Sei sulla pagina 1di 11

Storia della riabilitazione psichiatrica

Nel 200 d.C. si affermò nel mondo latino la scuola medica di Galeno, sulla base degli studi
ippocratei, che spiegava il disturbo mentale come uno "squilibrio umorale" del cervello.
Ad essa si contrapponevano le teorie magiche, legata alla cultura delle superstizioni, per cui il
disturbo mentale era risultato del contatto con particolari oggetti o animali, o di congiunzioni
astrali. Il rimedio consisteva in rituali magici, uso di filtri e amuleti, in formule che dovevano
proteggere dagli influssi negativi.
Diversa, anche se per molti aspetti simile e coincidente, fu la spiegazione religiosa. I disturbi
psichici era risultato della possessione demoniaca. L'intera comunità religiosa si sentiva
responsabile nei confronti del malato. I provvedimenti attuati riguardavano la solidarietà, la
preghiera, l’esorcismi, o in casi più tragici, la persecuzione e successivamente il rogo.
Il XIII e il XIV secolo furono secoli di cambiamento per l’Italia. Con il Rinascimento la religione fu
vista come momento fondante della vita della comunità e quindi la follia venne sentita come
possessione demoniaca, segno della maledizione e del peccato, la cui purificazione richiedeva il
ricorso a pratiche di tortura e al rogo.
All'idea di follia cominciava ad associarsi quella di pericolosità sociale, che donava un capro
espiatorio per le numerose calamità, quale carestie ed epidemie ad esempio, che colpivano le
popolazioni. Iniziò quindi a dilagare l'intolleranza verso il soggetto affetto da disturbi mentali.
Le origini del sistema di internamento in Europa sono da rintracciarsi nell’Inghilterra del 1557 nel
palazzo Bridewell. In quell’anno fu promulgato un atto che prevedeva la costruzione di “case di
correzione”. Queste nacquero in quanto, a partire dal XVI secolo, i governi si trovarono di fronte
alla necessità di prendere iniziative concrete contro i crescenti disordini sociali. Numerosi fattori,
tra i quali l’aumento della popolazione, le crisi economiche, la disoccupazione, i processi di
urbanizzazione comportavano un numero allarmante aumento del numero dei “vagabondi”.
L’individuo povero, veniva visto come un mendicante, un vagabondo appunto, e quindi come un
potenziale criminale. Nascono, perciò, le proposte, i progetti e le pianificazioni per la reclusione
delle masse di oziosi con l’obiettivo di liberare le città dalla loro presenza.
Nel Seicento l’esempio venne seguito anche da altri paesi europei, come, ad esempio, le nazioni di
lingua tedesca e la Francia.
Nel periodo tra il Seicento e il Settecento, le diverse "cure" consistevano in metodi estremi di
intervento: si ricorreva a sostituzioni di sangue dei malinconici con sangue più chiaro e leggero, ad
ulcerazioni provocate sulla cute o sulla pelle del per creare delle vie d'uscita agli spiriti interni del
malato; sui pazienti veniva violentemente versata dell’acqua per cancellare le idee stravaganti e le
impurità che costituivano la follia; o ancora, la restrizione fisica, il confinamento. Tutto ciò era teso
ad annullare i presunti deficit fisici, causati dell'alterazione del cervello.
Nel Settecento nacque la necessità di un nuovo modo per fronteggiare le malattie mentali. In
Europa si diffondeva la corrente filosofica dell’Illuminismo, per la quale il lume della ragione
potesse soverchiare le aree buie della coscienza umana, quali la religione, l’ignoranza e la
superstizione, ma anche la follia. Gli illuministi si convinsero del fatto che, grazie alla ragione,
avrebbero potuto eliminare definitivamente la follia. Questa venne da questo momento
rinominata “alienazione mentale”, alienus dal latino che significa “diverso”, e di conseguenza la
figura che si sarebbe occupata del paziente sarebbe stata indicata come “alienista”, cioè un
medico che operava come funzionario dello stato e doveva avere conoscenze filosofiche, e
principalmente di pedagogia.
Philippe Pinel fu uno dei protagonisti del rinnovamento di quella che era stata la psichiatria fino a
quel momento. Pinel era un medico francese che operò in Francia dalla fine del XVIII all’inizio del
XIX secolo. Conseguì la notorietà con un trattato sul trattamento delle alienazioni dell'età adulta,
per un concorso bandito dalla Société royale de médecine, che gli valse nel 1793 l'assegnazione
all'asilo di Bicêtre, dove compì lo storico atto di liberare gli alienati dalle catene e dalle lordure in
cui erano mortificati, trasformando coloro che erano considerati pazzi in pazienti da studiare e
curare.
Successivamente compì la stessa opera al Salpêtrière, donando valore al colloquio con il malato
mentale. Queste ideologie di libertà e fraternità, tra le altre cose, gli furono ispirate dalla
Rivoluzione francese i cui cardi erano proprio. Inoltre Pinel riuscì a farsi conosce in tutta Europa
grazie ad una delle sue opere principali: «Traité médico-philosophique sur l'aliénation mentale ou
la manie» («Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale o la mania») pubblicato nel 1801,
che rappresentò una rivoluzione epistemologica nell’ambito psichiatrico, attraverso l’integrazione
dei contesti socio-politici e scientifico-culturali. Per Pinel quindi la malattia mentale non si poteva
curare con l’utilizzo della forza, bensì attraverso il traitement moral in cui era necessario che
l’alienista guidasse il paziente verso la guarigione. Fu chiamato moral perché nell’Ottocento il
corpo si chiamava “fisico”, e la psiche si chiamava “morale”. “Trattamento morale” era
l’equivalente di ciò che oggi si indica con “psicologico”, o meglio con “psicosociale”. Questa nuova
metodologia si basava, tra le altre cose, sulla suggestione e su tre pilastri fondanti: isolare,
suddividere e attivare. Ad ispirare la teorizzazione del traitement moral fu Jean-Baptiste Pussin,
sovrintendente dell’ospedale Bicêtre.
L’isolamento poggiava sulla convinzione secondo la quale erano la stessa famiglia e la società del
tempo coi loro conflitti che avevano determinato le difficoltà nella vita del paziente che
l’urbanizzazione e, quindi anche l’industrializzazione, avevano aggravato. Si era convinti quindi che
per far guarire il paziente fosse necessario sottrarlo all’influenza della famiglia e della società
potendo così concentrarsi su sé stesso. Circa settanta anni dopo si scoprì che estraniare il soggetto
dal suo contesto sociale lo portava ad acutizzare la malattia.
La seconda tappa del trattamento morale è la “suddivisione”. In questa tappa del trattamento
l’alienazione mentale doveva essere divisa in categorie distinte: era necessario decidere chi avesse
realmente bisogno del manicomio e chi no. La “suddivisione” prevedeva inoltre che gli alienati
fossero trattati giuridicamente con un’apposita legislazione. Un’altra categoria di alienati era
costituita dalla “follia ragionante”, una forma clinica in cui convivevano ragione e alienazione.
Prese piede anche la necessità di distribuire i malati nel manicomio in gruppi omogenei in base ai
bisogni, ad esempio distinguendo i pazienti in agitati, semi-agitati, tranquilli, “sudici”, coloro che
non riuscivano a provvedere ad una pulizia personale, alcoolisti, ecc. Così quindi per ogni gruppo
c’era il suo padiglione e la propria organizzazione dell’assistenza.
Infine la terza fase, l’attivazione che è la parte del trattamento morale che più si lega a quella che
oggi è indicata come riabilitazione. Venivano utilizzate attività che spaziavano dallo sport, all’arte
manuale, alla musica, alla scrittura e alla lettura e comprendevano anche l’artigianato, le stesse
attività di pulizia e di cucina che erano necessarie alla struttura per sostentarsi; i primi alienisti
erano fermamente convinti che queste attività potessero portare ad un miglioramento del
paziente e, più di tutto, ritenevano che fosse utile che il soggetto, una volta isolato dalla famiglia e
dal suo contesto, fosse messo al lavoro. Si cercava per loro lavoro soprattutto in campagna,
essendo convinti che l’aria aperta facesse bene. Si potevano, inoltre, ottenere maggiori
miglioramenti se li si impegnava in un lavoro simile a quello che facevano prima della malattia e
che, presumibilmente, sarebbero ritornati a fare una volta guariti.
Un sostenitore della riduzione al minimo del contenimento e della necessità di un trattamento
umano fu per esempio il fiorentino Vincenzo Chiarugi. V. Chiarugi fu un medico dell’ospedale di
Santa Maria Nuova a Firenze. Riuscì ad avere il merito, in Italia, di aver impostato in modo
razionale, nel suo trattato «Della pazzia in genere ed in specie» del 1793, il problema
dell’assistenza ai malati mentali, che sino a quel momento erano trattati in maniera disumano.
Organizzò e diresse il manicomio fiorentino detto “Bonifazio”, aperto nel 1788 per volontà di
Leopoldo I, esponendo i suoi criteri innovativi nell'ampio «Regolamento dei Regi Spedali di Santa
Maria Nuova e di Bonifazio».
Tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento la cura diventava più complessa: ai trattamenti
medici tradizionali, quali purghe, salassi, bagni caldi o freddi, si aggiungevano trattamenti educativi
e rieducativi. In questa epoca era imperante comunque, indipendentemente dalla categoria
deviante alla quale si apparteneva, un principio che tendeva a sottoporre il "folle" ad una sorta di
ristrutturazione della mente, al fine di ottenere un rimodellamento dello spirito che favorisse un
adattamento alle norme e alle regole della società.
In Gran Bretagna, nel 1796, William Tuke fondò lo York Retreat, un manicomio nazionale per
“quaccheri”, che altro non erano che fedeli di un movimento cristiano nato nel XVII secolo in
Inghilterra appartenente al calvinismo puritano, dopo aver saputo dello spaventoso trattamento al
quale era stato sottoposto un paziente “quacchero” nell'ospedale locale gestito da volontari, lo
York Asylum. La famiglia Tuke intendeva gestire lo York Retreat come se i pazienti fossero membri
di una grande famiglia, senza alcuna limitazione, in tranquillità e serenità. I Tuke erano importatori
di tè e caffè e pensavano che la medicina avesse ben poco da offrire ai malati di mente;
proponevano pertanto un metodo molto più umano per la cura dei folli.
Le idee attirarono l'attenzione del parlamento che, negli anni 1815-1816, ordinò un'inchiesta del
Select Committee on Madhouses, dalla quale emerse l'evidente contrasto con Bethlehem, il più
grande, nonché unico manicomio, finanziato con denaro pubblico.
Nell'Ottocento si cominciò a sottoporre i malati, che manifestavano una moralità ed una volontà
condannabili, a trattamenti finalizzati all'acquisizione di una personale autodisciplina e
autorepressione. La struttura manicomiale si diffuse in Europa tramite la formulazione di leggi che
regolamentavano l'assistenza psichiatrica, per tutelare la società sana dai malati mentali. In Gran
Bretagna la riforma del trattamento delle malattie mentali fu avviata nel 1808 col County Asylum
Act che fu la risposta del governo a quanto un precedente Select Committee del 1807 aveva
scoperto sul trattamento riservato ai malati di mente indigenti e ai criminali, che Sir George O.
Paul, sceriffo del Gloucestershire attivamente impegnato nella riforma delle prigioni, aveva
definito come «disgustosamente disumano».
Il County Asylums Act sancì la legislazione sulla salute mentale in Inghilterra e Galles dal 1808 al
1845. In particolare, l’Asylums Act stabilì manicomi pubblici in Gran Bretagna e consentì, ma non
costrinse, i Giustizi della Pace a riqualificare per la cura dei pazzi poveri edifici non utilizzati.
Inoltre in questo periodo proprio grazie alle barbarie riportate nel rapporto di Sir. Paul, il
Committee raccomandò che venisse istituito in ogni contea un manicomio nel quale potessero
essere mandati sia i malati di mente indigenti sia quelli criminali. I giudici delle contee furono
autorizzati a costruire gli edifici, a imporre una tassa locale per coprirne i costi e a obbligare le
parrocchie a utilizzare il manicomio per i malati della contea.
Le riforme tesero a eliminare i peggiori eccessi e gli atti di crudeltà e di abuso che si verificavano
nel sistema privato, ispirandosi a istituzioni gestite da volontari come il St. Luke's Hospital for the
Insane di Londra e lo York Retreat. I manicomi pubblici piacquero sia all'alta borghesia cristiano-
evangelica sia ai liberali, perché non generavano profitto e mantenevano l'ordine sociale.
In Gran Bretagna vennero fondati, in base alla legge del 1808, soltanto quindici manicomi su tutto
il territorio nazionale; la maggior parte dei magistrati, infatti, riteneva fosse fin troppo esoso
trovare i fondi. I primi manicomi furono costruiti nelle zone rurali, dove alcuni benestanti
sostennero la causa attraverso una raccolta di fondi. Questi primi istituti erano modellati sui vecchi
ospedali gestiti da volontari. Le parrocchie non erano obbligate a servirsi dei nuovi manicomi, anzi,
molte di esse preferirono continuare a internare i malati facenti parte della parrocchia nelle
strutture private locali. Una maggiore diffusione del sistema pubblico ci fu soltanto quando la
legislazione garantì incentivi economici per incoraggiare l'uso dei manicomi pubblici e proibì il
ricorso al settore privato, fatta eccezione per alcuni casi specificati. Per garantire il rispetto della
nuova legislazione manicomiale.
Nel 1828 furono creati i Metropolitan Commissioners in Lunacy, i quali, scelti tra un gruppo di
persone nominate dal College of Physicians, avrebbero dovuto rilasciare licenze ai manicomi
privati e monitorare le condizioni di vita nelle strutture private; cinque dei quindici nuovi
commissari erano medici e alcuni specializzati in malattie mentali.
La nomina del giovane lord Ashley decretò un enorme cambiamento. Lord Ashley fu la figura
centrale intorno alla quale la riforma del trattamento delle malattie mentali avrebbe ruotato nei
cinquant'anni successivi. Ashley fu uno dei parlamentari che spinsero per l'approvazione della
legge sulla demenza del 1845, in seguito alla quale furono istituiti i National Commissioners in
Lunacy.
Nel frattempo, il trattamento morale di Pinel si stava affermando in tutta Europa e soprattutto in
Gran Bretagna. In Inghilterra il suo maggior sostenitore fu John Conolly, dal 1839 al 1844 primario
del Middlesex County Asylum di Hanwell, il più grande manicomio del paese.
I suoi libri, «An inquiry concerning the indications of insanity» (1830) e «Treatment of the insane
without mechanical restraints» (1856) gettarono le basi della politica del “non contenimento” nel
contesto di un più ampio approccio umanitario.
Conolly sposò la teoria, generalmente condivisa, dell'origine organica cerebrale della malattia
mentale; era attratto dalla frenologia elaborata dagli austriaci Franz Joseph Gall (1758-1828) e
Johann Gaspar (Christoph) Spurzheim (1776-1832), tale ipotesi sosteneva che la morfologia del
cervello e del cranio rifletteva alcuni tratti della personalità e delle facoltà intellettuali.
Sull'altra sponda dell'Atlantico, anche la psichiatria americana si stava sviluppando. Il Friends'
Asylum, vicino a Filadelfia, fu aperto nel 1817 ed era modellato sullo York Retreat; il McLean
Hospital di Boston, il Bloomingdale Asylum di New York e l’Hartford Retreat del Connecticut
furono istituiti poco dopo.
La “terapia morale” fu esposta da Benjamin Rush nel suo testo del 1812, sebbene egli includesse
nel suo schema di cura generale alcuni trattamenti violenti e alcune pratiche decisamente
aggressive, tra le quali i salassi.
Samuel Woodward del Worcester State Hospital e Pliny Earle del Bloomingdale Asylum avevano
dato un’impronta più morbida e umana della terapia morale. Entrambi erano stati tra i fondatori,
nel 1844, dell’American Association of Medical Superintendents of American Institutions for the
Insane (AMSAII) e avevano diffuso la teoria del “non contenimento” e della “terapia morale” grazie
all’«American journal of insanity».
In Gran Bretagna, uno sviluppo simile portò alla pubblicazione dell'«Asylum Journal», che più tardi
fu convertito in «Journal of mental science», portavoce dell'Association of Medical Officers of
Asylums and Hospitals for the Insane.
Nel 1852 già diciassette Stati americani avevano istituito manicomi, che erano, però, ancora
carenti sotto molti punti di vista.
Dorothy Dix, fu una delle più importanti donne americane che durante i suoi viaggi in America e in
Europa denunciò le pratiche violente nei manicomi e si battè per migliorare le strutture e le
condizioni di vita dei manicomi.
In Francia, con i successori di Pinel, in particolare Jean-Étienne-Dominique Esquirol, condussero le
loro campagne in favore di una politica nazionale della sanità mentale, finanziata con denaro
pubblico.
Nel 1838 il governo francese decretò che tutti i départements dovessero costruire un manicomio
pubblico, un progetto che ricalcava i criteri per classificare gli indigenti contenuti nel British Poor
Law Amendment Act del 1834.
Jean-Dominique Etienne Esquirol fu uno dei massimi rivoluzionari del XIX secolo, fu un allievo e
collega di Pinel che tradusse nella pratica molti dei suoi insegnamenti. Dedicò molte delle sue
energie a eliminare i pregiudizi che tenevano gli alienati fuori di ogni legge umana, affermando
invece il concetto per cui l'alienazione mentale è una vera e propria malattia, cui si deve far fronte
con criteri scientifici e, in ogni caso, con metodi umani. Per diffondere tali principi viaggiò in
Francia e in Italia, prestando gratuitamente la sua consulenza. Nei sui scritti compare per la prima
volta la distinzione tra “demenza” e “idiozia” nonché la condanna dei brutali metodi terapeutici
allora in auge ovunque e l'affermazione, della necessità del ricorso a un "trattamento morale"
nella cura dell'alienazione. Esquirol pose per primo l’attenzione sui disordini della sfera affettiva,
La sua opera principale è «Des maladies mentales considérées sous les rapports médical,
hygiénique et médico-légal» («Alcune malattie mentali il rapporto medico, igienico e medico-
legale») del 1838.
Fu uno dei primi alienisti a visitare nel 1821 il villaggio di Gheel e a trarre di lì qualche
suggerimento su come dovevano essere concepiti i manicomi. Il progetto di Gheel è antichissimo:
si narra che già dal 1300 fosse sorta una comunità di accoglienza per malati mentali e che nel
tempo la comunità avesse assunto dimensioni sempre maggiori fino ad arrivare, alla fine dell’800,
a contare un totale di 3000 malati psichici ospiti delle famiglie del paese, che contava in tutto
20000 persone.
Dalla relazione di viaggio di Esquirol furono influenzati i manicomi. Alla struttura manicomiale
classica si aggiungeva ora una colonia agricola che aspirava a somigliare a Gheel.
Esquirol inoltre era convinto che per l’attuazione del “trattamento morale” fosse necessario
costruire un luogo apposito. Una delle sue frasi più celebri è: «il manicomio è uno strumento di
guarigione: nelle mani di un medico abile, è l’agente terapeutico più potente contro le malattie
mentali».
Fece, quindi, costruire nei sobborghi di Parigi, in particolare a Charenton, un prototipo di
manicomio che corrispondesse alle sue idee, e servisse da modello per tutti gli altri. Il manicomio
di Charenton era fuori città ma non troppo distante da Parigi, e disponeva di ampi campi per
l’ergoterapia, cioè un metodo curativo, complementare di altri trattamenti somatici o
psicoterapici, in cui l’agente terapeutico è costituito da un’attività lavorativa sistematica. Metà
dello spazio era riservato agli uomini, metà alle donne; i diversi padiglioni ospitavano i diversi tipi
di pazienti, con i meno gravi più vicino all’ingresso e i più gravi disposti sempre più infondo nella
struttura manicomiale. La vera novità però in questi manicomi fu la messa in pratica del
“trattamento morale”.
I manicomi, tuttavia, non si dimostrarono all'altezza delle aspettative. Poveri di fondi, si
riempirono ben presto di casi cronici incurabili e divennero sempre più grandi, trasformandosi in
depositi di follia; di conseguenza il loro ruolo andò leggermente modificandosi verso la metà del
secolo. Da luoghi finalizzati all'attenzione e alla cura si trasformarono in luoghi che ospitavano un
numero crescente di disadattati ed emarginati sociali, di incapaci e di tutti quelli che erano al
confine tra sanità di mente e follia. Era ormai evidente che l'infermità mentale non poteva essere
curata con la “terapia morale”.
Scull fece notare che per gli uomini di medicina adottare la “terapia morale” non era affatto una
scelta ovvia; essa si basava su una scienza medica e doveva perciò essere accompagnata ad altre
terapie. Di conseguenza, venne ben presto abbandonata come filosofia ispiratrice.
Nella seconda metà dell'Ottocento il comportamento dei pazienti era considerato incomprensibile
e la ricerca si volgeva verso lo studio di quei germi che producevano i disturbi mentali. A questa
data si ha la sistematizzazione dei comportamenti psichiatrici che vengono organizzati in sindromi
e malattie. Figura di spicco di questo periodo fu Kraepelin.
Emil Kraepelin è uno dei più importanti personaggi nella storia della medicina. È considerato a tutti
gli effetti il padre della psichiatria moderna, della genetica psichiatrica e della psicofarmacologia.
Diede impulso, inoltre, alla cosiddetta, “psichiatria biologica” che vede le malattie mentali come
un fatto organico. Emil Kraepelin si oppose fortemente alle teorie di Sigmund Freud e della
psicoanalisi, corrente molto in voga in quel momento storico, nonostante ciò si interessò lo stesso
agli argomenti della psicanalisi, tra cui l’interpretazione dei sogni.
La sua prima opera importante fu il «Compendio di psichiatria»: conteneva osservazioni cliniche
derivate dai numerosi casi che aveva esaminato nei manicomi psichiatrici. In esso Kraepelin
descrisse in modo minuzioso le sintomatologie e classificò le malattie mentali secondo le loro
manifestazioni visibili. Nella seconda e terza edizione prese il nome di «Trattato» e non più di
«Compendio». Kraepelin introdusse in queste edizioni il concetto di evoluzione della malattia,
aspetto decisivo per le diagnosi differenziali. Inserì, inoltre, un capitolo sulla catatonia, sindrome
psichiatrica caratterizzata da anomalie motorie, emotive e comportamentali.
Tra la quarta e sesta edizione comparve anche il concetto di processi psichici degenerativi. Questi
includevano la catatonia, la demenza precoce e la demenza paranoide. Introdusse, poi, anche il
concetto di alienazione maniaco-depressiva. In ogni edizione continuò ad ampliare e definire
meglio le diverse malattie mentali.
Kraepelin si interessò anche alle malattie mentali di altre culture. I suoi studi hanno gettato le basi
per la etnopsichiatria e per la psichiatria culturale. Viaggiò spesso in Messico, Spagna, Indonesia,
India e Stati Uniti per raccogliere dati. Chiamò le sue ricerche “psichiatria comparata”.
Verso la fine degli anni Cinquanta, in Gran Bretagna, ritornò vivo il timore che con l'inganno
venissero rinchiusi anche i sani di mente che portò a maggiori controlli legali e a un temporaneo
blocco del programma di costruzione dei manicomi.
La National Association for the Promotion of Social Science nel 1869 mise in discussione la validità
della politica di istituzionalizzazione generalizzato.
Tutto ciò non impedì la diffusione dei manicomi, anzi ne furono aperti in tutto l'Impero britannico,
in Canada, in Australia, in Sudafrica e in India per accogliere i malati mentali degli eserciti di
occupazione, gli espatriati e i loro discendenti e i loro servitori indigeni.
I manicomi non furono mai utilizzati per curare le popolazioni indigene, bensì i malati di mente
bianchi e per contenere gli indigeni più indisciplinati e ribelli. Anche in patria, in Gran Bretagna,
continuò tutto sommato l’espansione dei manicomi. Nel corso del XIX sec. i malati di mente furono
sempre più segregati e allontanati.
Nella Londra degli anni Sessanta il numero di malati di mente che venivano rinchiusi era in
continuo aumento a causa degli incentivi economici del governo. Il Metropolitan Asylum Board,
fondato nel 1871, studiò nuove istituzioni separate per i malati di mente e introdusse ulteriori
sovvenzioni per trasferire il potere decisionale dagli amministratori locali al sistema governativo
centrale. In questo modo i sovrintendenti del primo Ottocento se non altro vedevano e si
confrontavano con gli individui, sulle cui vite avevano il potere di decidere con i loro familiari.
Il resto d'Europa adottò ben presto le innovazioni della Gran Bretagna e della Francia. Nel XIX
secolo i manicomi si diffusero anche in Italia, a partire dagli Stati settentrionali, e soprattutto in
Toscana.
In Spagna, i manicomi costituirono il naturale sviluppo di una serie di ospedali per i malati di
mente che erano stati già istituiti nel corso del XVI e XVII secolo.
Intorno alla metà del XVIII secolo anche la Germania costruiva manicomi.
I manicomi offrivano ai medici interessati l'opportunità di raccogliere dati sui diversi tipi di disturbi,
stilare statistiche sulle eventuali guarigioni e studiare schemi di classificazione. Gli specialisti
tedeschi, erano più coinvolti nel dibattito sulle origini somatico-organiche o socio-psicologiche
della patologia, sull'efficacia del trattamento personalizzato e sui rapporti tra disturbi neurologici,
fenomeni psicologici e metafisica.
Durante il Novecento in campo medico non erano state ancora trovate le cause biologiche della
nevrosi e della psicosi e di conseguenza interventi come la lobotomia, l'elettroshock e
successivamente gli psicofarmaci, non avevano portato ad un effetto curativo quanto piuttosto alla
repressione del sintomo.
L'istituzione manicomiale si perfeziona reclude e isola sempre più tenacemente i pazienti: si
specializza nella funzione sociale di contenitore della follia, ma viene meno ad ogni effettivo
programma di cura e di riabilitazione. La psichiatria stessa si costringe in un semplice esercizio
classificatorio: disturbi, sintomi, comportamenti vengono attribuiti alle diverse patologia,
ricorrendo poi sempre alle stesse cure.
Alla fine degli anni Trenta iniziano a diffondersi le terapie di shock basate sull'ipotesi che un
trauma elettrico, febbrile, ipoglicemica, opportunamente indotto, avesse virtù terapeutiche. Tra
tutte queste terapie la più diffusa fu l'elettroshock.
L'istituzione manicomiale all'inizio del XX secolo viene investita da un vasto moto di rinnovamento
radicale, che lavora a margine rispetto alla ortodossia accademica e manicomiale e sconvolge la
psicologia generale e la psichiatria. In particolare, confluiscono e trovano riscontro nelle nuove
tendenze i risultati dell'antropologia e della riflessione fenomenologica.
Una delle terapie maggiormente utilizzata era la psicoterapia, tramite la quale si permetteva al
paziente di riappropriarsi ed elaborare le proprie dinamiche inconsce. La tecnica terapeutica si
basava quindi sulle difese e resistenze del soggetto nei confronti dei propri desideri e dei pensieri
inconsci, che sono alla base dei disturbi psichici.
Nella prima metà del Novecento in Francia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti, apparve un nuovo
atteggiamento nella cura del disagio mentale, con la nascita di strutture che sostenessero un
intervento incentrato sulla cura e sulla riabilitazione. Sul piano pratico si trovano, accanto alle
strutture psichiatriche, comunità che si pongono come alternativa a queste.
Durante la seconda metà del Novecento vengono introdotti gli psicofarmaci: sostanze che,
indipendentemente dai risultati curativi, hanno l'effetto di attenuare i sintomi più gravi e vistosi, e
di rendere più governabili i momenti di crisi. Da un lato costituiscono un ulteriore strumento di
controllo dei pazienti; dall’altro, aiutando i soggetti sofferenti nelle situazioni più difficili e
facilitano la sperimentazione di soluzioni alternative al manicomio tradizionale.
Il primo farmaco antipsicotico , fu la clorpromazina , sintetizzato nel 1950 dal chimico Paul
Charpentier nel tentativo di sintetizzare analoghi della prometazina, una fenotiazina dotata di
attività neurolettica e antistaminica.
In seguito, il chirurgo francese Laborit e i suoi collaboratori scoprirono la capacità di questo
farmaco di potenziare gli effetti dell'anestesia. Essi notarono che la clorpromazina non produceva
perdita di coscienza, ma favoriva la tendenza al sonno e un marcato disinteresse per l'ambiente
circostante.
Nel 1952 gli psichiatri Delay e Deniker ipotizzarono che la clorpromazina, non solo, fosse un agente
capace di trattare i sintomi di agitazione e ansia, ma che potesse avere un effetto terapeutico nel
trattamento delle psicosi. Da quel momento in poi ebbe inizio lo sviluppo della prima classe di
farmaci antipsicotici, le fenotiazine.
Alla fine degli anni '50 fu sintetizzato un altro antipsicotico ancora oggi molto utilizzato e
appartenente alla classe dei butirrofenoni, l'aloperidolo.
L'aloperidolo fu scoperto per caso dal ricercatore Paul Janssen e dai suoi collaboratori nel
tentativo di ottenere farmaci analoghi della meperidina, un analgesico oppioide.
Le modifiche apportate alla molecola di meperidina portarono allo sviluppo di un analogo che
poteva aumentare l’attività analgesica, ma che aveva anche effetti antipsicotici simili a quelli della
clorpromazina.
Janssen e i suoi collaboratori capirono che con opportune modifiche strutturali nella molecola
dell'analogo ottenuto avrebbero potuto eliminare l'azione analgesica a favore dell'attività
neurolettica. In seguito a queste modificazioni finalmente si ottenne l'aloperidolo. Questo farmaco
fu commercializzato in Europa a partire dal 1958 e negli Stati Uniti a partire dal 1967.
Verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, si moltiplicarono le iniziative che si proponevano
come alternativa all'ordine psichiatrico istituzionale.
In Inghilterra si sviluppano gli esperimenti delle "comunità terapeutiche" e dell'"anti-psichiatria”,
in Francia invece nascono i tentativi della "psicoterapia istituzionale" e della "psichiatria di
settore"; nella Germania Federale va segnalata l'esperienza del Collettivo socialista dei pazienti di
Heidelberg, la prima auto-organizzazione di pazienti.
Queste iniziative peccavano spesso di sistematicità o di eccessivo radicalismo. Ma hanno
rinnovano la psichiatria su due aspetti fondamentali: in primo luogo recuperano l'idea di curabilità
e di guarigione del disturbo mentale, cui la psichiatria istituzionale aveva di fatto rinunciato; in
secondo luogo superano il pregiudizio per cui la sofferenza mentale deve essere interpretata in
base al modello medico-organicista, e aprono la strada al trattamento psicoterapeutico.
Tra le altre cose all'inizio del XX secolo i ricoveri portarono ad un sovraffollamento. I finanziamenti
vennero spesso tagliati, perché ritenuti esosi per le tasche dello stato soprattutto durante i periodi
di crisi economica e soprattutto durante la seconda guerra mondiale molti pazienti patirono la
fame. I manicomi erano quindi caratterizzati da condizioni di vita scadenti, dalla mancata igiene,
dal sovraffollamento, da maltrattamenti e dagli abusi sui pazienti.
Le prime alternative basate sulla comunità vennero suggerite e attuate in modo provvisorio nel
corso degli anni venti e trenta, anche se il numero dei ricoveri continuò ad aumentare fino agli
anni cinquanta. Il movimento per la deistituzionalizzazione cominciò a farsi strada in molti paesi
occidentali tra la metà degli anni cinquanta e gli anni sessanta.
Le cause giudiziarie di azione collettiva negli Stati Uniti e il controllo delle istituzioni attraverso
l'attivismo del "movimento per i diritti delle persone affette da disabilità" e le associazioni
antipsichiatriche contribuirono ad esporre agli occhi di tutti le condizioni ed il trattamento
scadente. Si sostenne da parte di specializzati in sociologia che tali istituzioni mantenevano o
addirittura creavano dipendenza, passività, esclusione e disabilità provocando in tal modo la
"sindrome da istituzionalizzazione" nei pazienti. Tra le varie argomentazione venne utilizzata anche
la tesi secondo che voleva una maggiore economia da parte dei servizi comunitari.
Tuttavia nei gruppi di professionisti della salute mentale, dei funzionari pubblici, delle famiglie, dei
cittadini e dei sindacati si svilupparono opinioni diversificate nei riguardi della comunità
deistituzionalizzazione.
Intorno agli anni Cinquanta l’Inghilterrra procedette allo smantellamento dei manicomi, dovuto
anche alle ideologie di Maxwell Jones che considerava i manicomi antiterapeutici. M. Jones fu una
figura di spicco che durante la seconda guerra mondiale fece edificare le Mill Hill Emergency
Hospital, ideate inizialmente per i militari, che rappresentava la prima comunità terapeutica, dove
furono inseriti anche i social club meeting, che annullavano il distacco sociale tra paziente e
medico. Successivamente nel 1952 M. Jones istituì le prime comunità terapeutiche, fondata sulla
responsabilizzazione ed il vivere comune dei pazienti.
Tutto ciò portò intorno agli anni Sessanta alla chiusura dei manicomi negli Stati Uniti d’America,
perché ritenuti troppo costosi, istituendo al loro posto i Centri d’Igiene Mentale e le Club House.
Questi ultimi furono essenziali per arginare il problema rappresentato dai senzatetto che nella
maggior parte dei casi erano rappresentati da individui con malattie mentali, donando loro una
dimora. Tra le altre novità, importante fu la psichiatria di comunità, che permetteva un controllo
del paziente nel territorio in cui viveva.
In questo scenario si innesta, a partire dagli anni Sessanta, il Movimento italiano di negazione
istituzionale.
Nella storia della psichiatria italiana di questo secolo possiamo distinguere tre periodi.
Il periodo definito come “manicomiale”, a partire dal 1904. In quest’anno infatti viene proposta e
promulgata, per volontà di Giolitti stesso, la legge 36, che regolamentava l'assistenza manicomiale.

Questa legge stabiliva il consolidamento giuridico e scientifico dell’idea per cui il manicomio fosse
luogo pressoché esclusivo per il trattamento dei disturbi mentali. La legge di ordine pubblico
metteva in primo piano il bisogno di protezione della società dai malati di mente: "Debbono essere
custodite e curate nei manicomi le persone affette da qualsiasi causa d'alienazione mentale
quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo" (L. n. 36/1904).
Il ricovero avveniva con la certificazione di un medico e con l'ordinanza del questore. Entro 15
giorni, tempo d'osservazione, il direttore del manicomio doveva trasmettere al procuratore della
repubblica una relazione scritta; entro 30 giorni la persona veniva o dimessa o sottoposta a
"ricovero definitivo", e quindi perdeva i diritti civili, con la nomina di un tutore. L'eventuale
cessazione del ricovero definitivo era vincolata a una certificazione di guarigione e avveniva sotto
la diretta responsabilità del direttore, a meno che la famiglia non "ritirasse l'alienato" con
l'autorizzazione del tribunale. L'assistenza psichiatrica era amministrata dalle province, ciascuna
delle quali doveva dotarsi di un manicomio. Il ricovero poteva anche essere attivato dietro
richiesta del paziente, ma si svolgeva con le stesse rigide regole.
La legge stabiliva che il paziente psichiatrico fosse giuridicamente trattato come carcerato. Si è
ricoverati in quanto persona "pericolosa" e di "pubblico scandalo"; il ricovero era possibile solo
sotto forma di provvedimento del magistrato o del questore; il direttore, del manicomio era
responsabile penale e civile del paziente dimesso. Così facendo, nella stragrande maggioranza dei
casi, i disturbi dei ricoverati diventavano cronici.
Il secondo periodo è definito “manicomiale attenuato”. Nel 1968 lo scenario italiano cambia con
l’approvazione della nuova legge 431, la legge Mariotti. Essa stabiliva l'insufficienza dell'assistenza
psichiatrica basata esclusivamente sull'internamento in manicomio; l'istituzione di un servizio di
assistenza psichiatrica territoriale attraverso la creazione dei centri di igiene mentale; la possibilità
di entrare in manicomio anche volontariamente; l'abolizione dell'obbligo di annotare nel casellario
giudiziario l'ammissione e la dimissione dal manicomio; nuovi criteri di organizzazione degli
ospedali psichiatrici. Si andò incontro alla revisione della concezione della malattia mentale e dei
suoi modi di cura. Con questa legge iniziava in Italia il sistema di assistenza territoriale.
Infine il terzo periodo è quello definito “territoriale”, fu promulgata la legge 180 del 1978 voluta
fortemente da Franco Basaglia, impegnato già da diversi anni nell'Ospedale psichiatrico di Gorizia.
Le sue continue denunce portarono al totale smantellamento dell'Ospedale psichiatrico di Trieste,
avvenuto nel 1977, un anno prima dell'approvazione della legge 180.
La legge 180, inserita in seguito nella legge di Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (833/23
dicembre 1978), stabilisce che è il diritto della persona alla cura e alla salute, e non più il giudizio di
pericolosità, alla base del trattamento sanitario. Tale trattamento è di norma volontario e viene
effettuato, come la prevenzione e la riabilitazione, nei presidi e nei servizi extra-ospedalieri,
operanti nel territorio. Qualora vi siano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi
terapeutici, e si siano rivelati inefficaci tutti i tentativi in tal senso, persistendo il rifiuto delle cure
da parte del soggetto, può essere richiesto il trattamento sanitario obbligatorio (Tso), che può
essere attuato presso qualsiasi struttura territoriale di salute mentale, e anche a domicilio del
paziente; nel caso in cui si reputi necessaria la degenza ospedaliera, il Tso verrà eseguito presso i
servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) istituiti presso gli ospedali generali. La proposta di Tso,
fatta da un medico e convalidata da un altro medico del servizio pubblico, viene inviata al sindaco
il quale, oltre ad emettere l'ordinanza, avvisa il giudice tutelare, in quanto autorità deputata a
garantire i diritti del paziente. Dopo una settimana, nel caso in cui il Tso debba proseguire, esso
dev'essere di nuovo motivato dal medico; in ogni caso, anche durante il Tso occorre fare ogni
sforzo per ricercare il consenso alle cure da parte del paziente, al quale devono essere garantiti
diritti di libera comunicazione ed eventuale ricorso contro il provvedimento.
La legge 180 stabilisce altresì che negli ospedali psichiatrici non debba più essere ricoverato
nessuno, mentre vengono concesse deroghe all'ammissione di pazienti ricoverati prima del
maggio ‘78.
Gli ospedali psichiatrici, che devono essere gradualmente superati, diventano strutture ad
esaurimento, e, nel marzo 1999, il ministero della Sanità ne ha annunciato la definitiva chiusura. La
legge 180 è stata emanata come legge quadro, che rinviava ad un Piano sanitario nazionale: "...i
criteri e gli indirizzi ai quali deve riferirsi la legislazione regionale per l'organizzazione dei servizi
fondamentali e per l'organico del personale..., le norme generali per l'erogazione delle prestazioni
sanitarie, gli indici e gli standard nazionali da assumere per la ripartizione del Fondo sanitario
nazionale tra le regioni". È invece accaduto che le leggi regionali sono state formulate con gravi
ritardi, in modo frammentario e spesso contraddittorio rispetto alla legge nazionale, mentre il
Piano sanitario nazionale è stato realizzato con difficoltà. Solo nel 1994 è stato emanato il primo
“Progetto obiettivo salute mentale”; nel frattempo la legge 180 non è stata adeguatamente
finanziata e implementata.
In questo contesto occorre sottolineare che la Regione Friuli-Venezia Giulia ha recepito
pienamente le indicazioni della riforma con la legge n. 72/23 del dicembre 1980, dando avvio a un
positivo processo di cambiamento.
Non a caso questa legge regionale viene considerata un modello di corretta attuazione della legge
180; molte sue indicazioni sono state fatte proprie dal “Progetto obiettivo tutela salute mentale”
1998/2000, approvato nel novembre 1999 (Dpr 274/1999).
A Trieste, dopo sette anni di preparazione e organizzazione di un adeguato servizio territoriale, il
manicomio chiuse: i pazienti furono seguiti e assistiti attraverso una fitta trama di assistenza
domiciliare e ambulatoriale per la terapia ordinaria, integrata da interventi e ricoveri brevi per le
situazioni di crisi. Persone destinate alla reclusione cronica tornarono a vivere, in famiglia o in
piccole comunità, una esistenza dignitosa e autonoma.
Questa legge pose l'Italia all'avanguardia nel sistema psichiatrico internazionale e allo stesso
tempo agì da catalizzatore nei confronti della spinta all'innovazione presente negli altri paesi.
Ovunque si fecero più solide ed estese le esperienze di gestione dell'assistenza psichiatrica senza
ricorso all'internamento in manicomio.
Nel 1978 è stato sancito nel nostro paese il diritto alla salute e all'assistenza sanitaria. Gratuita fino
al 1990, l'assistenza sanitaria è stata poi sottoposta ad un regime di rimborso parziale con il
pagamento di ticket, sebbene buona parte dell'assistenza rimanga tuttora gratuita.
Ai fini dell'organizzazione dell'assistenza sanitaria, l'Italia è stata divisa in unità territoriali
amministrative, denominate, fino al 1995, unità sanitarie locali (Usl) e successivamente
trasformate in aziende ex-Usl, o aziende per i servizi sanitari (Ass), in seguito alla legge 502/92.
Ciascuna azienda copre un'area territoriale che va da un minimo di centomila a un massimo di
cinquecentomila abitanti; amministra tutta la sanità del territorio di competenza e quindi anche
l'assistenza psichiatrica.
Lo stato stanzia l'intero finanziamento alle 20 Regioni e Province autonome; a loro volta le Regioni,
attraverso il servizio sanitario regionale, governano con una certa autonomia, erogando, sulla base
dei piani sanitari annuali, i finanziamenti alle aziende del proprio territorio.
L'approvazione nel 1994 del primo “Progetto obiettivo nazionale per la salute mentale” segnò una
tappa storica nelle vicende dell'assistenza psichiatrica italiana; a sua volta, il secondo Progetto
obiettivo (1998-2000) precisava quali dovessero essere le strutture e i servizi dei dipartimenti di
salute mentale (Dsm), ne definisce gli standard di funzionamento e di fatto conferma,
sviluppandoli ulteriormente, i contenuti della legge 180.
Il “Progetto obiettivo” è un provvedimento utile allo sviluppo qualitativo e quantitativo
dell'assistenza psichiatrica per almeno cinque ragioni:
>sancisce il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici;
>individua, quale modello organizzativo più idoneo a garantire la continuità terapeutica e
l'unitarietà degli interventi, il dipartimento di salute mentale, inteso come un insieme integrato di
strutture e di servizi, a direzione e coordinamento unici;
>precisa che il servizio psichiatrico di diagnosi e cura è parte integrante del Dsm anche se collocato
in ospedale e/o in un'azienda sanitaria diversa da quella dei servizi territoriali;
>sottolinea la necessità di valutare gli esiti degli interventi e la qualità dei servizi dei Dsm, dotati di
autonomia finanziaria al fine di valutarne l'efficienza;
>promuove una nuova fase caratterizzata dalla valutazione delle molte tipologie di servizi e
metodologie d'intervento.
Il D.S.M.: si occupa dell’organizzazione, gestione e produzione delle prestazioni finalizzate alla
promozione della salute mentale, alla prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione del disagio
psichico, del disturbo mentale e delle disabilità psicofisiche delle persone per l'intero arco della
vita.
Esso comprende:
CENTRO DI SALUTE MENTALE: il Centro di Salute Mentale è la sede organizzativa degli operatori e
del coordinamento nel territorio di competenza degli interventi di prevenzione; cura riabilitazione
e reinserimento sociale. In particolare il Centro di Salute Mentale svolge: attività di accoglienza,
analisi della domanda ed attività diagnostica, definizione ed attuazione di programmi terapeutico-
riabilitativi e socio-riabilitativi personalizzati, tramite interventi ambulatoriali, domiciliari e di rete;
consulenza specialistica ai servizi di confine, alle strutture residenziali per anziani e per disabili e
agli Ospedali collocati nel territorio competente; attività di filtro ai ricoveri e di controllo della
degenza nelle Case di Cura Psichiatriche accreditate, al fine di assicurare la continuità terapeutica.
SERVIZIO PSICHIATRICO di DIAGNOSI e CURA (S.P.D.C.): il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura è
il reparto ospedaliero dove vengono attuati trattamenti psichiatrici volontari ed obbligatori in
condizioni di ricovero; è parte integrante del Dipartimento di Salute Mentale .
CENTRO DIURNO: è una struttura semiresidenziale, collegata al Centro di Salute Mentale (C.S.M.),
con attività terapeutiche e riabilitative, con particolare attenzione alla risocializzazione dell'utente,
attraverso progetti individualizzati. Ha il compito di prevenire e contenere il ricovero, promuovere
programmi riabilitativi e risocializzanti individuali ed integrati per gruppi omogenei di utenti, di
supportare gli inserimenti formativi, lavorativi ed occupazionali con livelli differenziati di
protezione.
COMUNITÀ PSICHIATRICA: è una struttura residenziale con elevato livello di attività terapeutico-
riabilitativa ed assistenziale per persone a lungo assistite dai Centri di Salute Mentale del D.S.M.,
non assistibili a domicilio e richiedenti un alto livello di intervento sia terapeutico che assistenziale
non raggiungibile all'interno delle altre strutture del Dipartimento di Salute Mentale. In relazione
alle finalità proprie della struttura la Comunità psichiatrica persegue i seguenti obiettivi: offrire
ospitalità residenziale di lungo periodo, prestare assistenza alle principali funzioni di base
dell'utente, erogare attività terapeutico - riabilitative individualizzate; promuovere attività di
socializzazione, elaborare progetti di reinserimento nel tessuto sociale
DAY HOSPITAL PSICHIATRICO: è una struttura semiresidenziale, collegata al Centro di Salute
Mentale (C.S.M.), con attività sanitaria, terapeutica e riabilitativa a breve e medio termine per
progetti terapeutici individualizzati. Ha la funzione di evitare ricoveri a tempo pieno, nonché di
limitarne la durata quando questi si rendono indispensabili. Si rivolge ad utenti con psicopatologia
sub-acuta, aventi necessità di interventi farmacologici, psicoterapeutici e riabilitativi.

Potrebbero piacerti anche