testatore può indicare i suoi successori senza precisare se
siano eredi o legatari e in questo caso bisogna interpretare la volontà del de cuius. Se al
successore viene riservata l’intera eredità o parte, egli è senz’altro erede. Se invece abbia
attribuito singoli beni è necessario accertarne l’effettiva volontà. Nel caso in cui i beni non
costituiscano una quota del patrimonio ereditario, ma solo cespiti autonomi, si tratta di legato.
Ad esempio se il de cuius avente due case uguali di valore, ne lascia una ciascuna ai due figli, in
questo caso bisogna interpretare dal resto del testamento se la divisione equa sia riferita solo a
quella parte del patrimonio (in questo caso sono legatari) o a tutto il patrimonio (in questo caso
sono eredi).
LE SUCCESSIONI ANOMALE
Ci sono casi stabiliti dalla legge in cui determinati soggetti sono considerati successori a titolo
particolare. 1) successione nelle indennità dovute al lavoratore alla fine del rapporto di lavoro,
ovvero l’indennità di preavviso o il trattamento di fine rapporto spettante al dipendente. Queste
indennità vengono attribuite al coniuge, ai figlio o in mancanza a parenti ed affini del de cuius a
condizione che questi vivessero a suo carico. Il beneficio è inderogabile, cioè non può essere
escludo o modificato dal de cuius attraverso testamento. Solo in caso di mancanza di beneficiari
questa viene attribuita agli eredi legittimi o testamentari e rientra nella massa ereditaria. 2) altra
successione anomala è data dalla morte del conduttore di un immobile ad uso ablativo, nel
contratto di locazione succedono il coniuge o altri parenti ed affini conviventi abitualmente col
defunto. Si parla di legato ex lege o di successione anomala per due ragioni: la prima perché i
rapporti in questione sono attribuiti dalla legge a titolo particolare, la seconda perché i criteri di
individuazione dei successori non corrispondono a quelli ordinari della successione disposta per
legge.
L’erede subisce normalmente la conseguenza della confusione del proprio personale patrimonio
con quello ereditario, sicchè risponde dei debiti ereditari anche con i propri beni ed anche al di
là del valore di quelli oggetto dell’eredità. L’erede succede nel possesso del de cuius, per cui
unisce automaticamente al periodo di suo possesso personale quello del suo dante causa con
tutte le caratteristiche che esso aveva con riferimento al defunto stesso. Ad esempio il de cuius
possesso in mala fede di un bene, trasferisce questa caratteristica all’erede, e ciò vale anche la
pubblicità, la clandestinità, la violenza. Il legatario non acquista i debiti ereditari e non ne
risponde. I creditori del defunto posso rivalersi sul bene oggetto del legato: il defunto non può
effettuare liberalità prima di aver pagato tutti i debiti, dunque i suoi creditori possono agire anche
sul bene destinato al legatario ma non potranno mai chiedere a questo di adempiere alle
obbligazioni del de cuius poiché non ne risponde col suo patrimonio personale. Il legatario può
scegliere se unire a quello del de cuius il proprio possesso, che è comunque nuovo possesso con
caratteristiche autonome. Si parla in questo caso di accessione nel possesso, volendosi con ciò
significare l’inizio di una nuova situazione possessoria derivata.
indica il titolo in virtù del quale il successore viene scelto o chiamato all’acquisto dei rapporti
lasciati dal de cuius. L’eredità si devolve per legge o per testamento, quindi sono questi i criteri
utilizzati per la chiamata alla successione (art.457). Esistono 3 tipi di vocazione: a) vocazione
testamentaria, quando lo stesso defunto abbia provveduto a chiamare i suoi successori
attraverso il testamento; b) vocazione legittima, quando il de cuius non abbia fatto testamento
sicchè gli eredi sono indicati dalla legge; c) le disposizioni testamentarie non devono pregiudicare
i diritti riservati ai legittimari, ovvero i familiari a cui è attribuita una quota del patrimonio stesso.
Tale vocazione è detta dei legittimari o nella legittima. Si attua contro la volontà del testatore, a
differenza di quanto avviene nel caso di successione legittima che invece si attua in mancanza
di volontà. Alla vocazione segue la delazione che consiste nella concreta offerta al chiamato del
diritto di acquistare l’eredità. Conseguono una serie di effetti giuridici come la nascita in capo al
chiamato del diritto potestativo di acquisire attraverso accettazione l’eredità e di diventare vero
e proprio erede. 3) l’acquisto è la fase che chiude il fenomeno successorio e che immette il
successore nella concreta titolarità dei rapporti lasciati dal de cuius. Nel caso di eredità l’acquisto
non è automatico ma è necessario un atto con cui quest’ultimi dichiarino di voler acquistare
l’eredità ad essi offerta e tale atto prende il nome di accettazione. Il legato si acquista di diritto
all’apertura della successione, ma è data al legatario la facoltà di rifiutarlo.
Non è consentito precostituirsi un diritto ad una successione ancora aperta. L’art.458 stabilisce
che è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È nullo ogni atto
col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta
o rinuncia ai medesimi. Il divieto riguarda tre categorie di patti successori: a) patti istitutivi, che
sono quegli accordi bilaterali con cui una persona istituisce il suo successore d’accordo con
quest’ultimo. La ratio del divieto sta nel fatto che un accordo istitutivo è irrevocabile da parte
del disponente. b e c) patti dispositivi e patti rinunciativi in cui colui che aspetta una chiamata
ereditaria dispone dell’eredità non ancora aperta o rinuncia alla stessa. Sono nulli perché
l’aspettativa di una successione non costituisce valido oggetto di un atto dispositivo e inoltre è
immorale compiere atti sulla speranza della morte di altra persona. La nullità preclude ogni
indagine sulla buona o malafede degli autori. Colpisce i patti successori con effetti reali ma anche
quelli con effetti obbligatori. In tali casi si ritiene che la nullità del patto obbligatorio istitutivo si
estenda al successivo testamento mancando la necessaria spontaneità della disposizione
testamentaria. I patti successori sono in genere bilaterali e a contenuto patrimoniale; la loro
nullità può essere regolata dalle norme relative alla nullità dei contratti. Può essere fatta valere
da chiunque vi abbia interesse e rilevata d’ufficio dal giudice. La relativa azione è imprescrittibile
e il patto successorio non è suscettibile di convalida. Abbiamo poi i contratti post mortem che
non attuano una successione per causa di morte ma la morte costituisce solamente il momento
dal quale si produce l’effetto traslativo. Le più importanti figure sono costituite dal contratto a
favore di terzo da eseguirsi dopo la morte dello stipulante e dalla donazione si praemoriar, in cui
i beni oggetto della donazione vengono trasferiti al beneficiario della soltanto a condizione che
quest’ultimo sopravviva al donante. La prassi contrattuale ha elaborato le cosiddette clausole di
consolidamento che consentono ai soci di una società di acquistare in prelazione le partecipazioni
di un altro socio che deceda in modo da garantire che la gestione di una società resti nelle mani
della compagine preesistente.
I PATTI DI FAMIGLIA
I patti di famiglia sono dichiarati validi anche in deroga alla previsione di divieto dei patti
successori. L’imprenditore e il titolare di partecipazioni societarie possono attribuire la propria
azienda o le proprie partecipazioni ad un discendente. È necessario che il beneficiario della
trasmissione sia discendente del disponente. Il patto deve riguardare partecipazioni in società o
aziende e cioè compendi di beni organizzati per l’esercizio dell’attività di impresa. I patti di
famiglia possono avere natura tra vivi o di atti mortis causa. Quando il patto di famiglia ha natura
di atto tra vivi si qualifica in termini di atto a titolo gratuito, nel quale la causa del trasferimento
può essere individuata nell’interesse familiare. Qualora il patto abbia natura di atto mortis causa,
assume natura di vero e proprio patto successorio. È valido perché il legislatore tutela l’interesse
dell’imprenditore al trasferimento contrattuale della sua impresa. I patti di famiglia devono
essere stipulati per atto pubblico a pena di nullità. Devono partecipare tutti coloro che sarebbero
eredi legittimari ove la successione fosse aperta alla data della conclusione del patto. Il de cuius
non può disporre con atti di liberalità della parte di patrimonio riservata agli eredi legittimari,
che è chiamata quota di legittima o legittima. Queste variano a seconda del numero e della
tipologia di eredi legittimari e rappresenta una frazione dell’intero patrimonio del de cuius. In
questo caso agli eredi legittimari viene liquidata la quota di legittima calcolata sul valore
dell’impresa o delle partecipazioni oggetto di trasferimento. I legittimari ricevono un beneficio e
possono anche rinunciarvi. La rinunzia costituisce un vero e proprio patto successorio valido. La
novella al codice autorizza anche l’inserimento di nuovi eredi legittimari che entrino a far parte
della famiglia in un secondo momento. In questo caso questi hanno diritto di ottenere il beneficio,
cioè una somma pari alla quota di legittima calcolata sul bene oggetto del patto all’apertura della
successione e la maggiorazione degli interessi.
È necessario che sussistano alcuni presupposti che riguardano il successore. Quest’ultimo deve
possedere la generale capacità di essere titolare dei rapporti trasmessagli e non deve essere in
condizioni di incompatibilità che gli impediscano di venire alla successione rispetto all’eredità alla
quale sia stato chiamato. Il primo dei requisiti è denominato capacità di succedere la quale si
identifica con la capacità giuridica. La capacità di succedere presenta alcuni profili di specialità
rispetto alla disciplina della generale capacità giuridica (art.462). È attribuita a tutti colore che
sono nati o almeno concepiti al tempo dell’apertura della successione. I soggetti nati o almeno
concepiti possono essere destinatari di qualunque tipo di vocazione: possono essere contemplati
in un testamento; in mancanza di esso, sono chiamati quali eredi legittimi direttamente dalla
legge e possono agire per ottenere la quota di legittima ad essi spettante. Possono ricevere per
testamento anche i figli di una persona vivente al momento della morte del de cuius, anche se
non concepita. Nel solo caso di successione testamentaria la capacità di succedere è riconosciuta
anche ai concepturi. Anche le persone giuridiche possiedono la capacità di succedere e hanno
l’obbligo di accettare con il beneficio dell’inventario. Esistono poi incapacità di ricevere per
testamento. Sono nulle le disposizioni testamentarie fatte a favore del proprio tutore o protutore,
del notaio o di altro ufficiale che ha ricevuto il testamento pubblico, dei testimoni o dell’interprete
intervenuti all’atto stesso, della persona che ha scritto il testamento segreto, o anche del notaio
a cui il testamento è consegnato in plico non sigillato. Sono nulla anche se fatte a vantaggio dei
predetti incapaci a ricevere, sotto nome di interposta persona. Sono reputate persone interposte
il padre, la madre, i discendenti ed il coniuge della persona incapace a ricevere, anche se chiamati
congiuntamente con essa. Gli incapaci di ricevere per testamento sono impossibilitati ad
assumere solo la particolare eredità proveniente da un determinato soggetto e proprio in
considerazione dei loro specifici rapporti con il testatore. Si tratta di incapacità specifica e non
generale, e si discorre in questo caso di inabilità giuridica occasionale.
L’INDEGNITA’ A SUCCEDERE
Altra causa che impedisce la successione è costituita dalla indegnità a succedere (art.463-466)
e non comporta un’incapacità generale di acquistare in via ereditaria, ma è soltanto una causa
di esclusione dalla successione in casi particolari e tassativi. Questi consistono in ipotesi
delittuose commesse in danno del de cuius: 1) di atti che abbiano leso o tentato di ledere la vita
o l’integrità fisica del defunto, del coniuge, di un discendente o ascendente del medesimo; 2) di
atti che abbiano determinato la decadenza dalla potestà di genitore nei confronti del de cuius;
3) di comportamenti che hanno inciso sulla libertà testamentaria del defunto. L’indegnità ha
carattere relativo e non opera automaticamente e cioè ipso iure, ma deve essere pronunciata
con sentenza del giudice, su istanza di qualunque interessato. L’indegnità è sanabile: l’indegno
può essere riabilitato completamente se il de cuius con atto pubblico o con testamento esprima
la sua volontà in tal senso. La riabilitazione è parziale se il testatore abbia contemplato l’indegno
nel testamento senza tuttavia riabilitarlo espressamente: in tal caso, la riabilitazione è limitata
alla sola disposizione testamentaria.
Colui che riceve la vocazione ereditaria diviene titolare del diritto potestativo di acquistare
l’eredità mediante l’accettazione. Il chiamato può con la rinuncia all’eredità spogliarsi di tale
diritto. La rinuncia va fatta prima dell’acquisto dell’eredità poiché una volta acquisita la qualità
di erede non può più essere perduta. Dalla rinuncia pura e semplice (abdicativa) va distinta
quella traslativa che si verifica quando il chiamato rinuncia verso un corrispettivo o a favore di
alcuno degli altri chiamati, che viene così favorito perché potrà acquisire anche la quota del
rinunciante in deroga alle regole che disciplinano la vocazione. La rinuncia traslativa comporta
accettazione tacita dell’eredità da parte del rinunziante. Colui che acquista l’eredità dal
rinunziante diviene invece un avente causa dal rinunciante medesimo e non dal de cuius, sicchè
non acquisisce nemmeno la qualità di erede. La rinuncia abdicativa è un negozio unilaterale non
recettizio e deve essere ricevuta da notaio o dal cancelliere competente ed inserita nel registro
delle successioni. Viene annoverata nella categoria degli atti legittimi poiché non tollera
l’apposizione di condizione o termine e né può essere parziale. Il chiamato che abbia rinunziato
può revocare la rinunzia ed accettare l’eredità. La revoca può essere fatta fino a quando l’eredità
non sia stata acquisita da color che sono stati chiamati in sostituzione del rinunciante. La revoca
deve essere fatta mediante accettazione. La rinunzia può essere impugnata dal rinunziante
soltanto per violenza e dolo e non per errore. È possibile che essa rechi danno ai creditori del
chiamato. L’autorizzazione può essere concessa solamente se i creditori dimostrino di avere
effettivamente subito, in conseguenza della rinuncia, un danno per le loro ragioni di credito,
mentre non è necessaria la prova della frode da parte del debitore.
LA PRESCRIZIONE E LA DECADENZA
Il diritto di accettare l’eredità si estingue per prescrizione e per decadenza. Si prescrive entro 10
anni dall’apertura della successione se non sia presente una condizione di sospensione. Il termine
di prescrizione è unico e decorre sia per i primi chiamati che per gli ulteriori. Il termine può
essere abbreviato in due casi: a) l’art.481 consente agli interessati di rivolgersi al giudice affinchè
venga fissato al chiamato un termine, entro cui deve essere effettuata l’accettazione, si parla in
questo caso di actio interrogatoria. Se questi non risponde perde la chiamata. b) l’art.487
prevede che il chiamato che abbia fatto l’inventario dei beni dell’eredità deve nei 40 giorni
successivi dichiarare di voler accettare altrimenti perde la chiamata.
Il legato viene acquistato all’apertura della successione. Il legatario può rinunciare al legato già
acquisito che uscirà dal suo patrimonio. La rinuncia ha efficacia retroattiva fino al giorno di
apertura della successione sicchè l’acquisto si considera come mai avvenuto. Il diritto di
rinunciare al legato si prescrive nel termine ordinario di 10 anni. Può essere abbreviato dall’actio
interrogatoria a seguito della quale il giudice fissa al legatario un termine per dichiarare la
rinuncia. Il silenzio del legatario comporta la definizione dell’acquisto.
L’eredità si acquista solo con l’accettazione prima il chiamato non è titolare delle situazioni e dei
rapporti. La delazione non può essere trasmessa per atto tra vivi ad altre persone. Il chiamato
può vendere o donare l’eredità offertagli per legge o per testamento ma con questo atto vuol
dire che accetta l’eredità medesima acquistando la qualità di erede. La vocazione non può essere
ceduta di per sé. Il diritto di accettare fa parte dell’eredità del chiamato, pertanto i suoi successori
per poterlo esercitare dovranno prima accettare l’eredità.
Una volta individuato il chiamato gli è offerto il diritto di accettare l’eredità. In questa offerta
consiste la delazione ereditaria. Il chiamato non può accettare l’eredità: a) quando sia incapace
a succedere o a ricevere per testamento; b) quando sia indegno. La vocazione cade nel nulla se
il chiamato non voglia accettare e ciò avviene: a) quando egli rinunzi all’eredità; b) quando perda
il diritto per prescrizione o per decadenza a seguito dell’esercizio, da parte dei soggetti interessati
dell’actio interrogatoria; c) nei casi previsti dalla legge, come ad esempio nel caso di
avveramento di condizione risolutiva apposta al testamento. L’ordinamento applica gli istituti
della sostituzione, della rappresentazione e dell’accrescimento. La loro funzione è quella di
garantire che i rapporti del de cuius possano essere offerti ad ulteriori chiamati e ulteriori
successori. Se nemmeno in questo modo si trova un successore, allora vengono applicate le
disposizioni della successione legittima, in alternativa verrà chiamato alla successione lo Stato.
Anche la morte del chiamato costituisce impedimento all’accettazione, però solo se avviene
prima dell’apertura della successione. In questo caso verranno applicati gli istituti prima citati.
Se la morte del chiamato avviene dopo l’apertura della successione, il diritto di accettare entra
nella successione propria del chiamato e viene trasferito ai suoi eredi.
Il primo istituto è la sostituzione ordinaria o volgare. È lo stesso testatore che indica un chiamato
in sostituzione del primo. La sostituzione comporta due o più vocazioni, ma una sola successione.
Essa può avvenire soltanto in via testamentaria. Il testatore è libero di conformare la portata
della sostituzione nel modo che ritiene opportuno, sostituendo uno o più chiamati a quello che
non voglia o non possa accettare, o prevedendo sostituzioni reciproche, cioè un chiamato viene
sostituito dall’altro.
IL FEDECOMMESSO
degli eredi legittimari. Ogni altro fedecommesso è nullo, rimane valida però la disposizione in
favore del primo chiamato. Non è ammissibile la sanatoria ma è assoggettabile ad un fenomeno
di conversione, nel caso in cui il primo istituito non possa o non voglia accettare l’eredità, la
clausola di sostituzione fedecommissaria si converte in clausola di sostituzione ordinaria. Il
fedecommesso è applicato raramente perché può essere applicato solo in favore degli interdetti
e solo se tra l’incapace e il de cuius esista un particolare legame familiare. In questo modo si ha
l’inserimento del trust nel nostro ordinamento.
LA VOCAZIONE FIDUCIARIA
Si ha quando il de cuius attribuisce dei beni con testamento, ad un soggetto (detto fiduciario) a
cui ha dato separatamente incarico di trasmetterli ad un terzo già indicato o a scelta di
quest’ultimo. Il terzo assume la veste di successore a titolo particolare del fiduciario. L’esecuzione
è lasciata unicamente al dovere morale o di coscienza del fiduciario. È necessario che ci sia la
volontà del testatore di far pervenire i beni a persona diversa e che il chiamato li abbia trasferiti
al terzo con la consapevolezza di eseguire la volontà del testatore. Con queste due condizioni il
destinatario può trattenere i beni a lui destinati (soluti retentio).
LA RAPPRESENTAZIONE
In alternativa alla sostituzione abbiamo l’istituto della rappresentazione. Questo integra una
fattispecie di vocazione indiretta che si verifica quando un soggetto non è chiamato di per sé
direttamente dal de cuius ma al posto di un altro rispetto al quale la chiamata non ha effetto.
Attraverso la rappresentazione entrano in successione i discendenti legittimi o naturali
(rappresentati) al posto dell’ascendente che non ha accettato (rappresentato) quando però
costui sia a sua volta figlio o fratello del de cuius: in pratica avvantaggia i nipoti del defunto. Se
i rappresentanti accettano l’eredità diventano eredi del de cuius. La rappresentazione si applica
a favore dei discendenti all’infinito e per stirpi. La regola fondamentale è che nel caso di più
discendenti, essi dividono per stirpi il diritto di rappresentazione: l’eredità si divide in tante parti
uguali quanti sono i figli.
Dal punto di vista giuridico, l’ordinamento assicura il principio di continuità nella titolarità dei
rapporti appartenenti al defunto, attraverso l’efficacia retroattiva dell’accettazione. In questo
modo l’accettante acquista l’eredità con effetto fin dal giorno dell’apertura della successione.
L’ordinamento attribuisce al chiamato una serie di poteri di amministrazione e di conservazione
dell’asse. Può compiere atti conservativi, di amministrazione temporanea e di vigilanza a
riguardo dei beni ereditari; può farsi autorizzare dall’autorità giudiziaria a vendere i beni che non
sia possibile o che sia troppo oneroso conservare. Il chiamato, se vuole mantenere tale posizione
senza divenire erede, non può compiere atti che non siano finalizzati alla mera conservazione,
poiché se effettuasse atti di disposizione o di gestione uti dominus, automaticamente si verifica
l’acquisto ereditario per accettazione tacita. Il chiamato può esercitare le azioni possessorie a
tutela dei diritti ereditari. Ed è questa una legittimazione eccezionale. Per le conservazione dei
beni ereditari nel caso in cui all’eredità sia chiamato un nascituro o si tratti di condizione
sospensiva, viene nominato un esecutore che prende il nome di esecutore testamentario che
appunto, gestisce e conserva l’eredità.
L’EREDITA’ GIACENTE
È possibile che il chiamato non eserciti l’azione per la conservazione dell’eredità e si ricorre
all’istituto dell’eredità giacente. Con la sua apertura viene nominato un curatore, il quale gestirà
ed amministrerà i beni relitti, dopo averne effettuato l’inventario. Il curatore ha l’obbligo di
pagare i creditore che ne facciano richiesta. In caso di opposizione da parte di un solo creditore,
il pagamento delle passività avverrà in modo da garantire la par condicio credito rum. L’eredità
giacente è un complesso di rapporti, un patrimonio autonomo a disposizione del chiamato, ma
da lui non ancora acquistato. La giacenza cessa nel momento in cui l’eredità viene accettata: il
curatore consegna i beni all’erede. La giacenza ha termine nel caso in cui non vi siano più beni
o rapporti da amministrare.
Il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato
di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse (art.587). Le disposizioni di carattere non
patrimoniale se manifestate nelle forme previste per tale atto, hanno efficacia anche se, nell’atto
steso, manchino disposizioni di carattere patrimoniale. Il testamento è un negozio giuridico che
consente al soggetto di esplicare la propria autonomia privata, principalmente per la successione
post mortem dei propri diritti. Ha i seguenti caratteri: 1) trattasi di negozio mortis causa, produce
effetti dopo la morte del testatore; 2) il testamento è atto di ultima volontà, poiché può essere
revocato dal suo autore in ogni momento della propria vita; 3) è atto negoziale unilaterale, in
quanto si perfeziona con la sola volontà del testatore. È atto recettizio poiché la sua efficacia non
è subordinata alla comunicazione della disposizione al destinatario; 4) il testamento è atto uni
personale. È nullo sia il testamento congiuntivo, con cui due o più persone dispongono nel
medesimo atto a vantaggio di un terzo, sia il testamento reciproco, nel quale è contemplata la
disposizione reciproca di un testatore a favore dell’altro. L’espressione “medesimo atto” non
significa che non sia possibile stipulare su un solo foglio diversi testamenti di diverse persone,
in questo caso avremmo il testamento simultaneo. Il testamento congiuntivo sussiste quando vi
sia un testamento a firma di più persone con un unico negozio. 5) il testamento è un atto
personalissimo, cioè significa che la volontà testamentaria deve provenire necessariamente ed
esclusivamente dal de cuius. Non è ammessa che la determinazione della vocazione ereditaria o
della quota sia rimessa ad un terzo. Ciò è possibile per l’individuazione del legatario purchè il
testatore indichi una cerchia di persone da cui scegliere; 6) il testamento è atto a contenuto
patrimoniale, poiché il testatore dispone delle proprie sostanze, ma può contenere anche
disposizioni di carattere non patrimoniale come il riconoscimento di un figlio naturale, la
designazione di un tutore ecc..
Possono disporre per testamento coloro che non sono dichiarati incapaci per legge (art.591).
Sono incapaci di testare coloro che non hanno compiuto la maggiore età, gli interdetti per
infermità di mente e quelli che si provi essere stati incapaci di intendere e di volere nel momento
in cui fecero testamento. L’incapacità non dichiarata rende annullabile il testamento. Il
testamento redatto dall’inabilitato è annullabile solamente a condizione che si provi la concreta
incapacità di intendere e di volere al momento della relativa redazione. Per quanto riguarda
l’amministrazione di sostegno, il codice non detta nessuna disposizione, quindi è capace di
testare. Nei casi di incapacità, il testamento può essere impugnato da chiunque vi abbia interesse
e l’azione si prescrive nel termine di 5 anni dal giorno in cui è stata data esecuzione la
testamento. La capacità di ricevere per testamento si inquadra nell’istituto della capacità di
succedere (art.462).
Il testamento richiede a pena di nullità la forma scritta da adottare esclusivamente nei modi
previsti dalla legge: testamento olografo, testamento per atto di notaio, distinto in pubblico e
segreto, testamenti speciali. In caso di distruzione o di smarrimento è possibile provarne con
testimonio l’esistenza ed il contenuto. 1) il testamento olografo deve essere scritto per intero,
datato e sottoscritto di mano dal testato (art.602). Importante è la data, che deve contenere
giorno, mese e anno per poter determinare anteriorità o posteriorità rispetto ad altri testamenti
del de cuius. Può essere depositato presso notaio e ciò avviene solo per conservazione. 2) il
testamento pubblico (art.603) è ricevuto dal notaio. Il testatore davanti al notaio e a 2 testimoni
dichiara le sue volontà. Il notaio le mette per iscritto e dà lettura dell’atto al testatore e ai 2
testimoni. Sono richieste l’indicazione del luogo, la data del ricevimento e l’ora della
sottoscrizione e la sottoscrizione del testatore, dei testimoni e del notaio. In caso di impedimenti,
il notaio dovrà menzionarle prima della lettura. Per quanto riguarda il testamento del muto,
sordo, sordomuto e incapace di leggere, è prevista la presenza di 4 testimoni. 3) il testamento
segreto (art.604) è redatto dallo stesso testatore o da un terzo, ma comunque è sottoscritto dal
testatore, che in presenza di 2 testimoni lo consegna al notaio in un plico sigillato. All’esterno il
notaio scrive l’atto di ricevimento e appone l’impronta dei sigilli. Tale atto viene sottoscritto dal
testatore, dai testimoni e dal notaio. Il testamento segreto permette di non far conoscere le
proprie volontà anticipatamente. Sia il testamento olografo che segreto possono essere ritirati
in qualsiasi momento dal testatore. Alla notizia della morte, il notaio pubblica il testamento
olografo o segreto. La pubblicazione consiste nella trasposizione del contenuto del testamento
in un verbale redatto dal notaio, non incide sulla validità o sull’efficacia dell’atto ma
esclusivamente sulla possibilità di chiederne l’esecuzione. Il difetto della forma prescritta dalla
legge comporta la nullità del testamento solo nei casi in cui: a) manca l’autografia o la
sottoscrizione nel caso di olografo; b) manca la redazione per iscritto del notaio, delle
dichiarazioni del testatore o la sottoscrizione di uno dei due in caso di testamento pubblico o
segreto; tutti gli altri vizi formali comportano l’annullabilità che può essere richiesta da qualsiasi
interessato nel termine prescrizionale di 5 anni. Solo in questo caso i vizi di forma non
costituiscono invalidità dell’atto. È possibile un fenomeno di conversione formale del testamento
segreto qualora sia nullo per vizi di forma ma abbia i requisiti di sostanza e di forma del
testamento olografo, cioè sia interamente scritto e firmato di pugno dal testatore, potrà quindi
valere come testamento olografo e produrre i suoi effetti.
I TESTAMENTI SPECIALI
I testamenti speciali sono previsti per circostanze eccezionali sempre però in presenza di 2
testimoni: 1) testamento in caso di malattie contagiose, calamità pubbliche o infortuni (art.609-
610), in questo caso il testamento può essere ricevuto da un notaio, dal giudice di pace del
luogo, dal sindaco o da un ministro di culto; 2) testamento fatto a bordo di nave o aeromobile,
in questo caso può essere ricevuto dal comandante (questi a sua volta consegna il suo a chi lo
segue in ordine di servizio); 3) testamento dei militari e delle persone al seguito delle forze
armate dello Stato in circostanze belliche, in questo caso può essere ricevuto da un ufficiale, da
un cappellano militare o da un ufficiale della Croce Rosse. Questi perdono la loro efficacia 3 mesi
dopo la cessazione della situazione impediente.
a) La condizione illecita
Per quanto riguarda il testamento, si considerano non apposte le condizioni impossibili e quelle
contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costumo. Si applica la regula
sabiniana secondo cui la condizione vitiatur sed non vitiat, cioè invalida ma non travolge, e quindi
il testamento è salvo anche in presenza di condizioni impossibili o illecite. Deve essere il motivo
determinante per poter dar vita alla nullità del testamento. La legge prevede due fattispecie
tipiche di condizioni illecite: 1) nel caso in cui il testatore inserisca la condizione che altro
testatore lo inserisca nel suo testamento (condizione di reciprocità); 2) nel caso in cui il testatore
inserisca il divieto di intraprende nozze e in questo caso si intacca il diritto personale della libertà
di contrarre matrimonio.
b) La condizione impossibile
La condizione testamentaria impossibile si considera come non apposta, sicchè la disposizione
cui inerisce rimane valida ed efficace se non rappresenta il motivo determinante dell’intero atto.
IL TERMINE
Si considera non apposto a una disposizione a titolo universale il termine dal quale l’effetto di
essa deve cominciare o cessare.
All’istituzione di erede e al legato può essere apposto un onere. Questo è un elemento accessorio
del negozio, per effetto del quale chi dispone gratuitamente in favore di taluno, pone a carico di
costui un obbligo ad faciendum, a compiere cioè un qualsiasi fatto positivo o negativo, che può
essere costituito da una prestazione o da un determinato comportamento. È un requisito
accidentale di efficacia ed è compitabile soltanto con negozi a titolo gratuito, quali la donazione
e il testamento. L’onere testamentario è una disposizione accessoria a carico dell’erede o del
legatario, che obbliga l’onerato a devolvere in tutto o in parte i beni ricevuti per la finalità indicata
dal testatore. Quest’ultimo si applica solo alle disposizioni testamentarie che attengono alla quota
disponibile. Il contenuto dell’onere può soddisfare una finalità morale del testatore, un interesse
dell’onerato, un interesse di persona determinata o un interesse diffuso. L’onere impossibile o
illecito, si considera non apposto, tranne nei casi in cui è il motivo determinante dell’atto. Per
l’adempimento dell’onere può agire qualsiasi interessato. Questo è ravvisato in colui che è
avvantaggiato dall’onere ma anche chi ha ragione patrimoniale e chi ha ragione morale. In caso
di inadempimento, l’autorità giudiziaria pronuncia la risoluzione della disposizione testamentaria.
Questa sanzione è limitata a due casi e presuppone che sia accertato un inadempimento
imputabile all’onerato e deve essere di portata non lieve.
Si estendono al testamento per analogia: a) art.1362, ricerca della reale intenzione dell’autore
senza limitarsi al senso letterale; b) art.1363, interpretazione delle clausole secondo il significato
delle altre; c) art.1369, attribuire alle espressioni dubbie il significato più conveniente; d)
art.1367, interpretare le clausole con significato tale da dare effetto; in modo da rispondere al
principio del favor testamenti. Ci sono poi norme specifiche per l’interpretazione testamentaria,
come l’art.625 che prevede che se la persona dell’erede o del legatario è stata erroneamente
indicata ma dal prosieguo dell’atto risulta altra persona da voler nominare, si procede in favore
di quest’ultima. Lo stesso vale per l’oggetto che il testatore non riesce ad indicare con certezza
ma si presuppone si riferisca ad un certo oggetto. L’onere della prova al riguardo incombe su chi
afferma che la disposizione testamentaria è inficiata da errore ostativo. Se non si riesce ad
individuare esattamente persona e oggetto allora l’atto è nullo. Si utilizzano anche altre norme
come: a) art.630, prevede che le disposizioni in favore dei poveri ed altre simili si intendono
fatte in favore dei poveri del luogo del domicilio del testatore; b) art.659, se il testatore senza
menzionare il debito, lascia un legato al suo creditore, in questo caso il debito non è estinto; c)
art.660, il legato di alimenti comprende le somministrazioni salvo altra disposizioni; d) art.638,
se il testatore ha disposto sotto condizione che l’erede o legatario non faccia qualcosa per un
tempo indeterminato, la disposizione si considera fatta sotto condizione risolutiva salvo che risulti
contraria volotnà del testatore.
L’art.590 stabilisce che la nullità della disposizione testamentaria non può essere fatta valere da
chi, conoscendo la causa della nullità, ha dopo la morte del testatore, confermato la disposizione
o dato ad essa volontaria esecuzione. Pertanto sia l’annullabilità che la nullità del testamento ha
la possibilità di essere superata. La sanatoria eccezionale, pur essendo un atto esterno e quindi
accessorio rispetto all’atto nullo, ha la capacità di eliminare il vizio da cui lo stesso è affetto. Il
codice tratta di conferma tacita che si verifica quando il soggetto, cui compete l’azione di nullità,
abbia dato volontaria esecuzione alla disposizione, rendendo impossibile l’impugnazione per
invalidità. Si può avere anche la forma espressa, cioè fatta per iscritto e l’autore dell’atto indica
i vizi del testamento e dichiara la rinuncia a farli valere, convalidando l’atto nullo. La
legittimazione a confermare la disposizione testamentaria nulla compete soltanto a colui che
sarebbe legittimato a far valere la nullità stessa. Compete quindi non solo all’erede ma anche a
chi potrebbe essere erede in virtù di successione legittima.
Il testamento è un negozio illimitatamente revocabile fino all’ultimo momento della vita del
testatore. Non si può rinunciare a questa facoltà né con atto unilaterale né mediante pattuizione.
Tutti gli atti che contemplano rinunce sono nulli. Qualora siano incorporati come clausole, la
nullità della clausola non si estende al testamento. L’unico modo di rinunciare alla facoltà di
revoca è quello di astenersi in concreto dall’esercitarla. La differenza tra revoca e mutamento è
che la prima significa ritiro della disposizione o del testamento senza immediata e contestuale
sostituzione; il secondo invece significa modificazione della disposizione o del testamento. La
revoca non comporta mutamento ma il mutamento comporta una revoca implicita della
disposizione modificata. Esistono varie tipologie di revoca e modifica (art.680): a) revoca
espressa, attuabile mediante dichiarazione contenuta in un testamento o atto notarile; b) revoca
tacita o implicita, che si verifica 1) per incompatibilità; 2) a seguito della distruzione del
testamento olografo o del ritiro del testamento segreto; 3) per alienazione o trasformazione della
cosa legata; c) le disposizioni a titolo universale o particolare fatte da chi al tempo del testamento
non aveva o ignorava di avere figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o la
Capitolo 67 I LEGATI
FUNZIONE DELL’EREDITA’ E FUNZIONE DEL LEGATO
La successione può essere a titolo universale e chiamarsi eredità, o a titolo particolare ed è detta
legato. L’erede è il continuatore della personalità giuridica del defunto e subentra nella posizione
giuridica del dante causa, l’eredità forma quindi l’oggetto di successione. Il legato soddisfa
esigenze soggettive del de cuius, che attribuisce un beneficio al destinatario della disposizione.
Il legatario entra solo nel singolo rapporto che è l’oggetto dell’attribuzione. Si parla di
successione costitutiva perché un rapporto giuridico non esistente si costituisce nel momento
dell’apertura della successione.
LA DISCIPLINA
5) SUB-LEGATO, è un onere posto dal testatore a carico di altro legatario. Il legatario onerato è
tenuto all’adempimento del legato e di ogni altro onere a lui imposto, entro i limiti del valore
della cosa legata.
Le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella
successione, sono: a) il coniuge; b) i figli legittimi e i figli naturali, oltre ai discendenti di questi
che sono rappresentati dai figli naturali e legittimi; c) gli ascendenti legittimi del de cuius, sono
esclusi gli ascendenti naturali. La quota di legittima è costituita da una quota non dell’asse
ereditario bensì del patrimonio del de cuius di cui sia stato titolare in vita, comprensivo anche
delle donazioni fatte. Si calcola dunque la masse di tutti i beni che appartenevano al defunto al
tempo della morte, detraendone i debiti. Si somma a tale valore quello dei beni di cui sia stato
disposto a titolo di donazione. Tale operazione è detta riunione fittizia perché consiste in una
mera valutazione. L’eredità è costituita dalle posizioni attive e passive del de cuius al momento
della morte; mentre la massa è costituita dall’eredità (relictum) cui si aggiunge il valore delle
donazioni (donatum). Sulla massa si calcola la quota di legittima: è determinata dalla legge e
dipende dal numero dei legittimari e dal loro legame di parentela col de cuius. La parte eccedente
quella disponibile rappresenta la legittima.
Le ragioni dei legittimari possono essere soddisfatte anche mediante atti di disposizione a titolo
particolare. Col legato in sostituzione di legittima all’erede legittimario è attribuito un diritto di
scelta. Egli può accettare il legato ma a condizione che rinunci a pretendere la quota di legittima.
In alternativa è abilitato a chiedere il riconoscimento della quota che gli spetta ma a condizione
che rinunci al legato. Tale legato è una disposizione a titolo particolare sottoposta a condizione
risolutiva. L’accettazione confermativa del legato può essere effettuata sia in maniera espressa
sia tacitamente.
È possibile che la pretesa dei legittimari venga soddisfatta dal testatore attraverso atti di
liberalità inter vivos di valore pari alla quota di legittima. Per verificare se la quota di legittima
sia stata lesa è necessario accertare le donazioni da lui ricevute: il valore di queste va sottratto
a quello della quota di legittima e l’erede avrà diritto solamente alla differenza. Questa
operazione è detta imputazione ex se. Anche i legati sono liberalità capaci di soddisfare le pretese
degli eredi necessari; quindi anche questo valore va sottratto alla quota di legittima. Si chiamano
legati in conto di legittima e si differenziano da quelli in sostituzioni perché con la loro
accettazione l’erede non perde il diritto di chiedere la legittima.
Alla legittima sono applicati strumenti di tutela giudiziale e non giudiziale. 1) la tutela non
giudiziale si ha con norme che impediscono che il legittimario subisca lesioni della sua quota,
senza che occorra a tal fine esperire alcuna azione giudiziale. Il divieto di pesi o condizioni sulla
quota dei legittimari attua tale tipo di tutela. 2) la tutela giudiziale è esercitata nelle forme
dell’azione di riduzione. Consente al legittimario di salvaguardare i suoi diritti col necessario
ricorso al giudice, quale indispensabile mezzo per rimuovere il pregiudizio. L’azione di riduzione
è diretta a rendere inefficaci gli atti di disposizione testamentaria o di donazione effettuati dal
de cuius a favore di altri beneficiari. I beneficiari delle disposizioni ridotte sono tenuti alla
restituzione dei beni ricevuti soltanto pro quota, e non sussiste tra essi vincolo di solidarietà. Le
donazioni si riducono solo se la riduzione del testamento non è sufficiente. Sono esclusi
dall’azione di riduzione i patti di famiglia. L’azione in questione è incedibile. Si prescrive nel
termine ordinario di 10 anni e ha natura personale. Ha efficacia limitata al campo degli effetti
giuridici in quanto essa si limita a rendere inefficaci le disposizioni e le donazioni lesive della
legittima. Per ottenere la consegna dei beni ereditari, il legittimario deve esercitare un’ulteriore
azione di tipo eminentemente restitutorio: l’azione di restituzione. Se il donatario che subisce la
riduzione ha ceduto a terzi i beni ricevuti, e quindi non li può restituire nemmeno con il valore in
denaro, i legittimari possono chiederne la riconsegna direttamente al terzo, quest’ultimo può
restituire il bene o pagare la somma equivalente. La posizione dei terzi è fatta salva nel caso in
cui l’azione di riduzione relativa a beni immobili sia trascritta dopo più di 10 anni dall’apertura
della successione. Si tratta di una fattispecie di sanatoria o di consolidamento della posizione del
terzo, giustificata dal lungo lasso di tempo intercorso. A tutela dei terzi quindi è stata posta una
decadenza dell’azione di riduzione per i legittimari. Questa si prescrive nel termine di 10 anni
dall’apertura della successione. Il termine di decadenza può essere sospeso da un’iniziativa dei
legittimari che propongono l’opposizione che ha, a sua volta, durata ventennale.
La successione legittima è detta ab intestato per indicare che essa non si attua per effetto e
secondo il contenuto del testamento, ma direttamente secondo le disposizioni della legge nei
casi in cui non operi un negozio giuridico mortis causa. Presuppone che il de cuius non abbia
fatto testamento o che sia nullo o inefficace, o che con esso il testatore abbia disposto soltanto
di parte dei suoi beni. In questo caso si avrà la coesistenza di successione testamentaria e di
successione legittima. La successione legittima si distingue da quella necessaria; la prima opera
in mancanza di testamento; la seconda opera contro il testamento, per determinare
l’inoperatività relativamente alle disposizioni lesive della quota riservata ai legittimari.
LA DISCIPLINA
dell’altra;
2) di prevalenza, quando la chiamata dei suscettibili dell’una esclude la chiamata dei suscettibili
dell’altra, sicchè la categoria successiva può subentrare soltanto in mancanza di subentro
dell’altra.
I discendenti succedono in concorso col coniuge ed escludono dalla successione gli ascendenti e
qualunque altro parente collaterale. In mancanza di discendenti, succedono i genitori in concorso
col coniuge e con i fratelli e le sorelle. Gli altri parenti collaterali succedono solo in mancanza di
parenti più prossimi e del coniuge. Lo Stato succede in mancanza di qualunque altro parente.
Nessun rilievo è attribuito al vincolo di affinità. Lo Stato acquista l’eredità di diritto senza
accettazione e senza rinunzia, nonché con responsabilità intra vires per i debiti ereditari. Il titolo
a succedere per vincolo familiare deve essere provato: per il figlio legittimo è il possesso di stato
che non sia in opposizione con l’atto di nascita; per il figlio naturale è l’atto di riconoscimento.
Le quote ereditarie sono fissate per categorie. La quota di legittima si divide in parti uguali tra
concorrenti dello stesso grado (per capi); ma nella successione degli ascendenti la divisione
avviene per stirpi. Tra parenti della stessa schiera il parente di grado più prossimo esclude dalla
successione gli altri.
L’ACCETTAZIONE DELL’EREDITA’
EFFETTI DELL’ACQUISTO
L’accettazione ha effetto retroattivo, in questo modo viene garantito il principio di continuità nella
titolarità dei rapporti relitti. Gli eredi subentrano in tutti i rapporti attivi e passivi del de cuius,
ad eccezioni di quelli:
1) di per sé intrasmissibili (es. diritti personalissimi);
2) che si estinguono con la morte (es.usufrutto e mandatario);
Alcuni rapporti come l’obbligazione tra il de cuius e l’erede si estinguono per confusione dei
patrimoni. Con l’acquisto dell’eredità si ha la continuazione a favore dell’erede della posizione
possessoria del de cuius. Oltre alle azioni possessorie, competono all’erede tutte le azioni
petitorie a tutela dei singoli diritti acquisiti. L’acquisto dell’eredità provoca la confusione dei
patrimoni del de cuius e dell’erede. Ciò significa che i creditori del defunto possono soddisfarsi
anche sui beni dell’erede, e che i creditori personali dell’erede potranno soddisfarsi anche sui
beni ereditari. Ciò avviene a meno che non ricorrano i rimedi della:
1) accettazione con beneficio di inventario, di iniziativa dell’erede e nel suo interesse;
2) separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede di iniziativa e nell’interesse dei creditori
del defunto.
Tali istituti determinano soltanto una discriminazione di responsabilità o meglio della relativa
garanzia.
IL BENEFICIO DI INVENTARIO
L’effetto del beneficio di inventario consiste nel tener distinto il patrimonio del defunto da quello
dell’erede. Il beneficio evita l’effetto della confusione dei patrimonio ereditario e personale
dell’erede. Quest’ultimo ricorre a ciò per evitare di dover rispondere con i propri beni personali
dei debiti del de cuius, scongiurando che l’acquisto ereditario possa tramutarsi in danno
(damnosa hereditas). I principali effetti pratici prodotti dal beneficio di inventario sono i seguenti:
1) l’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e gli obblighi che aveva verso il defunto; la relativa
prescrizione rimane sospesa;
2) l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui
pervenuti;
3) i creditori dell’eredità ed i legatari hanno preferenza sul patrimonio ereditario di fronte ai
creditori dell’erede. I creditori personali dell’erede non possono aggredire il patrimonio ereditario
se non per la parte che residua dopo l’estinzione delle passività ereditarie.
Il beneficio di inventario si ha in seguito alla dichiarazione resa al notaio o al cancelliere del
tribunale del circondario ove si è aperta la successione. Questa viene inserita nel libro delle
successioni ed è trascritta nei registri immobiliari. Quando si tratta di eredità devoluta ad incapaci
A tutela di creditori e legatari il codice offre il rimedio della separazione dei beni del defunto.
Evita, in favore dei separatisti, la confusione del patrimonio, sicchè questi possono soddisfarsi
sui soli beni separati, con preferenza rispetto ai creditori dell’erede, cui rimane la possibilità di
agire solo sul residuo. La separazione avviene per mezzo di iscrizione del credito sui singoli beni
separati, se trattasi di immobili, e nelle forme della domanda giudiziale se tratta di beni mobili.
I non separatisti concorreranno anche sui beni separati, con i separatisti, salvo che questi
dimostrino che il valore dei beni non separati sarebbe stato sufficiente a soddisfare le ragioni dei
non separatisti. L’ordinamento privilegia la diligenza di chi ha provveduto a cautelarsi con il
mezzo in questione, rispetto a chi non l’ha fatto. Le ragioni dei creditori prevalgono su quelle dei
legatari. I creditori possono esercitare la separazione anche rispetto ai bene che formano oggetto
del legato di specie. Quando la separazione è esercitata da creditori e legatari, i creditori sono
preferiti ai legatari. I legatari rispondono dei debiti ereditari con il bene legato nel senso che le
loro ragioni soccombono rispetto a quelle dei creditori ereditari ma a condizione che costoro
abbiano adempiuto l’onere della separazione.
Il codice tutela la posizione di erede attraverso l’azione di petizione dell’eredità. Questa può
essere esercitata dall’avente diritto per ottenere il riconoscimento della sua qualità di erede,
contro chiunque possieda i beni ereditari a titolo di erede o senza alcun titolo. Al vero erede è
sufficiente dimostrare il proprio giusto acquisto ereditario, per ottenere la restituzione dei beni
da parte di chi si affermi parimenti erede senza esserlo. Se il possessore si affermi proprietario
dei beni per titolo diverso da quello di erede, allora all’erede non occorre dimostrare la sua qualità
ma dovrà sperimentare l’azione di rivendica fornendo le prove che richiede (probatio diabolica).
Se il possessore ha alienato il bene in buonafede non è tenuto a corrispondere l’ammontare in
denaro all’erede, questi però se la cifra ancora non è stata pagata dal terzo, può subentrare nei
diritti del possessore. Sono fatti salvi i diritti di chi abbia acquistato in buonafede e a titolo
oneroso dall’erede apparente.
Quando alla successione addivengano più eredi, si costituisce una comunione ereditaria in ordine
ai beni ereditari; si tratta di una comunione involontaria (communio incidens) perché prescinde
dalla volontà degli interessati. La comunione è evitata soltanto dalla divisione prestabilita dal
testatore. Se il de cuius abbia chiamato i suoi eredi indicando direttamente in quali rapporti essi
debbano succedere (istituzione de re certa) la comunione viene di fatto evitata. I debiti si
ripartiscono ipso iure tra i coeredi in proporzione alle rispettive quote. Ciò non avviene quando:
a) il testatore abbia diversamente disposto; b) i beni di un coerede sono vincolati a garanzia
reale (ipoteca o pegno); c) l’oggetto del debito sia cosa determinata di pertinenza della quota di
un solo coerede; d) si tratti di prestazione altrimenti indivisibile. I crediti cadono di regola in
comunione e possono essere esercitati finchè dura la comunione da qualsiasi coerede. La
comunione ereditaria si distingue dall’ordinaria soltanto per la causa che la produce. Il coerede
deve rispettare il diritto di prelazione riconosciuto dalla legge agli altri coeredi. Se questo viene
violato, gli altri coeredi potranno riscattare la quota presso il terzo acquirente, alle stesse
condizioni da esso praticate.
LA DIVISIONE EREDITARIA
LA COLLAZIONE
Per effettuare la divisione si procede all’inventario dei beni e a collazione. I figli legittimi e naturali
ed i loro discendenti legittimi e naturali ed il coniuge devono conferire ai coeredi tutto ciò che
hanno ricevuto dal defunto per donazione. Per effetto della collazione la massa da dividere
risulterà formata dal relictum e dal donatum. Non va confusa con la riunione fittizia dei beni che
non comporta alcun conferimento effettivo alla massa. Il fondamento dell’istituto della collazione
sta nella presunzione che il de cuius che abbia fatto le donazioni, le abbia fatte come anticipo
sulla futura successione. Il donatum deve essere aggiunto al relictum per formare una sola
massa da dividere nelle proporzioni stabilite dal testatore o dalla legge. Unico limite alla volontà
del de cuius è l’intangibilità dei diritti dei legittimari.
Capitolo 72 LA DONAZIONE
IL CONTRATTO DI DONAZIONE
La donazione è il contratto con cui una parte, per spirito di liberalità, arricchisce l’altra
disponendo in suo favore di un diritto o assumendo nei suoi confronti un’obbligazione (art.769).
La giustificazione di questa tipologia contrattuale è appunto data dallo spirito di liberalità. L’errore
sui motivi determina l’annullabilità della donazione se è stato determinante della volontà del
donante e sia stato espresso dall’atto. Se il motivo sia poi illecito, esso comporta la nullità, per
illiceità, dell’intero contratto. La donazione può essere assoggettata a modus. Questo costituisce
una limitazione della donazione atteso che il donatario deve adempiere ad una prestazione a lui
imposta dal donante.
LA DISCIPLINA
La donazione può avere effetti traslativi, quando consista nell’attribuzione di un diritto, ovvero
obbligatori, quando il donante si assume l’obbligo di dare un bene al donatario. Non sono
ammesse donazioni aventi ad oggetto beni futuri o di terzi. Allo stesso modo non è ammesso il