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ALL’ORGANIZZAZIONE
Flavia Franzoni e Marisa Anconelli
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Richard Titmuss distingue tra tre “modelli” o funzioni:
1. il modello residuale → lo Stato si limita a interventi temporanei in risposta ai bisogni
individuali, solo quando, il mercato e la famiglia entrano in crisi;
2. il modello del “rendimento industriale” o “remunerativo” o “ancillare” → i programmi
pubblici di welfare giocano un ruolo importante come “complementi” del sistema
economico;
3. il modello “istituzionale-redistributivo” → i programmi pubblici di welfare costituiscono
una delle istituzioni cardine della società e forniscono prestazioni universali.
Maurizio Ferrera distingue, invece, tra modelli occupazionali puri o misti e modelli
universalistici puri o misti. Nei modelli occupazionali la solidarietà pubblica copre quasi
tutti, ma resta frammentaria. Si tratta di un sistema previdenziale basato su una pluralità di
assicurazioni. I modelli universalistici, invece, determinano una complessa redistribuzione
tra classi sociali, tra generazioni, tra persone portatrici di bisogni particolari e la
popolazione intera. Ferrera individua sistemi “occupazionali puri” (Francia, Belgio,
Germania e Austria), “occupazionali misti” (Svizzera, Italia e Irlanda), “universalistici
puri” (Finlandia, Danimarca, Norvegia e Svezia) e “universalistici misti” (Nuova Zelanda,
Canada e Gran Bretagna). I quattro raggruppamenti, in realtà, individuano una serie di
combinazioni diverse di sottoinsiemi di protezione (occupazionali e universali).
L’inevitabile riprogettazione del welfare vede fronteggiarsi due schieramenti: uno che,
propone il ricorso al privato come l'unico luogo in cui possono convivere efficacia e
efficienza; l'altro che interpreta il ricorso al privato come un ulteriore strumento attivato,
monitorato e garantito dalla parte pubblica per salvaguardare il più possibile il
raggiungimento degli obbiettivi stessi del welfare state.
Parlare di welfare society non vuol dire necessariamente tradire i contenuti di giustizia
sostanziale del welfare state, né superare il welfare state. Per welfare society si intende un
assetto di protezione sociale entro cui si incontrano varie organizzazioni e agenzie che
sono direttamente finalizzate a obbiettivi di benessere, recuperando anche il ruolo della
famiglia e delle reti primarie.
In questo quadro i servizi alla persona sono il risultato dell'azione congiunta di tutti gli attori
indicati. Le politiche sociali sono lo strumento per incentivare e indirizzare l’azione dei
diversi soggetti e agenzie coinvolte al fine di garantire i diritti sociali.
Altrettanto complesso è il problema della selettività. L’individuazione dei destinatari è
diventato elemento di primo piano per le politiche sociali.
Alcuni autori che non aderiscono alla visione del welfare di tipo residuale-liberista,
sostegno che la selettività sia una necessità imposta da vincoli di bilancio e che possa
essere un prezzo da pagare per ottenere una maggiore equità.
Tuttavia, con l’affermarsi degli approcci economici neoliberisti (fine XX secolo e inizi XXI
secolo) e con le conseguenti critiche ai sistemi fidi welfare, diminuzioni delle risorse
disponibili, moltiplicarsi dei bisogni di una popolazione che si impoverisce, si sono scoperti
e valorizzati economisti e sociologi più attenti a modelli economici solidali e al ruolo che
devono assumere le pubbliche amministrazioni.
In Italia la spesa sociale delle istituzioni pubbliche corrisponde a circa un quarto del
Prodotto Interno Lordo (PIL), ma ben il 15,8% del PIL è costituito dalla spesa per la
protezione sociale, il 5,1% del PIL è costituito dalla spesa sanitaria e soltanto l'1,68% dalla
spesa per l'assistenza. La spesa per l'assistenza consiste in gran parte di trasferimenti
economici e soltanto una piccola parte di essa finanzia i servizi sociali. Escluso il caso
della spesa protezione sociale, i livelli di spesa degli altri settori sono largamente al di
sotto di quello degli altri Paesi europei. Ampliare e migliorare i servizi alla persona
richiede, dunque, innanzitutto di avviare a soluzione alcuni grandi problemi che riguardano
il sistema socioeconomico nel suo complesso: questo sistema, infatti, riesce sempre
meno a destinare risorse ai sistemi di protezione sociale.
Lo scenario ricco di difficoltà del sistema italiano ha portato ad aprire un nuovo dibattito
rappresentato dalle espressioni “nuovo welfare”, “secondo welfare” o “welfare aziendale”.
L’idea delle nuove proposte è che alle risorse provenienti dal privato si aggiungano quelle
provenienti dal pubblico così da costruire un altro “pezzo” di protezione sociale. Il rischio è
che questi interventi vadano via via a sostituire, invece di incrementare, il sistema
pubblico.
SINTESI
Il welfare state, consolidatosi nei paesi europei nel XX secolo, ha costituito una conquista importante
per la piena realizzazione dei diritti di cittadinanza.
Esso ha garantito ai cittadini promozione e protezione sociale, secondo modalità e modelli in parte
diversi: in alcuni paesi sono stati realizzati sistemi assicurativi pubblici di tipo contributivo, in altri
sono stati attivati sistemi di tipo universalistico.
La progressiva crisi dei sistemi di welfare, dovuta sia alla scarsità di risorse disponibili, sia al
mancato raggiungimento di alcuni degli obiettivi (relativi alla qualità delle prestazioni, ma anche
all'equità del sistema), ha indotto alcuni cambiamenti: collaborazioni crescenti tra sistema pubblico e
soggetti privati, soprattutto del terzo settore (welfare mix), valorizzazione di risorse informali e
relazionali proprie delle comunità di appartenenza, meccanismi capaci di orientare le scarse risorse
disponibili alle situazioni di maggior bisogno. Anche il sistema di welfare italiano È il risultato di
queste trasformazioni.
2.2 → Le idee giuda delle riforme: dalla legge 833/1978 alla mancata riforma
dell’assistenza
L’approvazione della legge 833/1978, che ha introdotto in Italia il SSN (Servizio Sanitario
Nazionale) basato su una concezione universalistica del diritto alla salute per tutti i
cittadini, resta ancora oggi il risultato più importante dell'elaborazione politica e culturale
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che si sviluppò negli anni Settanta.
Con la legge 833/1978 e con queste idee guida furono introdotte anche le Unità sanitarie
locali, come complesso dei presidi, uffici e servizi gestiti. È interessante ricordare come
l’istituzione delle USL sia stata preceduta in alcune regioni d’Italia da sperimentazioni di
consorzi sociosanitari che in qualche modo hanno anticipato le esperienze delle USL.
Sulla base della legislazione vigente nascono dei servizi innovativi in cui vi è un
integrazione tra interventi sociali e interventi sanitari (escluso l’ospedale che era ancora
regolato da un’apposita legislazione nazionale).
Tutti quei servizi che sono nati prima e dopo la legge 833/1978 possono essere considerai
servizi di assistenza domiciliare ad anziani e handicappati, che si proponevano come
finalità anche quella di evitare il più possibile l’istituzionalizzazione e l’emarginazione.
Furono realizzai in diversi momenti centri ricreativi giovanili, centri sociali, i lavori
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socialmente utili, le università per anziani.
Nell’ambito sanitario, inoltre, si sviluppano accanto alla rete ospedaliera, anche servizi
territoriali sociosanitari innovativi come i consultori e i diversi servizi distrettuali.
Importante fu la rete di asili nido, di scuole materne, di “tempi pieni” gestiti da enti locali,
che ha offerto anche prestazioni diversificate fortemente legate ai bisogni e alle
caratteristiche del territorio che hanno contribuito a promuovere rapporti tra minori e
genitori di diverso ceto sociale e di diverse culture, costruendo così un tessuto sociale
abbastanza coeso.
La prevenzione divenne tuttavia l'elemento qualificante di altri servizi, quali appunto i
consultori familiari, e di politiche specifiche come quelle relative alla tossicodipendenza.
Non è stata certamente una storia senza errori e difficoltà. Questi ultimi, nello specifico,
riguardano la deistituzionalizzazione, in quanto vennero eliminati gli istituti totali ma
spesso non vennero sostituiti da altri servizi territoriali; l’individuazione di una rete capace
di rispondere agli effettivi bisogni dei tossicodipendenti; la necessità di rispondere al
moltiplicarsi di nuove emergenze (extracomunitari, profughi, nomadi); i detenuti; l’aumento
del numero degli anziani non autosufficienti e quindi l’esigenza di aumentare l’offerta di
strutture semi-residenziali e residenziali.
Alcune leggi nazionali che contribuirono alla sistemazione della rete dei servizi e che
portarono alla legiferazione della legge 833/1978 furono la legge 405/1975, la quale istituì i
consultori familiari, la legge 180/1977, cardine della riforma psichiatrica, la legge
675/1975, relativa ai problemi delle tossicodipendenze, molte altre leggi regionali,
soprattutto relative al settore anziani, avevano già fatto proprie le idee giuda, ma fu la
legge 833/1978 a sistematizzare, ispirandosi ad esse, l’intera materia sanitaria. La legge
833/1978 conteneva numerosi riferimenti al settore sociale e di fatto sollecitava i Comuni e
delegare alle Unità sanitarie locali alcune competenze sociali.
Negli anni Ottanta alcune leggi regionali denominarono le USSL (unita locali
sociosanitarie) nella prospettiva di poter dare ai cittadini un unico gestore dei servizi sociali
territoriali (servizi sanitari socioassistenziali). In questo modo il cittadino avrebbe un unico
interlocutore a cui manifestare i propri bisogni ed esigenze e a cui esprimere la domanda
dei servizi.
Intorno alla metà degli anni Ottanta le Regioni, inoltre, supplirono alla mancanza di una
legge nazionale attraverso leggi regionali di riordino delle competenze in materia
socioassistenziale,
che orientarono gli Enti locali per quanto riguardava le materie da delegare alle USL, ma
insieme codificarono e promossero ulteriormente le modalità innovative.
Negli anni successivi furono anche promulgate alcune leggi nazionali settoriali che
determinarono ulteriori scelte importanti da parte delle Regioni e degli Enti locali in campi
specifici:
- legge 104/1992, Legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle
persone handicappate, la quale tratta l’handicap in relazione all’assistenza e
all’integrazione sociale, sia per quanto riguarda il campo scolastico che per quello
lavorativo;
- legge 28571997, Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l'infanzia e
l’adolescenza;
- legge 53/2000, Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto
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alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città;
- legge 68/1999, Norme per il diritto al lavoro dei disabili.
Le modalità dell’integrazione per quanto riguarda il problema dei finanziamenti sono state
affrontato da diversi interventi normativi sia nazionale che di livello regionale, le quali
hanno definito quantitativamente la contribuzione del Fondo sanitario regionale al
pagamento delle rette per il ricovero in struttura o per l’assistenza domiciliare per anziani,
handicap o tossicodipendenti.
Il D.lgs. 299/1999 è l’Atto di indirizzo e coordinamento per l’integrazione sociosanitaria,
che definisce i criteri di finanziamento delle diverse prestazioni sociosanitarie, fornendo i
criteri per distinguere tra la parte a carico del Servizio sanitario nazionale e la parte a
carico del Comuni.
Il tema è stato ripreso dal PSN 1998-2000, Un patto di solidarietà per la salute, che
ribadisce l’importanza delle collaborazioni interprofessionali e quindi il lavoro di équipe. Il
PSN 2003-2005, La salute e il sociale, riprende le tematiche dell’emarginazione, della
salute del neonato dell’adolescente e delle tossicodipendenze.
Il processo di esternalizzazione è un processo che nel corso del tempo ha assunto diverse
modalità e forme da settore a settore che si possono riassumere in due fasi:
1. In una prima fase si è avuta una sorta di esternalizzazione/privatizzazione senza
mercato, ovvero molte cooperative sono nate su sollecitazione dello stesso ente
pubblico a cui sono rimaste legate. Si tratta di una trattativa privata tra l’ente pubblico e
le cooperative che è stata creata appositamente;
2. In una seconda fase, le amministrazioni anche per rispondere alle disposizioni della
normativa europea in materia di appalti e di tutela del mercato hanno scelto di bandire
gare pubbliche per stimolare la partecipazione di più soggetti in concorrenza tra loro.
Questo comporta il rischio che a vincere siano sempre e soltanto le proposte a cosi
minori con gravi conseguenze sulla qualità dei servizi.
SINTESI
In Italia la trasformazione e lo sviluppo della rete dei servizi alla persona (sociali, sanitari, educativi)
hanno tratto ispirazione dall’ampio dibattito politico-culturale che ha investito la politica sociale negli
anni Sessanta e Settanta.
L’obiettivo fondante l’intera politica sociale era il rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti.
Ciò richiedeva una visione complessiva e non parcellizzata dei bisogni della persona stessa.
I servizi sono stati perciò organizzati in modo da essere il più possibile “vicino al cittadino”,
privilegiando i servizi territoriali rispetto alle strutture di ricovero, considerate emarginanti; vi è stato un
forte sviluppo di servizi di prevenzione e sono state mobilitate risorse nuove anche private
(volontariato e altri soggetti del terzo settore).
Questi nuovi orientamenti sono stati realizzati nel settore sanitario con l’applicazione della legge
833/1970, Istituzione del Servizio sanitario nazionale.
Nel settore sociale, sono stati invece Regioni ed enti locali a sperimentare servizi nuovi, mentre la
Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali è stata
approvata soltanto nel 2000.
Ora l'intero quadro va riletto alla luce della diversa distribuzione di competenze in materia definita
dalla recente modifica del Titolo V della Costituzione italiana (2001).
Di fronte allo scenario descritto il legislatore che si trovò a dover regolare la materia, nella
già citata legge 381/1991, Disciplina delle cooperative sociali, utilizzando la più generale
definizione di “cooperative sociali”, scelse invece di distinguere all'interno di questa
soltanto due tipologie:
- le cooperative A, che si occupavano della gestione dei servizi sociosanitari ed
educativi, possono comprendere soci volontari. Queste cooperative sono diversissime
tra loro: molto grandi con forte spirito manageriale; più piccole o grandi, ma con
maggiore attenzione anche a solidarietà esterne; con molti professionisti specializzati o
nessuno.
- le cooperative B che, attraverso lo svolgimento di attività diverse, sono finalizzate
all'inserimento lavorativo di persone “svantaggiate”. Anche queste cooperative hanno
assunto profili tra loro diversi, spesso in relazione ai problemi e alle caratteristiche delle
diverse tipologie di lavoratori svantaggiati.
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qualità dei servizi.
Negli ultimi anni il nuovo orientamento alla qualità richiesto nelle gare di appalto e più
complessivamente una cultura nuova dell'intero sistema produttivo, più orientato come si
dice alla “soddisfazione del cliente”, sta avviando anche le cooperative sociali verso nuove
sperimentazioni e all'acquisizione di nuovi modelli gestionali. Anche le cooperative di tipo
B hanno assunto profili tra loro diversi, spesso in relazione ai problemi e alle
caratteristiche delle diverse tipologie di lavoratori “svantaggiati”. Svantaggiati non sono
solamente i disabili, ma anche i carcerati, gli ex carcerati, i tossicodipendenti o i senza
fissa dimora. Le cooperative che inseriscono persone con handicap mentale, in cui spesso
sono soci anche i famigliari, divengono una sorta di “agenzia sociale del territorio” capace
di attivare collaborazioni volontarie, momenti di comunicazione con l'esterno per
promuovere le proprie attività. Le cooperative che inseriscono malati psichiatrici spesso
rimangono appunto veri e propri strumenti dei servizi.
I policy maker e gli operatori devono conoscere e sapere utilizzare questa ricchezza,
cogliendone anche la specifica rispetto agli altri soggetti del terzo settore. È importante
che gli enti locali comprendano come il volontariato abbia una sua specificità connotata
alla gratuità, anche se esso affianca, e a volte è parte, di altre organizzazioni: volontari
possono operare nelle cooperative sociali in cui prevale la presenza di lavoratori retribuiti
anche se sostenuti da motivazioni etiche forti, così come nell’associazionismo più
orientato a una solidarietà interna tra socia.
Le esperienze di volontariato costituiscono di fatto una sorta di educazione alla solidarietà
che diviene fondamentale anche per sostenere le motivazioni al lavoro di chiunque scelga
poi di “spendere” la sua professionalità nel settore no profit.
La legge 266/1991, Legge quadro sul volontariato, frutto delle elaborazioni politiche e
culturali degli anni Settanta e Ottanta non riesce più a fornire orientamenti per queste
complesse problematiche, essa non fornisce una specifica figura giuridica atta a sostenere
le organizzazioni. Il riferimento resta quanto affermato dalla legge 266/1991 per cui,
indipendentemente dalla veste giuridica adottata, le organizzazioni di volontariato si
qualificano per il perseguimento dei fini di solidarietà propri dell'attività di volontariato, con
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il concorso prevalente delle prestazioni personali volontarie e gratuite degli aderenti.
Si richiede, cioè, una proporzione accettabile tra apporti gratuiti e prestazioni retribuite. La
legge 72/1997 afferma che Regione, Province e Comuni possono offrire ad essi “supporti
logistici” e che perciò tali centri entrano in qualche modo nella rete complessiva di risorse
del territorio con cui si costruiscono le risposte ai problemi delle persone e della comunità.
3.3 → Fondazioni e servizi alla persona
L’opinione comune e i mass – media in questi ultimi tempi presentano la fondazione come
strumento idoneo a risolvere i problemi dei servizi sociali, sanitari e culturali. Le fondazioni
sono previste dal Codice civile come figure giuridiche private, che dispongono di un
insieme di mezzi destinato a uno scopo, con un carattere almeno tendenziale di
perpetuità. I soci fondatori normalmente costituiscono un patrimonio significativo
vincolandone la rendita al conseguimento di un interesse sociale che può riguardare il
benessere di alcune categorie di persone, la promozione di particolari attività artistiche.
Il panorama delle fondazioni operanti nel settore dei servizi alla persona si va
ulteriormente arricchendo. Si avranno le fondazioni risultanti dalle trasformazioni di IPAB,
fondazione che deriveranno, secondo quanto previsto dalla legge finanziaria 2003, dalle
trasformazioni degli ICRS.
La fondazione è un’istituzione che si interpone fra donatori e beneficiari, essa amministra i
fondi raccolti per trarne un rendimento da destinare alle finalità statutarie e normalmente
seleziona i soggetti più meritevoli, perché il donatore non è in grado di sapere chi sia il
soggetto che maggiormente merita la propria donazione. La distinzione importante e
fondamentale è quella tra:
- Corporate foundation, che in Italia e in generale in Europa continentale non ha avuto
particolare successo, è una fondazione che nasce da un unico grande donatore, a volte
una persona fisica, ma nella maggioranza dei casi un’impresa. Essa nasce per
soddisfare gli interessi del donatore e non del beneficiario;
- Community foundation, un modello preferito in altri paesi, il cui patrimonio deriva da una
pluralità di donatori appartenenti alla comunità in cui essa opera. In questo caso
particolarmente delicata è la composizione degli organi responsabili
dell’amministrazione: normalmente si cerca un non facile equilibrio tra rappresentanti
degli interessi dei donatori dei destinatari e i rappresentanti degli enti locali, a cui viene
riconosciuto il ruolo di tutori dell’interesse collettivo.
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3.4 → La “galassia” dell’associazionismo
Nelle nostre comunità sono presenti molteplici associazioni, riconosciute e non, che
svolgono un importante ruolo di sostegno alle relazioni tra le persone, che promuovono
iniziative di auto-mutuo-aiuto, che svolgono funzioni di sensibilizzazione rispetto a
problematiche sociali. In quest’ambito di problemi gestiscono anche servizi e interventi a
favore dei propri soci.
Questo settore è stato interessato dalla recentissima legge 383/2000, Disciplina delle
associazioni di promozione sociale, che definisce come associazioni di promozione
sociale, le associazioni riconosciute e non, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o
federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o terzi,
senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati.
Le associazioni di promozione sociale possono trarre le risorse economiche per il loro
funzionamento e per lo svolgimento della loro attività da una molteplicità di fonti: quote e
contributi degli associati, eredità, donazioni o contributi pubblici, dello Stato, delle Regioni
dell’Unione Europea e di organismi internazionali.
Le associazioni di promozione sociale si avvalgono prevalentemente delle attività prestate
in forma volontaria, libera e gratuita dai propri associati anche se possono in caso di
necessità assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di lavoro autonomo.
L’associazionismo, nel suo complesso, è un importante risorsa per la costruzione di
comunità e di legami di reciprocità che possono migliorare la qualità della vita delle
persone. Per questo le associazioni sono considerate un importante interlocutore delle
istituzioni pubbliche.
SINTESI
La rete dei servizi alla persona si è andata nel tempo arricchendo di nuove risorse e sperimentazioni
messe in campo dai diversi soggetti del terzo settore: volontariato, cooperative sociali, associazioni
di promozione sociale, fondazioni. Ciascuna di queste tipologie di soggetti (ma anche ciascun
singolo soggetto) ha ispirazioni ideali e “storie” diverse. Molti di essi collaborano con enti locali per
co-progettare e/o gestire servizi.
La conoscenza delle loro caratteristiche consente di individuare i differenti contributi che essi
possono dare all’efficacia del sistema dei servizi, all’attuazione di una programmazione dei servizi
più aderente ai bisogni delle persone, alla diffusione di quella cultura della reciprocità e della
solidarietà che è alla base della vita stessa delle comunità.
L’esercizio dei diritti in materia sociale è subordinato dall’esistenza del bisogno. L’Art 2,
comma 3, della legge 328/2000 afferma che «i soggetti che si trovano in condizione di
povertà, o con incapacità totale o parziale di provvedere a sé stessi e alle proprie esigenze
a causa di inabilità di ordine fisico o psichico, o con difficoltà di inserimento nella vita
sociale, nel mercato, accedono prioritariamente ai servizi, alle prestazioni erogate dal
sistema integrato di intervento e servizi sociali».
Al comma 4 si attribuisce ai Comuni il compito di stabilire i parametri per la valutazione di
dette condizioni.
A ciò allora è necessaria l’effettiva verifica di tutte quelle condizioni che danno la priorità di
accedere ai servizi. Così si introducono elementi di selettività anche nel settore dei servizi
alle persone. Per selettività si intende la limitazione all’accesso alle prestazioni in base
all’accertamento di specifiche condizioni di bisogno e di reddito al fine di evitare la
dispersione di risorse. La selettività corrisponde anche all’assunzione di strumenti adatti
alla valutazione del bisogno sociale, della situazione economica di ciascuna famiglia.
Bisogna, dunque, individuare target di utenti che possono (o non possono) accedere ai
servizi o che debbano diversamente contribuire alla spesa per i servizi che utilizzano.
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come l’organo più vicino ai cittadini e a cui fa capo le competenze in materia, e la
centralità della comunità intesa come rete di soggetti diversi pubblici e privati, di risorse
formali e informali, di relazioni di reciprocità e fiducia, di nuove energie, nuove
responsabilità.
La stessa espressione “welfare municipale e comunitario” era già stata fatta propria dal
Patto di solidarietà che il Governo italiano aveva sigillato con il “Forum del terzo settore”
nel 1997 a Padova. Parlare di welfare municipale richiederebbe di definire il concetto di
sussidiarietà verticale, a cui ci si ispira, analizzando innanzitutto la ripartizione delle
competenze tra Stato e i diversi Enti territoriali con l'attenzione al fatto che sono le
istituzioni più vicine ai cittadini quelle che meglio ne interpretano i bisogni e meglio
individuano le risposte da dare loro.
Attribuire un significato corretto al termine “comunitario” richiederebbe di potersi riferire a
un concetto condiviso di sussidiarietà orizzontale. Al riguardo le autorità pubbliche sono
chiamate a fornire servizi sociali solo quando siano completamente esaurite le risorse e le
capacità che permettono alla famiglia, alla comunità, e alle organizzazioni primarie di
assistere i propri membri.
È proprio in relazione alla sussidiarietà orizzontale che emergono maggiori controversie.
Le collaborazioni tra pubblico e privato nell'ambito della comunità costituiscono un
occasione concreta di sperimentare la realizzazione del principio di sussidiarietà e che
questo viene inteso, come sostegno a “responsabilità diffuse” e non come abdicazione
della parte pubblica del farsi carico del problema del benessere dei propri cittadini.
Il principio di sussidiarietà può essere anche interpretato in una prospettiva promozionale
di nuova iniziativa. Tale principio non implica un welfare residuale, ma diviene il principio
regolatore che può moderare le aspettative verso lo Stato ed innalzarle.
I Comuni hanno “utilizzato” in modo diverso le opportunità offerte dalla legge 142/1990
all'articolo 22, il quale prevede che i Comuni e le Province possano gestire i servizi
pubblici nelle seguenti forme:
a) in economia a terzi, quando per le modeste dimensioni o per le caratteristiche dei
servizi non sia opportuno costruire un’istituzione o un’azienda;
b) in concessione a terzi, quando sussistono ragioni tecniche, economiche e di opportunità
sociale;
c) a mezzo di azienda speciale, anche per la gestione di servizi con rilevanza economica e
imprenditoriale;
d) a mezzo di istituzione, per l’esercizio di servizi sociali senza una rilevanza
imprenditoriale. Si tratta della forma gestionale più adatta ai servizi sociali;
e) a mezzo di società per azioni, a prevalente capitale pubblico locale.
La legge 328/2000 rifacendosi alla legge degli anni Novanta stimola i Comuni ad
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associarsi o consorziarsi per gestire i servizi sociali in ambiti territoriali adeguati. L’obiettivo
è quello di dare ai servizi (la cui gestione è affidata ai nuovi soggetti istituzionali) un po’ di
autonomia in più, superando i limiti burocratici posti dalla gestione degli enti locali e
relazionandosi meglio con il terzo settore. Bisogna inoltre ricordare che le Province
mantengono i ruoli e funzioni di coordinamento riguardo l’assistenza all’amministrazione
degli Enti locali, la raccolta e l’elaborazione dei dati. La Provincia è la dimensione
territoriale pertinente alla programmazione di molti interventi con valenza sociale
(accoglienza abitativa, inserimenti).
Anche in materia di servizi sociali i Comuni hanno però “utilizzato” una pluralità di
soluzioni. I diversi soggetti istituzionali individuati per “mettere in rete” la molteplicità dei
servizi da essi direttamente prodotti o comunque promossi e controllati, devono poter
collaborare in modo significativo sia attraverso specifici strumenti giuridici (accordi di
programma), sia attraverso modelli interrogativi capaci di individuare specifiche
responsabilità di coordinamento e/o canali comunicativi formalizzati.
Per quanto riguarda le esternalizzazioni dei servizi da parte degli Enti locali, il decreto
dispone alle Regioni competenti in materia alcune indicazioni sulle modalità di acquisto e
di affidamento della gestione dei servizi a soggetti privai. Inoltre, per poter valutare i diversi
elementi di qualità che il comune intende ottenere dal servizio appaltato, esso si avvale del
criterio di aggiudicazione, che è la procedura che permette di valutare l’offerta più
vantaggiosa in quanto tiene conto sia del prezzo che della qualità delle prestazioni. Grazie
alla capacità di progettazione del terzo settore, esso può essere chiamato dal Comune per
la coprogettazione di interventi innovativi e sperimentali.
La costruzione di un welfare comunitario, proprio per la realizzazione del principio di
sussidiarietà, richiederebbe tuttavia alcuni altri passi verso il riconoscimento da parte del
pubblico dell'autonomia del terzo settore. Ed è questo aspetto su cui è più complesso e
anche aspro il dibattito tra le forme politiche. In generale, però, si può riconoscere al terzo
settore un ruolo importante nella costruzione del sistema di welfare: esso, infatti, può
svolgere una pluralità di compiti.
Esso inoltre non limitandosi a sostituire risorse pubbliche può divenire moltiplicatore di
risorse proprio mettendo in gioco quelle reti di relazione che sono il patrimonio più grande
del terzo settore. Il terzo settore è poi produttore di capitale sociale, intendendo per
capitale sociale una rete di legami fiduciari che consentono scambi di informazioni e
collaborazioni.
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Il terzo settore ha dunque ragione d'essere se agisce il ruolo ad esso affidato dalla legge
328/2000, se sa cioè essere moltiplicatore di risorse, produttore di capitale sociale, se sa
essere innovativo e se sa utilizzare correttamente le risorse umane. Per far ciò, però, deve
veder valorizzati i propri spazi di autonomia.
L’intervento sociale deve così interconnettersi anche con tutti quei programmi
intersettoriali
e multidisciplinari, che sono finalizzati proprio a sostenere la qualità della vita e perciò
anche delle relazioni interne alla comunità.
L’analisi dell’art. 22 della legge 328/2000 conduce ad individuare, per ogni misura e
intervento indicati al secondo comma come livelli essenziali, le prestazioni attraverso cui si
realizzeranno, articolandoli per le tipologie organizzative del 4° comma.
L’articolo, infatti, elenca al 2° comma, gli interventi che costituiscono i livelli essenziali delle
prestazioni sociali:
- misure di sostegno alla povertà
- misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio
- interventi di sostegno a minori e ai nuclei famigliari anche attraverso l'affido e
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l'accoglienza in strutture comunitarie
- misure per sostenere le responsabilità famigliari
- misure di sostegno alle donne in difficoltà
- interventi per l'integrazione sociale delle persone disabili
- interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio
- prestazioni socioeducative per soggetti dipendenti.
Lo stesso art 22 al comma 4 dispone che le leggi regionali di applicazione della legge
328/2000 prevedano, tenendo conto anche delle aree urbane e rurali, l’erogazione delle
seguenti tipologie organizzative e l’erogazione delle prestazioni relative:
- servizio sociale professionale e segretariato sociale per l’informazione e la consulenza
al singolo e ai nuclei familiari;
- servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari;
- assistenza domiciliare;
- strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con problemi sociali;
- centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario.
L’attività di segretariato sociale è finalizzata a garantire un’unitarietà di accesso, capacità
di ascolto, funzione di osservatorio e monitoraggio dei bisogni delle risorse, funzione di
trasparenza e fiducia nei rapporti tra cittadino e servizi, soprattutto nella gestione dei tempi
di attesa nell’accesso ai servizi. È quindi un livello informativo di orientamento
indispensabile per evitare che le persone esauriscano le loro energie nel procedere per
tentativi ed errori alla ricerca di risposte adeguate ai loro bisogni. Per questo scopo vanno
rimosse le barriere organizzative burocratiche per ridurre le disuguaglianze nell’accesso.
L’attività di segretariato costituisce un passo avanti nella costruzione di quello che si è
chiamato “welfare di ascolto e dell’orientamento”, cioè un welfare che non è solo erogatore
di servizi, ma che aiuta il cittadino a orientarsi di fronte all’ intera offerta di possibilità di
aiuto che si trova di fronte.
Le azioni del servizio sanitario professionale sono finalizzate alla lettura e decodificazione
della domanda, alla presa in carico della persona, della famiglia o del gruppo sociale,
all’attivazione di integrazioni di servizi e delle risorse in rete, all’accompagnamento e
all’aiuto nel processo di promozione ed emancipazione.
Negli ultimi anni si è consolidata l’idea dell’istituzione di un pronto intervento sociale per le
situazioni di emergenza che risponde al moltiplicarsi delle emergenze legate alle situazioni
di esclusione sociale estrema (senza fissa dimora, immigrati, rischio di abuso), ma
risponde anche alle esigenze di famiglie che si trovano sole di fronte a problemi come la
tossicodipendenza o malattie mentali.
È chiaro che in ogni territorio debbano esserci i servizi elencati, ma non è chiaro quale sia
il livello essenziale che in ciascun territorio deve essere garantito rispetto a questi tipi di
servizi.
La definizione dei LIVEAS deve essere garantita attraverso una programmazione
negoziata e condivisa fra i diversi livelli istituzionali (Stato, Regioni ed enti locali) che deve
assicurare un monitoraggio costante dell’esperienza e una disponibilità crescente di
risorse. La condizione per realizzare i LIVEAS è il poter disporre di risorse certe e
crescenti: lo Stato dovrebbe individuare una percentuale del PIL da destinare al
finanziamento dei LIVEAS; ed essi devono avere un trattamento e una disciplina coerenti,
simmetrici ed equilibrati rispetto ai livelli essenziali relativi alle prestazioni sanitarie (LEA)
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frutto di una strategia d’integrazione, che eviti un’eccessiva penalizzazione della parte
sociale.
SINTESI
Il sistema integrato di interventi e servizi sociali che si è andato realizzando in Italia (pur con
profonde differenze sia quantitative che qualitative tra regione e regione e altresì tra zona e zona) è
ben interpretato dalla legge 328/2000, che ha codificato, per estenderle a tutto il territorio italiano, le
esperienze che si erano andate via via consolidando nelle diverse regioni. Anche dopo
l'approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, che attribuisce alle Regioni la potestà
legislativa esclusiva in materia di servizi sociali, la legge, letta contestualmente alla legislazione
sanitaria, costituisce un utile “griglia” interpretativa dei tratti salienti del sistema.
Un sistema di servizi alla persona che vuole garantire diritti soggettivi. Di esso è competente in primo
luogo il Comune, in quanto interlocutore più vicino al cittadino (sussidiarietà verticale), il quale
tuttavia, riconosce il ruolo del privato, in particolare del privato sociale, così come la capacità delle
comunità di autorganizzarsi (sussidiarietà orizzontale).
Un sistema di promozione sociale composto sia da emolumenti economici sia da servizi, in cui
diverse tipologie di servizi (sociali, sanitari, educativi), vanno a costituire progetti personalizzati e
integrati per garantire livelli essenziali di prestazioni a ciascuna persona.
Un sistema complesso dunque, che richiede di essere coordinato e orientato a obiettivi comuni da un
articolato processo programmatorio (di livello nazionale, regionale e soprattutto di zona) e da una
nuova governance.
La rete integrata dei servizi rappresenta la risposta concreta in termini di azioni e interventi
ai bisogni degli anziani, soprattutto per coloro che hanno problemi di non autosufficienza. I
servizi per anziani delle varie regioni hanno caratteristiche comuni:
1. Accesso → è data grande cura all’informazione che consente al cittadino-utente
l’accesso ai servizi. In questo caso molte Regioni hanno messo a disposizione uffici,
sportelli e servizi con compiti informativi e di indirizzo. In questa prima fase l’anziano
incontra il responsabile del suo caso che valuta la sua situazione e garantisce il corretto
e completo svolgimento del percorso assistenziale, fornendogli elementi per il corretto
uso dei servizi. Questa figura di responsabile rappresenta l’elemento più innovativo in
quanto garantisce la comunicazione tra l’anziano o la sua famiglia e la rete dei servizi.
2. La personalizzazione dell’intervento e l’assistenza sanitaria adeguata → l’operatore che
prende il caso dell’anziano in carico poi lo sottopone all’esame UVG. Ci sarà una équipe
multidimensionale formata da un medico geriatra, infermiere professionale, assistente
sociale. L’Unità valutativa geriatrica può essere territoriale o ospedaliera, ma in ogni
caso si raccorda sia con il medico e sia con l’assistente sociale che ha preso in carico il
caso. I compiti dell’équipe sono:
- stabilire il grado di non autosufficienza dell’anziano
- stabilire di quali servizi (domiciliari o residenziali) ha bisogno l’anziano
- stabilire, sulla base di valutazioni omogenee, il programma assistenziale
personalizzato.
3. I servizi → Se la persona anziana ha bisogno di Servizi Sociali e Sanitari, ci si può
rivolgere a due figure di riferimento: il medico di famiglia e l’assistente sociale del
Comune di residenza. Queste due figure hanno competenze diverse ma sono in
collegamento fra di loro. L’assistente sociale solitamente si può trovare presso il
comune, se questo è di piccole o medie dimensioni, o presso il quartiere/circoscrizione
se è di grandi dimensioni (Capoluogo di Provincia).
I servizi possono essere:
a. Domiciliari
• assistenza domiciliare (SAD) → servizio formato da operatori specializzai che si
recano a domicilio della persona anziana o disabile per prestazioni di igiene
personale e/o alzata quotidiana, il bagno, la mobilizzazione della persona allettata,
trasporti presso strutture sanitarie ed accompagnamenti vari.
• Assistenza domiciliare integrata → intervento socioassistenziale svolto a domicilio
dell’anziano non autosufficiente.
b. Semiresidenziali:
• centro socioriabilitativo diurno → struttura nella quale vi sono programmi di
riabilitazione e di socializzazione. Queste strutture possono essere organizzate
presso case protette o residenze sanitarie assistenziali.
c. Residenziali
• casa protetta → struttura assistenziale residenziale a rilevanza sanitarie desinata
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prevalentemente ad anziani in condizioni di non autosufficienza fisica e psichica
• residenza sanitaria assistenziale → servizio che riguarda quegli anziani non
autosufficienti che non sono assistiti a domicilio e che sono affetti da patologie
croniche degenerative
• altre soluzioni residenziali → (appartamenti protetti e/o albergo)
In sintesi, la mappa dei servizi descritti fa propri valori e scelte rappresentabili attraverso
alcune espressioni significative:
- valorizzazione dell’anziano come risorsa
- personalizzazione e umanizzazione degli interventi
- rete di risorse informali e formali
- integrazione tra servizi sociali e sanitari
- collaborazione tra pubblico e privato
- domiciliarità
- qualità delle strutture residenziali.
5.5 → Le professioni coinvolte
Per la realizzazione di tutti questi interventi è necessaria la qualità dei servizi. Essa viene
data anche dalla professionalità degli operatori, quindi dalla loro preparazione, che sono
coinvolti nella rete dei servizi. Tra questi troviamo:
• Assistenti sociali, i quali sono rappresentati da operatori di base, animatori, educatori
professionali, che si occupano di interventi sociali.
• Infermieri professionali, dietisti, terapisti e medici
L’assistente sociale svolge un ruolo importante in quanto si occupa della “presa in carico”
del caso, quindi del momento iniziale che segna l’accesso dell’anziano nel servizio.
Principalmente l’assistente sociale compie una prima valutazione della condizione, del
disagio e del bisogno dell’anziano, orientandolo nell’individuazione del percorso
individuale.
Inoltre, l’operatore che più è a contatto con l’anziano è l’operatore di base, chiamato
comunemente operatore OSA (operatore socioassistenziale), OTA (operatore tecnico
assistenziale).
Tutte le figure professionali sono chiamate a collaborare tra loro e con gli operatori
sanitari.
SINTESI
Da diversi anni anche il nostro Paese deve far fronte all’emergenza anziani: aumentano
numericamente gli anziani e con l’aumento delle loro aspettative di vita si diversificano i bisogni da
loro espressi. Di conseguenza le politiche sociali in favore della popolazione anziana hanno
progettato e consolidato una rete diversificata di servizi e interventi in ottica riparativa, assistenziale
alla realizzazione della quale concorrono soggetti pubblici e del privato sociale. Tale rete si è
progressivamente aggiunta a una serie di interventi volti a prevenire il disagio delle persone anziane.
Insieme alle aspettative di vita aumenta anche la possibilità e il rischio di ritrovarsi anziani malati e in
solitudine.
La crescita numerica e progressiva di anziani non autosufficienti ha negli anni trasformato la rete di
interventi e servizi che oggi si presenta strutturata principalmente per sostenere anziani non
autosufficienti. I servizi e gli interventi, che presuppongono un’ampia collaborazione e integrazione
fra i servizi sociali e quelli sanitari possono essere di tipo domiciliare, di tipo semi – residenziale e di
tipo residenziale. A ciascuno di questi servizi l’anziano accede dopo l’individuazione del suo bisogno
assistenziale e sanitario a cura di una équipe multidisciplinare cui segue l’individuazione di un
percorso individuale.
28
L’orientamento condiviso degli attori delle politiche sociali è quello di considerare il ricovero in
struttura come ultima ratio cercando di far rimanere il più possibile l’anziano nel proprio domicilio. Per
questo obiettivo i servizi pubblici devono collaborare con la famiglia dell’anziano, le associazioni di
volontariato, le cooperative sociali, il vicinato, la comunità locale in ciò promuovendo una cultura
della domiciliarità. Il ruolo degli operatori è quello di cercare di mettere in rete e coordinare il più
possibile queste differenti risorse per attenuare il rischio di un inasprirsi del disagio e della solitudine
degli anziani.
Molte ricerche hanno dimostrato che molte emergenze nascono con l’entrata della donna
sul mercato del lavoro, l’incremento dei divorzi, delle separazioni o della convivenza,
l’innalzamento dell’età del matrimonio. Altri disagi possono nascere da altri tipi di
situazioni: famiglie unipersonali e single, monoparentale, di fatto, strette, ricongiunte,
ricomposte; si tratta di tipi di famiglie le quali posseggono diverse esigenze.
30
base ai piani di cui agli articoli 18 e 19, i comuni, in alternativa a contributi assistenziali in denaro,
possono concedere prestiti sull'onore, consistenti in finanziamenti a tasso zero secondo piani di
restituzione concordati con il destinatario del prestito. L'onere dell'interesse sui prestiti è a carico del
comune; all'interno del Fondo nazionale per le politiche sociali è riservata una quota per il concorso alla
spesa destinata a promuovere il prestito sull'onore in sede locale.
5. I comuni possono prevedere agevolazioni fiscali e tariffarie rivolte alle famiglie con specifiche
responsabilità di cura. I comuni possono, altresì, deliberare ulteriori riduzioni dell'aliquota dell'imposta
comunale sugli immobili (ICI) per la prima casa, nonché tariffe ridotte per l'accesso a più servizi educativi
e sociali.
6. Con la legge finanziaria per il 2001 sono determinate misure fiscali di agevolazione per le spese
sostenute per la tutela e la cura dei componenti del nucleo familiare non autosufficienti o disabili. Ulteriori
risorse possono essere attribuite per la realizzazione di tali finalità in presenza di modifiche normative
comportanti corrispondenti riduzioni nette permanenti del livello della spesa di carattere corrente.
A tal proposito è importante anche fare riferimento alla legge 53/2000, Disposizioni per il
sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il
coordinamento dei tempi delle città, la quale ha introdotto la possibilità anche per i padri di
poter usufruire dei congedi parentali e ha proposto modalità concrete per la realizzazione
di una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro aziendale al fine di favorire la
conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Fra le iniziative più innovative troviamo il servizio di Mediazione familiare, ossia un servizio
di sostegno ai genitori separati o in via di separazione, al fine di salvaguardare il
benessere dei figli. I genitori che si presentano in questo servizio accettano di discutere
dei loro conflitti con un mediatore al fine di trovare un accordo basato sui bisogni di
ciascuno e particolarmente dei figli. Esso è un servizio qualificato che va incontro ai
protagonisti della separazione:
• figli, affinché possano contare su genitori che sono in grado di svolgere la loro funzione
educativa;
• coniugi, affinché possano rielaborare la loro vicenda salvaguardando il ruolo genitoriale;
• giudice, perché possa usufruire di un intervento psicologico fuori dal giudizio.
Poi troviamo i Servizi ricreativi e educativi innovativi per il tempo liberi, volti alla prima
infanzia (0-6 anni) che sono stati definiti come nuove tipologie. Alcune di esse mirano alla
socializzazione all’interno della famiglia e tra le famiglie. Le nuove tipologie sono
servizi innovativi e aggiuntivi che possono avere diverse caratteristiche, sia in termini di
organizzazione, educazione e di impostazioni.
Per i preadolescenti e per gli adolescenti sono desinati un complesso variegato di servizi,
a partire dai centri di aggregazione e educativi, passando per gli spazi attrezzati fino ad
arrivare agli interventi di educativa di strada. Si tratta di interventi finalizzai alla
prevenzione del disagio o alla riduzione del danno.
Poi troviamo attività volte a sensibilizzare ragazzi e adolescenti sul tema della
Partecipazione alla vita sociale e pubblica. Si è assistito ad un crescere di esperienze
come ad esempio Consigli comunali per ragazzi, Città delle bambine e dei bambini e
iniziative di progettazione partecipata per la creazione di percorsi di autonomizzazione
casa-scuola.
I servizi e gli interventi che possono essere finanziai con i fondi previsti dalla legge
285/1997 sono:
• interventi di contrasto della povertà, del disagio, della violenza e della
istituzionalizzazione;
• interventi socioeducativi per la prima infanzia e per il sostegno alla relazione genitori
figlio
• interventi educativi e ricreativi per il tempo libero
• azioni positive per la promozione dei diritti.
Importante sono anche i centri per le famiglie che coordinano e supportano una serie di
attività, quali corsi di formazione per i genitori, iniziative specifiche per le famiglie
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extracomunitarie, azioni di sensibilizzazioni per affido e adozioni.
Occorre ricordare anche gli interventi volti alle famiglie immigrate, tesi a promuovere
l’integrazione sociale, ossia volti all’accoglienza, all’orientamento e all’integrazione
scolastica, quindi corsi di alfabetizzazione, interventi a sostegno dell’inserimento
scolastico, dell’apprendimento e/o percorsi interculturali sono alcuni degli interventi più
frequentemente attivati
L’attività delle case famiglie dovrebbe coordinarsi con quella dei consultori familiari che
furono istituiti come servizi sociosanitari prevenivi rivoli alla donna, alla famiglia e ai minori
per sostenerli nelle varie fasi della loro vita.
SINTESI
Intervenire a sostegno dei minori implica necessariamente intervenire a sostegno della famiglia che
ha la responsabilità di garantire loro una crescita e uno sviluppo armonico. Le politiche sociali e
sociosanitarie hanno agito, in primo luogo, laddove la famiglia aveva difficoltà a garantire tale
sostegno, perché anch’essa in una situazione problematica.
Per far fronte ai problemi delle famiglie povere o in situazioni complessi di disagio sociale Comuni e
ASL (nei casi necessari in collaborazione con le autorità giudiziarie proposte) hanno creato servizi
aiutando allo stesso tempo famiglie e minori: comunità di accoglienza per minori allontanati dal nucleo
familiare, affido, adozione, sostegni economici (dal più tradizionale contributo al costo di rette al più
innovativo prestito sull’onore) e psicosociali alle famiglie (dal tradizionale ascolto alla più recente
mediazione familiare o counselling genitoriale) sono fra gli interventi più frequentemente posti in
essere.
In secondo luogo, le politiche sociali hanno cercato di rispondere alle esigenze quotidiane di tutte le
famiglie, tenendo conto anche e soprattutto dell’evolversi della famiglia stessa in termini di ruoli,
bisogni e funzioni dei suoi componenti: nidi e scuole d’infanzia, interventi a sostegno della
genitorialità (e non solo di quella “messa in crisi”), volti alla conciliazione dei tempi di cura e di lavoro
(soprattutto per le donne), finalizzati a consolidare e rafforzare il ruolo della famiglia come “soggetto”
co-attore di politiche sociali. Ciò che accomuna le azioni indicate è l’obiettivo di valorizzare e
sostenere le responsabilità familiari e il fatto di riconoscere nella famiglia un soggetto destinatario di
politiche e interventi, ma al contempo, un soggetto attivo nella costruzione del sistema di welfare, in
quanto risorsa importante per sé stessa, per i minori al suo interno e per la comunità intesa in senso
ampio, come recita l’art. 16 della legge 328/2000.
Esistono proprio dei servizi per l’inserimento lavorativo che si trovano presso i centri per
l’impiego delle province. Questo Servizio nasce proprio perché non basta l’appartenenza
ad una specifica categoria di invalidi o la percentuale riconosciuta di invalidità per valutare
la capacità lavorative, che tra l’altro va esaminata dopo aver rimosso tutto ciò che fa da
supporto al disabile come le barriere architettoniche e gli appositi ausili.
Le cooperative di tipo B finalizzate per l’inserimento di disabili nascono per iniziativa degli
interessati, delle loro famiglie e delle associazioni che le rappresentano. Sono cooperative
che si occupano del settore agricolo, del settore dei servizi, ma anche di quello industriale.
Inoltre, in esse vengono inserite anche sperimentazioni ulteriori di avvio al lavoro
attraverso
l’erogazione da parte di alcuni servizi di borse lavoro.
Di quest’ultime se ne è occupata la legge 68/1999, la quale prevede che i datori di lavoro
possano “distaccare” il lavoratore disabile, già assunto all’interno dell’impresa, presso una
cooperativa sociale con lo scopo di fargli acquisire elementi di professionalità e capacità
mediante un percorso formativo personalizzato.
Oggi questa norma sembra (legge 68/1999) di difficile attuazione, tanto che il recentissimo
D.lgs. 30/2003 ha consentito che le aziende che garantiscono commesse alle cooperative
sociali vengono esonerate (per casi di particolare gravità e soltanto per una percentuale
della quota obbligatoria) dall’obbligo di assunzione in proporzione alle commesse
suddette. Quindi la cooperativa deve essere vista come un’opportunità che, però, non
sostituisce il collocamento obbligatorio.
7.4 → I servizi per la disabilità grave
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Spesso gli inserimenti scolastici così come quelli lavorativi non possono essere realizzati o
comunque, la persona con disabilità non raggiunge l’autonomia. Questo avviene
soprattutto per le disabilità gravi: è quindi necessario offrire a loro degli appositi servizi e
presidi che li aiutino e che sostengano anche le rispettive famiglie. Così quando
l’assistenza domiciliare non funziona si può ricorrere a strutture semiresidenziali e
residenziali di diversa tipologia:
• centri socioriabilitativi diurni a valenza educativa, in cui il disabile può fruire di
programmi di riabilitazione per il mantenimento e lo sviluppo delle sue abilità residue e
insieme lo svolgimento di una vita di relazione. All’interno si possono svolgere anche
laboratori protetti, in cui l’inserimento lavorativo fa parte del processo educativo;
• centri socioriabilitativi residenziali;
• gruppi-appartamento, cioè strutture residenziali aventi la tipologia edilizia di
un’abitazione civile in cui un piccolo gruppo di utenti, privi della famiglia o che non
vogliono vivere con la famiglia, può vivere con l’appoggio di operatori;
• residenze protette costituite da un complesso di alloggi di diversa tipologia, con zone
per la vita comunitaria, anche aperte a utenze esterne;
• casa-famiglia o comunità alloggio che accolgono persone diverse, idonee a creare un
clima di disponibilità affettiva, assistenza e relazioni.
Si tratta di strutture che consentono un normale svolgimento della vita quotidiana e di non
essere sradicati dal territorio di appartenenza.
Ai cittadini in temporanea o permanente grave limitazione dell’autonomia personale può
essere offerto il Servizio di aiuto personale (SAP), finalizzato all’integrazione della persona
disabile nella vita sociale. Tale servizio offre attività di accompagnamento e di tempo libero
svolte da volontari singoli, da organizzazioni di volontariato e da giovani del servizio civile,
coordinai da operatori professionisti messi a disposizione dai Comuni.
L’attenzione ai disabili gravi è stata posta dalla legge 162/1998, Modifiche alla legge 5
febbraio 1992, n. 104, concernenti misure di sostegno in favore di persone con handicap
grave, che indica come risposta alle famiglie con particolari difficoltà i “ricoveri di sollievo”,
servizi cioè per l’accoglienza degli utenti per brevi periodi, l’assistenza domiciliare 24 ore
su 24, parziali rimborsi alle famiglie per spese di assistenza.
7.5 → Il sostegno alle famiglie delle persone disabili: la sfida del “dopo di noi”
La famiglia va accompagnata nel difficile momento in cui prende consapevolezza della
disabilità del proprio figlio, al fine di mobilitare le energie e il coraggio, per poi acquisire
insieme le competenze per far fronte alla situazione.
Ma uno dei problemi che più frequentemente le famiglie si pongono è quello del destino
del proprio figlio quando loro invecchiano e non saranno più in grado di prendersene cura.
Preparare “il dopo” significa affrontare argomenti complessi, legati alla tutela, alla cura e
all’assistenza fino ad aspetti di natura giuridica e fiscale. Si tratta di offrire consulenza
giuridico-fiscale e finanziaria attraverso specifici sportelli, ma anche di orientare le famiglie
verso scelte articolate. Tutte le famiglie vorrebbero evitare che il proprio figlio disabile
venga ricoverato in strutture e vorrebbero garantirgli di poter rimanere a casa propria, o
comunque in situazioni abitative corrispondenti alle sue esigenze e alle sue abitudini. A
questo fine i familiari vincolano i propri patrimoni all’assistenza del figlio disabile,
chiedendo di esserne garante a un tutore singolo o ad un’istituzione.
Un aiuto importante a queste famiglie può venire dall’amministratore di sostegno. Con la
legge del 9 gennaio 2004, n.6, si è infatti introdotta n Italia la figura di un’istituzione che
mette al centro la persona non come oggetto di protezione, bensì come soggetto portatore
di bisogni, diritti e aspirazioni.
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Alcune Regioni hanno fatto specifici progetti o siglato protocolli con le associazioni dei
disabili e con il tribunale per promuovere e valorizzare l’istituto dell’amministratore di
sostegno. Gli amministratori di sostegno possono essere familiari, oppure volontari
professionisti e non professionisti, ma devono essere capaci di gestire le attività giuridiche
e amministrative del patrimonio del beneficiario, e stabilire una relazione corretta con le
persone con disabilità, le loro famiglie e i servizi sociali del territorio.
SINTESI
La rete dei servizi per le persone disabili risponde ai bisogni complessi e diversi, proprio perché
diverse sono le tipologie e i livelli di disabilità.
L’orientamento generale è quello di lasciare la persona disabile il più possibile nel proprio contesto di
vita, consentendogli di godere appieno i diritti sanciti dalla Costituzione italiana: all’istruzione, al
lavoro e al reddito.
L’inserimento scolastico e quello lavorativo, attraverso il collocamento obbligatorio, ma anche in
cooperative sociali di tipo B, sono gli interventi essenziali.
L’aiuto domiciliare è lo strumento prioritario per mantenere il disabile nel proprio contesto familiare e
sociale.
A questi interventi non possono, tuttavia, non affiancarsi servizi specificatamente destinati alle
persone con disabilità grave come le strutture socioriabilitative residenziali o semiresidenziali e i
laboratori protetti, in cui poter realizzare esperienze lavorative non sostenibili da imprese che
operano sul mercato.
Per attuare interventi non “istituzionalizzanti” è necessaria la costante collaborazione delle famiglie,
che vanno esse stesse sostenute ed aiutate, non soltanto nel momento in cui prendono
consapevolezza del problema della disabilità, ma anche nei problemi della quotidianità e
nell’affrontare le angosce del futuro (programmi per il “dopo di noi”).
L’espressione “disagio sociale adulto” sembra rispecchiare questa nuova problematica che
porta all’esclusione. Ovviamente è da non dimenticare che l’esclusione è un fattore che
può derivare dal combinarsi di molte variabili: genere, provenienza, composizione
familiare, stato di salute. È bene tre anche presente che i contesi sociali ed economici in
cui si manifesta sono tanti: esso è particolarmente diffuso nelle grandi città, nelle grandi
stazioni ferroviarie e metropolitane, nelle periferie e/o per strada.
L’elemento di novità è che le nuove politiche sociali devono saper contrastare lo
scivolamento verso la povertà di nuove fasce di popolazione prima protette.
La legge quadro 328/2000 aveva tentato di offrire indicazioni rispetto agli interventi ed
esprime la necessità di sostenere e promuovere specifici interventi al fine di contrastare il
“disagio sociale adulto”.
Le misure di incidenza e intensità alla povertà assoluta sono state introdotte nel 1995 dalla
Commissione di indagine sulla povertà ed emarginazione. L’incidenza corrisponde al
rapporto tra il numero delle famiglie con spesa media mensile per consumi pari o al di
sotto della soglia di povertà E il totale delle famiglie residenti; l'intensità misura di quanto,
in percentuale, la spesa media delle famiglie definite povere è al di sotto della soglia di
povertà.
Per quanto riguarda gli interventi che hanno come fine quello di ridurre il danno, essi
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vengono definiti interventi a “bassa soglia”. Questi interventi vengono attuati generalmente
mediante la somministrazione di farmaci sostituivi, nel caso di tossicodipendenti, e in
generale mediante un’attività di tipo assistenziale e informativa, non certo finalizzata a
eliminare il disagio, quanto a contenerlo.
Tra questi servizi troviamo: dormitori, gruppi a bassa soglia all’interno del SERT e/o
ambulatori medici. Questi servizi sperimentano un metodo di intervento innovativo che
presuppone alcuni elementi diversamente combinati a seconda delle situazioni:
- la massima accessibilità, cioè non ci sono limiti che impediscano l’accesso al servizio,
fatta eccezione della maggiore età e l’effettiva necessità di accedervi;
- la relazione “forte” tra operatore e utente attraverso un approccio caratteristico della
riduzione del danno che costruisce percorsi dallo “aggancio”, all’accoglienza e alla
risposta ai bisogni elementari;
- la multidisciplinarità dell’équipe, composta da figure professionali diverse con
competenze specifiche circa la relazione d’aiuto;
- la connessione, la capacità di lavorare in rete degli operatori dei diversi servizi sia di
bassa soglia, sia sociosanitari.
In questo modo si promuove l’utilizzo delle strategie di rete e di empowerment per
facilitare la fruizione degli altri servizi e la mobilitazione di risorse personali.
La possibilità di estendere questi tipi di servizi, però, incontra alcuni ostacoli: in primis la
mancanza di una loro chiara identificazione, inoltre richiede un’ampia collaborazione
dell’utente (non sempre disponibile) e ampie abilità professionali.
Molti ritengono questi interventi molto efficaci per rispondere al disagio sociale adulto, ma
nonostante questo, essi richiedono un forte investimento in formazione e riconoscimento
in
figure professionali nuove.
Nella prima area sono comprese tutte quelle prestazioni che concretizzano in erogazioni in
denaro:
• contributi economici;
• sostegno al reddito (reddito minimo di inserimento). Il reddito minimo di inserimento è
una delle misure più innovative: si tratta di un tipo di assistenza economica non
passivizzante, in quanto richiede all’utente una certa responsabilità, ed è volto a
mobilitare le risorse residue degli individui e delle famiglie fruitrici;
• contribuzione al pagamento di utenze;
• contributi per l’affitto;
• assegni di maternità;
• abbonamenti gratuiti (trasporti).
Nella seconda area, relativa all’accoglienza abitativa, ci sono tre tipi d’intervento:
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- di prima accoglienza/prima necessità indirizzati ai bisogni di riparo e di alloggio
(dormitorio);
- di seconda accoglienza che propongono strutture residenziali, come ad esempio le
comunità terapeutiche per tossicodipendenti, le quali svolgono la loro funzione di
recupero;
- interventi che rientrano nell’ambito delle politiche per la casa (agenzia per la casa)
- esperienze di cohousing, ovvero la coabitazione di persone in situazione di disagio
sociale;
- alberghi popolari/sociali.
La fornitura di beni di prima necessità, ovvero la terza area, si sostanzia nell’offerta diretta
di beni in natura o di servizi di immediato utilizzo (servizi mensa e/o borse viveri) e
nell’erogazione di buoni per l’acquisto dei beni stessi (buoni mensa e/o buoni spesa)
Nella quarta area le progettazioni e gli interventi dovrebbero tenete conto di una
progettazione a lunga scadenza, di una rete di soggetti istituzionali diversi e collegati in un
comune percorso e di risorse più consistenti e continuative, quali l’erogazione di borse
lavoro, gli incentivi, gli sgravi fiscali e la sensibilizzazione del mondo imprenditoriale.
Rientrano nella quinta area le azioni volte a promuovere nei soggetti l’attivazione delle
proprie risorse attraverso i servizi di informazione, di segretariato sociale, di sostegno alla
persone e alla comunità in cui essa è inserita. Tutti questi interventi seguono un progetto
di
uscita da una condizione di esclusione sociale: attivazioni di sportelli informativi, educativa
di strada, formazione professionale
SINTESI
La questione della povertà è stata considerata e affrontata in maniera diversa a seconda delle
diverse epoche storiche in cui si è manifestata. Essa diviene un “problema sociale” solo con la
rivoluzione industriale.
La società contemporanea (postindustriale) ha prodotto e produce “nuovi poveri”, persone cioè non
inserite a pieno titolo nel ciclo produttivo (pur essendone parte potenzialmente attiva), persone ai
margini della società, spesso senza “radici” che danno identità, più frequentemente presenti in città
di grandi e medie dimensioni.
Si tratta speso di adulti in disagio sociale la cui condizione è data da un complesso di fattori che
determinano una situazione multiproblematica, dove a una mancanza di mezzi di sostentamento si
associa una carenza di reti familiari e amicali, un’incapacità di stare ai “ritmi” del sistema, una
debolezza psicologica potenzialmente patologica, una dipendenza da alcol e/o droghe.
Ciò che più connota la situazione di queste persone è la mancanza di un’abitazione (o il vivere in una
casa insalubre) e di un lavoro stabile (anche perché impossibilitate a mantenere il lavoro).
Rispondere al bisogno degli adulti in disagio sociale implica l’attivazione di servizi e interventi diversi,
alcuni tradizionali (primi fra tutti i trasferimenti economici) e altri più innovativi, che possono
prevedere processi di empowerment, o che presuppongono il principio della riduzione del danno o
che prevedono “bassa soglia”. Implica, altresì, agire su più fronti (casa, lavoro, orientamento e
formazione, sostegno economico e sociale) e integrare diverse metodologie di intervento.
Ciò richiede, da un lato, capacità innovativa per creare o consolidare quei servizi che presuppongono
un coinvolgimento e una responsabilizzazione graduale dei destinatari (un vero e proprio contratto),
dall’altro, la capacità di “lavorare in rete” di più soggetti (di vari comparti pubblici e del privato sociale)
che sappiano unire “saperi” e metodologie diverse per venire meglio incontro ai bisogni espressi e
non di questi cittadini.
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eseguiti trattamenti sanitari volontari, richiesti dalla libera scelta del paziente o trattamenti
obbligatori (Trattamento sanitario obbligatorio - TSO). Anche questi ultimi devono essere
eseguiti nel rispetto della dignità della persona.
Luogo primario di cura diventano i servizi territoriali che offrono assistenza alle persone
con bisogno di terapie psicologiche e psichiatriche; esse possono fruire di assistenza
ambulatoriale e domiciliare, ma vengono indirizzate in comunità terapeutiche, di lavoro,
centri di formazione professionale, cooperative e centri di ospitalità.
L’attuazione della legge trovò alcune difficoltà: alcuni reparti psichiatrici non vennero chiusi
e né tanto meno trasformati. Quindi la chiusura dei manicomi spesso non venne seguita
dall’istituzione dei servizi territoriali capaci di rispondere ai bisogni di persone affette da
malattie mentali. Le conseguenze di tutto ciò gravano sulle spalle delle famiglie a seguito
del loro ritorno a casa e dalla mancanza di appoggi, anche temporanei, mediante ricovero
in strutture residenziali.
I due progetti-obiettivo, Tutela della salute mentale 1994-1996 e Tutela della salute
mentale 1998-2000, contengono una serie di indicazioni per la costruzione di una rete di
servizi che sono proni ad accogliere qualsiasi tipo di domanda che vada dal counseling
svolto in attività ambulatoriale alla gestione della crisi fino al ricovero. L’assetto
organizzativo dai Progetti-obiettivo prevede:
★ il Dipartimento di salute mentale come un complesso di strutture e servizi pubblici, tra
loro integrai, in grado di accogliere l’intera domanda psichiatrica del territorio di
competenza, di norma corrispondente a quello dell’ASL. Insomma, si tratta di una
struttura che permette di realizzare progetti di intervento personalizzati, con l’aiuto dello
psichiatra, dello psicologo, dell’assistente sociale, dell’educatore professionale;
★ il Centro di salute mentale, una struttura del dipartimento, ovvero la sede organizzativa
dell’équipe degli operatori e la sede di coordinamento degli interventi di prevenzione,
cura, riabilitazione, reinserimento sociale dei pazienti nel territorio di provenienza. Esso
svolge attività di accoglienza, analisi di domanda, attività diagnostica, definizione e
attuazione di programmi terapeutici e socioriabilitativi personalizzai con le modalità
dell’approccio integrato, tramite interventi domiciliari, ambulatoriali e a volte residenziali.
Inoltre, esso svolge attività di raccordo con i medici di medicina generale per fornire
consulenza psichiatrica;
★ Il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) è un reparto psichiatrico all’interno
dell’ospedale generale in cui si svolgono attività terapeutiche intensive e a regime di
ricovero;
★ Le strutture residenziali, viste come soluzione estrema (in cui i vari tentativi di aiuto e di
inserimento sociale sono stati vani), ma si distinguono dai vecchi manicomi per la
dimensione familiare e per la maggiore possibilità di avere relazioni sociali.
I malati psichiatrici entrano nei programmi di inserimento lavorativo come gli altri disabili,
cioè possono essere inseriti al lavoro attraverso il collocamento obbligatorio mirato o in
cooperative sociali di tipo B. L’obiettivo primario del progetto rimane comunque quello
dell’integrazione dell’utente nel contesto sociale originario attraverso tutti quegli interventi
che possono facilitare il mantenimento del malato mentale nel proprio domicilio e, se non
si stabiliscono corrette relazioni con questo contesto, sarà difficile arrivare all’obiettivo.
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importanti che, oltre ad affrontare il tema della lotta al commercio illecito delle sostanze
stupefacenti, hanno avviato programmi di prevenzione e sollecitato la realizzazione di
servizi sociosanitari specifici per i tossicodipendenti: la legge 685/1975, Disciplina degli
stupefacenti e sostanze psicotrope; prevenzione, cura e riabilitazione nei relativi stati di
tossicodipendenza, e la successiva legge 162/1990, Aggiornamento, modifiche e
integrazioni della legge 22 dicembre 1975, n. 685, recanti disciplina degli stupefacenti e
sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza. Le due leggi tentano di colpire l’abuso di queste sostanze stupefacenti
individuandole, sancendone l’illegalità, distinguendo la responsabilità di chi le usa e di chi
le commercia. In particolare, la recente legge ha introdotto la possibilità di sanzioni
amministrative per i casi di minore gravità.
Gli interventi:
- fin dal 1975 si è chiamata in causa la scuola, l qual venne vista come luogo efficace per
poter attivare iniziative di prevenzioni. Si tratta di interventi di informazione e formazione
volti sia agli studenti che agli insegnanti, riguardo i rischi del consumo delle singole
sostanze. In una seconda fase gli interventi mirano anche sulle cause che fanno sì che
il fenomeno della dipendenza da queste sostanze si sviluppi, e quindi ai più generali
problemi che riguardano gli adolescenti e i giovani;
- negli anni Novanta all’interno delle scuole superiori furono istituiti i CIC, ossia i Centri di
informazione e consulenza rivolti agli studenti con l’obiettivo di realizzare progetti di
attività informativa e di consulenza;
- le USL furono le prime ad occuparsi di questo fenomeno ma si limitarono a promuovere
coordinamenti di alcuni servizi già esistenti (servizi psichiatrici, di medicina).
Successivamente vengono istituiti i Servizi tossicodipendenze, ovvero i SERT, i quali
avevano il compito di attuare attività di prevenzione, cioè di informazione sulle patologie
correlate e di educazione sanitaria, ma anche di garantire diagnosi e presa in carico del
singolo tossicodipendente. In seguito, la sua funzione fu anche quella di provvedere a
terapie farmacologiche sostitutive, sintomatiche e antagonistiche. Non bisogna superare
solo la dipendenza dalla sostanza, ma anche e soprattutto la dipendenza psicologica:
proprio per questo è necessario un programma di recupero terapeutico e riabilitativo
individualizzato. Il SERT è composto da medici, assistenti sanitari visitatori, assistenti
sociali, infermieri. Proprio per le caratteristiche del fenomeno della tossicodipendenza
diventa centrale il lavoro multiprofessionale, l’équipe quale luogo di diagnosi,
progettualità e di verifica dei risultai. In questo programma è anche sollecitata la
collaborazione delle famiglie.
I tossicodipendenti esprimono una domanda di aiuto non sempre chiara, ma che richiede
spesso una risposta immediata e ciò rende più difficile la presa in carico.
In Italia esistono due importanti organizzazioni che associano comunità terapeutiche per
tossicodipendenti operanti sul territorio nazionale:
• FICT → Federazione italiana comunità terapeutiche
• CNCA → Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza
Un problema delicato è quello dell’accesso, perché a volte il tossicodipendente si rivolge
direttamente alle comunità e il richiedergli un iter d’accesso prestabilito dal SERT potrebbe
scoraggiarlo o ritardare la decisione.
Gli interventi di riduzione del danno (definiti a bassa soglia, i quali hanno l’obiettivo di
raggiungere il maggior numero possibile di persone tossicodipendenti, accolte
indipendentemente dalla loro decisione di accettare un programma finalizzato all’uscita
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della tossicodipendenza) implicano azioni di tipo sanitario (somministrazione di sostante
alternative) e di tipo sociale come quelli svoli dagli operatori di strada che avvicinano i
tossicodipendenti attraverso l’erogazione di servizi a bassa soglia (offerta di ripari notturni,
ma anche distribuzione di siringhe), che interessano relazioni educative specifiche.
SINTESI
La riforma psichiatrica (introdotta con l’approvazione della legge 180/1978) è considerata il simbolo
del superamento delle istituzioni totali e, in generale, dei servizi istituzionalizzanti e dell’affermarsi di
servizi territoriali orientati non soltanto alla cura, ma anche alla prevenzione e riabilitazione.
Elemento chiave dell’organizzazione di questi servizi è l’integrazione tra servizi sanitari e sociali.
La rete è composta dai centri di salute mentale che mettono a punto progetti personalizzati in cui
sono previsti servizi sociosanitari domiciliari, semiresidenziali e residenziali, centri crisi ma anche
reparti in ospedali ordinari, chiamati Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, in cui possono essere
eseguiti ricoveri sia volontari che obbligatori (TSO), anche questi ultimi intesi come interventi
terapeutici e mai come strumenti per isolare persone pericolose a sé e agli altri.
L’integrazione tra interventi sanitari e interventi sociali è l’elemento qualificante anche per i servizi per
la prevenzione e la cura della tossicodipendenza.
La prevenzione chiama in campo servizi sanitari, sociali ma soprattutto la scuola. Nell’ASL è attivo
invece il SERT, in cui operano in équipe operatori sanitari e sociali per predisporre programmi
personalizzati e l’eventuale accesso a comunità terapeutiche.
Gli interventi di riduzione del danno implicano azioni di tipo sanitario (somministrazioni di sostanze
alternative), ma anche interventi sociali, come quelli svolti dagli operatori di strada, che avvicinano i
tossicodipendenti attraverso l’erogazione di servizi a bassa soglia (offerta di ripari notturni,
distribuzione di siringhe), che intessono relazioni educative specifiche.
In generale i servizi per la salute mentale e quelli per la prevenzione e la cura della
tossicodipendenza, considerati ad alta integrazione sociosanitaria, chiedono agli operatori sociali e
sanitari coinvolti una particolare formazione al lavoro d’équipe, un’équipe dove si confrontano
approcci disciplinari, ispirazioni ideali e posizione di potere diverse (ne sono un esempio il confronto
e la collocazione tra psichiatri, responsabili dei servizi e assistenti sociali e educatori).
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