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LA RETE DEI SERVIZI ALLA PERSONA: DALLA NORMATIVA

ALL’ORGANIZZAZIONE
Flavia Franzoni e Marisa Anconelli

CAPITOLO 1 ➡ SUCCESSO E CRISI DEL WELFARE STATE: LA TRASFORMAZIONE


DELL'INTERVENTO SOCIALE
Gli operatori che lavorano nei servizi sociali, sanitari, educativi e culturali esercitano la loro
professionalità nell'ambito di quel complesso “progetto sociale” comunemente indicato
come “welfare state” o Strato sociale. Per tutti gli operatori è importante conoscere e
interpretare la “storia” e il ruolo del welfare state nell'ambito dello sviluppo complessivo
della nostra società e il modello particolare di welfare state in cui ci si trova ad operare.

1.1 → Modelli di welfare state


Per comprendere le finalità politiche di welfare e della rete dei servizi da esse promossi, è
bene ripercorrere la nascita e lo sviluppo del welfare state nei Paesi industrializzati.
Il problema della tutela dei bisognosi è sempre stato presente, in forme diverse, in ogni
comunità organizzata. A livello statuale, soltanto nel Settecento cominciarono a svilupparsi
forme di beneficenza laica ispirate al filantropismo illuminista, le quali pongono le
premesse per svincolare l'assistenza ai bisognosi da ogni presupposto religioso e
trasferirla agli Stati. Con la fine dell’ancien régime, nasce una nuova concezione della
polis di cui il sovrano si fa interprete diventando benefattore nei confronti dei più bisognosi.
Ecco allora che la beneficenza pubblica è il primo modo di intervento diretto dello Stato in
risposta ai bisogni dei cittadini.
Solo dopo la rivoluzione industriale si compie il secondo passo: la previdenza sociale. È
proprio in questo periodo che nascono nuove esigenze e nuovi bisogni: lo sviluppo
industriale spinge i lavoratori a trasferirsi nei grandi agglomerati urbani intorno alle
fabbriche, lontano dalle proprie famiglie, senza reddito o aiuto per la loro quotidianità. Di
conseguenza nascono dapprima le società di mutuo soccorso per iniziativa della
componente operaia. Si sviluppano poi mutue private, ma soltanto con i primi programmi
di assicurazione obbligatoria della Prussia, si può parlare di previdenza sociale. Si tratta
sostanzialmente di retribuzioni differite a periodi di particolare difficoltà per i lavoratori.
È infine con la pubblicazione del Rapporto sulla povertà redatto da Lord Beveridge in
Inghilterra (1942), che si pongono le basi alla moderna concezione di sicurezza sociale e
si definiscono le linee del cosiddetto welfare state (Stato sociale). Beveridge denuncia che
«la miseria genera odio», un’affermazione, che ancora oggi, mantiene tutta la sua
pregnanza. A ogni cittadino deve essere garantita una soglia di sussistenza, un minimo di
benessere in tutte le fasi della vita. I cittadini possono usufruire delle prestazioni di cui
hanno bisogno indipendentemente dai contributi assicurativi versati. Un forte elemento
redistributivo del reddito e della ricchezza non solo fra generazioni, ma anche fra classi
sociali diverse. È così introdotto il principio dell'universalismo delle prestazioni. La natura
del disegno proposto da Beveridge rimane tuttavia all'interno delle tradizioni liberali e
corregge i “vizi” del capitalismo.
I Paesi che per primi si avviano verso la realizzazione di uno Stato del benessere sono i
Paesi del Nord Europa. Le politiche di welfare nel momento della loro massima
espansione, si collocano coerentemente all'interno delle politiche con cui si governa il
complessivo sistema socioeconomico. Il welfare state è un insieme di interventi pubblici
connessi al processo di modernizzazione e sicurezza sociale, introducendo fra l'altro
specifici diritti sociali ne caso di eventi prestabiliti, nonché specifici doveri di contribuzione
finanziaria.

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Richard Titmuss distingue tra tre “modelli” o funzioni:
1. il modello residuale → lo Stato si limita a interventi temporanei in risposta ai bisogni
individuali, solo quando, il mercato e la famiglia entrano in crisi;
2. il modello del “rendimento industriale” o “remunerativo” o “ancillare” → i programmi
pubblici di welfare giocano un ruolo importante come “complementi” del sistema
economico;
3. il modello “istituzionale-redistributivo” → i programmi pubblici di welfare costituiscono
una delle istituzioni cardine della società e forniscono prestazioni universali.

Maurizio Ferrera distingue, invece, tra modelli occupazionali puri o misti e modelli
universalistici puri o misti. Nei modelli occupazionali la solidarietà pubblica copre quasi
tutti, ma resta frammentaria. Si tratta di un sistema previdenziale basato su una pluralità di
assicurazioni. I modelli universalistici, invece, determinano una complessa redistribuzione
tra classi sociali, tra generazioni, tra persone portatrici di bisogni particolari e la
popolazione intera. Ferrera individua sistemi “occupazionali puri” (Francia, Belgio,
Germania e Austria), “occupazionali misti” (Svizzera, Italia e Irlanda), “universalistici
puri” (Finlandia, Danimarca, Norvegia e Svezia) e “universalistici misti” (Nuova Zelanda,
Canada e Gran Bretagna). I quattro raggruppamenti, in realtà, individuano una serie di
combinazioni diverse di sottoinsiemi di protezione (occupazionali e universali).

La letteratura in materia è comunque amplissima. Il welfare state può essere interpretato


come una rivoluzione parallela e coerente all'evoluzione dei diritti riconosciuti ai cittadini,
così come descritta da Thomas Humphrey Marshall: dai diritti politici (diritto di voto) ai
diritti civili (diritto alla proprietà privata), ai diritti sociali che concernono la prerogativa di
ogni individuo ad avere accesso ad un determinato livello minimo di benessere e di
sicurezza economica. Si tratta di diritti quali il diritto all'istruzione, il diritto alla salute, al
lavoro e a un minimo di reddito, all'istituzione di livelli minimi salariali. È quindi il diritto di
cittadinanza che legittima l'erogazione di prestazioni di benessere.

1.2 → Crisi e riprogettazione del welfare state


Riprendendo la descrizione di Ferrata si può affermare che da tempo sono in crisi sia il
modello universalistico, sia il modello occupazionale, perché sono cambiate le premesse
socioeconomiche su cui questi modelli sono stati edificati. L'invecchiamento della
popolazione ha certamente determinato un aumento della domanda sia di pensioni che di
servizi sanitari e sociali. Oramai le prestazioni erogate non paiono proporzionali ai sacrifici
imposti attraverso il prelievo fiscale o il versamento dei contributi, anche perché le
esigenze delle persone sono diventate sempre più articolate e raffinate.
Negli anni Cinquanta e Sessanta le aspettative erano moderate. Oggi viviamo in un’epoca
di aspettative crescenti che generano un sovraccarico di domanda nei confronti dei
soggetti pubblici e collettivi.
Già molti anni fa fu osservato che il welfare state rischiava di essere vittima del suo
successo. Proprio i maggiori “sostenitori” del welfare state denunciano, che esso ha fallito
un obbiettivo importante, ovvero quello di determinare un'effettiva redistribuzione della
ricchezza. Le politiche sociali avrebbero cioè finito, per premiare, la classe media.
La crisi è dunque legata allo squilibrio tra bisogni e risorse disponibili, ma anche
all'incapacità del sistema di adattarsi ai nuovi bisogni emersi.
Il modello universalistico è stato troppo rigido rispetto a questi cambiamenti. Il modello
occupazionale ha, invece, consentito “sacche di svantaggio”, ed è stato insufficiente
rispetto alla tutela delle vecchie e nuove povertà, delle diseguaglianze verticali e
orizzontali.
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Per quanto riguarda quel “pezzo” di stato sociale costituito dai servizi alla persona e più
nello specifico della rete dei servizi sociali e sanitari, tre sono le linee di tendenza da
tenere sotto “monitoraggio”:
- la crescente collaborazione tra pubblico e privato, con maggiore riguardo al settore del
privato sociale;
- la “rimobilitazione” della comunità come insieme di risorse e di relazioni tra persone che
consentono agli individui e alle famiglie di costruirsi autonomamente risposte ai propri
bisogni;
- un equilibrio nuovo tra servizi per tutti e selettività intesa come limitazione dell'accesso
alle prestazioni in base a specifiche condizioni di bisogno e reddito.

L’inevitabile riprogettazione del welfare vede fronteggiarsi due schieramenti: uno che,
propone il ricorso al privato come l'unico luogo in cui possono convivere efficacia e
efficienza; l'altro che interpreta il ricorso al privato come un ulteriore strumento attivato,
monitorato e garantito dalla parte pubblica per salvaguardare il più possibile il
raggiungimento degli obbiettivi stessi del welfare state.
Parlare di welfare society non vuol dire necessariamente tradire i contenuti di giustizia
sostanziale del welfare state, né superare il welfare state. Per welfare society si intende un
assetto di protezione sociale entro cui si incontrano varie organizzazioni e agenzie che
sono direttamente finalizzate a obbiettivi di benessere, recuperando anche il ruolo della
famiglia e delle reti primarie.

In questo quadro i servizi alla persona sono il risultato dell'azione congiunta di tutti gli attori
indicati. Le politiche sociali sono lo strumento per incentivare e indirizzare l’azione dei
diversi soggetti e agenzie coinvolte al fine di garantire i diritti sociali.
Altrettanto complesso è il problema della selettività. L’individuazione dei destinatari è
diventato elemento di primo piano per le politiche sociali.
Alcuni autori che non aderiscono alla visione del welfare di tipo residuale-liberista,
sostegno che la selettività sia una necessità imposta da vincoli di bilancio e che possa
essere un prezzo da pagare per ottenere una maggiore equità.
Tuttavia, con l’affermarsi degli approcci economici neoliberisti (fine XX secolo e inizi XXI
secolo) e con le conseguenti critiche ai sistemi fidi welfare, diminuzioni delle risorse
disponibili, moltiplicarsi dei bisogni di una popolazione che si impoverisce, si sono scoperti
e valorizzati economisti e sociologi più attenti a modelli economici solidali e al ruolo che
devono assumere le pubbliche amministrazioni.

1.3 → Il welfare state in Italia


Nel sistema italiano si possono rintracciare elementi di beneficenza pubblica, previdenza e
sicurezza sociale. I contributi economici distribuiti dai Comuni sono classificabili ancora
come beneficienza pubblica. Il nostro sistema pensionistico è certamente un sistema di
previdenza sociale. Il Servizio sanitario nazionale ha rappresentato per il nostro paese la
scelta esplicita verso un sistema sociale universalistico. Entra in questo quadro anche la
scuola, una scuola prevalentemente pubblica che ha certamente supportato importanti
processi di integrazione sociale tra le diverse classi e culture.
L’Italia, però, presenta situazioni diverse da regione a regione. Infatti, Ferrera nella sua
classificazione dei modelli di welfare europei, colloca il modello italiano in quello che
definisce come “quarta Europa sociale” descrivendo un sistema misto, cioè in parte
costituito da servizi e prestazioni di tipo universalistico e in parte costituito da servizi e
prestazioni garantiti da sistemi assicurativi.
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L’autore, oltre a queste definizioni, aggiunge un’altra connotazione negativa, denunciando
le inefficienze legate soprattutto alle logiche clientelari che hanno guidato lo sviluppo di
molti settori dell'intervento sociale, e scelte miopi che hanno consentito assegni famigliari
molto bassi e indennità di disoccupazione irrilevanti, che indeboliscono complessivamente
il sistema di protezione sociale.
Questa complessa situazione ha indotto altri studiosi a collocare l'Italia tra i paesi con un
welfare corporativo che tutela soltanto alcune categorie di cittadini, e, per certi aspetti,
residuale, mentre invece il nostro è davvero un sistema misto in cui le diverse categorie
coesistono.
L'azione dei policy maker e di chi lavora in questi settori è comunque confortata degli
obiettivi posti dalla stessa Costituzione italiana. La politica di welfare nel nostro Paese non
può che mirare a garantire i diritti sociali dei cittadini che sono definiti nella prima parte
della nostra Costituzione: il diritto all’istruzione, alla salute, al lavoro. I servizi alla persona
si affiancano ad altri servizi ed interventi con cui interagiscono nella costruzione di una
politica sociale complessiva e unitaria.

In Italia la spesa sociale delle istituzioni pubbliche corrisponde a circa un quarto del
Prodotto Interno Lordo (PIL), ma ben il 15,8% del PIL è costituito dalla spesa per la
protezione sociale, il 5,1% del PIL è costituito dalla spesa sanitaria e soltanto l'1,68% dalla
spesa per l'assistenza. La spesa per l'assistenza consiste in gran parte di trasferimenti
economici e soltanto una piccola parte di essa finanzia i servizi sociali. Escluso il caso
della spesa protezione sociale, i livelli di spesa degli altri settori sono largamente al di
sotto di quello degli altri Paesi europei. Ampliare e migliorare i servizi alla persona
richiede, dunque, innanzitutto di avviare a soluzione alcuni grandi problemi che riguardano
il sistema socioeconomico nel suo complesso: questo sistema, infatti, riesce sempre
meno a destinare risorse ai sistemi di protezione sociale.
Lo scenario ricco di difficoltà del sistema italiano ha portato ad aprire un nuovo dibattito
rappresentato dalle espressioni “nuovo welfare”, “secondo welfare” o “welfare aziendale”.
L’idea delle nuove proposte è che alle risorse provenienti dal privato si aggiungano quelle
provenienti dal pubblico così da costruire un altro “pezzo” di protezione sociale. Il rischio è
che questi interventi vadano via via a sostituire, invece di incrementare, il sistema
pubblico.
SINTESI
Il welfare state, consolidatosi nei paesi europei nel XX secolo, ha costituito una conquista importante
per la piena realizzazione dei diritti di cittadinanza.
Esso ha garantito ai cittadini promozione e protezione sociale, secondo modalità e modelli in parte
diversi: in alcuni paesi sono stati realizzati sistemi assicurativi pubblici di tipo contributivo, in altri
sono stati attivati sistemi di tipo universalistico.
La progressiva crisi dei sistemi di welfare, dovuta sia alla scarsità di risorse disponibili, sia al
mancato raggiungimento di alcuni degli obiettivi (relativi alla qualità delle prestazioni, ma anche
all'equità del sistema), ha indotto alcuni cambiamenti: collaborazioni crescenti tra sistema pubblico e
soggetti privati, soprattutto del terzo settore (welfare mix), valorizzazione di risorse informali e
relazionali proprie delle comunità di appartenenza, meccanismi capaci di orientare le scarse risorse
disponibili alle situazioni di maggior bisogno. Anche il sistema di welfare italiano È il risultato di
queste trasformazioni.

CAPITOLO 2 ➡ LA “STORIA” DEI SERVIZI ALLA PERSONA


Per orientarsi nella rete dei servizi alla persona, occorre considerarli nella prospettiva dello
sviluppo non soltanto nel complessivo sistema di welfare, ma anche nelle trasformazioni
istituzionali e organizzative che li hanno progressivamente coinvolti. Per gli operatori che
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lavorano oggi nei sevizi è importante conoscere questa “storia” che ha portato al loro
assetto attuale, proprio per poter verificare se l'introduzione di modifiche apparentemente
tecniche, finalizzate a razionalizzare l'uso delle risorse o anche a cogliere i nuovi bisogni,
non abbiano come conseguenza il tradimento degli obiettivi originari, sempre validi, di
promozione non solo di un minimo di benessere per tutti, ma anche di equità e di giustizia
sostanziale.

2.1 → Un’assistenza frammentata


Fu la legge 833/1978, Istituzione del servizio sanitario nazionale, l’elemento chiave del
processo di riforma dell’intero comparto dei servizi alla persona; essa conteneva anche
molti riferimenti al settore sociale e alla necessità di integrazione tra settore sociale e
sanitario. Nel periodo precedente all’approvazione della legge l’assistenza sanitaria e
quella sociale erano erogate da una molteplicità di Enti separati e autonomi, divisi per
categorie di utenti e per tipologie di prestazioni.
Già nel periodo fascista erano stati via via istituiti molti Enti che si occupavano
dell'assistenza all'infanzia e alla gioventù: ONMI (Opera nazionale per la protezione alla
maternità e all’infanzia), ENAOLI (Ente nazionale per l’assistenza agli orfani dei lavoratori
italiani) ed ONOG (Opera nazionale per gli orfani di guerra).
Vi erano poi Enti impegnati a favore di categorie speciali: UIC (Unione italiana ciechi),
ENPAS (Ente nazionale per la protezione e assistenza ai sordomuti) ed ANMIC
(Associazione nazionale mutilati e invalidi di civili).
Molti Enti si occupavano però di assistenza integrativa ai lavoratori, come ad esempio
l’ENAL (Ente nazionale per l’assistenza ai lavoratori) e l’ENAM (Ente nazionale di
assistenza magistrale). A livello locale operavano l’ECA (Ente comunale assistenza),
l’IPAB (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza), i patronati scolastici comunali
(sussidi, buoni, dopo scuola) e i consorzi tra enti pubblici attivati per problematiche
particolari.
Nel settore dell’impiego pubblico: ENPAS (Ente nazionale previdenza assistenza statali),
ENPDEP (Ente nazionale previdenza dipendenza enti di diritto pubblico), INADEL (Istituto
nazionale assistenza dipendenti enti locali)
Nel settore dell’impiego privato, invece, INAM (Istituto nazionale assistenza malattie),
INPS (Istituto nazionale previdenza sociale) e INALI (Istituto nazionale assistenza infortuni
sul lavoro)
Nel secondo dopoguerra la tutela contro la malattia si estese ai lavoratori autonomi che
costruirono proprie casse speciali. Alcuni di questi Enti, pur occupandosi prevalentemente
di assistenza sanitaria, fornivano anche prestazioni economiche e svolgevano attività di
credito.
Nel 1970 con l'istituzione delle Regioni a Statuto ordinario si avviò un ampio processo di
riforma per attuare quanto già previsto dalla Costituzione agli articoli 5, 7, 118, cioè il
decentramento amministrativo alle autonomie locali delle materie riguardanti la
beneficenza pubblica, così come l'assistenza sanitaria e ospedaliera. Furono poi la legge
382/1075 e il D.P.R.616/1977 a realizzare una grande riforma di decentramento dallo stato
alle regioni, alle province e ai comuni delle competenze socioassistenziali e sanitarie.
Ciò porto allo scioglimento o al ridimensionamento degli Enti sopra descritti: il personale in
essi operante passo ai Comuni, alle Regioni, alle nuove Unità sanitarie locali.

2.2 → Le idee giuda delle riforme: dalla legge 833/1978 alla mancata riforma
dell’assistenza
L’approvazione della legge 833/1978, che ha introdotto in Italia il SSN (Servizio Sanitario
Nazionale) basato su una concezione universalistica del diritto alla salute per tutti i
cittadini, resta ancora oggi il risultato più importante dell'elaborazione politica e culturale
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che si sviluppò negli anni Settanta.

La legge di riforma sanitaria fu approvata dal parlamento dopo molte sperimentazioni


avviate in diverse zone del Paese e intorno ad alcune idee guida:
1. Prevenzione delle malattie e del disagio sociale → i servizi non dovevano solo
intervenire per curare quei danni che sono stati indotti da patologie sanitarie e sociali già
conclamate, o limitarsi a programmi di individuazione precoce di patologie non ancora
manifestate, ma dovevano anche mirare al mantenimento della salute fisica e psichica e
del benessere sociale dei cittadini, intervenendo per eliminare le cause stesse delle
patologie.
2. Lotta all’emarginazione → comporta il superamento degli interventi che allontanavano
le persone dal proprio ambiente di vita (ricoveri nelle istituzioni totali) e dal proprio
contesto sociale; la proposta era quella di deistituizionalizzare malati di mente,
handicappati, anziani, ma soprattutto di creare servizi alternativi che consentissero a
ciascuno di rimanere nella propria casa;
3. Integrazione tra servizi sociali e sanitari → necessaria per garantire risposte
armoniche, non contraddittorie, che rispettassero la globalità e l’unitarietà dei bisogni
delle persone.
4. Programmazione → intesa come metodo ordinario di governo, a qualsiasi livello, ma
anche come metodo di lavoro per ciascun servizio. Ovviamente per poter programmare
un intervento è necessario che i cittadini e utenti avessero voce nel proporli e valutarli.
5. Domanda di partecipazione → caratteristica fondamentale di tutti i movimenti culturali
e politici di quegli anni, in quanto il coinvolgimento partecipativo era ritenuto requisito
necessario per garantire efficienza ed efficacia dei servizi alla persona. Gli strumenti
della partecipazione erano i più vari: assemblee di cittadini o utenti, comitati spontanei o
eletti, e gruppi di interesse.
6. Partecipazione → doveva essere sostenuta da una capillare diffusione
dell’informazione sui bisogni della popolazione, sui servizi e sui processi decisionali ad
essi relativi. Si cominciano a costruire i primi “sistemi informativi", cioè insieme organici
di metodologie, tecniche e strumenti necessari per rilevare, conservare, rielaborare e
rendere fruibili a tutti i dati riguardanti sia i bisogni e quindi la domanda sia l’offerta dei
servizi. La traduzione in esperienze concrete di questi nuovi orientamenti necessitava di
un diverso assetto istituzionale e organizzativo che doveva portare vicino ai cittadini sia
la lettura dei bisogni che la programmazione dei servizi e il continuo monitoraggio della
loro efficacia.
7. Decentramento amministrativo → trasferimento delle materie sociali e sanitarie alle
autonomia locali. Ciò fu la condizione per introduzione (nella legge 833/1978) dell’USL,
ossia quel complesso di presidi e servizi gestiti da Comuni singoli e associai e dalle
Comunità montane.

Con la legge 833/1978 e con queste idee guida furono introdotte anche le Unità sanitarie
locali, come complesso dei presidi, uffici e servizi gestiti. È interessante ricordare come
l’istituzione delle USL sia stata preceduta in alcune regioni d’Italia da sperimentazioni di
consorzi sociosanitari che in qualche modo hanno anticipato le esperienze delle USL.
Sulla base della legislazione vigente nascono dei servizi innovativi in cui vi è un
integrazione tra interventi sociali e interventi sanitari (escluso l’ospedale che era ancora
regolato da un’apposita legislazione nazionale).
Tutti quei servizi che sono nati prima e dopo la legge 833/1978 possono essere considerai
servizi di assistenza domiciliare ad anziani e handicappati, che si proponevano come
finalità anche quella di evitare il più possibile l’istituzionalizzazione e l’emarginazione.
Furono realizzai in diversi momenti centri ricreativi giovanili, centri sociali, i lavori
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socialmente utili, le università per anziani.

Nell’ambito sanitario, inoltre, si sviluppano accanto alla rete ospedaliera, anche servizi
territoriali sociosanitari innovativi come i consultori e i diversi servizi distrettuali.
Importante fu la rete di asili nido, di scuole materne, di “tempi pieni” gestiti da enti locali,
che ha offerto anche prestazioni diversificate fortemente legate ai bisogni e alle
caratteristiche del territorio che hanno contribuito a promuovere rapporti tra minori e
genitori di diverso ceto sociale e di diverse culture, costruendo così un tessuto sociale
abbastanza coeso.
La prevenzione divenne tuttavia l'elemento qualificante di altri servizi, quali appunto i
consultori familiari, e di politiche specifiche come quelle relative alla tossicodipendenza.

Non è stata certamente una storia senza errori e difficoltà. Questi ultimi, nello specifico,
riguardano la deistituzionalizzazione, in quanto vennero eliminati gli istituti totali ma
spesso non vennero sostituiti da altri servizi territoriali; l’individuazione di una rete capace
di rispondere agli effettivi bisogni dei tossicodipendenti; la necessità di rispondere al
moltiplicarsi di nuove emergenze (extracomunitari, profughi, nomadi); i detenuti; l’aumento
del numero degli anziani non autosufficienti e quindi l’esigenza di aumentare l’offerta di
strutture semi-residenziali e residenziali.
Alcune leggi nazionali che contribuirono alla sistemazione della rete dei servizi e che
portarono alla legiferazione della legge 833/1978 furono la legge 405/1975, la quale istituì i
consultori familiari, la legge 180/1977, cardine della riforma psichiatrica, la legge
675/1975, relativa ai problemi delle tossicodipendenze, molte altre leggi regionali,
soprattutto relative al settore anziani, avevano già fatto proprie le idee giuda, ma fu la
legge 833/1978 a sistematizzare, ispirandosi ad esse, l’intera materia sanitaria. La legge
833/1978 conteneva numerosi riferimenti al settore sociale e di fatto sollecitava i Comuni e
delegare alle Unità sanitarie locali alcune competenze sociali.

Negli anni Ottanta alcune leggi regionali denominarono le USSL (unita locali
sociosanitarie) nella prospettiva di poter dare ai cittadini un unico gestore dei servizi sociali
territoriali (servizi sanitari socioassistenziali). In questo modo il cittadino avrebbe un unico
interlocutore a cui manifestare i propri bisogni ed esigenze e a cui esprimere la domanda
dei servizi.
Intorno alla metà degli anni Ottanta le Regioni, inoltre, supplirono alla mancanza di una
legge nazionale attraverso leggi regionali di riordino delle competenze in materia
socioassistenziale,
che orientarono gli Enti locali per quanto riguardava le materie da delegare alle USL, ma
insieme codificarono e promossero ulteriormente le modalità innovative.
Negli anni successivi furono anche promulgate alcune leggi nazionali settoriali che
determinarono ulteriori scelte importanti da parte delle Regioni e degli Enti locali in campi
specifici:
- legge 104/1992, Legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle
persone handicappate, la quale tratta l’handicap in relazione all’assistenza e
all’integrazione sociale, sia per quanto riguarda il campo scolastico che per quello
lavorativo;
- legge 28571997, Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l'infanzia e
l’adolescenza;
- legge 53/2000, Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto

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alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città;
- legge 68/1999, Norme per il diritto al lavoro dei disabili.

2.3 → L’Unità sanitaria locale e l’integrazione sociosanitaria


Tutte le trasformazioni istituzionali e organizzative del SSN hanno principalmente
riguardato il servizio sociale per due motivi: sia perché i servizi sociali debbono lavorare in
rete con i servizi sanitari territoriali e sia perché i Comuni avevano il potere di delegare
all’USL competenze in materia. La delega principalmente ha riguardato servizi sociali per
tossicodipendenti, malati psichici e minori; raramente essa ha interessato servizi per gli
anziani.
Per poter comprendere le modalità con cui si è andata a strutturare l’integrazione tra gli
interventi sociali e sanitari è necessario evidenziare alcuni aspetti del modello
organizzativo dell’attuale ASL che si è strutturata a partire dalla legge 833/1978, che
aveva istituito invece l’USL.
Con la legge 833/1978 era stata superata anche nella sanità la strutturazione basata sugli
Enti e sulla settorializzazione delle competenze e delle prestazioni al cittadino. Aveva cioè
preso avvio un processo volto a costituire un’organizzazione unitaria e universalistica a
tutela della salute, per rispondere appunto ai dettami costituzionali in materia. L'articolo 1
recepisce quelle idee-guida intorno alle quali era maturata la nuova cultura dei servizi.
Si recepisce il concetto di sanità definito dall’OMS che integra aspetti fisici e psichici. Non
si parla solo di diagnosi e cura ma anche di riabilitazione sollecitando la collaborazione
con i servizi sociali. Si cerca appoggio anche al volontariato e una collaborazione
pubblico-privato che diventerà sempre più articolata negli anni successivi con
l’introduzione in campo del terzo settore. Il Comune si serviva delle USL per la
realizzazione degli obiettivi del SSN e della sua gestione. A sua volta le USL dovevano
essere articolate in distretti di base (strutture) necessarie per l’erogazione di servizi di
primo livello e di pronto intervento.
La riforma faticò a raggiungere gli obiettivi prefissati e ciò per cause molteplici: la scarsità
di risorse disponibili, una non sufficiente attenzione agli aspetti gestionali che realtà
complesse come le USL richiedevano e l'instaurarsi di prassi che confondevano i ruoli dei
politici e dei tecnici nella programmazione e gestione dei servizi.
Con l’approvazione dei decreti legislativi 502/1992 e 517/1992 le USL non furono più
organismi strumentali dei Comuni e vengono trasformai in ASL. Le nuove ASL sono dotate
di personalità giuridica e autonomia a livello gestionale, amministrativo e contabile. Seppur
controllate da un collegio di revisori di conti, il controllo politico delle ASL viene assegnato
alle regioni che hanno il compito di nominare (in base al loro curriculum manageriale) e
revocare i direttori generali che devono astenersi alle linee di indirizzo e programmatiche
regionali. A sua volta i direttori generali scelgono i direttori sanitari e amministrativi. I
distretti di base continuano ad avere il compito di erogare prestazioni sociosanitarie,
orientandosi in una prospettiva di unitarietà, globalità e continuità d’intervento.
Questo riassetto complessivo ha determinato una diminuzione di competenze dei Comuni
in materia sanitaria e ha indotto ai comuni a ritirare alcune deleghe in materie di servizi
sociali in precedenza attribuite alle USL. Il comune diventa l’interlocutore più vicino al
cittadino.
Il D.lgs. 229/1997, Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale,
riafferma i principi ispiratori e gli obiettivi della legge 833/1978, ma introduce anche nuove
condizioni per renderli raggiungibili. Vengono puntualizzai i livelli di responsabilità delle
Regioni, delle nuove Aziende sanitarie, degli Eni locali a cui la passata normativa aveva
sottratto competenze. Inoltre, si cerca di garantire ai cittadini prestazioni nel proprio
territorio attraverso un rilancio dei servizi sanitari di base. Le prestazioni sanitarie e quelle
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sociali vengono viste come un processo assistenziale unitario, distinguendo però le
prestazioni sanitarie di competenze dell’ASL, da quelle socioassistenziali di competenza
dei Comuni. Per poter comprendere il complesso problema dell’integrazione tra servizi
sociali e sanitari è necessario parlare della programmazione sanitaria.

La legge 833/1978 prevedeva un processo di programmazione articolata sui tre livelli:


nazionale, regionale e locale. Il troppo complesso iter parlamentare previsto dalla legge
tardò l'attuazione del Piano Sanitario Nazionale (PSN), mentre molte Regioni approvarono
Piani Sanitari Regionali (PSR).
Sia il PSN che il PSR prevedevano al loro interno progetti-obiettivo che riguardavano
l’integrazione tra servizi sociali e regionali. È nella legge 595/1985, Norme sulla
programmazione sanitaria e per il piano triennale 1986-1988 che il progetto-obiettivo viene
codificato come un impegno operativo che funge da polo di aggregazione di attività
molteplici delle strutture sanitarie, integrate dai servizi socioassistenziali al fine di
perseguire la tutela sociosanitaria dei soggetti destinatari del progetto.
Alcuni progetti-obiettivi che sono stati approvai dal PSN negli anni successivi:
• Tutela della salute degli anziani → orientava le regioni e gli enti locali a definire
l’assistenza domiciliare, case protette
• Tutela della salute mentale → superamento dei manicomi, definizione di strutture
residenziali e semi-residenziali

Le modalità dell’integrazione per quanto riguarda il problema dei finanziamenti sono state
affrontato da diversi interventi normativi sia nazionale che di livello regionale, le quali
hanno definito quantitativamente la contribuzione del Fondo sanitario regionale al
pagamento delle rette per il ricovero in struttura o per l’assistenza domiciliare per anziani,
handicap o tossicodipendenti.
Il D.lgs. 299/1999 è l’Atto di indirizzo e coordinamento per l’integrazione sociosanitaria,
che definisce i criteri di finanziamento delle diverse prestazioni sociosanitarie, fornendo i
criteri per distinguere tra la parte a carico del Servizio sanitario nazionale e la parte a
carico del Comuni.
Il tema è stato ripreso dal PSN 1998-2000, Un patto di solidarietà per la salute, che
ribadisce l’importanza delle collaborazioni interprofessionali e quindi il lavoro di équipe. Il
PSN 2003-2005, La salute e il sociale, riprende le tematiche dell’emarginazione, della
salute del neonato dell’adolescente e delle tossicodipendenze.

2.4 → Servizi sociali e welfare mix


Nel nostro paese si sono andate avviando sperimentazioni per superare le difficoltà del
sistema di welfare e in particolare le difficoltà che si incontrano nella realizzazione di
servizi alla persona corrispondenti ai crescenti e nuovi bisogni. Esse hanno riguardato
soprattutto due aspetti:
- lo sviluppo progressivo di collaborazioni tra pubblico e privato, con particolare
riferimento al privato non profit;
- la riscoperta della comunità come risorsa e quindi del lavoro di comunità come
strumento della politica sociale.
Le nuove collaborazioni tra pubblico e privato hanno tentato di risolvere alcuni dei
problemi che sono alla base della crisi del welfare: abbassare la spesa, creare
organizzazioni meno burocratiche, più elastiche, capaci di adattarsi ai bisogni sempre
diversi, coinvolgere maggiormente i cittadini in processi di auto-aiuto.

La parte pubblica è andata riservandosi sempre più il compito di programmare e


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controllare, abbandonando almeno in parte la gestione diretta della produzione dei servizi.
La legislazione nazionale ha sostenuto il protagonismo del non profit attraverso
l’approvazione di alcune leggi:
• Legge 381/1991, Disciplina delle cooperative sociali, ha definito tra l'altro due tipologie
di cooperative sociali, l'una rivolta a produrre servizi sociali (TIPO A), l'altra finalizzata a
inserire al lavoro lavoratori svantaggiati (TIPO B);
• Legge 266/1991, Legge quadro sul volontariato,
• Legge 383/2000, Disciplina delle associazioni di promozione sociale,
• Legge 460/1997, Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle
organizzazioni non lucrative di tutela sociale, ha contribuito all'ulteriore sviluppo del
settore, facilitando, soprattutto attraverso esenzioni fiscali, lo svolgimento delle attività
dei diversi soggetti no profit.

Nell’ambito del non profit la cooperazione sociale ha certamente avuto lo sviluppo


quantitativo maggiore, ciò vale in particolare per le cooperative di tipo A. Anche
volontariato e associazionismo hanno ulteriormente arricchito le loro esperienze. Gli enti
locali da parte loro hanno compiuto un grande sforzo per contenere le spese, chiedendo
inoltre, supplenza in settori in cui l’ente pubblico non aveva esperienze consolidate; hanno
così iniziato a “esternalizzare” la gestione di parte dei servizi.
Queste collaborazioni con gli Enti pubblici nelle prime esperienze si sono configurate
come una sorta di “appalto di mano d'opera” quantitativamente limitato. Negli ultimi anni, il
ricorso all’utilizzo di personale “in convenzione” si è andato estendendo quantitativamente.
Si tratta di esternalizzazioni che riguardano la gestione di una parte del servizio o di tutto il
servizio e non di un semplice “acquisto” di ore di lavoro di operatori.

Il processo di esternalizzazione è un processo che nel corso del tempo ha assunto diverse
modalità e forme da settore a settore che si possono riassumere in due fasi:
1. In una prima fase si è avuta una sorta di esternalizzazione/privatizzazione senza
mercato, ovvero molte cooperative sono nate su sollecitazione dello stesso ente
pubblico a cui sono rimaste legate. Si tratta di una trattativa privata tra l’ente pubblico e
le cooperative che è stata creata appositamente;
2. In una seconda fase, le amministrazioni anche per rispondere alle disposizioni della
normativa europea in materia di appalti e di tutela del mercato hanno scelto di bandire
gare pubbliche per stimolare la partecipazione di più soggetti in concorrenza tra loro.
Questo comporta il rischio che a vincere siano sempre e soltanto le proposte a cosi
minori con gravi conseguenze sulla qualità dei servizi.

Questo progressivo aumento di esternalizzazioni evidenzia come si sia arrivati a dare


tanto spazio alla collaborazione con il privato, soprattutto con le cooperative sociali, senza
avere come riferimento un progetto di welfare mix politicamente discusso e condiviso, ma
attraverso un processo imitativo tra enti locali cui non è estranea una cultura politica che
propone il privato.

2.5 → Un traguardo raggiunto: la legge 328/2000


La legge 328/2000, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali, è una continuità della legge 833/1978 in cui si dava avvio a tutte quelle linee
guida che hanno concesso la formazione di un SSN basto su una concezione
universalistica. La legge 328/2000 è frutto del percorso culturale avviato negli anni
Settanta ed è stata “conquistata” attraverso di un lungo e paziente lavoro parlamentare,
svolto nel corso di due legislature. Già nell'ottobre 1996 la Commissione Parlamentare
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competente aveva iniziato l'esame delle proposte di legge di iniziativa parlamentare a cui
si era affiancato un disegno di legge del Governo. Un Comitato ristretto aveva poi
elaborato un testo unificato, in cui confluirono proposte tratte dai diversi progetti.

Gli elementi innovativi della legge:


- La legge è la codificazione dei diritti soggettivi dei cittadini, tutelati anche dalla Carta dei
servizi sociali, rispetto alle risposte ad alcuni bisogni e di obbligazioni da parte del
sistema pubblico. A questo proposito lo Stato si riserva la competenza di definire i livelli
essenziali delle prestazioni.
- La legge regola l'insieme dei servizi e degli interventi sociali, sia occupandosi della rete
dei servizi sociali che degli emolumenti economici finalizzati al contrasto della povertà e
al sostegno delle situazioni di disabilità.
- La legge affida compiti rilevanti al terzo settore, in particolare compiti riguardanti la
capacità delle comunità di produrre processi di auto-aiuto e legami di reciprocità e di
solidarietà. Tutto questo senza fare concessioni a un welfare residuale.
- La legge definisce alcuni sistemi innovativi per governare e controllare un sistema cosi
complesso. Propone un processo programmatorio articolato sui tre livelli nazionale,
regionale e locale; i Piani di zona sono l’aspetto più innovativo di questo processo.
- L'accreditamento di servizi e strutture, cioè il riconoscimento anche a soggetti privati di
erogare prestazioni per conto del pubblico è un esempio destinato a portare maggiore
chiarezza nei rapporti di collaborazione tra il pubblico e privato e, più in generale, a
garantire maggiori livelli di qualità di tutti i servizi.
La sfida più complessa sarà comunque l'attuazione dei “titoli per l'acquisto dei servizi
sociali”. Si tratta di un bonus che il cittadino può spendere direttamente per acquistare il
servizio che preferisce.
Il finanziamento dell'intero sistema deriva da una pluralità di soggetti istituzionali: Stato,
Regioni, Comuni, ma anche fondi europei. Più nello specifico il Fondo nazionale per le
politiche sociali venivano distribuite tra le Regioni secondo criteri di equità. A sua volta il
fondo regionale sarà distribuito agli enti locali.

La legge 328/2000 consente di “leggere” in un unico quadro coerente la sedimentazione di


leggi e interventi precedenti a cui più volte fa riferimento, richiamando tuttavia l'attenzione
su alcuni particolari interventi di integrazione e sostegno sociale relativamente ai progetti
individuali per le persone disabili, al sostegno domiciliare per le persone non
autosufficienti, alla valorizzazione e sostegno delle responsabilità famigliari. In questo
sistema si passa da interventi riparativi, monetari, rigidi gestiti dallo stato e rivolti a
specifiche categorie di utenti, ad interventi orientai alla prevenzione che richiedono un
ruolo attivo dei cittadini, rivolti a tutta la popolazione e che rispettano standard essenziali.

2.6 → Le implicazioni delle modifiche al Titolo V della Costituzione


Le Modifiche al Titolo V della Parte seconda della Costituzione introdotte dalla legge
costituzionale dei 18 ottobre 2001, n.3, che hanno avviato la costituzione del federalismo
nel nostro Paese, richiedono di rivedere o reinterpretare molte norme relative proprio alle
materie di interesse, ossia servizi sociali, sanitari, educativi. Il processo riformatore della
legge 328/2000 viene bruscamente interrotto perché il potere legislativo in materia è
passato alle Regioni.
Le modifiche consentono infatti una disciplina diversa per quanto riguarda il diritto alla
tutela della salute, che è materia di legislazione corrente (per cui alle Regioni spetta la
potestà legislativa salvo che per la determinazione dei principi fondamentali che è
11
riservata alla Stato), e il diritto di assistenza. Tale principio, non essendo menzionato ne
tra le materie di esclusiva potestà legislativa dello Stato, ne tra le materie di legislazione
concorrente, rimane di competenza della potestà legislativa esclusiva delle Regioni.
Una prima preoccupazione, perciò, è quella di continuare a garantire reti di protezione
sociale per tutti i cittadini. Di particolare interesse è la lettera m) della nuova riformulazione
dell’articolo 117 della Costituzione, che attribuisce allo Stato la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale. In sostanza anche se l'ordinamento tenta di riconoscere
pienamente i diritti alla salute e i diritti all'assistenza come diritti di cittadinanza, la vera
responsabilità dell'attuazione di questi diritti spetta alle Regioni

SINTESI
In Italia la trasformazione e lo sviluppo della rete dei servizi alla persona (sociali, sanitari, educativi)
hanno tratto ispirazione dall’ampio dibattito politico-culturale che ha investito la politica sociale negli
anni Sessanta e Settanta.
L’obiettivo fondante l’intera politica sociale era il rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti.
Ciò richiedeva una visione complessiva e non parcellizzata dei bisogni della persona stessa.
I servizi sono stati perciò organizzati in modo da essere il più possibile “vicino al cittadino”,
privilegiando i servizi territoriali rispetto alle strutture di ricovero, considerate emarginanti; vi è stato un
forte sviluppo di servizi di prevenzione e sono state mobilitate risorse nuove anche private
(volontariato e altri soggetti del terzo settore).
Questi nuovi orientamenti sono stati realizzati nel settore sanitario con l’applicazione della legge
833/1970, Istituzione del Servizio sanitario nazionale.
Nel settore sociale, sono stati invece Regioni ed enti locali a sperimentare servizi nuovi, mentre la
Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali è stata
approvata soltanto nel 2000.
Ora l'intero quadro va riletto alla luce della diversa distribuzione di competenze in materia definita
dalla recente modifica del Titolo V della Costituzione italiana (2001).

CAPITOLO 3 ➡ CONOSCERE IL TERZO SETTORE


Si è già evidenziato come l’offerta sia il risultato di una collaborazione tra settore pubblico
e privato, in particolare tra enti locali e i soggetti del terzo settore. Gli operatori sociali
lavorano in:
- servizi gestiti direttamente dagli enti pubblici (Comuni);
- servizi finanziati dagli enti pubblici;
- servizi gestiti da privati che si avvalgono di contributi pubblici,
- servizi privati ai cui enti gestori la parte pubblica paga rette corrispondenti a prestazioni
erogate a persone che hanno diritto alla pubblica assistenza;
- servizi privati non finanziati da Enti pubblici.
Nel privato operano tuttavia diverse tipologie di soggetti: tutti i servizi citati possono essere
gestiti sia dal privato sociale, sia dal privato mercantile. La cooperazione tra settore
pubblico e cooperative sociali, gruppi di volontariato, associazioni, sono iniziate
precedentemente ai diversi interventi normativi che negli anni Novanta hanno via via
regolato la materia; la “storia” di queste collaborazioni offre utili punti per comprendere i
problemi di oggi e le tante ambiguità che possono ostacolare il pur necessario “farsi” del
welfare mix.

3.1 → Lo sviluppo delle cooperative sociali


In alcune Regioni le prime cooperative operanti nel settore dei servizi sociali sono nate e si
sono sviluppate a partire dalla prima metà degli anni Settanta e fin dall'inizio si sono
andate prefigurando tipologie molto diverse proprio in relazione alle motivazioni che
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avevano mosso i soci a fondare la cooperativa. In primo luogo, nacquero “cooperative di
lavoro” tradizionali operanti nel settore dei servizi alla persona con la finalità mutualistica
prevalentemente interna di creare occupazione per i soci. Il primo esempio fu la
cooperativa CADIAI, istituita a Bologna nel 1974. Al di là della contingenza che sollecitò la
nascita della cooperativa, gli elementi qualificanti del “mettersi a lavorare insieme” in forma
cooperativa furono la conquista della garanzia di una maggiore tutela del lavoro, e
soprattutto un maggior riconoscimento della professionalità dei soci. Altre cooperative
nacquero per iniziativa di gruppi di professionisti, laureati o diplomati che si proponevano
di sperimentare nuove modalità di organizzazione dei servizi e di rapporto con la
committenza; si trattava perciò di “cooperative di servizi sociali”.
Cooperative sociali derivarono anche dallo sviluppo e dalla trasformazione di gruppi di
volontariato che avevano trovato nella cooperazione una formula giuridica idonea per la
propria organizzazione e per stabilire correttamente rapporti di collaborazione con gli enti
pubblici. La finalità principale era quella di offrire aiuto alle persone in difficoltà. I soci
erano prevalentemente volontari, ma venivano inclusi anche alcuni operatori retribuiti per
consentire una migliore organizzazione ed efficacia degli interventi, soprattutto quando
questi riguardavano problematiche gravi e complesse. È per questo tipo di cooperative
che si utilizzava la definizione di “cooperative di solidarietà sociale”. Completamente
diversa è l'esperienza delle cosiddette “cooperative integrate” che, operando nei più
diversi settori produttivi, erano finalizzate all'inserimento lavorativo di persone in difficoltà.

Di fronte allo scenario descritto il legislatore che si trovò a dover regolare la materia, nella
già citata legge 381/1991, Disciplina delle cooperative sociali, utilizzando la più generale
definizione di “cooperative sociali”, scelse invece di distinguere all'interno di questa
soltanto due tipologie:
- le cooperative A, che si occupavano della gestione dei servizi sociosanitari ed
educativi, possono comprendere soci volontari. Queste cooperative sono diversissime
tra loro: molto grandi con forte spirito manageriale; più piccole o grandi, ma con
maggiore attenzione anche a solidarietà esterne; con molti professionisti specializzati o
nessuno.
- le cooperative B che, attraverso lo svolgimento di attività diverse, sono finalizzate
all'inserimento lavorativo di persone “svantaggiate”. Anche queste cooperative hanno
assunto profili tra loro diversi, spesso in relazione ai problemi e alle caratteristiche delle
diverse tipologie di lavoratori svantaggiati.

Le cooperative sociali di piccole dimensioni, soprattutto nate da esperienze di volontariato


cattolico, anche fortemente connotate dal sistema di valori dei movimenti da cui hanno
avuto origine e più lontane da una cultura manageriale, tendono invece a consorziarsi,
creando così cooperative di secondo livello capaci di essere interlocutori più efficaci nei
confronti dell'Ente pubblico, di offrire alle associate servizi a sostegno della competenza
tecnica e della capacità manageriali e aumentandone complessivamente la competitività,
grazie alle economie di scala. A fronte della domanda espressa dagli Enti pubblici che
bandiscono gare d'appalto avrebbe invece dovuto attivarsi un’effettiva concorrenza tra i
diversi soggetti privati produttori di servizi, capace di indurli a introdurre una nuova
progettualità. In questo modo, la dinamica di mercato avrebbe dovuto consentire all'Ente
pubblico di disporre di servizi di migliore prezzo e maggiore qualità, cioè avrebbe dovuto
introdurre nel sistema maggiore efficienza. A seguito degli appalti aggiudicati al massimo
ribasso, il mercato si era popolato anche di nuove imprese con scarsa esperienza che
tuttavia, al momento dell’aggiudicazione dell'appalto, potevano utilizzare il personale
dell'impresa che gestiva l'appalto precedente. La conseguenza è la diminuzione della

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qualità dei servizi.
Negli ultimi anni il nuovo orientamento alla qualità richiesto nelle gare di appalto e più
complessivamente una cultura nuova dell'intero sistema produttivo, più orientato come si
dice alla “soddisfazione del cliente”, sta avviando anche le cooperative sociali verso nuove
sperimentazioni e all'acquisizione di nuovi modelli gestionali. Anche le cooperative di tipo
B hanno assunto profili tra loro diversi, spesso in relazione ai problemi e alle
caratteristiche delle diverse tipologie di lavoratori “svantaggiati”. Svantaggiati non sono
solamente i disabili, ma anche i carcerati, gli ex carcerati, i tossicodipendenti o i senza
fissa dimora. Le cooperative che inseriscono persone con handicap mentale, in cui spesso
sono soci anche i famigliari, divengono una sorta di “agenzia sociale del territorio” capace
di attivare collaborazioni volontarie, momenti di comunicazione con l'esterno per
promuovere le proprie attività. Le cooperative che inseriscono malati psichiatrici spesso
rimangono appunto veri e propri strumenti dei servizi.

3.2 → La specialità del volontariato


È nella legge 833/1978, Istituzione del Servizio sanitario nazionale, che per la prima volta
viene riconosciuto al volontariato la possibilità di concorrere ai fini istituzionali appunto del
Servizio sanitario nazionale. L'urgenza di rispondere ai crescenti bisogni delle persone e la
consapevolezza che una risposta efficace aveva la necessità di mettere in rete una
pluralità di risorse formali e informali sollecitarono lo sviluppo di collaborazioni tra sevizi
pubblici e volontariato.
L’ampio dibattito che si svolse in quegli anni sul ruolo del volontariato contribuì alla
maturazione culturale alla base della ridefinizione della politica sociale. Anche il mondo del
volontariato si andava infatti arricchendo: alle forme più tradizionali di carità e di
assistenza alle persone in difficoltà si andavano affiancando nuovi movimenti e nuove
organizzazioni soprattutto rivolte a intervenire in settori allora nuovi. Anche il volontariato
ha dunque “mille volti”: dal volontariato singolo o famigliare a organizzazioni anche di
grandissime dimensioni; dal volontariato che si occupa della sofferenza delle persone e
del disagio sociale mettendosi in gioco direttamente fino a farne, in alcuni casi, una scelta
di vita a volontari che dedicano più semplicemente il proprio tempo a raccogliere risorse
economiche per organizzare iniziative e servizi in cui lavorano professionisti retribuiti;
infine, anche il volto di chi riesce a dar voce ai problemi di una comunità, assumendo
obbiettivi di sensibilizzazione e di formazione intorno ad essi.

I policy maker e gli operatori devono conoscere e sapere utilizzare questa ricchezza,
cogliendone anche la specifica rispetto agli altri soggetti del terzo settore. È importante
che gli enti locali comprendano come il volontariato abbia una sua specificità connotata
alla gratuità, anche se esso affianca, e a volte è parte, di altre organizzazioni: volontari
possono operare nelle cooperative sociali in cui prevale la presenza di lavoratori retribuiti
anche se sostenuti da motivazioni etiche forti, così come nell’associazionismo più
orientato a una solidarietà interna tra socia.
Le esperienze di volontariato costituiscono di fatto una sorta di educazione alla solidarietà
che diviene fondamentale anche per sostenere le motivazioni al lavoro di chiunque scelga
poi di “spendere” la sua professionalità nel settore no profit.

La legge 266/1991, Legge quadro sul volontariato, frutto delle elaborazioni politiche e
culturali degli anni Settanta e Ottanta non riesce più a fornire orientamenti per queste
complesse problematiche, essa non fornisce una specifica figura giuridica atta a sostenere
le organizzazioni. Il riferimento resta quanto affermato dalla legge 266/1991 per cui,
indipendentemente dalla veste giuridica adottata, le organizzazioni di volontariato si
qualificano per il perseguimento dei fini di solidarietà propri dell'attività di volontariato, con
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il concorso prevalente delle prestazioni personali volontarie e gratuite degli aderenti.
Si richiede, cioè, una proporzione accettabile tra apporti gratuiti e prestazioni retribuite. La
legge 72/1997 afferma che Regione, Province e Comuni possono offrire ad essi “supporti
logistici” e che perciò tali centri entrano in qualche modo nella rete complessiva di risorse
del territorio con cui si costruiscono le risposte ai problemi delle persone e della comunità.
3.3 → Fondazioni e servizi alla persona
L’opinione comune e i mass – media in questi ultimi tempi presentano la fondazione come
strumento idoneo a risolvere i problemi dei servizi sociali, sanitari e culturali. Le fondazioni
sono previste dal Codice civile come figure giuridiche private, che dispongono di un
insieme di mezzi destinato a uno scopo, con un carattere almeno tendenziale di
perpetuità. I soci fondatori normalmente costituiscono un patrimonio significativo
vincolandone la rendita al conseguimento di un interesse sociale che può riguardare il
benessere di alcune categorie di persone, la promozione di particolari attività artistiche.

Il panorama delle fondazioni operanti nel settore dei servizi alla persona si va
ulteriormente arricchendo. Si avranno le fondazioni risultanti dalle trasformazioni di IPAB,
fondazione che deriveranno, secondo quanto previsto dalla legge finanziaria 2003, dalle
trasformazioni degli ICRS.
La fondazione è un’istituzione che si interpone fra donatori e beneficiari, essa amministra i
fondi raccolti per trarne un rendimento da destinare alle finalità statutarie e normalmente
seleziona i soggetti più meritevoli, perché il donatore non è in grado di sapere chi sia il
soggetto che maggiormente merita la propria donazione. La distinzione importante e
fondamentale è quella tra:
- Corporate foundation, che in Italia e in generale in Europa continentale non ha avuto
particolare successo, è una fondazione che nasce da un unico grande donatore, a volte
una persona fisica, ma nella maggioranza dei casi un’impresa. Essa nasce per
soddisfare gli interessi del donatore e non del beneficiario;
- Community foundation, un modello preferito in altri paesi, il cui patrimonio deriva da una
pluralità di donatori appartenenti alla comunità in cui essa opera. In questo caso
particolarmente delicata è la composizione degli organi responsabili
dell’amministrazione: normalmente si cerca un non facile equilibrio tra rappresentanti
degli interessi dei donatori dei destinatari e i rappresentanti degli enti locali, a cui viene
riconosciuto il ruolo di tutori dell’interesse collettivo.

Un caso particolare è rappresentato dalle fondazioni bancarie, frutto della ristrutturazione


del sistema creditizio, in particolare di alcune banche pubbliche i cui statuti prevedevano di
destinare gli utili a fini collettivi. A causa della richiesta di nuove capacità competitive e
livelli di efficienza il legislatore separò l’attività della banca dall’attività solidaristica. Per far
questo vennero trasformate tutte le figure giuridiche in fondazioni, le quali avrebbero poi
conferito le attività bancarie ad una società per azioni della cui attività rimanevano
comunque, titolari.

Le fondazioni bancarie possono poi scegliere se finanziare soltanto programmi svolti da


terzi (grant-making foundation) o se diventare titolari o azionisti di altre imprese strumentali
al perseguimento degli scopi istituzionali o comunque esercitare attività di impresa
(operating foundation). Le trasformazioni delle fondazioni bancarie sono al centro del
dibattito politico non soltanto per quanto riguarda la gestione dei loro patrimoni, ma anche
per le modalità da esse utilizzate nella distribuzione degli utili alle diverse iniziative del
territorio, soprattutto quando queste consistono in servizi alle persone.

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3.4 → La “galassia” dell’associazionismo
Nelle nostre comunità sono presenti molteplici associazioni, riconosciute e non, che
svolgono un importante ruolo di sostegno alle relazioni tra le persone, che promuovono
iniziative di auto-mutuo-aiuto, che svolgono funzioni di sensibilizzazione rispetto a
problematiche sociali. In quest’ambito di problemi gestiscono anche servizi e interventi a
favore dei propri soci.
Questo settore è stato interessato dalla recentissima legge 383/2000, Disciplina delle
associazioni di promozione sociale, che definisce come associazioni di promozione
sociale, le associazioni riconosciute e non, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o
federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o terzi,
senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati.
Le associazioni di promozione sociale possono trarre le risorse economiche per il loro
funzionamento e per lo svolgimento della loro attività da una molteplicità di fonti: quote e
contributi degli associati, eredità, donazioni o contributi pubblici, dello Stato, delle Regioni
dell’Unione Europea e di organismi internazionali.
Le associazioni di promozione sociale si avvalgono prevalentemente delle attività prestate
in forma volontaria, libera e gratuita dai propri associati anche se possono in caso di
necessità assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di lavoro autonomo.
L’associazionismo, nel suo complesso, è un importante risorsa per la costruzione di
comunità e di legami di reciprocità che possono migliorare la qualità della vita delle
persone. Per questo le associazioni sono considerate un importante interlocutore delle
istituzioni pubbliche.

3.5 → L’azione no profit di imprese profit


L'offerta complessiva di servizi alla persona può inoltre essere arricchita dalle iniziative di
imprese private che agiscono in altri campi a fini di lucro, ma che vogliono farsi carico
anche di responsabilità sociali nei confronti dei propri dipendenti o del territorio in cui
operano, o che comunque vogliono dedicare parte del loro profitto a fini di liberalità.
Già nel passato le imprese produttive offrivano ai loro dipendenti una pluralità di
prestazioni sociali, fino a realizzare quello che veniva definito come servizio sociale di
fabbrica gestito da assistenti sociali specificamente preparati. Oggi si è riaperto il dibattito
su questi temi, ma occorre molta cautela per non ritornare a formule non coerenti con un
modello di welfare a ispirazione universalistica e fortemente orientato ai temi dell’equità.
Il termine responsabilità sociale d'impresa, secondo le indicazioni dello specifico Libro
verde emanato dalla Comunità europea, fa infatti in primo luogo riferimento all'assunzione
di responsabilità, innanzitutto per quanto riguarda la gestione delle risorse umane
all'interno delle imprese stesse; all'esterno, l'impegno è innanzitutto quello della
responsabilità ambientale.
Responsabilità di impresa significa sapersi rapportare al proprio territorio, in primo luogo
riguardo agli argomenti di cui l'impresa è competente. Non si può dunque pensare che le
imprese “socialmente responsabili” possano offrire risorse sostitutive rispetto a quelle
pubbliche, mentre rimane altamente positivo e utile il loro contributo aggiuntivo per progetti
particolari.

3.6 → L’impresa sociale e l’economia civile


Il settore no profit va dunque ampliando il proprio ruolo in una pluralità di settori; varie
rilevazioni periodiche ne fotografano l'entità sia in termini di occupazione che di fatturato.
La preoccupazione è che le risorse nuove che possono essere messe in campo dai vari
soggetti siano sostitutive e non aggiuntive rispetto alle risorse pubbliche finora destinate ai
sistemi di welfare e in particolare ai servizi alle persone.
Il D.lgs. 460/1997, Riordino della disciplina tributaria degli Enti non commerciali e delle
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Organizzazioni non lucrative di utilità sociale, pur occupandosi soltanto di materia fiscale,
ha impresso tuttavia un ulteriore impulso allo sviluppo di tutte le tipologie dei soggetti no
profit individuati in Associazioni, Comitati, Fondazioni, Società cooperative e altri Enti di
carattere privato con o senza personalità giuridica, che rientrano nelle caratteristiche
definite dal Decreto per settori di intervento e per l'esclusivo perseguimento di finalità di
solidarietà sociale.
La legge 118/2005, Delega al governo concernente la disciplina dell’impresa sociale, ed il
successivo D.lgs. 115/2006 definiscono le imprese sociali come organizzazioni che
esercitano in via stabile un’attività economica organizzata al fine della produzione o
scambio di beni, senza scopo di lucro, diretta a realizzare finalità di interesse generale.
Nel 2008 vennero approvati quattro decreti normativi, i quali non sono riusciti a regolare le
finalità di tutte le imprese sociali, dalle cooperative sociale agli enti non profit; di
conseguenze si è stati obbligati a modificare il Codice civile, introducendo una nuova
categoria di enti collettivi.

Venne anche reintrodotta l’espressione “economia civile”, facendo riferimento ad uno


spazio entro il mercato, formato da soggetti il cui agire economico trae ragioni dal
riferimento ad un preciso sistema di valori che promuove la realizzazione di una rete di
transazioni basata sulla reciprocità come principio regolativo. Nell’economi sociale e civile
troverebbero spazio imprese che integrano l’intervento pubblico che si avvale del
contracting-out (esternalizzazioni) per accrescere la portata delle varie forme d’intervento,
ma anche di imprese che sono il risultato dell’autorganizzazione dei cittadini.

3.7 → Le incertezze del futuro


L’apporto dei soggetti non profit alla rete dei servizi alla persona è in costante crescita. La
preoccupazione è che le nuove risorse che potrebbero essere messe in campo vadano a
sostituire quelle pubbliche già esistenti. Vi è inoltre la tentazione che le soluzioni alle
difficoltà del welfare siano viste soltanto nella disponibilità di nuove risorse private ed in un
quadro di servizi di privatizzazione. Tali rischi si sono moltiplicati con la crisi economica del
2007-2008, poiché a fronte del restringimento della spesa pubblica e dell’aumento dei
bisogni si è tentato di introdurre risorse private ai fini di liberalità e di beneficenza.
Questo quadro deve essere rivisto alla luce della legge 328/2000 e dei principi fondanti
l’intero sistema di welfare del paese. In vista di ciò i soggetti del settore non profit sono
capaci di produrre legami comunitari tra le persone. È questo il giusto approccio che
dovrebbero avere amministratori e operatori, affinché il sistema produca servizi di qualità
che rispondano ai diritti delle persone.

SINTESI
La rete dei servizi alla persona si è andata nel tempo arricchendo di nuove risorse e sperimentazioni
messe in campo dai diversi soggetti del terzo settore: volontariato, cooperative sociali, associazioni
di promozione sociale, fondazioni. Ciascuna di queste tipologie di soggetti (ma anche ciascun
singolo soggetto) ha ispirazioni ideali e “storie” diverse. Molti di essi collaborano con enti locali per
co-progettare e/o gestire servizi.
La conoscenza delle loro caratteristiche consente di individuare i differenti contributi che essi
possono dare all’efficacia del sistema dei servizi, all’attuazione di una programmazione dei servizi
più aderente ai bisogni delle persone, alla diffusione di quella cultura della reciprocità e della
solidarietà che è alla base della vita stessa delle comunità.

CAPITOLO 4 ➡ IL SISTEMA INTEGRATO DI INTERVENTI E SERVIZI SOCIALI


4.1 → L’universalismo selettivo
Già la legge 833/1978 con l’istituzione del SSN aveva compiuto un primo passo nella
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costruzione di un modello di welfare di tipo universalistico, ma la legge 328/2000 ribadisce
quelle linee-giuda che erano state alla base della precedente legge, e afferma
esplicitamente che il sistema ha carattere universalistico e riconosce ai cittadini il diritto
soggettivo a beneficiare di alcune prestazioni in risposta a specifici bisogni. Fino
all’approvazione della legge 328/2000 il pieno godimento e le esecuzioni di queste
prestazioni erano subordinate a condizioni date ad esempio dalla disponibilità funzionaria
dei Comuni. Poiché si allarga l’area dei diritti riconoscibili ed esigibili da parte dei cittadini
che ne detengono la titolarità, nascono maggiori obblighi per il sistema pubblico.
Lo Stato e l’Ente locale si trovano nella situazione di dover risarcire ed obbligatoriamente
offrire servizi di cui potrebbe ancora non disporne nella sua programmazione. Adesso il
cittadino può rivolgersi al giudice onorario se non si vede rispettato il proprio diritto
soggettivo a usufruire di un contributo economico, e può rivolgersi al giudice
amministrativo qualora non siano state rispettate le condizioni di accesso a un servizio
previste da regolamenti comunali.
Ovviamente per quanto riguarda le prestazioni monetarie sono necessarie specifiche
condizioni relative al reddito.

L’esercizio dei diritti in materia sociale è subordinato dall’esistenza del bisogno. L’Art 2,
comma 3, della legge 328/2000 afferma che «i soggetti che si trovano in condizione di
povertà, o con incapacità totale o parziale di provvedere a sé stessi e alle proprie esigenze
a causa di inabilità di ordine fisico o psichico, o con difficoltà di inserimento nella vita
sociale, nel mercato, accedono prioritariamente ai servizi, alle prestazioni erogate dal
sistema integrato di intervento e servizi sociali».
Al comma 4 si attribuisce ai Comuni il compito di stabilire i parametri per la valutazione di
dette condizioni.
A ciò allora è necessaria l’effettiva verifica di tutte quelle condizioni che danno la priorità di
accedere ai servizi. Così si introducono elementi di selettività anche nel settore dei servizi
alle persone. Per selettività si intende la limitazione all’accesso alle prestazioni in base
all’accertamento di specifiche condizioni di bisogno e di reddito al fine di evitare la
dispersione di risorse. La selettività corrisponde anche all’assunzione di strumenti adatti
alla valutazione del bisogno sociale, della situazione economica di ciascuna famiglia.
Bisogna, dunque, individuare target di utenti che possono (o non possono) accedere ai
servizi o che debbano diversamente contribuire alla spesa per i servizi che utilizzano.

Il nostro Paese utilizza due strumenti di misurazione:


• ISE (Indicatore della Situazione Economica delle famiglie), in cui si tiene conto anche
del numero dei componenti della famiglia che producono reddito o che siano a carico.
• ISEE (Indicatore della scala economica equivalente), in cui si tiene conto di inserire
nella valutazione anche il patrimonio mobiliare ed immobiliare.

Tuttavia, la selettività crea dei problemi, in particolare:


1. menzogna sociale;
2. etichettamento stigmatizzante di chi beneficia di queste prestazioni che sono desinate
solo ai meno abbienti;
3. induce un degrado qualitativo dei servizi, perché un welfare per i poveri può diventare
un welfare povero.

4.2 → Per un welfare municipale e comunitario


Per sintetizzare i contenuti della legge 328/2000 la legge stessa parla di “welfare
municipale e comunitario”. Ciò consente di considerare la centralità del Comune visto

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come l’organo più vicino ai cittadini e a cui fa capo le competenze in materia, e la
centralità della comunità intesa come rete di soggetti diversi pubblici e privati, di risorse
formali e informali, di relazioni di reciprocità e fiducia, di nuove energie, nuove
responsabilità.
La stessa espressione “welfare municipale e comunitario” era già stata fatta propria dal
Patto di solidarietà che il Governo italiano aveva sigillato con il “Forum del terzo settore”
nel 1997 a Padova. Parlare di welfare municipale richiederebbe di definire il concetto di
sussidiarietà verticale, a cui ci si ispira, analizzando innanzitutto la ripartizione delle
competenze tra Stato e i diversi Enti territoriali con l'attenzione al fatto che sono le
istituzioni più vicine ai cittadini quelle che meglio ne interpretano i bisogni e meglio
individuano le risposte da dare loro.
Attribuire un significato corretto al termine “comunitario” richiederebbe di potersi riferire a
un concetto condiviso di sussidiarietà orizzontale. Al riguardo le autorità pubbliche sono
chiamate a fornire servizi sociali solo quando siano completamente esaurite le risorse e le
capacità che permettono alla famiglia, alla comunità, e alle organizzazioni primarie di
assistere i propri membri.
È proprio in relazione alla sussidiarietà orizzontale che emergono maggiori controversie.
Le collaborazioni tra pubblico e privato nell'ambito della comunità costituiscono un
occasione concreta di sperimentare la realizzazione del principio di sussidiarietà e che
questo viene inteso, come sostegno a “responsabilità diffuse” e non come abdicazione
della parte pubblica del farsi carico del problema del benessere dei propri cittadini.
Il principio di sussidiarietà può essere anche interpretato in una prospettiva promozionale
di nuova iniziativa. Tale principio non implica un welfare residuale, ma diviene il principio
regolatore che può moderare le aspettative verso lo Stato ed innalzarle.

4.3 → La centralità del Comune


Parlare di welfare municipale significa riconoscere come il Comune sia l'interlocutore
principale dei cittadini per quanto concerne i servizi sociali, poiché esso (il Comune) è
l’istituzione più vicina al cittadino. Ripensare lo Stato sociale secondo il principio della
municipalità significa riconoscere la centralità del territorio come luogo di sviluppo
economico e sociale e insieme promuovere il protagonismo istituzionale dei Comuni, non
mortificato da nuovo centralismo regionali.
Ormai vi è un quadro istituzionale completo e delineato dalla normativa approvata negli
anni Novanta (decreto Bassini). Tuttavia, se guardassimo le soluzioni istituzionali e le
modalità di gestione con cui i Comuni Italiani offrono i servizi, ci accorgeremmo che si
sono situazione diverse.

I Comuni hanno “utilizzato” in modo diverso le opportunità offerte dalla legge 142/1990
all'articolo 22, il quale prevede che i Comuni e le Province possano gestire i servizi
pubblici nelle seguenti forme:
a) in economia a terzi, quando per le modeste dimensioni o per le caratteristiche dei
servizi non sia opportuno costruire un’istituzione o un’azienda;
b) in concessione a terzi, quando sussistono ragioni tecniche, economiche e di opportunità
sociale;
c) a mezzo di azienda speciale, anche per la gestione di servizi con rilevanza economica e
imprenditoriale;
d) a mezzo di istituzione, per l’esercizio di servizi sociali senza una rilevanza
imprenditoriale. Si tratta della forma gestionale più adatta ai servizi sociali;
e) a mezzo di società per azioni, a prevalente capitale pubblico locale.

La legge 328/2000 rifacendosi alla legge degli anni Novanta stimola i Comuni ad
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associarsi o consorziarsi per gestire i servizi sociali in ambiti territoriali adeguati. L’obiettivo
è quello di dare ai servizi (la cui gestione è affidata ai nuovi soggetti istituzionali) un po’ di
autonomia in più, superando i limiti burocratici posti dalla gestione degli enti locali e
relazionandosi meglio con il terzo settore. Bisogna inoltre ricordare che le Province
mantengono i ruoli e funzioni di coordinamento riguardo l’assistenza all’amministrazione
degli Enti locali, la raccolta e l’elaborazione dei dati. La Provincia è la dimensione
territoriale pertinente alla programmazione di molti interventi con valenza sociale
(accoglienza abitativa, inserimenti).
Anche in materia di servizi sociali i Comuni hanno però “utilizzato” una pluralità di
soluzioni. I diversi soggetti istituzionali individuati per “mettere in rete” la molteplicità dei
servizi da essi direttamente prodotti o comunque promossi e controllati, devono poter
collaborare in modo significativo sia attraverso specifici strumenti giuridici (accordi di
programma), sia attraverso modelli interrogativi capaci di individuare specifiche
responsabilità di coordinamento e/o canali comunicativi formalizzati.

4.4 → Il nuovo protagonismo del terzo settore


La legge 328/2000 assegna al terzo settore una molteplicità di compiti tra cui: riconosce al
terzo settore un ruolo di interlocutore importante nel processo di programmazione e anche
un ruolo di parte sociale.
L'elemento di maggior novità è certamente il riconoscimento al terzo settore un ruolo di
interlocutore importante nel processo di programmazione; un secondo aspetto riguarda
invece l'ampliarsi delle collaborazioni pubblico-privato in materia di produzione dei servizi
La legge segna un importante passo successivo e lo chiama esplicitamente al tavolo dei
Piani di zona, non soltanto per un ruolo consultivo, ma rendendolo partecipe e
responsabile delle scelte strategiche in essi contenute attraverso la sigla dell'accordo di
programma che deve esplicitare il consenso al Piano.
Il problema che emerge, e che non è stato risolto, è quello della rappresentanza. Ciò
richiede al terzo settore un nuovo impegno ne definire e rendere trasparente la propria
posizione e gli obiettivi della propria azione.

Per quanto riguarda le esternalizzazioni dei servizi da parte degli Enti locali, il decreto
dispone alle Regioni competenti in materia alcune indicazioni sulle modalità di acquisto e
di affidamento della gestione dei servizi a soggetti privai. Inoltre, per poter valutare i diversi
elementi di qualità che il comune intende ottenere dal servizio appaltato, esso si avvale del
criterio di aggiudicazione, che è la procedura che permette di valutare l’offerta più
vantaggiosa in quanto tiene conto sia del prezzo che della qualità delle prestazioni. Grazie
alla capacità di progettazione del terzo settore, esso può essere chiamato dal Comune per
la coprogettazione di interventi innovativi e sperimentali.
La costruzione di un welfare comunitario, proprio per la realizzazione del principio di
sussidiarietà, richiederebbe tuttavia alcuni altri passi verso il riconoscimento da parte del
pubblico dell'autonomia del terzo settore. Ed è questo aspetto su cui è più complesso e
anche aspro il dibattito tra le forme politiche. In generale, però, si può riconoscere al terzo
settore un ruolo importante nella costruzione del sistema di welfare: esso, infatti, può
svolgere una pluralità di compiti.
Esso inoltre non limitandosi a sostituire risorse pubbliche può divenire moltiplicatore di
risorse proprio mettendo in gioco quelle reti di relazione che sono il patrimonio più grande
del terzo settore. Il terzo settore è poi produttore di capitale sociale, intendendo per
capitale sociale una rete di legami fiduciari che consentono scambi di informazioni e
collaborazioni.

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Il terzo settore ha dunque ragione d'essere se agisce il ruolo ad esso affidato dalla legge
328/2000, se sa cioè essere moltiplicatore di risorse, produttore di capitale sociale, se sa
essere innovativo e se sa utilizzare correttamente le risorse umane. Per far ciò, però, deve
veder valorizzati i propri spazi di autonomia.

4.5 → La regolazione del sistema dei servizi e l’accreditamento


Per poter offrire agli utenti prestazioni di qualità è stato necessario attivare un sistema di
controllo e regolazione che deve riguardare tutti i servizi, sia prodotti da strutture pubbliche
che da strutture private per conto del pubblico. A questo fine la legge 328/2000 ha
introdotto l’istituto all’accreditamento. In ambito sanitario con questo termine ci si riferisce
al riconoscimento, da parte di un’autorità o istituzione pubblica, del possesso da parte di
un soggetto o di un organismo di specifici requisiti che consentono di iscriversi ad un
elenco a cui possono ricorrere le ASL e le aziende ospedaliere per affidare loro compiti o
comprare prestazioni (in altre parole è uno strumento di verifica e garanzia della qualità e
dell’assistenza sanitaria in un contesto dove i requisiti sono definiti a livello regionale).
La complessa finalità dell’accreditamento, cioè l’individuazione di standard di qualità per
tutti i servizi, ma anche la regolazione del rapporto pubblico-privato hanno dato la
possibilità alle Regioni di interpretare in modo diverso l’istituto e di conseguenza di
predisporre vari modelli di accreditamento. L’accreditamento è uno strumento importante
per garantire qualità, ma non esaurisce il problema; esso non deve creare rigidità
nell’organizzazione dei servizi, i quali devono poteri adattare alle varie tipologie di utenti
per essere efficaci.

4.6 → La comunità come risorsa


Valorizzare la comunità come risorsa è certamente la sfida più nuova delle politiche
sociali. I servizi devono inserirsi nelle reti di protezione e di solidarietà che vengono
costruite all’interno delle comunità.
La comunità, dunque, insieme ai servizi diventa una risorsa per rispondere ai bisogni delle
persone.
Per svolgere il ruolo che le comete la comunità deve poter essere una “comunità
competente”, cioè una comunità che conosce il problema da trattare ed è sensibile nei
confronti del cliente, che è capace di creare relazioni e rapporti di reciprocità. Tutto ciò
comunque, deve essere promosso e supportato.
Gli operatori sociali hanno così riscoperto il lavoro di comunità che consiste nel mettere a
contatto il cittadino con le reti di sostegno, formali e informali, che può trovare intorno a sé
sul territorio, ma anche nel promuovere e sostenere tutte quelle reti di reciprocità e
solidarietà che spontaneamente si realizzano appunto in una comunità.
L’insieme di ciò può promuovere e sostenere tutte quelle reti che nascono
spontaneamente nelle comunità.
La realizzazione del lavoro di comunità richiede un cambiamento dei modelli organizzativi
dei servizi sociali, che non dovranno essere più soltanto erogati di prestazioni, ma
dovranno saper riprodurre grandi capacità di ascolto, di dialogo, di orientamento sia nei
confronti di ciascun cittadino, che deve essere guidato a utilizzare tutte le risorse formali e
informali che il territorio offre, sia nei confronti della comunità che nel suo insieme.

L’intervento sociale deve così interconnettersi anche con tutti quei programmi
intersettoriali
e multidisciplinari, che sono finalizzati proprio a sostenere la qualità della vita e perciò
anche delle relazioni interne alla comunità.

4.7→ Servizi alla persona e contributi economici


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La legge 328/2000 si occupa a definire anche gli emolumenti economici. Alcuni di essi
sono finalizzati alla lotta alla povertà, come il reddito minimo di inserimento e alcuni sono
finalizzai al sostegno delle situazioni di disabilità.
L’erogazione di contributi economici, quando non si prefiguri come beneficienza pubblica,
può divenire strumento efficace per sollecitare la responsabilità degli assistiti, e quindi
strumento per migliorare ulteriormente la qualità della loro vita. Il reddito minimo di
inserimento, se correttamente applicato, doveva avere proprio queste caratteristiche,
perché l'aiuto economico doveva essere erogato a patto che l'utente si impegnasse in
alcune azioni finalizzate appunto al suo inserimento in una vita “normale”: si tratta di
stipulare un vero e proprio contratto tra l’operatore sociale e l’utente.
Tutti questi istituti perderebbero efficacia se si riducessero a meri contributi economici per
situazioni di povertà, trascurando il progetto a cui sono collegati.
Analogo rischio ha anche l’attuazione del titolo per l’acquisto di servizi sociali, istituto
riguardo al quale le Regioni stanno compiendo scelte diverse. Da un lato il “bonus”
potrebbe essere uno strumento utile per coinvolgere l’utente, il quale può scegliere di
usufruire del servizio che preferisce e di cui ha il diritto presso l’istituzione che preferisce e
divenire sempre più soggetto attivo nel costruirsi la risposta ai propri bisogni, ma potrebbe
anche ridursi all’essere un ulteriore contributo economico.

4.8 → Il “ritorno” della programmazione: la sfida dei piani di zona


La storia della programmazione del nostro paese è sempre stata difficile, a partire da una
programmazione di livello nazionale riguardante lo sviluppo socioeconomico, che si è
limitata a essere, un “libro dei sogni”, perché mancava degli strumenti che consentissero
l’attuazione di quanto previsto dai piani.
La programmazione sanitaria nazionale prevista dalla legge 833/1978 ebbe una vicenda
particolare. Le modalità di approvazione del piano sanitario nazionale mutarono nel tempo
nel tentativo di rendere più fluido il processo.
La programmazione è essenzialmente un processo di comunicazione tra livelli istituzionali
diversi tra cui sono distribuite le competenze. La programmazione sanitaria se pur con
difficoltà non ha realizzato un modello cosiddetto “a cascata” in cui il piano sanitario
nazionale precede e dà indirizzi e linee-guida alla programmazione locale. Si è invece
andando verificando una sorta di rapporto dialogico in cui le indicazioni andavano sia
dall’alto al basso sia dal basso all’alto.
Ciò ha consentito appunto che non ci fosse neppure nel tempo un ordine per cui la
programmazione nazionale precedesse la programmazione regionale e la
programmazione regionale precedesse la programmazione locale.
Il Piano di zona è un elemento innovativo della legge 328/2000 che, all’articolo 19,
prevede appunto che i Comuni, associati negli ambiti territoriali previsti dalla regione e di
norma coincidenti con distretti sanitari già operanti per le prestazioni sanitarie, definiscano
un piano di zona proprio finalizzato alla realizzazione di un sistema integrato di interventi e
servizi sociali per quello specifico territorio.
Il Piano deve essere adottato attraverso un accordo di programma a cui partecipano i
Comuni, le Aziende sanitarie, ma anche soggetti privai che concorrono con le proprie
risorse alla realizzazione del Piano di zona. Quindi, sia operatori sociali, che responsabili
politici, possono essere partecipi a diverso titolo alla fase della programmazione.

4.9 → Servizi sociali, sanitari, educativi: una possibile integrazione


Già nella legge 833/1978 era prevista un’integrazione tra interventi sociali e sanitari
necessari per qualificare il nostro Sistema sanitario nazionale e la protezione sociale.
Utilizzando le definizioni contenute nel Piano sanitario nazionale (1998-2001), si esplicita
innanzitutto, che è necessario distinguere vari espetti dell'integrazione sociosanitaria:
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- l’integrazione della progettazione e della gestione di istituzioni diverse;
- la messa a punto di modelli organizzativi capaci di sostenere le collaborazioni tra
sociale e sanitario all'interno delle singole strutture e dei singoli servizi
- la capacità di operatori sociali e sanitari di collaborare a progetti comuni.
Anche la collaborazione tra servizi sociali e servizi educativi/scuola trova supporto in una
molteplicità di norme, ma non può contare su linee di indirizzo unificati.
Sulla base di questo l’integrazione può essere:
• istituzionale → nata per promuovere collaborazioni tra istituzioni diverse che si
organizzano per consentire comuni obiettivi di salute;
• gestionale → in essa si individuano configurazioni organizzative e meccanismi di
coordinamento atti a garantire l’efficace svolgimento delle attività dei processi e delle
prestazioni
• professionale → è correlata all’adozione di profili aziendali e di linee-guida finalizzate
ad orientare il lavoro interprofessionale nella produzione di servizi sanitari, domiciliari,
intermedi e residuali.

Ulteriori elementi utili sono contenuti nell’Atto di indirizzo e coordinamento relativo


all’integrazione sociosanitaria in materia di prestazioni sociosanitarie, emanato con
D.P.C.M 14 febbraio 2001, nel quale si distinguono:
- prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, di competenza delle ASL e a carico del Fondo
sanitario;
- prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, di competenza dei Comuni con partecipazione
alla spesa da parte dei cittadini;
- prestazioni sociosanitarie a elevata integrazione sanitaria, erogate dalle ASL e a carico
del fondo sanitario.

4.10 → I livelli di assistenza


I Livelli essenziali di assistenza (Lea) sono costituiti dall’insieme delle attività, dei servizi e
delle prestazioni che il Servizio sanitario nazionale eroga a tutti i cittadini gratuitamente o
con il pagamento di un ticket, indipendentemente dal reddito e dal luogo di residenza.
I livelli essenziali (LIEVAS) possono essere definiti come diritti individuali con pari
opportunità all’accesso e alla fruizione di interventi e prestazioni da garantire su un
determinato territorio, per una determinata popolazione. Essi non riguardano perciò i
modelli organizzativi e l’azione professionale, perché tali indicazioni rientrano nella
esclusiva competenza delle regioni e degli enti locali.
I LIEVAS vengono definiti in relazione a:
a. quali funzioni e prestazioni considerare;
b. quali beneficiari privilegiare, in termini di accesso esclusivo o accesso gratuito;
c. quali prestazioni sono compatibili con le risorse finanziare disponibili (considerate per un
triennio).

L’analisi dell’art. 22 della legge 328/2000 conduce ad individuare, per ogni misura e
intervento indicati al secondo comma come livelli essenziali, le prestazioni attraverso cui si
realizzeranno, articolandoli per le tipologie organizzative del 4° comma.
L’articolo, infatti, elenca al 2° comma, gli interventi che costituiscono i livelli essenziali delle
prestazioni sociali:
- misure di sostegno alla povertà
- misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio
- interventi di sostegno a minori e ai nuclei famigliari anche attraverso l'affido e
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l'accoglienza in strutture comunitarie
- misure per sostenere le responsabilità famigliari
- misure di sostegno alle donne in difficoltà
- interventi per l'integrazione sociale delle persone disabili
- interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio
- prestazioni socioeducative per soggetti dipendenti.
Lo stesso art 22 al comma 4 dispone che le leggi regionali di applicazione della legge
328/2000 prevedano, tenendo conto anche delle aree urbane e rurali, l’erogazione delle
seguenti tipologie organizzative e l’erogazione delle prestazioni relative:
- servizio sociale professionale e segretariato sociale per l’informazione e la consulenza
al singolo e ai nuclei familiari;
- servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari;
- assistenza domiciliare;
- strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con problemi sociali;
- centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario.
L’attività di segretariato sociale è finalizzata a garantire un’unitarietà di accesso, capacità
di ascolto, funzione di osservatorio e monitoraggio dei bisogni delle risorse, funzione di
trasparenza e fiducia nei rapporti tra cittadino e servizi, soprattutto nella gestione dei tempi
di attesa nell’accesso ai servizi. È quindi un livello informativo di orientamento
indispensabile per evitare che le persone esauriscano le loro energie nel procedere per
tentativi ed errori alla ricerca di risposte adeguate ai loro bisogni. Per questo scopo vanno
rimosse le barriere organizzative burocratiche per ridurre le disuguaglianze nell’accesso.
L’attività di segretariato costituisce un passo avanti nella costruzione di quello che si è
chiamato “welfare di ascolto e dell’orientamento”, cioè un welfare che non è solo erogatore
di servizi, ma che aiuta il cittadino a orientarsi di fronte all’ intera offerta di possibilità di
aiuto che si trova di fronte.
Le azioni del servizio sanitario professionale sono finalizzate alla lettura e decodificazione
della domanda, alla presa in carico della persona, della famiglia o del gruppo sociale,
all’attivazione di integrazioni di servizi e delle risorse in rete, all’accompagnamento e
all’aiuto nel processo di promozione ed emancipazione.
Negli ultimi anni si è consolidata l’idea dell’istituzione di un pronto intervento sociale per le
situazioni di emergenza che risponde al moltiplicarsi delle emergenze legate alle situazioni
di esclusione sociale estrema (senza fissa dimora, immigrati, rischio di abuso), ma
risponde anche alle esigenze di famiglie che si trovano sole di fronte a problemi come la
tossicodipendenza o malattie mentali.

È chiaro che in ogni territorio debbano esserci i servizi elencati, ma non è chiaro quale sia
il livello essenziale che in ciascun territorio deve essere garantito rispetto a questi tipi di
servizi.
La definizione dei LIVEAS deve essere garantita attraverso una programmazione
negoziata e condivisa fra i diversi livelli istituzionali (Stato, Regioni ed enti locali) che deve
assicurare un monitoraggio costante dell’esperienza e una disponibilità crescente di
risorse. La condizione per realizzare i LIVEAS è il poter disporre di risorse certe e
crescenti: lo Stato dovrebbe individuare una percentuale del PIL da destinare al
finanziamento dei LIVEAS; ed essi devono avere un trattamento e una disciplina coerenti,
simmetrici ed equilibrati rispetto ai livelli essenziali relativi alle prestazioni sanitarie (LEA)

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frutto di una strategia d’integrazione, che eviti un’eccessiva penalizzazione della parte
sociale.

4.11 → Un “secondo” welfare?


In Italia, a causa della scarsità delle risorse, sopra sempre più necessario poter costruire
un “pezzo” di protezione sociale aggiungendo alle risorse pubbliche altre provenienti dal
settore privato. È a questo proposito che si diffondono espressioni come “nuovo welfare” o
“secondo welfare” o “welfare aziendale “o welfare generativo” in riferimento non
solamente al non profit, bensì anche ai servizi che potrebbero essere erogati dal privato
profit.
Nei paragrafi recedenti si sono analizzate le caratteristiche del welfare comunitario e dello
sviluppo del welfare aziendale. Quest’ultimo si sviluppa dal dibattito inerente al tema della
responsabilità sociale di impresa, come contributo al miglioramento della qualità di vita dei
propri dipendenti.
Il rischio è che gli interventi del welfare comunitario o del welfare aziendale non vadano ad
integrare quelli del sistema pubblico, bensì li sostituiscano. Da qui l’espressione “secondo
welfare”, il quale va ad aggiungersi al “primo welfare”.
Si parla di “welfare generativo” quando vengono condirete le politiche per il welfare e il
conseguente impegno di risorse nell’ambito delle compatibilità di sistema.
Il “secondo welfare” serve ad ampliare la rete delle risorse, degli interventi e dei servizi
sociali che compongono il sistema integrato di protezione sociale su cui gli amministratori
e gli operatori possono contare e di cui la programmazione sociale deve tener conto.

SINTESI
Il sistema integrato di interventi e servizi sociali che si è andato realizzando in Italia (pur con
profonde differenze sia quantitative che qualitative tra regione e regione e altresì tra zona e zona) è
ben interpretato dalla legge 328/2000, che ha codificato, per estenderle a tutto il territorio italiano, le
esperienze che si erano andate via via consolidando nelle diverse regioni. Anche dopo
l'approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, che attribuisce alle Regioni la potestà
legislativa esclusiva in materia di servizi sociali, la legge, letta contestualmente alla legislazione
sanitaria, costituisce un utile “griglia” interpretativa dei tratti salienti del sistema.
Un sistema di servizi alla persona che vuole garantire diritti soggettivi. Di esso è competente in primo
luogo il Comune, in quanto interlocutore più vicino al cittadino (sussidiarietà verticale), il quale
tuttavia, riconosce il ruolo del privato, in particolare del privato sociale, così come la capacità delle
comunità di autorganizzarsi (sussidiarietà orizzontale).
Un sistema di promozione sociale composto sia da emolumenti economici sia da servizi, in cui
diverse tipologie di servizi (sociali, sanitari, educativi), vanno a costituire progetti personalizzati e
integrati per garantire livelli essenziali di prestazioni a ciascuna persona.
Un sistema complesso dunque, che richiede di essere coordinato e orientato a obiettivi comuni da un
articolato processo programmatorio (di livello nazionale, regionale e soprattutto di zona) e da una
nuova governance.

CAPITOLO 5 ➡ ORIENTARSI NELLA RETE DEI SERVIZI PER ANZIANI


5.1 → Una popolazione che invecchia
Fino a non molti anni fa veniva annoverato nella categoria sociale “anziano” chi aveva
compiuto 60 anni. Oggi si fa riferimento a chi ha compiuto 65 anni e non è da escludere
che si possa ancora procedere a uno spostamento in avanti.

5.2 → Una politica in favore della popolazione anziana


L’invecchiamento della popolazione ha portato negli anni una maggiora sensibilizzazione
nei confronti dei problemi degli anziani e dei bisogni che essi necessitano. In particolare
Stato ed enti locali hanno cercato di mobilitarsi al fine di promuovere una migliore qualità
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di vita. Tra questi interventi troviamo:
• il sistema pensionistico, che conferisce agli anziani delle risorse (a volte scarse) capaci
di sostenere economicamente un livello di vivibilità accettabile a quanti vivono
autonomamente senza il ricorso e sostegni più incisivi;
• gli interventi che cercano di sostenere quegli anziani che ancora attivi necessitano di un
supporto e sostegno per poter sviluppare pienamente quelle risorse di cui ancora
dispongono, come ad esempio anziani che si occupano di attività di volontariato;
• gli interventi che cercano di dare risposta a quegli anziani che per età e per condizioni
fisiche si trovano in situazioni di difficoltà. È proprio a questo che l’intervento pubblico
ha previsto una serie di misure e azioni che hanno impegnato anche il Sistema sanitario
nazionale in maniera crescente.
Tutti questi interventi volti a dare risposta ai bisogni dell’anziano sono in relazione al suo
grado di “autosufficienza” e alla sua capacità relazionale e familiare di farvi fronte.
I problemi dell’anziano non sono solo di tipo sociale ma anche sanitario; così è emersa
l’esigenza di un’integrazione sociosanitaria proprio per far fronte a tali bisogni. L’anziano
non ha solo bisogno di case di riposo, centri diurni, ma ha anche bisogno di assistenza
medica. L’attivazione della rete dei servizi, quindi, diventa di grande importanza soprattutto
per gli anziani.

5.3 → I servizi per anziani tra strutture residenziali e domiciliarità


La legge 328/2000 ha posto l’importanza dell’assistenza domiciliare come uno dei servizi
che deve essere presente in ogni ambito territoriale (art 22). Il Piano nazionale degli
interventi e servizi sociali ha sviluppato questo argomento secondo due obiettivi. Il primo è
quello di valorizzare e sostenere le responsabilità familiari, e il secondo è quello di
sostenere con servizi domiciliari le persone non autosufficienti.
Parlando di domiciliarità si intende un processo di aiuto a domicilio, la cui realizzazione è
possibile in presenza di molti soggetti: anziani, famiglie, operatori dei servizi, i vicini,
volontari. Sono un insieme di strategie che riguardano la vita dell’anziano nella sua casa,
nella sua città, nel suo quartiere e che mirano a dare assistenza senza la necessità che
l’anziano sia inserito in istituzioni totali (case di ricovero, di riposo, manicomi).
Il domicilio per l’anziano rappresenta la sua vita, la sua cultura, le sue abitudini e i suoi
affetti. La domiciliarità è uno dei caposaldi del sistema integrato di interventi e servizi.

5.4 → La rete di servizi sociosanitari e socioassistenziali per anziani


Per descrivere le diverse tipologie di interventi per gli anziani è bene ricordare il progetto
“progetto- obiettivo Tutela della salute degli anziani”.
Tale progetto-obiettivo è inteso come strumento per la realizzazione dell’integrazione
sociosanitaria e per la definizione delle competenze in materia di Comune e USL. Lo
strumento che sancisce i rispettivi compiti e le regole della collaborazione tra i soggetti
pubblici coinvolti del sociale e del sanitario è L’accordo di programma. Esso è l’atto politico
di finalizzare degli impegni assunti nel processo di stesura del Piano di Zona da parte di
tutti gli autori coinvolti. Viene sottoscritto dai rappresentanti degli enti partecipanti e
affinché si raggiunga l’obiettivo dell’interazione sociosanitaria è necessaria la
partecipazione di tutti gli enti presenti sul territorio. Il progetto-obiettivo mira:
• ad aumentare l’offerta di assistenza domiciliare per gli anziani non autosufficienti
• ad ampliare la gamma di servizi residenziali e non ospedalieri capaci di erogare
prestazioni sanitarie complesse al fine anche di evitare ospedalizzazioni improprie

Il progetto definisce i contorni dell’assistenza geriatrica e ne individua gli obiettivi primari:


• la prevenzione
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• la cura delle malattie
• la riabilitazione immediata per evitare il deterioramento
• l’ottimizzazione dell’intervento globale tramite l’impiego di strumento di valutazione
multidimensionale, primo fra tutti l’Unità di valutazione geriatrica (UVG), definita anche
come un mezzo per realizzare l’integrazione tra servizi sanitari e quelli sociali.
L’assistenza geriatrica si articola in servizi sociali e sanitari. I servizi con prevalente
componente sociale sono il segretariato sociale, i centri socioassistenziali diurni. Gli
anziani usufruiscono anche di tanti servizi sanitari come l’assistenza domiciliare integrata
e le residenze sanitarie assistenziali.

La rete integrata dei servizi rappresenta la risposta concreta in termini di azioni e interventi
ai bisogni degli anziani, soprattutto per coloro che hanno problemi di non autosufficienza. I
servizi per anziani delle varie regioni hanno caratteristiche comuni:
1. Accesso → è data grande cura all’informazione che consente al cittadino-utente
l’accesso ai servizi. In questo caso molte Regioni hanno messo a disposizione uffici,
sportelli e servizi con compiti informativi e di indirizzo. In questa prima fase l’anziano
incontra il responsabile del suo caso che valuta la sua situazione e garantisce il corretto
e completo svolgimento del percorso assistenziale, fornendogli elementi per il corretto
uso dei servizi. Questa figura di responsabile rappresenta l’elemento più innovativo in
quanto garantisce la comunicazione tra l’anziano o la sua famiglia e la rete dei servizi.
2. La personalizzazione dell’intervento e l’assistenza sanitaria adeguata → l’operatore che
prende il caso dell’anziano in carico poi lo sottopone all’esame UVG. Ci sarà una équipe
multidimensionale formata da un medico geriatra, infermiere professionale, assistente
sociale. L’Unità valutativa geriatrica può essere territoriale o ospedaliera, ma in ogni
caso si raccorda sia con il medico e sia con l’assistente sociale che ha preso in carico il
caso. I compiti dell’équipe sono:
- stabilire il grado di non autosufficienza dell’anziano
- stabilire di quali servizi (domiciliari o residenziali) ha bisogno l’anziano
- stabilire, sulla base di valutazioni omogenee, il programma assistenziale
personalizzato.
3. I servizi → Se la persona anziana ha bisogno di Servizi Sociali e Sanitari, ci si può
rivolgere a due figure di riferimento: il medico di famiglia e l’assistente sociale del
Comune di residenza. Queste due figure hanno competenze diverse ma sono in
collegamento fra di loro. L’assistente sociale solitamente si può trovare presso il
comune, se questo è di piccole o medie dimensioni, o presso il quartiere/circoscrizione
se è di grandi dimensioni (Capoluogo di Provincia).
I servizi possono essere:
a. Domiciliari
• assistenza domiciliare (SAD) → servizio formato da operatori specializzai che si
recano a domicilio della persona anziana o disabile per prestazioni di igiene
personale e/o alzata quotidiana, il bagno, la mobilizzazione della persona allettata,
trasporti presso strutture sanitarie ed accompagnamenti vari.
• Assistenza domiciliare integrata → intervento socioassistenziale svolto a domicilio
dell’anziano non autosufficiente.
b. Semiresidenziali:
• centro socioriabilitativo diurno → struttura nella quale vi sono programmi di
riabilitazione e di socializzazione. Queste strutture possono essere organizzate
presso case protette o residenze sanitarie assistenziali.
c. Residenziali
• casa protetta → struttura assistenziale residenziale a rilevanza sanitarie desinata
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prevalentemente ad anziani in condizioni di non autosufficienza fisica e psichica
• residenza sanitaria assistenziale → servizio che riguarda quegli anziani non
autosufficienti che non sono assistiti a domicilio e che sono affetti da patologie
croniche degenerative
• altre soluzioni residenziali → (appartamenti protetti e/o albergo)

In sintesi, la mappa dei servizi descritti fa propri valori e scelte rappresentabili attraverso
alcune espressioni significative:
- valorizzazione dell’anziano come risorsa
- personalizzazione e umanizzazione degli interventi
- rete di risorse informali e formali
- integrazione tra servizi sociali e sanitari
- collaborazione tra pubblico e privato
- domiciliarità
- qualità delle strutture residenziali.
5.5 → Le professioni coinvolte
Per la realizzazione di tutti questi interventi è necessaria la qualità dei servizi. Essa viene
data anche dalla professionalità degli operatori, quindi dalla loro preparazione, che sono
coinvolti nella rete dei servizi. Tra questi troviamo:
• Assistenti sociali, i quali sono rappresentati da operatori di base, animatori, educatori
professionali, che si occupano di interventi sociali.
• Infermieri professionali, dietisti, terapisti e medici
L’assistente sociale svolge un ruolo importante in quanto si occupa della “presa in carico”
del caso, quindi del momento iniziale che segna l’accesso dell’anziano nel servizio.
Principalmente l’assistente sociale compie una prima valutazione della condizione, del
disagio e del bisogno dell’anziano, orientandolo nell’individuazione del percorso
individuale.
Inoltre, l’operatore che più è a contatto con l’anziano è l’operatore di base, chiamato
comunemente operatore OSA (operatore socioassistenziale), OTA (operatore tecnico
assistenziale).
Tutte le figure professionali sono chiamate a collaborare tra loro e con gli operatori
sanitari.

SINTESI
Da diversi anni anche il nostro Paese deve far fronte all’emergenza anziani: aumentano
numericamente gli anziani e con l’aumento delle loro aspettative di vita si diversificano i bisogni da
loro espressi. Di conseguenza le politiche sociali in favore della popolazione anziana hanno
progettato e consolidato una rete diversificata di servizi e interventi in ottica riparativa, assistenziale
alla realizzazione della quale concorrono soggetti pubblici e del privato sociale. Tale rete si è
progressivamente aggiunta a una serie di interventi volti a prevenire il disagio delle persone anziane.
Insieme alle aspettative di vita aumenta anche la possibilità e il rischio di ritrovarsi anziani malati e in
solitudine.
La crescita numerica e progressiva di anziani non autosufficienti ha negli anni trasformato la rete di
interventi e servizi che oggi si presenta strutturata principalmente per sostenere anziani non
autosufficienti. I servizi e gli interventi, che presuppongono un’ampia collaborazione e integrazione
fra i servizi sociali e quelli sanitari possono essere di tipo domiciliare, di tipo semi – residenziale e di
tipo residenziale. A ciascuno di questi servizi l’anziano accede dopo l’individuazione del suo bisogno
assistenziale e sanitario a cura di una équipe multidisciplinare cui segue l’individuazione di un
percorso individuale.
28
L’orientamento condiviso degli attori delle politiche sociali è quello di considerare il ricovero in
struttura come ultima ratio cercando di far rimanere il più possibile l’anziano nel proprio domicilio. Per
questo obiettivo i servizi pubblici devono collaborare con la famiglia dell’anziano, le associazioni di
volontariato, le cooperative sociali, il vicinato, la comunità locale in ciò promuovendo una cultura
della domiciliarità. Il ruolo degli operatori è quello di cercare di mettere in rete e coordinare il più
possibile queste differenti risorse per attenuare il rischio di un inasprirsi del disagio e della solitudine
degli anziani.

CAPITOLO 6 ➡ ORIENTARSI NELLE RETE DEI SERVIZI PER BAMBINI,


ADOLESCENTI E FAMIGLIE
6.1 → Una progressiva attenzione all’infanzia, all’adolescenza e alla famiglia
Molte politiche sociali sono rivolte ai minori al fine di predisporre azioni e interventi per lo
sviluppo psichico del bambino e del ragazzo. Ovviamente parliamo di persone che non
hanno ancora raggiunto una certa autonomia, quindi tutte le politiche sociali, sanitarie ed
educative rivolte ad essi sono servizi che garantiscono i loro diritti sociali alla salute,
all’educazione e ad una buona qualità di vita. È bene pensa alle loro famiglie in quanto
loro sono i primi responsabili della crescita e sviluppo dei propri figli e quindi molte
politiche sociali sono rivolte a loro per sostenere la loro funzione genitoriale.

Intervenire a sostegno dei minori significa:


• operare in quelle situazioni in cui la famiglia non è in grado o ha difficoltà di occuparsi
della crescita dei propri figli per motivi economici o socioeconomici. Alcuni interventi
possono essere i contributi per l’affitto, buoni pasti, buoni spesa (interventi materiali),
sostegno di tipo psicologico sia alla famiglia che al minore, soprattutto nelle situazioni
multiproblematiche in cui si sommano, oltre ai problemi economici, anche le fragilità
psicologica dei genitori, deficit sanitari, rapporti familiari conflittuali. Inoltre, da sempre i
servizi sociali in collaborazione con le autorità giudiziarie si sono occupai della presa in
carico di quei minori che per diversi problemi gravi devono essere allontanati dalla
famiglia di origine mediante affidamento in strutture o presso famiglie, o adottati.
• predisporre interventi e azioni volti a sostenere lo sviluppo dei minori tenendo conto del
mutare delle condizioni e delle relazioni all’interno delle famiglie. I mutamenti sono
strettamente collegati al mutare della società.

Molte ricerche hanno dimostrato che molte emergenze nascono con l’entrata della donna
sul mercato del lavoro, l’incremento dei divorzi, delle separazioni o della convivenza,
l’innalzamento dell’età del matrimonio. Altri disagi possono nascere da altri tipi di
situazioni: famiglie unipersonali e single, monoparentale, di fatto, strette, ricongiunte,
ricomposte; si tratta di tipi di famiglie le quali posseggono diverse esigenze.

Dunque, occuparsi di famiglie, implica conoscere come si evolvono le relazioni familiari e


riflettere su come questo possa influire rispetto al modificarsi dei bisogni espressi.

Il consolidarsi dell’occupazione femminile e la progressiva scomparsa delle famiglie


“allargate” hanno originato la domanda di servizi di cura e accudimento dei figli che
consentissero alla donna di lavorare. Si tratta di strutture come scuole materne e/o asili
nido, infatti in un primo momento le politiche sociali volte a sostegno di minori e famiglie
erano volte a consentire alle madri di conciliare i tempi di cura e di lavoro con il benessere
e le esigenze dei minori.
Ma con l’andar tempo i problemi sono sempre più diventai complessi: maggiore instabilità
coniugale, aumento di bambini coinvolti nelle separazioni… tutto questo ha indotto gli
29
autori delle politiche sociali a occuparsi in modo maggiormente organico della famiglia
stessa. Essi riconoscono alle famiglie un ruolo fondamentale per il benessere delle
persone, la coesione sociale e la sostengono attraverso diversi interventi che fanno capo a
politiche socioassistenziali, educative, del lavoro in quanto soggetto destinatario.
La famiglia viene intesa anche come risorsa importante per l’intera comunità, risorsa
educativa per i minori in caso di affido e adozione, come risorsa comunitaria cioè come
soggetto che agisce e promuove “legami comunitari”, protagonista del welfare comunitario.

6.2 → Il sostegno alle responsabilità familiari (art 16, legge 328/2000)


Il primo articolo della legge 328/2000 recita che il sistema integrato di interventi e servizi
sociali viene assicurato alla persona e alla famiglia. La legge inoltre cerca di garantire un
equilibrio tra la persona e la famiglia intesa come “qualche cosa” in cui la persona vive.
In particolare, l’articolo 16 di tale legge fornisce un filo conduttore per considerare
contestualmente i servizi e gli interventi finalizzati alla responsabilità famigliare.

Il primo e secondo comma dell’art 16 riconosce alcune funzioni della famiglia:


• Funzione genitoriale (formazione e cura della persona)
• Funzione sociale (coesione sociale, associazionismo).
In particolar modo chiede alla famiglia di partecipare alla vita di servizi in quanto soggetto
competente ai fini del raggiungimento di una loro migliore qualità.
Analizziamo l’art. 16, Valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari:
1. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali riconosce e sostiene il ruolo peculiare delle famiglie nella
formazione e nella cura della persona, nella promozione del benessere e nel perseguimento della
coesione sociale; sostiene e valorizza i molteplici compiti che le famiglie svolgono sia nei momenti critici e
di disagio, sia nello sviluppo della vita quotidiana; sostiene la cooperazione, il mutuo aiuto e
l'associazionismo delle famiglie; valorizza il ruolo attivo delle famiglie nella formazione di proposte e di
progetti per l'offerta dei servizi e nella valutazione dei medesimi. Al fine di migliorare la qualità e
l'efficienza degli interventi, gli operatori coinvolgono e responsabilizzano le persone e le famiglie
nell'ambito dell'organizzazione dei servizi.
2. I livelli essenziali delle prestazioni sociali erogabili nel territorio nazionale, di cui all'articolo 22, e i progetti
obiettivo, di cui all'articolo 18, comma 3, lettera b), tengono conto dell'esigenza di favorire le relazioni, la
corresponsabilità e la solidarietà fra generazioni, di sostenere le responsabilità genitoriali, di promuovere
le pari opportunità e la condivisione di responsabilità tra donne e uomini, di riconoscere l'autonomia di
ciascun componente della famiglia.
3. Nell'ambito del sistema integrato di interventi e servizi sociali hanno priorità:
a) l'erogazione di assegni di cura e altri interventi a sostegno della maternità e della paternità
responsabile, ulteriori rispetto agli assegni e agli interventi di cui agli articoli 65 e 66 della legge 23 dicembre
1998, n. 448, alla legge 6 dicembre 1971, n. 1044, e alla legge 28 agosto 1997, n. 285,
da realizzare in collaborazione con i servizi sanitari e con i servizi socioeducativi della prima
infanzia;
b) politiche di conciliazione tra il tempo di lavoro e il tempo di cura, promosse anche dagli enti locali ai
sensi della legislazione vigente;
c) servizi formativi ed informativi di sostegno alla genitorialità, anche attraverso la promozione del
mutuo aiuto tra le famiglie;
d) prestazioni di aiuto e sostegno domiciliare, anche con benefici di carattere economico, in
particolare per le famiglie che assumono compiti di accoglienza, di cura di disabili fisici, psichici e
sensoriali e di altre persone in difficoltà, di minori in affidamento, di anziani;
e) servizi di sollievo, per affiancare nella responsabilità del lavoro di cura la famiglia, ed in particolare i
componenti più impegnati nell'accudimento quotidiano delle persone bisognose di cure particolari
ovvero per sostituirli nelle stesse responsabilità di cura durante l'orario di lavoro;
f) servizi per l'affido familiare, per sostenere, con qualificati interventi e percorsi formativi, i compiti
educativi delle famiglie interessate.
4. Per sostenere le responsabilità individuali e familiari e agevolare l’autonomia finanziaria di nuclei
monoparentali, di coppie giovani con figli, di gestanti in difficoltà, di famiglie che hanno a carico soggetti
non autosufficienti con problemi di grave e temporanea difficoltà economica, di famiglie di recente
immigrazione che presentino gravi difficoltà di inserimento sociale, nell'ambito delle risorse disponibili in

30
base ai piani di cui agli articoli 18 e 19, i comuni, in alternativa a contributi assistenziali in denaro,
possono concedere prestiti sull'onore, consistenti in finanziamenti a tasso zero secondo piani di
restituzione concordati con il destinatario del prestito. L'onere dell'interesse sui prestiti è a carico del
comune; all'interno del Fondo nazionale per le politiche sociali è riservata una quota per il concorso alla
spesa destinata a promuovere il prestito sull'onore in sede locale.
5. I comuni possono prevedere agevolazioni fiscali e tariffarie rivolte alle famiglie con specifiche
responsabilità di cura. I comuni possono, altresì, deliberare ulteriori riduzioni dell'aliquota dell'imposta
comunale sugli immobili (ICI) per la prima casa, nonché tariffe ridotte per l'accesso a più servizi educativi
e sociali.
6. Con la legge finanziaria per il 2001 sono determinate misure fiscali di agevolazione per le spese
sostenute per la tutela e la cura dei componenti del nucleo familiare non autosufficienti o disabili. Ulteriori
risorse possono essere attribuite per la realizzazione di tali finalità in presenza di modifiche normative
comportanti corrispondenti riduzioni nette permanenti del livello della spesa di carattere corrente.

I commi successivi richiamano le azioni necessarie per sostenere le responsabilità


familiari. In particolare, l’articolo 16, comma 3 pone in risalto:
• come le situazioni economiche possano pregiudicare l’armonico sviluppo dei minori. Un
intervento in tal senso è l’assegno di cura che sono dei trasferimenti economici che
intendono sostenere i genitori in particolari difficoltà: “madri sole”, povertà.
• Il tema famiglia-lavoro. In tal senso ci sono degli interventi in cui i genitori possano
gestire in maniera più flessibile i tempi di lavoro e avere quindi la possibilità di avere
maggiori spazi per i figli.

A tal proposito è importante anche fare riferimento alla legge 53/2000, Disposizioni per il
sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il
coordinamento dei tempi delle città, la quale ha introdotto la possibilità anche per i padri di
poter usufruire dei congedi parentali e ha proposto modalità concrete per la realizzazione
di una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro aziendale al fine di favorire la
conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Ritornando all’articolo 16 esso propone interventi di tipo formativo e informativo a


sostegno della relazione anche fra i genitori e i figli. I genitori oggi si sentono soli nel
gestire le piccole difficoltà della relazione quotidiana con i figli. Favorire quindi opportunità
di confronto e aiuto reciproco può aiutare ad affrontare meglio queste situazioni.
Particolari sostegni devo anche essere rivolti a sostegno di famiglie che hanno figli con
disabilità, malattia psichiatrica o che hanno figli in affido.

Il comma 4 riprende un altro intervento di natura economica: il prestito sull’onore. La novità


dell’intervento consisteva nel fatto che esso intendeva promuovere l’autonomia e la
responsabilità della famiglia attraverso la messa a punto di un piano di restituzione della
somma prestata.

I commi 5 e 6 fanno riferimento ad agevolazioni fiscali per le famiglie attivate a livello


comunale e nazionale. Con esse si vuole promuovere una politica fiscale a “misura di
famiglia”, che tenga cioè conto della dimensione e dei carichi familiari.

6.3 → Diritti e opportunità per l’infanzia e adolescenza: un lungo percorso iniziato


con la legge 285/1997)
La legge 285/1997 affronta il tema dei diritti e delle opportunità di bambini e adolescenti
con l’obiettivo di istituire un Fondo nazionale per finanziare con cadenza triennale gli
interventi a sostegno dei minori e delle famiglie. Quello che propone questa legge sono
tutti interventi finalizzati alla crescita dei minori e alla loro socializzazione, attraverso un
approccio di tipo prevenivo.
31
Alcuni interventi riguardano:
• minori in particolare condizione di disagio: si tratta di bambine e adolescenti che vivono
situazioni drammatiche di violenza, abuso, maltrattamenti psicologici e fisici
• minori incorsi in situazioni di reato o provenienti da altri paesi
Per tali situazioni la legge prevede progetti di sostegno che coinvolgono più soggetti, come
ad esempio, i Comuni e/o le ASL.
Strutture di accoglienza residenziali o semiresidenziali sono calibrate sulle esigenze di
questi minori e perciò richiedono competenze professionali in grado di rispondere e
corrispondere ad esse.

Fra le iniziative più innovative troviamo il servizio di Mediazione familiare, ossia un servizio
di sostegno ai genitori separati o in via di separazione, al fine di salvaguardare il
benessere dei figli. I genitori che si presentano in questo servizio accettano di discutere
dei loro conflitti con un mediatore al fine di trovare un accordo basato sui bisogni di
ciascuno e particolarmente dei figli. Esso è un servizio qualificato che va incontro ai
protagonisti della separazione:
• figli, affinché possano contare su genitori che sono in grado di svolgere la loro funzione
educativa;
• coniugi, affinché possano rielaborare la loro vicenda salvaguardando il ruolo genitoriale;
• giudice, perché possa usufruire di un intervento psicologico fuori dal giudizio.
Poi troviamo i Servizi ricreativi e educativi innovativi per il tempo liberi, volti alla prima
infanzia (0-6 anni) che sono stati definiti come nuove tipologie. Alcune di esse mirano alla
socializzazione all’interno della famiglia e tra le famiglie. Le nuove tipologie sono
servizi innovativi e aggiuntivi che possono avere diverse caratteristiche, sia in termini di
organizzazione, educazione e di impostazioni.
Per i preadolescenti e per gli adolescenti sono desinati un complesso variegato di servizi,
a partire dai centri di aggregazione e educativi, passando per gli spazi attrezzati fino ad
arrivare agli interventi di educativa di strada. Si tratta di interventi finalizzai alla
prevenzione del disagio o alla riduzione del danno.

Poi troviamo attività volte a sensibilizzare ragazzi e adolescenti sul tema della
Partecipazione alla vita sociale e pubblica. Si è assistito ad un crescere di esperienze
come ad esempio Consigli comunali per ragazzi, Città delle bambine e dei bambini e
iniziative di progettazione partecipata per la creazione di percorsi di autonomizzazione
casa-scuola.

I servizi e gli interventi che possono essere finanziai con i fondi previsti dalla legge
285/1997 sono:
• interventi di contrasto della povertà, del disagio, della violenza e della
istituzionalizzazione;
• interventi socioeducativi per la prima infanzia e per il sostegno alla relazione genitori
figlio
• interventi educativi e ricreativi per il tempo libero
• azioni positive per la promozione dei diritti.
Importante sono anche i centri per le famiglie che coordinano e supportano una serie di
attività, quali corsi di formazione per i genitori, iniziative specifiche per le famiglie
32
extracomunitarie, azioni di sensibilizzazioni per affido e adozioni.
Occorre ricordare anche gli interventi volti alle famiglie immigrate, tesi a promuovere
l’integrazione sociale, ossia volti all’accoglienza, all’orientamento e all’integrazione
scolastica, quindi corsi di alfabetizzazione, interventi a sostegno dell’inserimento
scolastico, dell’apprendimento e/o percorsi interculturali sono alcuni degli interventi più
frequentemente attivati
L’attività delle case famiglie dovrebbe coordinarsi con quella dei consultori familiari che
furono istituiti come servizi sociosanitari prevenivi rivoli alla donna, alla famiglia e ai minori
per sostenerli nelle varie fasi della loro vita.

SINTESI
Intervenire a sostegno dei minori implica necessariamente intervenire a sostegno della famiglia che
ha la responsabilità di garantire loro una crescita e uno sviluppo armonico. Le politiche sociali e
sociosanitarie hanno agito, in primo luogo, laddove la famiglia aveva difficoltà a garantire tale
sostegno, perché anch’essa in una situazione problematica.
Per far fronte ai problemi delle famiglie povere o in situazioni complessi di disagio sociale Comuni e
ASL (nei casi necessari in collaborazione con le autorità giudiziarie proposte) hanno creato servizi
aiutando allo stesso tempo famiglie e minori: comunità di accoglienza per minori allontanati dal nucleo
familiare, affido, adozione, sostegni economici (dal più tradizionale contributo al costo di rette al più
innovativo prestito sull’onore) e psicosociali alle famiglie (dal tradizionale ascolto alla più recente
mediazione familiare o counselling genitoriale) sono fra gli interventi più frequentemente posti in
essere.
In secondo luogo, le politiche sociali hanno cercato di rispondere alle esigenze quotidiane di tutte le
famiglie, tenendo conto anche e soprattutto dell’evolversi della famiglia stessa in termini di ruoli,
bisogni e funzioni dei suoi componenti: nidi e scuole d’infanzia, interventi a sostegno della
genitorialità (e non solo di quella “messa in crisi”), volti alla conciliazione dei tempi di cura e di lavoro
(soprattutto per le donne), finalizzati a consolidare e rafforzare il ruolo della famiglia come “soggetto”
co-attore di politiche sociali. Ciò che accomuna le azioni indicate è l’obiettivo di valorizzare e
sostenere le responsabilità familiari e il fatto di riconoscere nella famiglia un soggetto destinatario di
politiche e interventi, ma al contempo, un soggetto attivo nella costruzione del sistema di welfare, in
quanto risorsa importante per sé stessa, per i minori al suo interno e per la comunità intesa in senso
ampio, come recita l’art. 16 della legge 328/2000.

CAPITOLO 7 ➡ ORIENTARSI NELLA RETE DEI SERVIZI PER LE PERSONE


CON DISABILITÀ
7.1 → Un problema terminologico, ma non solo...
L’OMS definisce l’handicap come «una condizione di svantaggio sociale che limita o
ostacola il compito di una funzione ritenuta normale per un individuo in relazione alla sua
età, sesso e condizione socioculturale».
Quindi l’handicap deriva da una limitazione o da una perdita delle capacità di svolgere
attività in maniera normale. Il modello medico definisce la disabilità come un problema
personale che deriva dall’ambiente che non consente la partecipazione delle persone
disabili in tutte le aree della vita sociale. Questa difficoltà nel dare una vera e propria
definizione di tale problema è data dal fatto che la disabilità si manifesta in tante e diverse
forme: in ritardi mentale, menomazioni, sordità cecità e disturbi di motricità.
La legge 104/1992, Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle
persone handicappate, cerca di fornire le linee guida per ricomporre in un quadro coerente
l precedente legislazione, attenta alla sofferenza dei disabili, ma frammentata per singoli
aspetti del problema e inapplicabile. Questa legge pone la sua attenzione alla prevenzione
e all’emarginazione, garantendo il pieno rispetto della persona disabile. Inoltre, insiste
sulla possibilità di prevenire e rimuovere le situazioni invalidanti e predisporne interventi
che possano evitare processi di esclusione dai contesi familiari e sociali. I diritti civili dei
33
disabili sono perciò ulteriormente garantiti da norme ad essi dedicate, approvate in
applicazione di quanto indicato dalla 104/1992, ma anche rivolte alla popolazione in
generale.
Gli interventi personalizzai per queste persone vengono ben inquadrate dalla legge
328/2000 nell’art 14, Progetti individuali per le persone disabili, in cui si richiama la
pluralità dei soggetti istituzionali chiamati in causa e la molteplicità di interventi che occorre
mettere in rete.

7.2 → Il sostegno all’insegnamento scolastico di alunni disabili


Tradizionalmente per far fronte al problema dell’inserimento scolastico dei disabili si era
scelto di separarli dagli altri, istituendo scuole o classi speciali. È il caso della Riforma
Gentile del 1923 che aveva previsto istituzioni scolastiche apposite, con l’obbligo di
frequenza, per ciechi e sordomuti.
Bisogna aspettare la fine degli anni Settanta con la legge 517/1977, Norme sulla
valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione, nonché altre norme di
modifica dell’ordinamento scolastico, per avere un quadro ben delineato e innovativo per
quanto riguarda la scuola elementare e media. Con l’art 2 di tale legge si sancisce che «la
scuola attua forme di integrazioni a favore degli alunni portatori di handicap» e che
«devono essere assicurati la necessaria integrazione specialistica, il servizio
sociopsicopedagogico,
e forme particolari di sostegno secondo le rispettive competenze dello
Stato e degli enti locali preposti».
Negli anni successivi si perfeziona questa proposta prevedendo modifiche mirate per i
portatori di handicap e la messa in organico di personale docente aggiuntivo nel sostegno
didattico degli alunni disabili, sia nella scuola dell’obbligo che in quella materna.
Gli inserimenti scolastici sono sostenuti dai servizi sociali e sanitari che si occupano
dell’effettuazione di diagnosi corrette, di un costante monitoraggio del caso e di
consulenza.
Un problema delicato fu quello del passaggio dei disabili dalla scuola dell’obbligo alla
scuola superiore o alla formazione professionale. Si generava una sorte di diserzione alla
fine della terza media, che poteva anche tradursi in nuovi fenomeni di emarginazione
sociale.
L’inserimento scolastico, soprattutto nella scuola media superiore, presenta problemi
complessi: se per gli allievi con disabilitò motorie e sensoriali erano sufficiente eliminare le
barriere architettoniche e di offrire la disponibilità di tecnologie capaci di far superare
l’handicap, per i disabili con problemi di salute mentale, occorrono progetti ancor più
personalizzati che inevitabilmente richiedono interventi che devono coinvolgere soggetti
istituzionali diversi.

Grazie alla legge 845/1978, Legge quadro in materia di formazione professionale, le


Regioni poterono sperimentare una pluralità di corsi rivoli ai disabili, disabili mentali a cui
la legge quadro non faceva tuttavia esplicito riferimento. Nel 1992 venne approvata la
legge 104/1992 che ridefinisce le modalità con cui consentire ai disabili di fruire della
formazione professionale.
Le modalità formative offerte ai disabili possono essere:
• inserimento in corsi di formazione normali con eventuale sostegno
• inserimento in corsi specifici
• inserimento in corsi prelavorativi.
7.3 → Il sostegno all’inserimento lavorativo di persone disabili
34
L’inserimento lavorativo, che non sempre è realizzabile, è il momento più importante di un
progetto educativo-formativo attuato nell’infanzia e nell’adolescenza e degli interventi
riabilitativi. Il lavoro per un disabile diventa un fattore di estrema importanza per la
costruzione dell’identità e per la socializzazione. Quindi l’inserimento punta sulla
strutturazione dell’identità che è particolarmente complessa per l’handicap mentale e sulla
maturazione relazionale. Tale inserimento può avvenire sia mediante l’applicazione della
legge sul collocamento obbligatorio, sia all’interno di cooperative sociali di tipo B in cui i
datori di lavoro hanno l’obbligo di assumere un determinato numero di persone disabili.
Nel tempo si sono susseguite diverse leggi che hanno obbligato i datori di lavoro
all’assunzione di un certo numero di persone disabili, andando a formulare una complessa
disciplina sul collocamento obbligatorio:
• all’inizio, precisamente nel 1917, essa fu una sorta di indennizzo per il contributo alla
patria, riguardante i mutilai e gli invalidi di guerra.
• Negli anni Sessanta questa disciplina venne estesa a diverse categorie di aventi diritto:
ciechi, sordomuti, invalidi civili.
• Sarà poi la legge 428/1968, Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le
pubbliche amministrazioni e le aziende private, che riordinando i diversi provvedimenti,
stabilì quote specifiche per l’inserimento di una molteplicità di categorie di lavoratori.
Tuttavia, essa rimase in gran parte inapplicata.
• La legge 68/1999, Norme per il diritto al lavoro dei disabili, supera alcune rigidità della
legge precedente che erano probabilmente state la causa della sua inapplicazione. I
soggetti obbligati fruiscono ad esempio di una notevole attenuazione della quota
d’obbligo. Ora l’obbligo si estende anche alle piccole e medie imprese, anche se solo in
caso di nuove assunzioni. Questa legge porta degli elementi innovativi: innanzitutto
crea le condizioni per un collocamento mirato, basato sulla valutazione della effettiva
capacità del disabile e sull’analisi delle mansioni; inoltre crea delle condizioni fisiche e
relazionali del posto di lavoro in cui si vuole inserire il soggetto con disabilità.

Esistono proprio dei servizi per l’inserimento lavorativo che si trovano presso i centri per
l’impiego delle province. Questo Servizio nasce proprio perché non basta l’appartenenza
ad una specifica categoria di invalidi o la percentuale riconosciuta di invalidità per valutare
la capacità lavorative, che tra l’altro va esaminata dopo aver rimosso tutto ciò che fa da
supporto al disabile come le barriere architettoniche e gli appositi ausili.
Le cooperative di tipo B finalizzate per l’inserimento di disabili nascono per iniziativa degli
interessati, delle loro famiglie e delle associazioni che le rappresentano. Sono cooperative
che si occupano del settore agricolo, del settore dei servizi, ma anche di quello industriale.
Inoltre, in esse vengono inserite anche sperimentazioni ulteriori di avvio al lavoro
attraverso
l’erogazione da parte di alcuni servizi di borse lavoro.
Di quest’ultime se ne è occupata la legge 68/1999, la quale prevede che i datori di lavoro
possano “distaccare” il lavoratore disabile, già assunto all’interno dell’impresa, presso una
cooperativa sociale con lo scopo di fargli acquisire elementi di professionalità e capacità
mediante un percorso formativo personalizzato.
Oggi questa norma sembra (legge 68/1999) di difficile attuazione, tanto che il recentissimo
D.lgs. 30/2003 ha consentito che le aziende che garantiscono commesse alle cooperative
sociali vengono esonerate (per casi di particolare gravità e soltanto per una percentuale
della quota obbligatoria) dall’obbligo di assunzione in proporzione alle commesse
suddette. Quindi la cooperativa deve essere vista come un’opportunità che, però, non
sostituisce il collocamento obbligatorio.
7.4 → I servizi per la disabilità grave
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Spesso gli inserimenti scolastici così come quelli lavorativi non possono essere realizzati o
comunque, la persona con disabilità non raggiunge l’autonomia. Questo avviene
soprattutto per le disabilità gravi: è quindi necessario offrire a loro degli appositi servizi e
presidi che li aiutino e che sostengano anche le rispettive famiglie. Così quando
l’assistenza domiciliare non funziona si può ricorrere a strutture semiresidenziali e
residenziali di diversa tipologia:
• centri socioriabilitativi diurni a valenza educativa, in cui il disabile può fruire di
programmi di riabilitazione per il mantenimento e lo sviluppo delle sue abilità residue e
insieme lo svolgimento di una vita di relazione. All’interno si possono svolgere anche
laboratori protetti, in cui l’inserimento lavorativo fa parte del processo educativo;
• centri socioriabilitativi residenziali;
• gruppi-appartamento, cioè strutture residenziali aventi la tipologia edilizia di
un’abitazione civile in cui un piccolo gruppo di utenti, privi della famiglia o che non
vogliono vivere con la famiglia, può vivere con l’appoggio di operatori;
• residenze protette costituite da un complesso di alloggi di diversa tipologia, con zone
per la vita comunitaria, anche aperte a utenze esterne;
• casa-famiglia o comunità alloggio che accolgono persone diverse, idonee a creare un
clima di disponibilità affettiva, assistenza e relazioni.

Si tratta di strutture che consentono un normale svolgimento della vita quotidiana e di non
essere sradicati dal territorio di appartenenza.
Ai cittadini in temporanea o permanente grave limitazione dell’autonomia personale può
essere offerto il Servizio di aiuto personale (SAP), finalizzato all’integrazione della persona
disabile nella vita sociale. Tale servizio offre attività di accompagnamento e di tempo libero
svolte da volontari singoli, da organizzazioni di volontariato e da giovani del servizio civile,
coordinai da operatori professionisti messi a disposizione dai Comuni.
L’attenzione ai disabili gravi è stata posta dalla legge 162/1998, Modifiche alla legge 5
febbraio 1992, n. 104, concernenti misure di sostegno in favore di persone con handicap
grave, che indica come risposta alle famiglie con particolari difficoltà i “ricoveri di sollievo”,
servizi cioè per l’accoglienza degli utenti per brevi periodi, l’assistenza domiciliare 24 ore
su 24, parziali rimborsi alle famiglie per spese di assistenza.

7.5 → Il sostegno alle famiglie delle persone disabili: la sfida del “dopo di noi”
La famiglia va accompagnata nel difficile momento in cui prende consapevolezza della
disabilità del proprio figlio, al fine di mobilitare le energie e il coraggio, per poi acquisire
insieme le competenze per far fronte alla situazione.
Ma uno dei problemi che più frequentemente le famiglie si pongono è quello del destino
del proprio figlio quando loro invecchiano e non saranno più in grado di prendersene cura.
Preparare “il dopo” significa affrontare argomenti complessi, legati alla tutela, alla cura e
all’assistenza fino ad aspetti di natura giuridica e fiscale. Si tratta di offrire consulenza
giuridico-fiscale e finanziaria attraverso specifici sportelli, ma anche di orientare le famiglie
verso scelte articolate. Tutte le famiglie vorrebbero evitare che il proprio figlio disabile
venga ricoverato in strutture e vorrebbero garantirgli di poter rimanere a casa propria, o
comunque in situazioni abitative corrispondenti alle sue esigenze e alle sue abitudini. A
questo fine i familiari vincolano i propri patrimoni all’assistenza del figlio disabile,
chiedendo di esserne garante a un tutore singolo o ad un’istituzione.
Un aiuto importante a queste famiglie può venire dall’amministratore di sostegno. Con la
legge del 9 gennaio 2004, n.6, si è infatti introdotta n Italia la figura di un’istituzione che
mette al centro la persona non come oggetto di protezione, bensì come soggetto portatore
di bisogni, diritti e aspirazioni.
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Alcune Regioni hanno fatto specifici progetti o siglato protocolli con le associazioni dei
disabili e con il tribunale per promuovere e valorizzare l’istituto dell’amministratore di
sostegno. Gli amministratori di sostegno possono essere familiari, oppure volontari
professionisti e non professionisti, ma devono essere capaci di gestire le attività giuridiche
e amministrative del patrimonio del beneficiario, e stabilire una relazione corretta con le
persone con disabilità, le loro famiglie e i servizi sociali del territorio.

SINTESI
La rete dei servizi per le persone disabili risponde ai bisogni complessi e diversi, proprio perché
diverse sono le tipologie e i livelli di disabilità.
L’orientamento generale è quello di lasciare la persona disabile il più possibile nel proprio contesto di
vita, consentendogli di godere appieno i diritti sanciti dalla Costituzione italiana: all’istruzione, al
lavoro e al reddito.
L’inserimento scolastico e quello lavorativo, attraverso il collocamento obbligatorio, ma anche in
cooperative sociali di tipo B, sono gli interventi essenziali.
L’aiuto domiciliare è lo strumento prioritario per mantenere il disabile nel proprio contesto familiare e
sociale.
A questi interventi non possono, tuttavia, non affiancarsi servizi specificatamente destinati alle
persone con disabilità grave come le strutture socioriabilitative residenziali o semiresidenziali e i
laboratori protetti, in cui poter realizzare esperienze lavorative non sostenibili da imprese che
operano sul mercato.
Per attuare interventi non “istituzionalizzanti” è necessaria la costante collaborazione delle famiglie,
che vanno esse stesse sostenute ed aiutate, non soltanto nel momento in cui prendono
consapevolezza del problema della disabilità, ma anche nei problemi della quotidianità e
nell’affrontare le angosce del futuro (programmi per il “dopo di noi”).

CAPITOLO 8 ➡ ORIENTARSI NELLA RETE DEI SERVIZI A CONTRASTO DI


POVERTÀ ED ESCLUSIONE SOCIALE
8.1 → Dalla povertà all’esclusione sociale
Le concezioni di povertà sono mutate nel tempo:
• Nella rivoluzione industriale la povertà era intesa come un problema sociale ed era una
condizione che oggi definiremmo di “massa”. Chi si occupava di povertà doveva
certamente distinguere tra povertà oziosa e povertà operosa, distinguendo coloro ai
quali era giusto offrire risorse e sostegno da coloro che non li meritavano.
• Il progresso e il conseguente cambiamento delle condizioni socioeconomiche ha
consentito una maggiore diffusione di benessere e porta a considerare la povertà come
quel fenomeno legato al concetto di disuguaglianza. In questo caso la povertà è legata
alle diverse collocazioni degli individui nella scala sociale e quindi alle diverse possibilità
di accesso alle risorse. Si tratta dunque del risultato di un processo sociale.
• Oggi i poveri non sono più solo quelli che sono carenti di risorse economiche.
Sicuramente la mancanza di reddito produce degli effetti collaterali che peggiorano la
qualità di vita in quanto li costringe ad un’alimentazione insufficiente, peggiora la salute
e aumenta l’incapacità di svolgere attività regolate e remunerate, ma anche altre
carenze portano a una condizione di povertà come, ad esempio, la perdita della casa,
del lavoro, separazioni coniugali, talvolta collegate a depressioni psicologiche portano a
condizioni di povertà.

Poiché la povertà quindi risulta essere un fenomeno multifattoriale per contrastarla è


necessario un complesso insieme di azioni, interventi e agire su più fronti: casa, lavoro,
sostegno psicologico e sanitario, scolarizzazione, rete relazionale.
Accanto a cittadini che vivono un disagio sociale il cui bisogno è comunque stato
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codificato (anziani e/o disabili) si è andato configurando una nuova tipologia di persone
difficilmente riconducibile a una sola delle precedenti categorie: si tratta di persone
portatrici di bisogni complessi che fanno riferimento a problematiche diverse. Essi vivono
in una condizione di solitudine, isolamento, “afflitti” da problematiche relazionali, non di
radi borderline, derivanti non più solo da una patologia specifica, ma da un deficit di tipo
sociale, problematiche che affiggono maggiormente gli aduli nella fase in cui sono
chiamati a dar prova di sé ed a consolidare la propria esistenza.

L’espressione “disagio sociale adulto” sembra rispecchiare questa nuova problematica che
porta all’esclusione. Ovviamente è da non dimenticare che l’esclusione è un fattore che
può derivare dal combinarsi di molte variabili: genere, provenienza, composizione
familiare, stato di salute. È bene tre anche presente che i contesi sociali ed economici in
cui si manifesta sono tanti: esso è particolarmente diffuso nelle grandi città, nelle grandi
stazioni ferroviarie e metropolitane, nelle periferie e/o per strada.
L’elemento di novità è che le nuove politiche sociali devono saper contrastare lo
scivolamento verso la povertà di nuove fasce di popolazione prima protette.
La legge quadro 328/2000 aveva tentato di offrire indicazioni rispetto agli interventi ed
esprime la necessità di sostenere e promuovere specifici interventi al fine di contrastare il
“disagio sociale adulto”.

8.2 → Misurare povertà e disagio


Il problema dell’identificazione dei poveri e degli esclusi è strettamente connesso a quello
della loro “misurazione”. A riguardo gli indicatori più comuni sono quelli relativi a:
- povertà assoluta → una sua definizione è basata sull’individuazione di uno «standard
assoluto, cioè quello che è definito in relazione ai bisogni attuali del povero e non quello
che è in relazione al consumo di chi non è povero»
- povertà relativa → essa si ha quando le persone sono «prive delle risorse necessarie
per perseguire il tipo di alimentazione, partecipare alle attività e possedere le condizioni di
vita tipiche della società a cui appartengono». Alla deprivazione economica, dunque,
si aggiungono altre forme di esclusione.

Le misure di incidenza e intensità alla povertà assoluta sono state introdotte nel 1995 dalla
Commissione di indagine sulla povertà ed emarginazione. L’incidenza corrisponde al
rapporto tra il numero delle famiglie con spesa media mensile per consumi pari o al di
sotto della soglia di povertà E il totale delle famiglie residenti; l'intensità misura di quanto,
in percentuale, la spesa media delle famiglie definite povere è al di sotto della soglia di
povertà.

8.3 → L’approccio multifattoriale al fenomeno dell’esclusione sociale


Le azioni a contrasto di esclusione sociale e povertà chiamano in campo diversi settori
d’intervento:
• interventi per l’accesso alla casa (agenzie per la casa, contributi in conto affitto)
• strutture di prima accoglienza abitativa (ripari notturni)
• interventi di accompagnamento al lavoro (inserimento lavorativo in cooperative di tipo B)
• interventi di riduzione del danno.
Alcuni interventi presuppongono un’azione informativa e di accompagnamento che spesso
si concretizza nel segretariato sociale, sportelli di orientamento al lavoro, volti a
salvaguardare il diritto di informazione, orientamento e di accesso ai servizi stessi.

Per quanto riguarda gli interventi che hanno come fine quello di ridurre il danno, essi
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vengono definiti interventi a “bassa soglia”. Questi interventi vengono attuati generalmente
mediante la somministrazione di farmaci sostituivi, nel caso di tossicodipendenti, e in
generale mediante un’attività di tipo assistenziale e informativa, non certo finalizzata a
eliminare il disagio, quanto a contenerlo.
Tra questi servizi troviamo: dormitori, gruppi a bassa soglia all’interno del SERT e/o
ambulatori medici. Questi servizi sperimentano un metodo di intervento innovativo che
presuppone alcuni elementi diversamente combinati a seconda delle situazioni:
- la massima accessibilità, cioè non ci sono limiti che impediscano l’accesso al servizio,
fatta eccezione della maggiore età e l’effettiva necessità di accedervi;
- la relazione “forte” tra operatore e utente attraverso un approccio caratteristico della
riduzione del danno che costruisce percorsi dallo “aggancio”, all’accoglienza e alla
risposta ai bisogni elementari;
- la multidisciplinarità dell’équipe, composta da figure professionali diverse con
competenze specifiche circa la relazione d’aiuto;
- la connessione, la capacità di lavorare in rete degli operatori dei diversi servizi sia di
bassa soglia, sia sociosanitari.
In questo modo si promuove l’utilizzo delle strategie di rete e di empowerment per
facilitare la fruizione degli altri servizi e la mobilitazione di risorse personali.

La possibilità di estendere questi tipi di servizi, però, incontra alcuni ostacoli: in primis la
mancanza di una loro chiara identificazione, inoltre richiede un’ampia collaborazione
dell’utente (non sempre disponibile) e ampie abilità professionali.
Molti ritengono questi interventi molto efficaci per rispondere al disagio sociale adulto, ma
nonostante questo, essi richiedono un forte investimento in formazione e riconoscimento
in
figure professionali nuove.

8.4 → Gli interventi a contrasto dell’esclusione sociale di aduli in difficoltà


Gli interventi che vengono attuai per favorire l’inclusione sociale di aduli in difficoltà si
possono raggruppare in cinque grandi aree:
1. sostegno economico;
2. accoglienza abitativa;
3. fornitura di beni di prima necessità (buoni mensa, buoni spesa);
4. lavoro;
5. promozione e riduzione.

Nella prima area sono comprese tutte quelle prestazioni che concretizzano in erogazioni in
denaro:
• contributi economici;
• sostegno al reddito (reddito minimo di inserimento). Il reddito minimo di inserimento è
una delle misure più innovative: si tratta di un tipo di assistenza economica non
passivizzante, in quanto richiede all’utente una certa responsabilità, ed è volto a
mobilitare le risorse residue degli individui e delle famiglie fruitrici;
• contribuzione al pagamento di utenze;
• contributi per l’affitto;
• assegni di maternità;
• abbonamenti gratuiti (trasporti).
Nella seconda area, relativa all’accoglienza abitativa, ci sono tre tipi d’intervento:
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- di prima accoglienza/prima necessità indirizzati ai bisogni di riparo e di alloggio
(dormitorio);
- di seconda accoglienza che propongono strutture residenziali, come ad esempio le
comunità terapeutiche per tossicodipendenti, le quali svolgono la loro funzione di
recupero;
- interventi che rientrano nell’ambito delle politiche per la casa (agenzia per la casa)
- esperienze di cohousing, ovvero la coabitazione di persone in situazione di disagio
sociale;
- alberghi popolari/sociali.
La fornitura di beni di prima necessità, ovvero la terza area, si sostanzia nell’offerta diretta
di beni in natura o di servizi di immediato utilizzo (servizi mensa e/o borse viveri) e
nell’erogazione di buoni per l’acquisto dei beni stessi (buoni mensa e/o buoni spesa)

Nella quarta area le progettazioni e gli interventi dovrebbero tenete conto di una
progettazione a lunga scadenza, di una rete di soggetti istituzionali diversi e collegati in un
comune percorso e di risorse più consistenti e continuative, quali l’erogazione di borse
lavoro, gli incentivi, gli sgravi fiscali e la sensibilizzazione del mondo imprenditoriale.

Rientrano nella quinta area le azioni volte a promuovere nei soggetti l’attivazione delle
proprie risorse attraverso i servizi di informazione, di segretariato sociale, di sostegno alla
persone e alla comunità in cui essa è inserita. Tutti questi interventi seguono un progetto
di
uscita da una condizione di esclusione sociale: attivazioni di sportelli informativi, educativa
di strada, formazione professionale

8.5 → Una sfida particolare: l’integrazione fra servizi territoriali e carceri


Un campo complesso di integrazione è rappresentato dagli istituti penitenziari. A partire
dal 1975, anno dell’importante legge di riforma dell’ordinamento penitenziario (legge
354/1975, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative
e limitative della libertà), sono state previste diverse modalità di esecuzione delle pene,
dalla privazione totale della libertà a limitazioni parziali di essa.
In sostanza il carcere diventa un luogo più aperto che in passato, in cui gli operatori che vi
lavorano devono essere in connessione con i servizi territoriali sociali e sociosanitari per
poter costruire percorsi che siano in grado di accompagnare i detenuti che sono soggetti
deprivati di reti familiari, spesso portatori di “doppia diagnosi sanitaria”, e in condizioni
socioeconomiche critiche.
Anche dopo la riforma della sanità penitenziaria (2008) all'interno del carcere si trovano
una pluralità di operatori, come ad esempio medici specialisti, infermieri, educatori, così
come volontari provenienti dalla società civile che devono trovare il modo di collaborare
per migliorare le condizioni di vita dei detenuti.

8.6 → Collaborazioni sempre più ampie per l’inclusione


L’emergere del problema del disagio sociale adulto ha posto già da alcuni anni una nuova
sfida agli operatori sia del pubblico sia del privato sociale.
Per poter far fronte ai bisogni di una fascia così difficilmente definibile di utenza è
necessaria una molteplicità di interventi che non possono ridursi a quelli solo di tipo
economico, anche se sono fondamentali. Inoltre, la realizzazione di questi interventi
richiede una notevole capacità di lavorare in rete. Per affrontare efficacemente il problema
del disagio sociale adulto è bene anche promuovere iniziative rivolte alla collettività al fine
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di rimuovere gli ostacoli che possono derivare da stereotipi nei confronti dei portatori di
disagio. Questi stereotipi possono tradursi in comportamenti e atteggiamenti di timore o
rifiuto (la diffidenza rispetto al diverso), giustificati da una non chiara conoscenza dei
fenomeni o da esperienze infelici. Si tratterebbe di agire sulle rappresentazioni sociali
dell'esclusione per attivare tutte quelle risorse della comunità che possono contribuire ad
arginare il fenomeno stesso, quindi attraverso la sensibilizzazione della cittadinanza,
l'aumento delle conoscenze in tema di disagio sociale e la riduzione della diffidenza che
sembra contraddistinguere sempre più le relazioni quotidiane.

SINTESI
La questione della povertà è stata considerata e affrontata in maniera diversa a seconda delle
diverse epoche storiche in cui si è manifestata. Essa diviene un “problema sociale” solo con la
rivoluzione industriale.
La società contemporanea (postindustriale) ha prodotto e produce “nuovi poveri”, persone cioè non
inserite a pieno titolo nel ciclo produttivo (pur essendone parte potenzialmente attiva), persone ai
margini della società, spesso senza “radici” che danno identità, più frequentemente presenti in città
di grandi e medie dimensioni.
Si tratta speso di adulti in disagio sociale la cui condizione è data da un complesso di fattori che
determinano una situazione multiproblematica, dove a una mancanza di mezzi di sostentamento si
associa una carenza di reti familiari e amicali, un’incapacità di stare ai “ritmi” del sistema, una
debolezza psicologica potenzialmente patologica, una dipendenza da alcol e/o droghe.
Ciò che più connota la situazione di queste persone è la mancanza di un’abitazione (o il vivere in una
casa insalubre) e di un lavoro stabile (anche perché impossibilitate a mantenere il lavoro).
Rispondere al bisogno degli adulti in disagio sociale implica l’attivazione di servizi e interventi diversi,
alcuni tradizionali (primi fra tutti i trasferimenti economici) e altri più innovativi, che possono
prevedere processi di empowerment, o che presuppongono il principio della riduzione del danno o
che prevedono “bassa soglia”. Implica, altresì, agire su più fronti (casa, lavoro, orientamento e
formazione, sostegno economico e sociale) e integrare diverse metodologie di intervento.
Ciò richiede, da un lato, capacità innovativa per creare o consolidare quei servizi che presuppongono
un coinvolgimento e una responsabilizzazione graduale dei destinatari (un vero e proprio contratto),
dall’altro, la capacità di “lavorare in rete” di più soggetti (di vari comparti pubblici e del privato sociale)
che sappiano unire “saperi” e metodologie diverse per venire meglio incontro ai bisogni espressi e
non di questi cittadini.

CAPITOLO 9 ➡ ORIENTARSI NEI SERVIZI A “ELEVATA” INTEGRAZIONE


SOCIO-SANITARIA
9.1 → I servizi per la salute mentale
La riforma psichiatrica introdotta con l’approvazione della legge 180/1978, Trattamenti
sanitari volontari e obbligatori (chiamata pure legge Basaglia dal nome dello psichiatra), è
considerata il simbolo del superamento delle istituzioni totali (viste come unico rimedio per
far fronte ai problemi di salute mentale) e in generale, dei servizi istituzionalizzanti e
dell’affermarsi di servizi territoriali orientati non soltanto alla cura, ma anche alla
prevenzione e alla riabilitazione. La legge cercava di lottare contro l’emarginazione di
queste persone. Se da un lato i manicomi avevano lo scopo di migliorare le condizioni del
malato, dall’altro lo isolavano dalla società definendolo come una persona disturbante per
la vita della comunità.
La realtà stava cominciando a cambiare (e ciò fu codificato dalla legge 431/1968,
Provvidenze per l’assistenza psichiatrica) con l’istituzione dei primi centri di igiene mentale
sul territorio e dell’équipe di tali centri; ad affiancare lo psichiatra, inoltre, entrano in “gioco”
lo psicologo e l’assistente sociale. Grazie alla legge 180/1978 venne decretata la chiusura
dei manicomi come sede di trattamento e vengono istituiti i Servizi psichiatrici di diagnosi e
cura (SPDC) come unità di ricovero negli ospedali generali. Presso i SPDC vengono

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eseguiti trattamenti sanitari volontari, richiesti dalla libera scelta del paziente o trattamenti
obbligatori (Trattamento sanitario obbligatorio - TSO). Anche questi ultimi devono essere
eseguiti nel rispetto della dignità della persona.

Luogo primario di cura diventano i servizi territoriali che offrono assistenza alle persone
con bisogno di terapie psicologiche e psichiatriche; esse possono fruire di assistenza
ambulatoriale e domiciliare, ma vengono indirizzate in comunità terapeutiche, di lavoro,
centri di formazione professionale, cooperative e centri di ospitalità.
L’attuazione della legge trovò alcune difficoltà: alcuni reparti psichiatrici non vennero chiusi
e né tanto meno trasformati. Quindi la chiusura dei manicomi spesso non venne seguita
dall’istituzione dei servizi territoriali capaci di rispondere ai bisogni di persone affette da
malattie mentali. Le conseguenze di tutto ciò gravano sulle spalle delle famiglie a seguito
del loro ritorno a casa e dalla mancanza di appoggi, anche temporanei, mediante ricovero
in strutture residenziali.

I due progetti-obiettivo, Tutela della salute mentale 1994-1996 e Tutela della salute
mentale 1998-2000, contengono una serie di indicazioni per la costruzione di una rete di
servizi che sono proni ad accogliere qualsiasi tipo di domanda che vada dal counseling
svolto in attività ambulatoriale alla gestione della crisi fino al ricovero. L’assetto
organizzativo dai Progetti-obiettivo prevede:
★ il Dipartimento di salute mentale come un complesso di strutture e servizi pubblici, tra
loro integrai, in grado di accogliere l’intera domanda psichiatrica del territorio di
competenza, di norma corrispondente a quello dell’ASL. Insomma, si tratta di una
struttura che permette di realizzare progetti di intervento personalizzati, con l’aiuto dello
psichiatra, dello psicologo, dell’assistente sociale, dell’educatore professionale;
★ il Centro di salute mentale, una struttura del dipartimento, ovvero la sede organizzativa
dell’équipe degli operatori e la sede di coordinamento degli interventi di prevenzione,
cura, riabilitazione, reinserimento sociale dei pazienti nel territorio di provenienza. Esso
svolge attività di accoglienza, analisi di domanda, attività diagnostica, definizione e
attuazione di programmi terapeutici e socioriabilitativi personalizzai con le modalità
dell’approccio integrato, tramite interventi domiciliari, ambulatoriali e a volte residenziali.
Inoltre, esso svolge attività di raccordo con i medici di medicina generale per fornire
consulenza psichiatrica;
★ Il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) è un reparto psichiatrico all’interno
dell’ospedale generale in cui si svolgono attività terapeutiche intensive e a regime di
ricovero;
★ Le strutture residenziali, viste come soluzione estrema (in cui i vari tentativi di aiuto e di
inserimento sociale sono stati vani), ma si distinguono dai vecchi manicomi per la
dimensione familiare e per la maggiore possibilità di avere relazioni sociali.

I malati psichiatrici entrano nei programmi di inserimento lavorativo come gli altri disabili,
cioè possono essere inseriti al lavoro attraverso il collocamento obbligatorio mirato o in
cooperative sociali di tipo B. L’obiettivo primario del progetto rimane comunque quello
dell’integrazione dell’utente nel contesto sociale originario attraverso tutti quegli interventi
che possono facilitare il mantenimento del malato mentale nel proprio domicilio e, se non
si stabiliscono corrette relazioni con questo contesto, sarà difficile arrivare all’obiettivo.

9.2 → I servizi per la tossicodipendenza


L’integrazione tra interventi sanitari e interventi sociali è l’elemento qualificante anche per i
servizi per la prevenzione e cura della tossicodipendenza. Sono due le norme più

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importanti che, oltre ad affrontare il tema della lotta al commercio illecito delle sostanze
stupefacenti, hanno avviato programmi di prevenzione e sollecitato la realizzazione di
servizi sociosanitari specifici per i tossicodipendenti: la legge 685/1975, Disciplina degli
stupefacenti e sostanze psicotrope; prevenzione, cura e riabilitazione nei relativi stati di
tossicodipendenza, e la successiva legge 162/1990, Aggiornamento, modifiche e
integrazioni della legge 22 dicembre 1975, n. 685, recanti disciplina degli stupefacenti e
sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza. Le due leggi tentano di colpire l’abuso di queste sostanze stupefacenti
individuandole, sancendone l’illegalità, distinguendo la responsabilità di chi le usa e di chi
le commercia. In particolare, la recente legge ha introdotto la possibilità di sanzioni
amministrative per i casi di minore gravità.

Gli interventi:
- fin dal 1975 si è chiamata in causa la scuola, l qual venne vista come luogo efficace per
poter attivare iniziative di prevenzioni. Si tratta di interventi di informazione e formazione
volti sia agli studenti che agli insegnanti, riguardo i rischi del consumo delle singole
sostanze. In una seconda fase gli interventi mirano anche sulle cause che fanno sì che
il fenomeno della dipendenza da queste sostanze si sviluppi, e quindi ai più generali
problemi che riguardano gli adolescenti e i giovani;
- negli anni Novanta all’interno delle scuole superiori furono istituiti i CIC, ossia i Centri di
informazione e consulenza rivolti agli studenti con l’obiettivo di realizzare progetti di
attività informativa e di consulenza;
- le USL furono le prime ad occuparsi di questo fenomeno ma si limitarono a promuovere
coordinamenti di alcuni servizi già esistenti (servizi psichiatrici, di medicina).
Successivamente vengono istituiti i Servizi tossicodipendenze, ovvero i SERT, i quali
avevano il compito di attuare attività di prevenzione, cioè di informazione sulle patologie
correlate e di educazione sanitaria, ma anche di garantire diagnosi e presa in carico del
singolo tossicodipendente. In seguito, la sua funzione fu anche quella di provvedere a
terapie farmacologiche sostitutive, sintomatiche e antagonistiche. Non bisogna superare
solo la dipendenza dalla sostanza, ma anche e soprattutto la dipendenza psicologica:
proprio per questo è necessario un programma di recupero terapeutico e riabilitativo
individualizzato. Il SERT è composto da medici, assistenti sanitari visitatori, assistenti
sociali, infermieri. Proprio per le caratteristiche del fenomeno della tossicodipendenza
diventa centrale il lavoro multiprofessionale, l’équipe quale luogo di diagnosi,
progettualità e di verifica dei risultai. In questo programma è anche sollecitata la
collaborazione delle famiglie.

I tossicodipendenti esprimono una domanda di aiuto non sempre chiara, ma che richiede
spesso una risposta immediata e ciò rende più difficile la presa in carico.
In Italia esistono due importanti organizzazioni che associano comunità terapeutiche per
tossicodipendenti operanti sul territorio nazionale:
• FICT → Federazione italiana comunità terapeutiche
• CNCA → Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza
Un problema delicato è quello dell’accesso, perché a volte il tossicodipendente si rivolge
direttamente alle comunità e il richiedergli un iter d’accesso prestabilito dal SERT potrebbe
scoraggiarlo o ritardare la decisione.

Gli interventi di riduzione del danno (definiti a bassa soglia, i quali hanno l’obiettivo di
raggiungere il maggior numero possibile di persone tossicodipendenti, accolte
indipendentemente dalla loro decisione di accettare un programma finalizzato all’uscita
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della tossicodipendenza) implicano azioni di tipo sanitario (somministrazione di sostante
alternative) e di tipo sociale come quelli svoli dagli operatori di strada che avvicinano i
tossicodipendenti attraverso l’erogazione di servizi a bassa soglia (offerta di ripari notturni,
ma anche distribuzione di siringhe), che interessano relazioni educative specifiche.

9.3 → L’integrazione difficile


In generale i servizi per la salute mentale e quelli per la prevenzione e la cura della
tossicodipendenza, considerati ad alta integrazione sociosanitaria, richiedono agli
operatori sociali e sanitari coinvolti una particolare formazione al lavoro d’équipe; un
équipe dove si confrontano approcci disciplinari, ispirazioni ideali e posizioni di potere
diverse (ne è esempio il confronto e la collaborazione tra psichiatri, responsabili dei servizi
e assistenti sociali e educatori). Tuttavia, questa integrazione risulta difficile e non
sufficiente se non vengono attivati modelli organizzativi capaci di far lavorare insieme
istituzioni e servizi diversi: figure di coordinamento, gruppi di lavoro interservizi, tavoli di
concertazioni. Questi ultimi (tavoli di concertazione) sono sedi dove si realizza la
programmazione partecipata e la progettazione del Piano di zona. I tavoli sono articolai su
aree tematiche, quali possono essere anziani, disabili, minori, povertà estreme, immigrati,
e/o prostituzione

SINTESI
La riforma psichiatrica (introdotta con l’approvazione della legge 180/1978) è considerata il simbolo
del superamento delle istituzioni totali e, in generale, dei servizi istituzionalizzanti e dell’affermarsi di
servizi territoriali orientati non soltanto alla cura, ma anche alla prevenzione e riabilitazione.
Elemento chiave dell’organizzazione di questi servizi è l’integrazione tra servizi sanitari e sociali.
La rete è composta dai centri di salute mentale che mettono a punto progetti personalizzati in cui
sono previsti servizi sociosanitari domiciliari, semiresidenziali e residenziali, centri crisi ma anche
reparti in ospedali ordinari, chiamati Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, in cui possono essere
eseguiti ricoveri sia volontari che obbligatori (TSO), anche questi ultimi intesi come interventi
terapeutici e mai come strumenti per isolare persone pericolose a sé e agli altri.
L’integrazione tra interventi sanitari e interventi sociali è l’elemento qualificante anche per i servizi per
la prevenzione e la cura della tossicodipendenza.
La prevenzione chiama in campo servizi sanitari, sociali ma soprattutto la scuola. Nell’ASL è attivo
invece il SERT, in cui operano in équipe operatori sanitari e sociali per predisporre programmi
personalizzati e l’eventuale accesso a comunità terapeutiche.
Gli interventi di riduzione del danno implicano azioni di tipo sanitario (somministrazioni di sostanze
alternative), ma anche interventi sociali, come quelli svolti dagli operatori di strada, che avvicinano i
tossicodipendenti attraverso l’erogazione di servizi a bassa soglia (offerta di ripari notturni,
distribuzione di siringhe), che intessono relazioni educative specifiche.
In generale i servizi per la salute mentale e quelli per la prevenzione e la cura della
tossicodipendenza, considerati ad alta integrazione sociosanitaria, chiedono agli operatori sociali e
sanitari coinvolti una particolare formazione al lavoro d’équipe, un’équipe dove si confrontano
approcci disciplinari, ispirazioni ideali e posizione di potere diverse (ne sono un esempio il confronto
e la collocazione tra psichiatri, responsabili dei servizi e assistenti sociali e educatori).

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