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Trascrizione delle video-lezioni di Diritto Privato (programma del corso CLEA curriculum A)

Argomento 1
Videolezione 1 - Il diritto privato. La norma. Le fonti del diritto.
Il diritto può essere preso in considerazione secondo due diverse accezioni: il diritto in senso soggettivo e il
diritto e in senso oggettivo. Il diritto in senso soggettivo indica l’insieme delle prerogative, che fanno capo a
un determinato soggetto ( si chiama “soggetto” il compartecipe, che agisce insieme ad altri compartecipi
all’interno della società civile; compartecipe che può essere una persona fisica, o un ente, ad esempio una
società); il diritto in senso oggettivo indica l’insieme delle regole da rispettare nella convivenza sociale, nelle
interrelazioni tra soggetti, che agiscono in un quadro generale in cui si applica l’insieme delle norme
giuridiche di diritto privato. L’insieme delle norme giuridiche può contribuire a dare la definizione di diritto.
Cioè l’insieme in senso oggettivo può anche essere considerato come l’insieme delle norme giuridiche. Le
norme giuridiche sono quelle norme per le quali è prevista una qualche reazione da parte del sistema, cioè da
quello che possiamo chiamare come “ordinamento giuridico”. Sono norme che dunque dobbiamo distinguere
da altre norme per cui non è prevista alcuna reazione, come per esempio le norme etiche, o morali. La norma
giuridica è dunque quella regola che comporta l’attivazione di una qualche reazione.
Esistono norme giuridiche che possono essere derogate. Per esempio, in materia di adempimento della
cosiddetta “obbligazione”, cioè di quel particolare vincolo che sorge tra due soggetti che stipulano un
contratto, che può essere una vendita, sorgono dei vincoli per cui un soggetto deve una data prestazione,
come il pagamento del prezzo della compravendita. Per quanto riguarda l’adempimento dell’obbligazione,
sono previste dal nostro Codice civile delle regole derogabili. Derogabili significa che i soggetti che
prendono parte a questa compravendita possono stabilire delle regole diverse da quelle previste dal Codice
civile. Entro i limiti previsti dall’ordinamento giuridico, il soggetto può non rispettare tali regole, ma in
alcuni casi, per le norme derogabili, è comunque prevista una reazione del sistema qualora il soggetto non
ponga in esse la deroga. In questo caso, come conseguenza, si applica la norma.
Le norme inderogabili, invece, sono quelle che non possono essere derogate, e dunque sono imperative, il
soggetto non può derogarvi. La reazione a volte è una sanzione da parte dell’ordinamento giuridico, sanzione
che può essere invalidatoria, o risarcitoria, per esempio quando si viola la sfera altrui causando un danno che
l’ordinamento considera ingiusto, si deve risarcire questo danno.
Le norme giuridiche trovano le loro radici nelle fonti del diritto. Le fonti del diritto le troviamo elencate nel
Codice civile emanato nel 1942. La nostra costituzione è entrata in vigore nel 1948 e contiene dei principi
generali che riguardano anche il diritto privato e la convivenza tra i soggetti. Le norme della costituzione
devono essere messe in alto, all’apice, nella gerarchia delle fonti:
1) La costituzione e i suoi principi fondamentali; la costituzione si conforma alle norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute.
2) Le norme dell’Unione Europea direttamente applicabili; questi principi valgono al disopra delle
nostre leggi.
3) Le leggi e gli altri atti aventi valore di legge, cioè le regole che sono approvate con forza di legge dal
nostro legislatore, a volte dal governo; il parlamento sopraintende all’emanazione delle leggi.
4) I regolamenti; norme di rango inferiore alla legge, che operano sulla base di scelte politiche
effettuate dagli ordini di governo nell’ambito del rispetto delle fonti superiori che sono la
costituzione e le norme dell’Unione Europea.
5) Gli usi; le consuetudini. Quei comportamenti posti in essere da una generalità di soggetti, che
attuano un determinato comportamento pensando che quel comportamento sia doveroso. Gli usi sono
delle regole non scritte che sono applicate da una determinata generalità di soggetti, appartenenti a
una determinata categoria, che ritengono nell’applicare queste norme, di seguire una norma
giuridica, di applicare una regola da osservare. Nella legge, nel nostro Codice civile, troviamo varie
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norme, che rimandano agli usi. Tendenzialmente è la legge che permette agli usi di specificare
qualcosa, sempre nell’ambito però di ciò che è consentito dalla legge.
La norma è caratterizzata dai caratteri della generalità, cioè è rivolta tendenzialmente a tutti quei soggetti che
si trovano in quella determinata situazione descritta dalla norma, non a una persona in particolare, non a un
soggetto in particolare; la norma è astratta, non riguarda un caso concreto. Generalità e astrattezza sono
strettamente correlate. La generalità e l’astrattezza dosano il livello di rigidità della norma. Più è generale e
astratta, più la norma si può applicare in maniera flessibile a varie tipologie di casi. Assume rilevanza anche
la cosiddetta effettività della norma nella società civile. In alcuni casi si fa riferimento, per esempio, al “buon
costume”, che è la morale generalmente riconosciuta nel contesto sociale, o in alcuni casi si fa riferimento ai
principi generali dell’ordinamento giuridico. In tali aperture si può notare la correlazione tra la norma di
diritto e i principi di giustizia naturale.
Ruolo sempre crescente è stato assunto dalle applicazioni giurisprudenziali della Corte di Cassazione, organo
deputato a dare uniformità all’applicazione delle norme di diritto nel nostro ordinamento giuridico. La Corte
di cassazione tende a dare uniformità all’applicazione del diritto nel nostro ordinamento, quindi al diritto
concreto, a quello che si deve realmente applicare nel caso di controversie. È per questo motivo che è
opportuno dar peso a queste applicazioni giurisprudenziali che danno una misura della concreta attuazione
del diritto privato nel nostro ordinamento.
Il diritto privato è quel diritto che vede i soggetti allo stesso modo, in condizioni di parità fra loro. Quando
esso è inteso in senso oggettivo, si può considerare come l’insieme delle norme giuridiche dirette a regolare i
rapporti tra i soggetti di un determinato sistema, ordinamento giuridico, soggetti che sono da considerare in
condizione di parità fra loro; non c’è uno che prevale sull’altro. Vige nel diritto privato la massima
espressione del diritto di uguaglianza. I soggetti coinvolti in una determinata situazione vengono considerati
tutti allo stesso modo. A nessuno è consentita la prevaricazione a danno di altri. Per questo motivo, per
esempio, non è possibile stipulare un contratto senza una ragione.
Le norme di diritto privato sono dunque norme volte a regolare rapporti tra pari. La reazione alla violazione
della norma dipende dall’iniziativa di un altro soggetto; per esempio, dal soggetto, che in caso di danno, fa
richiesta di risarcimento per riavere quello che gli è stato tolto.
Il Codice civile è sorretto da una logica di carattere prevalentemente patrimoniale; tuttavia, assume rilevanza
sempre più la tutela della persona quando la violazione avviene a danni di valori che non hanno valore di
mercato, come per esempio valori morali. In questi casi si rimborsa in termini pecuniari, ma si parla di danni
non patrimoniali, ma morali.
Il Codice civile è la base del diritto privato e si compone di 6 libri: il primo libro riguarda la disciplina delle
persone e della famiglia; il secondo libro riguarda le successioni per causa di morte; il terzo libro si rivolge
alla proprietà, ai diritti sui beni; il quarto libro riguarda le obbligazioni (rapporti tra creditori e debitori); il
quinto libro è dedicato al lavoro; il sesto libro è dedicato alla tutela dei diritti.
Videolezione 2 – Le fonti del diritto.
Le fonti del diritto possono essere definite come i fatti, o gli atti, dai quali traggono esistenza le norme
giuridiche. Noi abbiamo diverse categorie di fonti del diritto, categorie che hanno diversa efficacia
normativa, in quanto le une fonti prevalgono sulle altre. L’ordine di queste categorie costituisce la gerarchia
delle fonti del diritto. L’articolo primo del Codice civile dice che sono fonti del diritto le leggi, i regolamenti,
le norme corporative, gli usi. Le norme corporative appartengono a una realtà ormai scomparsa, la realtà
dell’ordinamento corporativo fascista, ovvero l’ordinamento sindacale, che era basato sui principi
dell’unicità del sindacato, della sua natura di diritto pubblico. Natura di diritto pubblico che consentiva di
attribuire agli atti collettivi di questi sindacati una efficacia normativa vera e propria. La caduta
dell’ordinamento corporativo comporta la caduta di questa fonte di diritto; non dobbiamo dunque tenerne
conto. Dobbiamo tenere conto di una nuova realtà, che è quella dell’Unione Europea e dobbiamo tenere
contro di una realtà che non era conosciuta quando è stato emanato il Codice civile, cioè la costituzione.
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Dovendo riscrivere l’articolo primo, dovremmo mettere al primo posto le leggi costituzionali, al secondo
posto le leggi ordinarie, in seguito i regolamenti e gli usi. Al vertice, accanto alle leggi costituzionali, vanno
posti i regolamenti comunitari. Questo ordinamento sta a indicare che una fonte prevale sulle altre, per
esempio la legge prevale sul regolamento in quanto ha una efficacia superiore. Ma la prevalenza delle forme
normative non deve essere confusa con l’ordine di applicazione delle norme. Cioè l’ordine in base al quale
una fattispecie è regolata dalle norme giuridiche. L’applicazione delle norme giuridiche, infatti, può
dipendere dalla stessa indicazione fornita dalle norme medesime, le quali possono dare prevalenza a una
fonte diversa, o addirittura a un’autonomia privata.
Al vertice della gerarchia delle fonti noi troviamo la legge, la legge statale, ma nell’ambito delle leggi statali
un ruolo di particolare preminenza spetta alle leggi costituzionali, cioè alla costituzione e alle altre leggi
costituzionali che siano emanate dal parlamento osservando la speciale procedura di normazione
costituzionale.
La costituzione è la legge che enuncia le basilari scelte politiche del nostro ordinamento e stabilisce la
fondamentale organizzazione e funzione dei pubblici poteri. La costituzione ha un rango superiore rispetto
alle altre leggi dello stato. Questa superiorità, questa preminenza delle norme costituzionali, comporta un
limite alle leggi ordinarie. Le leggi ordinarie devono rispettare i principi costituzionali. Il rispetto di questi
limiti è garantito attraverso il controllo della Corte costituzionale alla quale è dato il compito di controllare la
legittimità costituzionale delle leggi ordinarie, ovvero il rispetto dei principi costituzionali da parte di queste
leggi. Se una legge viene dichiarata costituzionalmente illegittima, essa perde la sua efficacia e non può più
essere applicata. Nel corso di un giudizio, il giudice che abbia il fondato convincimento che una norma da
applicare per la risoluzione del caso sottoposto al suo esame, presenti un carattere di incostituzionalità, può
rimettere alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità di quella norma.
I principi costituzionali hanno un’importanza fondamentale per il diritto privato perché contengono norme
che sono fondamentali nella disciplina dei rapporti relazioni, soprattutto perché sanciscono la tutela speciale
dei diritti della personalità, cioè di quei diritti che tutelano gli interessi della persona. Questo è il cuore del
diritto privato.
Al disotto delle leggi costituzionali, troviamo le leggi ordinarie; quelle leggi emanate dallo stato
nell’esercizio della sua potestà legislativa. Sono chiamate leggi ordinarie per distinguerle rispetto alle leggi
costituzionali. Tra le leggi ordinarie, ne troviamo una che ha un’importanza fondamentale, il Codice civile. Il
Codice civile ha un’efficacia normativa superiore rispetto a quella delle altre leggi. La sua importanza, così
come quella di altri codici, è data dal fatto che disciplina in maniera organica un’intera materia. I codici sono
nati nell’era illuministica con la finalità di rendere lineare e chiaro il diritto vigente (negli stati europei del
secolo diciottesimo). L’esigenza nasceva dal fatto che il diritto privato allora vigente fosse basato o su norme
consuetudinarie, o sui principi del diritto romano; il diritto romano che veniva applicato con evidenti
problemi e difficoltà di identificazione delle norme. Nasceva dunque a quell’epoca la necessità di avere un
quadro organico e chiaro delle norme vigenti, così nacquero i codici. Nacque il codice prussiano, il codice
austriaco, e principalmente il codice francese emanato nel 1804, chiamato anche codice Napoleone, in
quanto fu Napoleone a prendere l’iniziativa di promuoverne l’emanazione. Questo codice ha avuto
un’influenza massima in tutta l’Europa e comunque principalmente in Italia poiché tutti gli stati che facevano
parte della nazione italiana, fatta eccezione per il Lombardo Veneto, adottarono codici civili che erano
modellati sul codice francese. Sul codice francese di Napoleone, fu modellato anche il primo Codice civile
italiano emanato nel 1865, al momento dell’unificazione del regno. Nel 1942 in Italia fu poi emanato un
Codice civile, che è il codice attualmente vigente, codice che ebbe una particolarità veramente notevole. Fu
un codice che unificò la legislazione civile e quella commerciale, che prima era oggetto di un codice di
commercio. Questo comportò notevoli vantaggi come appunto l’introduzione nell’ambito della disciplina
civilistica di principi che erano maturati con maggiore dinamicità e con maggiore modernità nell’ambito di
rapporti di diritto commerciale.
Il Codice civile del 1942 fu emanato sotto il regime fascista, che era destinato a cadere da lì a poco portando
via con sé tutta l’ideologia che esso comportava e che in qualche modo si diceva dovesse presiedere anche
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questo Codice civile. In realtà l’influenza dell’ideologia fascista fu molto limitata. Depurato dalle norme
razziali e dalle norme che facevano riferimento al sistema corporativo, la struttura fondamentale del Codice
civile è rimasta. Il Codice civile presenta il vantaggio di aver dettato una regolamentazione dei rapporti
privati moderna e comunque attenta alle codificazioni che già erano presenti in Europa.
Il Codice civile si compone di articoli numerati (2969) e ogni articolo ha una propria intitolazione, che si
chiama rubrica. Il Codice civile consta di 6 libri, preceduti da un gruppo di disposizioni preliminari come per
esempio l’interpretazione, l’applicazione della legge nel tempo.
Il Codice civile contiene una disciplina organica della materia, ma questo non vuol dire che la disciplina sia
esaustiva, sia compiuta, perché in realtà le esigenze di regolamentazione sono innumerevoli e richiedono
dunque di volta in volta leggi speciali. Le leggi speciali sono le leggi dello stato, che chiamiamo in questo
modo per distinguerle rispetto al codice. La loro specialità consiste in questo: tutte le leggi sono leggi
speciali in quanto non sono leggi del codice. Le leggi speciali sono innumerevoli e spesso si accavallano
l’una sull’altra determinando una non facile ricerca della legge ancora in vigore, della legge applicabile. Per
sopperire alla difficoltà che nasce dal moltiplicarsi delle leggi speciali, si provvede con i testi unici, cioè con
raccolte delle norme vigenti unitariamente coordinate a opera di organi pubblici.
Un accenno va fatto alle leggi regionali poiché il nostro ordinamento prevede l’attribuzione alle regioni di
una vera e propria potestà legislativa. Se pure in modo subordinato ai principi legislativi dello Stato,
comunque le regioni godono di questa potestà, ma dobbiamo dire che tale competenza regionale non
concerne i rapporti di diritto privato in quanto l’ordinamento civile rientra nella competenza legislativa dello
Stato.
I regolamenti sono precetti normativi di grado inferiore alla legge; essi sono emanati dallo Stato
nell’esercizio della potestà regolamentare. I regolamenti possono essere indipendenti ed esecutivi. I
regolamenti indipendenti sono quelli che contengono una disciplina autonoma del soggetto, mentre i
regolamenti esecutivi dettano norme di attuazione e specificazione di una disciplina principale, ovvero, di
una legge statale. Il regolamento essendo subordinato alla legge non può contenere norme contrarie a
disposizioni legislative. Nell’ipotesi di contrasto con norme di legge, il giudice deve disapplicare il
regolamento.
Gli usi sono quelle norme non scritte che un’ambiente sociale osserva costantemente nel tempo come norme
giuridicamente vincolanti. Queste norme sono dette non scritte perché non sono emanate in seguito a un
procedimento formale, esse si formano spontaneamente, anche se la loro osservanza è proprio quella delle
norme di diritto. Questo avviene attraverso l’accettazione da parte dell’ambiente sociale come norme
sanzionabili che disciplinano i rapporti privati. Perché si abbia un uso, occorre che sussista un
comportamento sociale, uniforme, consolidato nel tempo e che questo comportamento sia ritenuto come
osservanza di una norma giuridica. Il Codice civile ha ritenuto gli usi come fonte del diritto, ma la loro
applicazione è stata limitata notevolmente. Gli usi sono posti infatti nell’ultimo posto nella gerarchia delle
fonti. Tutte le altre fonti, dunque, prevalgono su di essi; gli usi trovano applicazione solo se richiamati da
superiori fonti. Gli usi di cui parliamo, vengono definiti “usi normativi”.
Nella gerarchia delle fonti di diritto dobbiamo ora tener conto del diritto comunitario e in particolare dei
regolamenti, ovvero di quegli atti normativi della comunità europea che hanno carattere generale e sono
direttamente applicabili all’interno degli stati membri. Questi regolamenti sono ormai riconosciuti come
norme giuridiche che non dipendono dalla ratifica degli stati membri e non sono modificabili dalla legge
statale. Nel contrasto tra la legge statale e il regolamento comunitario, è il regolamento a prevalere. Il rango
delle norme comunitarie è superiore a quello delle leggi statali. Si distinguono dalle regole comunitarie, che
disciplinano i rapporti tra i cittadini, le direttive, le quali hanno come destinatari invece gli stati membri a cui
impongono obblighi. Esse hanno incidenza sui rapporti che intercorrono tra lo Stato e i cittadini. Gli stati
membri possono essere ritenuti responsabili per la mancata attuazione delle direttive, mancata attuazione che
può causare un danno ai cittadini.

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La giurisprudenza in senso oggettivo è l’insieme delle sentenze che vengono emesse dagli organi giudiziari;
in senso soggettivo, la giurisprudenza è l’insieme delle autorità giudicanti, cioè la magistratura.
L’equità ha due significati: può valere come criterio di valutazione e come criterio di soluzione delle
controversie in sostituzione del diritto positivo. Come criterio di valutazione, l’equità è un criterio che tende
a considerare interessi diversi, tenendo conto di tutte le esigenze rilevanti secondo la coscienza sociale.
Diciamo, per esempio, che un contratto è ricondotto a equità quando il suo contenuto è modificato in maniera
tale da contemperare gli opposti interessi delle parti, tenendo conto di tutti i vari fattori che incidono sul
rapporto. Nel caso di criterio utilizzato come soluzione di controversie, possiamo considerare per esempio la
situazione in cui un giudice di pace è chiamato a giudicare cause di modico valore. In questo caso il giudice
decide secondo equità.
Videolezione 3 – Il diritto intertemporale.
Il diritto intertemporale riguarda le norme che regolano la successione delle leggi nel tempo. Le leggi hanno
una loro vita, una loro durata e innanzitutto hanno un inizio. Normalmente l’efficacia normativa della legge
ha inizio il quindicesimo giorno successivo alla sua pubblicazione. L’intervallo tra la pubblicazione della
legge e la sua entrata in vigore è detta vacanza, la vacanza della legge. È possibile, in alcuni casi, che la
legge però preveda la sua immediata entrata in vigore a seguito della pubblicazione. Sono questi i cosiddetti
decreti catenaccio, volti a evitare che sussistano dei comportamenti contrari agli interessi che la legge
persegue. Come esiste l’inizio di efficacia della legge, esiste anche la fine del periodo di questa efficacia. La
legge ha una sua durata, durata che può essere predeterminata dalla legge stessa. In questo caso, alla
scadenza del termine finale, la legge cessa di avere efficacia. Al di fuori dell’ipotesi di un termine finale, la
legge cessa di avere efficacia a seguito di un fatto estintivo che si chiama abrogazione. L’abrogazione è un
fatto estintivo della norma giuridica. Altra forma di abrogazione delle leggi è costituita dal referendum; in
questo caso si giunge all’abrogazione di una legge tramite una consultazione popolare. Qui l’elettorale si
esprime sul mantenere, o meno una norma giuridica. Un particolare tipo di referendum è quello che ha per
oggetto le leggi costituzionali. Le modifiche apportate dunque alla costituzione, sono in questo caso
suscettibili di votazione attraverso referendum popolare.
La via normale attraverso la quale si arriva all’abrogazione di una norma è quella dell’abrogazione per
norma successiva, cioè abrogazione disposta da una legge successiva. Perché si abbia abrogazione per legge
successiva, la legge successiva deve essere di grado eguale a quella precedente. Questa abrogazione può
essere esplicita, o tacita. Si ha abrogazione esplicita quando la legge successiva dichiara di abrogare la norma
precedente; si ha abrogazione tacita quando la norma successiva non prevede l’abrogazione della norma
precedente, ma è incompatibile con essa, oppure quando regola per intero la materia già regolata dalla norma
precedente.
A seguito dell’abrogazione della legge, entra in vigore una nuova legge. Ecco il fenomeno delle successioni;
a una norma estinta, ne sussegue una nuova. Questo è l’oggetto del diritto intertemporale, o diritto
transitorio, che designa l’insieme delle norme che regolano la successione delle leggi nel tempo.
Un principio generale del diritto intertemporale è quello della irretroattività, della non retroattività della
legge. La legge cioè vale per un tempo successivo alla sua entrata in vigore: la legge non dispone che per
l’avvenire, essa non ha effetto retroattivo. Il principio di non retroattività risponde a un’esigenza di certezza
dei destinatari della norma. Se io, per esempio, commetto un fatto che la legge non punisce, non posso poi
essere punito successivamente a causa di una nuova legge; questo anche nel caso in cui la legge stessa
preveda la sua retroattiva applicazione. A questa medesima esigenza si collega la tradizionale teoria dei
diritti quesiti, secondo la quale il soggetto non può essere privato da una norma successiva delle posizioni
giuridiche attive già acquisite in base alla norma precedente. La teoria dei diritti quesiti, volta essenzialmente
a conservare i diritti patrimoniali dell’individuo nei confronti della novità legislativa, ha incontrato critiche
sotto due opposti profili. Con più ampi e precisi termini la teoria del fatto compiuto, afferma che la nuova
legge non tocca gli effetti già prodotti in base a fattispecie perfezionate nel vigore della vecchia legge.
Secondo questo criterio, sostanzialmente accolto dalla giurisprudenza, la legge nuova non disconosce i diritti
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già sorti in base a fattispecie perfezionate prima della sua entrata in vigore ma ne detta per il futuro una
diversa disciplina. Così, ad es., se il soggetto è divenuto proprietario di un bene in base ad un valido
contratto, il suo acquisto rimane fermo anche se il contratto non risponda ai requisiti di validità richiesti dalla
nuova legge. Il diritto di proprietà acquistato sotto la vecchia legge è invece assoggettato alla nuova
disciplina legale. In definitiva, il principio della irretroattività può definirsi come il principio secondo il quale
la legge è valevole per il tempo successivo alla sua entrata in vigore facendo salvi gli effetti giuridici
derivanti da fattispecie anteriormente perfezionate. Occorre dunque fare un chiarimento: il principio della
irretroattività della legge come abbiamo visto è stabilito da una norma preliminare al Codice civile, quindi da
una legge ordinaria; esso non è dunque un principio costituzionale. Questo vuol dire che ciascuna legge di
volta in volta può disattendere questo principio della irretroattività ed essere applicata anche a fatti posti in
essere prima della sua entrata in vigore. Il principio della irretroattività non è dunque un principio
costituzionale, ma per quanto riguarda invece le norme penali, il limite c’è ed è un limite previsto dalla stessa
costituzione. Le norme penali non possono essere retroattive nel senso che dispongano la punizione di fatti
compiuti prima della loro entrata in vigore.
L’efficacia retroattiva si riconosce invece alle leggi interpretative, cioè alle leggi che fissano formalmente il
significato di una legge precedente. Ma proprio perché l’efficacia retroattiva è un’eccezione al principio
generale dell’irretroattività, occorre che risulti chiaro, che si tratti di una legge interpretativa, una legge volta
a interpretare e non a sostituire. Un’altra ipotesi di efficacia retroattiva della legge è quella che concerne i
decreti-legge, cioè quei decreti che sono emanati dal governo in casi straordinari di necessità e urgenza,
aventi provvisoriamente forza di legge.
Le norme transitorie, o disposizioni transitorie, sono le norme volte a risolvere i conflitti di tipo
intertemporale. Ciascuna legge può contenere disposizioni che regolano appositamente la successione tra la
vecchia e la nuova normativa. Tali disposizioni stabiliscono i limiti di applicazione della legge a situazioni
anteriormente sorte o in via di formazione. Di disposizioni transitorie, noi ne abbiamo un esempio importante
nel Codice civile, che fu emanato nel 1942 e proprio per regolare il complesso problema della successione
delle nuove norme in sostituzione delle vecchie appartenenti al Codice civile del 1865, si sentiva la necessità
di dettare una serie di disposizioni transitorie.
Argomento 2
Videolezione 1 - L’interpretazione letterale della legge.
Il legislatore ha fornito una norma riguardo l’interpretazione della legge ed è l’articolo 12 delle preleggi;
anch’essa è una legge. Interpretare una legge significa ricostruirne il significato. La legge in senso formale è
sicuramente una legge scritta; rientrano tra le fonti del diritto anche delle norme non scritte, sappiamo infatti
che esistono le consuetudini, ma non trattandosi di norme scritte, non essendoci una base solida scolpita con
le parole, non si può parlare di “interpretazione” di una consuetudine. Si può parlare tutt’al più di ricostruire
il contenuto della stessa consuetudine. Quelle che possono essere interpretate, sono le leggi, che sono
appunto scritte. A volte si cade nell’errore di pensare che il solo interprete della legge sia il giudice, che è di
fatto uno degli interpreti ed è sicuramente un interprete importante, ma non è solo la sua figura a dover
interpretare; tutti dobbiamo interpretare, tutti dobbiamo osservare la legge e dunque interpretarla. È chiaro
ovviamente che l’interpretazione abbia un livello diverso in base al soggetto che la compie. L’interpretazione
può essere dottrinale, giudiziale, o autentica: l’interpretazione dottrinale avviene da parte di chi, per esempio,
nello scrivere uno scritto giuridico riguardante una determinata disciplina, effettua determinati ragionamenti
sulla norma giuridica, interpretandola quale autore di dottrina; l’interpretazione giudiziale proviene dal
giudice; l’interpretazione autentica proviene dallo stesso organo che ha emanato la legge. In questo caso è
dunque il legislatore, che per sedare ogni dubbio riguardo l’interpretazione di quella norma, spiega
esattamente come deve essere interpretata. Questo è l’unico caso di legge che consideriamo retroattiva: la
norma precedente verrà interpretata da quando è stata emanata, in quel modo.
Nell’articolo 12, il legislatore dice: “Diamo peso al significato proprio delle parole secondo la connessione di
esse”. Con il “Significato delle parole” si intende andare a vedere il significato letterale della legge. Per
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capire il significato letterale, quando abbiamo dei dubbi, quando vogliamo conoscere tutte le accezioni di un
determinato vocabolo, ovviamente prendiamo un vocabolario e il vocabolario ci consente di comprendere
pienamente il significato della parola. A seconda del settore disciplinato, la parola può avere infatti
accezione, significato, diverso; il significato della parola varia a seconda del contesto. Dobbiamo di
conseguenza utilizzare il vocabolario che riguarda lo specifico settore di riferimento, oppure se non esiste un
settore specifico di riferimento, l’accezione comune della parola. Primo passo è quindi quello di analizzare il
contesto di riferimento, che può appunto essere di vario tipo.
Assume rilievo la connessione tra le parole, cioè la costruzione complessiva che risulta dalla formulazione
della regola di legge. Quando si tratta di connettere le parole e di comprenderne il significato, più il
legislatore è specifico, più il legislatore entra nel dettaglio, più semplice è il compito dell’interprete, almeno
in linea generale. Così come, più è specifica la frase, più è specializzante il termine utilizzato, o i termini
utilizzati, e più facile sarà l’attività dell’interprete che trae la regola. Questo connubio tra parole e contesto
significa che il senso che si deve dare al precetto è un senso che si ricostruisce proprio nella mente
dell’interprete e meno opzioni interpretative si aprono all’interprete, più certa è l’applicazione della legge.
Detto questo, possiamo comprendere a questo punto che per il diritto possa essere a volte un problema
garantire la certezza dell’applicazione delle norme giuridiche. Problema che dovrebbe essere risolto, almeno
in sede giudiziale, dalla Corte di cassazione. Nel nostro ordinamento, l’interpretazione giudiziale non è
un’interpretazione vincolante. Se il giudice statuisce qualcosa, quell’interpretazione non deve essere
necessariamente seguita come se fosse un precetto di legge; non è vincolante. Nel nostro ordinamento c’è un
organo che deve assicurare un’interpretazione uniforme della legge ed è appunto la Corte di cassazione. La
Corte di cassazione è composta da più sezioni, che giudicano in base all’area di competenza; se la sezione
semplice, quindi una delle sezioni della Corte di cassazione, non condivide un principio che è stato espresso
dalle sezioni unite, non può decidere in maniera contrastante rispetto a quello che hanno deciso sullo stesso
problema le sezioni unite. La sezione semplice deve rimettere la sua decisione alle sezioni unite con
un’ordinanza motivata spiegando qual è la ragione per cui non condivide, ma le sezioni unite
tendenzialmente riconfermano il proprio orientamento.
Il problema dell’interpretazione è quindi un problema che coinvolge la certezza, la certezza del diritto, il
problema dell’applicazione certa di una norma. Da un lato c’è la certezza di applicazione certa della norma,
dall’altro c’è l’esigenza e le virtù insite nell’evoluzione dell’applicazione della legge perché cambia la
società, perché cambiano i contesti di riferimento, perché una norma potrebbe avere diverse applicazioni nel
tempo. Con riferimento a questo, è importante sottolineare nuovamente che l’interpretazione della legge
debba essere contestualizzata. L’interpretazione non può infatti non inserirsi in un sistema, non può non
considerare il precetto (la norma) come inserito in un sistema di precetti riguardanti quel settore.
Con riguardo al tempo, la contestualizzazione temporale non può essere ovviata, non si può prescindere da
essa; quindi, quando leggiamo una frase certamente dobbiamo ricostruirla come frase detta in quel periodo.
Per ricostruire il significato della legge si deve utilizzare il vocabolario del tempo in cui essa è stata
formulata. Se si utilizzasse un vocabolario di epoca diversa, si andrebbe oltre il significato della legge, ma
anche oltre l’intenzione del legislatore.
Videolezione 2 – L’interpretazione della legge secondo l’intenzione del legislatore.
Oltre alla necessità di dar peso al significato letterale, all’interpretazione letterale, il legislatore stesso
(secondo l’articolo 12 delle preleggi) dà peso a un altro criterio per ricostruire il senso della legge: si parla in
questo caso di “intenzione del legislatore”. Nel campo dell’interpretazione dobbiamo trovare un senso. Il
legislatore chiede all’interprete di attribuire un senso, “Quello fatto palese dal significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse” e “Quello fatto palese dall’intenzione del legislatore”. Quando analizziamo
il termine “intenzione” dobbiamo stare attenti perché il termine intenzione ci richiama i moventi anche
soggettivi, le motivazioni soggettive di una persona, per esempio: “Che intenzioni hai?”. Con riguardo al
legislatore, non possiamo ritenere che il termine “intenzione” sia riferito a uno stato soggettivo della persona.
Sappiamo infatti che con il termine “legislatore” si indica l’organo a cui è demandata la funzione legislativa,
quindi primariamente il parlamento, o in alcuni casi il governo, per esempio quando si tratta di decreti
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legislativi. Il legislatore è dunque un organo deputato a compiere determinate scelte legislative, ad attuare
determinate politiche legislative tramite una legge, tramite una norma giuridica, che noi chiamiamo appunto
legge. Trattandosi di un organo, il “legislatore” può essere composto da persone, o da una persona, come nel
caso di un ministro.
Si deve scegliere tra i significati del termine “intenzione”, l’accezione che dia risalto al fatto che qui si tratta
di un qualcosa che deve portare a un interpretazione tendenzialmente votata a una certezza del diritto, a una
certezza di applicazione della legge e se dessimo rilievo alle intenzioni soggettive dei soggetti che formulano
una determinata disposizione di legge, certamente il requisito della certezza verrebbe a mancare, poiché
svariate sarebbero le intenzioni soggettive di chi ottiene la promulgazione di una determinata legge, o
comunque l’emanazione di un qualsiasi testo normativo. Ciò significa che il termine “intenzione” deve
essere un qualcosa di oggettivo. L’intenzione del legislatore deve essere intesa come ciò che oggettivamente
si trae come spinta che ha portato a quella determinata legge. Secondo parametri oggettivi si deve ricercare
quali siano state le spinte, le motivazioni, le ragioni, che hanno portato a una determinata legge.
Vediamo dunque cosa si può riscontrare di oggettivo; in alcuni casi si fa riferimento ai lavori preparatori di
una determinata legge, o alle relazioni illustrative che accompagnano determinate leggi. Questi possono
essere di aiuto senza alcun dubbio. Ciò può far comprendere un qualcosa, può aiutare, ma deve essere
semplicemente un supporto. Quando il testo di legge, ciò che si ricava oggettivamente come intenzione del
legislatore dal contesto delle norme di legge, dal contesto delle norme scritte, stride completamente con ciò
che si trova nei lavori preparatori, o con ciò che si trova nelle relazioni illustrative, deve essere sempre data
la prevalenza come punto di riferimento per ricostruire l’intenzione del legislatore, al testo normativo, al
testo di legge, a ciò che si ricostruisce oggettivamente da testo di legge, poiché quello è il testo ufficiale a cui
fare riferimento, quello è il testo la cui ignoranza non scusa, quello è il testo che si presuppone conosciuto,
che vincola i soggetti e dunque è quello da tenere in considerazione, non certo le relazioni illustrative e non
certo i lavori preparatori, che sono appunto solo di supporto. L’intenzione del legislatore, la ricostruzione
delle spinte che hanno portato a quella legge e che sono incardinate nello stesso testo legislativo, va dunque
ricostruita sulla base del testo normativo. Si usa far riferimento, a tal proposito, alla ratio, cioè alla ragione
che sta sotto a una determinata norma, che ha portato all’emanazione di una determinata norma. Si stratta di
una particolare situazione, di una particolare condizione di questa ratio, perché questa ratio si è quella che ha
portato all’emanazione di quel testo, ma si desume dal testo stesso. Quindi non è un qualcosa che si trova,
che si colloca temporalmente e logicamente solamente prima del testo di legge, perché se così fosse,
dovremmo dare peso maggiore ai lavori preparatori, peso che invece non può essere dato perché è
fondamentale l’esigenza che l’interprete abbia già nella legge tutti i parametri per poter coglierne il
significato; è la legge ciò di cui il soggetto deve conoscere il contenuto. Allora la ratio non si colloca in un
momento precedente anche se riguarda la ricostruzione di un momento che consideriamo cronologicamente
precedente, ma viene ricostruita sulla base del testo di legge. La ratio si ricava dalla lettura della norma, si
ricava leggendo la norma, ma è contemporaneamente quello che noi riferiamo alla ragione che ha portato a
quella norma. Quindi la ricaviamo in un momento cronologicamente successivo rispetto al testo di legge, ma
riguarda un momento precedente, il momento di emanazione del testo, la spinta che ha portato al testo di
legge, ma oggettivata nello stesso. C’è questo connubio tra il tempo precedente alla legge e il tempo
successivo alla legge, nel caso dell’interpretazione, il cui frutto è la ratio: la ratio si colloca nella legge, si
ricava dalla legge, quindi dopo la sua emanazione, e ci fa considerare la legge come frutto di spinte
precedenti, che abbiamo ricostruito però successivamente e che si possono ricostruire solo successivamente
in quanto il parametro di riferimento deve essere il testo normativo.
L’intenzione del legislatore ci serve per affinare l’interpretazione perché l’interpretazione letterale a volte
può portare a dei problemi, a delle incoerenze, o a dalle imprecisioni. Ci affidiamo dunque alla ratio che
ricaviamo dal contesto normativo. Considerato che, a determinati significati letterali si possano attribuire più
sensi, più accezioni, il contesto normativo di riferimento, la ratio, l’intenzione quindi del legislatore, ci
permette di scegliere tra i vari significati letterali.

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L’intenzione del legislatore serve anche per la cosiddetta interpretazione estensiva, di tipo correttivo. Questo
perché un vocabolo potrebbe avere un significato particolarmente circoscritto e il legislatore potrebbe aver
utilizzato quel vocabolo in maniera sbagliata, in maniera non appropriata rispetto al contesto e lo potrebbe
aver usato per errore nell’esprimersi. Magari il legislatore voleva designare un qualcosa di più ampia portata,
ma nella sua espressione letterale, esso si è riferito a qualcosa di più circoscritto. L’intenzione del legislatore
è chiara dal contesto normativo, dalla ratio, e quindi è anche chiaro che il termine in questione debba essere
sostituito con un altro di raggio più ampio. Questo tipo di interpretazione è estensiva, in base all’intenzione
del legislatore. La norma che si ricava è quella che il legislatore ha inteso emanare e da qui appunto il
termine “interpretazione”.
L’interpretazione restrittiva è una cosa del tutto diversa perché, mentre con l’interpretazione estensiva si dà
un significato più ampio alla parola, con l’interpretazione restrittiva si dà un significato più ristretto a una
determinata parola, che in astratto avrebbe più significati a livello letterale.
Videolezione 3 – L’analogia.
Mentre l’interpretazione serve a ricostruire il significato di uno scritto, in questo caso di un testo di legge,
l’analogia serve a colmare un vuoto di disciplina. Quando il legislatore non ha disposto una disciplina per
una determinata fattispecie, per un determinato conflitto di interessi, siccome non è possibile nel nostro
ordinamento rintracciare una regola per ogni tipo di fattispecie, esiste un cosiddetto criterio di chiusura, che è
proprio l’analogia, che consente di colmare le lacune di disciplina del nostro ordinamento, tramite un’attività
di creazione, di costruzione, di una disciplina ad oc, sulla base di determinati parametri e con determinati
presupposti. Quando si opera per analogia manca la norma di riferimento, dunque, si va a colmare una lacuna
normativa. Non è possibile nel nostro ordinamento che una fattispecie non sia considerata disciplinata, o
disciplinabile, non è possibile che il giudice deneghi giustizia, o rifiuti una sentenza. Il giudice deve sempre
applicare una norma alla fattispecie concreta che si trova ad analizzare e quando manca una norma, deve
effettuare l’operazione di “analogia”. Questo è riportato nel secondo comma dell’articolo 12, che stabilisce i
presupposti per poter creare una norma tramite procedimento analogico:
1) Deve mancare una disposizione, deve mancare una disciplina, deve mancare una norma. Il
legislatore non deve aver avuto l’intenzione di dettare una regola per quel determinato caso, né
espressamente, né implicitamente. A volte la disciplina negativa, si ricava dall’assenza di specifica
disposizione positiva; in questo caso, con il silenzio, con il “non disciplinare”, non manca la norma,
la norma c’è. Il legislatore ha disciplinato, ma senza scrivere. Questo è uno dei casi, ma vi sono tanti
altri casi in cui si ha lo stesso risultato. È dunque importantissimo analizzare la norma, perché
dall’analisi della norma si deve desumere se effettivamente manca la disciplina, o se la disciplina
esiste. Solo quando la mancanza di scritto, la mancanza di un testo specifico su una determinata
fattispecie è mancanza di norma, allora possiamo dire acquisito il primo elemento perché si possa
andare a far operare l’analogia; in mancanza, l’analogia è preclusa.

2) Si deve andare a trovare una norma che regoli un caso simile, o una materia analoga. Questo
significa che bisogna rintracciare un conflitto di interessi dello stesso tipo di quello che è oggetto
della fattispecie per cui manca la precisa disposizione normativa, la precisa norma di legge. E’
fondamentale, anche in questo caso la conoscenza della norma, in modo da poter tener fede alla
legge e quindi poterla applicare anche analogicamente quando manchi una disciplina. In mancanza
di conoscenza delle norme, conoscenza necessaria all’applicazione dell’analogia, si utilizzano criteri
subordinati rispetto all’analogia, che comportano una maggiore autonomia, che non era quella
prevista dal legislatore. Quindi è importantissimo conoscere le norme, il sistema dell’ordinamento,
per poter utilizzare appieno, in maniera compiuta, l’analogia.

3) Non deve trattarsi di norma penale, né eccezionale. Con riguardo all’inflizione di una pena, ogni
soggetto deve essere in grado di sapere in anticipo se la sua condotta è passibile di punizione penale,
di sanzione penale, e lo deve sapere in modo certo. Non si può ricostruire per analogia una norma
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penale. La pena deve essere indicata in relazione a comportamenti esattamente specificati da una
norma entrata in vigore prima del fatto commesso. La norma penale non è dunque una norma
applicabile per analogia. Cosa si intende invece per norma eccezionale? Si deve capire quando il
legislatore ha voluto escludere un’applicazione analogica, quando ha voluto evitare che quella norma
venisse applicata oltre i casi considerati. Quindi è norma eccezionale, quella norma che il legislatore
stesso ha inteso applicare solamente a quei casi specificamente indicati dalla norma stessa, dalla
legge stessa. Si deve dunque, anche in questo caso, ricostruire l’intenzione del legislatore; si deve
capire se il legislatore ha inteso escludere l’applicazione di quella norma ad altri casi.
Argomento 3
Videolezione 1 – I diritti fondamentali.
I diritti fondamentali, o diritti della personalità, sono quei diritti che tutelano la persona nei suoi valori
essenziali. Per capire quanto si sia evoluto il nostro ordinamento giuridico rispetto al 1942, è sufficiente
sfogliare il Codice civile; Codice civile che non contiene una parte dedicata ai diritti della personalità. Allo
stesso modo, se si sfogliano i manuali di istituzioni di diritto privato dell’epoca, si può notare come questi
manuali non trattassero dei diritti della personalità, ma trattassero singolarmente di qualcuno di questi diritti.
I diritti della personalità sono previsti, invece, sul piano normativo, dalla nostra Costituzione e questo sta a
significare l’importanza che la carta costituzionale assume nell’ambito del diritto privato. Nella nostra
Costituzione i diritti della personalità sono infatti indicati come diritti inviolabili, questo per sottolineare il
solenne impegno dello Stato a garanzia di questi diritti e per sottolineare che il riconoscimento di questi
diritti sia una scelta di fondo del nostro ordinamento. Il nostro ordinamento è il fine ultimo delle norme
giuridiche.
I diritti dell’uomo hanno trovato in passato la loro fede in alcuni documenti importanti quali la Costituzione
federale americana del 1787 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamata in Francia a
seguito della rivoluzione nel 1789. In tempi più recenti, i diritti della personalità hanno trovato fede in
convenzioni internazionali, tra queste va ricordata in primo luogo la Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo proclamata dalle Nazioni Unite nel 1948 e, ancora, la Convenzione di Roma sulla protezione dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (4 Novembre 1950). Successivamente, sempre in sede
internazionale, si ha avuto il Trattato istitutivo dell’Unione Europea e da ultimo, la carta di Nizza, ovvero la
carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (7 dicembre 2000).
La norma costituzionale che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, si pone come clausola
generale di tutela della persona umana nei suoi valori essenziali. Quindi, non abbiamo nella costituzione
un’elencazione dei diritti fondamentali, ma abbiamo questa clausola generale, che sta a dire che comunque la
dignità umana deve essere tutelata nei suoi aspetti e momenti essenziali secondo le esigenze avvertite dalla
società del tempo. Questo vuol dire che i diritti fondamentali dell’uomo hanno trovato anch’essi una loro
evoluzione e questa formula aperta della Costituzione sta a indicare che i diritti fondamentali non sono
solamente quelli che di volta in volta sono espressi nella carta costituzionale, ma sono tutti quei diritti che,
secondo l’evoluzione dell’ordinamento, devono trovare riconoscimento e tutela anche in mancanza di una
previsione. Questa formula aperta non significa che il diritto della personalità sia uno solo, diciamo piuttosto
che, pur essendo unico il fondamento del riconoscimento dei diritti della personalità, dobbiamo tener
presente che vi è una pluralità dei diritti fondamentali; questo perché gli interessi fondamentali dell’uomo
sono diversi e richiedono, di volta in volta, una diversa disciplina.
Possiamo identificare due principali gruppi di diritti della personalità: il primo gruppo è rappresentato dai
diritti di rispetto della personalità umana (diritti che conferiscono alla persona un potere di godimento della
sua personalità e una pretesa a una non ingerenza da parte di terzi); il secondo gruppo è rappresentato dai
diritti di solidarietà (diritti che tutelano gli interessi della persona e che per realizzarsi, richiedono l’altrui
cooperazione).

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Pur essendo vari i diritti della personalità, possiamo riscontrare dei caratteri comuni e, precisamente, i
caratteri della indisponibilità e della non patrimonialità. I caratteri sono indisponibili perché sono
irrinunziabili e incedibili, anche se una parziale rinunzia può essere tollerata, tollerata se questa rinunzia non
contrasta con l’esigenza fondamentale di dignità della persona, e sono non patrimoniali, in quanto non hanno
un valore economico (questo non esclude che la violazione dei diritti fondamentali possa dar luogo a un
danno patrimoniale). Si ha dunque un risarcimento, senza dover dimostrare di aver subito un danno
patrimoniale. La violazione di qualsiasi diritto della personalità può essere denunziata alla Corte dei diritti
dell’uomo, che ha sede a Strasburgo, purché il ricorrente abbia esaurito i mezzi di tutela disponibili nel suo
ordinamento. Parliamo di diritti dell’uomo, quindi non del cittadino inteso come appartenente a una
determinata comunità statale. Questo vuol dire che una norma posta a tutela della dignità umana debba
ritenersi applicabile a chiunque, a prescindere dalla sua nazionalità, o provenienza. Di conseguenza, le norme
a tutela dei diritti dell’uomo devono essere applicate anche nei confronti degli stranieri che si trovano nel
territorio dello stato, questo a prescindere che abbiano il permesso di soggiorno, o che siano entrati
legalmente, o illegalmente, nel territorio.
Volendo esaminare singolarmente alcuni diritti della personalità, tra i diritti della personalità che possono
essere menzionati, va ricordato in primo luogo il diritto alla vita. Se c’è un bene essenziale della persona,
certamente questo bene è la vita. Non c’è una norma che ci dica esplicitamente che il diritto alla vita sia un
diritto fondamentale della persona, ma possiamo dedurlo dalla Costituzione stessa; possiamo dedurre che
questo diritto sia inviolabile. Questo diritto che tutela il bene primo non dà però luogo al risarcimento del
danno, almeno per quanto riguarda le vittime, cioè di coloro che perdono la vita a seguito di una lesione di
un terzo; perdendo la vita si perde infatti anche la capacità giuridica.
Un altro bene primario accanto alla vita è quello della salute, ovvero il bene dell’integrità psico-fisica della
persona. Questo bene richiede che tutti rispettino l’integrità psico-fisica che abbiamo e quando diciamo tutti,
intendiamo in primo luogo lo Stato. Questo vuol dire che non è possibile, senza violare la Costituzione,
emanare leggi che richiedano trattamenti tali da compromettere le condizioni psico-fisiche dell’individuo. Il
diritto alla salute è un diritto di solidarietà in quanto non solo abbiamo il diritto di essere rispettati nella
nostra integrità psico-fisica, ma abbiamo anche il diritto di essere assistiti.
Altro bene della persona che consideriamo di primaria importanza è quello dell’integrità morale; ogni
persona avverte l’esigenza che sia tutelato il suo onore e il suo decoro come singolo e come membro di una
comunità. Non esiste una norma che tuteli questo diritto, ma questo diritto rientra tradizionalmente tra i
diritti fondamentali dell’uomo. La lesione dell’onore può dar luogo al risarcimento del danno. Una persona
che, per esempio, ritiene di essere stata “disonorata” da un articolo di giornale, può richiedere il risarcimento
di questo danno.
Procedendo nell’esame dei diritti fondamentali della persona, ci occupiamo ora dei diritti di libertà. I diritti
di libertà appartengono alla tradizione dei diritti dell’uomo. L’esigenza di affermare i diritti della persona si è
infatti manifestata proprio come tutela delle libertà, libertà che sono state infatti proclamate nelle moderne
dichiarazioni a tutela dei diritti dell’uomo e anche nella Costituzione stessa. Nella nostra Costituzione
possiamo infatti trovare: il diritto “Alla libertà personale” (diritto ritenuto inviolabile); il diritto di “Libertà
religiosa” (ogni persona ha il diritto di professare la propria religione); Il diritto alla “Libertà di
manifestazione e di comunicazione del pensiero” (es. la libertà di stampa); il diritto alla “Libertà del lavoro”
(da una parte il lavoro è visto come dovere civico della persona, dall’altra come espressione della sua libertà
in quanto la persona deve poter scegliere liberamente l’attività lavorativa che intende svolgere); il diritto alla
“Libertà di associazione” (i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente e senza autorizzazione per fini
che non sono vietati ai singoli dalla legge penale – sono vietate le associazioni segrete); il diritto alla
“Libertà di sciopero” (il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano - come tutte le
libertà anche la libertà di sciopero non deve manifestarsi come una menomazione dei diritti altrui).
Un altro diritto che fa parte dei diritti fondamentali della persona è il “Diritto al segreto”, che tutela
l’interesse della persona in modo che i fatti della vita privata non vengano abusivamente conosciuti, o
comunicati a terzi. Questo diritto è espressamente menzionato nella nostra Costituzione. L’articolo 15 infatti,
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oltre a proclamare la libertà di corrispondenza, proclama anche la segretezza della corrispondenza, e di ogni
altra forma di comunicazione, ribadendo che questo diritto rientra tra i diritti inviolabili della persona. La
limitazione può avvenire solo per causa giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge (es. intercettazioni
telefoniche). Sottolineiamo però che questa segretezza non ricopre tutti i fatti della nostra vita, in quanto si
parla di “corrispondenza” e “altre forme di comunicazione”.
Occupandoci sempre dei diritti della personalità, parliamo ora del “Diritto alla riservatezza”. Quando
parliamo di diritto alla riservatezza, parliamo di diritto alla protezione dei dati personali e di diritto al rispetto
della propria vita privata. In tempi relativamente recenti si è infatti iniziata ad avvertire la necessità di
tutelare la persona dalla invadente e ingiustificata curiosità pubblica. L’avvento della tecnologia ha
determinato la possibilità di selezionare e raccogliere un’innumerevole quantità di dati personali. Mediante
l’uso di questa tecnica si è di conseguenza arrivati a una vera e propria schedatura delle persone, con finalità
di controllo e sfruttamento commerciale. E’ stato dunque questo il movente che ha portato a far capire la
necessità di ottenere nuove formule di tutela a fronte di queste innovative forme di invasione della sfera
personale della persona. I dati personali sono ampiamenti intesi, in quanto si tratta di qualsiasi informazione
relativa a persone fisica, o enti giuridici. Il diritto alla riservatezza viene comunemente indicato con il
termine “Privacy”, termine inglese, in quanto si deve alla dottrina nord-americana aver scoperto questo
diritto. Il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla riservatezza sono in qualche modo correlati, in
quanto ci rendiamo conto che la vita privata è minacciata principalmente dall’abusivo trattamento dei dati
personali. Questo vuol dire che il diritto alla protezione dei dati personali è strumento per tutelare anche il
diritto alla privacy della persona. In questo caso la legge dà luogo al risarcimento sia del danno patrimoniale,
che del danno non patrimoniale.
Trattiamo ora il tema del “Diritto all’immagine”; questo diritto tutela l’interesse della persona con il fine che
il suo ritratto non venga diffuso, o esposto pubblicamente. Questo diritto non è indicato espressamente dalla
nostra Costituzione, ma deve comunque ricondursi al novero dei diritti fondamentali dell’uomo in quanto
tutela un aspetto dell’intimità della vita privata, che viene considerato e riconosciuto come un valore
primario della persona. L’intimità della vita privata è infatti violata anche quando il ritratto della persona
venga offerto alla pubblica curiosità. Questa norma ci dice due cose: ci dice innanzitutto che la persona ha
diritto alla tutela della propria persona e ci dice che questa tutela, sul piano privatistico, comporta il divieto
di tutti i terzi di esporre, o pubblicare, il ritratto altrui. Tale diritto incontra dei limiti; innanzitutto, e questo è
ovvio, il primo limite è costituito dalla stessa volontà dell’interessato: se l’interessato autorizza
l’utilizzazione della propria immagine, ovviamente questa utilizzazione è pienamente lecita. Di conseguenza
singole utilizzazioni della propria immagine possono essere in questo caso autorizzate, mentre, una
autorizzazione che in qualche modo conferisca una sorta di monopolio del terzo, arbitro di pubblicare in ogni
momento l’immagine, non è ammissibile; si tradurrebbe in una rinunzia al diritto all’immagine, rinunzia che
dovrebbe considerarsi lesiva della dignità umana. Il diritto all’immagine rimane dunque anche quando
singole autorizzazioni vengano date. L’immagine della quale sia stata consentita la pubblicazione, non deve
essere comunque manipolata, o presentata in maniera tale da pregiudicare gli interessi morali e materiali
dell’interessato. Vi sono casi però in cui la legge consente che l’immagine della persona possa essere
pubblicata lecitamente. Questo, per esempio, avviene quando si tratta di una persona che abbia una carica
che lo esponga alla notorietà (es. politici, attori), o quando l’immagine riguarda fatti verificatisi
pubblicamente, o che abbiano una qualche rilevanza sociale. Se viene violato il diritto all’immagine, il
soggetto leso richiede il risarcimento del danno e questo risarcimento avviene sia che si tratti di danno
patrimoniale, che si tratti di danno non patrimoniale. Questo provvedimento può essere richiesto non solo
dall’interessato, ma anche dal coniuge, o dai figli.
Un interesse essenziale della persona è quello alla propria identità, ossia ad essere identificato, o
riconosciuto, nella sua realtà individuale. L’identità della persona è tutelata dal “Diritto al nome”, dal
“Diritto all’identità sessuale”, dal “Diritto all’identità morale”.
Il nome è l’appellativo che identifica socialmente la persona: esso comprende il cognome, che è l’appellativo
comune al gruppo familiare e il prenome, che è l’appellativo individuale. Non sono consentite aggiunte, o
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modifiche al nome, se non nei casi dalla legge indicati. Il nome risponde all’interesse della persona, ma
risponde anche a un interesse pubblico. La persona ha un interesse a essere identificata socialmente col suo
appellativo, interesse che viene leso quando altri negano, contestano, l’uso del nostro nome, o lo usano
indebitamente, o lo usurpano. Una forma di violazione del diritto al nome è rappresentata dalla
contestazione, che si ha quando un terzo impedisce a una persona l’uso del nome spettante (es. per ragioni
familiari, o nobiliari, si ritiene che una persona abusivamente utilizzi un nome che a giudizio di chi lo
contesta non le spetterebbe – una persona sposata perde il diritto di usare il cognome del marito, ma l’uso di
questo cognome può essere consentito dall’autorità giudiziaria); un’altra forma è costituita dall’uso indebito,
uso indebito vuol dire che un terzo usa indebitamente un nome che di fatto non gli appartiene (es. un terzo si
presenta sotto falso nome) e questo può avvenire anche nel caso in cui, per esempio, per fini commerciali, si
attribuisca il nome di qualcuno a un prodotto. Vi sono casi in cui il mancato rispetto del diritto al nome,
coincide con un mancato rispetto dell’identità morale dell’individuo; questo avviene per esempio quando una
persona viene menzionata in un romanzo e vengono attribuiti a tale persona anche i fatti riportati nello
stesso. La persona lesa può richiedere in questo caso la cessazione del fatto lesivo e richiedere che
l’usurpatore venga condannato a pubblicare mediante la stampa, secondo le modalità indicate dall’autorità
giudiziaria, che si sia trattato di un’usurpazione. Anche in questo caso chiunque abbia tutela del nome, per
esempio un familiare, può intervenire denunciando il fatto e richiedendo il risarcimento del danno. Parlando
del diritto al nome, un accenno va necessariamente fatto allo “pseudonimo”. Lo pseudonimo è un nome
diverso da quello spettante per legge, che la persona usa in determinate attività letterarie, o artistiche. Lo
pseudonimo può raggiungere l’importanza del nome, un’importanza addirittura superiore a quella del nome
proprio, assolvendo la funzione di identificare la persona in un determinato contesto, ma anche nella
generalità dei rapporti (es. ci sono degli attori di teatro che sono esclusivamente conosciuti con il loro nome
d’arte). Esiste dunque una tutela dello pseudonimo da parte della Costituzioni equivalente a quella relativa al
nome.
Il diritto al nome è un diritto di antica tradizione, diversamente, quando parliamo di diritto all’identità
sessuale, ci troviamo di fronte a una vera e propria novità. Si tratta di una novità in quanto in passato, fino a
non molto tempo fa, il soggetto che avesse riscontrato un’identità sessuale diversa da quella ufficialmente
dichiarata e accertata, non poteva far valere questo suo interesse alla verità della propria identità sessuale. Il
diritto al riconoscimento del proprio sesso è sicuramente un diritto che tutela un interesse essenziale della
persona in quanto una persona, nell’ambiente sociale, è identificata innanzitutto in ragione del proprio sesso,
questo anche se siamo giunti a riconoscere che l’appartenenza all’uno, o l’altro sesso non comporti
discriminazioni giuridiche. C’è dunque un’esigenza della persona a che il suo sesso sia quello corrispondente
alla realtà. Questo comporta che l’accertamento del sesso al momento della nascita, non sia un accertamento
falso, in quanto al momento della nascita il soggetto possiede i caratteri propri di un determinato sesso.
Questi caratteri però, nel corso della propria crescita, possono variare a seguito della rivelazione della
persona di una sua morale identità sessuale, che non corrisponde a quell’accertamento. A questo proposito,
una legge prevede che il tribunale possa autorizzare il trattamento medico-chirurgo della persona affinché i
suoi caratteri somatici siano adeguati ai suoi caratteri sessuali. A seguito dell’applicazione di questa legge, le
persone possono dunque cambiare il loro sesso; in realtà si tratta dell’accertamento di un sesso che queste
persone avevano già sin dall’origine, ma che non si era manifestato in una prima fase evolutiva della loro
vita. Di conseguenza, si tratta piuttosto di un accertamento della verità del sesso della persona. Ovviamente il
cambio del sesso, secondo la legge, consente anche il cambio del nome, nome che corrisponderà alla nuova
identità sessuale dell’individuo.
Il diritto all’identità morale della persona prevede il diritto della persona a non vedere alterata la verità della
propria vita e delle proprie idee. La nostra Costituzione ha tutelato il diritto della persona a non essere
manipolata da terzi attraverso la divulgazione di fatti, o idee distorsive. Questa lesione dell’identità morale
non prescinde dal carattere ingiurioso che può avere la divulgazione falsa, o distorsiva. Il diritto all’identità
morale, che tutela la verità dell’immagine della persona, si distingue infatti rispetto al diritto all’integrità
morale, che tutela il bene dell’onore e del decoro.

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Abbiamo parlato fino ad ora di diritti di rispetto della persona umana, cioè di diritti che comportano la non
ingerenza di terzi, ma dobbiamo anche prendere atto del fatto che l’ambito dei diritti della personalità si è
esteso oltre questa sfera per comprendere i diritti di solidarietà, cioè i diritti che reclamano non solamente la
non ingerenza dei terzi, ma al contrario, un’ingerenza di terzi in termini di aiuto della persona. Questo
momento solidaristico l’abbiamo riscontrato nell’ambito del diritto alla salute. Oltre il diritto alla salute, tra i
diritti di solidarietà, possiamo riscontrare anche il diritto all’eguaglianza, cioè il diritto della persona a non
subire ingiuste discriminazioni giuridiche e, in particolare, discriminazioni basate sul sesso, la razza, la
lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali. Questo è un diritto che la nostra
Costituzione ha affermato innanzitutto nei confronti dello Stato e questo si spiega perché purtroppo tramite
l’esperienza della dittatura fascista, noi abbiamo vissuto dei momenti storici in cui la discriminazione era
legalizzata. Lo Stato non può ai giorni d’oggi né emanare leggi che autorizzino la discriminazione, né usare
esso stesso una discriminazione nei propri rapporti. Se una legge contenesse una disposizione tale da violare
il principio di eguaglianza, essa sarebbe ritenuta incostituzionale da parte della Corte costituzionale. Il
divieto di discriminazioni razziali è stato enunciato da una direttiva comunitaria, che prevede che la persona
sia tutelata anche rispetto ai terzi e questa tutela rispetto ai terzi è una tutela che si estende anche ai rapporti
contrattuali, comportando la denuncia di tutte quelle condizioni contrattuali, o negoziali, che discriminino le
persone in ragione della loro razza.
Tra i diritti di solidarietà fondamentali, va menzionato il diritto alla retribuzione, inteso come diritto di ogni
uomo a una remunerazione che garantisca a sé e alla sua famiglia una vita libera e dignitosa. Il lavoratore ha
diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del suo lavoro e, in ogni caso, sufficiente ad
assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Questa disposizione della nostra
Costituzione è di particolare importanza perché mentre per latri diritti si è dubitato se essi trovassero
applicazione nei rapporti tra i privati, con riguardo a questo diritto mai nessuno ha dubitato che questo diritto
valesse nei rapporti tra privati senza bisogno di una norma di legge. E’ già la Costituzione che sancisce il
diritto ed è questo un diritto che va rispettato a prescindere da ogni previsione di legge, o di contratto
collettivo, o altro. Questo vuol dire che il lavoratore può reclamare al datore di lavoro una retribuzione
adeguata anche quando il contratto individuale, o il contratto collettivo prevedesse una retribuzione inferiore.
Né il contratto individuale, né il contratto collettivo possono legittimamente fissare retribuzioni che siano al
di sotto della soglia costituzionale.
Concludendo questa rassegna dei diritti della personalità, specifichiamo che questa rassegna non sia
esaustiva. Esistono molteplici altri diritti e molteplici settori in cui con il tempo sono emersi nuovi diritti
della personalità. Occorre ripetere che non si abbia un elenco tassativo dei diritti della personalità, ma
piuttosto un principio fondamentale, che è il principio che proclama la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo,
consentendo di identificare di volta in volta quei diritti che la nostra società riconosce come diritti inviolabili
in considerazione del riconoscimento dell’essenzialità dell’interesse tutelato.
Videolezione 2 – Evoluzione storica del diritto alla salute.
La prima legge che si occupa della tutela della salute è la legge 20 marzo 1865 n. 2248 il cui allegato C
contemplava in via riflessa la tutela della salute perché, in realtà, l’obiettivo principale inizialmente nell’800
era l’obiettivo di tutela dell’ordine pubblico. Si tutelava dunque la salute come strumento affinché si potesse
garantire l’ordine pubblico le competenze relative alla tutela della salute, erano demandate al ministero
dell’interno e, in subordine, ai prefetti e ai sindaci.
La seconda legge è stata la legge emanata nel 21 dicembre 1888, che si occupava della sanità pubblica e, in
particolare, dell’igiene della sanità pubblica. Questa legge istituisce il Consiglio superiore di sanità, che ha
delle funzioni consultive per la tutela della sanità, sempre vista nell’ottica della tutela dell’ordine pubblico,
tant’è che viene istituita la Direzione generale della sanità pubblica proprio presso il Ministero dell’interno.
Vengono istituiti anche degli uffici sanitari locali, che dipendono sempre gerarchicamente dal Ministero,
come quelli del medico provinciale, o quelli del veterinario provinciale, posti sotto le direttive dei prefetti,
del Ministero degli interni e anche degli uffici sanitari comunali. La legge del 1888 ha un regolamento di
esecuzione, che è il primo a disciplinare le professioni sanitarie. A questo punto, l’intera materia viene
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coordinata all’interno di un testo unico, quindi di un unico testo che racchiudeva tutte le norme in materia
sanitaria (1° agosto 1907). Un nuovo testo unico si ebbe poi nel 1934 e fu il testo operante fino all’istituzione
del Sistema Sanitario Nazionale del 1978 (alcune norme sono ancora oggi operanti). Il testo unico del ’34
manifesta come sia ancora stretto il legame con quella che noi definiamo tutela della salute e quello che
allora era considerato l’obiettivo primario, cioè la tutela dell’ordine pubblico. Si disciplina infatti in questo
testo unico, in via primaria, oltre alle professioni sanitarie, per esempio, l’igiene del suolo e delle abitazioni,
dell’acqua potabile e degli oggetti di uso personale e si vuole contrastare le malattie che possono avere una
rilevanza sociale, come appunto le malattie infettive.
Ci si comincia a distaccare da questa visione legata all’ordine pubblico solo con l’istituzione del Ministero
della sanità che quindi prende il posto, per quanto riguarda la tutela della salute, del Ministero dell’interno,
poiché si riconosce che la tutela della salute debba avere un campo specifico e autonomo di governo e quindi
le competenze del Ministero dell’interno passano al Ministero della sanità istituito con legge 13 marzo 1958.
Resta il Consiglio superiore di sanità (con compiti consultivi) e resta l’Istituto superiore di Sanità (con
compiti tecnici) e sono dipendenti del Ministero gli uffici del medico provinciale, gli uffici del veterinario
provinciale, gli uffici sanitari comunali e gli uffici sanitari speciali di confine, di porto e di aeroporto.
Nel 1968, si ha la vera riforma ospedaliera, nascono gli ospedali. La legge sancisce l’ordinamento interno dei
servizi ospedalieri, delle cliniche e lo stato giuridico del personale ospedaliero. Gli enti ospedalieri venivano
suddivisi in due grandi categorie: ospedale generale e l’ospedale specializzante. Con l’istituzione degli enti
ospedalieri ci si comincia a distaccare dal precedente regime in cui si vedeva la salute come un qualcosa che
riguardasse l’assistenza volontaristica e si passa a un servizio pubblico di assistenza offerto a tutti.
Nell’ottica del legislatore del 1968 c’è l’intenzione di decentrare verso le regioni (per non accentrare nello
Stato) le competenze relative alla nascita degli enti ospedalieri e alla loro gestione. Epocale è la riforma del
1978, che istituisce il SSN per superare il frammentato sistema in cui operavano i vecchi enti mutualistici,
senza alcun coordinamento fra di loro. Con questa legge emerge un vero e proprio diritto soggettivo,
personale, di ogni cittadino, o individuo alla tutela della propria salute. La tutela della salute viene ora
considerata come un servizio erogato dal SSN, quindi si ha un’unica istituzione centrale, che viene dislocata
in unità sanitarie locali, che hanno circoscrizione coincidente con il territorio del comune. I principi su cui si
fonda questa nuova organizzazione sanitaria sono:
1) Universalità (la tutela viene garantita a tutti)
2) Unicità del soggetto che eroga i servizi sanitari
3) Uguaglianza (tutti hanno il diritto alla tutela sanitaria)
4) Globalità (l’assistenza sanitaria si presta tramite tutto il SSN – sinergia tra le varie strutture)
5) Socialità (la tutela della salute non è semplicemente la cura di un soggetto dalla patologia, ma anche
la prevenzione sociale – integrazione di interventi sanitari e servizi sociali)
Con rapporto a questi principi, la legge stabilisce nel 1999 degli standard di qualificazione, strutturali,
tecnologici e organizzativi minimi, che devono essere presenti in tutte le strutture (private, o pubbliche) e
attribuisce allo Stato il dovere di rispettare i livelli essenziali di assistenza minima (LEA), che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale. A questo proposito, l’articolo 117 della Costituzione del 2001
dichiara l’esclusività da parte dello Stato di legislazione in materia di determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
Videolezione 3 – La protezione dei dati personali (1).
La protezione dei dati personali diventa diritto solo di recente, in passato si faceva fatica a pensare che vi
fosse bisogno di proteggere i propri dati personali. L’avvento dell’informatica e dell’enorme potenzialità
delle banche dati ha condotto alla necessità di evitare che queste banche dati potessero essere usate in
maniera abnorme, facendo un abuso tale da ledere la sfera personale del soggetto.
Prima del 1996, a livello legislativo mancavano norme in Italia a tutela della sfera personale del soggetto,
della riservatezza. Non per questo però la giurisprudenza non ammetteva una certa tutela, in quanto si era già

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trovata in alcuni casi a dover tutelare la riservatezza dell’individuo. A partire dagli anni ’70, ’80 vi sono
infatti stati dei movimenti dottrinali e giurisprudenziali volti a dare un certo diritto alla riservatezza e alla
tutela della sfera personale. Si pensi per esempio al caso in cui l’immagine di alcune persone sia stata
pubblicizzata come immagine volta a far credere nel pubblico che queste persone avessero una determinata
linea politica, che queste persone di fatto non possedevano. Non esistevano a quell’epoca norme specifiche,
ma comunque la giurisprudenza ha cercato di ricostruire una certa tutela nei confronti di queste persone; in
che modo? Applicando per analogia delle regole tratte da altre norme riguardanti sempre la sfera personale.
Primo passo della giurisprudenza fu dunque quello di capire se il diritto alla riservatezza si potesse evincere
da tali norme e trovò norme forti all’interno della stessa carta costituzionale. Quando si tratta di ritagliare la
fisionomia di un nuovo diritto, il primo articolo al quale si fa riferimento è l’articolo 2, che ha come
presupposto che i diritti inviolabili dell’uomo siano indicati in altre norme. Questo significa che non è
l’articolo 2 a dar fonte ai diritti inviolabili, ma semplicemente esso dichiara che, se esistono diritti inviolabili
che è possibile trarre da altre norme, la Repubblica li riconosce e li garantisce, ma il singolo cittadino deve
adempiere ai suoi doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Noi sappiamo secondo l’articolo 12 delle preleggi, che se una determinata fattispecie non è regolata dalle
leggi, il giudice deve creare una norma che la regoli. La tutela a quel diritto va creata per analogia. In questo
caso, per creare la norma, si sono andate a cercare norme che regolassero altri tratti importanti della sfera
personale del soggetto, in particolare: la norma sulla tutela del nome (articolo 7) e la norma sulla tutela
dell’immagine (articolo 10). In questo caso, qualora vengano violati questi diritti, i danni subiti sono danni
tendenzialmente di carattere morale e il risarcimento può concernere anche il danno non patrimoniale.
Videolezione 4 – La protezione dei dati personali (2).
In un primo momento il diritto alla riservatezza era visto come un diritto a non vedere esposti alla pubblica
curiosità i fatti della propria vita privata. Il termine “Privacy” lo si trova, anche se in Italia viene utilizzato
più di recente, già nella letteratura nord-americana della fine dell’800. In seguito, questo diritto si è affermato
anche come diritto della persona alla non ingerenza altrui nei propri dati personali.
La Convenzione di Strasburgo del 28 gennaio 1981 ha preso atto della necessità di tutela dinanzi al
progressivo impiego dei nuovi strumenti informatici, che consentivano e consentono tutt’oggi,
l’archiviazione di enormi quantità di banche dati; archiviazione che comporta la schedatura di una pluralità
di individui. In Italia sul finire del 1996 esce, come conseguenza, la normativa sui dati personali e il
Parlamento nel 2001 ha riorganizzato la materia, dando delega al governo per l’emanazione di un Codice in
materia di protezione dei dati personali. Questo testo unico si può riscontrare tutte le volte che qualcuno ci
chieda di firmare qualcosa e dichiara esplicitamente che chiunque abbia diritto alla protezione dei dati che lo
riguardano. Il Codice contiene delle regole generali di trattamento e tutela dei dati. La riservatezza e il diritto
alla tutela della sfera privata sono diritti che vanno insieme, l’identità personale è ciò che più è legato alla
sfera privata della persona, così come anche i dati personali, che riguardano l’individuo in maniera diretta e
immediata.
Ovviamente, quando si parla di diritto alla riservatezza si deve fare attenzione. Al diritto alla riservatezza si
contrappone infatti il diritto all’accesso agli atti amministrativi, ovvero quel diritto che consente ad altri di
conoscere ed estrarre copia di documenti amministrativi concernenti attività di pubblico interesse, che
interessano un determinato procedimento. Sono comunque contemplate delle casistiche in cui il governo
escluda il diritto all’accesso di questi dati; il governo può prevedere casi di sottrazione di documenti
amministrativi, ad esempio quando questi documenti riguardano la vita privata, o la riservatezza di persone
fisiche, o giuridiche, gruppi, ecc. È certo che si debba operare un bilanciamento tra il diritto a sapere e il
diritto a che non si sappia di sé.
Videolezione 5 – La protezione dei dati personali (3).
I codici di condotta sono collegati al tema del trattamento dei dati personali; essi valgono per tutte le
professioni, sia nel settore pubblico, che nel settore privato. Valgono per esempio per i medici, per gli

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infermieri, per un amministratore di condominio, ecc. Chi ricopre queste, ma anche tante altre professioni, ha
l’onere di applicare delle norme di condotta, norme che traggono spunto dal Codice sul trattamento dei dati
personali, Codice che prevede che il garante (il garante sul trattamento dei dati personali) promuova,
nell’ambito delle categorie interessate e nell’osservanza del principio di rappresentatività (il garante si
riconosce come membro di un determinato ordine, di una determinata associazione), la sottoscrizione di
codici di deontologia e di buona condotta. Egli ne verifica la conformità alle leggi e ai regolamenti, anche
tramite l’osservazione dei soggetti interessati, contribuendo a garantirne la diffusione e il rispetto. Una
norma del codice dice che, perché il trattamento di dati personali sia lecito, questo trattamento deve avvenire
nel rispetto delle disposizioni dei codici deontologici promossi dal garante e pubblicati nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica italiana. È questa una norma che dice sostanzialmente che i codici deontologici
dettano delle disposizioni valide affinché si attui un trattamento dei dati personali lecito e corretto. I codici
deontologici diventano quindi fonte del diritto. Se il codice deontologico contiene disposizioni su come il
professionista deve comportarsi in merito al trattamento dei dati personali, in mancanza di osservanza di tali
norme, il professionista cade nell’illecito. Il Codice è dunque una fonte di legge, fonte di legge però
subordinata alla legge e ai regolamenti, tanto che la norma dice che “Il garante ne verifica la conformità alle
leggi e ai regolamenti”.
Un esempio riguardante le professioni regolamentate può essere quello relativo all’articolo 10, che riguarda
il codice deontologico dei medici: “Il medico deve mantenere il segreto su tutto ciò di cui viene a conoscenza
in ragione della propria attività professionale” (segreto professionale). Se si dovesse violare questo codice, si
ricorrerebbe a un reato di tipo penale, punibile con la reclusione fino a un anno. Il diritto al segreto permane
oltre la vita dell’interessato nel codice deontologico dei medici, che indica che la morte della persona
assistita non esime il medico dall’obbligo del segreto professionale; la violazione del segreto professionale
assume maggiore gravità quando ne possa derivare profitto proprio, o altrui, e conseguente nocumento per la
persona assistita. È ovvio che se c’è una giusta causa prevista dall’ordinamento vigente, o se la legge lo
prevede, il medico possa rilevare quello che in teoria dovrebbe essere coperto dal segreto professionale.
Salvo questi casi, il divieto alla divulgazione dei dati personali permane anche nel caso di sospensione della
professione.
Un esempio riguardante le professioni non regolamentate può essere quello relativo al codice deontologico
applicabile alla professione di “Amministratore di condominio”. Il Codice in questione stabilisce che è
dovere fondamentale mantenere la riservatezza sull’attività prestata e su tutte le informazioni che siano a lui
pervenute nell’ambito dello svolgimento dell’incarico.
Videolezione 6 – Dati personali e rappresentanza (parte 1).
Sappiamo che in ambito sanitario è necessario acquisire il consenso al trattamento sanitario, ma anche al
trattamento dei propri dati personali; consenso che si acquisisce tendenzialmente con dei moduli che si fanno
firmare (si parla di medicina difensiva quando si porta all’attenzione del paziente una serie infinita di esiti,
infausti, che potrebbero essere conseguenza del trattamento). I moduli nel tempo hanno creato svariati
problemi in quanto originariamente erano previsti dei moduli generici, che non specificavano debitamente
quali potessero essere i decorsi rispetto a determinati trattamenti; allora il verificarsi di esiti non
specificamente dettagliati comportava, secondo alcune linee giurisprudenziali, l’obbligo di risarcimento del
danno e dunque, l’inadempimento del medico, che obbligato ad acquisire il consenso del paziente, non aveva
informato bene lo stesso. Il medico ha un’obbligazione di informazione in quanto la legge gli pone
quest’obbligo, quindi nel caso in cui questo non avvenga, o non avvenga in maniera dettagliata, e succeda
qualcosa a cui il paziente non sapeva di andare in contro, il medico viene considerato responsabile dalla
giurisprudenza, giurisprudenza che ha condannato svariate volte i medici per questa ragione.
Il problema è che vi sono dei soggetti che non hanno piena capacità di agire con riguardo alla prestazione del
consenso, nonostante possano essere più o meno consapevoli e quindi nonostante sia più o meno dovuta
anche nei loro confronti una determinata informazione. Tra questi soggetti abbiamo:

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- I minorenni, o minori di 18 anni (essi hanno dei rappresentati legali, che coincidono con i genitori. I
genitori esercitano la responsabilità genitoriale)
- Gli interdetti (coloro ai quali è stata tolta la capacità di agire a seguito di una sentenza per grave
infermità di mente; il soggetto è incapace di agire. Per compiere un atto ha un rappresentante, che è
il tutore.)
- Gli inabilitati (i soggetti che hanno una condizione di capacità di agire ridotta, questa capacità di
agire ridotta viene sempre determinata da un giudice. Il soggetto ha bisogno dell’assistenza, e non
della rappresentanza, del curatore. Il curatore è un soggetto che lo assiste nel compimento di atti di
straordinaria amministrazione)
- I beneficiari di amministrazione di sostegno (si tratta di una misura di sostegno nei confronti del
soggetto bisognoso, che sia modellata sulle sue specifiche esigenze dal giudice. Per il soggetto
bisognoso che abbia bisogno di qualcuno anche per ragioni semplicemente fisiche, viene nominato
un amministratore di sostegno che lo aiuti a compiere gli atti. Il soggetto non deve essere
necessariamente incapace di agire, può aver semplicemente necessità di cure, o appunto assistenza,
in relazione all’adempimento di date mansioni).
Videolezione 7- Dati personali e rappresentanza (parte 2).
Analizziamo ora con riguardo a tutti gli incapaci (minorenni, interdetti, inabilitati, beneficiari di
amministrazione di sostegno), quali rapporti vi siano tra la necessità di curare questi incapaci e la necessità di
acquisire un consenso consapevole al trattamento sanitario e al trattamento dei dati personali. Una
distinzione va fatta tra l’interdetto e l’inabilitato. Se infatti l’interdetto è incapace di agire, l’inabilitato ha
un’incapacità ridotta (es. infermità mentale non grave, alcolista, sordità, cecità). Per quanto riguarda il
beneficiario di amministrazione di sostegno invece, esso è incapace rispetto agli atti che il decreto giudiziale
riserva all’amministratore di sostegno e a quelli che appunto deve compiere con l’assistenza di quest’ultimo.
L’inabilitazione in questo caso rende il soggetto incapace di compiere gli atti di straordinaria
amministrazione, mentre può compiere autonomamente gli atti di ordinaria amministrazione. A seguito di
queste considerazioni possiamo dire che il vero inabilitato è solo quello affetto da infermità mentale
(soggetto interdetto).
Il problema sorge se si raffronta tutto ciò con i codici deontologici, questo perché il codice sul trattamento
dei dati personali indica come fonte del diritto anche i codici deontologici. Il rispetto delle disposizioni
contenute nei codici deontologici costituisce infatti condizione essenziale per considerare lecito e corretto il
trattamento dei dati personali effettuato da soggetti privati e pubblici. Come abbiamo precedentemente detto
però, è importante sottolineare come ciò non possa ad ogni modo consentire ai codici deontologici di
prevedere regole in contrasto con le norme di legge, o con i regolamenti governativi, in quanto si tratta di
fonti di diritto di rango inferiore.
Con riguardo al tema, possiamo riscontrare qualche particolarità, per esempio, in merito al codice
deontologico dei medici già precedentemente menzionato. Il medico si dice acquisisce la titolarità al
trattamento dei dati personali previo consenso informato dell’assistito, o del suo rappresentante legale, ed è
tenuto al rispetto della riservatezza, in particolare dei dati inerenti alla salute e alla vita sessuale. Il
rappresentante legale è quindi ritenuto dal codice deontologico un soggetto al quale il medico si deve
rapportare. Sorge allora un problema; che cosa si intende con il termine “Rappresentante legale”? Se si
utilizzasse il termine in senso tecnico, il medico non dovrebbe rapportarsi secondo il codice deontologico dei
medici, con alcuni soggetti; tra questi, per esempio, il genitore non affidatario, che invece per legge è
ritenuto un soggetto con il quale il medico è tenuto a rapportarsi*. Quindi il rappresentante legale non va
inteso in senso tecnico, ma va inteso come soggetto, che per legge è legittimato ad agire nell’interesse del
paziente nei rapporti con la struttura sanitaria. Di conseguenza, anche il genitore non affidatario deve essere
considerato rientrante; il medico non deve rapportarsi solo con il genitore affidatario, che è il rappresentante
legale, ma si deve rapportare anche con il genitore non affidatario, che ha il potere per legge di avere le
informazioni dal medico. Esiste quindi una sorta di contrasto tra ciò che non è legittimato nei codici
deontologici e ciò che, di fatto, per legge lo è. Se manca un soggetto legittimato e non si tratta di uno stato di
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necessità per cui il medico deve immediatamente effettuare il trattamento sanitario, ci si deve rivolgere al
giudice, che potrebbe, per esempio, nel caso di un minore, nominare un curatore. Questa nomina deve essere
sollecitata in quanto altrimenti si corre il rischio di ritenere legittimo il consenso di persone, che di fatto non
sono legittimate a darlo.
*Art. 330. - Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola
o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio. In caso di
affidamento del minore a uno solo dei genitori, questi, salva diversa disposizione del giudice, ha l'esercizio
esclusivo della responsabilità genitoriale; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo
che non sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per il figlio sono adottate da entrambi i
genitori. Il genitore cui il figlio non è affidato ha il diritto-dovere di vigilare sulla sua istruzione ed
educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al suo
interesse [identica regola è prevista per il caso di divorzio]
Videolezione 8 – Il diritto del minore a crescere nella propria famiglia (parte 1).
Il diritto del minore a crescere nella propria famiglia va inquadrato all’interno del complessivo assetto che
assumono i diritti dei membri della famiglia, delle persone che vivono nella famiglia. Questo assetto ha visto
un’evoluzione che ha portato a una sempre maggiore valorizzazione degli interessi del singolo rispetto alla
famiglia in quanto tale, in sé e per sé. Sostanzialmente, si è assistito a un’evoluzione che ha portato a rendere
sempre più importanti i diritti dei singoli rispetto all’interesse a tenere unita la famiglia. L’evoluzione è
dovuta alla modificazione della realtà, alla nuova impostazione delle relazioni e anche alle norme che hanno
rispecchiato questa evoluzione e che, a volte, l’hanno condizionata. Se prima, al momento di entrata in
vigore della Costituzione, la famiglia veniva vista come un possibile limite alla massima esternazione dei
diritti della persona e quindi si cercava di garantire la famiglia come entità in sé, a volte anche arrecando un
pregiudizio alla libertà del singolo, successivamente questa concezione è cambiata e si è tutelato sempre di
più il diritto del singolo nei confronti del contesto in cui si rapporta. Il divorzio, per esempio, ha sancito una
prima forma di tutela della libertà del singolo di fronte alla famiglia. All’evoluzione sociale ha ovviamente
fatto riflesso l’evoluzione normativa, e viceversa.
Nel 1975 si cominciano a sradicare quelle disuguaglianze fra figli nati tra genitori uniti in matrimonio tra
loro e figli nati da genitori non uniti in matrimonio tra loro, anche se non si sradicano del tutto, e si sradicano
le disuguaglianze tra i coniugi; i coniugi vengono considerati dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 in
situazione di parità tra loro, di uguaglianza. Quindi i diritti dei singoli iniziano ad avere un peso sempre
maggiore anche a danno della famiglia.
Gli articoli della Costituzione che maggiormente rispecchiano questa idea familiare, questa idea di persona
che vive nella famiglia e questi nuovi modelli di famiglia, sono gli articoli 2 e 3 della Costituzione. In questi
articoli ci si è concentrati maggiormente sulla persona, rispetto alla famiglia da tenere integra, da tenere
solida e da tenere unita; ci si è concentrati sui diritti della persona la cui libertà è da ritenere inviolabile. In
particolare, l’articolo 3 è l’articolo che sancisce l’uguaglianza, quindi l’uguaglianza tra le persone senza
distinzione di sesso, di orientamento, e questa uguaglianza porta ad avere pari poteri anche all’interno della
famiglia, pari poteri tra uomo e donna, pari poteri anche a danno dell’unità familiare. Prevale l’idea
dell’uguaglianza rispetto all’idea dell’unità familiare. L’articolo 2 della Costituzione invece riconosce i diritti
inviolabili dell’individuo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si esprime la propria
personalità. Tra queste formazioni sociali possiamo riconoscere la famiglia e i vari modelli di famiglia. I
diritti inviolabili non possono essere limitati anche quando si tratta di tutelare la famiglia; prevale la libertà
della persona.
Questo vale in maniera generale in relazione alla persona, ma in maniera assoluta in relazione ai diritti dei
maggiorenni che vivono in un contesto familiare (per es. riguarda i due coniugi). Con riguardo ai
maggiorenni vale quindi questa preponderanza dei diritti della persona anche a danno della famiglia; con
riguardo al minorenne invece, ciò non vale in maniera assoluta. Infatti, se è vero che, anche per quanto
riguarda il minorenne, si è assistita ad una sempre maggiore valorizzazione della sua persona (il minorenne è
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considerato colui i quali interessi devono essere tutelati primariamente), è anche vero che nel caso del minore
l’evoluzione ha portato a considerare come indissolubile il legame tra i diritti fondamentali del minorenne e
l’inserimento nella famiglia. Con riguardo al minorenne, la famiglia è un diritto fondamentale e i diritti
fondamentali del minorenne sono garantiti nella misura in cui il minorenne sia nella famiglia. La famiglia è
un punto di riferimento che si pone alla base di ogni diritto del minore.
Alcune tappe decisive che hanno portato a valorizzare il legame tra il minore e la famiglia:
- Nel 2001 viene modificata la legge sull’affidamento familiare e l’adozione per dare preminenza al
diritto del minore di crescere nella propria famiglia.
- Nel 2006 è stata emanata la legge sull’affidamento condiviso; prima del 2006 il minore veniva
affidato a uno solo dei genitori
- Nel 2012 avviene la riforma della filiazione, che ha portato a un’affermazione dei principi
sopracitati, principi legati al diritto del minore a crescere nella propria famiglia.
Videolezione 9 – Il diritto del minore a crescere nella propria famiglia (parte 2).
Analizziamo ora in modo specifico la modifica alla legge sull’affidamento familiare e l’adozione, che è
avvenuta nel 2001.
L’evoluzione terminologica è stata il riflesso dell’evoluzione concettuale. La legge del 1983 era denominata
“Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori” ed era denominata così perché si trattava di una
legge diretta a dare un minorenne a delle persone senza figli, o che comunque volevano adottarli. Tramite
questa legge, coloro che avevano il desiderio di adottare, avevano in questo modo la possibilità di trovare
una disciplina per poter ottenere la soddisfazione di questo desiderio di genitorialità. Il punto di riferimento
erano i potenziali adottanti, i soggetti che volevano adottare, e la prospettiva era quella di dare un minorenne
in adozione a chi voleva soddisfare il desiderio di avere dei figli.
Successivamente, l’impostazione viene radicalmente cambiata ed è radicalmente cambiata in corrispondenza
del cambiamento dell’impostazione sociale, che ha visto dare sempre maggior preminenza ai diritti del
minorenne, colui che non poteva essere più considerato come un mero “oggetto” dell’adozione.
L’impostazione viene dunque cambiata e con la legge del 2001 questo cambiamento ha avuto la sua
affermazione normativa. Questa legge cambia addirittura di nome; da “disciplina dell’adozione e
dell’affidamento dei minori”, si passa a un nome del tutto diverso, che fa capire qual è il cambio di
prospettiva: “Diritto del minore a una famiglia”. La prospettiva non è più quella di dare a una coppia un
minore, ma pone il minore al centro di questa normativa; è il minore che ha diritto a crescere in famiglia e,
primariamente, ha il diritto a crescere nella propria famiglia. Se per caso questo diritto per cause impeditive
non può essere effettivo, egli ha comunque diritto a un punto di riferimento familiare di affetto e questo suo
diritto lo porta in altri contesti familiari in cui deve ricevere quell’amore di cui ha bisogno. I contesti
familiari sono quindi volti a dar soddisfazione a un diritto del minore. Non è più il minore dato in adozione,
o in affidamento, a soddisfare un interesse dei genitori, ma è la famiglia che viene assegnata a un minorenne,
che soddisfa il diritto all’amore, a un punto di riferimento familiare, del minore. Il centro diventa il minore.
L’articolo 1 della legge sul “Diritto del minore a una famiglia” è il biglietto da visita della legge stessa; esso
proclama il diritto più importante, il diritto del minore a crescere ed essere educato nell’ambito della propria
famiglia. Il comma 2 di questo articolo pone una specificazione volta a sottolineare quanto sia importante
tutelare il diritto del minore a crescere nella propria famiglia; in particolare, lo specifica precisando che
devono essere rimossi gli eventuali ostacoli materiali che impediscano al minore di crescere ed essere
educato nell’ambito della propria famiglia. Esso dichiara che le condizioni di indigenza dei genitori, o del
genitore esercente la responsabilità genitoriale, non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del
minore alla propria famiglia. Quindi anche se il genitore, o i genitori, si trovano in situazione di povertà,
questo non può essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore ad avere la propria famiglia. A tal fine,
sempre secondo il comma secondo, a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto.

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Tali interventi assumono importanza primaria nell’ottica di questa legge, interventi che sopperiscono ai
bisogni materiali della famiglia. L’indigenza non può portare a “strappare” un minore dalla sua famiglia.
Ancor di più, a specificare questo provvede il terzo comma, che vuole rendere ancora più effettivo il diritto
del minore a crescere nella propria famiglia anche nel caso di mancanza di mezzi materiali della stessa. Il
comma si esprime così: “Lo Stato, le regioni e gli enti locali (i comuni), nell’ambito delle proprie
competenze, sostengono, con idonei interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse
finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio”.
Quindi, se il primo obiettivo della legge è quello di garantire il diritto del minore a crescere ed essere educato
nell’ambito della famiglia di origine, l’obiettivo dello Stato e quello degli enti locali deve essere quello di
sostenere le famiglie con idonei interventi al fine di prevenire l’abbandono (abbandono materiale, o morale).
Gli interventi devono consistere in apporti di tipo materiale che provvedano a compensare questa mancanza
di beni per il mantenimento del minore. Solo quando non è possibile attuare ciò che è previsto dai commi
1,2,3, dell’articolo 1, come estrema ratio, dato che il diritto del minore deve essere sempre garantito, esso
viene garantito con l’applicazione degli istituti dell’adozione e dell’affidamento familiare; nel caso della
temporanea necessità di dare al minore una famiglia per temporanea impossibilità di provvedere al minore
nell’ambito della propria famiglia, allora si provvede con l’affidamento familiare. Nel caso in cui però
l’impossibilità dei genitori possa considerarsi definitiva, allora si provvede con l’adozione. Questo perché
comunque il minore ha diritto a un punto di riferimento affettivo. Lo sradicare il minore dalla propria
famiglia è un distacco che però il minore vive in modo ovviamente drammatico e si deve cercare di evitarlo
in tutti i modi. Si verifica solo in cui gli interventi dimostrino il fallimento dello Stato, o degli enti locali.
Solo quando si denuncia il fallimento delle operazioni avvenute da parte di questi enti, si può arrivare a
sradicare il minore dalla famiglia. Se gli enti hanno fallito nel loro obbligo di garantire al minore la propria
famiglia, allora il minore deve essere sradicato in quanto essa non può dare al minore ciò di cui ha bisogno,
principalmente l’amore. È importante specificare che il “non essere in grado di provvedere”, in questo caso
deve riguardare la mancanza di assistenza morale, anche se il minore si considera abbandonato quando è
privo di assistenza morale e materiale; con riguardo all’assistenza materiale, infatti, non si può mai dire “è
impossibile provvedere” perché le risorse economiche si devono trovare per intervenire. Non si può sottrarre
il minore alla famiglia perché lo Stato, o il comune, non intervengono materialmente; lo si può fare solo
quando manca l’amore, quando manca l’amore nonostante gli interventi sociali volti a progettare una
relazione forte tra il minore e la sua famiglia.
Altra norma che fa capire quanto sia importante per il minore restare nella propria famiglia e che il rapporto
con la propria famiglia sia un tratto essenziale dell’identità personale del minore, è l’articolo 6 della legge sul
diritto del minore alla famiglia. L’articolo 6 è l’articolo che permette agli stessi coniugi che, per esempio,
hanno adottato un bambino, di adottare un fratello del bambino. Costituisce criterio preferenziale ai fini
dell’adozione l’aver già adottato un fratello dell’adottato, o il fare richiesta di adottare più fratelli. Questa
norma porta a dimostrare come, anche nel caso in cui si giunga all’estrema ratio che è l’adozione, al minore
si cerca di garantire che resti un rapporto tra lui e la sua famiglia, tra lui e i suoi fratelli ad esempio. In quel
modo resta legato alle sue origini e gli resta garantita l’identità personale, che è strettamente correlata al
rapporto con la sua famiglia d’origine.
Una norma che invece ci fa capire quanto sia importante l’intervento che viene dato alla famiglia per fare in
modo che il minore resti in famiglia, è una norma che riguarda la situazione in cui il minore è già stato
allontanato dalla famiglia; la norma è l’articolo 80, che prevede, a carico delle regioni, delle misure di
sostegno alle comunità di tipo familiare che hanno minori in affidamento. E’ irragionevole pensare che un
principio previsto dall’articolo 80, che riguarda l’intervento economico a favore degli affidatari, possa
prevalere rispetto al principio previsto dall’articolo 1, che riguarda l’intervento a favore della famiglia
d’origine; è irragionevole pensarlo anche per ragioni di economia processuale e sostanziale, considerata la
necessità di impiego dei servizi sociali, o di giungere all’avvio di un procedimento di adozione. Quindi per
tantissime ragioni, e in particolare quelle economiche, sarebbe fondamentale sovvertire totalmente il sistema

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degli interventi. Piuttosto che foraggiare le comunità di tipo familiare, spendendo tantissimi soldi, sarebbe
importante preliminarmente evitare che si vada all’affidamento, intervenendo sulla famiglia di origine.
Argomento 4
Videolezione 1 – La capacità giuridica.
La capacità giuridica è l’idoneità del soggetto a essere titolare di diritti e obblighi.
L’articolo 1 del Codice civile ci dice che la capacità giuridica si acquista con la nascita, o con la costituzione
(per gli enti). La capacità giuridica si acquista con la nascita e segue l’individuo, o l’ente, per tutta la vita.
Essa si perde solo con la morte, o nel caso dell’ente, con la sua estinzione. Il criterio che riguarda l’acquisto e
la perdita della capacità giuridica è un criterio che non deve essere interpretato in senso rigido, in un senso
che possa compromettere la tutela degli interessi stessi, che la legge ha deciso di tutelare; la norma deve
essere, come sappiamo, sempre interpretata secondo l’intenzione del legislatore. Di volta in volta, il criterio
di acquisto e di perdita della capacità giuridica devono essere messi in relazione con la norma e l’intenzione
del legislatore, che riguarda quella norma relativa all’attribuzione di un determinato diritto della cui titolarità
si tratta. La nozione di capacità giuridica è infatti una nozione sorta al fine di dar tutela agli interessi connessi
con la titolarità di determinati diritti e di determinati obblighi. È questa la ragione per la quale non dobbiamo
applicarla in modo rigido.
L’articolo 1 prosegue al secondo comma dicendo che “I diritti che la legge riconosce a favore del concepito
sono subordinati all’evento della nascita”. L’interrogativo che si pone è il seguente: le norme che si
occupano del concepito riguardano l’attribuzione di diritti direttamente al concepito, oppure i diritti sono
acquisiti solamente quando il soggetto nasce?
In alcuni casi, le norme in materia di successione e di donazione offrono la soluzione a questo problema:
L’articolo 462 del Codice civile ci fa per esempio comprendere come sia capace di succedere anche il
concepito; colui che è concepito, al momento dell’apertura della successione viene definito dalla legge come
“Soggetto capace di succedere”. Addirittura, il terzo comma di questo articolo dice che possono ricevere per
testamento anche i figli di una determinata persona vivente al tempo dell’apertura della successione, anche se
non ancora concepiti. Ovviamente se non saranno mai concepiti, mai si potrà parlare di acquisto di questi
diritti.
Una volta precisato secondo l’articolo 462, che è capace di succedere anche il concepito, l’articolo 643 parla
dell’amministrazione dei beni in caso di eredi nascituri. Questa norma dice “Se è chiamato un concepito,
l’amministrazione dei beni spetta al padre e alla madre. Se invece il soggetto a favore di cui è previsto un
qualcosa in testamento non è concepito (es. “Si lascia qualcosa in testamento ai figli”), in quel caso
l’amministrazione dei beni spetta agli altri coeredi; il soggetto quando nasce ottiene poi quello a cui ha diritto
secondo il testamento. Questo vuol dire che se è chiamato un soggetto nascituro non concepito, l’eredità
viene amministrata normalmente dagli altri eredi, ma nel caso in cui venga a nascere il soggetto che non era
ancora concepito al momento dell’apertura della successione, allora questi potrà acquistare l’eredità. Se non
viene a nascere, resta ovviamente tutto agli eredi, ma qualora fosse chiamato un concepito,
l’amministrazione spetta al padre e alla madre.
Anche sulle donazioni è previsto qualcosa di simile; l’articolo 784 del Codice civile si occupa delle
donazioni fatte ai nascituri e cita “La donazione può essere fatta anche a favore di un concepito, o addirittura
di un mero nascituro, cioè a favore di una determinata persona che sia vivente al tempo della donazione,
benché non ancora concepiti.” Se è già concepito al momento della donazione, i frutti maturati prima della
nascita vanno a favore del concepito; se è fatta a favore di un non concepito, i frutti sono riservati al donante
sino al momento della nascita. Il donante può dare l’amministrazione dei beni anche ai genitori del
concepito. Tutto ciò significa che se la legge prevede l’amministrazione dei beni lasciati al concepito ai
genitori, i genitori agiscono come solitamente agiscono quando si tratta dei beni del figlio minore, cioè come
rappresentanti del figlio. Il rappresentante è qualcuno che in nome e per conto di un altro soggetto agisce, in

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questo caso in nome e per conto del concepito, e “In nome e per conto del concepito” significa che il vero
titolare del diritto è il concepito stesso. Quindi quando il soggetto è concepito lo si può considerare quanto
meno in relazione ai diritti successori e alle donazioni, come soggetto in grado di avere diritti. Se
l’amministrazione spetta ai genitori, è ovvio che il vero titolare è il concepito; l’amministrazione dei genitori
spetta solo in qualità di rappresentanti, ovvero di soggetti che agiscono in nome e per conto del concepito.
Sebbene la legge escluda una capacità giuridica diretta del concepito (l’articolo 1 subordina infatti l’acquisto
dei diritti all’evento della nascita), anche la Corte di Cassazione, oltre questi articoli di legge, ha considerato
sostanzialmente il concepito quale soggetto che acquisisce una certa titolarità di diritti. In realtà non l’ha
voluto dire in maniera esplicita, ne ha parlato come “Oggetto di tutela”, ma sostanzialmente non ha fatto
altro che attribuirgli diritti risarcitori, per esempio, riguardo il diritto di non nascere se non sano. La
Cassazione nel 2012 ha previsto che, se la madre in gravidanza non viene informata correttamente dal
medico della malformazione del feto entro i 3 mesi e quindi non può esercitare il suo diritto all’interruzione
volontaria della gravidanza, il soggetto che poi nasce ha diritto a un risarcimento del danno e può agire nei
confronti del medico. Quindi, anche se la Cassazione non lo dice esplicitamente, il risarcimento avviene
verso colui che è concepito.
In determinate situazioni che riguardano sempre i diritti risarcitori, ma sono connesse alla perdita della vita,
il massimo del danno biologico, il massimo della lesione psico-fisica, in giurisprudenza si afferma che se si
deve risarcire un soggetto per la perdita della vita, il fatto che il soggetto perda la vita, esclude un
risarcimento per perdita della vita. Con la perdita della vita si ha automaticamente la perdita della capacità,
quindi non rientrerebbe nel patrimonio della vittima il diritto al risarcimento del danno. Per evitare di
strumentalizzare la categoria della capacità in modo da porla in contrasto con gli interessi per cui è sorta, il
diritto si deve dunque considerare acquisito prima della cessazione della capacità.
Videolezione 2 – La capacità di agire.
La capacità giuridica va distinta dalla capacità di agire, che è l’idoneità a realizzare (e a ricevere) atti
giuridici validi; il soggetto che è capace di agire è quel soggetto che ha l’idoneità a porre in essere (ma anche
a ricevere) atti giuridici, e a porli in essere validamente. Vedremo infatti che l’incapace può compiere atti
giuridici, ma questi atti giuridici sono invalidi e se ne può ottenere l’annullamento.
L’articolo 2 ci dice quando si acquista la capacità di agire: “Con la maggiore età si acquista la capacità di
compiere tutti gli atti per i quali non si è stabilita un’età diversa” *. La maggiore età è fissata al compimento
del diciottesimo anno di età. Gli enti invece, quando hanno formalizzato tutto ciò che serve per la loro
costituzione, per la possibilità quindi di agire, acquistano questa capacità.
Si può perdere la capacità di agire e, in particolare, la si può perdere in determinate circostanze. La capacità
di agire si perde con quella che viene chiamata “Interdizione”; l’interdizione può essere sia legale, che
giudiziale. L’interdizione legale è quella pena accessoria che si lega a determinate condanne penali gravi, che
comportano l’interdizione rispetto al compimento degli atti, validamente: al soggetto che è stato condannato
deve essere preclusa la possibilità di compiere validamente degli atti che possano comportare altri pregiudizi
per la collettività, o per soggetti specifici. È dunque prevista una pena accessoria, che è appunto
l’interdizione.
Esiste poi l’interdizione giudiziale, che è legata agli strumenti di protezione della persona e riguarda il
soggetto che ha un’infermità di mente talmente grave che non gli permette di curare i propri interessi; egli
perde la capacità di agire. È importante sottolineare che la perdita della capacità di agire, non comporta la
perdita della capacità giuridica, essa permane.
La capacità di agire può essere anche limitata con altri strumenti sempre rivolti alla protezione della persona
che ha un bisogno di protezione e la limitazione può essere una limitazione generalizzata agli atti di
straordinaria amministrazione per i quali si ritiene necessario affiancare un curatore; in questo caso si ha
l’inabilitazione - per i soggetti che hanno una necessità secondo la legge di un assistente che li affianchi nel

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compimento degli atti di straordinaria amministrazione. Gli atti di ordinaria amministrazione restano in capo
all’inabilitato stesso il quale non perde la capacità di agire del tutto.
Si limita la capacità di agire anche con un istituto introdotto nel 2004, l’amministrazione di sostegno: istituto
di tutela delle persone bisognose. La sua introduzione ha apportato una vera e propria rivoluzione all’interno
del sistema di protezione della persona in quanto è uno strumento che si può adattare in maniera specifica
alle esigenze concrete della persona interessata.
Gli istituti connessi all’incapacità giudiziale prima del 2004 erano intesi come una “menomazione”, non
come un supporto, o un aiuto. La terminologia utilizzata nel 2004 ci fa intendere come poi da questo
momento in poi cambi invece tutto; ora si parla di strumenti di protezione della persona, non si parla di
“incapacità” strettamente intesa quale menomazione della capacità, o quale eliminazione della capacità. Il
soggetto non è più un “menomato”, è un soggetto che viene protetto. Viene modificata la terminologia
perché viene modificata la ratio degli istituti. Ciò comporta una modifica della cultura. Sicuramente, grazie
anche allo studio di giuristi che si sono occupati di questi temi e hanno posto in primo piano le esigenze di
protezione della persona, la cultura giuridica e la cultura in generale rispetto al soggetto che ha bisogno di
una misura che limiti quella sua capacità, è cambiata rispetto a quello che si aveva precedentemente con
l’introduzione del Codice civile. Questo cambiamento culturale generale è stato affiancato e supportato da
un’evoluzione della cultura giuridica in modo speciale, che appunto ha voluto valorizzare gli interessi della
persona. L’evoluzione culturale e normativa trova immediata corrispondenza nella modifica della
terminologia. Si parlava prima di soggetto che doveva essere interdetto, o che doveva essere inabilitato,
“Doveva”. Come se la protezione fosse degli altri che dovevano essere protetti da un soggetto interdetto;
quindi, si doveva interdire la persona, si doveva togliere la capacità. Ora la terminologia è cambiata, il
soggetto può essere interdetto, può essere protetto, può essere inabilitato quando, e lo dice la normativa, ciò
serve per la cura dei suoi interessi. Gli istituti sono finalizzati alla protezione dei suoi interessi e si usa il
termine “Protezione”. Tra l’altro, il soggetto nei cui confronti si dispone questo nuovo istituto, che è
l’amministrazione di sostegno, viene chiamato “Beneficiario”. Non viene considerato come un soggetto
menomato di qualcosa, ma un soggetto che ottiene qualcosa, appunto beneficiario. Egli beneficia di un
istituto che è a suo favore, non è per la sua emarginazione. Il beneficiario è dunque la prima persona da
tenere in considerazione e ha una dignità, non viene spogliato della sua dignità come avveniva
precedentemente con le misure totalizzanti, che sono rimaste, ma sono state attenuate e vengono applicate
solo in via residuale; la misura ormai tipica è quella dell’amministrazione di sostegno.
Con riguardo al minore, come abbiamo già precedentemente detto, la capacità di agire si acquista con la
maggiore età e dunque, prima dell’acquisto della maggiore età, il minorenne ha una protezione assicurata dai
genitori, o nelle situazioni peggiori dal tutore. L’articolo 320 cita: “I genitori congiuntamente, o quello di
essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, rappresentano i figli nati e nascituri, fino alla
maggiore età o all'emancipazione, in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni. Gli atti di ordinaria
amministrazione, esclusi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento,
possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore.” - Per quanto riguarda l’emancipazione, è
importante specificare che essa comporta sostanzialmente di poter compiere degli atti, almeno di ordinaria
amministrazione, e che ormai si ha quando il minore, che non ha compiuto i 18 anni, ma deve aver compiuto
almeno 16 anni, viene autorizzato a contrarre matrimonio.
*A parte questa normativa, la legge prevede che per alcuni atti sia prevista invece una particolare età diversa
da quella prevista dall’articolo 2 in linea generale (per es. 16 anni per lavorare).
Videolezione 3 – L’interdizione.
L’interdizione è lo stato, giudizialmente dichiarato, di incapacità di agire in cui versa il maggiorenne che, a
causa di abituale infermità mentale, non risulti in grado di provvedere ai propri interessi.
Si tratta dunque di uno status nel quale entra una persona maggiorenne, che ha un’abituale infermità mentale
talmente grave per la quale si è andati in giudizio e il giudice ha ritenuto che la persona non fosse in grado di

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provvedere ai propri interessi. Per questa ragione, il giudice ha dichiarato l’interdizione. C’è un legame
stretto tra l’incapacità di provvedere ai propri interessi e l’infermità mentale, un’infermità mentale di
carattere non transitorio e davvero grave, così grave che esclude la possibilità del soggetto di provvedere
appunto ai propri interessi.
L’articolo 414 del Codice civile dichiara che: “Il maggiore di età e il minore emancipato i quali si trovino in
condizioni di abituale infermità di mente, che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono
interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione. Il soggetto può (e non deve)
essere interdetto ove ciò sia necessario per una sua adeguata protezione”. L’interdizione è una misura
totalizzante che esclude in toto la possibilità di compiere atti giuridici, è una capitis deminutio; l’interdetto
non può compiere atti giuridici dal momento in cui viene dichiarato tale dal giudice. Questo comporta un
isolamento della persona, tant’è che si collega agli effetti dell’interdizione giudiziale anche la cosiddetta
interdizione legale, che è quello stato di impossibilità di compiere atti giuridici, che è connesso a una
condanna importante. L’interdetto ha una tale, totalizzante, incapacità di agire, che gli impedisce di compiere
qualsiasi tipo di atto, né di ordinaria, né di straordinaria amministrazione. Il problema è che ci sono atti,
quelli di natura personalissima, per i quali si ha una limitazione assoluta della capacità, che va oltre la mera
incapacità di agire che permette il compimento degli atti, almeno quelli di natura patrimoniale, per via di un
tutore. Per gli atti di natura personalissima, non è ammessa la rappresentanza del tutore. Gli atti di natura
personalissima sono quelli che non coinvolgono interessi patrimoniali, ma interessi personalissimi, quali
interessi morali personalissimi, che non possono essere gestiti da altri e comunque, per via dell’interdizione,
non possono essere gestiti neanche dall’interdetto. Ci sono atti per i quali l’interdetto ha un’incapacità
assoluta, che si avvicina quasi alla soglia dell’incapacità giuridica, più che all’incapacità di agire; tali atti non
possono essere compiuti infatti neanche dal tutore. Pensiamo a un matrimonio, per esempio, l’interdetto non
può sposarsi e non può certo essere il tutore a sposarsi al suo posto. Addirittura, nel caso in cui sia anche solo
stata promossa un’istanza di interdizione, la celebrazione non può aver luogo finché la sentenza pronunciata
sull’istanza di interdizione non sia passata in giudicato, ovviamente rigettando la richiesta di interdizione; il
pubblico ministero interrompe la celebrazione della cerimonia. In caso di matrimonio già celebrato, se il
coniuge viene interdetto, egli è di diritto escluso dall’amministrazione dei beni fino a che non sia cessata
l’interdizione. Tra l’altro, nel caso in cui si abbia la comunione dei beni dei coniugi, è possibile che si passi
alla separazione giudiziale dei beni.
Le norme relative al matrimonio intervengono sulla sfera dei rapporti più intimi che riguardano il soggetto e
queste norme limitano gravemente la personalità; sono dei limiti al principio generale di autonomia privata e
sono dei limiti ai principi che riguardano, in maniera generale, la gestione della propria sfera personalissima.
Sono quindi norme che devono essere considerate norme eccezionali e queste norme, in quanto eccezionali,
non possono essere estese per analogia ad altre fattispecie. Si applicano solo per le fattispecie specificamente
previste dalla legge. Come il soggetto non può sposarsi se interdetto, allo stesso modo non può decidere di
divorziare; egli non ha la capacità per farlo, l’altro coniuge sicuramente sì. Inoltre, trattandosi di atti
personalissimi, non può farlo neanche il suo tutore. Le norme che riguardano l’impossibilità di contrarre
matrimonio sono estese anche al caso dell’unione civile; l’interdizione impedisce l’unione civile.
Videolezione 4 – La limitazione all’attività giuridica dell’interdetto.
Il Codice civile indica alcuni atti che sono preclusi all’interdetto; in particolare:
- L’articolo 591 riguarda la capacità di disporre del testamento, di fare testamento, di testare: “E’
incapace di testare l’interdetto per infermità di mente” (non quindi l’interdetto per condanna penale).
Egli non può testare e se fa testamento, il testamento può essere impugnato da chiunque vi abbia
interesse. Questa impugnazione è un’impugnazione che viene considerata per annullabilità del
testamento.
- L’articolo 774 in merito di donazione indica che: “Non è possibile far donazione per coloro che non
abbiano la capacità di disporre dei propri beni” - L’interdetto per infermità di mente è chiaro che sia
incapace di donare - “La donazione compiuta in violazione di questa norma è da ritenere
annullabile.” L’interdetto, che non può testare e non può donare, non può farlo neanche tramite il
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proprio tutore perché il far testamento, o il donare, implica interessi di carattere morale, non
patrimoniale, tali da impedire il compimento da parte di un rappresentante. Si tratta di atti
personalissimi e quindi né l’interdetto può compierli, né li può compiere in sua rappresentanza il
tutore. Unica eccezione è prevista in ragione di solidarietà familiare; in ragione di solidarietà
familiare il rappresentante dell’incapace (il tutore nel caso dell’interdetto) può fare, con
l’autorizzazione richiesta dal tribunale, la donazione a favore di un discendente dell’interdetto in
occasione delle nozze. Quindi quando, per esempio, un discendente dell’interdetto (il figlio) si sposa,
il tutore può donare, previa autorizzazione del tribunale, dei beni dell’interdetto al figlio
(dell’interdetto).
- Se l’interdetto è chiamato come erede, l’articolo 471 ci dice che l’accettazione non può essere
ovviamente compiuta dall’interdetto, il quale sappiamo non possa compiere atti giuridici, ma può
compierla il suo rappresentante legale, il suo tutore. La legge però prevede che questa accettazione
avvenga con beneficio di inventario, proprio a tutela del patrimonio dell’interdetto, il quale, con
beneficio di inventario, mette al sicuro il proprio patrimonio, cioè fa sì che si faccia un inventario sui
beni caduti in successione e i creditori del soggetto da cui deriva quell’eredità possono aggredire
questi beni inventariati e non il patrimonio personale dell’erede. È questa un’accettazione che
protegge il patrimonio dell’interdetto.
- L’articolo 374 del Codice civile dice poi che, per accettare l’eredità, il tutore ha bisogno sempre
dell’autorizzazione del giudice tutelare. Il tutore non può senza l’autorizzazione del giudice tutelare
accettare l’eredità (per conto dell’interdetto), o rinunciarvi.
- L’articolo 489 del Codice civile dichiara che, fino a quando non passa un anno dalla cessazione dello
stato di interdizione, il beneficio di inventario non decade per gli interdetti. Essi hanno quindi questo
favore previsto dalla legge per la tutela del loro patrimonio.
- L’articolo 705 del Codice civile prevede che l’esecutore testamentario deve fare apporre i sigilli ai
beni se tra i chiamati vi è un interdetto, proprio per fare in modo che non vengano disattesi gli
interessi del soggetto da proteggere. Esiste poi una “Deroga al generale divieto di sostituzione
fedecommissaria”; nel diritto successorio esiste un divieto della cosiddetta “Sostituzione
fedecommissaria” e questo divieto implica che nessuno possa decidere di lasciare in eredità dei beni
a una persona e poi decidere quale sorte debbano avere questi beni alla morte di quella persona. Egli
non può dunque decidere oltre la morte della persona, questo perché sarebbe una limitazione
esagerata alla circolazione dei beni e la normativa lo esclude in via ordinaria. In via eccezionale,
invece, a tutela degli interdetti e degli incapaci, è prevista una possibilità di sostituzione
fedecommissaria in cui si dispone che: “Ciascuno dei genitori o degli altri ascendenti in linea retta o
il coniuge dell’interdetto possono istituire rispettivamente il figlio, il discendente, o il coniuge con
l’obbligo, a carico della sfera del beneficiario, di conservare e restituire alla sua morte i beni, anche
costituenti la legittima, a favore della persona o degli enti che, sotto la vigilanza del tutore, hanno
avuto cura dell’interdetto medesimo. Qualora a prendersi cura dell’incapace siano state più persone o
più enti, i beni devono essere attribuiti a ciascuno di essi proporzionalmente al tempo in cui si sono
rispettivamente occupati dei bisogni dell’interdetto.” Quindi c’è la possibilità di lasciare dei beni al
figlio, al nipote, al coniuge dell’interdetto, con l’obbligo però di conservare e di restituire alla morte
dell’interdetto questi beni a favore di chi si sia preso cura dell’interdetto, in modo che convenga
quasi quasi prendersi cura dell’interdetto. Qualora a prendersi cura dell’interdetto siano state più
persone, o più enti, i beni devono essere distribuiti tra tutti questi soggetti proporzionalmente al
tempo in cui si sono rispettivamente occupati dei bisogni dell’interdetto. La disposizione si applica
anche nel caso del minore di età che si trovi nelle condizioni di abituale infermità di mente tali da far
presumere che tra il compimento dei diciassette anni e il compimento dei diciotto anni di età
interverrà, nei suoi confronti, l’interdizione. La sostituzione resta tuttavia priva di effetto nel caso in
cui l’interdizione sia negata o il relativo procedimento non sia iniziato entro due anni dal
raggiungimento della maggiore età del minore abitualmente infermo di mente. La sostituzione
fedecommissaria è comunque da considerare priva di effetto rispetto alle persone o agli enti che
abbiano violato gli obblighi di assistenza, oppure se interviene la revoca dell’interdizione. Questo

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perché la sostituzione fedecommissaria è legata all’assistenza; l’assistenza che una persona, o un
ente, effettua nei confronti di un interdetto viene ripagata alla morte dell’interdetto con
l’acquisizione dei beni dello stesso. Se le persone, o gli enti, non se ne sono presi cura, non hanno
sostanzialmente diritto ai beni.
Con riguardo ai contratti, ci sono specifiche limitazioni nel Codice civile. Ad esempio:
- L’articolo 1626 del Codice civile dice che: “L’affitto si scioglie per l’interdizione, l’inabilitazione, o
l’insolvenza dell’affittuario, a meno che al locatore non sia prestata idonea garanzia per l’esatto
adempimento degli obblighi dell’affittuario”.
- L’articolo 1833 del Codice civile dichiara che: “Lo stato di interdizione o di inabilitazione
(situazioni assimilate alla morte e all’insolvenza) costituisce presupposto per l’esercizio del diritto di
recesso dal contratto di conto corrente civilistico” (deroga alla regola generale per la quale, se il
contratto è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto solo a ogni
chiusura del conto, con preavviso di almeno 10 gg.)
Videolezione 5 – L’inabilitazione.
L’inabilitazione è uno stato giudizialmente dichiarato di parziale incapacità di agire della persona
maggiorenne, che necessita di assistenza nel compimento di atti di straordinaria amministrazione.
Nell’interdizione si parla di un soggetto che rappresenta l’interdetto, il tutore, che lo sostituisce in quanto
egli non può compiere atti; nell’inabilitazione si parla di assistenza, di un soggetto che assiste e affianca
l’inabilitato. Questo soggetto si chiama curatore e “assiste” significa che insieme a lui compie gli atti di
straordinaria amministrazione.
Le cause che possono condurre a una dichiarazione giudiziale di inabilitazione sono le seguenti:
- Infermità mentale (sempre abituale - trattandosi di strumento di protezione “duraturo”) non talmente
grave da comportare l’interdizione;
- Abuso di sostanze alcoliche, o stupefacenti (abuso abituale);
- Prodigalità;
- Cecità o sordomutismo dalla nascita, o dalla prima infanzia, in assenza di un’educazione sufficiente.
Questo ultimo caso è da considerare superato perché ormai si riesce a dare un’educazione tale che
impedisca la necessità dell’inabilitazione.
Se nel caso dell’interdizione, l’interdetto ha una limitazione assoluta della capacità, non può compiere
nessun atto (né di straordinaria, né di ordinaria amministrazione), nel caso dell’inabilitazione, l’inabilitato
resta legittimato al compimento degli atti di ordinaria amministrazione. L’unico limite che ha riguarda il
compimento degli atti di straordinaria amministrazione, atti che determinano un’importante modificazione
della sua sfera patrimoniale; questi atti può compierli solo se affiancato da un curatore. Il curatore non
sostituisce l’incapace, ma lo affianca. Insieme provvedono al compimento dell’atto. La decisione nel
compiere l’atto, la legittimazione dunque nel compimento dell’atto, è una decisione che spetta all’inabilitato,
che però ha bisogno di un ausilio in più ed è per questo che è previsto un affiancamento. In mancanza
dell’affiancamento, l’atto è ritenuto invalido. L’atto deve essere compiuto con l’assistenza di un curatore; se
si tratta per esempio di firmare un documento, la firma deve essere messa dall’inabilitato quale soggetto
direttamente interessato e dal curatore, quale soggetto che lo assiste. Mettono entrambi la firma. La mancata
partecipazione dell’inabilitato rende l’atto del tutto inefficacie, come se si trattasse di un atto compiuto da un
soggetto non legittimato; se andasse solo il curatore a compiere un atto che riguarda l’inabilitato, senza la
partecipazione dell’inabilitato, quell’atto non ha nessun effetto. La mancata assistenza del curatore invece,
rende l’atto annullabile e annullabile significa che è efficace fino a che non viene annullato dal giudice con
una sentenza.
Cos’è la prodigalità? Nel linguaggio comune si considerano prodigali quegli atti caratterizzati da
un’esagerazione nella libertà (per es. Si fanno donazioni compulsive), tali da minacciare un rapido perimento
del patrimonio. Si tratta di atti volti a sperperare il patrimonio. Dobbiamo però distinguere il linguaggio
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comune da quella che effettivamente è la prodigalità rilevante ai fini dell’inabilitazione. L’inabilitazione è
infatti una misura che limita la capacità, la personalità e la dignità di una persona. Non si può raggiungere
l’inabilitazione nel caso di soggetti che, secondo motivazioni razionali e meritevoli, attuano determinate
azioni e comportamenti (non si può per esempio inabilitare una persona perché fa shopping compulsivo). Il
problema è capire se gli atti compiuti volti a sperperare il proprio patrimonio siano atti compiuti a causa di
una patologia volta allo sperperare; se manca una patologia mentale, non è possibile decurtare l’autonomia
privata del soggetto e ipotizzare uno strumento di privazione della capacità di agire. L’inabilitazione è uno
strumento di protezione, non è uno strumento di tutela del patrimonio. In via diretta, questo strumento
protegge la persona; in via indiretta, tutela la famiglia (patrimonio): possono essere inabilitati coloro che per
prodigalità espongono sé, o la loro famiglia, a gravi pregiudizi economici.
Proprio per l’interesse che suscita la tutela della famiglia, sono sorti dei dubbi di incostituzionalità dello
strumento dell’interdizione per prodigalità. Questo perché esiste un principio generale per il quale devono
essere contemperate le esigenze di libertà e di autonomia con quelle di solidarietà, solidarietà anche nei
confronti dei propri familiari. Tra l’altro certi dubbi possono dichiararsi fondati nella misura in cui dal 2004
esiste l’amministrazione di sostegno, istituto molto duttile che permette di modellare il provvedimento del
giudice sulle esigenze specifiche della persona interessata. In caso di prodigalità e quindi di soggetti che
sperperano il proprio patrimonio, spesso è proprio l’amministrazione di sostegno che viene applicata.
L’inabilitazione per prodigalità è un mezzo di protezione che non viene quasi mai applicato.
Le altre cause di interdizione devono essere sempre interpretate in modo da legare la dizione testuale della
norma all’intenzione del legislatore. Quindi, nel caso di abuso di alcool o droga, se comporta il pericolo di
gravi pregiudizi economici per il soggetto e per la sua famiglia, il soggetto deve trovarsi in una situazione di
inferiorità rispetto agli altri per portare a uno strumento di protezione. Dato che la generalizzante incapacità
di agire che si ha con l’inabilitazione non consente di far fronte efficacemente alla situazione di chi abusa di
alcool o droga, in giurisprudenza è stata limitata l’applicazione dell’inabilitazione per questa ragione;
specialmente dopo l’introduzione dell’amministrazione di sostegno, che è stato considerato istituto più
idoneo.
Per il sordomutismo, o cecità dalla nascita, o dalla prima infanzia, abbiamo già dichiarato come questi istituti
abbiano scarsa applicazione, in quanto sono ormai elevati i livelli di educazione alla vita di relazione, che
vengono garantiti in queste situazioni. Una cosa importante da precisare è che l’anzianità non debba essere
considerata causa di incapacità. Di per sé l’età senile non è una causa di incapacità a provvedere ai propri
interessi.
Videolezione 6 – Il procedimento di interdizione o inabilitazione.
Il procedimento si instaura con un ricorso: il ricorso è un atto che si deposita al tribunale e fa avviare un
procedimento. Successivamente, quando un procedimento comincia con il ricorso, è il tribunale e il
presidente del tribunale (il giudice), che indica quali sono gli oneri di notifica e dunque di comunicazione di
ricorso agli altri soggetti. Il ricorso deve essere depositato presso il tribunale del luogo di residenza, o di
domicilio, della persona nei cui confronti si agisce. Questo criterio di competenza strettamente legato alla
residenza della persona interessata, ci serve perché si deve agire nei confronti della persona ed è giusto che
ad agire sia il tribunale del luogo in cui questa persona dimora abitualmente. Il giudice del tribunale
competente deve poter esaminare la persona nei cui confronti si richiede un provvedimento di limitazione
della capacità di agire e, per poterla esaminare, deve poterla andare addirittura a visitare e trovarsi quindi in
una situazione di vicinanza, di prossimità. Si tratta di un giudizio che riguarda questioni personalissime su
diritti fondamentali, quindi ogni qualvolta viene avviato il procedimento per interdizione, o inabilitazione,
questo procedimento va avanti e va avanti nel senso che non si potrà pensare a una mera rinuncia da parte del
soggetto che ha presentato l’istanza; non si può pensare che il soggetto in questione possa estinguere, o
bloccare il procedimento. Il procedimento, una volta avviato, va avanti.
Nel ricorso introduttivo per richiedere l’interdizione, o l’inabilitazione, si devono:

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- Esporre quali sono i fatti che lo giustificano
- Indicare le generalità (nome, cognome e residenza) del soggetto nei cui confronti si intende agire, ma
anche le generalità del coniuge, o del convivente di fatto presunto interdetto, o inabilitato, così come
quelle dei parenti entro il quarto grado e degli affini entro il secondo. Una volta depositato il ricorso,
verrà disposto l’onere di notifica di questo ricorso; il ricorso deve essere notificato insieme al decreto
di comparizione. Viene fissato dal giudice il giorno in cui l’istante dovrà comparire insieme ad altri
soggetti, che il giudice ritiene debbano essere chiamati in giudizio. L’onere di notifica di questo
ricorso viene disposto verso il soggetto che ha presentato l’istanza; notifica che deve essere fatta nei
confronti del soggetto direttamente interessato, soggetto nei cui confronti si richiede l’interdizione, e
delle altre persone che il giudice indica e le indica perché le ritiene persone le cui informazioni
possono essere utili.
Dopo il deposito del ricorso, il presidente del tribunale:
- Dispone che l’istanza di interdizione, o inabilitazione, venga inoltrata al pubblico ministero, la cui
partecipazione in questi procedimenti è veramente importante ed è obbligatoria
- Nomina il giudice che si occuperà della vicenda
- Fissa l’udienza di comparizione dell’istante, dell’interessato e delle persone che ritiene utili ai fini
dell’ottenimento di informazioni
Nel procedimento per interdizione, o inabilitazione, principalmente bisogna tenere in conto il fatto che si
tratti di problematiche che riguardano la dignità della persona, la sua autonomia e la sua libertà. Deve essere
dunque data priorità a questo valore della dignità della persona e a questo fine devono tendere anche le
applicazioni delle regole di procedura. La procedura deve essere indirizzata al fine di garantire la dignità
della persona umana, che è coinvolta nel procedimento di interdizione, o di inabilitazione. Per questa ragione
l’attività istruttoria, l’attività di raccolta delle prove che possono portare a una pronuncia di interdizione, o al
suo rigetto, deve essere un’attività da parte del giudice molto rigorosa. Il giudice deve raggiungere un
ragionevole convincimento sulla necessità dell’intervento di una misura di protezione e sull’adeguatezza
della misura di protezione scelta rispetto alle esigenze di protezione della persona. Per far ciò centrale rilievo
assume l’esame del diretto interessato, esame che, essendo il giudice il perito dei periti, potrebbe essere
svolto da egli medesimo. È il giudice che fa proprio l’esito dell’attività istruttoria per decidere ed è quindi il
giudice che potrebbe assumersi l’onere di esaminare l’interessato e dedurre se il soggetto è realmente capace,
o no. In realtà però è sempre da considerare necessario e si auspica che venga fatto sempre, che il giudice
supporti l’attività istruttoria con la nomina di un consulente tecnico di ufficio, ovvero un medico
specializzato nella materia, per esempio uno psichiatra, che sappia dire con certezza se il soggetto abbia
bisogno di un tutore e quindi lo si debba interdire, o di un curatore, e lo si debba inabilitare. Questa
consulenza tecnica d’ufficio disposta dal giudice garantisce la tutela degli interessi della persona
direttamente interessata, altrimenti, come è avvenuto, il giudice potrebbe semplicemente basarsi su dei
certificati medici portati all’esame del giudice.
Il giudice ha poi anche la facoltà di interrogare i parenti del diretto interessato (dell’interdicendo, o
dell’inabilitando), così come i coniugi, che possono essere considerati fonte di informazioni utili ai fini della
decisione. È escluso, proprio perché si tratta di interessi personalissimi, che il giudizio possa risolversi
mediante interrogatorio formale, o giuramento; non si può giurare e consentire l’inabilitazione, o
l’interdizione di un soggetto. Questo è assolutamente in contrasto con gli interessi della persona che devono
essere presi in considerazione.
Primario mezzo istruttorio e primaria fonte di prova è l’esame del soggetto interessato. E’ chiaro che se dopo
tentativi seri, effettuati anche mediante l’ausilio di soggetti competenti, per scovare dove si trova il soggetto,
questo soggetto risulta davvero del tutto irreperibile e risultano prove forti (non certificato di un medico), il
giudice potrebbe dire che nonostante sia irreperibile, è importante che il provvedimento venga emesso, come
è importante considerare giusto emettere un provvedimento qualora il soggetto non intenda comparire in
giudizio (il soggetto viene sicuramente reperito, ma non vuole sottoporsi al giudizio di interdizione). Nel
caso in cui il soggetto abbia un impedimento giustificato, egli deve essere ascoltato ed esaminato in luogo
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diverso dall’aula di udienza, con intervento del pubblico ministero – deve, per esempio, essere ascoltato nella
struttura di cura nella quale si trova.
La Corte di cassazione segue un orientamento per cui, quando il giudice incarica un consulente tecnico
d’ufficio (medico, psichiatra), il giudice può recepire le conclusioni sulla perizia medica senza avere la
necessità di esporre nel dettaglio le ragioni di accoglimento di istanza di interdizione, o inabilitazione. Resta
comunque in capo al giudice la decisione finale. Il giudice legge la perizia e decide sulla base di quella
perizia se si tratta di una situazione di malattia mentale, tale da portare a interdizione o inabilitazione, o se vi
è una situazione di “sanità”, o comunque di infermità non tale da portare a inabilitazione, o interdizione. Il
giudice deve tendenzialmente sempre consultare il medico per accogliere un’istanza di interdizione, o
inabilitazione; se invece intende rigettare l’istanza, può anche in alcuni casi evitare di chiamare un
consulente tecnico; può ricorrere in questo caso alla comune esperienza, che gli permette di comprendere che
il soggetto è sano (a meno che questi non richieda di essere sottoposto ad accertamenti tecnici medici) e
condannare invece colui che ha presentato l’istanza di interdizione, o inabilitazione, verso questo soggetto
che secondo la comune esperienza è assolutamente in grado di intendere e di volere.
Videolezione 7 – L’amministrazione di sostegno.
La legge che ha introdotto l’amministrazione di sostegno è la legge del 9 gennaio 2004 – Riforma in materia
di incapacità giudiziale.
L’amministrazione di sostegno si distingue rispetto agli altri istituti (quelli destinati agli inabilitati e agli
interdetti) e si distingue in relazione alla particolare incidenza sulla sfera di libertà e quindi di dignità del
soggetto che viene sottoposto allo strumento di protezione. L’amministrazione di sostegno si ritaglia
specificamente sulla persona e quindi prevede speciali, singole, dettagliate diminuzioni della capacità,
specificamente indicate nel provvedimento giudiziale, che è un decreto del giudice tutelare. Quindi, in
particolare, il soggetto beneficiario di amministrazione di sostegno è limitato nel compimento di determinati
atti, che saranno compiuti in sua vece dall’amministratore di sostegno, oppure, saranno compiuti in
affiancamento con l’amministratore di sostegno. C’è la possibilità di utilizzare sia lo strumento di
affiancamento, che lo strumento di rappresentanza. La riforma ha previsto anche la possibilità del giudice di
scegliere lo strumento più opportuno e, infatti, il giudice ha la facoltà di scegliere il provvedimento più
adeguato, a prescindere dalla richiesta dell’istante (questo si può fare quando si ha una richiesta più ampia,
ovvero, per esempio si richiede l’interdizione e il giudice contempla nella domanda di interdizione la
domanda invece di inabilitazione, o di amministrazione di sostegno, quindi di una tutela più ristretta, di una
limitazione minore dell’autonomia della persona; il contrario non si può fare. Se viene richiesta
l’amministrazione di sostegno, il giudice non può dire “Adesso dichiaro l’interdizione, o l’inabilitazione”, o
se viene richiesta l’inabilitazione, non può dire “Allora richiedo l’interdizione”. Il giudice al limite, nel caso
ritenga non vi sia più necessità di amministrazione di sostegno, può dichiarare cessata la misura
dell’amministrazione di sostegno. Il giudice, in sintesi, non può passare da una richiesta di minor valenza in
quanto a limitazione della capacità, a una maggiore, però può sollevare la questione al pubblico ministero. A
quel punto è il pubblico ministero che, facendo un esame sommario, può decidere di richiedere una misura
maggiore). Tutto ciò si giustifica nel principio di maggior salvaguardia della libertà del soggetto, ma questo
passaggio da una misura maggiore a una misura minore, può avvenire se si tratta sempre di comparare
grandezze simili (es. dalla richiesta per interdizione per infermità di mente, si passa all’inabilitazione per
infermità di mente); il giudice non può deliberare, se è stata richiesta l’interdizione, una misura che riguarda
l’inabilitazione, per esempio, per abuso di droghe. L’inabilitazione deve essere per infermità di mente.
La finalità della riforma in materia di amministrazione di sostegno è la minor limitazione possibile della
dignità della persona e dunque della sua autonomia, della sua libertà. Il principio enunciato da questa
normativa è quello di tutelare, con la minor limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive, in
tutto, o in parte, di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana. Vengono così attuati
interventi di sostegno temporaneo, o permanente. Questo principio non fa altro che applicare concretamente
l’articolo 3 della Costituzione, che sancisce il principio di uguaglianza tra i cittadini. Gli ostacoli vengono
limitati nella misura in cui si attribuisca al soggetto, che ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a curare i propri
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interessi, un amministratore di sostegno specifico per le sue specifiche incapacità ed esigenze, in modo da
rimuovere l’ostacolo che questo cittadino ha nello svolgimento della vita sociale ed economica.
L’articolo 404 del Codice civile è il primo articolo del Codice civile che riguarda l’amministrazione di
sostegno e indica qual è il soggetto al quale può essere assegnato un amministratore di sostegno. L’articolo
prevede che: la persona che, per effetto di un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova
nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un
amministratore di sostegno nominato dal giudice tutelare del luogo in cui la persona stessa ha la residenza, o
il domicilio. Quindi abbiamo un campo di applicazione che riguarda tutti i soggetti che hanno una qualche
menomazione, o difficoltà, anche temporanea e anche parziale.
Il procedimento si introduce anche in questo caso con un ricorso depositato dal giudice tutelare e può essere
proposto:
- Sia dal soggetto che versa in situazione di bisogno e che richiede un amministratore di sostegno
(questa richiesta ha ancora più valore quando si tratta di infermità fisica, poiché nel caso di infermità
psichica il soggetto potrebbe non essere in grado di formulare ricorso)
- Dagli stessi congiunti del soggetto (stesse persone che possono richiedere l’interdizione, o
l’inabilitazione – guardare lezione precedente)
- Dai responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della
persona, i quali, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna la procedura di amministrazione
di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso. E’ chiaro che questa legittimazione è
molto generica, la norma dice “i responsabili dei servizi sanitari e sociali” e per questo motivo è stata
disposta dalla dottrina a favore della tutela della persona, una critica a questa legittimazione così
generica e così ampia. Questo perché una generalità di questo tipo contrasta con l’esigenza di
circoscrivere al massimo le limitazioni della capacità. Si sarebbe dunque dovuta preferire
un’indicazione precisa dei singoli soggetti dipendenti dei servizi sanitari, o sociali, legittimati a
proporre l’istanza.
Quali sono le regole da seguire nel procedimento? La competenza territoriale è in capo al giudice tutelare del
luogo di residenza, o di domicilio, del soggetto interessato, che si intende far beneficiare
dell’amministrazione di sostegno. Quando si presenta ricorso, devono infatti essere indicate le generalità del
beneficiario e tra le generalità, ovviamente, vi è il luogo di dimora abituale (la residenza effettiva), o
eventualmente il domicilio. Inoltre, vanno poi indicate le motivazioni per cui si richiede l’amministrazione di
sostegno e i parenti prossimi che sarebbero legittimati, comprese le generalità degli stessi; i parenti
potrebbero fornire informazioni utili e importanti ai fini del provvedimento. Nel caso in cui vi sia una
residenza anagrafica, quindi registrata presso gli uffici anagrafici, si presuppone che quella sia la residenza
effettiva. In caso di contrasto però, nel caso in cui venga provato che la residenza effettiva sia un’altra, il
giudice deve far prevalere la seconda.
L’amministrazione di sostegno è una misura che riguarda qualsiasi tipo di patologia, qualsiasi tipo di
situazione psichica, o fisica, che richieda una protezione. Non serve, e lo dice la giurisprudenza,
necessariamente un’infermità. Nell’ambito del procedimento deve essere ascoltata la persona bisognosa e nel
caso in cui questo soggetto sia impedito al recarsi in udienza in aula, l’audizione, che è un qualcosa a cui non
si può rinunciare e da cui non si può prescindere (è importantissimo ascoltare il soggetto), si svolge nel luogo
in cui il soggetto si trova. In questo modo si ascolta il soggetto e si dà il necessario riscontro a quelle che
sono le esigenze concrete che vengono manifestate in occasione dell’ascolto della persona. Ovviamente si
deve anche provvedere agli accertamenti medici sulla sua situazione di salute, il giudice non può far sempre
il perito dei periti e ritenere un soggetto infermo senza un accertamento medico, o sulla base di un certificato
portato in giudizio da chi ha presentato il ricorso, ma deve disporre una consulenza tecnica d’ufficio che
sappia accertare e porti a ritenere opportuna la misura dell’amministrazione di sostegno.
Il giudice ha ovviamente dei poteri di ufficio relativi alla possibilità di adottare dei provvedimenti urgenti
verso il soggetto bisognoso, anche prima della nomina dell’amministratore di sostegno. Il giudice può quindi
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adottare d’ufficio i provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata e del suo patrimonio e
potrebbe anche nominare un amministratore di sostegno provvisorio, che nel frattempo si occupi del soggetto
e del suo patrimonio. Secondo la normativa, la nomina dell’amministratore di sostegno, la nomina definitiva,
dovrebbe avvenire entro 60gg dalla richiesta, ma questo non è un termine da rispettare a tutti i costi, e questa
nomina interviene con decreto (il decreto è il provvedimento finale). In generale però, quando un
provvedimento giudiziale ha emesso l’esito di un’analisi dei contrapposti interessi (come avviene
nell’amministrazione di sostegno per la quale si analizzano gli interessi della persona, dei parenti e di tutti i
soggetti che vengono coinvolti nel giudizio), dobbiamo ritenere che sostanzialmente, considerata la natura di
questo procedimento, questo non è un vero e proprio decreto, ma lo possiamo considerare un provvedimento
avente natura di sentenza, che è l’atto che si ha all’esito di un procedimento giudiziale impostato appunto
con un contraddittorio con l’ascolto di più soggetti - il decreto è un provvedimento che viene emanato spesso
senza istaurare un contraddittorio.
Videolezione 8 – I doveri dell’amministratore di sostegno.
L’istituto dell’amministrazione di sostegno prevede, nella sua attuazione pratica, un contenuto
particolarmente specifico, dettagliato e individualizzato; questo contenuto viene a evidenziarsi all’interno del
provvedimento con cui si chiude il giudizio di amministrazione di sostegno e cioè il decreto emesso dal
giudice tutelare, che come già detto dobbiamo considerare come provvedimento avente natura sostanziale di
sentenza. Il contenuto, nel caso di accoglimento da parte del giudice della richiesta di nomina di un
amministratore di sostegno, deve prevedere:
- Le generalità della persona beneficiaria e le generalità dell’amministratore di sostegno;
- La durata dell’incarico - Il fatto che venga prevista la durata dell’incarico, fa notare come
tendenzialmente l’istituto voglia avere un carattere limitato dal punto di vista temporale;
tendenzialmente l’amministrazione di sostegno dovrebbe essere limitata nel tempo proprio perché si
tratta di rispondere a esigenze che si dovrebbero ritenere limitate, considerato che non stiamo
parlando di un infermo di mente totale, un gravissimo infermo di mente. Si può prevedere tuttavia un
incarico a tempo indeterminato
- L’oggetto dell’incarico (in cosa consiste l’amministrazione di sostegno)
- Gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del
beneficiario, cioè come se egli fosse un tutore (rappresentanza)
- Gli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministrazione di sostegno
- I limiti, anche periodici, delle spese che l’amministrazione di sostegno può sostenere con l’utilizzo di
somme di cui il beneficiario ha, o può avere disponibilità (per evitare ingiustificate ingerenze nel
patrimonio)
- La periodicità con cui l’amministratore di sostegno deve riferire al giudice circa l’attività svolta e le
condizioni di vita personale e sociale del beneficiario
Come avviene la scelta dell’amministrazione di sostegno? La priorità deve essere data all’interesse della
persona e quindi alle relazioni tra il soggetto che viene scelto e il beneficiario. La legge prevede che nella
scelta, il giudice debba preferire una serie di soggetti e, ove possibile, deve preferire il coniuge, che non sia
separato legalmente, oppure la persona con cui stabilmente convive il beneficiario, o il padre, la madre, il
figlio, il fratello, la sorella, un parente entro il quarto grado, ovvero il soggetto designato dal genitore
superstite con testamento, atto pubblico, o scrittura privata autenticata. Quindi, qualora vi fossero questi
soggetti, questi soggetti devono essere preferiti come soggetti a cui assegnare questo istituto, questo ufficio
privato delicatissimo di cura della persona. Il giudice, comunque, anche se nella scelta generalmente
preferisce questi soggetti, è chiaro che, nel caso in cui venga a considerare raccogliendo le informazioni, che
questi familiari siano inidonei, può affidare un incarico a un estraneo, a un soggetto che si possa prendere
cura del patrimonio e soprattutto della persona; spesso questi soggetti cosiddetti estranei sono avvocati e
spesso non sono preparati a svolgere questo compito.
È importante e centrale l’accento che la legge pone sulla relazione di fiducia che deve instaurarsi tra
l’amministratore di sostegno e il beneficiario, tanto che la designazione dell’amministrazione di sostegno
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può avvenire a opera del beneficiario, il quale, nel corso del giudizio per amministrazione di sostegno,
potrebbe indicare una persona specifica come soggetto a cui vorrebbe che venisse affidata l’amministrazione
di sostegno. È chiaro che però, se si tratta di persona con determinati deficit mentali, il giudice non gli dia
tantissima considerazione. Gli dà ascolto, ma nella misura in cui a questo ascolto faccia riscontro un’effettiva
capacità di scelta e di ponderazione; quando questo non avviene, le indicazioni non vengono seguite. Per dar
forza maggiore a una scelta, la si deve effettuare prima. Il soggetto in previsione di un’eventuale, possibile,
incapacità futura che possa comportare la necessità di un amministratore di sostegno, potrebbe recarsi dal
notaio e con atto pubblico, o con scrittura privata autentica, designare un soggetto quale suo amministratore
di sostegno per il caso di eventuale futura incapacità. In quel caso, il giudice dovrebbe seguire questa scelta,
a meno che non sopravvengano gravi motivi (per es. la persona designata non vuole svolgere l’attività di
amministratore di sostegno). È importante specificare che il giudice è sempre sovrano nella scelta, in
definitiva la nomina dell’amministratore di sostegno spetta sempre al giudice, il quale però deve motivare e
indicare quali siano i gravi motivi che lo portano a escludere che il soggetto nominato possa essere diverso
da quello designato dal notaio e dallo stesso beneficiario nel momento in cui era capace. Se sussistono questi
gravi motivi, il giudice li indica e può nominare un soggetto diverso. Questo significa che sostanzialmente
deve essere data importanza alle indicazioni della persona direttamente interessata e si dovrebbe ammettere,
anche se non è previsto testualmente dalla legge, che l’interessato possa escludere uno o più soggetti dalla
nomina. Per valorizzare la volontà del soggetto, deve necessariamente darsi rilievo anche a un’eventuale
designazione informale, per es. scritti provenienti da un diario; la difficoltà in questo caso sta nel risalire alla
persona dalla quale proviene questa designazione e per questa ragione sarebbero da preferire gli atti olografi,
cioè quelli scritti di pugno dal soggetto, come un diario, ed è importante che la scrittura alla quale si fa
riferimento sia datata in modo da stabilire se il soggetto fosse in quel momento realmente capace. Tutto ciò
serve a garantire che vi sia un rapporto di fiducia tra il beneficiario e il suo amministratore di sostegno,
questo proprio perché il primo obbligo da rispettare nell’amministrazione di sostegno è quello legato alle
volontà dello stesso beneficiario, che comporta appunto un rapporto di reciproca fiducia tra i due. Per lo
stesso motivo, la legge esclude la nomina del coniuge legalmente separato con cui normalmente vi è un
rapporto conflittuale, di conflitto di interessi, e a maggior ragione, si esclude il coniuge divorziato. Inoltre,
l’articolo 408 esclude che possa essere amministratore di sostegno un operatore dei servizi pubblici, o
privati, che hanno in cura, o in carico, il beneficiario; anche in questo caso potrebbe esservi un conflitto di
interessi.
Nel caso in cui venga scelto direttamente dal soggetto un amministratore di sostegno, tendenzialmente
attraverso la modalità formale della scrittura privata autenticata, si ritiene che possa essere nominato anche
un minorenne, purché egli sia prossimo alla maggiore età e purché il ruolo del minorenne che viene
nominato sia un ruolo esclusivamente di cura della persona, non certo di amministrazione del patrimonio, in
quanto, fino al compimento dei 18 anni, il minorenne non ha capacità negoziale.
Il valore del rapporto di fiducia si nota in maniera forte dall’articolo 410 del Codice Civile, che è rubricato
“Doveri dell’amministratore di sostegno”; questa norma esprime: “Nello svolgimento dei suoi compiti,
l’amministratore di sostegno deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario” –
l’amministratore deve dunque necessariamente dar riscontro ai bisogni e alle aspirazioni del beneficiario e
per far sì che questo accada, deve essere in relazione con il beneficiario, deve parlarci, deve conoscere quelli
che sono i suoi desideri – “L’amministratore di sostegno deve tempestivamente informare il beneficiario
circa gli atti da compiere e, qualora quest’ultimo esprima il suo dissenso, deve darne notizia al giudice
tutelare”. In caso di contrasto tra il beneficiario e l’amministratore di sostegno, o di scelta compiuta
dall’amministratore di sostegno che venga considerata dannosa, il beneficiario stesso, il pubblico ministero,
oppure uno degli altri soggetti che possono presentare ricorso per l’amministratore di sostegno, possono
sempre ricorrere al giudice tutelare, che a quel punto apporta i provvedimenti opportuni; nel caso in cui si
esaurisca il rapporto di fiducia, o venga dimostrata una negligenza da parte dell’amministratore di sostegno,
si può richiedere la revoca di questo soggetto, o la sua sostituzione.
Videolezione 9 – L’incapacità naturale.

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La disciplina che tratta dell’incapacità naturale è una disciplina che ha carattere residuale. Cioè, ove non si
applichino le norme riguardanti i soggetti e gli atti che devono essere compiuti in un certo modo da coloro
che sono dichiarati giudizialmente incapaci, o per i quali sussiste una particolare sfera di atti che non
possono essere compiuti, in quanto vi è un provvedimento giudiziale a riguardo, c’è spazio per l’applicazione
della disciplina dell’incapacità naturale. La ratio è tutelare il soggetto che si espone nel mercato, nelle
relazioni privatistiche con gli altri soggetti, a determinati pregiudizi, o a contrattare qualcosa i cui effetti non
conosce proprio a causa della sua incapacità e la ratio è di tutelarlo in ogni modo, nel senso che, se vi è un
provvedimento giudiziale che limita la capacità, la tutela è forte, è ampia. La disciplina ha dunque un
carattere residuale in quanto non vuole toccare gli aspetti che sono già toccati, già disciplinati, dalle norme
sull’incapacità dichiarata. L’incapacità dichiarata si può avere con interdizione, inabilitazione, o
amministrazione di sostegno.
Nei casi in cui non si tratta di soggetto interdetto, nei casi in cui non si tratta di atto di straordinaria
amministrazione che deve essere compiuto da un soggetto inabilitato e non si tratta di atto che deve essere
compiuto da un amministratore di sostegno, e, nel caso in cui si abbia un’incapacità naturale di intendere, o
di volere del soggetto, al di fuori di queste precedente ipotesi, può essere applicata la norma che tutela questo
stato di incapacità di fatto e che tutela il soggetto incapace di fatto su cui non incide un provvedimento
giudiziale. L’incapacità naturale è l’incapacità di valutare consapevolmente le proprie scelte. Si ha riguardo
alla capacità naturale e alla sua mancanza, mancanza della capacità di comprendere le scelte che si
compiono. Con la mancanza della capacità di intendere, o di volere, il soggetto non si può ritenere come
soggetto capace. Alla capacità naturale si dedica l’articolo 2046 del Codice civile, che prevede un
presupposto per il quale si possa applicare la responsabilità extra-contrattuale; l’articolo dice che: se un
soggetto non ha la capacità di intendere, o di volere, nel momento in cui commette un atto, non risponde
delle conseguenze e non deve pagare il risarcimento del danno, a meno che lo stato di incapacità derivi da
sua colpa (se per esempio il soggetto si è ubriacato, o si è sottoposto a un qualcosa che abbia limitato la sua
capacità di intendere, o di volere); in questo caso si ritiene auspicabile che l’autore del danneggiamento abbia
preordinato lo stato di incapacità dolosamente, al fine di commettere l’illecito. Quando il soggetto commette
un fatto illecito, egli risponde anche nel caso in cui sia stato dichiarato interdetto se nel momento del
compimento dell’atto era capace di intendere e di volere, o aveva un lucido intervallo di capacità (per es.
aveva preso dei farmaci che lo avevano reso capace); stessa cosa vale con riguardo a un inabilitato, o un
soggetto sottoposto all’amministrazione di sostegno: se nel momento in cui compie l’atto è capace di
intendere, o di volere, ha la responsabilità extracontrattuale, deve rispondere per le conseguenze del fatto
dannoso e quindi risarcire il danno. Precisiamo che, quando manca la capacità naturale (per es. il soggetto è
ubriaco ed è parte in un processo), non cessa la sua capacità processuale, non viene meno la capacità
processuale di un soggetto che è incapace naturale. – Questo è un accenno riguardo la responsabilità extra-
contrattuale, ma si parla del tema in maniera più approfondita in relazione al compimento di atti giuridici
nella parte che segue.
La norma inerente all’incapacità naturale, essendo una norma di carattere residuale, copre anche i momenti
precedenti all’efficacia di una sentenza di interdizione, di inabilitazione, o di richiesta di un’amministrazione
di sostegno. Questo perché, ad esempio, un soggetto potrebbe essere affetto da grave infermità mentale tale
da poter consentire la richiesta di interdizione e poi effettivamente l’interdizione viene pronunciata, ma
prima dell’interdizione il soggetto potrebbe aver compiuto degli atti. Per quegli atti non si ha la copertura
dell’interdizione, ma anche non essendoci la copertura, quegli atti sono comunque stati compiuti da un
soggetto che non era consapevole di quello che faceva, non aveva la capacità di intendere o di volere. Il
soggetto che in questo caso non era ancora stato sottoposto a un provvedimento di interdizione, nel periodo
precedente al provvedimento è da considerare alla stregua di un soggetto incapace naturale. In questo modo
si avrà la possibilità di annullare gli atti compiuti, i contratti stipulati e gli accordi stipulati a cui il soggetto
ha preso parte precedentemente all’efficacia di un provvedimento giudiziale di limitazione della capacità.
L’articolo 428 prevede l’annullabilità per i contratti posti in essere da un soggetto incapace naturale, cioè che
non ha la consapevolezza della scelta che sta compiendo ed è dunque non capace di intendere, o di volere;
l’articolo cita che: “Il soggetto deve dare consapevolmente il consenso all’instaurarsi di un rapporto
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giuridico, di cui è incapace di valutare le conseguenze”. Questo è importante perché si deve avere almeno
una percezione nel soggetto che si stia dando un consenso, ma il consenso è viziato (mancanza di capacità).
Il sistema prevede dunque dei vizi nel consenso, anche se il consenso è dato consapevolmente; si sa che si sta
dando, per esempio, un consenso a un contratto, ma non si è capaci di valutarne le conseguenze. Si può
annullare un contratto per incapacità naturale anche quando il contratto abbia un esito vantaggioso (per es. Il
soggetto affetto da incapacità naturale vende la propria casa al doppio del prezzo di mercato). Sempre in
ambito contrattuale, se manca totalmente il consenso (quindi non si tratta solo di vizio) perché il soggetto
non si rende conto di manifestarlo, l’articolo 1418 del Codice civile prevede che la mancanza di accordo
coincida con la mancanza del contratto; se manca l’accordo il contratto è inesistente. Dunque, se si ha un
vizio del consenso, si ha l’annullabilità, mentre, se manca del tutto la volontà, il contratto è del tutto
inesistente. In alcuni casi si ritiene invece che si possa avere una nullità e i casi riguardano in particolare la
situazione in cui il contratto è il risultato di una circonvenzione d’incapace. Una norma penale, norma
imperativa e inderogabile, vieta espressamente la circonvenzione d’incapace; la circonvenzione d’incapace è
un reato; il meccanismo che porta alla formazione del contratto è illecito in quanto vi è un abuso della
persona.
Ma quando si ha incapacità naturale e quali sono i presupposti per i quali si possa applicare l’articolo 428?
Secondo le ricostruzioni che sono state fatte in giurisprudenza, è sufficiente una riduzione delle capacità
intellettive, ma non basta una qualsiasi anomalia psichica. Non è necessaria una malattia che annulli del tutto
le capacità psichiche, basta anche una prova della riduzione delle capacità intellettive. Nel caso
dell’incapacità naturale, si ha una menomazione tendenzialmente temporanea, se fosse duratura, si avrebbe
interdizione.
Argomento 5
Videolezione 1 – Gli enti giuridici.
Gli enti giuridici sono i grandi protagonisti del mondo giuridico che la legge considera accanto alle persone
fisiche. L’ente giuridico è un’organizzazione dotata di capacità giuridiche, ossia dotata dell’idoneità ad
essere titolare in proprio di diritti e di doveri. Gli enti giuridici possono avere, o non avere, la personalità
giuridica, ma tutti gli enti giuridici sono soggetti di diritto; hanno una propria capacità e una propria identità,
che li distingue rispetto alle persone fisiche che eventualmente facciano parte dell’ente. Ciò significa che è
all’ente che si ricollegano i diritti e i doveri e non agli associati, ai soci, o agli amministratori. Se ad esempio
una società contrae un debito, è l’ente il titolare del debito.
Gli enti giuridici sono dotati di capacità giuridica, ma non solo, occorre aggiungere che sono dotati anche di
capacità di agire. È vero che gli enti giuridici per svolgere la loro attività devono avvalersi di persone fisiche
e cioè di rappresentati, ma questo non vuol dire che gli enti giuridici siano paragonabili agli incapaci. Infatti,
gli incapaci hanno per legge i rappresentanti legali sul presupposto della loro incapacità di curare i propri
interessi, mentre gli enti giuridici non sono incapaci, sono soggetti che per la loro stessa struttura si muovono
attraverso l’operato di persone fisiche, persone fisiche che però fanno parte integrante dell’ente, per cui si
può dire che, attraverso l’operato di queste persone che fanno parte integrante dell’ente e che noi chiamiamo
organi, l’ente realizza e svolge la propria capacità di agire. In altri termini, poiché l’ente è dotato di organi,
cioè di soggetti che si immedesimano nella struttura dell’ente, l’operato di questi organi, identifica l’operato
stesso dell’ente. Quando l’organo compie un atto nell’esercizio del proprio potere organico, è come se l’atto
fosse compiuto dall’ente stesso; per il diritto è proprio l’ente a compiere quell’atto.
I soggetti che fanno parte della struttura dell’ente sono titolari di funzioni che ineriscono all’ente stesso.
Questi organi possono avere, o non avere potere rappresentativo; possono avere per esempio un potere
deliberativo (per es. nelle associazioni c’è un organo deliberativo, che è l’assemblea, e un organo
rappresentativo che sarà costituito dal presidente dell’associazione). Noi abbiamo organi interni e organi
esterni. Gli organi esterni sono dotati di potere rappresentativo e le norme sulla rappresentanza si applicano
anche agli organi delle persone degli enti giuridici, ma poiché questi organi fanno parte integrante della
struttura dell’ente, questo vuol dire che gli atti compiuti da questi organi, sono direttamente imputabili
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all’ente, quindi, non solo gli effetti degli atti negoziali, ma tutti gli atti giuridici, compresi quelli illeciti.
L’organo, che compie un illecito nell’esercizio delle sue funzioni, compie un illecito al quale deve rispondere
l’ente.
Gli enti giuridici si distinguono in enti associativi ed enti amministrativi. Gli enti associativi sono quelli che
hanno al vertice della loro organizzazione un gruppo di soggetti portatori in proprio dell’interesse
all’esistenza e all’attività dell’ente; sono questi i soci, o gli associati. Quali sono gli enti associativi? Gli enti
associativi sono le associazioni; i comitati; le società. Gli enti amministrativi invece, sono quegli enti che
hanno al vertice della loro organizzazione gli amministratori ai quali spettano i poteri decisionali e
rappresentativi dell’ente; gli amministratori non sono portatori di un interesse personale all’esistenza e
all’attività dell’organizzazione, essi sono piuttosto titolari di un ufficio privato in virtù del quale hanno
l’obbligo di gestire l’ente nell’esclusivo interesse dell’ente stesso. Nel diritto privato, enti di tipo
amministrativo sono le fondazioni.
Gli enti giuridici si distinguono ulteriormente in persone giuridiche ed enti non personificati. La persona
giuridica è un ente dotato di capacità giuridica generale e di autonomia patrimoniale perfetta. La persona
giuridica, dotata di capacità giuridica, partecipa in quanto tale a tutte le relazioni giuridiche, può assumere
tutte le posizioni giuridiche connesse ai suoi interessi (per es. debiti, crediti), ma oltre la capacità giuridica, la
persona giuridica possiede anche l’autonomia patrimoniale perfetta, il che vuol dire che è la persona
giuridica che risponde esclusivamente in proprio dei suoi debiti – quindi responsabilità esclusiva dell’ente e
non di coloro che rappresentano l’ente e agiscono in conto dell’ente stesso. È la persona giuridica che
risponde in proprio dei debiti e ne risponde con il proprio patrimonio. Le persone giuridiche sono le
fondazioni, le associazioni riconosciute, i comitati riconosciuti e le società di capitali. Accanto alle persone
giuridiche, vi è un numero sterminato di enti non personificati, ovvero, enti giuridici privi della personalità
giuridica. Questi enti hanno capacità giuridica generale, o anche parziale, ma non hanno autonomia
patrimoniale perfetta. Enti non personificati sono innanzitutto le associazioni non riconosciute, i comitati non
riconosciuti, le società di persone ecc. Gli enti non personificati, dotati appunto di capacità giuridica
generale, ma non di autonomia patrimoniale perfetta, rispondono in proprio dei debiti che sono assunti
legittimamente in nome e per conto dell’ente stesso, ma accanto alla responsabilità dell’ente si affianca la
responsabilità personale e illimitata di coloro che hanno agito in rappresentanza dell’ente. Quindi, quando ci
troviamo di fronte a un ente giuridico che non è persona giuridica, vorrà dire che potremo fare riferimento
all’ente e al suo patrimonio come oggetto di responsabilità patrimoniale (se per esempio l’ente ha un debito
che non viene pagato potremo espropriare i suoi beni), ma se l’ente non ha personalità giuridica, potremo
sempre contare sulla responsabilità personale di coloro che hanno agito in nome e per conto dell’ente stesso.
Questo è il connotato che differenzia gli enti giuridici con personalità giuridica e gli enti giuridici non
personificati; se noi prendiamo un’associazione priva di personalità giuridica, possiamo vedere come questa
associazione si muova nel contesto giuridico alla pari con le associazioni dotate di personalità giuridica, la
differenza la cogliamo solamente con riguardo alla responsabilità dei suoi rappresentanti, che si aggiunge
necessariamente alla responsabilità dell’ente.
Abbiamo detto che gli enti giuridici sono quelle associazioni che hanno capacità giuridica e dobbiamo quindi
con chiarezza escludere che si possa parlare di enti giuridici in presenza di organizzazioni di persone, o di
beni, che non abbiano capacità giuridica; non sono enti giuridici in quanto non costituiscono centri unitari di
imputazioni giuridiche. Un’organizzazione che per esempio non possiede capacità giuridica è l’azienda,
l’azienda è il complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa. Questa organizzazione dei beni non
è un ente giuridico, non ha una propria soggettività. Il titolare non è l’azienda, in quanto è solo
un’organizzazione di beni, ma il soggetto che si serve dell’azienda per svolgere esso l’attività
imprenditoriale. Il soggetto sarà un imprenditore, quindi persona fisica, o una società. Diritti ed obblighi non
fanno capo all’azienda, ma al titolare di essa.
Videolezione 2 – Le fondazioni.
La fondazione è l’ente giuridico amministrativo per eccellenza. La fondazione è un ente amministrativo con
personalità giuridica dotato di un patrimonio per il perseguimento di uno scopo non lucrativo. I presupposti
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della fondazione sono due: l’atto costitutivo e l’atto di riconoscimento della pubblica amministrazione. In
particolare, l’atto costitutivo è il negozio giuridico unilaterale che è diretto a creare l’ente e che ha l’effetto di
crearlo sotto la condizione legale del suo riconoscimento da parte dell’autorità amministrativa pubblica; la
legge richiede un atto in forma pubblica, in forma notarile, ma ammette anche che un atto costitutivo di
fondazione possa essere inserito in un testamento. La legge ci dice poi gli elementi che deve contenere
questo atto costitutivo: la denominazione, lo scopo, il patrimonio, i modi e i criteri di utilizzazione delle
vendite, la sede e l’organizzazione dell’ente. Esiste poi una parte normativa che prende il nome di statuto e
che contiene tutte le clausole che disciplinano l’ente nella sua struttura, attività e vicende. L’altro
presupposto essenziale è l’atto di riconoscimento da parte della pubblica amministrazione; senza il
riconoscimento la fondazione non ha personalità e non ha neppure soggettività giuridica. Il nostro
ordinamento non prevede che gestioni patrimoniali assurgano ad enti autonomi dotati di soggettività
giuridica senza che vi sia il riconoscimento dell’autorità pubblica. Questo riconoscimento è fatto dal prefetto
e in definitiva oggi si richiede come condizione per ottenere il riconoscimento, che ci sia un patrimonio
adeguato alla realizzazione dello scopo dell’ente, così come si richiede anche una valutazione dell’utilità
sociale del fine perseguito (su questo punto esistono però delle incertezze in quanto non vi è una menzione
specifica nella legge che richieda il controllo di questa utilità sociale, anche se l’attribuzione alla personalità
giuridica di questi patrimoni deve rispondere effettivamente a una ragione di utilità sociale). La fondazione
deve avere uno scopo non lucrativo, il che significa che non può perseguire interessi economici di
determinati soggetti, ma deve soddisfare i bisogni della generalità, o comunque della collettività dei
destinatari. Un carattere eccezionale rivestono le cosiddette fondazioni familiari, cioè fondazioni che sono
destinate al vantaggio di una o più famiglie determinate. Si deve dire con riguardo a queste fondazioni che
comunque esse non devono soddisfare esclusivamente bisogni economici del gruppo familiare, ma devono
giustificarsi in quanto a dirette a soddisfare i bisogni fondamentali della persona (tutela della famiglia), o
comunque in quanto dirette a realizzare finalità ideali anch’esse valutabili come socialmente utili (per es.
manutenzione di beni di interesse artistico appartenenti alla famiglia).
Abbiamo detto che la fondazione deve avere uno scopo non lucrativo, ma questo non significa che
l’associazione non debba svolgere attività economica. L’attività economica può essere richiesta proprio per
la gestione dei beni appartenenti alla fondazione. Quello che invece è sicuro, è che la fondazione non può
esercitare un’impresa commerciale, neanche se il profitto venga utilizzato per il perseguimento dello scopo
della fondazione, questo perché esercitare un’impresa commerciale significherebbe stravolgere la natura
della fondazione; scopo dell’ente diventerebbe uno scopo commerciale e ciò sarebbe incompatibile con il
fine non lucrativo della fondazione. Si può invece ammettere che la fondazione svolga attività
imprenditoriale, ma in via secondaria e funzionale al perseguimento del suo scopo non lucrativo. Se la
fondazione svolgesse in via principale, o addirittura esclusiva, l’esercizio di un’attività commerciale,
dovrebbe necessariamente essere soggetta alle norme che riguardano gli enti commerciali e quindi, ad
esempio, essere soggetta al fallimento, il che ci conferma quindi come tutto ciò sia incompatibile con la
natura e la struttura della fondazione.
La fondazione è un ente amministrativo perché ha al suo vertice un organo amministrativo, quest’organo
amministrativo è l’organo che governa la fondazione, ovvero, l’organo che decide gli atti di ordinaria e
straordinaria amministrazione. Quest’organo amministrativo normalmente è un organo collegiale “Il
consiglio di amministrazione” e normalmente ha anche il potere rappresentativo, cioè il potere di agire
all’esterno compiendo atti imputabili alla fondazione in quanto atti compiuti nel nome e nell’interesse di
essa. È possibile, peraltro, che lo statuto preveda un particolare organo rappresentativo, per esempio nella
persona del presidente, o del segretario, che diventa allora l’organo rappresentativo esterno; il consiglio di
amministrazione è l’organo che prende poi le decisioni alle quali darà seguito l’organo rappresentativo
esterno.
Per quanto riguarda la rappresentanza, si tratta di una rappresentanza organica. Gli atti che sono compiuti
dagli organi della fondazione sono direttamente imputabili alla fondazione stessa, sempre che siano atti
compiuti nell’esercizio dei poteri spettanti agli organi stessi. Gli atti, che non rientrano nella sfera di
competenza dell’organo, non sono efficaci nei confronti della fondazione. Si tenga presente che la
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fondazione come persona giuridica è soggetta a un particolare regime di pubblicità che richiede la
registrazione degli atti rilevanti della vita dell’ente in un apposito registro, che è il registro delle persone
giuridiche. In questo registro devono risultare tra le altre cose anche i poteri che sono attribuiti agli organi
dell’ente, quindi i terzi sulla base di ciò che risulta dal registro delle persone giuridiche, possono accertarsi
con riguardo ai poteri spettanti agli organi della fondazione. In quanto organi della fondazione, gli
amministratori sono responsabili nei confronti della fondazione per quanto attiene al negligente espletamento
del loro incarico e sono poi responsabili verso i terzi per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività di
gestione, questa responsabilità si estende alla stessa fondazione perché il rapporto organico fa sì che
l’operato di questi organi sia imputato all’ente di cui fanno parte, sempre che si tratti di attività che viene
svolta nell’ambito e nell’esercizio delle loro competenze.
L’atto compiuto dal rappresentante della fondazione è inefficacie se non rientra nell’ambito del potere
rappresentativo dell’organo, ma già l’atto deliberativo può essere inefficacie nei confronti dell’ente se posto
in essere al di là della sfera di competenza dell’organo deliberativo (questo vale per le delibere degli
amministratori, o per il consiglio di amministratore se gli amministratori sono più di uno e costituiscono un
consiglio di amministrazione). Le delibere degli amministratori che eccedono i limiti dello statuto però non
sono di per sé inefficaci, ma possono essere annullate dall’autorità governativa. Questo annullamento rientra
e attesta il tipo di controllo pubblico che viene esercitato sulle fondazioni; il controllo che si manifesta già al
momento della costituzione dell’ente, ma che poi si estende anche per quanto riguarda l’attività dell’ente
stesso. Potere di controllo che fa sì che l’autorità governativa possa tra l’altro nominare, o sostituire gli
amministratori quando non si possa provvedere in base alle norme dello statuto. L’autorità governativa può
inoltre sciogliere il consiglio di amministrazione e nominare un commissario straordinario quando gli
amministratori si comportino sistematicamente in contrasto con le norme dello statuto, o di legge, o
trascurino il perseguimento dello scopo della fondazione.
La fondazione si costituisce per il perseguimento di uno scopo, che ne rappresenta la causa, quindi se questo
scopo diventa impossibile, la fondazione non ha più ragione di essere e quindi dovrebbe estinguersi. La
legge, tuttavia, tende alla conservazione dell’ente prevedendo la possibilità che l’autorità governativa
disponga la trasformazione dell’ente. L’ente si trasforma assumendo uno scopo nuovo in sostituzione di
quello divenuto impossibile, ma ovviamente deve trattarsi di uno scopo analogo a quello originario. La
trasformazione non può aver luogo se lo statuto preveda una diversa sorte dell’ente, stabilendo ad esempio,
che l’ente si estingua e i beni siano devoluti a determinati destinatari. Se non si fa luogo alla trasformazione,
la fondazione si estingue, come si estingue se lo scopo si è interamente realizzato. L’estinzione deve essere
dichiarata formalmente dall’autorità governativa, questa dichiarazione di estinzione però non pone
immediatamente fine all’ente, ma apre una fase di liquidazione nella quale i beni della fondazione sono
liquidati, convertiti in denaro, che deve essere impiegato in via primaria per il pagamento dei debiti dell’ente.
Conclusa la liquidazione, la fondazione cessa di esistere; nel caso in cui via siano beni residui è l’autorità
governativa che provvede a stabilire la destinazione di questi beni residui, indicando enti pubblici o privati
aventi scopi analoghi a quelli dell’estinta fondazione.
Come detto precedentemente, presupposto essenziale della fondazione è il riconoscimento dell’autorità
pubblica, senza questo riconoscimento non vi è fondazione e non vi è neppure un ente dotato di soggettività
giuridica. I beni possono essere raggruppati ed essere destinati a scopi particolari, ma questo non basta per
far sì che questo sia un ente dotato di soggettività giuridica. Va detto tuttavia che un’ipotesi di soggettività
giuridica di una fondazione non riconosciuta è possibile riscontrarla con riguardo al caso, però del tutto
particolare, della fondazione in attesa di riconoscimento. Nel periodo che va dal momento dell’atto
costitutivo a quello del riconoscimento, si apre una fase provvisoria nella quale può rendersi necessaria
un’attività di gestione. Nelle disposizioni di attuazione del Codice civile è previsto che il prefetto possa
chiedere al tribunale, in caso di urgenza, o di necessità, la nomina di un amministratore provvisorio dei beni
della fondazione (questo anche per quanto riguarda l’attesa di riconoscimento). L’amministratore provvisorio
è comunque un amministratore la cui attività deve ritenersi imputabile all’ente, quindi in questo periodo
transitorio noi abbiamo una fondazione che non è ancora riconosciuta e che in qualche modo però può essere
operante. Si badi bene che tutto è subordinato comunque all’atto di riconoscimento, questo perché se l’atto di
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riconoscimento non interviene, allora gli atti compiuti in nome e per conto dell’istituenda fondazione,
decadono e le obbligazioni assunte dall’amministratore provvisorio, o da coloro che abbiano agito in nome e
per conto dell’istituenda fondazione, sono obbligazioni di cui rispondono personalmente coloro che le hanno
assunte. Diciamo quindi che la soggettività che si può riconoscere alla fondazione in attesa di
riconoscimento, è una condizione soggettiva provvisoria ed è essenzialmente connessa alla procedura di
riconoscimento.
Videolezione 3 – Associazioni e comitati.
Nell’ambito degli enti a struttura associativa, la struttura centrale è rappresentata dall’associazione, cioè
l’organizzazione stabile di persone per il perseguimento di uno scopo non lucrativo. L’associazione ha un
ruolo importante nella vita associata perché è l’associazione che consente ai consociati di realizzare interessi,
finalità, valori comuni che non sarebbe possibile realizzare singolarmente, o sarebbe comunque molto
difficoltoso. Ovviamente tutta la comunità statale può essere vista come un’organizzazione unitaria, ma non
c’è dubbio che poi nell’ambito di questa ampia e generale organizzazione, si formino raggruppamenti minori
dove il singolo riesce a inserirsi e a sviluppare la propria personalità. Finalità delle associazioni possono
essere varie e sono tutte finalità non lucrative, ma che comunque possono acquistare un’importanza notevole,
si pensi, per esempio, che i sindacati si sono costituiti attraverso lo strumento dell’associazione, così come i
partiti politici, che si organizzano in termini di associazione. Diciamo quindi che le associazioni
rappresentano uno strumento di fondamentale importanza nella vita sociale del Paese.
Le associazioni sul piano giuridico si distinguono in: associazioni riconosciute e associazioni non
riconosciute. L’associazione riconosciuta è riconosciuta come persona giuridica ed è quindi un’associazione
che ha acquistato la personalità giuridica a seguito di un riconoscimento. L’associazione che non è
riconosciuta non ha personalità giuridica, ma diciamo che questo non esclude non solo l’esistenza e
l’operatività dell’associazione, ma soprattutto non esclude l’importanza che l’associazione assume e il ruolo
che essa svolge. Può sembrare paradossale, ma sono le associazioni non riconosciute che assumono
maggiore importanza nel contesto sociale. Per esempio, né i sindacati, né i partiti politici hanno personalità
giuridica; si tratta di associazioni non riconosciute. Mentre fino a qualche tempo fa la mancanza di
personalità portava a grosse limitazioni dell’ente, ora queste limitazioni sono cadute. Oggi la distinzione tra
associazioni riconosciute e associazioni non riconosciute diventa minima ed è rappresentata dal fatto che le
associazioni riconosciute godono di autonomia patrimoniale perfetta, ma questo è un elemento che tutto
sommato non ha un grande rilievo nella vita e nell’organizzazione dell’ente.
Il Codice civile si occupa diffusamente dell’associazione riconosciuta, prevedendo che essa si formi
attraverso un atto costitutivo, che è l’atto che dà origine all’associazione, atto che deve farsi in forma
pubblica, in forma notarile e che ha un determinato contenuto: deve indicare quelli che sono i connotati
dell’associazione, lo scopo, la denominazione, la sede e deve contenere anche disposizioni circa l’attività e la
disciplina dell’ente. Deve cioè contenere una parte statutaria. Parlando di associazione riconosciuta,
facciamo riferimento ad associazioni che hanno il riconoscimento dell’autorità governativa. Prima che
intervenga questo riconoscimento, tuttavia l’associazione esiste e comunque ha capacità giuridica generale.
Quindi, questo periodo transitorio, che va dalla costituzione dell’associazione al suo riconoscimento, è un
periodo nel quale l’ente può già iniziare a pieno regime la sua attività.
Dicevamo che l’ente costitutivo deve indicare tra l’altro la denominazione dell’associazione, cioè
l’appellativo che contraddistingue l’ente. Questa denominazione è tutelata analogamente al diritto al nome
della persona fisica. Questo vuol dire che l’associazione ha il diritto di usare la sua denominazione in via
esclusiva e ha il diritto di escludere che altri enti utilizzino la stessa denominazione, o una denominazione
simile al punto tale da generare confusione nei terzi. - Il problema della denominazione è sorto
principalmente nei casi di scissione dell’associazione, questo perché la scissione dell’associazione pone
subito il problema di chi possa vantare il diritto di usare la denominazione originaria. Il problema
generalmente viene risolto attribuendo questo diritto a quella parte di associazione che rappresenta la
maggioranza dell’associazione originaria.

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Va indicata poi anche la sede, ovvero il luogo dove l’associazione ha la sede principale della sua attività. La
sede risulta dall’atto costitutivo e risulta anche dal registro delle persone giuridiche e i terzi quindi, sulla base
di queste indicazioni, possono fare affidamento su quella che è la sede dell’associazione. La sede è
importante perché tra l’altro essa va a determinare quello che è il foro generale dell’associazione. Questo
vuol dire che l’associazione deve essere convenuta in giudizio presso il giudice territorialmente competente e
questa competenza territoriale fa riferimento appunto alla sede dell’associazione.
L’associazione persegue uno scopo non lucrativo e questo scopo identifica la funzione dell’ente. Con la
funzione ne rappresenta il connotato in ragione del quale l’ente è giuridicamente tutelato. L’associazione può
perseguire interessi economici, in effetti l’associazione persegue uno scopo non lucrativo, ma questo non
esclude che gli associati possano trarre benefici economici dall’associazione. Quello che è importante è che
questi benefici economici siano benefici percepiti direttamente dall’attività dell’ente e che non si tratti invece
di dividendi del profitto dell’attività economica. Quindi è normale che un’associazione offra dei vantaggi
economici agli associati (per esempio un circolo ricreativo consente agli associati di frequentare
gratuitamente i locali dell’associazione). Se invece l’associazione svolgesse l’attività commerciale e
provvedesse a dividere tra gli associati gli utili realizzati, saremmo al difuori dell’associazione ed
entreremmo nel campo delle società. L’esercizio di un’attività commerciale è del tutto incompatibile con la
natura dell’associazione. Va anche detto tuttavia che non è incompatibile con la natura e la funzione non
lucrativa dell’associazione lo svolgimento di attività economiche commerciali occasionali e comunque
marginali e funzionali allo scopo dell’associazione. È ammissibile così che un’associazione pubblichi, per
esempio, libri o riviste che immetta sul mercato a pagamento, realizzando quindi un utile, ma deve sempre
trattarsi di un’attività marginale e funzionale alla finalità dell’associazione (per es. si tratterà di pubblicazioni
che hanno ad oggetti gli interessi coltivati dall’associazione).
L’associazione è un ente a struttura associativa si intende quindi che l’organo fondamentale dell’associazione
è l’assemblea, cioè la riunione degli associati in funzione deliberante. L’assemblea è l’organo che decide su
tutto quello che concerne l’ente, sia per quanto riguarda la sua disciplina, che per quanto riguarda la sua
attività. L’assemblea esprime in forma collegiale la volontà degli associati, i quali sono portatori in proprio
dell’interesse all’esistenza e all’attività del gruppo. L’interesse dell’associazione si immedesima
nell’interesse dei singoli associati. Questa volontà dell’assemblea che viene espressa attraverso le delibere, si
realizza tramite atti negoziali, ai quali in linea di massima si applicheranno le norme del contratto, ma
tenendo presente che la delibera dell’assemblea non è un contratto in quanto non è un accordo tra più
soggetti, ma è un atto unilaterale (attribuito a un unico organo, che è l’assemblea) che si forma non attraverso
l’accordo, ma attraverso la manifestazione di volontà della maggioranza. Quindi, l’atto dell’assemblea è un
atto pienamente valido ed efficace direttamente imputato all’associazione e che quindi vincola direttamente
tutti, compresi gli associati dissidenti, compresi quegli associati che non hanno partecipato, o hanno
manifestato una volontà contraria a quella invece risultante dall’atto approvato dalla maggioranza. Siamo
dunque al di fuori della figura del contratto, ma siccome la disciplina del contratto si applica in quanto
compatibile anche con gli atti unilaterali, gli atti negoziali unilaterali, le norme del contratto troveranno
anche in questo caso applicazione. La legge prevede però un particolare regime di invalidità di questi atti; la
legge sancisce la regola secondo la quale le delibere contrarie alla legge, all’atto costitutivo, o allo statuto,
sono soggette ad annullamento a seguito di domanda che può essere proposta sia dagli organi dell’ente, sia
dal pubblico ministero, sia da qualsiasi associato e può ritenersi che legittimati all’azione di annullamento
della delibera possano essere anche coloro che sono stati direttamente lesi dalla delibera che in ipotesi è
contraria alla legge, all’atto costitutivo, o allo statuto. La particolarità di questa azione di annullamento è data
dal fatto che la delibera può essere sospesa dall’autorità giudiziaria e cioè temporaneamente privata di effetti
quando sussistano gravi motivi; altra particolarità è che se si tratti di deliberazioni contrarie all’ordine
pubblico, o al buon costume. L’esecuzione della delibera può essere disposta anche dall’autorità governativa.
L’associazione è un ente a struttura associativa, ma ovviamente anch’essa ha i suoi amministratori, cioè
organi competenti a compiere atti di gestione e a rappresentare l’associazione all’esterno nei confronti dei
terzi. Questo potere di rappresentanza che spetta agli amministratori deve risultare dallo statuto
dell’associazione e il Codice ci dice che le limitazioni di questo potere devono essere indicate nel registro
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delle persone giuridiche. Gli amministratori sono responsabili nei confronti dell’associazione e nei confronti
dei terzi, così come sono responsabili gli amministratori delle fondazioni; si applicano gli stessi principi
valevoli per gli amministratori delle fondazioni.
L’associato fa parte dell’associazione e questa sua partecipazione ha una natura personale, rappresenta una
posizione giuridica soggettiva che non è trasmissibile, non è suscettibile di valutazione economica. Questo
diritto di partecipazione è un diritto al quale l’associato può rinunciare e può rinunciarvi attraverso il recesso.
Il Codice si preoccupa di sottolineare la libertà di recesso dell’associato “L’associato può sempre recedere
dall’associazione”; il Codice ammette tuttavia la possibilità che l’associato si sia obbligato a permanere
nell’associazione, ma per un tempo determinato. Un impegno a rimanere per sempre nell’associazione deve
dunque ritenersi radicalmente nullo, o anche deve ritenersi nullo l’impegno a rimanere per un periodo
talmente lungo da essere equivalente a un impegno senza termine. Va anche aggiunto che anche quando
l’associato si sia impegnato a restare per un determinato periodo di tempo nell’associazione, egli ha la
possibilità di recedere per giusta causa. Se vi è giusta causa, l’associato può recedere dall’associazione
nonostante la mancata scadenza del termine. Mentre l’associato ha la libertà di recedere dall’associazione,
non vi è un correlativo diritto dell’associazione di escludere l’associato dal gruppo. Questo vuol dire che se
l’associato intende permanere nell’associazione, l’associazione per bocca dei suoi organi non può decidere di
espellere l’associato. Per estromettere l’associato dall’associazione occorre che ci siano gravi motivi, “la
giusta causa”. Vige comunque il diritto dell’associato che, se ritiene di essere stato ingiustamente espulso
dall’associazione, può ricorrere all’autorità giudiziaria, ma questo deve farlo entro il termine di 6 mesi. Se
l’associato recede, o viene espulso dall’associazione, non ne fa più parte e non può pretendere alcun che in
termini economici, né sui beni, né sulle attività dell’associazione. Non vi è dunque l’idea che l’associato
abbia diritto a una liquidazione dal patrimonio dell’associazione. - Si conferma in questo modo il carattere
non patrimoniale dell’associazione e del rapporto associativo.
Analogamente a quanto si può dire per la fondazione, l’associazione si estingue quando lo scopo per il quale
essa si è costituita diventa impossibile, o si esaurisce e comunque si estingue quando si verifica una delle
cause di estinzione che siano previste nell’atto costitutivo dell’associazione; si può estinguere poi, e questa è
una causa specifica, a seguito di una delibera dell’assemblea. L’assemblea può deliberare l’estinzione
dell’associazione, ma in questo caso occorre il voto favorevole di almeno ¾ degli associati. Un’altra causa
specifica riguarda la condizione per la quale, essendo l’associazione un ente a struttura associativa, se
mancano gli associati ovviamente l’associazione si estingue e si estingue anche se viene meno la pluralità
degli associati, ovvero se rimane un solo associato, ma qui la legge prevede la possibilità che l’associazione
si ricostituisca nella pienezza della sua realtà associativa, quindi si determina un periodo di attesa in vista
della possibilità che si ricostituisca una pluralità di associati. A differenza della fondazione, l’autorità
governativa non può deliberare la trasformazione dell’associazione, quindi se lo scopo diventa impossibile, o
se si verifica una delle altre cause di estinzione dell’associazione, la vita dell’associazione viene meno, cessa.
Ma anche qui, come per le fondazioni, dobbiamo tener conto che si apre una fase di liquidazione dell’ente,
fase nella quale si provvede alla realizzazione delle attività economiche dell’ente (per es. pagamento dei
debiti) e quindi cessazione totale dell’esistenza dell’ente quando questa fase di liquidazione si è conclusa. Al
termine di questa fase di liquidazione possono residuare dei beni, degli utili economici, la sorte di questi
residui è generalmente stabilita dall’assemblea, ma in mancanza, può provvedere anche in questo caso
l’autorità governativa; l’autorità governativa attribuisce i beni residui a enti aventi fini analoghi a quelli
dell’associazione ormai estinta.
Come abbiamo detto precedentemente, la differenza tra le associazioni riconosciute e quelle non riconosciute
sta nel fatto che le associazioni non riconosciute non abbiano autonomia patrimoniale perfetta.
L’associazione non riconosciuta assume obbligazioni, ma la responsabilità dell’associazione (l’associazione
risponde con il proprio fondo patrimoniale), si accompagna a quella di coloro che hanno agito in nome e per
conto dell’associazione. Questo aspetto si può comunque considerare marginale in quanto per il resto,
l’associazione non riconosciuta è sostanzialmente disciplinata alla stregua riconosciuta, con la particolarità
che non è soggetta a quegli oneri formali e a quei controlli che sono propri dell’associazione riconosciuta
(per es. non occorre andare dal notaio per costituire un’associazione non riconosciuta). Questo spiega come
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mai associazioni così importanti come i sindacati e come i partiti abbiano sempre rifiutato di acquistare la
personalità giuridica e si sono rifiutate di acquistare la personalità giuridica proprio per evitare quei controlli
dell’autorità governativa che possono anche, in dipendenza del clima politico, diventare particolarmente
intensi ed oppressivi e compromettere quella libertà di associazione che viene realizzata con particolare
intensità in associazioni come quelle sindacali e politiche.
Le associazioni, si è detto, sono enti aventi uno scopo essenzialmente non lucrativo, ma vi sono associazioni
che si distinguono ulteriormente in quanto non solo non perseguono uno scopo non lucrativo, ma perseguono
uno scopo altruistico di utilità sociale. Questo viene preso in particolare considerazione dalla legge, che ha
previsto una categoria di associazioni, che in qualche modo può considerarsi una categoria privilegiata: le
associazioni di promozione sociale. Le associazioni di promozione sociale si caratterizzano per uno scopo
altruistico di utilità sociale. Tra queste associazioni di promozione sociale possiamo identificare una
particolare categoria di associazioni di promozione sociale, che sono le associazioni di volontariato. Le
associazioni di volontariato hanno una loro specifica caratteristica rappresentata dal fatto che gli associati
prestano opera di utilità sociale in modo personale, oltre che spontaneo e gratuito. Quindi le associazioni di
volontariato sono associazioni che perseguono fini di solidarietà sociale, ma il perseguimento di questi fini
avviene attraverso l’opera personale degli associati, i volontari. Questa categoria delle associazioni di
promozione sociale, che comprende la categoria delle associazioni di volontariato, ha una disciplina
privilegiata e i privilegi sono di varia natura, soprattutto riguardano il concorso dello stato e degli enti
pubblici nella promozione dell’attività di queste associazioni. Sul piano della stretta disciplina giuridica però
riscontriamo anche una differenza di un certo rilievo e cioè che coloro i quali agiscono in nome e per conto
dell’associazione rispondono in via sussidiaria dei debiti assunti. Questo vuol dire che le obbligazioni
assunte da questi rappresentanti, sono obbligazioni che fanno capo all’associazione, quindi ne risponde
l’associazione con il proprio fondo, ma ne rispondo anche coloro che hanno assunto le obbligazioni, ma
questa responsabilità essendo sussidiaria è una responsabilità di secondo grado, che viene attivata quando e
solamente quando il fondo sociale sia stato infruttuosamente escusso. Questo vuol dire che, se i creditori non
riescono ad essere soddisfatti perché l’associazione non ha beni sufficienti, in quel caso possono rivolgersi
agli amministratori dell’associazione – Regola diversa da quella generale che riguarda le associazioni, dove
coloro che agiscono in nome e per conto dell’associazione, sono solidalmente responsabili e questo vuol dire
che i creditori anziché rivolgersi all’associazione possono rivolgersi, indistintamente, a coloro che hanno
assunto le obbligazioni in nome e per conto dell’associazione e pretenderne il pagamento.
Nell’ambito degli enti a struttura associativa, si colloca anche il comitato. Il comitato è un’organizzazione di
persone che perseguo uno scopo altruistico mediante la raccolta pubblica di fondi. Comitati tipici sono quelli
che si costituiscono per finalità di soccorso, o di beneficienza, o anche per promuovere opere pubbliche, o
manifestazione di interesse culturale, o collettivo (per es. comitati per i festeggiamenti del patrono locale del
paese). Il comitato non è governato al vertice da un organo amministrativo, ma è governato da coloro che ne
fanno parte nella veste di promotori, organizzatori, componenti. Si spiega quindi come trovino applicazione
le norme proprie dell’associazione. Il comitato generalmente non è persona giuridica in quanto persegue
scopi che non sono tendenzialmente duratori; tuttavia, è possibile che il comitato si costituisca e ottenga il
riconoscimento come persona giuridica. In questo caso si applicheranno per intero le norme sull’associazione
riconosciuta. Se invece come di regola, il comitato non è riconosciuto come persona giuridica, si
applicheranno le regole e la disciplina propria dell’associazione non riconosciuta, tenendo conto tuttavia
della peculiarità di questo comitato. Peculiarità che è data dal fatto che il comitato persegue il suo scopo
attraverso il reperimento pubblico di fondi. Questo comporta una particolare responsabilità dei componenti
del comitato per quanto attiene la gestione di questi fondi. I fondi devono essere erogati esclusivamente per
lo scopo dichiarato. Questo significa che i membri del comitato non hanno alcun diritto su questi fondi e che
sono responsabili della cattiva gestione dei fondi stessi; soprattutto responsabili di non aver destinato i fondi
alla finalità per la quale i fondi erano stati raccolti dal pubblico. Ciò spiega una particolare severità della
legge per quanto riguarda la responsabilità di questi componenti del comitato, i quali rispondono
personalmente e solidalmente delle obbligazioni assunte. È dunque tutto il comitato ad essere responsabile
per quanto riguarda la gestione di questi fondi, mentre nessuna responsabilità può gravare su coloro che

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hanno contribuito a incrementare i fondi stessi. Questa è dunque una regola di massima severità che
sottolinea come, trattandosi di gestire denaro offerto dal pubblico, questa gestione debba essere garantita al
massimo.
Argomento 6
Videolezione 1 – L’impresa familiare.
La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha inteso primariamente garantire una tutela al lavoro del
familiare, al lavoro del soggetto che collabora con chi esercita l’attività d’impresa ed è suo familiare. Questa
tutela è stata finalizzata a escludere determinate situazioni di sopraffazione di un membro della famiglia sugli
altri, che prestavano a titolo gratuito tendenzialmente l’attività nell’impresa del loro parente, o del loro
affine. Si voleva evitare che non vi fosse un riconoscimento a tutela del soggetto che prestava l’attività di
lavoro e che spesso prima di questa riforma non aveva una tutela; prestava l’attività gratuitamente e nulla
poteva pretendere considerato che non veniva inquadrato all’interno di nessun altro tipo di rapporto.
L’impresa familiare quindi risponde a questa esigenza come istituto e si tratta di una fattispecie caratterizzata
da una comunità paritaria di lavoro che è fondata sulla solidarietà all’interno di un modello di famiglia
diverso da quello tradizionale, che è quello nucleare composto da genitori e figli, in quanto i soggetti che
possono partecipare all’impresa familiare e che hanno i diritti, rappresentano un modello di famiglia senza
dubbio più ampio, più allargato, che va oltre la famiglia nucleare e che non fa un passo indietro richiamando
in maniera forte il principio della famiglia patriarcale, in quanto non sono riconosciuti i privilegi al capo
famiglia come invece avveniva nel modello ordinamentale della famiglia patriarcale. Non esiste un capo
famiglia che abbia determinate prerogative in più rispetto agli altri, che abbia determinati privilegi, questi
sono stati aboliti nel modello di famiglia preso in considerazione dall’impresa familiare. La famiglia da
considerare è una famiglia più allargata in quanto può capitare che membri della famiglia in senso più largo,
non solo quindi figli e genitori, possano prestare attività di lavoro per l’impresa di famiglia (impresa attivata
da uno dei familiari che formalmente risulta il titolare dell’impresa, l’imprenditore). Prestando questa attività
di lavoro, essi devono essere tutelati, non può più presumersi una gratuità del lavoro del familiare. L’attività
produttiva unitaria prestata dal familiare fa sorgere i diritti; se si presta attività in maniera unitaria ( unitaria
significa che più soggetti prestano l’attività per il perseguimento di un unico fine, che è il raggiungimento
dell’attività dei fini imprenditoriali di quell’impresa) e in maniera continuativa, questo prestare attività in
maniera continuativa verso una direzione unitaria, che è il raggiungimento dei fini imprenditoriali, comporta
partecipazione all’impresa familiare e applicazione dei diritti previsti dalla norma. La legge ha voluto
valorizzare ogni tipo di attività svolta dal soggetto per il fine dell’impresa, attività che può essere prestata
all’interno dei locali dell’impresa, così come all’interno delle mura domestiche. Quindi non è differente la
considerazione che il legislatore ha dell’apporto dato, per esempio, da chi svolge delle mansioni di sforzo e
fatica all’interno dei locali dell’impresa lavorando come operaio, rispetto all’attività svolta all’interno delle
mura domestiche da chi, ad esempio, stira e lava continuamente tutti gli abiti dei lavoratori di questa impresa
familiare. L’attività domestica se è finalizzata alla produttività dell’impresa, deve essere considerata alla
pari, ovviamente in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Quindi quella moglie (o quel
marito) che, per esempio, dovesse stare a casa a stirare gli abiti utilizzati per l’impresa, deve essere
convocata per le decisioni per le quali ha diritto di voto e queste decisioni importanti vanno prese a
maggioranza dai familiari.
Ricordiamo che l’impresa familiare è un modo molto diffuso di svolgere attività d’impresa, un modo molto
diffuso che viene attuato all’interno di tutte le tipologie di impresa: piccole, grandi, medie. Le imprese di
produzione del vino, le cantine, per esempio, o i vigneti, sono spesso condotti con imprese familiari.
Analizziamo in primo luogo i soggetti; la norma indica il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini
entro il secondo grado. Ma coniuge di chi? Parente di chi? Affine di chi? Su questo vi sono due visioni:
considerata la finalità solidaristica dell’impresa familiare e considerato che la legge non specifica di chi
debbano essere i parenti, una tesi più restrittiva prende in considerazione il fatto che ci sia un soggetto che
abbia avviato l’attività d’impresa, che ha la titolarità dell’impresa (che definiamo formalmente
imprenditore), e sostiene che verso questo soggetto debba sussistere il rapporto di coniuge, o di parentela
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entro il terzo grado, o di affinità entro il secondo; una tesi più ampia, preferibile, ritiene che il rapporto debba
sussistere nei confronti di un qualsiasi compartecipe dell’impresa familiare – tesi solidaristica. La tesi più
diffusa è quella restrittiva, la prima. Anche se la situazione giuridica che viene riscontrata (per esempio
all’interno di un giudizio di nullità di matrimonio) non corrisponde con quella effettiva - in caso di nullità del
matrimonio, i due soggetti non sono realmente legati dal vincolo – l’attività che è stata prestata dal soggetto
in questione, è un’attività che ormai dà diritto a quanto previsto dall’articolo 230 bis. Nel caso di soggetto
che poi divorzia invece, una volta cessati gli effetti civili con il divorzio, cessa anche il diritto di partecipare.
Stessa cosa avviene nel caso in cui venga disconosciuto un figlio; se il figlio ha prestato attività, deve essere
considerato parte dell’impresa familiare fino a quando non c’è la sentenza di disconoscimento, dalla sentenza
di disconoscimento è chiaro che il vincolo viene risolto, questo come avviene anche nel caso in cui viene
revocata un’adozione.
La legge indica poi come possibili partecipanti dell’impresa familiare gli incapaci, i minori e gli interdetti,
rappresentati ovviamente dal loro legittimo rappresentante e, la solidarietà che si è inteso garantire con
l’istituto dell’impresa familiare, porterebbe a dire che anche il convivente che convive come fosse sposato
con il proprio partner (more uxorio), dovrebbe essere considerato alla stregua del coniuge e quindi come
soggetto che possiede i diritti previsti dall’articolo 230 bis, questo se ovviamente presta attività finalizzata
all’impresa familiare – in realtà, per quanto riguarda il coniuge, la legge esprime formalmente dissenso, ma
la Cassazione sembrerebbe aver manifestato una sorta di apertura a riguardo.
I diritti che spettano al familiare che presta attività nell’impresa:
- Il primo diritto che spetta al familiare è il mantenimento: il mantenimento non è un normale tipo di
corrispettivo, un corrispettivo cioè che troviamo negli altri casi di pagamento di un qualcosa perché
si lavora; il mantenimento è un corrispettivo che si lega strettamente alla famiglia. Quando sentiamo
parlare di mantenimento, il mantenimento è inteso come qualcosa che si lega alla solidarietà
familiare e quindi dipende dalla famiglia, dalle esigenze della famiglia e dal tenore della famiglia. I
criteri da applicare quindi per sapere quanto deve essere pagato a titolo di mantenimento, sono dei
criteri che devono riguardare innanzitutto il tenore di vita che quella famiglia ha; in relazione al
tenore di vita della famiglia, si deve pagare a quel soggetto quanto serve per il suo mantenimento. Il
tenore di vita della famiglia però, non deve essere considerato quello che si ha prima dell’avvio
dell’attività d’impresa, perché per esempio una famiglia in condizioni modeste e quindi per il cui
mantenimento servono determinate cifre modeste, potrebbe, con l’attività d’impresa, invece
arricchirsi. Per questo motivo, il mantenimento da dare a ciascun compartecipe (diritto di ciascun
compartecipe) deve essere commisurato ai profitti dell’impresa, in modo che avvenga una
solidaristica ripartizione della ricchezza familiare.

- I diritti che riguardano la partecipazione agli utili e agli acquisti fatti con essi: i familiari
compartecipi hanno diritto agli utili e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda,
in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Questi utili da attribuire a tutti i
compartecipi hanno come limite il diritto al mantenimento. Quindi, come si fa a distribuire gli utili
tra tutti? Si devono distribuire gli utili tra tutti, così come anche gli incrementi, in modo tale da
garantire quel mantenimento rapportato alla ricchezza che può caratterizzare la famiglia, grazie
appunto all’attività d’impresa. Quindi, considerato che alcuni utili potrebbero essere impiegati per
fare acquisti, o investimenti, quindi per un impiego che non comporta una loro redistribuzione,
sempre con decisione assunta a maggioranza dei compartecipi, sorge il problema di coloro che sono
in minoranza, che magari li avrebbero voluti ridistribuiti. Cosa succede in questo caso? Coloro che
non rappresentano la maggioranza devono soccombere, ma solo nei limiti in cui questi utili non
servano per il mantenimento che a loro è dovuto. Quindi è importante comprendere che il
mantenimento è il primo dei diritti da assicurare e l’eventuale decisione presa dalla maggioranza in
relazione all’impiego degli utili e degli incrementi, non può mai essere una decisione che limita il
diritto al mantenimento. Anzi, la decisione assunta dalla maggioranza ha come suo limite il diritto di
tutti al mantenimento, che è la prima garanzia che deve essere assicurata, in quanto devono essere
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soddisfatte le esigenze di vita del familiare e quindi di ogni compartecipe. Questo perché, in
relazione alle decisioni assunte, quando c’è questa solidarietà, come deve esserci nel caso di lavoro
familiare, deve essere esclusa ogni tipo di conflittualità tra classe imprenditoriale e classe
lavoratrice; si tratta di un lavoro prestato all’interno di una comunità, una comunità familiare che ha
pari diritti e ciascuno dei compartecipi deve in ogni caso ottenere il mantenimento (limite di tutte le
altre decisioni, anche assunte a maggioranza).
Con riguardo all’amministrazione, altro diritto, abbiamo visto che i compartecipi, a maggioranza, decidono
sull’impiego degli utili e degli incrementi, ma anche sulla cessazione dell’impresa, oltre anche
all’amministrazione straordinaria (serve la maggioranza dei compartecipi per gli atti di straordinaria
gestione). Con riguardo all’amministrazione ordinaria, questa spetta ai normali amministratori; per esempio,
l’imprenditore titolare potrebbe essere l’amministratore dell’impresa familiare e quindi la gestione ordinaria
potrebbe spettare a lui.
Come si calcola la maggioranza? Siamo in un regime solidaristico, un regime per il quale vale il voto della
persona. La maggioranza viene dunque calcolata per persone, si dà rilievo alla persona, alla dignità della
persona il cui voto vale 1. Ciascun compartecipe ha diritto al voto al pari di tutti gli altri. Le decisioni da
prendere a maggioranza possono anche riguardare l’esclusione di uno dei familiari; per giusta causa la
maggioranza dei compartecipi può escludere uno dei familiari e quindi lo scioglimento del rapporto, lo
scioglimento dell’impresa, può riguardare anche solo uno dei familiari. Che succede quando cessa l’impresa,
quando si trasferisce l’impresa, o c’è una divisione ereditaria dell’impresa per successione ereditaria? In
questo caso ciascun compartecipe ha un diritto, il diritto di prelazione. Nel caso di comunione ereditaria,
quando si deve operare la divisione, ci sono dei diritti di prelazione ereditaria che sono molto forti. Questo
significa che se si intende trasferire l’azienda, o nel caso di divisione ereditaria dell’azienda, al compartecipe
deve essere effettuata innanzitutto una notifica - Per es. se c’è l’intenzione di vendere l’impresa a qualcuno, a
quelle stesse condizioni di vendita, il compartecipe ha diritto di essere preferito e quindi di rilevare l’azienda.
Se viene violato questo suo diritto, ovvero non gli viene notificata l’intenzione di vendere e viene effettuato
il trasferimento a un altro, il compartecipe ha addirittura il diritto di riscatto. Il compartecipe può andare dal
soggetto che ha rilevato l’azienda e riscattarla pagando quanto lui ha pagato per rilevare l’azienda; riscatta
dunque a suo favore l’azienda. È importante poi specificare con riguardo alla divisione dell’impresa per
successione ereditaria, che un patto di famiglia (contratto con cui l’imprenditore trasferisce, in tutto o in
parte, la propria azienda ad uno o più discendenti) non può derogare alla prelazione, il diritto di prelazione
viene sempre garantito.
L’impresa familiare è considerata un istituto residuale. Questo significa che l’impresa familiare si applica
quando manca un rapporto già giuridicizzato alla base della prestazione dell’attività lavorativa. Cioè se c’è
un rapporto di lavoro subordinato tra l’imprenditore e un parente, non si applica l’impresa familiare e questo
perché esiste già un rapporto. La legge intende l’impresa familiare come istituto che si applica in maniera
residuale, cioè se non si applicano altre discipline, se non è già giuridicizzato un altro tipo di rapporto. Anche
nel caso vi sia un’attività precaria di lavoro prestata per l’impresa familiare, questa deve essere considerata ai
fini dell’applicazione dell’articolo 230 bis. Per la solidarietà che caratterizza questo istituto, si deve ritenere
che qualsiasi tipo di attività che venga prestata per l’impresa familiare comporti la tutela prevista
dall’articolo 230 bis e il riconoscimento dei diritti sopraelencati. Si pensi che addirittura si è arrivato a dire
che anche l’attività di studio per il conseguimento della laurea può integrare un apporto nell’impresa
familiare quale investimento nella formazione professionale economicamente valutabile.
La responsabilità per i crediti di impresa comporta la possibilità del creditore di aggredire i beni acquistati
per l’esercizio dell’attività. Nell’esercizio dell’attività di impresa familiare abbiamo detto che si acquistano
dei beni e i creditori possono dunque aggredire i beni che sono stati acquistati per l’esercizio dell’attività.
Questo però è escluso se gli atti di amministrazione che hanno portato al sorgere del credito sono effettuati
da un soggetto che non era legittimato, in quel caso è quel soggetto che deve essere chiamato in
responsabilità, il creditore non potrà certo aggredire i beni di tutti. Ricordiamo ovviamente che gli atti di
amministrazione straordinaria devono essere adottati su decisione della maggioranza e se per caso un
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soggetto, in mancanza di decisione della maggioranza, dovesse compiere un atto di amministrazione
straordinaria facendo sorgere un credito, è chiarò che dovrà essere questo soggetto a rispondere, non i beni
acquistati per l’esercizio dell’attività. In ogni caso il compartecipe, che al sorgere del credito, non ha agito
per conto dell’impresa, non può rispondere in maniera illimitata con il proprio patrimonio.
Con riguardo ai beni dell’impresa, se questa impresa viene avviata con dei beni dell’imprenditore che ha
avviato l’impresa, il fatto che poi si svolga un’impresa familiare, non fa acquistare una comproprietà di
questi beni in capo agli altri soggetti, la situazione di titolarità dei beni che si usano per l’esercizio
dell’impresa resta tale, non viene scalfita dall’impresa familiare; cosa diversa se si impiegano nuovi beni con
gli utili.
Videolezione 2 – L’impresa familiare del Prof. Bianca
Gli alimenti legali sono le prestazioni di assistenza materiale dovute per legge alla persona che si trova in
stato di bisogno economico; ma chi è tenuto per legge agli alimenti legali? Il coniuge (è facile osservare che
il coniuge ha diritto a un’assistenza materiale che gli consenta di vivere secondo il livello proprio della
famiglia, ma sappiamo poi anche che in caso di separazione con addebito, il coniuge abbia diritto solamente
agli alimenti legali), i figli (in loro mancanza i discendenti), gli adottanti, i genitori (in loro mancanza gli
ascendenti), i generi, le nuore, i suoceri, i fratelli, le sorelle. Da questo quadro si desume che non sussiste
l’obbligo degli alimenti legali nei confronti del parente che non rientri in questa cerchia (per esempio la zia),
invece, la legge menziona il donatario e lo indica come tenuto agli alimenti su ogni altro obbligato, a meno
che non si tratti di donazione fatta in riguardo a un matrimonio, o di una donazione rimuneratoria. Gli
alimenti legali sono dovuti quando ci sia una situazione di bisogno, intesa come incapacità della persona di
provvedere alle fondamentali esigenze di vita, quindi, diciamo che deve trattarsi di una situazione di
indigenza, mentre l’obbligato deve trovarsi in una situazione che consenta di adempiere quest’obbligo degli
alimenti legali senza compromettere l’esigenza che attiene all’assistenza della propria famiglia, senza
compromettere il soddisfacimento delle proprie fondamentali esigenze di vita.
In che cosa consiste la prestazione degli alimenti legali e qual è il contenuto di questa obbligazione
alimentare? Il contenuto è un contenuto che si determina in base alla finalità di consentire all’alimentando di
soddisfare le sue fondamentali esigenze di vita. Deve essere quindi una prestazione che gli consenta non solo
lo stretto necessario (si pensi per esempio al vitto e all’alloggio), ma anche a quei beni e a quei servizi che
nell’attuale società integrano un minimo di vita dignitosa. Questa indicazione viene però poi ristretta quando
si tratti di fratelli e sorelle perché tra fratelli e sorelle gli alimenti sono dovuti nella misura dello stretto
necessario. Il diritto agli alimenti è un diritto strettamente personale, non patrimoniale ed è insuscettibile di
cessione e di compensazione.
Argomento 7
Videolezione 1 – La successione a causa di morte.
La successione a causa di morte è la vicenda traslativa dei diritti di una persona a seguito della sua morte.
Noi sappiamo che la morte estingue, insieme all’entità fisica della persona, la sua capacità giuridica ed
estingue anche i diritti che ad essa ineriscono, questo però per quanto riguarda i diritti personali, perché per
quanto riguarda invece i diritti patrimoniali, questi diritti non si estinguono, ma passano ad altri soggetti e
questa trasmissione è appunto il fenomeno della successione a causa di morte, che si chiama “a causa di
morte” in quanto ha nella morte il suo presupposto necessario e giustificativo. La morte non è solo un
antecedente della vicenda, ma è la ragione giustificativa della stessa. La successione ha questa sua essenziale
funzione, quella di dare ordine e assetto ai diritti della persona a seguito della morte della persona. La morte
è la causa della successione.
I destinatari della vicenda che abbiamo indicato come “Successione a causa di morte” devono avere la
capacità successoria, devono cioè essere idonei a succedere. Questa capacità successoria compete a tutte le
persone fisiche, compresi i nascituri e gli enti giuridici; chi è concepito all’apertura della successione, ha
capacità successoria. Sappiamo che chi nasce entro i 300 giorni dalla morte dell’ereditando, si presume
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concepito al momento dell’apertura della successione. In base a questa presunzione, quindi, non occorre altra
prova circa la capacità successoria del nascituro. La capacità del concepito è una capacità che si cancella se
non segue l’evento della nascita e si cancella retroattivamente. Con “retroattivamente” si intende una
successione sottoposta a condizione legale risolutiva della mancata nascita del chiamato. Quindi, la
successione opera, ma decade se il nascituro concepito non viene alla nascita. Occorre ben tenere presente
che a favore del concepito opera la successione anche se soggetta a decadenza. Il concepito ha nel genitore
esercente la potestà, il suo rappresentante legale. Con l’autorizzazione del giudice tutelare, il genitore
accetta, o rinunzia all’eredità, o al legato, in nome e nell’interesse del concepito e i diritti successori acquisiti
dal concepito sono esercitati in suo nome e nel suo interesse dal rappresentante legale. Questa capacità
successoria del nascituro concepito espressamente riconosciuta dal Codice, esclude che si possa fare
confusione con la posizione del nascituro non concepito. Il Codice consente che il nascituro non concepito al
momento della morte del defunto possa essere destinatario di disposizioni testamentarie, a condizione che al
tempo dell’apertura della successione sia vivente il suo genitore. Si ha qui una situazione che può essere
accostata a quella dell’istituzione ereditaria sotto condizione sospensiva. È incerto se il chiamato verrà o no
ad esistenza e finché non si ha la certezza che il chiamato verrà, o no, ad esistenza, la delazione rimane
sospesa e l’eredità è gestita da un amministratore. Questo amministratore è di norma colui che subentrerebbe
come successore nell’ipotesi che non abbia seguito la disposizione testamentaria e che il nascituro non
concepito non venga ad esistenza, o non venga ad esistenza secondo il presupposto voluto dalla legge.
Quindi, supponendo che il defunto lasci un figlio già nato e un figlio concepito nascituro, entrambi
parteciperanno alla successione.
Ci sono poi dei divieti di ricevere per testamento a carico di determinate persone: per es. il notaio che eroga
un testamento pubblico non può essere successore sulla base del testamento erogato. Un importante divieto
legale di succedere è sancito a carico dell’indegno. Per legge è escluso dalla successione come indegno, chi
si sia reso colpevole di offese gravi alla persona, o alla libertà testamentaria dell’ereditando (la persona della
cui eredità si tratta). Chi è colpito dall’indegnità? L’indegnità è sancita a carico di chi abbia ucciso, di chi
abbia tentato di uccidere l’ereditando o un suo stretto congiunto, di chi abbia denunziato calunniosamente
tali persone o abbia falsamente testimoniato contro di esse, di chi abbia falsificato un testamento o ne abbia
consapevolmente approfittato. L’indegnità è una sanzione civile che ha fondamento nella ripugnanza sociale
a consentire, che chi abbia gravemente offeso la persona dell’ereditando, o la sua libertà testamentaria, possa
trarre profitto dall’eredità dell’offeso. Secondo l’interpretazione prevalente, seguita anche dalla
giurisprudenza, l’indegnità sarebbe una sanzione applicata dal giudice, quindi occorrerebbe una pronunzia
giudiziale, una sentenza, che avrebbe effetto costitutivo, cioè l’esclusione dalla successione sarebbe l’effetto
di questa sentenza. Questa interpretazione fa sì che la norma sull’indegnità venga poi concretamente
applicata solo in quanto ci sia chi eserciti l’azione relativa - l’azione si ritiene sia soggetta a prescrizione,
quindi, se non viene esercitata l’azione prima del decorso del termine di prescrizione, l’indegno potrebbe,
secondo questa interpretazione, divenire definitivamente erede senza timore di essere estromesso
dall’eredità. Sarebbe aderente invece al dettato della norma e anche al fondamento di essa, la tesi che
ravvisa nell’indegnità una forma di incapacità successoria; colui che compie uno dei fatti previsti dalla legge
come causa di indegnità, è indegno, senza che occorra una sentenza. Egli è privo della capacità di succedere
nei confronti dell’offeso - questa però purtroppo non è un’opinione seguita dalla maggioranza della dottrina e
dalla giurisprudenza.
La legge prevede la riabilitazione dell’indegno. Questa riabilitazione avviene a seguito di un atto di perdono
dello stesso offeso, atto con il quale lo stesso offeso rimette l’offesa ricevuta. Questa riabilitazione deve però
essere fatta con atto pubblico, o anche con testamento e comunque deve risultare in modo espresso. La legge
prevede anche una riabilitazione tacita nel caso in cui l’ereditando, conoscendo la causa dell’indegnità,
nomini comunque l’indegno erede o legatario. In questo caso l’indegno può succedere, ma solo nei limiti
dell’attribuzione testamentaria.
Prima della morte dell’ereditando e prima che si apra la successione, nessun diritto spetta agli eventuali
successibili e nessuna aspettativa giuridica viene tutelata. Fino a quando l’ereditando è in vita, egli può
disporre come crede dei propri beni e i futuri legittimari non possono opporsi agli atti di disposizione, né
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possono chiedere atti conservativi, o cautelativi, proprio perché essi non hanno alcun diritto sull’eredità.
Questa mancanza di pretese successorie prima dell’apertura della successione, vale anche per coloro che
siano designati in un testamento. Il fatto che il soggetto in un testamento designi il suo successore, non lo
vincola in nessun modo, né limita in qualche modo la sua libertà di disporre dei propri beni.
Un tradizionale divieto sancito dal nostro Codice è quello che sancisce i patti successori e cioè tutti i patti
che attribuiscono, o negano diritti su una successione non ancora aperta. Questo conferma il principio, già
sottolineato, per il quale anteriormente alla morte dell’ereditando, nessuna pretesa può essere fatta valere da
chi che sia, se questa pretesa è una pretesa successoria. Ma la denominazione di “Patti successori”
comprende vari patti; si distingue precisamente tra: patti istituitivi, patti dispositivi e patti rinunciativi. In
particolare, il patto successorio istitutivo è la convenzione con la quale il soggetto dispone della propria
successione. Qui l’esigenza che sta alla base del divieto è quella di tutelare la libertà testamentaria,
l’esigenza di assicurare cioè alla persona la facoltà di disporre liberamente dei propri beni mediante
testamento fino al momento della propria morte. Se il soggetto potesse obbligarsi a vincolare i propri beni a
favore di un determinato successore, sarebbe per ciò stesso violata la sua libertà testamentaria. Da qui il
divieto categorico che colpisce il patto successorio istitutivo. La legge però vieta anche i patti dispositivi, o
rinunciativi, cioè i patti mediante i quali il soggetto dispone, o rinunzia ai diritti che gli potranno spettare su
una successione non ancora aperta. La ragione del divieto in questo caso è da ravvisare nella ripugnanza
sociale verso tutti gli atti di speculazione sull’eredità di persona ancora vivente.
La successione si apre al momento stesso della morte della persona, ma non è in quel momento che avviene
la trasmissione dell’eredità ai successori. Questa trasmissione dell’eredità non è automatica; coloro che sono
chiamati a succedere non diventano immediatamente eredi perché è morto l’ereditando; essi possono
acquistare l’eredità, ma possono acquistarla a seguito di un atto di accettazione e occorre quindi una
manifestazione di volontà di coloro che sono chiamati a succedere. L’attribuzione, per legge, in capo al
chiamato del diritto di succedere prende il nome di delazione. La delazione può essere sospesa quando ci sia
una disposizione testamentaria sotto condizione sospensiva, allora bisogna attendere che si verifichi la
condizione e se la condizione si verifica positivamente, allora in quel momento diventerà operante la
delazione. Altro caso di delazione sospesa è quello già visto del nascituro non concepito, come anche quello
dell’ente da costituire: se viene nominato erede un ente non ancora esistente, la delazione necessariamente
rimane sospesa in attesa che l’ente si costituisca.
Nel periodo che intercorre tra la delazione e l’accettazione, il chiamato non è ancora erede, ma pur non
essendo ancora erede, la legge gli attribuisce poteri di conservazione e di amministrazione temporanea
dell’eredità. Il chiamato può innanzitutto esercitare le azioni possessorie, quindi, se vengo aggrediti i beni
ereditari, il chiamato pur non avendo ancora accettato l’eredità, può difendere questi beni esercitando
l’azione di spoglio, ad esempio. Inoltre, egli è legittimato a subentrare nelle azioni possessorie già in corso,
oltre a proporre nuove azioni possessorie per fatti precedenti, o susseguenti all’apertura della successione.
Questa legittimazione non discende dalla posizione di possessore del chiamato, il chiamato infatti è
legittimato ad esercitare le azioni possessorie, abbia o non abbia appreso materialmente i beni ereditari. Il
chiamato poi può compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea e inoltre, con
un’autorizzazione del tribunale, può anche vendere i beni ereditari. E’ necessaria un’autorizzazione del
tribunale in quanto il chiamato che venda i beni ereditari senza essere preventivamente autorizzato, è
considerato per legge accettante l’eredità.
L’eredità si dice giacente quando l’asse ereditario non è nel possesso del chiamato all’eredità e il chiamato
all’eredità non ha ancora accettato. In questo caso è possibile che venga nominato un curatore dell’eredità
giacente. Questo curatore è nominato dal tribunale e assume un ufficio privato, che gli viene garantito per la
tutela di un interesse altrui, in questo caso quello degli eredi. Nell’esercizio del suo ufficio, il curatore
assume la gestione dei beni ereditari provvedendo all’ordinaria amministrazione, previa autorizzazione del
tribunale; il curatore può compiere anche atti in liquidazione del patrimonio e altri atti di straordinaria
amministrazione se si tratta di atti necessari, o se sussista un’utilità evidente per il loro compimento. Rispetto
al curatore dell’eredità giacente, va distinto l’esecutore testamentario, cioè la persona incaricata dal defunto
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di curare l’esecuzione delle sue disposizioni di ultima volontà. Questa facoltà del testatore di nominare uno o
più esecutori testamentari è espressamente prevista dalla legge e rientra tra le disposizioni a carattere non
patrimoniali che appunto per legge possono essere contenute in un testamento. La nomina di un esecutore
testamentario viene mediante una disposizione testamentaria; il mandato si ricordi è un contratto, quindi per
perfezionarsi, richiede un’accettazione che deve avvenire prima della morte del mandante. La disposizione
testamentaria è invece essenzialmente una disposizione unilaterale, anche se la nomina deve essere accettata
in forma espressa e solenne. L’esecutore è titolare di un ufficio privato, cioè di un incarico che deve espletare
nell’esclusivo interesse dell’eredità. Per eredità bisogna intendere anche la volontà del testatore.
Nell’esercizio del suo ufficio, l’esecutore testamentario provvede al pagamento dei debiti ereditari delegati e
provvede anche all’adempimento degli oneri testamentari. Se il chiamato all’eredità ha accettato, l’esecutore
testamentario non decade per ciò stesso dal suo ufficio, egli però deve consegnare all’erede i beni che non
sono necessari all’esercizio del suo incarico. La legge non dice quanto dura l’ufficio dell’esecutore
testamentario, ma dice che l’esecutore testamentario non può possedere i beni ereditari oltre la durata di un
anno rinnovabile.
Occupiamoci ora delle figure che la legge prevede nell’ipotesi di delazione vacante, cioè nell’ipotesi in cui la
delazione non abbia seguito in quanto il chiamato all’eredità non ha potuto, o voluto accettare l’eredità;
queste figure sono: la rappresentazione, la sostituzione ordinaria, l’accrescimento. La rappresentazione
delinea il subingresso legale dei discendenti, cosiddetti rappresentanti, nel luogo e nel grado dell’ascendente,
cosiddetto rappresentato, che non può, o non vuole succedere. Quindi, la rappresentazione fa subentrare i
discendenti nello stesso diritto di successione al quale il loro ascendente ha rinunziato, o che non ha potuto
esercitare in quanto premorto, o in quanto indegno. Il primo presupposto della rappresentazione è di carattere
soggettivo, cioè il rappresentato deve essere un figlio, o un fratello del defunto. Questo è dunque un istituto
tradizionalmente diretto a conservare i beni nell’ambito delle stirpi familiari. Il rappresentato, oltre che
essere figlio o fratello del defunto, può essere anche un discendente del figlio, o del fratello del defunto.
L’altro presupposto riguarda la persona del rappresentante, il quale deve essere un discendente del
rappresentato. La rappresentazione fa subentrare i rappresentati nel luogo e nel grado successorio del
rappresentato. Ciò significa che i rappresentati acquistano complessivamente il diritto successorio che
sarebbe spettato al loro ascendente. E’ da tener presente che non si fa luogo a rappresentazione, se il testatore
ha nominato un sostituto; sulla rappresentazione, prevale la sostituzione. La sostituzione è la designazione
successoria fatta dal testatore nel caso il primo designato non possa, o non voglia succedere. La sostituzione
può essere plurima, nel senso che il testatore può sostituire più persone a una sola, o viceversa. Il Codice ci
dice poi che la sostituzione può essere reciproca nel senso che la sostituzione opera reciprocamente tra più
designati. Il testatore, per esempio, nomina come eredi A, B, C e dispone che se uno dei tre non possa, o non
voglia accettare, gli altri siano chiamati in sostituzione. Il testatore ha nominato dunque A, B, C con la
clausola della sostituzione reciproca. In questo caso, se A ad esempio non vuole, o non può accettare, B e C
sono chiamati in sostituzione.
L’accrescimento è l’automatica inclusione della quota vacante nelle quote degli altri coeredi o collegatari.
Nell’accrescimento in particolare si ha che la quota di chi non può o non vuole succedere si aggiunge alle
quote di coloro che sono chiamati congiuntamente alla stessa eredità, o nominati legatari dello stesso bene.
L’accrescimento tra eredi richiede la chiamata congiuntiva; l’attestatore, per esempio, dice “Nomino miei
eredi Gustavo e Guglielmo”, se gustavo non può, o non vuole accettare, la sua quota si accresce a quella di
Guglielmo. La chiamata congiuntiva presuppone che gli eredi siano istituiti con il medesimo testamento nella
universalità dei pegni, o nella stessa quota, in parti eguali. L’accrescimento opera anche con riguardo al
legato, occorre però che il bene sia legato a più collegatari in parti eguali. L’accrescimento è precluso sia
dalla sostituzione, che dalla rappresentazione. L’accrescimento è un’opera di diritto, non c’è bisogno di una
richiesta o di una domanda, avviene automaticamente e con effetto dal momento dell’apertura della
successione. L’acquisizione della quota vacante comporta anche l’assunzione degli obblighi e degli oneri che
ineriscono a questa quota, salvo che si tratti di imposizioni strettamente inerenti alla persona del mancato
successore; se si tratta di imposizioni strettamente personali, non si trasmettono al coerede, o al collegatario a
favore dei quali opere l’accrescimento.

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Argomento 8
Videolezione 1 – La proprietà.
La proprietà viene inquadrata all’interno dei cosiddetti “diritti reali”; ma che cosa significa “reale”? Reale
deriva dal latino “res” e quindi il diritto reale è un diritto che dà potere a una cosa. Al contrario, il diritto
obbligatorio, invece, dà un diritto su una prestazione. Nel caso del diritto reale, il potere sulla cosa viene
posto al centro, mentre nel diritto obbligatorio è la prestazione ad essere posta al centro; il diritto
obbligatorio dà diritto a una prestazione, il credito. Nel nostro ordinamento è tutelata la lesione del diritto di
proprietà, ma non la lesione del diritto di credito a livello extracontrattuale. La lesione del credito non è
considerata tutelabile. Di conseguenza, il diritto obbligatorio è sempre qualcosa di subordinato alla proprietà
e al diritto reale. La tutela del diritto reale è considerata una tutela forte per la quale è possibile ottenere
risarcimento (se la proprietà viene lesa, il risarcimento del danno può essere sempre ottenuto dal
proprietario) e non è paragonabile ai diritti obbligatori. Secondo una teoria, in entrambi i casi si tratterebbe di
pretese verso altri soggetti, ma questa è un’impostazione straniera (statunitense, o tedesca, per certi aspetti).
In realtà, la nostra tradizione ci fa comprendere come sia invece un rapporto con la cosa, un rapporto per cui
gli altri non sono rilevanti. Il diritto reale nel nostro ordinamento è un rapporto con la cosa, che per il suo
esercizio e per la sua attuazione, non necessita della collaborazione altrui. Il diritto reale si conclude nella
relazione con la cosa e non è necessaria la collaborazione con nessuno; per questo motivo non è paragonabile
alle pretese, alle obbligazioni, di carattere obbligatorio. La pretesa che si ha verso gli altri soggetti nel caso di
diritto reale è una pretesa che non è paragonabile a quella che si ha nel caso di diritto obbligatorio, questo
perché si tratta di una pretesa meramente di soggezione di tutti, di estensione, mentre nel diritto obbligatorio
la pretesa verso l’altro è una pretesa del creditore, ovvero, la pretesa che il debitore adempia, ponga in essere,
un comportamento di diverso tipo. E’ dunque inaccettabile la teoria che ritenga il diritto reale come una
pretesa verso altri soggetti e quindi paragonabile al diritto obbligatorio, o inseribile in una medesima ampia
categoria. In realtà il diritto reale è un diritto che riguarda il potere su una cosa, il diritto obbligatorio
riguarda invece la relazione verso una determinata persona (il creditore verso il debitore). Nel diritto
obbligatorio c’è bisogno della collaborazione altrui, nel diritto reale si deve escludere ogni possibile
interferenza degli altri, ma questo non significa che è una pretesa verso gli altri, significa solo che c’è una
relazione con la cosa così forte, che permette di fare quello che si vuole. Si pensi infatti che i diritti reali si
possono acquistare con il possesso sulla cosa - il possesso è il potere di fatto su una cosa che corrisponde
all’esercizio di un diritto reale. Con il possesso continuato per un determinato periodo, si può ottenere la
proprietà, si può acquistare un diritto reale, e questo può aversi sulla base di un atto in possesso, che è già
una relazione materiale con la cosa, un potere di fatto su una cosa corrispondente all’esercizio di un diritto
reale. È quindi ovvio a maggior ragione anche dalle norme sul possesso, dalle norme che permettono
l’acquisto della proprietà tramite il possesso, che i diritti reali, che possono essere acquistati anch’essi come
la proprietà, con il possesso, sono qualcosa che riguardano la relazione con la cosa; con il possesso si esercita
un potere di fatto, che porta a diventare proprietari e ad acquisire il diritto reale. Questo ovviamente riguarda
solo i diritti reali e una regola di questo genere è una regola eccezionale, una regola che permette di far
sorgere un diritto solo sulla base di un esercizio di un potere di fatto. Se il diritto può nascere sulla base di un
potere di fatto, che si esercita su qualcosa, questa nascita del diritto deve essere considerata eccezionale;
questa regola deve essere considerata eccezionale, non estensibile per analogia. In questo senso possiamo
dire dunque che i diritti reali sono a numero chiuso, sono una categoria chiusa, non si possono inventare
nuovi diritti reali oltre quelli previsti dal Codice civile.
Diversa è invece la nozione di obbligazioni reali: le obbligazioni reali sono considerate quelle che sono
strettamente connesse con la proprietà, o un diritto reale. In genere le obbligazioni sono di carattere
personale (tizio verso caio – tizio deve un pagamento a favore di caio), nelle obbligazioni reali invece, il
soggetto che deve effettuare l’obbligazione è un soggetto che non è sempre determinato in maniera assoluta e
definitiva, ma è il soggetto che in quel momento ha la titolarità del diritto di proprietà, o un altro diritto reale.
Per es. Il proprietario dell’appartamento deve pagare delle spese, ma se l’appartamento viene ceduto ad altri,
sarà il nuovo proprietario a dover pagare le nuove spese. C’è dunque un’obbligazione che si sposta con la
cosa e questo è un qualcosa che può nascere solo per legge. Solo la legge può stabilire, in modo permanente,
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che un’obbligazione segua una cosa. Il privato può vincolare, con un’obbligazione, solo un soggetto
determinato (solo su un tale soggetto può sorgere una responsabilità da inadempimento), non tutti i soggetti
che possono aver diritti reali sulla cosa. Se io vendo una casa e dico “Questa casa da te non deve essere mai
adibita a sala da giochi”, questo può restare come vincolo obbligatorio, ma solo verso quel soggetto. Se il
soggetto trasferisse la casa, io non avrei la possibilità di far valere questa pretesa. L’opponibilità per il
trasferimento immobiliare si può avere solo con la trascrizione, con la pubblicità nei registri immobiliari, ma
la trascrizione non garantisce il trasmettersi delle obbligazioni, garantisce l’opponibilità della titolarità dei
diritti reali sugli immobili. Il regime della trascrizione è un regime eccezionale, che permette di opporre
anche ai terzi determinati vincoli purché siano stati trascritti; esso non si può estendere per analogia e quindi
non si può applicare oltre i casi previsti.
La proprietà è il diritto per eccellenza e racchiude in sé tutte le facoltà che si possono ipotizzare su una cosa,
essa è come la somma di tutti i diritti (parziali) reali ipotizzabili, che nell’intero racchiudono tutte le facoltà
che è possibile esercitare su una cosa. Per questa ragione, la proprietà si può considerare un diritto a sé stante
e quindi distinguerla dagli altri diritti reali, come diritto a sé; la proprietà è il diritto, gli altri diritti reali sono
una qualcosa che è stato ritagliato come pezzi di proprietà. La proprietà è il diritto per eccellenza, le facoltà
sono diritti reali. Ogni diritto reale corrisponde a una facoltà limitata rispetto alla proprietà ed è per questo
che si ritiene che non si debba considerare la proprietà come un diritto reale. La proprietà è il diritto per
eccellenza sul bene, se dicessimo che è un diritto reale, la svalorizzeremmo.
La proprietà è un diritto pieno: il proprietario può utilizzare la cosa come desidera, può anche non utilizzarla,
in quanto la proprietà non cade in prescrizione. Anche se la proprietà è un diritto pieno, la Costituzione
consente di giustificare le norme che limitano la proprietà quando si tratta di assicurare la funzione sociale.
Es. Art. 42 Cost. “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di
acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.”
I caratteri della proprietà:
- Pienezza: comprende tutte le facoltà (di ogni tipo: di godimento e di non godimento, di disposizione
e di non disposizione, ecc.);
- Esclusività: il proprietario può escludere tutti gli altri. L’esclusività significa, tradizionalmente,
“unicità” del diritto di proprietà sullo stesso bene;
- Imprescrittibile: la proprietà non si prescrive per non uso – risulta dalla imprescrittibilità dell’azione
di rivendicazione;
- Elasticità: se viene posto un vincolo sulla proprietà, al cessare del vincolo automaticamente si
riespande la proprietà, senza la necessità di atti di trasferimento
- Realità: la proprietà implica la connessione con un “bene”, cioè con una “cosa” che può formare
oggetto di diritti – una relazione tra il soggetto e la cosa
Videolezione 2 – Le immissioni (parte 1).
Le norme che si occupano in via specifica, peculiare, dei limiti della proprietà, sono le norme previste dal
Codice civile come norme dedicate ai cosiddetti rapporti di vicinato, norme che sono legate all’articolo 832
del Codice civile, che stabilisce qual è il contenuto del diritto di proprietà: “Il proprietario ha diritto di godere
e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti
dall’ordinamento giuridico”. I limiti di cui si parla sono limiti che tutelano interessi privati, anche se
indirettamente possono rispondere a finalità pubbliche (si pensi alle norme sulle distanze delle costruzioni, o
quelle sulle immissioni – tutela sulla salute pubblica e tutela dell’ambiente). Sui limiti previsti a carico della
proprietà, vi sono varie tesi. Alcune tesi fanno rientrare questi limiti all’interno della categoria delle
obbligazioni; si dice che il proprietario ha a proprio carico determinate obbligazioni che sono individuate
dalle norme che stabiliscono particolari limiti, ad esempio, al diritto di proprietà. Quindi, se il proprietario
non può fare determinate costruzioni in aderenza al fondo del vicino, o non può far sì che dal proprio fondo
provengano delle immissioni nocive, queste sarebbero delle obbligazioni a carico di questo proprietario. Il
problema è che definirle in pieno come obbligazioni, significa farle rientrare in quella categoria prevista
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dalla parte del Codice civile che si occupa delle obbligazioni come particolare dovere giuridico in forza del
quale un soggetto, detto debitore, è tenuto ad adempiere una determinata prestazione di carattere
patrimoniale nei confronti di un altro soggetto, detto creditore, che abbia un interesse anche non patrimoniale
in quell’adempimento. Nel caso dei limiti della proprietà, non abbiamo in maniera precisa questi due soggetti
(debitore e creditore) perché sono dei limiti che stanno a carico del proprietario e che definiscono un po’ i
contorni di quello che è il diritto stesso di proprietà. Qual è il contenuto concreto del diritto di proprietà si
vede in base ai diritti che sono previsti a favore del proprietario, ma anche ai limiti che sono a carico del
proprietario. Le facoltà si misurano con i limiti alla proprietà. Non è individuato bene il soggetto creditore -
qual è il proprietario che possiamo considerare creditore di questa obbligazione, ad esempio, di non
effettuare immissioni nocive – il soggetto creditore è individuato in modo generico. La genericità dei
soggetti che possono essere coinvolti in relazione alle norme che stabiliscono dei limiti alla proprietà e
quindi sostanzialmente i contorni del diritto del proprietario stesso, sono norme che possiamo considerare
come norme che individuano il diritto proprietario, ma non come obbligazioni perché manca in maniera
specifica l’individuazione del soggetto creditore, ad esempio.
Qualcuno ritiene poi che si tratti di servitù, cioè che siano intesi come quei particolari diritti reali che
permettono a un soggetto di compiere determinate azioni (di poter, ad esempio, passare da un fondo per poter
raggiungere la propria proprietà) e che consistono quindi in dei pesi sulla proprietà che consentono
l’esercizio dei propri diritti a un altro proprietario. In realtà anche l’individuazione come servitù è
un’individuazione che lascia il tempo che trova, in quanto le servitù consistono in pesi imposti su un fondo
per l’utilità di un altro, ma sono pesi che seguono determinate regole, che mal si addicono ai limiti della
proprietà che concorrono a definire i contorni della proprietà stessa.
Delle immissioni si occupa in maniera specifica l’articolo 844 del Codice civile: “Il proprietario di un fondo
non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili
propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo
alla condizione dei luoghi.” - Nell’applicare questa norma, l’autorità giudiziaria deve contemperare le
esigenze della produzione con le ragioni della proprietà; può tener conto della priorità di un determinato uso.
Nell’applicare questa norma, sostanzialmente vien richiesto di far valere il proprio diritto proprietario a
fronte del diritto proprietario dell’altro: il diritto proprietario è quello di poter godere del proprio bene e per
godere del proprio bene, l’altro proprietario, che comunque potrà godere del proprio bene, non dovrà
invadere il bene altrui e non dovrà immettere qualcosa che superi la norma tollerabilità.
Videolezione 3 – Le immissioni (parte 2).
Vari dibattiti si sono aperti in dottrina in relazione al tema delle immissioni, dibattito che pone in evidenza il
problema di come debbano interpretarsi i limiti ai diritti del proprietario previsti dalle norme del Codice
civile e quali siano le regole da seguire nei rapporti di vicinato. Il faro che deve essere inteso come punto di
riferimento della disciplina proprietaria è la Costituzione, che indica agli articoli 41* e 42 quali sono i limiti,
rispettivamente, dell’iniziativa economica privata e verso cosa deve tendere il diritto di proprietà.
Ricordiamo sempre come l’articolo 41 preveda come limite quello della sicurezza e la libertà della dignità
umana e la necessità di tutelarle, mentre l’articolo 42 indichi come limite, come scopo dei limiti alla
proprietà, lo scopo di assicurarne la funzione sociale.
Tornando all’articolo 844 in tema di immissioni, qualcuno ha ritenuto di inquadrare le immissioni all’interno
del cosiddetto Ius excludendi, che spetta al proprietario. Noi sappiamo che il diritto di proprietà è un diritto i
cui principali caratteri sono quelli della pienezza e dell’esclusività, almeno secondo l’articolo 832, che parla
del diritto del proprietario di disporre delle proprie cose in modo pieno ed esclusivo. Per questo motivo
spesso i limiti al diritto del proprietario vengono visti come espressione di questo Ius excludendi quando
sono dei limiti che impediscono al vicino di espandersi sulla proprietà degli altri – Il limite che è previsto in
materia di immissioni, che possono essere impedite se superano la normale tollerabilità, è stato visto da
qualcuno come una specificazione di questo diritto di escludere tutti gli altri dal godimento del proprio bene;
se io posso escludere tutti gli altri, posso escludere che questi altri soggetti possano far arrivare nel mio
fondo le loro propagazioni che superano la normale tollerabilità. Da qualcuno è visto così, ma in realtà se
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fosse veramente così, non ci sarebbe stato bisogno di inserire la norma dell’articolo 844, sarebbe bastata la
semplice menzione, la semplice previsione dell’articolo 832, che dispone l’esclusività. Non esiste dunque
uno Ius excludendi assoluto, c’è un limite, il limite previsto dall’articolo 844, che ritaglia il diritto del
proprietario. Il proprietario può superare lo ius excludendi del vicino perché può andare per esempio con i
propri suoni, con i propri fumi nel fondo del vicino, ma certo è che se questo supera la normale tollerabilità,
è diverso. Il legislatore ha inteso stabilire un limite del diritto di proprietà; essa è un’autonoma disciplina, di
limitazione, riconducibile ai rapporti di vicinato.
La normativa prevede che le immissioni che si possono impedire e che superano quindi la normale
tollerabilità, provengano da un fondo. E’ questa una normativa legata alla proprietà fondiaria, ma è una
normativa che si può estendere anche a proprietari di immobili, a prescindere dal fatto che si tratti di fondi.
E’ chiaro che se un soggetto che sta in un edificio, accanto a un altro edificio, provoca delle immissioni,
delle esalazioni, che superano la normale tollerabilità e che fanno a interferire con il pacifico godimento del
diritto di proprietà di un altro vicino che sta in un altro edificio, che sta in un immobile attiguo, anche in quel
caso si deve e si può applicare la normativa in questione. E’ vero che è un’impostazione che riguarda la
proprietà terriera, ma si può leggere ai tempi d’oggi anche in maniera tale da far rientrare le proprietà che
non siano fondi, ma proprietà edilizie (un bene immobile). Si intende comunque di risolvere conflitti in
ordine alle facoltà di natura proprietaria, cioè quelli che sono i diritti proprietari. Il diritto di uno è misura del
diritto dell’altro. Se qualcosa è previsto a favore di un soggetto, è chiaro che si tratti di una limitazione a
carico dell’altro e viceversa. I diritti si devono contemperare in modo che si possa avere un pacifico
godimento da parte di tutti, in pari modo, senza discriminazioni, in maniera uguale. La norma (art. 844) si
rivolge direttamente ai proprietari e il fatto che si rivolga ad essi permette di considerare anche che, nei casi
in cui un soggetto abbia un bene in locazione, quindi non è proprietario, ma detentore del bene, ad agire per
la cessazione dell’immissione lesiva, deve essere sempre e comunque il proprietario.
Le immissioni possiamo definirle come qualunque entità idonea a recare molestia e che costituisca una
propagazione verso il fondo del vicino (fumo, gas, rumori, ecc).
Quali sono i requisiti delle immissioni?
- La materialità. Secondo la giurisprudenza e la dottrina prevalente, le immissioni devono avere una
qualche materialità, un qualche elemento materiale, devono potersi percepire materialmente come
qualcosa che invade il fondo del vicino e lo invade materialmente. La materialità è esclusa nel caso
delle cosiddette immissioni ideali. Le immissioni ideali sono delle immissioni che toccano il
sentimento della morale e del buon costume, ad esempio, un’immagine sgradevole; se c’è
un’immagine sgradevole questa viene considerata immissione ideale, ma non è considerata
un’immissione tra quelle previste dall’articolo 844. Un’immagine sgradevole non è qualcosa che
entra nel fondo del vicino e lo invade, non è possibile considerarla come “simile propagazione”
prevista appunto dall’articolo 844.
- Il requisito che prevede che le immissioni provengano dal fondo del vicino, fondo abbiamo detto
inteso anche come immobile del vicino. Si ritiene inoltre che debbano essere indirette, cioè non
indirizzate appositamente, e si ritiene che la “vicinanza” non debba essere necessariamente intesa
come “prossimità”. Vicinanza non significa prossimità, è necessario che si tratti di un fondo che
permetta l’arrivo di queste propagazioni, l’invadere l’altro fondo.
- Il superamento della normale tollerabilità; non serve che siano intollerabili (in realtà se superano la
normale tollerabilità potrebbero essere tollerabili dal soggetto, però normalmente, la normale
tollerabilità è stata superata). La “normale tollerabilità” consiste nella sopportabilità delle immissioni
valutata alla stregua di canoni di ordinarietà sociale, con riferimento alla condizione dei luoghi (per
es. se si tratta di luoghi particolarmente ventosi, è chiaro che determinati fumi andranno nel fondo
del vicino – non è una valutazione soggettiva, ma una valutazione oggettiva). Si ha dunque anche
riguardo alla condizione dei luoghi; pensiamo ai terreni che sono a valle, rispetto a quelli posizionati
più in alto, è chiaro che in questo caso i fumi che vanno naturalmente verso l’alto, vadano a finire nei
terreni più in alto. Per finire, la normalità deve essere intesa come ordinarietà in relazione all’uso dei
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fondi, ovvero, quello che si può considerare ordinario, accettato. È un canone sociale di tollerabilità
che varia a seconda dei luoghi e anche a seconda dell’evoluzione dei tempi.

*Art 41 della Costituzione: L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con
l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i
programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e
coordinata a fini sociali.
Videolezione 4 – Le immissioni (parte 3).
Il secondo comma dell’articolo 844, legandosi sempre ai fondamenti costituzionali del diritto di proprietà,
alla funzione sociale, alla necessità di tutelare l’utilità sociale e legandosi anche alla necessità di tutelare le
ragioni dell’impresa, vuole far sì che il contemperamento dei diritti del proprietario con i diritti degli altri
consociati, tenga in considerazione anche quelli che sono gli interessi dell’impresa, gli interessi della
produzione. La legge indica come nell’applicare la norma (l’articolo 844), il giudice debba contemperare le
esigenze della produzione con le ragioni della proprietà e può tener conto della proprietà di un determinato
uso. Il legislatore in questo caso ha voluto dire di tenere in considerazione quelle che sono le esigenze della
produzione, ma non ha voluto dire che la produzione prevale in ogni caso e sempre sulle ragioni della
proprietà, anzi, ha voluto indicare un criterio da considerare. Il legislatore vuole evitare che le esigenze di
tutela di massima espansione del diritto di proprietà, possano sopraffare del tutto le esigenze della
produzione. Anche le esigenze della produzione devono essere prese in considerazione e devono essere
contemperate. Nell’applicare la norma, il giudice deve tener conto di quelle che sono le esigenze della
produzione senza però far prevalere né le esigenze della produzione, né le ragioni proprietarie, effettuando
quindi un bilanciamento tenendo conto del criterio della tollerabilità normale; quella normalità che si
rapporta alla condizione dei luoghi e all’esigenza di una determinata produzione. È chiaro che le esigenze
della produzione non possono mai andare oltre e non si possono mai considerare prevalenti rispetto alle
esigenze di tutela della salute, però possono comunque contemperarsi, non tanto con le esigenze della salute,
ma con le ragioni proprietarie, cioè con quella pienezza del potere proprietario. Tra l’altro ormai le
tecnologie si sono spinte sempre più avanti, c’è stato un progresso tecnologico volto a migliorare
l’ottimizzazione delle risorse e a produrre la minor quantità possibile di inquinamento e tra i costi della
produzione devono considerarsi ormai implicitamente anche i costi volti a evitare che si producano
determinate immissioni quando ciò sia ragionevolmente possibile all’interno di quello che ordinariamente
avviene con riferimento a quel tipo di produzione. Si andrà quindi progressivamente sempre più avanti. In
una società che si evolve, sempre più in alto deve essere portata l’asticella di tutela del diritto della salute, dei
diritti a non vedere immissioni nocive provenienti dall’industria, perché è sempre maggiore il progresso
economico che permette all’industria con costi sempre minori, di poter eliminare le immissioni. Ancora però
di questi contemperamenti si deve poter parlare, in quanto ancora esistono, purtroppo, produzioni industriali
che causano delle immissioni che cagionano delle propagazioni che vanno a invadere i fondi vicini e vanno a
invadere gli immobili vicini. Ad ogni modo, la giurisprudenza ormai ritiene che si debbano considerare
vietate quelle immissioni che è possibile eliminare mediante degli accorgimenti tecnici che possano
sostenersi con costi ragionevoli e che possano quindi considerarsi pretendibili in rapporto a quello che
ordinariamente avviene.
Si discute in ordine alla natura giuridica delle immissioni industriali e in particolare, si discute se le
immissioni industriali consentite dal giudice costituiscano a) servitù coattiva b) una regolamentazione
giudiziale di contrastanti diritti proprietari c) atti leciti dannosi.
a) Con riguardo alla servitù coattiva (di cui si era precedentemente parlato), in realtà, si deve ritenere
semplicemente che si tratti di un risultato processuale all’esito di una sentenza, risultato che blocca
per quel tipo di immissioni la possibilità di impedirle e quindi una dichiarazione di necessaria
tolleranza, una dichiarazione di necessario contenuto del diritto altrui, di necessario contenuto dei
reciproci diritti, più che uno peso di un fondo verso l’altro; non si tratta di un peso su una proprietà

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come è in maniera diretta la servitù, si tratta piuttosto di un esatto delimitarsi dei confini del
contenuto del diritto proprietario stesso.
b) Riguardo alla seconda tesi, per alcuni infatti, si tratterebbe di una regolamentazione giudiziale di
contrastanti diritti proprietari, ma più che una regolamentazione giudiziale, si tratta piuttosto di un
accertamento giudiziale perché la sentenza non vuole creare una regola, ma vuole cercare di
rinvenire nella natura delle cose, nel contesto, i contorni dei diritti proprietari reciproci. Si accerta in
maniera concreta l’atteggiarsi dei diritti proprietari reciproci - E’ questa la tesi più attendibile.
c) L’ultima teoria descrive le immissioni come “atti leciti dannosi”, ma in realtà le immissioni
potrebbero non essere dannose e non è detto che il problema della tollerabilità sia legato a un danno.
Questa tesi, dunque, non convince in quanto il concetto di tollerabilità, o meno, non coincide con il
concetto di danno.
In giurisprudenza si è affermato, in alcuni casi, il diritto a ottenere un indennizzo. Questo perché anche se si
ritiene necessario permettere una determinata immissione, capita che a causa di questa immissione
diminuisca il valore dell’immobile del vicino e di questa diminuzione deve essere indennizzato il
proprietario del fondo vicino, che subisce questa immissione considerata lecita dal giudice. In questo caso si
attua una sorta di controsenso; se da un lato si dice che queste immissioni sono lecite, dall’altro lato non si
comprende come si possa ottenere un risarcimento, visto che il risarcimento richiede l’ingiustizia del danno.
Ecco il motivo per il quale non si parla di risarcimento, ma di indennizzo. È chiaro che nel caso in cui si tratti
di atto illecito, quindi di atto doloso, o colposo, o di danno che lede gli interessi di tutela, in quel caso non
debba essere pagato un indennizzo, ma un risarcimento a tutti gli effetti. È importante come, alla luce di
un’interpretazione costituzionalmente orientata, deve ritenersi comunque prevalente il soddisfacimento
dell’interesse ad una normale qualità della vita rispetto alle esigenze della produzione.
Le immissioni e i diritti della persona:
Con riguardo al rapporto tra le immissioni e i diritti della persona, si cita spesso una sentenza della Corte di
cassazione degli anni 80, per cui si deve distinguere tra la tutela della salute e la normativa in materia di
immissioni. La normativa in maniera di immissioni vuole regolare i rapporti tra i proprietari, mentre la tutela
della salute esula dall’ambito dell’applicazione della normativa in tema di immissioni ed è invece affidata
alle norme sull’illecito civile, la cui applicazione consente anche l’esperibilità di rimedi a carattere inibitorio;
si tratta cioè di un orientamento che prevede, anche nel caso in cui si tratti semplicemente di illecito civile o
di un qualcosa di pregiudizievole in grado di produrre un illecito, un azione di carattere inibitorio, un ordine
del giudice volto a impedire il fatto lesivo. Quindi l’ordinamento non prevede solo il risarcimento del danno,
ma anche una norma che prevenga danni futuri comportando la cessazione dei fatti lesivi.
Per quanto riguardo il diritto ambientale, la giurisprudenza, facendo rientrare la norma che disciplina le
immissioni all’interno dello schema dei rapporti di vicinato e allontanandola dalla tutela della salute, l’ha
anche allontanata da quelle che sono le norme volte alla tutela nei confronti dei danni ambientali. Il danno
ambientale è stato configurato in giurisprudenza solo quando nell’ambito dei rapporti di vicinato si è
instaurato tra la fonte inquinante e il fondo vicino, una tale relazione di vicinanza da incidere sul normale
godimento dei fondi stessi, dei fondi vicini su cui arrivano le immissioni, a causa della condizione di degrado
a cui risultano assoggettati. In quel caso si è arrivato al danno ambientale, ovvero, nel caso in cui si sia
superato il mero danno da immissioni da regolamentazione dei rapporti proprietari.
In materia di immissioni acustiche, anche quando si rispettano i limiti previsti dai regolamenti in relazione a
determinati contesti, non si può sempre e comunque considerare lecita una determinata immissione acustica.
Questo perché il giudizio sulla tollerabilità si deve formulare sempre alla stregua delle condizioni del luogo,
alle esigenze della produzione e, principalmente, al concetto di normale tollerabilità che è il giudice è tenuto
dover ritagliare sul caso concreto. Ovviamente si deve sempre tenere in considerazione la vicinanza dei
luoghi e i possibili effetti dannosi per la salute causati da queste immissioni. Tra l’altro la giurisprudenza ha
specificato che, nel caso di immissioni rumorose, in assenza di una misurazione del rumore di fondo
effettuata nella fascia oraria nella quale si lamenta la violazione dei limiti, la prova dell’evento dannoso non
può dirsi raggiunta. C’è bisogno di una misurazione del rumore di fondo. Pertanto, nell’impossibilità di
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misurare contemporaneamente rumore di fondo e rumore ambientale, la prova del danno non è dimostrabile.
Se non si riesce a determinare quanto il rumore proveniente da un fondo superi il rumore ambientale, non si
può assolutamente dare la prova dell’immissione proveniente da quel fondo. Se manca la prova, è chiaro,
non si può mai risarcire il danno.
Le azioni esperibili, come precedentemente accennato, sono le azioni di condanna (di carattere inibitorio) e
le azioni di condanna (di carattere risarcitorio):
- L’azione di condanna (di carattere inibitorio) è un’azione che fa cessare il fatto lesivo, è un’azione di
naturale reale (correlata alla proprietà e al diritto reale) ed è imprescrittibile (non è soggetta a limiti
di tempo). Il legittimato attivo in questo caso è il titolare del diritto di proprietà, o di un diritto reale
di godimento; il soggetto che in questo caso ha un diritto personale di godimento può esperire
l’azione risarcitoria. Il legittimato passivo, contrariamente, è il proprietario (o il titolare di diritto
reale di godimento) del fondo da cui provengono le immissioni. - Il possessore di un fondo può agire
in via cautelare (per es. azione di manutenzione).
- L’azione di condanna (di carattere risarcitorio) si può avere in via aggiuntiva, oppure in via
esclusiva; in via aggiuntiva, o appunto esclusiva, si può richiedere il risarcimento del danno.
L’azione ha natura personale perché riguarda un danneggiante e un danneggiato ed è soggetta a
prescrizione quinquennale. In questo caso, il legittimato attivo è ovviamente il danneggiato, ovvero
chiunque risulti danneggiato (ad esempio, lavorando o abitando in un luogo soggetto a persistenti
immissioni che presentano un carattere nocivo per la salute); contrariamente, il legittimato passivo è
il danneggiante.
Videolezione 5 – I rapporti di vicinato.
Per “rapporti di vicinato” si intendono i rapporti che riguardano i proprietari di fondi vicini, i rapporti di
vicinato, pertanto, si collocano nell’ambito dei limiti posti alla proprietà nell’interesse dei privati. Quindi,
sono limiti nell’interesse privatistico di altri proprietari. I limiti alla proprietà si distinguono in limiti
nell’interesse privatistico, che sono i rapporti di vicinato, e limiti nell’interesse pubblicistico, che sono i vari
vincoli posti alla proprietà per la realizzazione di interessi pubblici e tra questi vincoli vengono compresi i
vincoli paesaggistici e i vincoli urbanistici.
Tornando ai rapporti di vicinato, essi sono rapporti che integrano un’ipotesi di limiti nell’interesse dei
privati, ma tali limiti realizzano a volte anche finalità pubbliche, come per esempio le norme sulle distanze
nelle costruzioni, che sono norme inderogabili, dove per inderogabili si intende norme che non possono
essere derogate e quindi la cui regola non può essere posta nel nulla da parte dei vicinati. I rapporti di
vicinato e quindi le regole sui rapporti di vicinato, comprendono norme eterogenee, in quanto i rapporti di
vicinato identificano tutte quelle norme che si pongono come limitazione del diritto di proprietà
nell’interesse di altri proprietari. Quindi, in tale ampia nozione vi rientrano norme diverse come il divieto
degli atti emulativi, le norme sulle immissioni, le norme sulle distanze, le luci e vedute, le acque –
Analizzeremo di seguito ciascuna di queste figure.
Una generale norma di vicinato è il divieto degli atti emulativi, tale divieto è disciplinato dal Codice
all’articolo 833, il quale stabilisce che il proprietario non può fare atti, i quali non abbiano altro scopo che
quello di nuocere, o arrecare molestia ad altri. Qual è quindi il presupposto e il fondamento degli atti
emulativi? Si ritiene che il fondamento del divieto degli atti emulativi sia il principio generale dell’abuso del
diritto. Tale principio consente di ritenere in qualche modo vietati tutti quegli atti attraverso i quali un
soggetto, pur dotato di un diritto, ne abusi a danno di altri. Si tratta dunque di un principio generale, quello
dell’abuso del diritto, di cui un’applicazione importante è quella del divieto degli atti emulativi. Il primo
requisito dell’atto emulativo è l’esercizio del diritto di proprietà: l’atto emulativo consiste sempre in
un’esplicazione della facoltà di godimento di disposizione della cosa, compresa anche l’inerzia nell’esercizio
del diritto. Questo primo requisito dell’atto emulativo fa comprendere perché fondamento del divieto sia il
principio generale dell’abuso del diritto, in quanto l’atto emulativo consiste, come precedentemente indicato,
nell’esercizio del diritto di proprietà. Il secondo requisito è la finalità pregiudizievole: si ritiene che l’atto
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emulativo debba essere caratterizzato dall’elemento soggettivo dell’animus nucendi, ovvero dalla dolosa
intenzione di arrecare ad altri danni, o molestie. Terzo requisito dell’atto emulativo è l’inutilità dell’atto:
l’inutilità va considerata quale mancanza di un apprezzabile interesse al suo godimento. Quarto ed ultimo
requisito è il danno e la molestia altrui: l’atto emulativo è un atto dannoso, il quale, a differenza dell’atto
illecito, lede degli interessi che non sono già autonomamente tutelati nella vita di relazione. In generale, deve
dirsi che l’atto è emulativo se lede un qualsiasi rilevante interesse altrui, a prescindere dalla lesione di un
diritto soggettivo - Per esempio, si ritiene emulativo l’atto del proprietario che impedisca l’accesso al proprio
fondo ad un pittore, che voglia ritrarre il panorama. Essendo l’atto emulativo un atto dannoso, sono esperibili
i rimedi del risarcimento del danno, nonché l’azione inibitoria.
Un’altra specifica norma dedicata ai rapporti di vicinato è il divieto delle immissioni nocive sui fondi altrui,
che superino la normale tollerabilità (art. 844) – fare riferimento alla lezione precedente. Abbiamo detto che
questa norma sulle immissioni, è una norma che, in quanto regola le immissioni provenienti da un fondo
vicino, è una norma sui rapporti tra fondi contigui e quindi una norma sui rapporti di vicinato. Tale norma è
diventata in qualche modo lo strumento per tutelare il diritto all’ambiente concepito come diritto
all’ambiente salubre. Quindi, la norma sulle immissioni, secondo parte della giurisprudenza e della
Cassazione, è stata applicata in via analogica. Questo riferimento è importante in quanto deve dirsi che una
delle applicazioni culturalmente più importanti di questa norma è stata proprio quella a tutela dell’ambiente,
a tutela dell’ambiente salubre. Anche la dottrina, che si è occupata di identificare un diritto soggettivo
all’ambiente salubre è partita proprio da questa norma sulle immissioni, quale norma che, secondo questa
concezione della dottrina, non identifica solo e solamente una norma che regola la proprietà e quindi i
rapporti di vicinato, ma è una norma che identifica anche il diritto soggettivo ad un ambiente salubre -
Questo prima che la comunità europea intervenisse per dare e accordare strumenti di tutela per l’ambiente.
Tra le norme dedicate ai rapporti di vicinato, si collocano le norme sulle distanze e le norme sulle distanze si
distinguono in: norme che riguardano le distanze negli edifici, norme che riguardano le distanze nei muri e
norme che riguardano le piantagioni. La regola relativa alle distanze nelle costruzioni stabilisce che le
costruzioni su fondi finitimi se non sono unite, o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di 3
metri; nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore. Abbiamo detto che appunto
nell’ambito delle varie norme sui rapporti di vicinato, le norme sulle distanze nelle costruzioni realizzano
oltre che un interesse privato, ovvero l’interesse del proprietario del fondo vicino, anche un interesse
pubblico e per tale ragione sono norme inderogabili, ossia norme che non possono essere sostituite da altre
regole poste dai privati. Questi limiti stabiliti dall’articolo 873 non si applicano tuttavia agli edifici confinanti
con piazze e vie pubbliche; alle costruzioni che si fanno al confine con le piazze e le vie pubbliche, non si
applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano. Il
rimedio contro la violazione delle norme sulle distanze è il rimedio della rimessione in pristino. Rimedio
generale è quindi il risarcimento del danno, ma può essere chiesto anche un rimedio in forma specifica che è
la riduzione in pristino e quindi la demolizione della costruzione in violazione della norma. Gli articoli da
874 a 878 del Codice civile dettano poi una serie di norme aventi a oggetto i muri e tali norme sono di
carattere eterogeneo in quanto riguardano sia le distanze, sia la comunione forzosa del muro, sia la
presunzione di comunione e sia la costruzione e la gestione. Quanto alle distanze, i muri che fanno parte di
edifici sono soggetti alle norme sulle distanze nelle costruzioni, quindi alla regola posta dall’articolo 873,
salvo però i muri di cinta e gli altri muri isolati, che non sono soggetti a tale norma, a meno che non abbiano
un’altezza superiore ai 3 metri. Un’importante disciplina è poi quella cosiddetta “comunione forzosa del
muro” e il Codice a riguardo detta due disposizioni diverse: la comunione forzosa del muro sul confine; la
comunione forzosa del muro che non è sul confine. Con relazione alla comunione forzosa del muro sul
confine, il proprietario di un fondo contiguo al muro altrui può chiederne la comunione per tutta l’altezza, o
per parte di essa, purché lo faccia per tutta l’estensione della sua proprietà; per ottenere comunione, deve
pagare la metà del valore del muro, o della parte di muro resa comune e la metà del valore del suolo su cui il
muro è costruito. Egli deve inoltre eseguire le norme che occorrono per non danneggiare il vicino. Questa
prima regola, disciplina l’ipotesi di un muro confinante. In questo caso il proprietario ha la possibilità di
diventare comproprietario del muro e questo significa “comunione”: da una parte il proprietario confinante,

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dall’altra parte il proprietario del muro confinante. Nell’ipotesi in cui il muro non sia confinante, ovvero
nell’ipotesi della comunione forzosa del muro che non è sul confine, vale la normativa per la quale: quando il
muro si trova ad una distanza dal confine minore di un metro e mezzo, ovvero a distanza minore della metà
di quella stabilita dai regolamenti locali, il vicino può chiedere la comunione del muro soltanto allo scopo di
fabbricare contro il muro stesso, pagando oltre il valore della metà del muro anche il valore del suolo da
occupare con la nuova fabbrica, salvo che il proprietario preferisca estendere il suo muro fino al confine. Il
vicino che intende domandare la comunione deve interpellare preventivamente il proprietario chiedendo se
preferisca estendere il muro al confine, o se voglia procedere alla sua demolizione. Questi deve manifestare
la sua volontà entro il termine di giorni 15 e deve procedere alla costruzione, o alla demolizione, entro 6 mesi
dal giorno in cui ha comunicato la risposta. Entrambe le ipotesi sono di comunione “forzosa” del muro, in
quanto si tratta di comunione che nasce forzatamente, come indica la stessa parola, dal fatto che vi è
un’ipotesi oggettiva di muro comune. La comunione forzosa fa nascere in capo al soggetto vicino un diritto
potestativo, dove per diritto potestativo si intende il diritto di un soggetto di modificare la sfera giuridica
altrui; in questo caso attraverso la richiesta della comunione, si modifica la sfera giuridica altrui in quanto il
soggetto da pieno proprietario del muro, diventa comproprietario. È questa dunque un’ipotesi di esercizio del
diritto potestativo.
La ratio delle norme che riguardano le piantagioni è quella di impedire attraverso l’applicazione di queste
norme, possibili danni al soggetto proprietario e quindi al vicino, derivanti dall’estensione per esempio di
radici, di rami, con conseguente diffusione di umidità. Analoga ratio si rinviene nella norma sulle distanze
per i canali e per i fossi, che sono appunto distanze che vengono pensate dal legislatore proprio al fine di
scongiurare il pericolo di frane e danni cui può andare in contro il proprietario di un fondo contiguo.
Altre norme sui rapporti di vicinato, sono le norme sulle luci e sulle vedute. Le aperture sul fondo del vicino
si distinguono in due figure, che sono appunto le luci e le vedute. Le luci sono definite le aperture che fanno
passare la luce e l’aria, ma non consentono di affacciarsi; le luci si distinguono poi in regolari e irregolari. Le
luci regolari sono quelle che hanno un’inferriata idonea a garantire la sicurezza del vicino e stanno ad
un’altezza minima dal suolo del luogo in cui sono ubicate e dal suolo del fondo del vicino. Le luci prive di
alcuni di questi requisiti sono considerate luci irregolari. Diversa nozione è quella di vedute, le vedute sono
le finestre, o opere stabili che consentono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente, o di lato. La
differenza tra luci e vedute attiene in modo particolare alla possibilità di guardare e di affacciarsi sul fondo
del vicino. Le aperture che consentono di affacciarsi sul fondo del vicino sono chiamate vedute, o prospetti,
mentre le aperture che non lo consentono, si qualificano come luci. Tale definizione importa l’applicazione
di regole diverse. A differenza delle luci che possono essere liberamente aperte sul fondo del vicino, le
vedute sono soggette a distanze minime dal confine, in particolare non possono essere aperte finestre con
veduta diretta sul fondo altrui, a distanza inferiore di 1,5m dal confine. Inoltre, le vedute e le altre opere che
consentono la vista e l’affaccio sul fondo del vicino, possono essere oggetto di un diritto personale, o di un
diritto reale di servitù, che è il cosiddetto diritto di veduta. Se vengono aperte delle finestre non rispettando le
distanze minime stabilite dal codice, il proprietario a danno del quale sono aperte delle vedute abusive, può
chiedere la remissione in pristino dei luoghi esercitando l’azione negatoria, o di manutenzione, salvo sempre
il diritto al risarcimento del danno. Questo significa che se un vicino apre una finestra non rispettando la
distanza minima prevista dal Codice, io posso chiedere la chiusura di tale finestra. La demolizione, tuttavia,
va evitata quando sia possibile l’adozione di accorgimenti idonei a salvaguardia della proprietà del fondo
vicino; per esempio, invece di demolire una finestra, o un’apertura, io posso chiedere che la finestra sia
oscurata.
Alla disciplina dei rapporti di vicinato, appartengono inoltre le norme dedicate alle acque. In questo senso,
occorre cogliere le due diverse accezioni dell’acqua, in quanto l’acqua è suscettibile di passare da un fondo
all’altro rappresentando causa di pregiudizio, ma l’acqua viene anche considerata come bene primario della
vita umana e dell’economia agricola e industriale, di cui si impone un’utilizzazione che trascende l’ambito
della singola proprietà. In corrispondenza a questa duplice valenza dell’acqua, ovvero acqua come causa di
pregiudizio e acqua come fonte di vita e di attività, si collocano le norme di vicinato che sono
fondamentalmente dirette a tutelare due opposti interessi, ovvero, tutelare il fondo contro le immissioni di
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acqua alterate e tutelare e garantire un’equa ripartizione dell’uso dell’acqua tra i proprietari di fondi vicini.
Quindi, questa norma non tutela solamente il diritto del vicino a non subire l’invasione e il pregiudizio di
un’acqua alterata, ma tutela anche l’interesse del vicino ad un’equa ripartizione dell’acqua come fonte di vita
e come fonte necessaria per l’esercizio dell’attività economica e dell’attività agricola. La norma in questione
esemplifica al primo comma l’interesse tutelato all’utilizzo dell’acqua come un bene primario, il secondo
comma, invece, identifica quell’interesse ad essere tutelati contro il pregiudizio derivante dall’utilizzo
dell’acqua a danno di altri. Deve dirsi a riguardo che, per quanto riguarda il diritto del proprietario a
utilizzare le acque esistenti nel proprio fondo, tale diritto risulta oggi limitato, in quanto la legge stabilisce
che tutte le acque superficiali e sotterranee, ancor che non estratte dal suolo, sono pubbliche e costituiscono
una risorsa, che è salvaguardata e utilizzata secondo criteri di solidarietà. Questo diritto del proprietario viene
dunque contrastato dalla norma che stabilisce che le acque debbano essere pubbliche e che quindi se ne
debbano utilizzare le risorse secondo dei criteri di solidarietà. Altri articoli del Codice stabiliscono poi delle
regole di contemperamento tra gli interessi dei proprietari. Per quanto riguarda le spese, l’articolo 917 pone
un criterio di ripartizione comune delle spese per porre gli argini e quindi per evitare che l’acqua possa
provocare dei danni ai terzi, salvo l’ipotesi in cui la variazione delle acque derivi dalla colpa di uno dei
proprietari; a quel punto egli stesso dovrà addossarsi tutte le spese, salvo in ogni caso l’obbligo di
risarcimento del danno arrecato ai terzi.
Videolezione 6 – I limiti della proprietà.
In questa lezione affronteremo il tema dei limiti, degli obblighi e il contenuto della proprietà. Per far questo
occorre porre una distinzione generale tra limiti e obblighi della proprietà. Tale distinzione nasce dalla lettura
di alcune norme costituzionali, in particolare dell’articolo 42 della costituzione e dell’articolo 44. L’articolo
42 al secondo comma enuncia la nozione di limiti alla proprietà: “La proprietà privata è riconosciuta e
garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la
funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”; di obblighi invece, parla l’articolo 44: “Al fine di
conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e
vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione, secondo le regioni e le azioni agrarie,
promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità
produttive, aiuta la piccola e la media proprietà. La legge infine dispone provvedimenti a favore delle zone
montane”. Come si evince dalla lettura combinata di questi due articoli della Costituzione, in uno (art.42)
viene fatto il riferimento ai limiti della proprietà, nell’altro invece, si fa riferimento agli obblighi, o vincoli. A
riguardo, parte della dottrina ha voluto operare una distinzione tra limiti ed obblighi; si è stabilito che
appunto la nozione di limite circoscrive ed estende il diritto di proprietà, mentre gli obblighi sarebbero
qualche cosa che si aggiunge ai diritti che già sono presenti e quindi al diritto del proprietario contenuto
nell’articolo 832 del codice; in particolare “Il proprietario ha il diritto di godere e disporre delle cose in modo
pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. Dalla
lettura di questa norma, insieme appunto alla lettura delle norme costituzionali, emerge un dato importante;
questa distinzione operata dalla dottrina non è una distinzione che ha accolto il legislatore perché ogni
qualvolta si parla del contenuto del diritto di proprietà, vengono in gioco sia i limiti, sia gli obblighi. Quindi
in questo senso, limiti e obblighi non hanno un contenuto diverso e non hanno una valenza diversa come
sembrava invece affermare la dottrina, che dice che l’obbligo è un comportamento positivo che si aggiunge
al contenuto del diritto del proprietario, mentre il limite è qualcosa che in negativo ne circoscrive la portata.
Questo perché in realtà limiti e obblighi non fanno altro che identificare il contenuto del diritto di proprietà,
il quale in tal modo non risulta azzerato. Quindi se vogliamo rispondere al quesito mediante il quale ci si
chiede se la presenza di limiti e di obblighi in qualche modo azzeri il diritto di proprietà, o comunque lo
riduca a un tale punto da sopprimere lo stesso diritto, deve dirsi che i limiti e gli obblighi previsti dal
legislatore non sono altro che limiti che ne definiscono l’esercizio e la portata, ma che non valgono ad
azzerare il contenuto del diritto di proprietà. Questo è un discorso molto importante poiché in una diversa
sfera si collocano poi quei limiti al diritto del proprietario, che in qualche modo soffocano l’esercizio dei
suoi diritti, come descritto nell’articolo 832, tanto da porre il dubbio di identificare una proprietà così come
viene descritta nel codice e questa problematica interessa in particolare quelle ipotesi e quelle forme di

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proprietà fiduciaria in cui si configura un’assenza del potere di godimento del proprietario, o viceversa,
un’assenza del potere di disposizione, in condizione del quale non può parlarsi di un equo contemperamento
tra l’esistenza di limiti e obblighi, e il contenuto del diritto di proprietà come descritto dall’articolo 832, ma
si verte in un ipotesi diversa per la quale la proprietà, cosiddette speciali, rispetto alla nozione codicistica e
generale conosciuta, importano una limitazione forte dei poteri del proprietario. Questi limiti e obblighi
invece sono limiti esterni alla proprietà che, come abbiamo detto, non vanno a sopprimere il contenuto
minimo del diritto del proprietario.
Con riguardo ai limiti e quindi agli obblighi della proprietà, occorre distinguere tra i limiti alla proprietà
fondiaria e limiti alla proprietà edilizia. Con riguardo ai limiti della proprietà terriera, occorre analizzare tutta
una serie di vincoli, che sono vincoli di carattere paesaggistico e che quindi sono vincoli di interesse
pubblico. Con specifico riguardo alla tutela del paesaggio, una prima norma importante di riferimento è
l’articolo 9 della Costituzione, che cita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca
scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della nazione”. La tutela del
paesaggio come prerogativa della Repubblica, trova un riferimento specifico nella norma costituzionale, ma
deve dirsi che una tutela peculiare del paesaggio si rinviene nel decreto legislativo 22 gennaio del 2004 n.42,
cosiddetto codice dei beni culturali e del paesaggio ai sensi dell’articolo 10. È interessante vedere come
l’articolo 131 del codice dei beni culturali dia anche una definizione del paesaggio; l’articolo 131 stabilisce
che: “Ai fini del presente codice si intende una parte omogenea del territorio i cui caratteri derivano dalla
natura, dalla storia umana, o dalle reciproche interrelazioni”. Quindi a differenza della nozione tradizionale,
il paesaggio non identifica solamente il carattere della natura, ma è una nozione mista che si identifica sia
con il carattere della natura, sia con il carattere della storia umana. Il secondo comma del medesimo articolo
stabilisce che la tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che esso esprime, quali
manifestazioni identitarie percepibili. Diciamo quindi che con il codice dei beni culturali, il paesaggio
diventa un oggetto di specifica tutela, ma soprattutto, attraverso il paesaggio si identificano dei valori
peculiari della società umana. A riguardo, sono particolarmente significative le norme sulla pianificazione
paesaggistica e tutta una serie di norme che stabiliscono delle aree tutelate per legge, ovvero, dei piani
paesaggistici con vincoli di tutela da parte dell’ordinamento.
Analizziamo ora i limiti della proprietà edilizia. Innanzitutto, per proprietà edilizia si intende la proprietà di
fabbricati e quindi di edifici in un contesto urbano. I limiti della proprietà edilizia si inseriscono nell’esigenza
generale del nostro ordinamento, che è quella di consentire una più adeguata razionalizzazione del contesto
urbano, imponendo quindi delle regole che vanno dalla individuazione, per esempio, di aree destinate al
verde, all’individuazione di aree per il parcheggio. Si tratta comunque di misure di razionalizzazione che
trovano il loro fondamento nel migliore e più adeguato assetto del territorio e che quindi non incidono sulla
facoltà e il diritto del proprietario, ma lo limitano dall’esterno. Diciamo che tra i vincoli e quindi i limiti che
vengono posti al soggetto proprietario di un edificio, il limite più importante attiene alle modalità della
costruzione e lo Stato e quindi l’ordinamento, attraverso i vincoli urbanistici, incide sulle modalità attraverso
le quali il soggetto può realizzare delle opere di costruzione sul suolo. Qui si inserisce un dibattito antico che
attiene l’oggetto della costruzione, cioè ci si è chiesti se il diritto di costruire del proprietario sia l’oggetto di
una concessione amministrativa da parte dello stato, oppure sia solamente un permesso di costruire da parte
dello stato al soggetto proprietario. In realtà il dibattito non è solamente terminologico; dire che lo stato e
quindi la pubblica amministrazione concede il diritto di costruire, significa che a monte il soggetto
proprietario non vanta tale diritto. Parlare di permesso di costruire equivale invece a riconoscere, seppure
implicitamente, il diritto di ricostruire, diritto compreso tra i diritti del soggetto proprietario. La materia è
stata di recente riorganizzata in un testo unico del 2001, il testo unico dell’edilizia. Qui il legislatore ha
operato una distinzione tra due tipologie di opere: le opere che necessitano del permesso di costruire e le
opere che sono oggetto della denunzia di inizio attività. La distinzione tra le due tipologie di opere è
importante perché solamente appunto per le opere elencate nell’articolo 10 del testo unico è necessario
avviare un procedimento di richiesta e quindi di domanda di costruire. L’articolo 10 cita: “Costituiscono
interventi di trasformazione urbanistica e di edilizia del territorio, gli interventi di nuova costruzione, gli
interventi di ristrutturazione urbanistica e gli interventi di ristrutturazione edilizia, che portino ad un

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organismo edilizio in tutto, o in parte diverso da quello precedente”. Ci deve essere quindi questo elemento
dell’innovazione, in quanto le opere di ristrutturazione interna per esempio di un appartamento, sono invece
destinate alla denuncia di inizio attività.
Tra i vincoli urbanistici ci sono i cosiddetti piani regolatori generali, che non sono altro che delle norme che
vanno a individuare tutta una serie di regole che i proprietari degli edifici che sono localizzati in una
determinata zona devo rispettare. Esistono poi anche i piani regolatori particolareggiati e questi piani altro
non fanno che attuare le direttive del piano regolatorio generale.
Analizzando la rilevanza privatistica dei limiti della proprietà edilizia, occorre chiedersi quali sono gli effetti
giuridici del trasferimento e per esempio dell’alienazione di un bene, in cui il precedente proprietario abbia
violato alcuni vincoli urbanistici, come per esempio alcune regole edilizie. Le conseguenze sono varie dal
punto di vista privatistico e una prima conseguenza è quella dell’irregolarità del bene. Immaginiamo una
situazione in cui un soggetto aliena un suo immobile e abbia precedentemente violato una regola edilizia,
quindi per esempio abbia costruito un manufatto in violazione delle regole urbanistiche. E’ chiaro che in
questo caso la conseguenza è quella della nullità, nullità per la violazione di regole amministrative. Ci sono
poi altre conseguenze che incidono sul contratto poiché è chiaro che l’irregolarità del bene conferisce
all’altro soggetto il diritto di risolvere un contratto (per esempio un contratto preliminare di acquisto) e poi ci
saranno delle conseguenze di responsabilità extracontrattuale, quindi di eventuali danni che siano stati
provocati a terzi. Quindi, quello che è importante capire è che la violazione di queste regole incide sul
contratto che i privati hanno stipulato. Si tratta dunque di una violazione che inciderà sulla sorte del contratto
in termini di nullità, oppure in termini di richiesta di risarcimento del danno. Questi vincoli incidono di
conseguenza su quello che è l’effetto privato, che è la stipulazione del contratto di acquisto dei soggetti.
Passiamo adesso a un tema che è quello delle convenzioni urbanistiche. La convenzione, ovviamente in
termini giuridici, non è altro che un accordo che viene fatto tra due soggetti e la convenzione richiama la
figura del contratto. In realtà, infatti, le convenzioni urbanistiche non sono altro che accordi contrattuali che
vengono fatti tra i soggetti proprietari di edifici e la pubblica amministrazione in ordine alla realizzazione di
un determinato progetto. Quindi, trattandosi di contratti veri e propri, ad essi si applicano le regole generali
del contratto, ovvero la risoluzione per inadempimento, il diritto di chiedere risarcimento del danno in caso
di responsabilità per mancata esecuzione della prestazione dovuta. Parte della dottrina, in realtà esclude che
le convenzioni urbanistiche abbiano il carattere e la natura contrattuale. Tale tesi muove soprattutto dal fatto
che le convenzioni urbanistiche realizzano un interesse pubblico, in quanto uno dei due soggetti è la pubblica
amministrazione e la pubblica amministrazione può, in qualsiasi momento e per qualsiasi fine di utilità
pubblica, recedere dal contratto. Quindi, c’è l’interesse pubblico che sovrasta queste convenzioni.
La cessione di volumetria si intende l’atto mediante il quale un soggetto proprietario di un fondo cede ad altri
la porzione di terreno al fine della edificazione di un fabbricato, o di un edificio. Quindi, in realtà, la cessione
di volumetria sarebbe un atto contrattuale secondo una prima tesi attraverso il quale il soggetto cede ad altri
l’utilità del proprio fondo. Secondo una diversa tesi in realtà la cessione di volumetria non integra l’ipotesi di
un contratto di cessione a terzi, ma sarebbe l’ipotesi della costituzione da parte del cedente di una servitù
negativa. La cessione di volumetria integrerebbe la figura della servitù negativa in quanto il soggetto cedente
si impegna appunto a non costruire sul proprio fondo.
Videolezione 7 – Modi di acquisto e perdita della proprietà.
Il tema dei modi di acquisto della proprietà rientra nel tema più generale dei modi di acquisto dei diritti. Una
distinzione fondamentale è quella tra i modi di acquisto a titolo originario e i modi di acquisto a titolo
derivativo. I modi di acquisto a titolo originario sono quelli che producono l’effetto acquisitivo a prescindere
dalla precedente titolarità del diritto in capo a un determinato soggetto. Modi di acquisto a titolo originario
sono per esempio l’usucapione e l’acquisto di beni mobili mediante la regola del “possesso di buona fede
vale titolo”. Quello che occorre bene capire è che nell’acquisto a titolo originario, anche se il bene è
trasferito e magari apparteneva precedentemente, com’è di regola, a un altro titolare, si acquista un diritto
nuovo. Quindi se prima c’erano delle garanzie, dei vincoli, o delle ipoteche, queste scompaiono perché nel
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modo di acquisto a titolo originario, il diritto che il soggetto acquisisce è un diritto completamente nuovo e
dunque libero da tutti i vincoli che invece erano relativi al precedente titolare. I modi di acquisto a titolo
derivativo sono invece quelli che presuppongono la precedente titolarità del diritto in capo a un determinato
soggetto e i principali modi di acquisto a titolo derivativo sono il contratto e la successione a causa di morte.
Nei modi di acquisto a titolo derivativo si configura un’ipotesi di trasferimento e quindi di successione del
diritto che apparteneva al precedente soggetto.
Accanto ai modi di acquisto dei diritti in generale, vanno distinti i modi di acquisto specifici della proprietà;
essi sono: l'occupazione, l'invenzione, l'accessione, la specificazione, l'unione e la commistione. Altri modi
specifici di acquisto della proprietà sono l'usucapione e il possesso di buona fede (già precedentemente
indicati), che possono avere ad oggetto anche diritti reali su cosa altrui. Modi di acquisto previsti dalle leggi
speciali sono invece l'espropriazione per pubblica utilità e altre forme di appropriazione coattiva appartenenti
al diritto pubblico e al diritto processuale (es. la confisca, la vendita forzata dei beni).
Tra i modi di acquisto a titolo originario specifici della proprietà, la prima figura importante è l’occupazione.
L’occupazione è un modo di acquisto della proprietà consistente nell’impossessamento di cose “che non
sono di proprietà di alcuno”. Il codice fa riferimento a quella categoria di beni che i romani chiamavano res
nullius, cioè le cose abbandonate e le cose prive di un soggetto titolare. Il codice include in questa categoria
“le cose abbandonate e gli animali che formano oggetto di caccia e di pesca”. In realtà, quindi, sono
suscettibili di occupazione non solamente le res nullius, cioè le cose che non appartengono a nessuno, ma
anche beni di proprietà altrui, così come sono da considerarsi gli animali selvatici, che non sono res nullius,
ma sono beni di proprietà dello stato, anche se con riguardo a questa categoria il legislatore ci dice che tali
beni sono suscettibili di occupazione. Il codice poi agli articoli seguenti inserisce altre categorie di beni
suscettibili di occupazione e si tratta sempre di animali, ovvero, sciami di api e gli animali mansuefatti, che
abbiano traslocato in altro fondo senza essere reclamati dal proprietario. Altra ipotesi di animali in
allevamento migranti è quella che attiene a colombi, conigli e pesci che passano da una colombaia,
conigliera, o peschiera all’altra. Ritornando al tema dell’occupazione, l’occupazione è quindi un modo di
acquisto a titolo originario della proprietà, che vale sia per l’ipotesi appunto di beni abbandonati (res nullius),
sia per l’ipotesi di beni che pur appartenendo a un soggetto titolare, sono migrati in un fondo altrui; ci deve
essere l’elemento caratteristico della mancata rivendicazione da parte del soggetto proprietario.
Elemento costitutivo dell’occupazione è l’atto di impossessamento, ovvero l’atto attraverso il quale il
soggetto acquisisce il possesso del bene. La legge non sembra richiedere, come invece afferma parte della
dottrina, un atto di volontà del soggetto occupante diretto proprio ad acquisire la proprietà del bene. Da qui
appunto si ritiene che l’occupazione non sia un atto negoziale in quanto non vi è la volontà del soggetto
diretta ad acquistare la proprietà, ma l’occupazione integra invece un’ipotesi di atto giuridico in senso stretto,
ovvero, di un atto imputabile al soggetto in cui si riscontra solo una volontà di compiere l’atto, ma non la
volontà di produrre l’effetto giuridico dell’acquisto della proprietà, in quanto questo si realizza comunque da
parte dell’ordinamento. Una distinzione fondamentale che è stata fatta è quella per la quale nell’atto
negoziale c’è la volontà di compiere l’atto, ma anche la volontà di produrre l’effetto giuridico (il soggetto
non solo è l’autore dell’atto, ma vuole anche gli effetti giuridici); nell’atto giuridico in senso stretto,
viceversa, si ha una divergenza tra la volontà dell’atto e la volontà dell’effetto giuridico e come esempio
paradigmatico si fa riferimento all’atto illecito (c’è la volontà di compiere l’atto, ma non la volontà
dell’effetto giuridico che comporta il risarcimento del danno). Occorre poi chiedersi quale sia il fondamento
sociale di questa occupazione e il fondamento dell’occupazione è l’esigenza sociale di legittimare
l’impossessamento di cose abbandonate, o liberamente disponibili in natura, al fine di consentire a tutti il
godimento di beni che formano l’ambiente naturale. Nell’occupazione l’elemento che determina l’acquisto
della proprietà in capo al soggetto occupante non è un contratto, non è un atto di trasferimento, non è un atto
mortis causa (come nel caso dei modi di acquisto a titolo derivativo) ma è proprio l’elemento materiale
dell’impossessamento del bene ed è proprio questo elemento e non la volontà del soggetto, che determina
l’acquisto del diritto, diritto che è assolutamente nuovo, quindi, anche se altri sono stati proprietari, il diritto
si acquista libero da vincoli.

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Tra i modi di acquisto a titolo originario della proprietà, il codice menziona l’invenzione. L’invenzione è un
modo di acquisto della proprietà di cose smarrite, quindi, il codice individua in capo al soggetto che ritrova
una cosa smarrita, l’obbligo di consegnarla al proprietario, oppure al sindaco del luogo in cui l’ha trovata con
indicazione delle circostanze del ritrovamento. L’acquisto della proprietà della cosa in capo al soggetto che
l’ha trovata, avviene se la cosa non viene reclamata dal proprietario dopo che sia trascorso un anno
dall’ultimo giorno della pubblicazione del ritrovamento, pubblicazione del ritrovamento che deve essere fatta
dal sindaco. La principale distinzione tra questo modo di acquisto e l’occupazione è che qui si tratta non di
cose abbandonate, ma di cose presumibilmente appartenenti ad altri proprietari e la meritorietà sociale
dell’invenzione sta proprio nel fatto che un soggetto ritrova un bene e lo consegna al sindaco. Questa è una
norma basata sulla buona fede delle persone. Una disciplina peculiare dell’invenzione è riservata al tesoro: il
tesoro è una cosa mobile di pregio nascosta, o sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario. Il
tesoro appartiene al proprietario del fondo in cui si trova. Se il tesoro è trovato nel fondo altrui, purché sia
stato scoperto per il solo effetto del caso, spetta per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore.
La stessa disposizione si applica se il tesoro è scoperto in una cosa mobile altrui. L’invenzione è un modo di
acquisto a titolo originario in quanto l’elemento che determina l’acquisto della proprietà è il ritrovamento da
parte del soggetto e la consegna alla pubblica autorità. Sono quindi questi due elementi che determinano
l’acquisto della proprietà; acquisto della proprietà, che proprio perché è un acquisto a titolo originario,
determina il sorgere di un diritto che è assolutamente nuovo ed è dunque privo di tutti i vincoli che
eventualmente possono essere sorti in capo al diritto del precedente proprietario.
L’accessione è un modo di acquisto della proprietà in base al quale il proprietario della cosa principale
acquista la proprietà delle cose accessorie che ad essa vengono unite. In senso stretto, tuttavia, ed è questa la
nozione accolta dal codice vigente di accessione come specifico modo di acquisto della proprietà,
l’accessione è un modo di acquisto della proprietà per incorporazione di beni mobili ad immobili. L’articolo
934 fa riferimento a costruzioni, manufatti, piantagioni, che si trovino su un bene immobile, che è il fondo.
L’accessione è un modo di acquisto a titolo originario e ciò vuol dire che il proprietario delle cose
incorporate (per es. il proprietario del fabbricato, o delle piante) non trasmette il suo diritto, ma lo perde in
conseguenza dell’acquisto del proprietario del fondo, che acquista il fondo in maniera esclusiva. Elemento
costitutivo dell’accessione è l’incorporazione e per incorporazione si intende qualsiasi forma di stabile, o
congiunzione materiale per opera dell’uomo, o per evento naturale. Si parla quindi di incorporazione e quindi
di accessione per i fabbricati o le costruzioni che ineriscono al suolo e per le piante, che vi sono piantate.
Requisito dell’incorporazione è la stabilità, quindi una costruzione provvisoria, come per esempio
un’impalcatura, che serve a ristrutturare la parte esterna di un fabbricato, non dà luogo ad accessione. Non è
invece requisito dell’incorporazione la separabilità dei beni, ma anche le cose separabili, qualora non siano
state rivendicate tempestivamente dal proprietario, sono suscettibili di accessione. L’accessione richiede
tuttavia un elemento importante e cioè che la cosa incorporata abbia una sua identità e cioè che sia un bene
socialmente ed economicamente distinto dall’immobile di cui fa parte; in questo senso, l’accessione implica
l’aggiunta di un nuovo bene. Il fondamento di questo modo di acquisto della proprietà è il principio di
attrazione della proprietà della cosa principale, che risponde a un’esigenza di economicità giuridica, che
impone di salvaguardare il razionale godimento del bene, evitando frazionamenti, o pluralità di diritti
concorrenti sullo stesso. Quindi, si può dire che il principio generale di attrazione della cosa principale è un
principio che poi trova rispondenza in una funzione giuridica fondamentale, che è quella di evitare che vi
siano frazionamenti del diritto. Le entità è vero che sono distinte dal punto di vista economico e sociale, ma
fanno parte, dal punto di vista giuridico, di un tutto unitario ed è questo tutto unitario che giustifica
l’attrazione e l’acquisto per accessione. Il codice prevede tre tipologie di accessione:
1) L’incorporazione di opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui
2) L’incorporazione di opere fatte da un terzo con materiali propri
3) L’incorporazione di opere fatte da un terzo con materiali altrui
Il principio generale in tema di accessione (quello che viene concretamente chiesto in sede di esame) è che:
se i beni accessori oggetto dell’incorporazione sono inseparabili, allora avviene immediatamente l’acquisto
per accessione, se invece, i beni sono separabili, allora il proprietario di questi beni separabili può
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rivendicarli entro un tempo, ma se non li rivendica entro un determinato tempo, allora ecco che si ha
l’acquisto per accessione. Ci sono due distinzioni importanti alla regola dell’acquisto per accessione e queste
due eccezioni sono: il diritto di superficie e l’accessione invertita. Per quanto riguarda il diritto di superficie,
il soggetto titolare di tale diritto è legittimato a fare e mantenere costruzioni sul fondo del proprietario,
quindi, il diritto di superficie è un diritto, che un soggetto diverso da proprietario del fondo ha di costruire e
quindi di acquistare la proprietà sull’opera costruita. In questo caso abbiamo dunque un’eccezione rispetto al
principio generale che governa l’accessione perché, se si applicasse la regola dell’accessione, il manufatto
dovrebbe accedere e quindi essere di proprietà del proprietario del suolo, invece nell’ipotesi di costituzione
del diritto di superficie, il proprietario concede a terzi il diritto di costruire sul proprio fondo e quindi di
diventare proprietario del bene che è stato costruito; la cosiddetta proprietà superficiaria. La seconda
eccezione è la cosiddetta accessione invertita e si chiama così perché qui si realizza un’accessione, ma si
realizza in modo inverso rispetto a quella che è la regola generale dell’accessione; nell’accessione invertita il
proprietario dell’opera costruita diventa anche proprietario del fondo – il proprietario della cosa mobile,
diventa proprietario dell’immobile (il fondo). Il codice disciplina questa figura nel caso in cui il costruttore
occupa in buona fede il fondo attiguo e il proprietario di questo non fa opposizione entro tre mesi dal giorno
in cui ha avuto inizio l'occupazione. In tal caso l'autorità giudiziaria può, tenuto conto delle circostanze,
attribuire al costruttore la proprietà dell'edificio e del suolo occupato. Il costruttore è tenuto a pagare al
proprietario del suolo il doppio del valore della superficie occupata, oltre al risarcimento dei danni. Il
fondamento dell’accessione invertita è quello di consentire, a chi abbia costruito occupando in buona fede il
suolo altrui, di non demolire l’opera costruita, ma di diventare il proprietario di quella parte di fondo
occupata previo pagamento di una determinata somma di denaro - Il principio è quello di contemperamento
degli interessi. Il tema dell’accessione invertita è un tema che è stato oggetto di un vivace dibattito
nell’ambito della giurisprudenza nell’ipotesi dell’accessione invertita in cui il soggetto occupante sia la
pubblica amministrazione e qui si è posto il problema di distinguere l’ipotesi dell’accessione invertita,
dall’ipotesi, invece, della cosiddetta occupazione appropriativa. L’occupazione appropriativa, a differenza
dell’accessione invertita, è l’ipotesi in cui l’occupazione del suolo da parte della pubblica amministrazione
avvenga senza titolo, in quanto per esempio, o non vi è il decreto di espropriazione, oppure vi è un decreto
che poi è risultato nullo. È interessante vedere come questo sia stato confermato dal testo unico
sull’espropriazione nel quale si fa riferimento all’occupazione del suolo da parte della pubblica
amministrazione senza titolo, ma per scopi di interesse pubblico.
La specificazione è la trasformazione per opera dell’uomo della materia altrui in una cosa nuova e,
chiaramente, la proprietà viene trasferita in capo al soggetto che opera questa trasformazione. Dunque, il
fondamento di questo acquisto è il principio generale di appartenenza dei beni a chi li produce. Si tratta di
una tutela del lavoro dell’uomo. La regola generale è quella secondo la quale chi opera e costruisce una
nuova opera con materiale altrui, ne diventa il proprietario salvo il pagamento della materia al precedente
soggetto. Questa regola, tuttavia, non si applica nel caso in cui il valore della materia superi notevolmente
quello della manodopera; in questo ultimo caso, la cosa spetta al proprietario della materia, il quale deve
invece pagare il valore della manodopera. Da questa regola, sembrerebbe che quindi, in realtà, il fondamento
della specificazione non sia tanto quello di tutelare necessariamente l’opera di produzione dell’uomo, ma sia
quella di consentire, che una cosa accessoria venga attratta nell’opera finale manufatta. Questo perché la
seconda regola, cioè la regola per cui diventa proprietario il proprietario dei materiali nel caso in cui il
materiale abbia un valore più grande, fa diventare, proprio per il suo valore economico, la quota accessoria e
quindi il materiale, più importante della cosa manufatta.
L’unione e la commistione sono vicende di aggregazioni materiali di cose mobili che confluiscono in un sol
tutto senza dar luogo a una cosa nuova e che rilevano come modi di acquisto della proprietà delle singole
parti. L’unione è la congiunzione di più cose appartenenti a proprietari diversi. Essa si distingue rispetto alla
commistione che indica invece la loro mescolanza. Il codice ha previsto per entrambe una disciplina unitaria
e le ha qualificate come accessioni relative a cose materiali mobili. Le regole che governano unione e
commistione sono le stesse e sono le seguenti:

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a) se le cose unite o mescolate sono separabili "senza notevole deterioramento" i loro proprietari ne
conservano la proprietà e possono chiederne la separazione
b) se le parti unite o mescolate sono inseparabili, i loro proprietari diventano comproprietari della cosa
composta in proporzione del valore di esse;
c) se le cose unite o confuse sono inseparabili, e una è principale rispetto all'altra o ha un valore molto
superiore, il proprietario della cosa principale o di maggior valore diventa automaticamente e
definitivamente proprietario del tutto. In questo caso egli ha l'obbligo di pagare all'altro il valore della cosa
unita o mescolata, salvo che egli non abbia dato il consenso all'unione o alla commistione. In ogni caso è
dovuto il risarcimento dei danni in caso di colpa grave
Come possiamo vedere, qui abbiamo lo stesso fondamento del principio generale che governa l’accessione e
cioè il principio di attrazione della proprietà della cosa principale, solamente che qui abbiamo, a differenza
dell’accessione, un’unione di cosa mobile a cosa mobile. Quindi, la figura dell’unione e la figura della
commistione è la figura di più beni, che appartengono a diversi proprietari e che creano un tutto unitario. La
regola della commistione si applica anche al denaro; per esempio, il denaro passa in proprietà di chi lo
percepisce diventando parte indistinta del suo patrimonio.
Parliamo ora del modo in cui la proprietà si perde e analizziamo i modi di estinzione del diritto di proprietà.
In senso lato, possiamo dire che per estinzione del diritto si designa un fenomeno di perdita dello stesso e,
tale vicenda va quindi nettamente distinta rispetto alla vicenda traslativa, che designa invece il passaggio del
diritto da un titolare a un altro. Quindi, una cosa è trasferire un diritto che continua a esistere, in cui cambia
solo il soggetto titolare (modo di acquisto a titolo derivativo) e una cosa è estinguere il diritto. In questo caso,
il diritto non viene trasferito da un soggetto a un altro, ma muore. Cessa la vita del diritto. Modi di estinzione
peculiari del diritto di proprietà sono: la perdita della proprietà per acquisto altrui e l’abbandono.
L’estinzione della proprietà per acquisto altrui si verifica quando un terzo acquista la proprietà a titolo
originario - Ogni qualvolta si verifica un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, il precedente
titolare perde il suo diritto.
Altra ipotesi specifica di estinzione del diritto di proprietà è il cosiddetto abbandono. L’abbandono, chiamato
anche derelizione, è l'atto mediante il quale il soggetto si disfa di cose di scarso valore lasciandole in luogo
aperto al pubblico. L'abbandono del proprietario comporta l'estinzione del suo diritto sulla cosa che, in
quanto abbandonata, diventa suscettibile di occupazione. Elementi caratterizzanti dell'abbandono come
specifico modo di estinzione del diritto di proprietà sono da un lato l’abbandono in un luogo aperto al
pubblico e dall’altro, la mancanza di un apprezzabile valore economico o di affezione della cosa. Se si
analizzano questi due elementi, si evince come alcune ipotesi non siano riconducibili all’abbandono; se non
c’è l’elemento del luogo pubblico, anche se il soggetto proprietario abbandona alcuni beni all’interno della
sua casa perché, per esempio, li mette in uno scantinato e quindi non li usa più, in realtà non si ha la figura
dell’abbandono e quindi della perdita del diritto. Così non si ha la figura dell’abbandono quale modo
specifico di perdita del diritto se io lascio un bene di grande valore economico per strada. Se mancano questi
elementi, occorre una specifica volontà negoziale del soggetto proprietario, che si qualifica in termini di
rinunzia. Ciò vuol dire che in realtà l’abbandono non richiede una specifica volontà negoziale, ma è
sufficiente la derelizione e cioè l’atto mediante il quale il soggetto si disfa di cose di scarso valore economico
in un luogo pubblico. Non è necessaria la rinunzia. L’elemento negoziale della rinunzia si riscontra in alcune
ipotesi dette di “abbandono liberatorio”, che sono degli strumenti previsti dalla legge per consentire al
proprietario di liberarsi da obbligazioni, oneri, o diritti, gravanti sulla cosa. Le ipotesi dell’abbandono
liberatorio sono:
a) la rinunzia del comproprietario al suo diritto di comunione, con conseguente liberazione dall'obbligo di
contribuire alle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune;
b) la rinunzia del comproprietario di un muro comune alla sua quota con conseguente liberazione
dall'obbligo di contribuire alle spese di riparazione e di manutenzione;
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c) la cessione da parte del vicino della metà del terreno su cui deve essere costruito il muro di cinta, con
conseguente liberazione dall'obbligo di contribuire alle spese della costruzione;
d) la rinunzia del proprietario del fondo servente con conseguente liberazione dall'obbligo di sostenere le
spese necessarie per l'uso e la conservazione della servitù alle quali sia tenuto in base al titolo o alla legge
Videolezione 8 – Azioni a difesa della proprietà.
In generale le azioni a difesa della proprietà sono azioni reali, in quanto azioni volte a far valere un diritto
reale. Esse si distinguono rispetto alle azioni personali, che sono le azioni volte a far valere diritti personali,
ovvero le pretese creditorie o i rimedi a tutela dei rapporti obbligatori. Esse si distinguono inoltre rispetto alle
azioni possessorie, le quali sono dirette a far valere il possesso leso da atti di spoglio e molestie. Essendo
azioni reali, ad esse si applicano regole specifiche:
a) se si tratta di azioni reali immobiliari, la giurisdizione spetta al giudice dello Stato in cui l'immobile si
trova;
b) le domande volte a far valere tali diritti (reali) sono soggette a trascrizione;
c) La legittimazione spetta al titolare del diritto reale
Il codice prevede quattro azioni generali a difesa della proprietà che sono: 1) Rivendicazione; 2) Azione
negatoria; 3) Azione di regolamento dei confini; 4) Azione di apposizione dei termini. Sono poi previste
singole azioni nella disciplina dei singoli diritti reali. Per esempio, nei rapporti di vicinato, è azione reale la
domanda di comunione forzosa del muro.
La rivendicazione è una tra le azioni a difesa della proprietà e viene considerata come l’azione meno
applicata, quindi, il proprietario di un bene difficilmente ricorre e agisce con l’azione di rivendicazione. La
rivendicazione è l'azione mediante la quale il proprietario fa valere il suo diritto di proprietà al fine di
recuperare la cosa da altri illegittimamente posseduta o detenuta. Tra le azioni a difesa della proprietà, la
rivendicazione è quella che ha radici più antiche ed è la più significativa, in quanto è proprio l'azione che più
identifica il diritto del proprietario. L'attore in rivendicazione è infatti tenuto in primo luogo a provare il suo
diritto di proprietà. Tale prova, essendo spesso di difficile attuazione, veniva considerata probatio diabolica.
Infatti, negli acquisti a titolo derivativo, non è sufficiente esibire il titolo, ma è necessario dare la prova che il
precedente alienante o uno dei precedenti danti causa erano proprietari, avendo acquistato la proprietà a
titolo originario. Nei casi, invece, di acquisto a titolo originario, è sufficiente per l'attore esibire il titolo.
L'azione è imprescrittibile. Fondamento dell'azione (causa petendi) è la lesione del diritto di proprietà.
Oggetto dell'azione (petitum) è la condanna del convenuto (soggetto che si è appropriato del bene) alla
restituzione della cosa o al pagamento di un equivalente in denaro. L'alienazione della cosa da parte del
convenuto dopo la proposizione della domanda non incide sulla prosecuzione del giudizio. In tal caso il
convenuto è tenuto a recuperarla per l'attore a proprie spese la cosa o a corrispondere il valore, oltre
all'obbligo di risarcire il danno. Ciò vuol dire che se dopo la domanda di rivendicazione, il soggetto
convenuto aliena la cosa a terzi, il giudizio continua nei suoi confronti e continua in termini di obbligo di
restituire la cosa se la trova, oppure di corrisponderne il valore e comunque a risarcire il danno al soggetto
proprietario.
L'azione negatoria è un'azione a difesa della proprietà diretta a far dichiarare l'inesistenza di diritti reali
affermati da terzi sulla cosa e far cessare eventuali turbative o molestie che manifestino l'esercizio di tali
diritti, oltre la condanna al risarcimento dei danni. L'azione ha carattere reale ed è quindi imprescrittibile.
Essa compete anche ai titolari di altri diritti reali diversi dalla proprietà: all'enfiteuta e all'usufruttuario. Il
fondamento di tale azione è l'esigenza di tutelare la proprietà e questi diritti contro le intromissioni lesive
della libertà del bene. L'oggetto dell'azione non è, come per la rivendicazione, la restituzione del bene, ma
l'accertamento della libertà della cosa. L'oggetto di tale azione si amplia in caso di turbative e molestie in
quanto si finalizza alla cessazione e al risarcimento del danno. Legittimato attivo è, come si è detto, il
proprietario del fondo, l'enfiteuta e l'usufruttuario. L'attore è tenuto, anche qui, a provare la proprietà, ma la

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giurisprudenza ammette in ogni caso l'esibizione del titolo, a differenza dell'azione di rivendicazione.
L'attore è inoltre tenuto a dare prova specifica dell'inesistenza dei diritti affermati dai terzi.
L'azione di regolamento di confini è l'azione volta alla definizione giudiziale di un confine incerto. L'azione
rientra tra le azioni reali ed è un'azione a difesa della proprietà. Essa tutela, infatti, l'interesse del proprietario
alla sicura delimitazione del suo fondo. Legittimati attivi e passivi sono i proprietari dei fondi confinanti.
Tale azione presuppone un'incertezza soggettiva e oggettiva sul confine del fondo, ossia un'incertezza
derivante dalla contestazione del limite apparente (soggettiva) e dalla mancanza di un limite apparente
(oggettiva). Oggetto dell'azione è la fissazione giudiziale del confine tra fondi contigui. L'attore, a differenza
della rivendicazione, non è tenuto a provare il diritto di proprietà ma solo i confini dell'immobile. A tal fine è
sufficiente un valido titolo di acquisto e qualsiasi prova relativa all'ubicazione dei confini (pe es. una mappa
catastale).
L'azione per l'apposizione di termini è l'azione mediante la quale il proprietario chiede che i segni di confine
del fondo mancanti o divenuti irriconoscibili siano apposti o ristabiliti col concorso di spesa del vicino.
Rispetto all'azione di accertamento di confini, questa azione non presuppone l'incertezza in ordine ai confini.
I confini esistono ma sono poco visibili. Tale azione è quindi diretta a soddisfare l'interesse del proprietario
alla chiarezza visiva dei confini. Tale interesse si rinviene anche in capo al proprietario del fondo contiguo e
giustifica il suo obbligo di contribuire alle spese.
Argomento 9
Videolezione 1 – Comunione e condominio.
Il codice prevede una nozione generale di comunione riferita sia al diritto di proprietà che ad altri diritti reali.
Essa è la spettanza di tali diritti a più titolari per quote ideali. Con specifico riferimento al diritto di proprietà,
la comunione indica la comproprietà, quale situazione di contitolarità del diritto di proprietà (per es. uno
stesso appartamento appartiene a più soggetti). Le quote spettanti a ciascun titolare sono quote ideali, in
quanto quote di proprietà su cosa indivisa. Se la legge o il titolo non dispongono diversamente, le quote si
presumono uguali e attribuiscono vantaggi e oneri correlati. Oltre che in senso oggettivo quale regime di
contitolarità (ci sono più soggetti che sono titolari), la comunione indica l'ente giuridico dotato di
un'autonoma soggettività giuridica. La comunione si presenta infatti come organizzazione di soggetti ed in
questo senso sono ad essa attribuiti organi rappresentativi e competenze (assemblea; regolamento). Il profilo
oggettivo della contitolarità e quello soggettivo sono profili distinti. Con riguardo al titolo costitutivo la
comunione si distingue in:
a) comunione volontaria, che le parti realizzano mettendo in comune beni di loro appartenenza o acquistando
congiuntamente le quote di proprietà di un bene o aderendo ad una comunione già costituita;
b) comunione incidentale, che si costituisce senza un atto volontario dei compartecipi, ma ad es. a seguito di
successione ereditaria o per unione o commistione;
c) comunione forzosa, che si costituisce a seguito dell'esercizio di un diritto potestativo legale. Tipica ipotesi
è la comunione forzosa del muro.
In quanto la comunione è una quota del diritto di proprietà, o di altro diritto reale, il suo contenuto è quello di
tali diritti, salvi i limiti derivanti dalla coesistenza delle quote degli altri compartecipi. Il diritto di comunione
conferisce quindi ai singoli contitolari la facoltà di godere della cosa comune, con conseguente acquisto dei
vantaggi. Tra i vantaggi sono inclusi l'acquisto dei frutti civili e naturali della cosa e in generale gli acquisti a
titolo originario. Il codice detta una particolare disciplina dell'uso della cosa comune che prevede le seguenti
regole:
a) Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non impedisca agli altri partecipanti di farne
parimenti uso secondo il loro diritto. La facoltà di utilizzare la cosa comune è integrale e non è quindi riferita
alla quota. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie al godimento della cosa.

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b) Limite all'uso della cosa comune. Ciascun partecipante, nel servirsi della cosa comune non può tuttavia
alterare la destinazione economica (per es. un locale adibito a parcheggio non può essere adibito a
ripostiglio). Tale limite è diretto a salvaguardare l'interesse degli altri compartecipi a conservare l'oggetto del
loro diritto nella sua identità economico-sociale
c) Altro limite all'uso della cosa comune. Ciascun partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa
comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso
Tra i diritti spettanti a ciascun partecipe rientra la facoltà di disposizione della quota e di cessione del
godimento ad altri, nei limiti della propria quota. L'alienazione della quota a terzi configura un'ipotesi di
abbandono liberatorio, ovvero di rinuncia alla quota di comproprietà, con conseguente liberazione dagli oneri
e dagli obblighi.
In quanto la comunione indica un regime di comproprietà, a ciascun partecipe sono attribuiti pesi. In
particolare, il codice individua i seguenti obblighi dei partecipanti:
a) ciascun partecipante contribuisce alle spese necessarie alla conservazione e al godimento della cosa
comune;
b) ciascun partecipante contribuisce alle spese deliberate dalla maggioranza. Tra queste sono ricomprese
anche tutte le innovazioni dirette al miglioramento della cosa o a renderne più comodo o redditizio il
godimento, purché non pregiudichino il godimento degli altri comproprietari e non comportino una spesa
eccessivamente onerosa;
c) il partecipante che, in caso di trascuranza degli altri partecipanti o dell'amministratore, ha sostenuto spese
necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso. In ogni caso ciascun partecipante
può liberarsi da tali obblighi attraverso la cessione della quota, e quindi la rinunzia. La rinunzia non giova al
partecipante che abbia tacitamente approvato la spesa. Il cessionario del partecipante è tenuto in solido con il
cedente a pagare i contributi da questo dovuti e non versati
Tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere all'amministrazione della cosa comune. Al riguardo occorre
distinguere tra:
a) atti di ordinaria amministrazione. Essi riguardano gli atti di normale godimento e manutenzione della cosa
comune. Per deliberare tali atti occorre la maggioranza semplice. Le decisioni della maggioranza sono
obbligatorie nei confronti della minoranza dissenziente. La minoranza dissenziente può tuttavia impugnare
tali deliberazioni in caso di: a) deliberazione gravemente pregiudizievole della cosa comune; b) preventiva
informazione di tutti i partecipanti sull'oggetto della deliberazione. In caso in cui non si prendano
provvedimenti per l'amministrazione della cosa comune o non si forma la maggioranza ovvero la
deliberazione non venga eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria, che ricorre in
camera di consiglio a nominare un amministratore. I casi in cui le deliberazioni della maggioranza possono
essere impugnate sono: la deliberazione è gravemente pregiudizievole alla cosa comune; se non è stata
osservata la disposizione che obbliga la maggioranza a informare tutti i partecipi sull’oggetto della
deliberazione; se la deliberazione è relativa a innovazione, o ad altri atti eccedenti l’ordinario
amministrazione – atti di straordinaria amministrazione (le innovazioni della cosa comune, a differenza degli
atti di ordinaria amministrazione, devono essere prese a maggioranza qualificata e soprattutto non devono
essere né pregiudizievoli, né eccessivamente onerose).
b) atti di straordinaria amministrazione. Tra gli atti di straordinaria amministrazione rientrano le innovazioni
della cosa comune. Le innovazioni devono essere prese a maggioranza qualificata e non devono essere
pregiudizievoli o eccessivamente onerose; in caso contrario è ammessa l'impugnazione della deliberazione
da parte della minoranza dissenziente. Tra gli atti di straordinaria amministrazione rientra poi le alienazioni e
la costituzione di diritti reali sul fondo altrui. In questo caso è richiesto il consenso di tutti i partecipanti.
Per l'amministrazione ordinaria della cosa comune e per disciplinare il migliore godimento della cosa
comune a maggioranza semplice può essere formato un regolamento o può essere nominato un
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amministratore, che può essere anche un soggetto estraneo. Il regolamento può essere impugnato davanti
all'autorità giudiziaria da parte della minoranza dissenziente entro trenta giorni dalla deliberazione che lo ha
approvato. In caso di mancata impugnazione il regolamento ha effetto nei confronti degli eredi e degli aventi
causa.
Analizziamo ora che cosa si intende per “scioglimento della comunione”. Per scioglimento della comunione
si intende l’atto con il quale cessa il regime di contitolarità. Il codice prevede uno scioglimento volontario
che viene richiesto dai partecipanti all’autorità giudiziaria, la quale può stabilire una dilazione, in ogni caso
non superiore a 5 anni, se l’immediato scioglimento può pregiudicare gli interessi degli altri. I partecipanti
possono anche stabilire che, in ragione del loro interesse, non possano chiedere lo scioglimento della
comunione. In ogni caso però il termine non può essere superiore a 10 anni. Queste ipotesi riguardano il caso
in cui vi sia uno scioglimento volontario, ma esiste poi anche il caso di scioglimento forzoso. Per
“scioglimento forzoso” si intende uno scioglimento disposto di autorità dal giudice; qualora gravi circostanze
lo richiedessero, l’autorità giudiziaria può ordinare lo scioglimento della comunione prima del tempo
stabilito. Lo scioglimento della comunione nelle due ipotesi di scioglimento volontario, o di scioglimento
forzoso, determina che il bene in qualche modo passi da un regime di contitolarità a un regime di titolarità
esclusiva, quindi, ciascun partecipante riceverà una quota del bene, ma il bene viene diviso materialmente tra
i partecipanti e naturalmente tutto questo non può avvenire se nell’operare lo scioglimento della comunione
si alteri la destinazione economica dello stesso.
Analizziamo adesso una figura diversa dalla comunione, ma appartenente comunque alla figura della
comunione ordinaria, che è il condominio. Il condominio è la comunione degli edifici composti da più unità
abitative in proprietà esclusiva. Caratteristica del condominio è la coesistenza del diritto di comunione sulle
parti comuni con il diritto di proprietà esclusiva sulle parti non comuni. Il condominio e la sua disciplina
rientrano nella nozione di comunione. Esso si qualifica come comunione speciale, cui si applicano norme
apposite, che integrano o derogano alle norme della comunione ordinaria. In particolare, la disciplina legale
del condominio si caratterizza rispetto a quella della comunione ordinaria per le seguenti regole:
a) obbligatorietà del regolamento nei grandi condomini (con più di dieci condòmini);
b) la particolareggiata indicazione della costituzione, funzionamento e attribuzioni dell'assemblea;
c) la previsione dell'amministratore quale organo necessario nei condomini con più di quattro condòmini
Il codice dà un'elencazione dettagliata delle c.d. parti comuni, ovvero delle parti che spettano in
comproprietà ai proprietari dei diversi piani o porzioni di piano di un edificio, se il contrario non risulta dal
titolo. Alle parti comuni si applica la regola dell'uso della cosa comune della disciplina della comunione.
Sono parti comuni, per es., le scale, i tetti, i lastrici solari (terrazze) e in generale tutte le parti dell'edificio
necessari all'uso comune. Inoltre, sono considerate parti comuni anche altri locali che forniscono servizi
comuni, come il locale del portiere, gli stenditoi, il locale per il riscaldamento centrale, nonché gli ascensori,
i pozzi, le cisterne, gli impianti per l'acqua, il gas, l'energia elettrica. Su tali parti comuni, ciascun
partecipante vanta un diritto che è proporzionato al piano o al valore del piano su cui vanta una proprietà
esclusiva. Il condòmino deve contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni e non può
sottrarsi a tale obbligo attraverso la rinunzia. Per esempio, un condòmino non può sottrarsi al pagamento
delle spese per la manutenzione dell'ascensore, rinunziando al diritto di utilizzarlo. Le parti comuni sono
indivisibili, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun
condòmino. Per esempio, il lastrico solare può essere diviso, se vi è il consenso degli altri condòmini.
Ciascun partecipante non può eseguire opere che rechino danni alle cose comuni ed è tenuto a partecipare
alle spese di conservazione e gestione delle parti comuni, secondo la regola della comunione ordinari.
Nel condominio, il ruolo e le funzioni dell'assemblea, a differenza della comunione ordinaria, sono più
articolati. In particolare, l'assemblea, oltre a nominare e revocare l'amministratore, provvede ad approvare il
regolamento, a confermare l'amministratore e a decidere della sua retribuzione. L'assemblea approva il
preventivo annuale delle spese e il rendiconto annuale dell'amministratore. L'assemblea inoltre approva le

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opere di manutenzione straordinaria, costituendo, se occorre, un fondo speciale. L'amministratore non può
infatti disporre di opere di manutenzione straordinaria, a meno che queste non abbiano il carattere
dell'urgenza. Per esempio, l'amministratore, anche senza convocare l'assemblea, può disporre che sia
immediatamente riparato un cornicione al fine di scongiurare un danno a terzi. Con riguardo alle
deliberazioni, esse sono obbligatorie nei confronti di tutti i condomini, anche di coloro che non erano
presenti in assemblea, ma le deliberazioni possono essere impugnate quando siano contrarie o alla legge, o a
un regolamento del condominio.
La figura dell’amministratore assume nel condominio una rilevanza molto importante, anche perché la legge
prescrive l’obbligatorietà della nomina dell’amministratore quando i condomini sono più di 4 e in questo
caso è l’assemblea a nominarlo. L’obbligatorietà dell’amministratore è una delle distinzioni maggiori tra il
condominio e la comunione ordinaria; l’amministratore può essere, e di regola lo è, anche un soggetto
esterno, ovvero non uno dei condòmini. L'amministratore è l'organo preposto alla gestione ordinaria del
condominio. Egli è il garante dei condòmini per la cura e la manutenzione delle cose comuni, nonché per
l'osservanza delle deliberazioni assembleari. Inoltre, l'amministratore svolge funzioni di gestione economica
e di contabilità per tutto quello che riguarda le spese e il calcolo dei contributi di ciascun condòmino. Inoltre,
all’amministratore spetta uno specifico potere di rappresentanza dei condòmini. In particolare, egli può agire
in giudizio, sia contro i condòmini, sia contro i terzi. Egli può essere convenuto in giudizio per qualunque
azione riguardante le parti comuni. I provvedimenti presi dall’amministratore nell’ambito dei suoi poteri
sono obbligatori per tutti i condòmini. Contro i provvedimenti dell’amministratore è ammesso tuttavia
ricorso all’assemblea senza pregiudizio del ricorso all’autorità giudiziaria, nei casi e nei termini previsti dalla
legge. Inoltre, l’amministratore svolge anche la funzione di “cuscinetto” tra il condominio e le liti che
possono sorgere sia tra i condomini, che tra i singoli condòmini e i terzi.
Quando in un edificio il numero dei condòmini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, il
quale contenga le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli
obblighi spettanti a ciascun condòmino, nonché le norme per la tutela del decoro architettonico e quelle
relative all'amministrazione. La tutela del decoro architettonico è molto importante in quanto essa costituisce
il limite oltre il quale il singolo condòmino non può andare, cioè egli non può compiere, anche nella propria
proprietà, delle opere che in qualche modo possano arrecare danno a terzi. Il regolamento non può menomare
i diritti dei singoli condomini e non può derogare alle norme di legge sul condominio aventi carattere
imperativo. Il regolamento può imporre obbligazioni, le quali vincolano non solo i proprietari che hanno
aderito al regolamento, ma anche i loro aventi causa. In tal senso si tratta di obbligazioni reali. Il regolamento
deve essere trascritto in apposito registro. Può essere impugnato.
La particolare rilevanza sociale della casa e del diritto alla casa incide anche sulle cause di scioglimento del
condominio. Il codice stabilisce infatti la regola della indivisibilità delle parti comuni dell'edificio, a meno
che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condòmino. Una
particolare forma di scioglimento del condominio è quella che concerne edifici o gruppi di edifici suscettibili
di essere divisi in parti aventi le caratteristiche di edifici autonomi. Altra ipotesi di scioglimento del
condominio è quella del perimento totale o parziale dell'edificio.
Il supercondominio è un complesso di più condomini che hanno in comune delle parti destinate al loro
servizio (per es., più edifici sono collegati ad un'area comune che dà accesso alla via pubblica attraverso un
cancello). Il supercondominio è un’ipotesi che è nata quando si sono moltiplicati gli agglomerati residenziali,
in particolare, è nata nei complessi abitativi in cui ci sono più edifici che appartengono a una stessa area. La
figura del supercondominio trova riscontro nella previsione normativa che il condominio costituito da più
edifici autonomi può essere sciolto pur rimanendo in comune alcune parti. L'opinione prevalente considera il
supercondominio come una particolare forma di condominio, caratterizzata pur sempre dalla presenza di
parti comuni strutturalmente e funzionalmente collegate alle unità abitative. Si esclude al riguardo che rientri
in tale figura la cosa comune che è destinata unicamente ad assicurare maggiore comodità ai condomini (es.
la piscina di un complesso residenziale). Partecipi del supercondominio sono i proprietari delle singole unità
abitative.
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Lezione – Registrazione webinar riforma del condominio.
La riforma del condominio è intervenuta nel dicembre del 2012. La riforma del condominio è importante in
quanto il diritto privato non è una materia che resta nella teoria, tutti noi, o tanti di noi hanno a che fare con
la necessità di vivere in un condominio e quindi hanno anche la necessità di conoscere le regole che
governano il condominio e capire quali sono i limiti delle decisioni legittime e illegittime. La materia del
condominio è regolata dal Codice civile dagli articoli 1117 agli articoli 1139 e segue la materia della
comunione in quanto il condominio è una specie facente parte la comunione ordinale. Prima del 2012,
l’unico condominio regolato dal Codice civile era il cosiddetto condominio verticale, ovvero, il condominio
che riguardava gli edifici suddivisi in piani, per il quale i beni in comune erano quindi tutti quelli
dell’edificio che si estendeva in verticale (per es. le scale, l’ascensore, l’atrio, ecc.). Questo comportava che,
non essendo prevista una disciplina di questo genere per gli altri edifici, pensiamo per esempio a un
complesso di villette in cui tutti abitano sullo stesso piano, la situazione cosiddetta in questo caso di
“condominio orizzontale” veniva disciplinata dalle norme sulla comunione, che sono norme tendenzialmente
diverse. Ora nella definizione di condominio non troviamo solo la citazione “piano”, o “porzione di piano”,
ma anche i condomini orizzontali. La riforma del condominio ha dunque deciso di applicare la disciplina del
condominio a tutti i tipi di condominio, anche quelli orizzontali. Se vi sono delle parti che servono a più
edifici, o a più condomini di edifici, a queste parti si applicano le norme del condominio e non più della
comunione. Quando si parla di condominio, si parla di unità immobiliari e l’importante è che vi siano dei
soggetti che sono proprietari di unità immobiliari, a prescindere dall’estensione in altezza, o in lunghezza, e
che vi siano dei beni e servizi accessibili a tutti e che siano messi al servizio di tutti, o di alcuni di questi
soggetti. Diciamo “tutti, o alcuni” perché si alternano i condomini cosiddetti parziali, ai condomini cosiddetti
generali, che hanno come beni, beni che sono comuni a tutti. Nei condomini parziali, ci sono dei beni che
sono comuni solamente a una scala (per es. l’ascensore di quella scala), nei condomini generali invece, si
parla di beni che sono comuni a tutti (per es. il cancello di ingresso del supercondominio). Ma in realtà è
inutile distinguere tra condominio parziale e generale, l’importante è capire se si tratti di un bene posto al
servizio dell’unità immobiliare di cui il soggetto è proprietario.
Una novità della riforma riguarda senza dubbio la figura dell’amministratore del condominio.
L’amministratore di condominio ormai viene considerato come un professionista, un professionista che deve
avere come tale, anche dei requisiti. Se il presunto amministratore di condominio, non possiede i requisiti
richiesti, non può svolgere l’incarico. Possono ricoprire l’incarico coloro che vantano il godimento dei diritti
civili, che non sono stati condannati per delitti contro la pubblica amministrazione, coloro che non sono stati
sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, coloro che non sono interdetti o inabilitati, chi non ha
ricevuto dei protesti cambiari, chi ha il diploma di scuola secondaria di secondo grado, chi ha frequentato un
corso di formazione iniziale (l’amministratore dovrà poi svolgere la formazione periodica annuale in materia
di amministrazione condominiale). Questi due ultimi requisiti (diploma e corso di formazione) non sono
necessari se l’amministratore di condominio non è nominato in quale professionista esterno incaricato, ma
viene nominato dai condomini dello stabile. La norma specifica, inoltre, indica che possono svolgere
l’incarico di amministratore di condominio anche le società. La perdita di alcuni dei requisiti elencati
precedentemente, comporta la cessazione dell’incarico. In questo caso, ciascun condomino può richiedere
l’assemblea al fine di nominare un nuovo amministratore. Anche l’amministratore condominiale
dimissionario può prendere l’iniziativa per la nomina di un nuovo amministratore perché vige il regime di
prorogatio, regime per il quale appunto l’amministratore dimissionario è costretto, fino a che non viene
nominato un nuovo amministratore, a svolgere gli atti urgenti. Contestualmente all’accettazione dell’incarico
della nomina e a ogni rinnovo dell’incarico, l’amministratore deve comunicare i propri dati anagrafici e
professionali, il codice fiscale (se si tratta di società, anche la sede e la denominazione) e i locali in cui si
trovano i cosiddetti registri condominiali, nonché i giorni e le ore in cui i condòmini possono prenderne
visione e chiederne copia firmata dallo stesso amministratore di condominio. L’assemblea può subordinare la
nomina dell’amministratore anche alla presentazione di una polizza individuale per la responsabilità civile.
Alla professionalità dell’amministratore si lega anche la sua responsabilità e maggiori sono gli oneri a carico
di questo amministratore di condominio, maggiore è il rischio di incorrere a responsabilità. Per questo

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motivo, l’assemblea potrebbe richiedere che prima della nomina dell’amministratore di condominio, quindi
come condizione per la sua nomina, vi sia la presentazione da parte del candidato di una congrua polizza di
assicurazione per la responsabilità civile e per gli atti compiuti nell’esercizio del mandato.
L’incarico di amministratore di condominio viene inquadrato all’interno del Codice civile in quel contratto
che il codice civile definisce “mandato”. Il mandato è il contratto in forza del quale un soggetto, detto
mandatario, si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto di un altro soggetto detto mandante.
L’amministratore è un mandatario ed è un mandatario non di un ente, nello specifico il condominio, ma è un
soggetto incaricato dai singoli condòmini. Il condominio non è un soggetto autonomo, ma è la somma dei
soggetti, quindi, l’amministratore è il mandatario dei singoli condòmini.
Tra gli oneri che ha l’amministratore, uno di questi oneri riguarda il fatto che i suoi recapiti (generalità,
domicilio, recapiti telefonici) devono essere affissi sul luogo di accesso al condominio, o sul luogo di
maggior uso comune, accessibile anche ai terzi. Non ci può essere un amministratore di condominio che si
renda irreperibile e questo vale anche per i terzi. Inoltre, un’altra norma dichiara che l’amministratore è
obbligato a far transitare le somme ricevute a qualsiasi titolo in un conto intestato al condominio (conto
corrente postale, o bancario). Ciascun condomino può richiedere, tramite l’amministratore, di prendere
visione e fare copia a proprie spese dell’estratto conto. Questo è un obbligo importante perché è stato
stabilito a pena di revocabilità dell’amministratore di condominio e la revoca dell’amministratore di
condominio per gravi irregolarità, così come per non aver adempiuto a questi o altri obblighi previsti dalla
legge, porta alla possibilità di chiedere al giudice di revocare e sostituire l’amministratore di condominio. La
revoca poi può essere stabilita dalla maggioranza dell’assemblea e in questo caso non c’è dunque bisogno di
aspettare l’esito della decisione del giudice.
Tra gli oneri che spettano all’amministratore, una novità assoluta è quella che prevede che l’amministratore
debba curare la tenuta dei registri condominiali, primo tra tutti il cosiddetto registro di anagrafe
condominiale. Nel registro di anagrafe condominiale, devono essere indicate le generalità non solo dei
soggetti che sono proprietari dell’immobile, o che hanno un diritto reale sull’immobile, ma anche di coloro
che hanno un diritto personale di godimento, cioè per esempio coloro che abbiano un contratto di locazione.
Il registro di anagrafe condominiale permette all’amministratore di sapere perfettamente chi è il soggetto
proprietario, chi è il soggetto titolare della locazione, o chi è il soggetto titolare di un comodato gratuito (per
es. il figlio del soggetto proprietario). L’amministratore, con la nuova riforma, deve conoscere tutti e deve
sapere a chi rivolgersi. In questo registro, devono essere indicati anche i dati catastali di ciascuna unità
immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza di ciascun appartamento. Ogni variazione
deve essere comunicata tempestivamente all’amministratore entro 60gg, nel caso in cui l’amministratore non
ottenga, anche a seguito di ripetuto sollecito, questi dati, l’amministratore a spese del condomino
inadempiente può fare delle indagini per ottenerli. Ormai l’amministratore non è più scusabile, non si può
più scusare dichiarando di non conoscere di chi sia l’immobile. Il registro condominiale deve essere messo
alla portata di tutti e deve essere possibile per ogni condomino trarne copia.
Altri registri sono: il registro dei verbali delle assemblee; il registro di nomina e revoca dell’amministratore;
il registro di contabilità. Nel registro dei verbali delle assemblee, viene anche allegato l’eventuale
regolamento di condominio. Nel caso, infatti, che i condòmini siano più di 10, la legge prevede la necessità
di redigere un regolamento di condominio. Il regolamento di condominio riguarda le norme sull’uso delle
cose comuni, la ripartizione delle spese, le norme per la tutela del decoro dell’edificio, le norme relative
all’amministrazione e in genere a questo regolamento vengono anche allegate le tabelle millesimali.
L’assemblea è validamente costituita e l’assemblea validamente decide, se ci sono due presupposti: il primo
è di carattere personale e riguarda il numero di “teste” presenti all’assemblea, ovvero, deve raggiungersi un
certo numero di teste; il secondo è un requisito di carattere patrimoniale e riguarda le quote di proprietà.
L’assemblea deve essere costituita per teste e per quota. Le quote di proprietà, su base millesimale, sono
indicate nella cosiddetta tabella dei millesimi, che considera l’intero edificio “mille” e ripartisce i millesimi a
ciascun condomino. In base ai millesimi di proprietà di ciascun condomino, ciascun condomino ha la
possibilità di far vale il proprio valore di proprietà per dar più peso alla propria decisione, anche se è
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importante sia il peso della proprietà, che il peso delle teste. Se l’assemblea in prima convocazione non può
deliberare, delibera in seconda convocazione; la seconda convocazione normalmente ha numeri più facili da
raggiungere. La seconda convocazione è costituita con l’intervento di tanti condòmini che raggiungano
almeno 1/3 del valore dell’edificio e 1/3 dei partecipanti al condominio. La deliberazione in seconda
convocazione è valida generalmente se approvata dalla maggioranza degli intervenuti con un numero di voti,
che rappresenti almeno 1/3 del valore dell’edificio. Ogni condomino può intervenire all’assemblea anche a
mezzo di rappresentante munito di delega, ma se i condòmini sono più di 20, un delegato non può
rappresentare più di 1/5 dei condòmini e più di 1/5 del valore proporzionale dell’immobile.
All’amministratore, invece, non possono invece essere conferite deleghe per la partecipazione a qualunque
assemblea. Conferire deleghe all’amministratore implicherebbe un conflitto di interessi. Le deliberazioni
possono essere impugnate nel termine perentorio di 30 giorni dalla data della deliberazione per i dissenzienti
o gli astenuti e dalla data della comunicazione per gli assenti. L’avviso di convocazione dell’assemblea deve
contenere la specifica indicazione dell’ordine del giorno e deve essere comunicata almeno 5 giorni prima
della data fissata per l’adunanza della prima convocazione. La convocazione deve avvenire a mezzo di posta
raccomandata, a mezzo di posta elettronica certificata, a mezzo fax, o a mezzo consegna a mano e, in ogni
caso, con un mezzo che permetta il tracciamento dell’effettiva consegna.
Videolezione 2 – La riforma del condominio negli edifici (parte 1).
La riforma del condominio è una riforma intervenuta con legge n.220 del 2012. La materia del condominio è
stata oggetto di questa legge di riforma, che è rubricata “Modifiche alla disciplina del condominio negli
edifici”. La legge, sebbene non abbia alterato i caratteri fondamentali dell’istituto del condominio, ha
comportato degli incisivi cambiamenti aderendo ad alcuni approdi giurisprudenziali. Sono stati seguiti dei
suggerimenti forniti dalla giurisprudenza e sono stati riprodotti, con questa riforma, in legge. Ciò ha
comportato la perdita da parte della normativa sul condominio di quello che è il carattere della norma
giuridica, in particolare, quella generalità e astrattezza che caratterizzano la norma giuridica; il nostro Codice
civile ora specifica in alcuni casi proprio nel dettaglio determinati adempimenti da osservare, determinate
discipline. Ovviamente non si specifica in maniera tassativa, si lascia sempre spazio alla giurisprudenza per
interpretare le norme, ma si procede con una tecnica legislativa fatta di più fattispecie specificamente
indicate, fatta di più dettagli specifici in relazione, per esempio, agli adempimenti da realizzare. L’intervento
normativo ha coinvolto quasi tutti gli aspetti della disciplina condominiale e in più direzioni si sono orientate
le modifiche che sono state apportate al Codice civile e alle disposizioni di attuazione del codice civile. Con
riguardo ad alcune disposizioni, si è avuto un ampliamento dei loro contenuti, volto a garantire una maggiore
certezza nell’applicazione della legge. In passato la norma era più astratta, poteva avere un’applicazione più
generalizzante, adesso ci sono degli adempimenti specifici che devono essere imperativamente osservati. Da
parte della giurisprudenza questo comporta ovviamente minori oneri di intervento perché se si specificano di
più e in dettaglio le fattispecie, gli oneri ad esempio, meno la giurisprudenza dovrà intervenire per colmare
l’ampiezza della norma. Se la norma è già specifica, è ovvio che l’intervento della giurisprudenza sarà al
limite di piccola integrazione. Il compito della giurisprudenza si riduce in quanto basta applicare la legge,
non si tratta più di interpretazione giurisprudenziale. Questa riforma ha una rilevanza particolare per quanto
riguarda le norme volte a delineare gli obblighi dell’amministratore di condominio, che sono individuati
dalla normativa in materia di condominio a seguito della riforma, con una dovizia di dettagli.
Da un altro lato poi, l’intervento del legislatore del 2012 è stato in un'altra direzione, cioè in una direzione
che l’ha portato a inserire all’interno del Codice civile, anche delle disposizioni che prima della riforma
erano contenute in leggi speciali, con lo scopo di uniformare le discipline relative a determinati aspetti della
materia condominiale. L’inserimento nel Codice civile delle disposizioni prima contenuto nelle leggi speciali
ha riguardato, in modo particolare, la materia delle innovazioni condominiali. Nella materia del condominio,
quindi, con la riforma si è andati verso tre direzioni: da un lato l’inserimento delle statuizioni
giurisprudenziali all’interno della legge e quindi ampliamento dei contenuti di alcune disposizioni di legge;
da un altro lato l’inserimento nel Codice civile di alcune norme contenute in leggi speciali; da un altro lato
ancora, l’inserimento di alcune novità. Una novità ha riguardato, ad esempio, una speciale disciplina per le
modifiche delle destinazioni d’uso delle cose comuni, mentre altra novità importante ha riguardato il fatto
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che sono state dettate delle prescrizioni volte a rendere, finalmente, effettivamente applicabile al condominio
l’istituto della mediazione civile e commerciale (coordinamento con altri istituti).
Un primo intervento, che possiamo considerare essere stato operato dalla riforma sul condominio, riguarda
senza dubbio la nozione di condominio. Tradizionalmente, si possono distinguere due nozioni di
condominio. La nozione di condominio degli edifici non compare nel nostro codice, si deve ricavare dalle
norme; si tratta di una tecnica legislativa che impronta alcune parti del Codice civile, per la quale si
considerano come già acquisite dalla cultura giuridica, determinate nozioni. Siccome secondo la tradizione
giuridica si sapeva che cosa si intendesse per “condominio”, il Codice civile non ha inteso specificare e dare
una nozione di condominio negli edifici. L’interprete sulla base delle norme e della cultura giuridica deve
trarre la nozione, in quanto non è fornita dal legislatore. A livello concettuale, si opera una distinzione tra
due tipi di nozione del condominio: una nozione di carattere oggettivo e una nozione di carattere soggettivo.
Dal punto di vista oggettivo, il condominio è quella particolare situazione di comunione che si instaura tra i
proprietari delle unità immobiliari che compongono un edificio, in relazione ad alcune parti dello stesso che
sono poste al servizio di tutti. Si tratta dunque di una situazione di relazione con un determinato bene. La
situazione che si instaura tra i condomini e i beni comuni è una situazione oggettivamente di condominio. Il
condominio è dunque un diritto, una posizione soggettiva di quei soggetti che hanno delle unità immobiliari,
che compongono un più vasto complesso. Questa posizione soggettiva è posta in relazione ad alcune parti di
questo complesso che sono poste al servizio di tutti e che vengono chiamate beni e servizi comuni. Dal punto
di vista soggettivo, il condominio può essere studiato come quella particolare organizzazione volta alla
disciplina della vita condominiale. - Da un punto di vista economico (non giuridico) il condominio può
essere studiato in maniera soggettiva.
Nell’art. 1117 del Codice civile vengono elencati, in modo non tassativo bensì esemplificativo, i beni sui
quali cade lo speciale regime di comunione condominiale, la speciale contitolarità. Questa norma è
certamente improntata a una nozione oggettiva di condominio, in quanto è una norma che ci dice che il
condominio implica determinati beni e quindi, la relazione oggettiva è una relazione che si instaura su questi
beni. L’elencazione non è tassativa, ma esemplificativa, in quanto anche altri beni non indicati nella norma
possono essere oggetto di condominio.
Nel nostro Codice civile, il condominio viene inquadrato come un istituto riguardante esclusivamente la
proprietà immobiliare; in particolare si fa riferimento a un peculiare tipo di immobili, degli immobili in cui si
collocano delle unità abitative. Secondo una prima ampia definizione, si ha condominio quando un edificio,
o qualunque altro bene, appartiene a più soggetti in comproprietà, senza che sia operata una divisione dello
stesso in singole parti, ciascuna per ogni singolo compartecipe. Questo tipo di comproprietà si risolve con
una comproprietà pro-indiviso, che si realizza quando il diritto di ciascuno dei contitolari si estende all’intero
immobile, non sussistendo la limitazione di tale diritto a una singola parte del bene. Tutti i contitolari sono
proprietari dell’intero bene comune, non c’è una divisione, o una limitazione a una singola parte del bene. In
base a una seconda definizione del termine “condominio”, si avrebbe condominio nella nostra cultura
giuridica nel caso di edificio che appartiene a più soggetti, quando però le singole porzioni dell’immobile
risultano divise e quindi in modo tale che il diritto esclusivo di ciascuno si può estendere solo alla parte del
bene che allo stesso è assegnato. La nozione di condominio che viene acquisita dal nostro codice civile si
trova a metà strada tra queste due nozioni di condominio che appartengono alla nostra tradizione giuridica; è
a metà strada in quanto nel nostro codice civile, la definizione che si può ritagliare è quella per cui il
condominio è una peculiare situazione di comproprietà pro indiviso (senza divisione) di alcune parti, le
cosiddette parti comuni, che si realizza però quando l’edificio appartiene a più soggetti, ciascuno dei quali ha
la propria porzione di edificio in proprietà esclusiva (pro diviso). Le due nozioni si uniscono. Quindi,
l’istituto condominiale nasce dalla sussistenza di beni comuni all’interno di uno stesso edificio, il quale è
ripartito in unità immobiliari, che possono essere abitative o commerciali, che sono distinte e autonome.
La nozione di condominio ha subito sicuramente delle modifiche, il tradizionale sistema codicistico ha infatti
subito dei cambiamenti e delle integrazioni in virtù della riforma intervenuta con la legge 11 dicembre 2012
n.220. La riforma ha conferito alla figura del condominio una nuova fisionomia, incidendo anche sulle
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antiche impostazioni dottrinali e giurisprudenziali in materia. Prima, per esempio, si poteva ritenere che un
dato indicativo per l’identificazione di un condominio fosse l’esistenza di “piani, o porzioni di piano”
all’interno dell’edificio. Si riteneva che l’immobile fosse suddiviso in piani, o porzioni di piano, quindi si
riteneva che si trattasse di un immobile suddiviso in altezza, o in verticale. La legge di riforma ha sovvertito
questa terminologia, e questo è importante notarlo, adesso la legge invece di parlare di “piani”, o “porzioni di
piano”, preferisce parlare di “unità immobiliari”. La normativa sul condominio si applica ormai direttamente
sia al condominio verticale, che al condominio orizzontale (per es. complesso abitativo di villette a schiera) -
Prima della riforma, si riteneva infatti che le norme sul condominio non potessero essere applicate alle
tipologie di condominio di tipo orizzontale, poiché non si estendevano in altezza e non aveva “piani”, o
“porzioni di piano”. Questo ce lo dice una norma, che è l’art.1117-bis del Codice civile, che cita: “La
disciplina sul condominio negli edifici si applica in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici,
ovvero più condomini di unità immobiliari o edifici, abbiano parti destinate all’uso comune”. La norma fa
riferimento a beni comuni destinati al servizio di più edifici e non distingue tra edifici in condominio e
edifici che siano ciascuno in proprietà esclusiva di un solo soggetto (case indipendenti; villette). Addirittura,
quindi, si prevede l’applicazione della disciplina condominiale con riguardo ai beni che sono posti al servizio
comune di più condomini di edifici. Il condominio orizzontale viene in questo modo definitivamente incluso
nella nozione di condominio accolta dalla nostra legge.
Videolezione 3 – La riforma del condominio negli edifici (parte 2).
All’intervento della riforma del condominio sulla nozione di condominio, si lega strettamente una distinzione
che ricorre in moltissimi testi, anche in giurisprudenza, ed è la distinzione tra condominio totale e
condominio parziale. Con il termine “condominio totale” ci si riferisce alle situazioni di contitolarità
condominiale che riguardano tutti i beni comuni di un determinato edificio, o di un determinato complesso
immobiliare; con il termine “condominio parziale” ci si riferisce alle situazioni di contitolarità condominiale
che non riguardano tutti questi beni, ma solo alcuni di essi. Nonostante la sussistenza di alcuni orientamenti
interpretativi che sono volti a seguire questa distinzione tra condominio totale e parziale, secondo il
professore questa distinzione è fuorviante, in quanto si pone in contrasto con il dato normativo, che parla di
una nozione oggettiva di condominio legata alla contitolarità su beni e servizi, che sono destinati all’uso e al
godimento da parte dei condòmini. Basta dunque affermare che in relazione ad alcuni beni il condominio
riguarda determinati soggetti, in relazione ad altri beni, il condominio spetta ad altri.
La problematica che indica come fuorviante la distinzione tra condominio totale e parziale è legata anche alla
nozione di supercondominio. Il termine supercondominio si utilizza per delineare la situazione di
contitolarità sui beni che sono comuni a tutti i soggetti, che partecipano in qualità di proprietari delle singole
unità immobiliari collocate nei singoli edifici, appartenenti a complessi immobiliari che comprendono più
edifici. Al servizio dei complessi immobiliari sono infatti poste strade private di collegamento, fognature,
parcheggi, parchi, cancelli di accesso, ecc. Si parla quindi di supercondominio quando ci sono degli edifici
con relativi soggetti che abitano in questi edifici e i vari edifici formano un unico complesso immobiliare,
che ha delle strade di collegamento tra gli edifici, o con l’esterno (per es. un cancello). Si parla di
supercondominio anche con riferimento agli edifici che sono suddivisi in più “scale”, per identificare la
situazione in cui ricadono il portone d’ingresso, il cortile, l’androne, nonché tutti gli altri beni posti al
servizio dell’intero gruppo dei proprietari delle unità immobiliari. Si parla in sostanza di supercondominio
quando ci sono degli edifici che già sono divisi tra determinati soggetti, ovvero, che hanno dei condòmini, e
a loro volta questi edifici sono all’interno di un complesso immobiliare in cui vi sono dei beni comuni da
utilizzare in comune tra tutti questi edifici, tra tutti i condòmini del complesso immobiliare. È una locuzione
che si applica anche agli immobili suddivisi in scale, considerando come singolo edificio la singola colonna.
Prima della riforma, il supercondominio non era considerata una fattispecie tipica prevista dal legislatore, ma
era una fattispecie a cui la giurisprudenza cercava di applicare le stesse regole dettate per il condominio. Nel
2012, con le modifiche introdotte dalla riforma, il supercondominio è ormai una fattispecie tipica prevista dal
Codice civile. La riforma però non si è solamente limitata a rendere tipico il supercondominio, ma ha anche
previsto alcuni particolari profili di disciplina in relazione alla rappresentanza dei soggetti coinvolti. Un
profilo di disciplina, in particolare, stabilisce che quando i partecipanti al supercondominio sono
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complessivamente più di 60, ciascun singolo condominio deve designare il proprio rappresentante
all’assemblea per la gestione ordinaria delle parti che sono comuni a più condòmini e per la nomina di un
relativo amministratore; in mancanza, ciascun partecipante può chiedere che sia l’autorità giudiziaria a
nominare il rappresentante del proprio condominio. Il rappresentante deve comunicare tempestivamente
all’amministratore di ciascun condominio l’ordine del giorno e le decisioni assunte dall’assemblea dei
rappresentanti dei condomini; ogni amministratore, di conseguenza, deve riferire alla propria assemblea.
Avere un rappresentante è un diritto, tanto che ciascun partecipante, ovvero ciascun condòmino di ogni
singolo condominio, può chiedere che sia il giudice a nominare il rappresentante del proprio condominio e se
alcuni dei condomini interessati non hanno nominato il proprio rappresentante, il giudice può provvedere alla
nomina anche se lo richiede uno dei rappresentanti già nominati. Il rappresentante si rapporta costantemente
con la propria assemblea e con il proprio condominio – art.67 Codice civile. Questo riguarda la nozione
oggettiva di condominio, ma come abbiamo detto precedentemente, esiste anche una nozione soggettiva di
condominio.
Con relazione alla nozione soggettiva, il condominio viene in considerazione quale soggetto “economico”,
cioè quale autonomo centro di imputazione di interessi. Giuridicamente però, non è un soggetto giuridico
autonomo, non ha personalità giuridica e non ha quindi autonomia patrimoniale, cioè non ha la possibilità di
avere un fondo che escluda che i creditori possono attaccare i patrimoni privati dei singoli condòmini. I
creditori del condominio possono infatti attaccare i patrimoni dei singoli condòmini; non risponde
unicamente un fondo condominiale, bensì rispondono i singoli condòmini. Tradizionalmente, prima del
2008, si riteneva che un creditore, che non veniva soddisfatto dall’amministratore di condominio il quale, ad
esempio, chiedeva la fornitura di un determinato bene o servizio, ma non veniva pagato perché
l’amministratore non lo pagava, fosse legittimato a proporre azione nei confronti anche di un solo
condomino, salvo il regresso di quest’ultimo condomino nei confronti degli altri. Cioè si riteneva che i
condòmini si trovassero in una condizione di “solidarietà passiva”, ovvero, la condizione per la quale, per
ogni debito condominiale, tutti i condòmini rispondevano per l’intero. Si poteva chiamare un solo
condomino a rispondere per l’intero debito condominiale, poi questo condomino si poteva rifare sugli altri.
Nel 2008, la corte di cassazione ha apportato una modifica a questa impostazione seguendo vari passaggi. La
corte di cassazione ha stabilito che non ci fosse solidarietà passiva per i debiti condominiali perché: le
prestazioni di denaro sono divisibili per loro natura (si possono fare singole quote per ogni singolo
condomino, non è necessario che il creditore chieda per intero la somma a uno solo dei debitori); vi sono dei
criteri legali di ripartizione delle spese condominiali previsti dagli articoli 1123 e seguenti e secondo questi
criteri la divisione è presto fatta; ciascun condomino deve rispondere nei confronti dei creditori nei limiti
della quota di spesa ascrivibile a suo carico. I giudici di legittimità, operando in questo modo, nel 2008
hanno ritenuto di escludere che un singolo condomino potesse essere chiamato a rispondere per l’intero
debito. Il creditore può chiedere a ciascun condomino solo la sua quota di debito, in base a quella che è la
ripartizione stabilita dagli articoli 1123 e seguenti. Il creditore, se vuole ricoprire tutto il suo credito, ormai
deve necessariamente agire nei confronti di tutti i condòmini. In caso di debito non soddisfatto, deve ottenere
la condanna dell’amministratore, nella sua qualità di legale rappresentante dei condòmini, e poi deve
procedere in via esecutiva nei confronti di tutti i condòmini, nei limiti rappresentati dalla quota di ciascuno.
E’ questo il nuovo sistema che la giurisprudenza ha inteso seguire.
La riforma ha introdotto poi una peculiare novità, realizzando un miglioramento certamente della posizione
dei condòmini, che sono in regola con i pagamenti – non è giusto andare a toccare i condòmini che sono in
regola con i pagamenti degli oneri condominiali: l’amministratore del condominio è tenuto a comunicare ai
creditori non ancora soddisfatti, che lo interpellino, i dati dei condòmini morosi, cioè i riferimenti dei
condòmini che non risultano in regola con i pagamenti dei contribuiti condominiali. I creditori, di
conseguenza, non possono agire nei confronti degli obbligati che sono in regola con i pagamenti se non dopo
l’escussione degli altri condòmini.
Videolezione 4 – La riforma del condominio negli edifici (parte 3).

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Un aspetto che è stato toccato dalla riforma riguarda l’indivisibilità dei beni. L’articolo di riferimento è
l’articolo 1119 del Codice civile ed è una norma che parla della tendenziale indivisibilità dei beni comuni
condominiali. Precisamente, viene disposto che: le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a
meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il
consenso di tutti i partecipanti al condominio.
L’aggiunta di questo inciso, ovvero, del fatto che serve il consenso di tutti i partecipanti al condominio, porta
a qualche perplessità, sia dal punto applicativo, sia dal punto sistematico, perché l’equilibrio che con questa
norma (art. 1119) aveva il sistema condominiale in relazione al sistema della comunione e in relazione allo
scioglimento stesso del condominio, viene un po’ a cadere proprio a causa dell’aggiunta di questo inciso
finale. In relazione a questa modifica, possiamo dire che, considerati i principi in materia di libertà e
autonomia negoziale, dovremmo dire che è ovvio, nel caso in cui vi siano più soggetti contitolari di un bene,
che può sempre suddividersi il bene. Se tutti i partecipanti che sono contitolari di un bene decidono tutti,
all’unanimità, di dividere questo bene, chi mai glielo può impedire? Questo è stato sempre dato per ovvio,
per scontato. Dunque, perché il legislatore ha detto qualcosa di così ovvio? La piena disponibilità
dell’autonomia contrattuale, dell’autonomia negoziale, che è garantita anche a livello costituzionale ai
soggetti, impedisce che questo si possa mettere in discussione e fa sì che il consenso di tutti i partecipanti, in
ogni caso, permetta la divisione di un bene e ciò vale a prescindere dalla valutazione di un eventuale
pregiudizio. La disponibilità dei diritti sul bene in capo ai contitolari, esclude che sia necessario un
intervento dall’esterno che valuti se c’è un pregiudizio o meno, esclude che possa essere necessario qualche
altro presupposto rispetto al mero consenso di tutti, manifestato nelle forme previste dalla legge. Quindi,
contrariamente a quelli che sono i principi generali in materia di autonomia negoziale, che permettono con il
consenso di tutti di poter fare sempre una divisione, l’articolo 1119 prevede e subordina l’operazione di
divisione alla condizione che la divisione non renda più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino.
Già prima della riforma, si riteneva che i condòmini, unanimemente, potessero sempre decidere di dividere le
parti comuni, senza alcun limite al consenso manifestato da tutti, indipendentemente da quanto prescriveva
allora l’articolo 1119 del Codice civile. L’articolo 1119 del Codice civile, infatti, è una norma che c’è
sempre stata, che sanciva una generale indivisibilità dei beni condominiali, ma già si riteneva ovvio, che se ci
fosse stato il consenso di tutti, la parte comune si sarebbe potuta dividere; questo era ovvio in quanto
risultava dagli ovvi principi in materia di autonomia negoziale. Prima dell’entrata in vigore della legge in
riforma del condominio, quindi della legge 220 del 2012, l’articolo 1119 considerava la divisione come
oggetto di una decisione non adottata all’unanimità, ma adottata a maggioranza, per questo era pienamente
giustificato il divieto di rendere maggiormente incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino. Il “senza
rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino” che leggiamo nell’articolo 1119 di adesso,
poteva essere giustificato prima in quanto la decisione veniva presa a maggioranza, ma se la decisione è
presa da tutti, non ha senso parlare di uso più incomodo, perché tra quei tutti c’è anche colui che ha deciso
che gli sta bene quell’uso più incomodo, tanto che ha preso la decisione sottoscrivendo la divisione stessa.
Nel nuovo articolo si ha dunque un contrasto con la logica giuridica dell’autonomia negoziale in quanto,
come abbiamo detto, era in passato che la norma riteneva possibile che la divisione avvenisse a maggioranza
e quindi prevedeva la possibilità di opporsi a una divisione da parte del condomino che vedeva l’uso più
incomodo della cosa a seguito della divisione.
Secondo la norma precedente, si stabiliva un rapporto particolare con la cessione della comunione. Infatti,
mentre la legge con riguardo alla comunione ordinaria e non al condominio, ha sempre incentivato la
cessazione della comunione e quindi la divisione, con riguardo al condominio invece, la legge ha sempre
disincentivato la divisione dei beni condominiali proprio perché nella logica del legislatore il bene
condominiale è un bene importante per tutti e per questa ragione si deve incentivare che resti in comunione.
Per questo motivo, al regime di comunione ordinaria si applicano gli articoli 1111 e 1112, che fanno vedere
come il legislatore abbia voluto incentivare la divisione della comunione ordinaria. Il primo articolo (1111)
prevede che ciascuno dei partecipanti può sempre domandare al giudice lo scioglimento della comunione
ordinaria, il patto di restare in comunione non può vincolare per più di 10 anni, ma l’autorità giudiziaria può
ordinare ugualmente lo scioglimento della comunione prima del tempo convenuto qualora ciò risulti
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necessario per gravi circostanze. Il secondo articolo (1112) invece, prescrive che lo scioglimento della
comunione non può essere richiesto al giudice quando si tratta di cose che se divise, cesserebbero di servire
all’uso cui sono destinate – ciò riguarda una decisione chiesta al giudice magari da uno solo dei soggetti che
sono in comunione, quando tutti sono d’accordo, anche se la cosa poi cessa all’uso a cui è destinata, la
divisione si può fare perché sono tutti d’accordo ed è nella loro autonomia negoziale dividere. Da queste
norme si è sempre desunto un favore del legislatore verso lo scioglimento della comunione ordinaria,
diversamente per quanto tradizionalmente ha riguardo il condominio negli edifici. Vi erano tra l’altro
maggiori difficoltà per dividere un bene condominiale, rispetto alle difficoltà legate all’iter per dividere una
comunione ordinaria. In relazione a questi aspetti, analizziamo l’ipotesi dello scioglimento del condominio.
L’ipotesi di scioglimento del condominio è un’ipotesi strettamente legata all’articolo 1119 del codice civile,
in quanto l’introduzione delle modifiche a questa disposizione di legge con la previsione di quell’inciso per
cui serve sempre il consenso di tutti i condòmini, ha comportato una mancanza di coerenza in relazione al
sistema completo riguardante lo scioglimento delle situazioni di condominio perché in fondo, dividere un
bene condominiale tra condòmini significa sciogliere il condominio con riguardo a quel bene. Vediamo ora
in che rapporto si muove questa norma con le norme dedicate invece allo scioglimento dell’intero
condominio.
L’intero condominio, ci dice la legge, può essere sciolto tendenzialmente per due tipi di ragioni:
1) Da una ragione oggettiva, quando perisce l’edificio per una parte che rappresenti almeno i tre quarti
del suo valore;
2) Dall’adozione di una delibera assembleare – Il condominio può essere sciolto quando un edificio o
un gruppo di edifici, appartenenti per piani o per porzioni di piano a proprietari diversi si può
dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi. I comproprietari di ciascuna parte
possono costituirsi in condominio separato. I condòmini possono disporre lo scioglimento del
condominio anche nel caso in cui alcune delle cose indicate dall’art. 1117 (beni comuni) restino in
regime di comunione.
E’ ovvio che il potere decisionale dell’assemblea arriva a una delle sue massime espressioni quando si
delibera di sciogliere il condominio, questo perché viene concesso appunto ai condòmini il potere di
destituire gli organi stessi condominiali.
Prima della riforma del condominio, si desumeva che il legislatore avesse una maggior propensione a
garantire il mantenimento del condominio più che il mantenimento della comunione sui singoli beni
condominiali. Un bene condominiale poteva essere diviso anche su richiesta di un solo condomino (prima
della riforma non era richiesto il consenso di tutti i condòmini), mentre per la divisione del condominio era
sempre necessaria una delibera assembleare o un provvedimento del giudice su iniziativa di un terzo dei
comproprietari della parte di edificio da separare. Successivamente, la riforma ha provocato un totale
mutamento tra questi due istituti: l’istituto della divisione di un bene comune; l’istituto dello scioglimento
dell’intero condominio. Adesso per sciogliere un intero condominio basta ancora la maggioranza
assembleare, o basta l’iniziativa di un terzo dei condòmini, mentre per la divisione di un singolo bene
condominiale ormai occorre il consenso di tutti i condòmini. Questo è sicuramente un paradosso.
Videolezione 5 – La riforma del condominio negli edifici (parte 4).
La riforma è intervenuta anche sulle regole di convocazione dell’assemblea condominiale. Lo stretto legame
tra i poteri assembleari e i diritti che spettano ai singoli condòmini, caratterizza, come sappiamo, la disciplina
che riguarda la convocazione dell’assemblea, le maggioranze, la disciplina che attribuisce all’assemblea la
facoltà di deliberare solo se consta che tutti i condòmini sono stati regolarmente invitati alla riunione. È in
virtù della regolare convocazione, che ogni condòmino ha l’onore, volta per volta, di partecipare
all’assemblea, esprimendo il proprio voto. Se anche un solo condomino non viene regolarmente convocato,
l’eventuale deliberazione assembleare risulta viziata da invalidità. Si deve giungere a questa conclusione
anche quando il voto del condomino non convocato, non sia un voto determinante, non sia un voto in grado

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di incidere direttamente sulla deliberazione. Infatti, anche in tal caso, a questo condomino verrebbe negata in
ogni caso la facoltà di influire sull’esito della votazione, indirizzando l’attenzione degli altri partecipanti
sulle proprie argomentazioni, accrescendo così le possibilità di raggiungimento della maggioranza prevista
per adottare la decisione che egli vorrebbe far approvare dall’assemblea. Ciò permette di porre in rilievo la
democraticità delle norme sul condominio; dalle norme sulla convocazione e sulla costituzione, come anche
dalle norme sulla validità delle deliberazioni dell’assemblea del condominio, si evince che viene dato un
rilievo particolare dalla legge alla proprietà condominiale e al proprietario. Vengono valorizzate infatti non
solo le esigenze di tutela della proprietà economiche, ma anche le esigenze di tutela della persona. Si
prevedono infatti dei quorum per la convocazione, ma anche per la valida costituzione dell’assemblea, che si
riferiscono non solo all’intervento di una certa quota di valore, ma anche all’intervento di un certo numero di
condòmini. La persona vale e non vale solo il valore di proprietà.
L’assemblea deve essere convocata dall’amministratore annualmente in via ordinaria per le deliberazioni
indicate dall’articolo 1135, articolo del Codice civile che fa riferimento alle generali competenze
dell’assemblea di condominio. La convocazione può essere fatta in via straordinaria invece
dall’amministratore, quando questi lo ritiene necessario, oppure quando ne è fatta richiesta almeno da 2
condòmini, che rappresentino 1/6 del valore dell’edificio. Se decorrono inutilmente 10 giorni dalla richiesta
manifestata (richiesta dell’assemblea straordinaria) da questi condòmini, questi condòmini stessi possono
provvedere essi stessi alla convocazione. Mentre l’assemblea ordinaria deve essere convocata annualmente,
per quella straordinaria non esistono dei termini prestabiliti, essa può essere sempre convocata quando
occorre. Non esiste una differenza sostanziale tra i contenuti dei due tipi di assemblea, in giurisprudenza si è
specificato, che ai fini della validità della delibera, non ha rilievo il fatto che questa sia stata adottata in
assemblea straordinaria, piuttosto che in assemblea ordinaria. Non esistono differenze tra le competenze di
queste due assemblee, l’assemblea ha uguali competenze a prescindere che sia ordinaria, o straordinaria, e
non sono previsti differenti quorum. Per garantire la possibilità di intervento in assemblea, si prevede che
tutti i condòmini debbano essere convocati con avviso comunicato almeno 5 giorni prima della data fissata
per l’adunanza. L’assemblea non può deliberare se non viene accertato l’adempimento di questo onere.
Prima della riforma del condominio, la legge non prevedeva particolari modalità per notificare ai condòmini
l’avviso di convocazione. La comunicazione poteva essere data con qualsiasi mezzo, bastava che fosse un
mezzo idoneo allo scopo di comunicazione dell’assemblea. L’avvenuta convocazione poteva essere provata
tramite univoci elementi dai quali risultasse, anche in via presuntiva, che il condomino aveva in concreto
ricevuto la notizia dell’adunanza. Si giungeva anche a ritenere che la convocazione potesse avvenire in via
orale e si riteneva addirittura valida una convocazione fatta per telefono.
La riforma del condominio ha introdotto, con riguardo alla convocazione, specifici oneri di forma. L'avviso
di convocazione, contenente la specifica indicazione dell'ordine del giorno, deve essere comunicato a mezzo
di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, e deve contenere
l'indicazione del luogo e dell'ora della riunione. Il legislatore ha dunque scelto la forma scritta per la
convocazione dell’assemblea condominiale e deve utilizzare al fine della comunicazione i recapiti che
conosce. L’amministratore deve fare dei seri tentativi per rintracciare i condòmini che non riesce a trovare al
loro recapito, in ogni caso infatti grava sul condominio l’onere di dimostrare che tutti i condòmini sono stati
tempestivamente convocati.
Ci potrebbe essere tra l’altro un regolamento di condominio che può ben stabilire una volta per tutte qual è la
sede nella quale si deve svolgere l’assemblea, ma in mancanza di una regola prestabilita, l’amministratore
può scegliere la sede più opportuna. Secondo la giurisprudenza della corte di cassazione, il potere
discrezionale di scegliere la sede incontra tuttavia due tipi di limiti: 1) la sede deve ricadere entro i confini
della città in cui sorge l'edificio in condominio; 2) il luogo di riunione deve essere idoneo, per ragioni fisiche
e morali, a consentire la presenza di tutti i condòmini e l'ordinato svolgimento delle discussioni. (La sede
deve essere il più asettica possibile)
Nell’avviso di convocazione deve essere indicato anche il soggetto da cui proviene quella convocazione ed è
da considerare infatti come inesistente un avviso di convocazione per un’assemblea condominiale, che non
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rechi alcuna indicazione in merito al soggetto che procede alla convocazione stessa, né alcun riferimento al
condominio per il quale l’avviso è inviato. Inoltre, i condòmini devono essere preventivamente informati
dell’oggetto da esaminare in assemblea, oggetto dell’assemblea che non può essere indicato in maniera
generica, ma deve essere indicato specificamente. L’ordine del giorno deve essere comunicato per altro in
modo chiaro e intelligibile, con l’indicazione dei condòmini che abbiano chiesto eventualmente di discutere
specifici punti. La delibera adottata in mancanza di regolare convocazione è una delibera da considerare
annullabile e quindi la si deve annullare impugnandola entro 30 giorni. Già nell’avviso di convocazione della
prima assemblea, è già stabilita la data dell’assemblea di seconda convocazione (qualora la prima non si
costituisse).
A parte questa modifica fondamentale, ci sono poi delle nuove regole specifiche che riguardano la
convocazione dell’assemblea per particolari ipotesi. E’ stato introdotto dalla riforma l’articolo 1117-ter, che
si intitola “modificazioni delle destinazioni d’uso delle parti comuni” e secondo questo articolo le
modificazione delle destinazioni d’uso delle parti comuni possono essere disposte dall'assemblea con un
numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore
dell'edificio. In questo caso, l’articolo 1117-ter prevede che la convocazione dell'assemblea, nei casi in cui si
intenda modificare le destinazioni d’uso delle parti comuni, deve essere affissa per non meno di trenta giorni
consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi appositamente destinati e deve effettuarsi
mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno venti giorni
prima della data dell'assemblea. L'avviso di convocazione, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni
oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso. La deliberazione deve contenere la dichiarazione
espressa che sono stati effettuati tutti questi adempimenti.
Altra regola particolare di convocazione è dettata dall’articolo 1117-quater, che parla della tutela delle
destinazioni d’uso delle parti comuni: se sussistono delle attività che incidono negativamente e in modo
sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni, l'amministratore o i condòmini, anche singolarmente,
possono diffidare l'esecutore e possono chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione,
anche mediante azioni giudiziarie. L'assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la
maggioranza prevista dal secondo comma dell'art. 1136 c.c., cioè con un numero di voti che rappresenti la
maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Videolezione 6 – La riforma del condominio negli edifici (parte 5).
La riforma del condominio è intervenuta sulla disciplina della convocazione anche in relazione alle
assemblee che hanno ad oggetto questioni considerate di particolare rilievo dal nostro legislatore.
Innanzitutto, abbiamo già fatto riferimento in precedenza all’articolo 1117-ter, ma non è solo questo
l’articolo, che in materia di convocazione dell’assemblea è stato novellato. Si deve infatti considerare quanto
è avvenuto in relazione alle nuove innovazioni speciali agevolate previste dall’articolo 1120 del Codice
civile. A differenza del passato in cui la norma trattava in modo generico il tema dell’innovazione
condominiale specificando solamente dei limiti molto astratti da rispettare, questa norma adesso in maniera
specifica contempla una serie di innovazioni che dobbiamo considerare da agevolare, che dobbiamo
considerare in maniera peculiare ai fini dell’approvazione anche assembleare, ai fini del calcolo delle
maggioranze necessarie, perché il legislatore spinge e ha sempre spinto verso l’approvazione di determinati
tipi di innovazione e l’ho ha già fatto con le leggi speciali, che adesso si è inteso far confluire all’interno del
Codice civile garantendo, all’interno della norma che riguarda le innovazioni, un particolare regime uniforme
per le innovazioni agevolate. Infatti, un nuovo onere di convocazione è stato posto dall’articolo 1120, con
riferimento alle innovazioni che hanno a oggetto le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la
salubrità degli edifici e degli impianti, le opere e gli interventi per eliminare le barriere architettoniche, per il
contenimento del consumo energetico negli edifici, per realizzare parcheggi a servizio delle unità
immobiliari o dell’edificio, nonché per produrre energia mediante l’utilizzo di impianti di generazione, fonti
eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un
diritto reale, o personale di godimento del lastrico solare, o di altra idonea superficie comune. Alle
innovazioni agevolate appartengono poi anche le innovazioni che riguardano l’istallazione di impianti
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centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso di qualunque altro genere di flusso informativo e
i relativi collegamenti fino alla diramazione alle singole unità abitative.
Queste particolari innovazioni, in virtù dell’intervento di riforma, portano a un nuovo onere di convocazione,
previsto appunto dall’articolo 1120 del Codice civile, che cita: L'amministratore è tenuto a convocare
l'assemblea entro trenta giorni dalla richiesta anche di un solo condomino interessato all'approvazione delle
speciali innovazioni (agevolate) contemplate dalla norma. La richiesta deve contenere l'indicazione del
contenuto specifico e delle modalità di esecuzione degli interventi proposti. In mancanza, l'amministratore
deve invitare senza indugio il condomino proponente a fornire le necessarie integrazioni.
L’analisi delle norme in tema di convocazione dell’assemblea deve estendersi anche ad altri testi, la novella è
intervenuta anche in merito ad altre norme di legge, oltre che all’articolo 1120. In particolare, un altro
articolo che è stato novellato dalla riforma e che riguarda gli oneri di convocazione è l’articolo 1129 del
Codice civile, che si occupa tra l’altro della revoca dell’amministratore, prevedendo che questa revoca può
essere disposta in ogni tempo dall’assemblea con la maggioranza prevista per la nomina di tale soggetto,
oppure con le modalità previste dal regolamento di condominio. La nomina dell’amministratore può essere
inoltre disposta dall’autorità giudiziaria su ricorso di ciascun condomino, in caso di gravi irregolarità.
Costituiscono gravi irregolarità, secondo la norma citata, l’omessa convocazione dell’assemblea per
l’approvazione del rendiconto condominiale. In tema di convocazione questa norma diventa importante
perché l’omessa convocazione per l’approvazione del rendiconto è grave irregolarità, da valutare ai fini della
revocabilità dell’amministratore. Altra norma importante con riferimento alla convocazione dell’assemblea è
infatti l’articolo 1130, che conferma che l’amministratore, tra i suoi compiti, ha quello di convocare
annualmente l’assemblea per l’approvazione del rendiconto condominiale. Viene specificato che
l’amministratore deve redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione e deve convocare
l’assemblea per la relativa approvazione entro il termine di 180 giorni successivi. Uno speciale potere di
convocazione, facente capo ai condomini, è previsto dall’articolo 1129 con riguardo alla revoca
dell’amministratore stesso; l’articolo cita: se emergono gravi irregolarità fiscali o la non ottemperanza
all'obbligo di far transitare le somme su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al
condominio, i condòmini, anche singolarmente, possono chiedere la convocazione dell'assemblea per far
cessare la violazione e revocare il mandato dell'amministratore. L'assemblea convocata per la revoca o le
dimissioni dell'amministratore deve deliberare in ordine alla nomina del nuovo amministratore.
La riforma è intervenuta in materia di condominio con riguardo al fenomeno dell’apparenza. La riforma, in
sostanza, ha voluto arginare il rischio di situazioni di incertezza in ordine alla titolarità dei diritti
condominiali. Grazie alla riforma, non si può più considerare attuale la problematica del condomino
“apparente”. Negli anni passati è emerso in giurisprudenza e in dottrina il problema dell’apparenza con
riguardo alla titolarità dei diritti condominiali in capo a un soggetto che partecipa all’assemblea, in quanto il
fatto che questo soggetto partecipi all’assemblea dà un’apparenza del diritto. Secondo la definizione che
ricorreva “è condomino apparente il soggetto, che nonostante non sia condomino effettivo (non sia
proprietario dell’unità immobiliare), si comporta in modo costante, come se rivestisse questa qualità, tanto da
indurre gli altri a considerarlo legittimato all’esercizio dei diritti di condominio”. In giurisprudenza è stato
affermato a riguardo, che l’applicazione della cosiddetta teoria del condomino apparente, presuppone un
costante inequivoco comportamento da condomino, tale da far ritenere, utilizzando la normale diligenza, che
a questa condotta corrisponda un’effettiva situazione di diritto, cioè una situazione di contitolarità
condominiale. In termini generali, non si dovrebbe dare rilevanza alla figura del condomino apparente, in
quanto essa è stata delineata in realtà per rispondere alle esigenze di tutela di alcuni soggetti di buona fede (al
soggetto di buona fede la giurisprudenza in alcuni casi ha assimilato l’amministratore di condominio), che
entrano in rapporto con il condominio. In giurisprudenza è stata giustificata, sulla base della teoria
dell’apparenza, l’azione giudiziaria intrapresa dall’amministratore di condominio verso un soggetto che non
era condomino, ma che appariva tale per la sua posizione nell’ambito del condominio, o nei confronti dello
stesso amministratore. La giurisprudenza ha ritenuto giustificato che l’amministratore possa essere
considerato alla stregua di un terzo di buona fede estraneo al condominio, che ignora il fatto che il bene non
appartenga a quel soggetto e che quel soggetto non è condomino, e ha dunque ritenuto che possa essere
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giustificata un’azione giudiziale intrapresa dall’amministratore di condomino nei confronti del condomino
“apparente”. Un’impostazione di questo genere però secondo noi e il professore deve essere criticata in
quanto l’amministratore non è un soggetto qualsiasi e non possiamo considerarlo tutelato come se fosse un
terzo estraneo in buona fede. L’amministratore è investito di un potere di rappresentanza gestoria dei
condomini, che non consente di attribuire rilevanza all’ignoranza sull’effettiva titolarità dei diritti sulle unità
immobiliari. L’amministratore di condominio non si può basare su un generico ragionevole affidamento
perché gravano sull’amministratore, in virtù dell’incarico che riveste, degli oneri di verifica in ordine alla
titolarità delle singole situazioni proprietarie. L’amministratore non può supporre che un soggetto sia il
proprietario. Lui è il mandatario dei singoli condomini e non può ragionevolmente ipotizzarsi che egli non
sappia chi sia il proprio mandante (il condomino). Ciò comporterebbe una negligenza inescusabile a carico
del soggetto incaricato della gestione condominiale. Quindi, se è vero che il soggetto che normalmente
confida sulla situazione apparente non conoscendo quella reale deve essere tutelato, questa tutela però non
può estendersi quando il soggetto deve essere tenuto a conoscere la situazione reale adottando un
comportamento normalmente diligente. In seguito, la giurisprudenza ha voluto seguire le indicazioni di
questa dottrina e di chi si è occupato del condominio negli edifici criticando il fenomeno dell’apparenza e ha
voluto seguire queste indicazioni novellando il Codice civile prevedendo l’anagrafe condominiale. A questo
punto possiamo dire che l’apparenza non deve più considerarsi in ogni caso rilevante.
Con riferimento al fenomeno dell’apparenza, ad esempio questo si verifica quando viene ceduta un’unità
immobiliare e l’amministratore di condominio non ne sa nulla. Di conseguenza, l’amministratore può
presupporre ancora che il vecchio proprietario, colui che ha alienato, sia ancora condomino. Considerati gli
oneri di diligenza che gravano sull’amministratore in relazione all’identificazione dei veri condòmini, in caso
di alienazione di un’unità immobiliare, si può ritenere che la mancanza di tempestiva comunicazione in
merito alla nuova situazione di titolarità sul bene, possa comportare un errore dell’amministratore
sull’effettiva spettanza del diritto di proprietà, un errore di tipo incolpevole. A tal riguardo aiuta la norma,
che dispone “Responsabilità solidale dell’alienante e dell’acquirente per il pagamento dei contributi
condominiali relativi all’anno in corso e a quello precedente.” In questi casi, si ha quindi una certa fungibilità
tra chi era condomino e chi lo diventa, subentrando quindi, in virtù dell’alienazione, nei rapporti
condominiali. La norma inoltre è stata novellata in virtù della riforma del condominio e si prescrive adesso,
che “chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi
maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il
trasferimento del diritto”. Quindi, chi aliena ha l’onere ormai di trasmettere copia autentica del titolo che
determina il trasferimento del diritto (il contratto di compravendita) all’amministratore di condominio, il
quale, avendo questa copia autentica, da quel momento non può più chiedere il pagamento dei contribuiti
condominiali al precedente titolare, ovvero al soggetto che ha venduto il bene.
La giurisprudenza ha arginato il fenomeno dell’apparenza mediante delle regole di identificazione dei
condòmini, in particolare, ha previsto che l'amministratore deve curare la tenuta del cosiddetto “registro di
anagrafe condominiale”, cioè di un registro contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di
diritti reali e di diritti personali di godimento, comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio, i
dati catastali di ciascuna unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza. Ogni
variazione dei dati deve essere comunicata all'amministratore in forma scritta entro sessanta giorni (questo
onere sposta la responsabilità a chi non comunica). Se non viene comunicata la variazione o se la
comunicazione non è completa, l’amministratore deve richiedere con raccomandata le informazioni
necessarie. Decorsi 30 giorni da questa richiesta con lettera raccomandata, in caso di omessa o incompleta
risposta, l’amministratore deve acquisire le informazioni necessarie e i costi devono essere addebitati
direttamente ai responsabili.
A questo punto vi sono delle conseguenze a carico del conduttore dell’unità immobiliare e sono delle
conseguenze particolari perché il conduttore non è condomino, non è proprietario, e il rapporto con il
conduttore (chi conduce in locazione un immobile) non è con l’amministratore o con il condominio, ma è un
rapporto che porta a un diritto personale di godimento; diritto personale di godimento significa diritto nei
confronti del locatore, nei confronti del condomino che gli ha locato l’immobile, ad esempio. Il locatore, che
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dà in locazione un immobile a un soggetto chiamato dalla legge conduttore, deve assicurare il godimento del
bene ed è questo il soggetto che fa da tramite con il condominio perché il vero condomino è il locatore.
L’istituzione di un registro in cui devono essere indicati anche i titolari di un diritto personale di godimento,
quindi anche le generalità dei conduttori, può risolvere determinati problemi riguardanti la legittimazione del
conduttore stesso a partecipare all’assemblea. Ci sono infatti delle leggi speciali che prevedono questa
legittimazione e inoltre sono state previste a carico del conduttore, salvo patto contrario, le spese relative al
servizio di pulizia, al funzionamento e all’ordinaria manutenzione dell’ascensore, alla fornitura dell’acqua,
dell’energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento dell’aria, allo spurgo dei pozzi neri e delle
latrine, nonché alla fornitura di altri servizi comuni anche le spese per il servizio di portineria, nella misura
del 90 per cento, salvo accordo per una misura inferiore. È stato di conseguenza assegnato al conduttore
anche il diritto di voto, in luogo del proprietario dell’appartamento locato, nelle delibere dell’assemblea
condominiale relative alle spese e alle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento
d’aria. Al conduttore è stato poi inoltre attribuito il diritto di intervenire e in assemblea, senza diritto di voto,
in ogni caso in cui si voglia deliberare sulla modificazione degli altri servizi comuni. La nuova norma
relativa alla rendicontazione condominiale presuppone l’instaurazione di un rapporto diretto tra il conduttore
dell’immobile e il condominio, esiste infatti un diritto di visione e di estrazione di copia: si prescrive che
anche i titolari di diritti di godimento sulle unità immobiliari (anche un conduttore) possono prendere visione
dei documenti giustificativi di spesa in ogni tempo ed estrarne copia a proprie spese. Si instaura un rapporto
diretto tra il condominio e il conduttore in virtù del registro di anagrafe condominiale e in virtù delle
modifiche amministrative intervenute con la modifica della riforma del condominio.
È cambiato qualcosa anche in materia di delega: “ogni condomino può intervenire all'assemblea anche a
mezzo di rappresentante, munito di delega scritta. Se i condòmini sono più di venti, il delegato non può
rappresentare più di un quinto dei condòmini e del valore proporzionale” (art.67 cod.civ.). Nonostante in
alcuni regolamenti si trovino clausole volte a limitare la facoltà di concedere delle deleghe, essendo questo
un provvedimento stabilito dalla legge, dobbiamo ormai ritenere che un regolamento di condominio tipico,
cioè approvato a maggioranza, non può prevedere delle limitazioni che siano più gravose di quelle previste
dalla legge. Ugualmente, un regolamento non potrebbe ammettere che la delega sia conferita solo a
determinate persone. Sulla scia di un insegnamento giurisprudenziale che si è occupato di questo tema, si
deve considerare nulla e invalida, la clausola di un regolamento che permetta di conferire la delega, per
esempio, solamente al coniuge del condomino, o ai suoi parenti entro il terzo grado. Una tale stringente
limitazione del novero dei soggetti che possono esprimere per delega il proprio voto in assemblea, deve
reputarsi del tutto ingiustificata non potendo legittimamente attuarsi.
Con riguardo al potere di delega, ovviamente, quando si parla di regolamento adottato a maggioranza
valgono le regole appena citate e cioè non si può andare oltre quello che è già stato previsto dall’articolo 67
del Codice civile, ma se si tratta di regolamento adottato all’unanimità, contrattuale, quindi di un contratto
condominiale che prevede che tutti abbiano messo per iscritto una determinata delega al potere di deroga, a
quel punto tutti hanno accettato, non c’è una minoranza che soccombe e per questo motivo si possono
superare anche i limiti previsti dalla legge.
Videolezione 7 – La riforma del condominio negli edifici (parte 6).
Le prescrizioni, che specificano gli oneri che fanno capo all’amministratore di condominio, rappresentano
una delle parti più corpose dell’intervento di riforma sul condominio. Le norme di condominio ormai, in
virtù della riforma, contengono una serie di specifiche e dettagliate descrizioni che allontanano la norma da
quel carattere di generalità e astrattezza, e tendono a specificare nel dettaglio, semplificando il più possibile,
quali sono esattamente i termini di disciplina da applicare.
Innanzitutto, l’onere della nomina dell’amministratore di condominio sorge adesso quando i condòmini sono
più di otto. Prima era sufficiente che fossero più di 4.
È stata introdotta poi una nuova legittimazione alla richiesta di nomina dell’amministratore, legittimazione
che prima non c’era. In particolare: se l'assemblea non vi provvede, la nomina è fatta dall'autorità giudiziaria
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su ricorso di uno o più condomini o dell'amministratore dimissionario. Quando è necessario nominare un
amministratore di condominio, adesso può fare ricorso all’autorità giudiziaria anche l’amministratore
dimissionario e ciò perché si vuole concedere a questo soggetto la possibilità di non ricadere nel regime della
prorogatio e di non dover restare responsabile per il compimento di determinati atti, nonostante sia cessato,
almeno formalmente, il suo incarico. Questo si specifica ancor di più in un ulteriore prescrizione conseguente
alla riforma, che precisa quali sono i doveri dell’amministratore una volta cessato il suo incarico. L’articolo
1129 dispone infatti che: “alla cessazione dell'incarico l'amministratore è tenuto alla consegna di tutta la
documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condòmini e a eseguire le attività
urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni, senza diritto ad ulteriori compensi”. Per evidenti
ragioni di trasparenza, è stato poi previsto che contestualmente all‘atto dell’accettazione e a ogni rinnovo
dell'incarico, l'amministratore deve comunicare i propri dati anagrafici e professionali, il codice fiscale, o, se
si tratta di società, anche la sede legale e la denominazione, il locale ove si trova il registro di anagrafe
condominiale e quello dei verbali delle assemblee, ma anche il registro di nomina e revoca
dell'amministratore e quello di contabilità. Devono essere inoltre comunicati i giorni e le ore in cui ogni
interessato, previa richiesta all'amministratore, può prenderne gratuitamente visione e ottenere, previo
rimborso della spesa, copia da lui firmata.
In connessione a ciò, è stato previsto che nel luogo di accesso al condominio o di maggior uso comune,
accessibile anche ai terzi, deve essere affissa l'indicazione delle generalità, del domicilio e dei recapiti, anche
telefonici, dell'amministratore, ovvero, in mancanza dell'amministratore, della persona che svolge funzioni
analoghe. In questo modo, è stata normativamente prevista la designazione di un sostituto
dell'amministratore. È possibile che sia nominato un soggetto che sostituisca l’amministratore nel caso in cui
l’amministratore non può adempiere a determinate funzioni, a determinati incarichi.
Esigenze di correttezza e trasparenza hanno indotto il legislatore a formulare un’ulteriore regola, per la quale
l’amministratore all'atto dell'accettazione della nomina e del suo rinnovo, deve specificare analiticamente, a
pena di nullità della nomina stessa, l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta. Se non viene
specificato analiticamente dall’amministratore l’importo dovuto, la nomina è nulla, non ha efficacia ed è
invalida – è comunque sempre possibile ipotizzare che l’amministratore rinunci al compenso.
Per garantire l’affidabilità nell’espletamento del mandato che fa capo all’amministratore, la legge di riforma
ha anche prescritto che l’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai
condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico
conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio. Ciascun condomino, per il tramite
dell'amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione
periodica (all’istituto bancario, o all’agenzia postale di riferimento).
L’incarico di amministratore di condominio, secondo la riforma del condominio, ha durata di un anno e si
intende rinnovarlo per uguale durata. Il nuovo articolo 1129 precisa, inoltre, che l’assemblea convocata per
la revoca, o le dimissioni, delibera anche in ordine alla nomina del nuovo amministratore di condominio.
La normativa, a seguito della riforma del condominio, prevede con riguardo all’amministratore una serie di
obblighi. Innanzitutto, lo stesso articolo 1129 prescrive che l’amministratore deve operare con una certa
solerzia nel recupero dei crediti. Si esclude ormai che l’amministratore possa discrezionalmente operare una
selezione dei debitori verso cui agire. Una tale facoltà di selezione spetta unicamente all’assemblea del
condominio. Secondo quanto previsto da questo articolo, infatti, salvo che sia stato espressamente dispensato
dall'assemblea, l'amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli
obbligati (obbligati a pagare nei confronti del condominio) entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel
quale il credito esigibile è compreso, anche ai sensi dell'art. 63 disp. att. cod. civ. (disposizione che, in
seguito alla riforma, prevede che per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato
dall'assemblea, l'amministratore, può ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo,
nonostante opposizione, ed è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino, i dati
dei condòmini morosi).

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Con riguardo ai doveri gravanti sull’amministratore di condominio, è stato previsto rispetto al passato un più
ampio elenco. L’amministratore ormai deve:
- eseguire le deliberazioni dell'assemblea e curare l'osservanza del regolamento di condominio;
- disciplinare l'uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell'interesse comune;
- riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione; compiere gli atti conservativi
relativi alle parti comuni dell'edificio;
- eseguire gli adempimenti fiscali;
- curare la tenuta dei registri;
- conservare tutta la documentazione inerente alla propria gestione;
- fornire al condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti e delle eventuali
liti in corso;
- redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione e convocare l'assemblea per la relativa
approvazione entro centottanta giorni;
- convocare l'assemblea per la revoca e per la nomina del nuovo amministratore o negli altri casi previsti
dalla legge;
- eseguire i provvedimenti giudiziari e amministrativi;
- aprire e utilizzare esclusivamente il conto corrente intestato al condominio;
- comunicare i propri dati.
Ulteriori oneri possiamo trovarli sempre nell’articolo 1129, che specifica ad esempio, che su ricorso di
ciascun condomino, può essere disposta dall’autorità giudiziaria la revoca dell’amministratore anche qualora
quest’ultimo non dia immediata notizia all’assemblea di ogni citazione che gli è notificata avente un
contenuto che esorbita dalle sue attribuzioni.
Altra ulteriore ipotesi di revoca è prevista per il caso in cui l’amministratore non renda il conto della propria
gestione. Secondo il nuovo testo di legge, nei casi in cui siano emerse gravi irregolarità fiscali, o di non
ottemperanza all’obbligo di far transitare i movimenti finanziari condominiali su un autonomo conto corrente
intestato al condominio, i condomini, anche singolarmente, possono chiedere la convocazione dell’assemblea
per far cessare la violazione e revocare il mandato all’amministratore. In caso di mancata revoca da parte
dell’assemblea, ciascun condomino può rivolgersi all’autorità giudiziaria.
Tra tutti gli obblighi che si possono trarre dalla dettagliata disciplina, che la riforma ha modellato in
considerazione di questa peculiare figura di amministratore di condominio, quello della rendicontazione
rende opportuna la sussistenza di determinate competenze anche contabili e tecniche. La riforma a riguardo
indica che “il rendiconto condominiale deve contenere le voci di entrata e di uscita e ogni altro dato inerente
alla situazione patrimoniale del condominio, ai fondi disponibili ed alle eventuali riserve, che devono essere
espressi in modo da consentire l'immediata verifica. Esso si compone di un registro di contabilità, di un
riepilogo finanziario e di una nota sintetica esplicativa della gestione: devono esservi indicati anche i rapporti
in corso e le questioni pendenti.” L’assemblea condominiale può in qualsiasi momento, anche per venire in
aiuto all’amministratore, nominare un revisore che verifichi la contabilità del condominio. La nomina del
revisore può avvenire con una deliberazione adottata con la stessa maggioranza prevista per la nomina
dell’amministratore. Il legislatore ha inoltre previsto che l’assemblea possa nominare, oltre al revisore, anche
un consiglio di condominio composto almeno da tre condomini (negli edifici di almeno 12 unità
immobiliari). Il consiglio di condominio ha funzioni consultive e di controllo.
Videolezione 8 – La riforma del condominio negli edifici (parte 7).
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Sul tema delle innovazioni, la riforma è intervenuta in modo davvero particolare. Con riguardo alle
innovazioni, appaiono rilevanti le modifiche avvenute all’articolo 1135 del Codice civile. La riforma del
condominio è infatti intervenuta con riguardo alle innovazioni e ai lavori straordinari. Si è inteso corroborare
le garanzie di esecuzione dell’opera e di pagamento dei lavori in relazione alla manutenzione straordinaria e
alle innovazioni. L’articolo adesso prescrive che in sede di assemblea deve essere deliberata la costituzione
di un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori ogni volta che vengono decisi dei lavori di
manutenzione straordinaria, ma anche ogni volta che vengono decise delle innovazioni. Per la costituzione di
questo fondo, vengono richiesti ai condòmini dei contributi speciali. Prima della riforma un tale esborso
veniva richiesto solo ove l'assemblea lo reputasse necessario, adesso invece esso è disposto
obbligatoriamente. – Questa è stata la modifica introdotta dalla riforma del condominio con legge 220 del
2012, ma vi è stata più di una modifica. Per evitare il grosso peso sui condòmini di una contribuzione
immediata, che porta spesso a non eseguire le opere di manutenzione straordinaria o di non far eseguire degli
interventi di innovazione, è intervenuto successivamente nel dicembre del 2013 un nuovo decreto-legge. Il
decreto-legge ha rimodellato la disposizione prevista dall’articolo 1135, prescrivendo che: “se i lavori
devono essere eseguiti in base a un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro
progressivo stato di avanzamento, il fondo può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti”. Per
evitare che ci sia un unico intero esborso, basta dunque che ci sia, di volta in volta, un fondo necessario al
pagamento dei lavori attualmente in essere. Questo fondo speciale deve essere distinto dai cosiddetti “fondi
cassa”, che spesso vengono deliberati e servono per sopperire a eventualità, o a non previste esigenze di
liquidità, che possono sempre sorgere durante la gestione condominiale e che non riguardano il compimento
di lavori di manutenzione straordinaria. I fondi cassa possono servire per qualche urgenza e l’amministratore
deve avere la possibilità di pagare gli eventuali lavori senza dover convocare l’assemblea e richiedere una
contribuzione.
L’innovazione, come sappiamo, è un intervento volto spesso a modificare una parte strutturale dell’edificio,
o l’uso di una parte dell’edificio, con delle opere e degli interventi disposti per il miglioramento, o per il
maggior rendimento delle cose comuni. Le innovazioni in alcuni casi sono viste della legge come un
qualcosa di socialmente utile e quindi sono agevolate dalla normativa; la loro approvazione avviene in
maniera più agevolata rispetto a quello che riguarda le innovazioni in generale. Proprio con la riforma del
condominio, possiamo dire che novità rilevanti hanno interessato il settore delle innovazioni, con particolare
riguardo alle innovazioni che la legge considera maggiormente meritevoli. Si può notare a tal proposito come
queste innovazioni agevolate prevedano la possibilità di approvazione tramite una maggioranza diversa da
quella prevista per le innovazioni in generale, che possiamo definire ordinarie. Per le innovazioni ordinarie è
infatti necessaria una delibera approvata con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli
intervenuti e almeno i 2/3 del valore dell’edificio, mentre per le innovazioni agevolate è prevista una
disciplina, che prevede una maggioranza facilitata più semplice da raggiungere.
Sono contemplate adesso nell’articolo 1120 del Codice civile tutte le innovazioni agevolate, che prima erano
previste semplicemente da leggi speciali emanate di volta in volta per esigenze diverse. In particolare,
quando facciamo riferimento alle innovazioni “agevolate”, ci riferiamo a: opere e interventi volti a
migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti; opere e interventi per eliminare le barriere
architettoniche (per rendere accessibile l’edificio a soggetti che hanno difficoltà motorie), per il
contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità
immobiliari o dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di
cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi; installazione
di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole
utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della
cosa comune e di impedire agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto
L’articolo 1120 del Codice civile, come novellato dalla riforma del condominio, prevede adesso che i
condomini possono disporre queste speciali innovazioni agevolate, che la legge tende a favorire, con un
numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
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Facciamo ora un’analisi di alcune particolarità che hanno riguardato certi tipi di innovazione, che
analizzeremo di seguito.
Pensiamo innanzitutto all’eliminazione di barriere architettoniche; il nostro legislatore ha inteso garantire
l’utilizzo degli edifici anche a chi ha difficoltà motoria. La norma codicistica in materia di eliminazione delle
barriere architettoniche si inserisce in un inter che è stato avviato con la legge 9 gennaio 1989 n.13, che è
stata emanata nel quadro di una politica legislativa diretta a permettere ai soggetti portatori di handicap una
più agevole utilizzazione delle strutture urbanistiche. Questa legge ha previsto che i progetti di nuova
costruzione, o di ristrutturazione di edifici privati, devono essere redatti in modo da evitare la presenza delle
cosiddette barriere architettoniche. Si è inteso agevolare l’adozione di provvedimenti atti a eliminare gli
impedimenti architettonici preesistenti, consentendo l’approvazione assembleare delle opere innovative
necessarie con maggioranze facilmente raggiungibili. A questo riguardo però, con l’intervento di riforma del
condominio, si è avuta un’incoerenza nell’iter di politica legislativa volto a questa eliminazione. La legge
n.13 del 1989 aveva infatti optato per una maggioranza particolarmente semplice da raggiungere, ovvero: in
prima convocazione era sufficiente un numero di voti favorevoli che rappresentasse la maggioranza degli
intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio, mentre in seconda convocazione la deliberazione era
valida se riportava un numero di voti che rappresentasse il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un
terzo del valore dell'edificio. La riforma del condominio ha invece modificato questa regola, inserendola
nell’articolo 1120, che prevede ormai per tutte le innovazioni agevolate, anche per questo tipo di
innovazione, che “è richiesta la maggioranza degli intervenuti, che rappresenti almeno la metà del valore
dell'edificio”. Ne consegue che la novella ha ridotto le garanzie di tutela dei soggetti affetti da disabilità
motoria. Il tema in materia di eliminazione delle barriere architettoniche è legato strettamente al tema
dell’istallazione dell’ascensore. La giurisprudenza ha sempre infatti considerato l’istallazione dell’ascensore
tra le opere volte a eliminare le barriere architettoniche. Per agevolare la rimozione delle barriere
architettoniche, la corte di cassazione ha anche statuito che è legittima l’istallazione dell’ascensore nella
tromba delle scale, da parte di un condomino a proprie spese, sempre che l’impianto venga messo a
disposizione di tutti i condòmini. Anche se vi è una delibera assembleare che respinge la proposta di mettere
l’ascensore nella tromba delle scale, è legittima l’istallazione da parte di un condomino a proprie spese, lo
può fare automaticamente. Le scale e gli ascensori sono mantenuti e sostituiti dai proprietari delle unità
immobiliari a cui servono. La spesa relativa è ripartita tra di essi per metà in ragione del valore delle singole
unità immobiliari e per l’altra metà esclusivamente in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal
suolo.
La riforma ha apportato delle modifiche anche alle innovazioni agevolate riguardanti il contenimento del
consumo energetico. Il nuovo articolo 1120 si riferisce infatti anche alle innovazioni condominiali di questo
genere e la norma dispone ormai che: “per gli interventi sugli edifici e sugli impianti volti al contenimento
del consumo energetico e all'utilizzazione delle fonti rinnovabili di energia, individuati attraverso un attestato
di certificazione energetica o una diagnosi energetica realizzata da un tecnico abilitato, le pertinenti decisioni
condominiali sono valide se adottate con la maggioranza degli intervenuti, con un numero di voti che
rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio”. Se invece le innovazioni, e quindi gli interventi di
contenimento del consumo energetico, sono privi dell’attestato di certificazione e della diagnosi
professionale, serve l’approvazione con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e
almeno la metà del valore dell’edificio (secondo la norma sulle innovazioni agevolate dell’articolo 1120 del
Codice civile). Prima dell’intervento della riforma, la disposizione dell’art. 26 richiedeva “l’approvazione da
parte di un numero di condòmini che rappresentasse “la maggioranza delle quote millesimali”. Non veniva
indicato alcun criterio che desse rilievo alla partecipazione di un determinato numero di condòmini
(contrariamente ai principi di democraticità del condominio).
L’intervento della riforma ha anche riguardato le innovazioni relative all’adozione di sistemi di
termoregolazione e di contabilizzazione del calore. L’art. 26 al 5° comma riporta infatti: “per le innovazioni
relative all'adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente
riparto degli oneri di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato l'assemblea di condominio
decide con le maggioranze prescritte dall’art. 1120, 2° co., cod. civ. (con un numero di voti che rappresenti la
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maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio)”. In stretta relazione con questo
tema, è previsto che il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento, o
di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento, o aggravi di spesa
per gli altri condòmini. Il rinunziante resta tenuto al pagamento delle sole spese per la manutenzione
straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma.
Videolezione 9 – La riforma del condominio negli edifici (parte 8).
Non si applica la disciplina prevista per le innovazioni alle installazioni che non comportano modifiche in
grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condomini di farne uso secondo il
loro diritto. Queste possono sempre essere disposte e installate dai singoli condomini. L’innovazione è
necessaria negli altri casi, ovvero, quando si muta la destinazione, o quando cambia strutturalmente il
rapporto tra i condòmini e il bene.
Con riguardo alle fonti energetiche rinnovabili e agli strumenti che garantiscono i flussi informativi, si deve
notare che è prevista una specifica disciplina per questo tipo di impianti. Con riguardo alle fonti energetiche
rinnovabili, l’articolo 1122 bis del Codice civile dispone che: “è consentita l'installazione di impianti per la
produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità del condominio sul lastrico
solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell'interessato. Qualora si
rendano necessarie modificazioni delle parti comuni, l'interessato ne deve dare comunicazione
all'amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi. L'assemblea
può prescrivere, con la maggioranza di cui al quinto comma dell'art. 1136 c.c., cioè con un numero di voti
che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio, adeguate
modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del
decoro architettonico dell'edificio e, ai fini dell'installazione degli impianti provvede, a richiesta degli
interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni. L'accesso alle unità immobiliari
di proprietà individuale deve essere consentito ove necessario per la progettazione e per l'esecuzione delle
opere. Non sono soggetti ad autorizzazione gli impianti destinati alle singole unità abitative.”
Procedendo all’analisi delle innovazioni condominiali per le quali è opportuno effettuare dei rilievi
sistematici in seguito alla riforma del condominio, possiamo soffermarci sugli interventi innovativi che
riguardano gli strumenti di informazione. Il legislatore ha agevolato lo sviluppo e la diffusione delle nuove
tecnologie di radio diffusione satellitare e ha previsto che le opere di installazione dei nuovi impianti sono da
considerare “innovazioni necessarie” (non possono ritenersi in nessun caso “voluttuarie” ai sensi dell'art.
1121 cod. civ. – che consente l’esonero dei condomini dal pagamento dei contributi per le spese relative alle
innovazioni voluttuarie). Le deliberazioni che le riguardano sono valide se approvate con un numero di voti
che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Prima della
riforma del condominio la normativa speciale prevedeva l'approvazione con un numero di voti che
rappresentasse il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio. Vi sono
dunque maggiori difficoltà di approvazione a seguito della riforma.
In relazione a questo tema si può fare anche cenno a una nuova innovazione tipizzata dal legislatore,
l’innovazione riguardante gli impianti di videosorveglianza sulle parti comuni. La norma prescrive che le
deliberazioni sono approvate dall'assemblea con la maggioranza di cui al secondo comma dell'art. 1136 c.c.
(con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore
dell'edificio).
Con riguardo alla sicurezza dell’edificio, è intervenuta la riforma a più riprese. La riforma ha espresso in più
punti l’esigenza di salvaguardare la sicurezza dell’edificio. In particolare, l’articolo 1122 del Codice civile
prevede che: nell'unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all'uso comune,
che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale, il condomino non può eseguire
opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al
decoro architettonico dell'edificio. In ogni caso deve essere data preventiva notizia all'amministratore che ne
riferisce all'assemblea.
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Altra norma che si occupa della sicurezza è il nuovo articolo 1130 del Codice civile, che riguarda
l’amministratore e introduce l’obbligo dell’amministratore di curare la tenuta del registro di anagrafe
condominiale. In virtù di entrata in vigore di questa norma si deve ritenere ormai necessario che
l'amministratore conosca ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza delle unità immobiliari.
Si interessa poi alla sicurezza anche l’articolo 1135 del Codice civile dedicato alle attribuzioni
dell’assemblea di condominio, il quale prevede che l'assemblea può autorizzare l'amministratore a
partecipare e collaborare a progetti, programmi e iniziative territoriali promossi dalle istituzioni locali o da
soggetti privati qualificati, anche mediante opere di risanamento di parti comuni degli immobili nonché di
demolizione, ricostruzione e messa in sicurezza statica, al fine di favorire il recupero del patrimonio edilizio
esistente, la vivibilità urbana, la sicurezza e la sostenibilità ambientale della zona in cui il condominio è
ubicato.
Una peculiare modifica è stata apportata dalla legge di riforma alla disposizione codicistica relativa al
regolamento di condominio (art. 1138). È stato infatti inserito un nuovo ulteriore comma all’articolo 1138
del Codice civile e secondo questo comma le norme del regolamento non possono vietare di possedere o
detenere animali domestici. Sarà la giurisprudenza poi a spiegare quali saranno i limiti applicativi di una tale
norma, in quanto sarà soprattutto necessario comprendere quali siano gli animali da considerarsi domestici e
quali quelli a cui può invece può essere impedito l’accesso nel condominio. A riguardo, bisogna fare una
distinzione tra regolamento tipico e regolamento contrattuale. Il regolamento tipico è quello a cui fa
riferimento l’articolo 1138 e si tratta di quello adottato a maggioranza, per quanto riguarda il regolamento
contrattuale, si fa riferimento invece a quel regolamento al quale tutti sono arrivati con unanime consenso.
Quindi se tutti i condomini decidono di privarsi di possedere degli animali, si può derogare alla disposizione
prevista dalla norma, in quanto essa fa riferimento a un regolamento tipico e non contrattuale.
La ripartizione delle spese condominiali tra i compartecipi, come noto, è commisurata alla misura dei diritti e
dei doveri di ciascun condomino sulle cose comuni. La misura si può indicare con la locuzione “quota
condominiale”. Ciascuno ha una quota condominiale che è rapportata ai millesimi di proprietà. L’articolo
1123 del Codice civile prevede in linea generale che le spese necessarie per la conservazione e per il
godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le
innovazioni deliberate dalla maggioranza, sono sostenute dai condòmini in misura proporzionale al valore
della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione. Si ricollega a questo articolo, l’articolo 68 disp. att.
cod. civ. il quale stabilisce che: ove non precisato dal titolo ai sensi dell'art. 1118, per gli effetti indicati dagli
artt. 1123, 1124, 1126 e 1136 c.c., il valore proporzionale di ciascuna unità immobiliare è espresso in
millesimi in apposita tabella allegata al regolamento di condominio. Si tratta della cosiddetta tabella
millesimale, o tabella dei millesimi. Nonostante sia obbligatorio adottare un regolamento condominiale
tipico quando vi siano più di dieci condòmini ed è necessario allegarvi la tabella millesimale, si ritiene
comunemente che si possa prescindere dall’effettiva sussistenza di una tabella. Anche in mancanza di
tabella, l’assemblea può infatti costituirsi e deliberare. Ciò deriva dalla natura che è stata data alle tabelle. La
natura della tabella è una natura meramente dichiarativa, non costitutiva. Cioè la tabella non costituisce il
vero rapporto tra i valori, ma dichiara quello che i condòmini hanno inteso dichiarare come rapporto di valori
tra le varie unità immobiliari in relazione all’intero edificio, in relazione alle quote di partecipazione dei
condòmini. I valori delle porzioni di proprietà che fanno capo a ciascuno di essi preesistono a uno schema
tabellare che ne prenda atto ed è sulla base di ciò che si dice che la tabella ha valore dichiarativo e non
costitutivo. L’approvazione della tabella è stata ammessa a maggioranza, salvo nel caso di tabelle di natura
contrattuale (cioè tabelle che siano state decise all’unanimità da tutti e siano quindi dei contratti. Il contratto
non si può modificare, è vincolante per tutti e non può essere modificato sulla base di una maggioranza).
Secondo i giudici della Corte di cassazione, l’approvazione delle tabelle contrattuali non può infatti
prescindere dall’unanimità dei consensi. Questo orientamento giurisprudenziale è stato in qualche modo
accolto dalla riforma del condominio, che ha evitato proprio le situazioni di ostacolo. A tal proposito, l’art.
69 disp. att. cod. civ dispone che: i valori proporzionali delle singole unità immobiliari espressi nella tabella
millesimale possono essere rettificati o modificati all'unanimità. Tali valori possono essere rettificati o
modificati, anche nell'interesse di un solo condomino, con la maggioranza prevista dall'art. 1136, 2° co. (con
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la maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio), quando risulta che
sono conseguenza di un errore. Anche nel caso in cui è alterato per più di un quinto il valore proporzionale
dell'unità immobiliare.
Videolezione 10 – La riforma del condominio negli edifici (parte 9).
Le norme sulla sanzionabilità dei comportamenti, in violazione delle norme deputate a regolare la vita
condominiale, esistevano prima della riforma del condominio e sono particolarmente antiche, ma anche se
sono antiche la loro effettività e concreta applicabilità è venuta via via a mancare col passare del tempo in
considerazione della svalutazione della nostra moneta. La legge dedica alla sanzione per violazione del
regolamento di condominio l’articolo 70 disp. att. cod. civ, il quale adesso in virtù della riforma dispone che:
“per le infrazioni al regolamento di condominio può essere stabilito, a titolo di sanzione, il pagamento di una
somma fino a euro duecento e, in caso di recidiva, fino a euro ottocento. La somma deve essere devoluta al
fondo di cui l'amministratore dispone per le spese ordinarie”. Si tratta di una norma che è il frutto di un
intervento di aggiornamento. Infatti, fino all’entrata in vigore della riforma del condominio, la misura della
sanzione prevista dal previgente articolo 70 era stabilita in 100 lire. Le 100 lire, in virtù dell’entrata in vigore
dell’euro, furono trasformate in euro 0,052. Prima della riforma, si potevano dunque stabilire sanzioni di
euro 0,052 ed era come dire sostanzialmente che chiunque potesse violare il regolamento di condominio. La
sanzione era talmente irrisoria che comportava che nessuno prevedesse nei regolamenti di condominio
l’applicabilità di tale sanzione, in quanto questo era considerato perfettamente inutile. L’irrisorietà della
somma prevista dalla legge ha indotto il legislatore nel 2012 a operare in senso opposto. La sanzione
attualmente prevista è tutt’altro che irrisoria, soprattutto nel caso di recidiva. Nonostante questo, non
conviene prevedere una sanzione di questo tipo nel regolamento di condominio, o comunque non conviene
applicarla, perché c’è sopra la “scure” della possibile censura di incostituzionalità di questa norma. La corte
di cassazione ha stabilito chiaramente che questa sanzione ha la natura di cosiddetta “pena privata”. Si tratta
cioè di una pena privata a carico del condomino. La parola “pena” è da considerare assolutamente estranea al
diritto privato, al diritto che è quello del condominio. Le norme sul condominio sono norme di
regolamentazione di vita tra privati, non certo di regolamento di rapporti tali che possano far scaturire delle
pene. La materia del condominio rientra nel diritto privato, mentre la materia delle pene, e questo è di facile
comprensione, è competenza del diritto penale. Il diritto privato è un diritto di uguaglianza tra i soggetti,
uguaglianza che, in caso di problemi di inadempimento o di infrazione, si deve risolvere ristabilendo
l’uguaglianza. Le sanzioni come queste si considerano strane perché in genere le sanzioni di diritto privato,
sono sanzioni di carattere risarcitorio, o al limite invalidatorio. L’articolo 70 configura dunque una norma di
carattere eccezionale di natura pseudo-penalistica e, come avviene con riguardo a tutte le norme eccezionali
e avviene anche per le norme penali, non è possibile l’estensione in via analogica della norma. Quindi,
facendo una prima notazione, non sarebbe mai possibile superare il limite massimo di importo previsto dalla
legge. L’impossibilità di estendere in via analogica gli specifici presupposti di applicazione indicati dalla
norma, esclude anche che si possa prescindere da un necessario collegamento con un regolamento di
condominio. Questa eccezionale pena privata non può inoltre, sempre per le stesse ragioni per cui deve
essere di strettissima interpretazione, essere destinata a soggetti che non sono condòmini. Si parla infatti di
un regolamento che si può applicare solo ai condòmini e deve essere per questo di strettissima
interpretazione, non è cioè per esempio applicabile al conduttore. In conseguenza del peso economico che la
riforma del condominio ha inteso dare a questa sanzione, se ne deve tra l’altro denunciare qualcosa di più
grave. Infatti, certamente, ove si può considerare applicabile, la normativa deve essere interpretata in senso
stretto, ma questa sanzione va contro determinate norme forti, ovvero norme di livello costituzionale. Se ne
deve infatti denunciare addirittura l’incostituzionalità, è una norma che rischia di essere tagliata via e
annullata dalla nostra Corte costituzionale. Esiste infatti un principio di legalità delle pene, previsto dalla
nostra Carta fondamentale, ed è un principio secondo cui ogni pena deve essere stabilita per legge. Il
soggetto deve sapere prima qual è il comportamento previsto dalla legge che lo espone a una sanzione
penale. La legge deve specificamente dettare la pena, ma deve dettare anche tassativamente il
comportamento e l’infrazione che portano all’applicazione della pena. In questo caso, la legge detta
semplicemente la sanzione e non vengono specificati dalla legge le infrazioni specifiche che portano alla

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sanzione. Ciò è incostituzionale. Viene lasciata ai privati la possibilità di decidere quali siano i
comportamenti da sanzionare. Non può essere considerata legittima una norma che lasci al potere privato la
facoltà di irrogare pene pecuniarie per ogni tipo di infrazione di un regolamento condominiale. Quanto detto
vale a maggior ragione se si considera la previsione secondo cui le somme sono destinate ad accrescere le
risorse finanziarie private: la somma deve essere devoluta al fondo di cui l’amministratore dispone per le
spese ordinarie. Contrariamente a quanto avviene per la sanzione criticata, nel diritto penale invece il
pagamento previsto a titolo di pena, non giova alle tasche dei privati, ma va a vantaggio della collettività
statale.
Con riguardo alle sanzioni, possiamo fare un ulteriore passaggio perché nel regolamento si potrebbe
prevedere di inserire una clausola penale e quindi, se tutti redigono e approvano un regolamento contrattuale,
si può inserire la clausola penale prevista dagli articoli 1382 e seguenti del Codice civile. La clausola penale
è quella con la quale si conviene che, in caso di una particolare infrazione, o di un ritardo in un adempimento
necessario previsto sempre dal regolamento di condominio, uno dei contraenti (uno dei condòmini) è tenuto
a una determinata prestazione (il pagamento di una somma di denaro). La clausola penale ha l’effetto, per
legge, di limitare il risarcimento (non di pena – siamo nella logica del diritto privato) alla prestazione
promessa, se non è stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore. La penale è dovuta indipendentemente
dalla prova del danno. Se la penale è manifestamente eccessiva, può essere chiesta al giudice la riduzione e il
giudice d’ufficio può ridurre una penale manifestamente eccessiva.
Il problema si lega anche alla possibile applicabilità, in alcuni casi, del Codice del consumo. Questo perché
alcuni regolamenti condominiali contrattuali sono predisposti dall’originario proprietario (il soggetto che ha
costruito tutto l’immobile ha predisposto un regolamento di condominio che tutti dovranno accettare all’atto
di acquisto). L’applicabilità del Codice del consumo porta anche all’applicabilità, con riguardo alla tematica
di cui trattiamo, dell’articolo 33 del Codice del consumo, che parla delle clausole vessatorie: “nel contratto
concluso tra questi soggetti (l’utente privato e il professionista) si considerano vessatorie le clausole che,
malgrado la buona fede, determinano a carico dell’utente privato un significativo squilibrio di diritti e
obblighi. Si presumono vessatorie, fino a prova contraria, quelle che hanno per oggetto, o per effetto, di
imporre al consumatore (l’utente privato), in caso di inadempimento o di ritardo di adempimento, il
pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente
d’importo manifestamente eccessivo.” Nel caso in cui tutte le clausole, o talune, siano proposte all’utente
privato per iscritto, tali clausole devono essere sempre redatte in modo chiaro e comprensibile. In caso di
dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole all’utente privato. Le clausole
considerate vessatorie sono da considerarsi nulle, non hanno cioè effetto.
Videolezione 11 – La riforma del condominio negli edifici (parte 10).
La mediazione civile e commerciale è un istituto che è stato introdotto sulla base di un iter particolare. L’iter
ha visto innanzitutto una direttiva europea del 2008, con cui gli stati membri dell’Europa sono stati obbligati
a prevedere una legislazione uniforme in materia di mediazione civile e commerciale, cioè in materia di
inserimento nell’ordinamento giuridico di un nuovo metodo di composizione amichevole delle controversie,
di risoluzione alternativa alle controversie. Alla direttiva del 2008 è seguita la riforma della procedura civile
con legge 2009, il cui articolo 60 ha dato delega al governo di emanare un decreto legislativo in materia di
mediazione civile e commerciale specificando alcuni criteri. Nel 2010 il nostro ordinamento si è adeguato a
questa delega con una legge, che però non ha previsto i necessari punti di coordinamento. La mediazione
come metodo alternativo di risoluzione delle controversie è un metodo che nasce e che si sviluppa negli Stati
Uniti e trova successivamente terreno fertile nell’Europa del nord. Questo istituto è un istituto, che per
dirimere determinate controversie, si avvale di un soggetto abile nella negoziazione, nella capacità di
mediare, nel comprendere gli interessi delle parti e nel far trovare un accordo tra i soggetti, per raggiungere
un accordo definitivo che eviti di andare in giudizio. Negli Stati Uniti questo istituto ha avuto ottimi risultati,
ma in Italia vi sono state delle problematiche. Le incongruenze si sono manifestate in maniera peculiare in
materia di condominio.

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Il decreto legislativo 4 marzo 2010 n.28 ha definito che cos’è la mediazione, che è: “l’attività svolta da un
terzo imparziale e finalizzata ad assistere due, o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole, per la
composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”.
Questa definizione di mediazione usa già un termine, che nel nostro ordinamento non si usa mai:
amichevole. Il termine amici e amichevole nel nostro ordinamento normalmente non esiste. Nel nostro
ordinamento, usare una terminologia di questo tipo è addirittura considerato un controsenso, una
contraddizione in termini, perché se si è in controversia, come si potrebbe giungere a un accordo
amichevole? Abbiamo infatti una cultura diversa da quella degli Stati Uniti e purtroppo si è voluto
trapiantare, con una tecnica legislativa che possiamo considerare scadente, un istituto nato e sviluppatosi in
una cultura giuridica assolutamente estranea a quella nostra. Ad ogni modo, il decreto legislativo 4 marzo
2010 detta questa definizione e dice poi che il mediatore è “la persona, o le persone fisiche, che
individualmente o collegialmente svolgono la mediazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di
rendere giudizio decisioni vincolati per i destinatari del servizio medesimo. La conciliazione è l’esito
positivo finale ed è la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione.
Questa mediazione si svolge presso degli organismi, che sono degli enti pubblici, o privati”. Il problema
riguarda in modo particolare com’è stata gestita questa mediazione e com’è stata creata la figura del
cosiddetto mediatore professionista, il quale è abilitato all’esercizio della professione sulla base di un mero
corso di 50 ore. Una tale disposizione ha lasciato senza dubbio a desiderare e non ha portato a grande fiducia
in questo istituto.
Con riguardo alla formulazione di una proposta con il fine di risolvere la controversia, si distinguono a tal
proposito due tipi di mediazione. Un tipo di mediazione è quella cosiddetta “facilitativa”, cioè quella volta
alla ricerca di un accordo bonario e amichevole tra i soggetti, l’altro tipo di mediazione è invece cosiddetta
“valutativa”, che è quella che si ha all’esito di un’eventuale accettazione della proposta formulata
formalmente dal mediatore. Questa proposta ha un’unica possibilità di avere un esito e una rilevanza
giuridica. Infatti, se in caso di fallimento della mediazione, il giudice ritiene di uniformarsi alla proposta del
mediatore, allora si hanno delle conseguenze. In questo caso, dato che tutto si sarebbe potuto risolvere
accettando la proposta del mediatore, che è dello stesso contenuto di quella del giudice, il giudice non
impone il pagamento delle spese sostenute dalla parte vincitrice alla parte soccombente, ma addirittura
condanna la parte vincitrice a pagare all’altra parte, soccombente, le spese legali. Le spese legali sono
dunque pagate dalla parte vincitrice, che aveva rifiutato la proposta.
Rispetto a un giudizio, la mediazione ha determinati vantaggi, primo tra tutti un obbligo di riservatezza, che
porta addirittura all’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel corso del
procedimento di formazione e all’impossibilità del mediatore di testimoniare su queste dichiarazioni rese
nell’ambito di un eventuale giudizio successivo. Il mediatore non può essere tenuto a deporre sul contenuto
delle dichiarazioni e sulle informazioni acquisite nel procedimento di mediazione. Né davanti all’autorità
giudiziaria, né davanti ad altra autorità. Ci sono delle garanzie fortissime, che addirittura non ci sono nel caso
di trattazione tra privati con i reciproci avvocati.
La mediazione civile e commerciale ha come scopo quello di mirare a una soddisfazione di entrambi i
soggetti, che in giudizio non si potrebbe mai ottenere. Questa mediazione è stata prevista per diritti di cui le
parti possono disporre, perché se così non fosse non potrebbero andare a concludere un valido contratto, o un
valido accordo conclusivo. La legge in merito dice: “La domanda di mediazione deve essere presentata
mediante deposito di un’istanza, presso un organismo di mediazione, nel luogo del giudice territorialmente
competente per la controversia.” L’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010 dice una cosa con riguardo
al condominio: “Chi deve esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di
condominio è tenuto preliminarmente, assistito dall’avvocato, a esperire (attuare) il procedimento di
mediazione. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale”. Per la mediazione, il procedimento si deve chiudere con un accordo, ma la logica del
condominio non è una logica che finisce con l’accordo. Secondo quello che si è avuto con l’introduzione di
questa condizione di procedibilità del condominio, una lite tra un condomino e tutti gli altri condòmini (una
lite con il condominio), era una lite che doveva portare necessariamente il condomino a chiamare in
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mediazione tutti gli altri condòmini. Ma questo era sicuramente un problema, in quanto nessun organismo
sarebbe mai stato in grado di accogliere in una stanza un gran numero di condòmini; si basti pensare, per
esempio, ai super condomini. Si pensi inoltre all’ipotesi per la quale, a seguito di una lite tra un condomino e
il condominio, i condòmini singolarmente dovessero pagare le spese di mediazione. Sarebbe sicuramente una
condizione inammissibile. Tra l’altro tali disposizioni contravvengono anche alla logica del condominio, per
la quale le decisioni non si prendono con un accordo, ma sulla base di maggioranze e questo, proprio per
impedire che il dissenso di qualcuno possa essere di ostacolo. Oltretutto, in mancanza di una specifica
legittimazione assegnata dalla legge, il condomino interessato all'azione in giudizio non avrebbe potuto
convocare l'amministratore in sedie di mediazione, in quanto l’amministratore non aveva la legittimazione.
Seguendo le disposizioni critiche del Prof., la riforma del condominio è intervenuta e ha inserito nelle
disposizioni attuative del Codice civile una norma, che finalmente permette al condominio di agire in
mediazione: art. 71-quater disp. att. cod. civ. In particolare, l’articolo specifica:
- Per controversie in materia di condominio si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall'errata
applicazione delle disposizioni del Codice civile sul condominio;
- La domanda di mediazione deve essere presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di
mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato;
- È legittimato a partecipare al procedimento l'amministratore, previa delibera assembleare;
- La proposta di mediazione deve essere approvata dall’assemblea con un numero di voti che
rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.
Argomento 10
Videolezione 1 – Possesso e detenzione.
La definizione dettata dal Codice civile riguardo al possesso è la seguente: “Il possesso è il potere di fatto su
una cosa, che si manifesta attraverso un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto
reale”. Quindi, si tratta di un potere di fatto, è un comportamento, è un modo di rapportarsi con una cosa. Un
modo di comportarsi come se se ne fosse il proprietario, oppure proprio in qualità di proprietario o da titolare
di altro diritto reale. Sia chi si comporta da proprietario non essendo proprietario, sia chi si comporta da
proprietario essendo proprietario e sia chi si comporta da titolare di altro diritto reale, è un possessore. Il
possesso non è una situazione di diritto, ma è una situazione di fatto. Dal comportamento con la cosa, si
hanno determinati effetti e questo comportamento viene qualificato come “possesso”. Si tratta di una
situazione di fatto, che prescinde dalla sussistenza di un diritto: può sussistere un diritto che legittima
l’esercizio del potere possessorio, ad esempio, il proprietario può esercitare il potere sulla propria cosa, ma
un tale diritto può anche mancare, ad esempio, il ladro è comunque un possessore, in ragione del potere che
esercita sul bene. Spesso si trova che il possesso abbia due elementi, ovvero, un elemento materiale, che è il
rapporto del possessore con la cosa, e un elemento soggettivo, che riguarda la sfera della consapevolezza
interiore e il modo di rapportarsi sul bene (si dice che si ha “l’animus possidendi”). La parte soggettiva si
rivela sostanzialmente nel comportamento che hanno i soggetti e cioè, se il soggetto ha un comportamento da
proprietario, quel soggetto è possessore e quindi ha questo “animus”. L’animus si deve manifestare mediante
dei comportamenti. Quindi, anche se si trova spesso che il possesso abbia due elementi, uno materiale e uno
soggettivo, in realtà è il comportamento di fatto che si ha sulla cosa, che qualifica questo possesso in tutto e
per tutto. Se il titolare del diritto reale tollera l’esercizio del potere di fatto altrui, questo non può qualificarsi
come possesso. Infatti, è come se con la tolleranza, il proprietario escluda che il soggetto si comporti in
maniera totalmente proprietaria. Il soggetto gode del bene e utilizza il bene, ma se è il proprietario che glielo
fa utilizzare tollerando quello che fa, questa situazione non si può qualificare come possesso e non ne
possono scaturire i relativi effetti. Ovviamente, la tolleranza deve risultare in maniera oggettiva e deve essere
qualcosa di socialmente accettabile.
Come si trasmettono gli effetti del possesso? Se un soggetto succede a un altro, per esempio come erede o
legatario, oppure quale acquirente in via negoziale, questo soggetto può far valere a suo favore anche gli
effetti del possesso esercitato dal soggetto a cui è succeduto.
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Il possesso si presume in cosiddetta “buona fede”, ma potrebbe anche essere in “mala fede”. La buona fede è
una situazione soggettiva e consiste nell’ignoranza del soggetto di ledere un diritto altrui. Per esempio, il
soggetto che è in buona fede pensa di aver acquistato un bene dal legittimo proprietario, ma magari lo ha
acquistato da chi non era proprietario. Il soggetto in questo caso ignora di ledere un diritto di un altro
soggetto ed è per questo motivo in buona fede. Tuttavia, se vi sono degli elementi importanti che fanno
comprendere che si sta ledendo un diritto altrui, quella non è considerata buona fede, ma mala fede.
Il potere di fatto possessorio può essere esercitato in via diretta dal possessore, oppure in via indiretta,
quando ad esempio il bene è nella disponibilità di un altro soggetto, che lo utilizza in modo da rispettare il
possessore. Ad esempio, io possiedo un bene e lo do in locazione ad un altro; il soggetto che lo ha in
locazione lo utilizza in maniera tale da rispettarmi. In questo caso il soggetto che utilizza il bene non è il
possessore, ma il detentore: il soggetto che esercita un potere sulla cosa rispettando la posizione possessoria
altrui è detto detentore. La detenzione è quindi il potere di fatto sulla cosa, che si esercita riconoscendo e
rispettando il possesso altrui, o il diritto reale altrui. La detenzione può essere qualificata dalla sussistenza di
un titolo che legittima il potere di fatto. Ad esempio, nel caso di un contratto di locazione, il conduttore è un
detentore qualificato, ovvero, ha un titolo che è alla base della detenzione. Nel caso in cui un soggetto
eserciti il potere di fatto su una cosa riconoscendo e rispettando il diritto altrui sul bene, ma non ha un titolo
per l’esercizio di questo potere di fatto, è un detentore non qualificato.
Quando si esercita un potere di fatto su una cosa, questo potere si presume possessorio (una sorta di favore),
a meno che non si dimostra che il soggetto ha instaurato il rapporto con la cosa a titolo di detenzione. Può
capitare comunque che il detentore muti il suo potere di fatto e questo potere di fatto diventi un potere di tipo
possessorio. Questo avviene se ottiene a suo favore il trasferimento del diritto reale sul bene, oppure se si
oppone all’esercizio del potere di fatto del possessore.
Il possesso ha un effetto importante perché garantisce la cosiddetta opponibilità nella circolazione dei beni
mobili. Quando si tratta di beni immobili, l’opponibilità è garantita dalle norme sulla trascrizione nei registri
immobiliari, ma quando si tratta di beni mobili, l’opponibilità è data a chi è possessore. Per esempio: se
taluno con successivi contratti aliena (per es. vende) a più persone un bene mobile, quella tra esse che ne ha
acquistato in buona fede il possesso è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore.
Videolezione 1.1 – Gli effetti del possesso.
La regola che permette l’acquisto tramite il possesso di buona fede vale solo per i beni mobili ed è una regola
enunciata dall’articolo 1153, che cita: “Colui al quale sono alienati (per es. venduti) beni mobili da parte di
chi non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento
della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà (per es. una compravendita). La
proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa (la proprietà si acquista a titolo originario), se questi non
risultano dal titolo e vi è la buona fede dell’acquirente (l’acquirente li ignora).” Nello stesso modo si acquista
non solo il diritto di proprietà, ma anche il diritto di usufrutto, di uso, o di pegno. Chi ha acquistato
conoscendo l’illegittima provenienza della cosa non può addurre di aver creduto erroneamente che il suo
autore, o un precedente possessore, ne sia divenuto proprietario. Conoscere l’illegittima provenienza di una
cosa esclude ogni possibilità di acquisto della proprietà.
L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, che si ottiene con il possesso della
cosa per un determinato periodo di tempo, un possesso che deve essere continuato e non interrotto. Ci sono
vari tipi di usucapione. Ordinariamente, l’usucapione pretende un periodo di possesso di 20 anni: “La
proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del
possesso continuato per vent’anni”. Con riguardo agli immobili, è prevista la possibilità di un’usucapione
decennale e dunque abbreviata. Per quanto riguarda l’usucapione abbreviata per gli immobili, infatti:
“L’acquisto deve avvenire in buona fede da chi non è proprietario di un immobile, in forza di un titolo che
sia idoneo a trasferire la proprietà (per es. compravendita) e che sia stato debitamente trascritto nei registri
immobiliari, ne compie l’usucapione in suo favore col decorso di dieci anni dalla data della trascrizione”. La
stessa disposizione si applica nel caso di acquisto degli altri diritti reali di godimento sopra un immobile.
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Per quanto riguarda i beni mobili, una regola simile (ventennale) è prevista nel caso di usucapione di
malafede, ovvero: Il soggetto possessore di un bene mobile, che sa di ledere l’altrui diritto, ne diventa
proprietario solo con il decorso di venti anni. Per quanto riguarda i beni mobili però, la proprietà e gli altri
diritti reali di godimento sui beni medesimi, si acquistano con il possesso continuato per 10 anni, se il
possesso è acquistato in buona fede. Con riguardo alle universalità di mobili, l’usucapione di un’universalità
di mobili (ad esempio, una biblioteca) o di diritti reali di godimento sopra la medesima si compie col
possesso continuato per venti anni; nel caso di acquisto in buona fede da chi non è proprietario, in forza di
titolo idoneo, l’usucapione si compie con il decorso di dieci anni.
Il possesso si rileva nella misura in cui sia continuato ed esteriorizzato in modo non violento e clandestino.
L’usucapione deve essere continua e l’usucapione si dice “interrotta” quando il possessore è stato privato del
possesso per oltre un anno. L’interruzione si ha come non avvenuta se è stata proposta l’azione diretta a
recuperare il possesso e questo è stato recuperato. Il possesso acquistato in modo violento o clandestino non
giova per l’usucapione se non dal momento in cui la violenza o la clandestinità è cessata.
Tra gli effetti del possesso, c’è anche la possibilità di agire per la tutela di questo possesso. La prima azione a
tutela del possesso è l’azione di reintegrazione o spoglio, che può essere esperita dal soggetto che è stato
violentemente, o occultamente, spogliato del possesso sul bene che possedeva. Infatti, chi è stato
violentemente o occultamente spogliato del possesso può, entro l’anno dal sofferto spoglio (o dalla sua
scoperta), chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo. L’azione è concessa
altresì a chi ha la detenzione (ma non per ragioni di servizio o di ospitalità). La reintegrazione si può
domandare anche contro chi è nel possesso in virtù di un acquisto a titolo particolare, fatto con la conoscenza
dell’avvenuto spoglio.
È prevista anche l’azione di manutenzione, che è volta a porre rimedio alle turbative. In particolare, chi è
stato molestato nel possesso (che duri da oltre un anno, continuo e non interrotto, e non acquistato
violentemente o clandestinamente) di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di un’universalità
di mobili può, entro l’anno, chiedere la manutenzione del possesso. Qualora il possesso sia stato acquistato in
modo violento o clandestino, l’azione può esercitarsi decorso un anno dal giorno in cui la violenza o la
clandestinità è cessata. Anche colui che ha subito uno spoglio non violento o clandestino può chiedere di
essere rimesso nel possesso, se ricorrono le condizioni indicate per l’azione di manutenzione.
Altre due azioni a tutela del possesso sono la denunzia di nuova opera e la denunzia di danno temuto, che
valgono sia a favore del proprietario, che a favore del possessore. Con riguardo alla denunzia di nuova opera:
“Il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore, il quale ha ragione di temere che
da una nuova opera, da altri intrapresa sul proprio come sull’altrui fondo, sia per derivare danno alla cosa che
forma l’oggetto del suo diritto o del suo possesso, può denunziare all’autorità giudiziaria la nuova opera,
purché questa non sia terminata e non sia trascorso un anno dal suo inizio. L’autorità giudiziaria, presa
sommaria cognizione del fatto, può vietare la continuazione dell’opera, ovvero permetterla, ordinando le
opportune cautele. Nel primo caso per il risarcimento del danno prodotto dalla sospensione dell’opera,
qualora le opposizioni al suo proseguimento risultino infondate nella decisione del merito. Nel secondo caso,
per la demolizione o riduzione dell’opera e per il risarcimento del danno, che possa soffrirne il denunziante,
se questi ottiene sentenza favorevole, nonostante la permessa continuazione.”
Con riguardo alla denunzia di danno temuto: “Il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il
possessore, il quale ha ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti pericolo di un
danno grave e prossimo alla cosa che forma l’oggetto del suo diritto o del suo possesso, può denunziare il
fatto all’autorità giudiziaria e ottenere, secondo le circostanze, che si provveda per ovviare al pericolo.
L’autorità giudiziaria, qualora ne sia il caso, dispone idonea garanzia per i danni eventuali.”
Videolezione 2 – L’usucapione.
L’usucapione è il modo di acquisto della proprietà e di altri diritti reali di godimento che si realizza mediante
il possesso continuato del bene per il tempo stabilito dalla legge (art. 1158 cc). Questo modo di acquisto

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risponde all’esigenza, anticamente e universalmente avvertita, di attribuire definitività e certezza giuridica
alla pacifica utilizzazione del bene protrattasi nel tempo. L’usucapione è un modo di acquisto a titolo
originario: l’acquirente acquista un nuovo diritto libero da vincoli e garanzie. L’usucapione, così come gli
altri modi di acquisto a titolo originario, determina contestualmente l’acquisto della proprietà in capo a un
nuovo soggetto e l’estinzione del diritto in capo al precedente titolare. Questo è chiaro ed evidente proprio
perché si tratta della nascita di un nuovo diritto.
Gli elementi costitutivi dell’usucapione sono:
a) il possesso;
b) il decorso del tempo
a) Quanto all’elemento costitutivo del possesso, deve dirsi che la disciplina dell’usucapione viene inserita
nell’ambito degli studi sugli effetti del possesso. L’importanza del possesso si spiega in ragione del
fondamento dell’usucapione, quale modo di acquisto del diritto che favorisce chi utilizza il bene nel tempo a
fronte del proprietario che lo trascura. Ai fini dell’usucapione il possesso deve essere palese e pacifico. Il
codice stabilisce infatti che “il possesso acquistato in modo violento o clandestino non giova per
l’usucapione se non dal momento in cui la violenza o la clandestinità è cessata” (art. 1163 cc). Entrambi sono
vizi del possesso che destano una sensazione di riprovevolezza sociale e impediscono l’acquisto per
usucapione. Non si può parlare di usucapione in caso di attività compiute con la tolleranza del proprietario. Il
possesso deve inoltre essere continuo. La continuità designa in termini positivi il costante esercizio del
possesso. La continuità non sussiste se il possesso viene esercitato in modo occasionale e saltuario. Il
requisito della continuità non esige una prova specifica, essendo compreso nella presunzione legale di
possesso intermedio. Il possesso inoltre deve essere non interrotto, ovvero che non abbia subito interruzioni
per fatto del terzo, o per eventi naturali per la durata di un anno. L’interruzione può essere naturale o civile.
L’interruzione naturale ha luogo quando il possessore venga posto nella impossibilità di esercitare il
possesso, sia cioè privato del possesso (art. 1167, 1° co, cc). Ciò può avvenire per atto illecito o per spoglio.
In quest’ultimo caso, tuttavia, lo spoglio non interrompe il possesso se il possessore propone entro l’anno
l’azione e ottiene la restituzione. L’interruzione civile ha luogo a seguito di un atto avente efficacia giuridica
interruttiva del decorso dell’usucapione. Il codice richiama le norme sull’interruzione della prescrizione, in
quanto applicabili (art. 1165 cc);
b) Per decorso del tempo, si intende la continuazione del possesso per il tempo stabilito dalla legge. Il tempo
per usucapire la proprietà degli immobili e degli altri diritti reali immobiliari è di venti anni (art. 1158 cc). Il
medesimo tempo occorre per usucapire le universalità di mobili (art. 1160 cc). Sempre venti anni occorrono
per le cose mobili, se il possessore è in mala fede. Altrimenti occorrono dieci anni (art. 1161 cc). Il tempo
utile per l’usucapione decorre dal primo giorno successivo all’inizio del possesso e matura col compimento
dell’ultimo giorno. Con riguardo ai beni mobili inscritti in pubblico registro (per es. i natanti o gli
autoveicoli), vi sono due ipotesi: 1) se il soggetto acquista il bene in buona fede da chi non era proprietario,
in forza di un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà e con trascrizione, l’usucapione si compie
nel periodo di 3 anni; 2) se manca uno dei requisiti del punto 1, allora in questo caso il termine è di dieci
anni.
Per oggetto dell’usucapione s’intendono comunemente i beni suscettibili di essere usucapiti. Ma usucapire
significa acquistare la proprietà. Occorre allora puntualizzare che oggetto di usucapione sono i diritti e
precisamente i diritti di proprietà e comproprietà e gli altri diritti reali di godimento. Usucapibili in
particolare sono l’enfiteusi, l’usufrutto, la superficie e l’uso. Usucapibili sono anche la servitù, fatta
eccezione per quelle non apparenti (servitù dove non è possibile identificare un’opera visibile) e coattive
(servitù legali, che si costituiscono per legge). Usucapibili sono i titoli di credito (i titoli di credito vengono
incorporati in un documento, che in ragione della sua materialità è suscettibile di possesso), le universalità di
mobili. Non sono invece usucapibili le universalità di diritto, per es. l’eredità.

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L’acquisto per usucapione è a titolo originario. L’acquisto non è infatti subordinato alla posizione del
precedente titolare, ma al ricorso dei presupposti di legge (possesso e tempo). L’acquisto è automatico e
avviene per legge ma è interesse dell’acquirente far risultare il suo acquisto in via giudiziale. Il contenuto
dell’acquisto per usucapione si determina in ragione del contenuto del possesso. Il possesso pieno conduce
pertanto ad acquistare la proprietà mentre il possesso minore è utile al fine dell’acquisto degli altri diritti reali
di godimento. Si discute se l’acquisto per usucapione determini l’effetto liberatorio dell’estinzione dei diritti
limitati sul bene. A tal fine si ritiene necessario che il possesso sia pieno e tale da escludere la coesistenza di
vincoli limitativi. Controversa è poi la questione se l’acquisto sia retroattivo. In mancanza di una norma che
preveda tale effetto, si applica la regola generale e deve quindi ritenersi che l’acquisto sia irretroattivo;
l’acquisto non retroagisce al tempo precedente al possesso, vale la regola della irretroattività.
L’usucapione abbreviata designa speciali figure di usucapione che richiedono tempi inferiori rispetto a quelli
dell’usucapione ordinaria e ulteriori particolari requisiti. Si tratta comunque di figure che rientrano in quella
generale dell’usucapione. L’usucapione abbreviata è prevista in due ipotesi: a) nell’ipotesi di acquisto in
buona fede di un bene immobile dal non proprietario. In questo caso i presupposti sono: la non
legittimazione dell’alienante; la buona fede; il titolo astrattamente idoneo; la trascrizione del titolo; un
possesso continuato per dieci anni. b) nell’ipotesi di usucapione della piccola proprietà rurale. Tale
usucapione abbreviata è stata introdotta al fine di favorire la proprietà contadina, quindi con un fine
spiccatamente sociale. A tal proposito, la legge stabilisce: “La proprietà dei fondi rustici con annessi
fabbricati situati in comuni classificati montani dalla legge si acquista in virtu' del possesso continuato per
quindici anni. Colui che acquista in buona fede da chi non è proprietario, in forza di un titolo che sia idoneo a
trasferire la proprietà e che sia debitamente trascritto, un fondo rustico con annessi fabbricati, situati in
comuni classificati montani dalla legge, ne compie l'usucapione in suo favore col decorso di cinque anni
dalla data di trascrizione.”
Videolezione 3 – Azioni a tutela del possesso.
Il possesso come situazione di fatto tutelata dal diritto prevede una serie di azioni, che sono le azioni
possessorie. Le azioni possessorie possono definirsi come i rimedi processuali specifici a tutela del possesso.
Queste azioni sono regolate sia dal Codice civile che dal Codice di procedura civile. Esse presentano quindi
un aspetto processuale concernente il giudizio e un aspetto sostanziale, concernente la posizione del
possessore nella vita di relazione. Le azioni possessorie appartengono al diritto sostanziale in quanto
determinano il contenuto della posizione giuridica del possessore, apprestando a suo favore la tutela contro
date ingerenze. In corrispondenza alle azioni possessorie è possibile identificare, precisamente, il diritto del
possessore a non subire spoglio e molestie nel possesso. Le azioni a tutela del possesso, che vanno distinte da
quelle a tutela della proprietà, sono: l’azione di reintegrazione e azione di manutenzione. Azioni a difesa del
possesso sono anche la denunzia di nuova opera e la denunzia di danno temuto. Queste ultime sono tuttavia
al tempo stesso azioni a tutela della proprietà e azioni a tutela del possesso. Hanno quindi una duplice natura.
L’azione di reintegrazione o di spoglio è l’azione volta a reintegrare nel possesso del bene chi sia stato
vittima di spoglio violento o clandestino (art. 1168, 1° co, cc). Il possesso o la detenzione qualificata del
bene costituiscono i presupposti dell’azione e sono oggetto di prova a carico dell’attore. L’onere probatorio
non è soggetto a particolari restrizioni. È questa la ragione per la quale tale azione è preferita all’azione di
rivendicazione. Lo spoglio è la privazione totale o parziale della cosa o, più in generale, il fatto che
impedisce durevolmente al possessore l’esercizio del possesso. Per es., chiudo con un cancello il fondo
impedendo il transito al titolare della servitù di passaggio. Non rientra nella nozione di spoglio la distruzione
della cosa. Lo spoglio è violento quando è consumato mediante atti di forza o minacce. Lo spoglio
clandestino è invece quello attuato senza atti di violenza o minacce, ma in maniera occulta che non consenta
alla vittima di percepirlo all’istante. Per es., lo spogliatore si impossessa furtivamente dei titoli di credito
custoditi dalla vittima in un mobile di casa. In generale lo spoglio è un atto illecito in quanto volto a ledere
una posizione giuridicamente tutelata nella vita di relazione. Secondo la dottrina elemento dello spoglio
sarebbe il c.d. animus spoliandi, ovvero la volontà di depredare la vittima. Tuttavia, di questo requisito il
codice non fa alcun cenno. L’azione di reintegrazione è volta al ripristino della situazione possessoria
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violata. Oggetto dello spoglio sono i beni posseduti o detenuti dalla vittima, siano essi mobili o immobili,
beni singoli o universalità. Legittimati attivi all’azione di spoglio sono: i possessori diretti o mediati, i
possessori minori (a titolo di usufrutto, servitù, ecc.), i nudi possessori e i compossessori. Legittimati attivi
sono altresì i detentori, ma non i detentori non qualificati (per esempio chi detiene la cosa per ospitalità o
servizio). Legittimati passivi sono gli autori materiali dell’attività spogliatrice. L’azione di reintegrazione
deve essere proposta entro un anno dal compimento dello spoglio, cioè dal momento in cui si è realizzata la
fattispecie dello spossessamento. Se lo spoglio è clandestino, dal momento della scoperta.
L’azione di manutenzione è volta a far cessare la molestia del possesso (art. 1170, 1° co, cc). La molestia o
turbativa consiste nell’attività che ostacola o rende più gravoso il possesso. A differenza dello spoglio, la
molestia non priva, dunque, il possessore del godimento del bene, ma ne priva l’esercizio. La molestia può
consistere in un’attività materiale (p. es., violazione delle distanze legali) o giuridica. In questo caso la
molestia consiste nel compimento di atti giuridici volti ad ostacolare e impedire l’esercizio del possesso
(ingiunzioni. opposizioni, ecc.). Deve naturalmente trattarsi di azioni prive di fondamento. La molestia
inoltre deve essere persistente. La turbativa è un fatto ad integrare il quale non occorre che vi sia l’intenzione
di molestare o turbare. L’oggetto della turbativa sono beni immobili, mobili, o universalità di mobili,
compresa l’azienda. Legittimato è solo il possessore, ma non il detentore. Al detentore è quindi negata la
tutela per atti che diminuiscono il godimento del bene. I requisiti dell’azione sono il possesso annuale
continuo e non interrotto, né violento, né clandestino (art. 1170. 2° co, cc). L’azione di manutenzione è
diretta a far cessare la molestia. L’azione è soggetta al termine annuale di decadenza.
La denunzia di nuova opera e la denunzia di danno temuto rientrano nella categoria delle azioni di
nunciazione, che in generale sono le azioni cautelari volte a prevenire i pericoli derivanti da nuove opere,
costruzioni o altre cose sovrastanti il suolo. La denunzia di nuova opera è il rimedio cautelare specifico
previsto per prevenire il danno che si teme possa derivare dall’esecuzione di un’opera (art. 1171, 1° co, cc).
La denunzia è volta a prevenire il pericolo di danno che il proprietario o il possessore di un fondo hanno
ragione di temere in conseguenza di un’opera iniziata sul proprio fondo o su un fondo altrui. Presupposti
della denunzia sono: a) la nuova opera. Questa consiste nell’esecuzione di un’attività volta a modificare in
modo persistente lo stato dei luoghi. b) Pericolo di danno, che secondo la formula del codice è quello che sia
per derivare alla cosa che forma oggetto del diritto o del possesso. L’azione è diretta a sospendere l’attività
relativa all’opera. Legittimati attivi dell’azione sono il proprietario, il titolare di altro diritto reale di
godimento e il possessore dell’immobile minacciato dal danno, nonché tutti coloro che sono legittimati ad
esperire le azioni possessorie. Legittimati passivi sono l’esecutore dell’opera e il proprietario o possessore
dell’immobile altrui nel quale l’opera è eseguita. L’azione decade se l’opera sia stata completata o se sia
trascorso più di un anno dal suo inizio. Nel caso di denunzia di nuova opera, l’autorità giudiziaria ha due
alternative: può chiedere la demolizione dell’opera, o può sospenderne l’attività (previo naturalmente il
giudizio di risarcimento dei danni in capo al legittimato passivo nei casi in cui le supposizioni del soggetto
attore siano infondate).
La denunzia di danno temuto è il rimedio cautelare specificamente previsto per prevenire un danno che sia
per derivare ad un immobile da un edificio, albero o altra cosa (art. 1172, 1° co, cc). A differenza della
denunzia di nuova opera, essa non presuppone un’attività in corso di cui si chiede la sospensione, ma una
situazione dei luoghi, di cui si chiede la rimozione o la modifica idonea a scongiurare il danno temuto. Il
danno temuto integra un illecito perché presuppone l’inosservanza del dovere del custode di provvedere
diligentemente affinché le cose in custodia non arrechino danni ai terzi. Ma, come si è osservato, la tutela
cautelare prescinde dai presupposti soggettivi di responsabilità. Non prescinde invece dall’antigiuridicità del
fatto. Legittimati attivi sono gli stessi della denunzia di nuova opera. Legittimati passivi sono i proprietari o
possessori del fondo sul quale è situato l’oggetto che è causa del pericolo di danno. L’azione non è soggetta
ad un particolare termine di decadenza o prescrizione, ma presuppone l’attuale esistenza di un danno grave e
prossimo, cioè incombente. Il venir meno del pericolo rende pertanto l’azione improponibile.
Videolezione 4 – Il possesso di buona fede che vale titolo.

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L’acquirente di cosa mobile alienata dal non legittimato ne diventa proprietario mediante la regola del
possesso di buona fede (art. 1153 cc). Questa regola, comunemente conosciuta come regola del “possesso
vale titolo”, non contraddice il sistema causale che condiziona l’efficacia traslativa del contratto alla
legittimazione dell’alienante, ma introduce un modo di acquisto a titolo originario che risponde all’esigenza
di certezza e celerità della circolazione delle merci e dei beni mobili in generale. Nella valutazione della
legge questa esigenza prevale su quella della tutela della proprietà. La regola del possesso di buona fede che
vale titolo, che rappresenta una fattispecie acquisitiva, prevede l’esistenza di una serie di elementi tutti
necessari affinché si realizzi l’acquisto in capo al soggetto possessore. In particolare, i presupposti della
regola sono:
a) la non legittimazione dell’alienante. Secondo la formula del codice l’acquisto opera in favore di colui al
quale sono alienati beni mobili da parte di chi non è proprietario (a non domino);
b) il possesso. La regola possesso vale titolo è dettata nell’ambito degli effetti del possesso. Il possesso non è
sufficiente ma è l’elemento centrale della fattispecie legale, in quanto la buona fede e il titolo concorrono a
qualificarlo. La centralità del possesso spiega perché si tratta di un acquisto a titolo originario e non
derivativo. Pur esistendo un titolo, l’elemento che determina l’acquisto è il fatto del possesso del bene;
c) buona fede. Qui per buona fede si intende l’ignoranza di ledere l’altrui diritto. In particolare, la buona fede
dell’acquirente significa che egli deve ignorare che l’alienante non è il proprietario;
d)il titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà. Qui per titolo astrattamente idoneo si intende
qualsiasi fattispecie, negoziale o giudiziale, avente efficacia traslativa se attuata dal legittimato. Il titolo deve
essere valido. Un titolo viziato rende inapplicabile tale regola. Per es. un contratto nullo o inefficace non
determina alcun acquisto.
La regola del possesso vale titolo non costringe l’alienatario a subire un acquisto di cose alienate a danno del
proprietario. La possibilità che l’alienatario opponga al rivendicante la propria buona fede non toglie che il
venditore sia inadempiente in quanto l’interesse del compratore non è stato integralmente soddisfatto; il suo
acquisto è infatti fondato su un elemento, la buona fede, di non sicura verifica processuale (già in quanto
suscettibile di essere vanificato dal dubbio). Il compratore potrà tener fermo l’acquisto, ma in tal caso dovrà
versare al proprietario espropriato il prezzo non ancora pagato al venditore. Nel conflitto tra venditore
abusivo e terzo proprietario espropriato si impone infatti come prevalente l’esigenza di tutelare il titolare
sacrificato.
La regola concerne cose mobili suscettibili di possesso. Ne rimangono pertanto esclusi i beni immateriali e i
crediti. Una considerazione a parte va tuttavia riservata ai crediti incorporati in titoli di credito (in
documenti) che sono assoggettati a specifica disciplina (art. 1157 cc): “Chi ha acquistato in buona fede il
possesso di un titolo di credito, in conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione, non è soggetto
a rivendicazione”. Il codice poi esclude espressamente le universalità di mobili, e i mobili iscritti in pubblici
registri (art. 1156 cc). La ragione è che di regola tali beni sono sottratti alla circolazione. Per i beni iscritti in
mobili registri, l’esclusione è giustificata in base alla formale regola della pubblicità cui essi sono soggetti.
Nell’ipotesi di conflitto tra più acquirenti di un bene mobile, prevale chi per primo ne consegue in buona
fede il possesso diretto, anche se il suo titolo sia posteriore a quello degli altri acquirenti (art. 1155 cc). Tale
regola è pur sempre un’applicazione della regola del possesso vale titolo ma conserva una sua autonomia. Si
tratta infatti di regola di soluzione del conflitto tra più acquirenti del medesimo bene. In base all’applicazione
di tale regola il primo acquirente perde la proprietà e l’alienante recupera la sua legittimazione. L’acquisto
effettuato in virtù del possesso vale titolo si converte pertanto in acquisto a titolo derivativo.
Argomento 11
Videolezione 1 – Il contratto in generale.
È molto importante ricordare che bisogna operare una distinzione tra i vari tipi di fatti. Ci sono fatti naturali,
che non hanno rilievo per il diritto, pensiamo per esempio a una pioggia, questo tendenzialmente è irrilevante
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per il diritto, ma ci sono anche fatti naturali invece, che sono rilevanti per il diritto. Il fatto “pioggia”, che in
astratto è un fatto naturale irrilevante per il diritto, può invece essere rilevante per il diritto quando si tratta di
“una determinata pioggia”, per esempio l’alluvione. Le alluvioni che hanno colpito le città, in alcuni casi
hanno comportato particolari disagi sociali e dissesti economici tanto che si è disposta la sospensione per i
soggetti colpiti per il pagamento delle imposte. Allora, bisogna specificare: non è il tipo di fatto che può
rilevare o meno per il diritto, è la circostanza che un determinato fatto sia preso a presupposto di
applicazione per una determinata norma, che lo rende “fatto giuridico”. Ecco che nella grande categoria dei
fatti tendenzialmente irrilevanti per il diritto, dobbiamo distinguere quei fatti che chiamiamo non più fatti
irrilevanti per il diritto, o fatti meramente naturali, ma chiamiamo fatti giuridici che rilevano per il diritto,
come appunto l’alluvione. L’alluvione avvenuta in un determinato periodo su una determinata città, ove
divenga il presupposto di applicazione delle norme di sospensione del pagamento delle imposte, è “fatto
giuridico”.
Il contratto è certamente un comportamento umano, un fatto. Nella grande categoria dei fatti, noi troviamo i
comportamenti, che sono quei fatti posti in essere dall’uomo, che possono essere sia rilevanti, che irrilevanti.
Per esempio, il passeggiare in riva al mare è un fatto tendenzialmente irrilevante per il diritto, si tratta di un
comportamento umano. Il comportamento, che prevede il passeggiare in un luogo in cui è vietato trattenersi,
è invece il presupposto di applicazione dell’eventuale sanzione prevista per chi entri in un determinato luogo
in cui è vietato permanere. Quindi, questo comportamento diventa un comportamento rilevante
giuridicamente. Questo comportamento, come vedremo, potrebbe anche dar vita a un contratto perché nella
libertà che si ha nel nostro ordinamento, nella piena autonomia contrattuale, anche il comportamento, cioè un
fatto umano, può dare anche vita a un contratto.
Se il comportamento implica un atto di volontà dell’uomo, lo chiamiamo “atto”. Atto significa quel
comportamento umano che denota una determinata volontà, una volizione in un determinato senso, da parte
del soggetto che lo attua, o da parte del soggetto che è rappresentato dal soggetto che lo attua. Gli atti che
sono sorretti da una determinata volontà e che producono determinati effetti a prescindere da qualsiasi
volizione in ordine agli effetti stessi, li definiamo “atti giuridici in senso stretto”. Per l’atto giuridico in senso
stretto non è necessario che si voglia il determinato effetto prodotto dall’atto, basta semplicemente la volontà
dell’atto, realizzare l’atto volontariamente. Per alcuni, per esempio, il riconoscimento di un figlio sarebbe un
atto giuridico in senso stretto perché riconoscendo un figlio, indipendentemente dalla volizione degli effetti,
si ottengono determinati effetti quali l’obbligo di mantenere il figlio e di prendersene cura se è un figlio
minore, o se comunque non è autosufficiente senza propria colpa ove maggiorenne. Si distinguono quindi tra
gli atti quelli che hanno questa automaticità degli effetti prevista dall’ordinamento.
Diversamente, ove l’ordinamento dia un rilievo alla volontà degli effetti, allora si parla non più di “atto
giuridico” in senso stretto, ma di “negozio giuridico”. Il soggetto che, per esempio, contrae matrimonio vuole
determinarti effetti, vuole sposare quella persona. Da cosa si nota se l’ordinamento vuole la volontà degli
effetti, o meno? Si nota dal fatto che tendenzialmente è possibile attaccare quel negozio impugnandolo
perché, per esempio, si è caduti in errore e si è sposata una persona diversa da quella che si intendeva
sposare. Con riguardo ai negozi giuridici quindi, si vuole un determinato effetto ed è importante quel
determinato effetto che si desidera, tanto che diventa possibile attaccare l’atto in negozio quando si scopre
che era viziata in qualche modo la volontà degli effetti. Tra i negozi giuridici rientra per esempio anche il
testamento.
I negozi giuridici si distinguono in “meri negozi giuridici” e “contratti”. Il contratto è quel particolare
negozio giuridico di cui ci dà le definizioni l’articolo 1321 del Codice civile. Si tratta di un negozio giuridico
necessariamente almeno bilaterale e necessariamente patrimoniale. In particolare, il contratto è un fatto
giuridico, è un comportamento, è un atto, ma è anche un particolare atto tant’è che è un negozio, ma è anche
un particolare negozio. Tutto è ricompreso dalla categoria del fatto. Più specificazioni diamo al fatto, più
scendiamo e ritagliamo la definizione fino ad arrivare al contratto. Le definizioni di contratto sono
desumibili dall’articolo 1321, che ci dà proprio la nozione di contratto: “Il contratto è l'accordo di due o più
parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Nel nostro Codice
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civile non c’è una regolamentazione dei negozi giuridici, la regolamentazione è effettuata con riguardo ai
contratti, riguardo all’elemento quindi che sta al vertice della piramide che parte dai “fatti”. Per questo
motivo, ogni disciplina è ritagliata nel nostro Codice civile in relazione ai contratti. Secondo l’articolo 1321,
il contratto assume due diverse connotazioni. Da un lato il contratto dobbiamo vederlo come accordo: se non
c’è accordo, non c’è contratto. La nozione stessa dice “Il contratto è l’accordo di due o più parti per far
qualcosa”. Ma cosa si intende per “parte”? Per parte non si intende semplicemente una persona, o un
soggetto, o un ente. Per parte si intende un centro autonomo di imputazione di interessi. Si tratta di una
nozione strettamente economica di parte, nozione strettamente economica, che permette tendenzialmente nei
contratti di scambio di ridurre quasi sempre a “due” i centri di imputazione di interessi; “due parti”,
nonostante ciascuna parte possa essere formata da più soggetti, che includono non solo la persona fisica, ma
anche eventualmente un ente, un’associazione, una società. La parte, nello specifico, è un centro di
imputazione di interessi. Gli atti quindi per divenire contratti devono essere almeno bilaterali. Gli atti
unilaterali, di conseguenza, non possono essere considerati contratti; i negozi unilaterali non possono essere
considerati contratti.
Alla disciplina del contratto fa rinvio il legislatore anche per regolare in quanto compatibili le fattispecie
degli atti unilaterali. Tanto che, l’articolo 1324 del Codice civile dice: “Salvo diverse disposizioni di legge, le
norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi
contenuto patrimoniale”. Nella norma stessa ovviamente si intende che non si tratta di contratti, ma si tratta
di atti unilaterali; non c’è l’accordo. “Unilaterali” significa che provengono da una sola persona e che non è
importante la volontà dell’altro soggetto destinatario: dal punto di vista della conclusione della fattispecie
che poi deve andare a produrre effetti, rileva solo un punto di vista, un punto di partenza, il fuoco è sul
soggetto che li realizza. Gli atti unilaterali vanno distinti dagli atti che sono a vantaggio di un solo soggetto.
Siamo in grado di dire che la donazione, che certamente è a vantaggio di un solo soggetto, in particolare il
soggetto che viene arricchito, è un contratto perché rileva la posizione dell’altro soggetto affinché si abbia la
fattispecie della donazione, tanto che la stessa legge la indica quale contratto: “La donazione è il contratto
col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto
o assumendo verso la stessa una obbligazione”. Che sia un contratto e che rilevi la posizione dell’altro
soggetto donatario è chiaramente desumibile dalla norma sulla forma della donazione, che indica come
elemento necessario l’accettazione della donazione. L’articolo 782 dice che “l’accettazione da parte del
donatario può essere fatta nell’atto stesso, o con atto pubblico posteriore. La donazione non è perfetta se non
nel momento in cui l’atto di accettazione è notificato al donante”. Il donante deve essere in grado di
conoscere l’accettazione del donatario. È rilevante la posizione del donatario, la volizione del donatario, la
volontà del donatario di accettare, affinché si concluda la fattispecie della donazione. Prima che la donazione
sia conclusa, tanto il donante quanto il donatario possono revocare la loro dichiarazione. Pensiamo anche a
un’altra fattispecie che è definita contrattuale dalla legge, ma che è sempre a vantaggio di un solo soggetto,
ovvero il contratto con obbligazioni a carico del solo proponente (art. 1333). Secondo l’articolo 1333: “La
proposta diretta a concludere un contratto da cui derivino obbligazioni solo per il proponente è irrevocabile
appena giunge a conoscenza della parte alla quale è destinata. Il destinatario può rifiutare la proposta nel
termine richiesto dalla natura dell'affare o dagli usi. In mancanza di tale rifiuto il contratto è concluso”. Qui
la legge non prevede la necessità di un’accettazione; l’accettazione può pervenire, ma non ne prevede la
necessità. La norma dà comunque rilevanza all’altro centro di imputazione di interessi, che può rifiutare. La
legge considera poi concluso l’accordo e dunque il contratto con il mancato rifiuto. Anche se il vantaggio è
di uno solo, l’atto non può considerarsi unilaterale perché è rilevante la volizione di poter manifestare il
rifiuto dell’altra parte. Apposite norme consentono di considerare “concluso” il contratto; tendenzialmente la
regola generale è quella dell’articolo 1326, che cita “Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto
la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte”.
Il contratto poi non è solo un accordo, ma è anche una regolamentazione di interessi. Il contratto in generale
lo dobbiamo considerare sia come accordo, sia come regolamentazione di interessi, tanto che l’articolo 1321
dopo aver parlato dell’accordo dice che questo accordo è per “costituire, regolare, o estinguere, un rapporto
giuridico patrimoniale”, ovvero per regolamentare determinati interessi tra le parti. La regolamentazione

101
concreta riguarda l’oggetto e la causa. L’oggetto lo possiamo definire quale contenuto del contratto e la
causa la possiamo definire come la ragione pratica che si esteriorizza nel contratto e che è meritevole di
tutela secondo l’ordinamento giuridico.
Altro elemento fondamentale del contratto è la patrimonialità: patrimonialità non intesa come patrimonio in
senso lato, ma come patrimonio economico. Il contratto deve riguardare un patrimonio economico. Per
esempio, si dice che il matrimonio non è un contratto perché regolamenta questioni personali. Il contratto si
lega all’autonomia economica, alla libertà di iniziativa economica, alla Costituzione. L’autonomia
patrimoniale nel contratto si specifica quale autonomia contrattuale e cioè autonomia di stipulare qualsiasi
tipo di contratto, non solo i contratti tipici (per es. la vendita, la locazione, il muto, ecc.). Le parti possono
liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Questo sia con riguardo ai
contratti tipici, che con riguardo ai contratti atipici, ovvero quelli che non rientrano negli schemi dei contratti
indicati dal Codice civile. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi
una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento giuridico.
Videolezione 2 – Gli elementi essenziali del contratto.
Quando si parla di contratto, si deve innanzitutto fare riferimento a quelli che sono i suoi requisiti essenziali,
che non possono mancare e la cui mancanza porta un vizio fortissimo del contratto. Gli elementi essenziali
del contratto sono indicati nell’articolo 1325, che cita “I requisiti del contratto sono: 1) l'accordo delle parti;
2) la causa;3) l'oggetto;4) la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità”. In
particolare:
1) L’accordo lo possiamo considerare requisito essenziale del contratto, la cui mancanza produce
l’inesistenza assoluta dello stesso, nonostante quanto prescritto dall’articolo 1418 del Codice civile,
che prevede nullità e non inesistenza. L’articolo cita infatti “Il contratto è nullo quando è contrario a
norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Producono nullità del contratto la
mancanza di uno dei requisiti indicati dall'articolo 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi
nel caso indicato dall'articolo 1345 (“Il contratto illecito quando le parti si sono determinate a
concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe”) e la mancanza nell'oggetto
dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346”, ma nel caso di mancanza di accordo, è errato dire che un
contratto è nullo; in mancanza di accordo, il contratto è inesistente.
Riguardo l’accordo, l’articolo 1326 del Codice civile cita: “Il contratto è concluso nel momento in
cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte. L’accettazione deve
giungere al proponente nel termine da lui stabilito o in quello ordinariamente necessario secondo la
natura dell’affare o secondo gli usi. Il proponente può ritenere efficace l’accettazione tardiva, purché
ne dia immediatamente avviso all’altra parte. Qualora il proponente richieda per l’accettazione una
forma determinata, l’accettazione non ha effetto se data in forma diversa. Un’accettazione non
conforme alla proposta equivale a nuova proposta (i testi della proposta e dell’accettazione devono
essere uguali)”. In alcuni casi però, su richiesta del proponente, o per il tipo di affare, o per gli usi
che sussistono, la prestazione si deve eseguire senza una preventiva risposta. In questi casi il
contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto luogo l’esecuzione – per esempio, un
amministratore di condominio contatta un’impresa di pulizie, che accetta tramite l’esecuzione delle
pulizie.
2) La causa è un elemento che l’ordinamento vede sia come requisito meramente da esteriorizzare, sia
come requisito che permette un controllo di contenuto. La causa vista come un interesse che muove
le parti a quel determinato contratto è causa nella misura in cui è esteriorizzata. La mancanza di
causa produce la nullità del contratto, ma è ovvio che l’interesse c’è sempre nel fare un contratto,
quindi la mancanza di causa è sostanzialmente la mancanza di un “interesse esteriorizzato”. Se ci
fermassimo a quanto scritto nell’articolo 1418 del Codice civile, basterebbe la causa in astratto (per
es. lo scambio; lo spirito di liberalità che si risolve nella sussistenza della forma dell’atto pubblico
con la presenza dei due testimoni; il dovere sociale o morale che porta a effettuare la consegna di
102
qualcosa) per dar conto del requisito richiesto come causa dall’articolo medesimo. Questo perché
basta che emerga una ragione di scambio perché vi sia una causa, basta che emerga in astratto la
causa. Ma la causa in realtà, nel nostro ordinamento, non può essere valutata solo in astratto. Con
riguardo alla causa vista come requisito che permette un controllo di contenuto, possiamo dire che la
causa deve essere lecita e meritevole di tutela, quindi c’è bisogno di un controllo interno specifico e
in particolare, significa che la causa deve essere valutata in concreto e appunto non in astratto.
Possiamo dire allora che la causa è l’interesse, meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico,
che le parti esteriorizzano attraverso il contratto.
3) L’oggetto è il contenuto concreto del contratto. L’oggetto difficilmente si distingue dalla causa vista
in concreto, se appunto è l’effettivo contenuto. Questa confusione tra causa e oggetto non è un
errore; infatti, non è insolito trovare scritto per esempio “Nel contratto è illecita la causa, o
l’oggetto”. La confusione è del tutto sensata. Secondo l’articolo 1346, l’oggetto del contratto deve
essere: possibile (sia materialmente, che giuridicamente – ad esempio, è materialmente impossibile
consegnare un bene inesistente), lecito, determinato, o determinabile.
4) La forma è la modalità con cui si esteriorizza il contratto. Anche se la legge non prescrive una forma
particolare, può risultare dalla legge necessaria una determinata forma. Non esiste un principio di
libertà di forma, cioè il principio per il quale se non è prevista espressamente una forma particolare,
si ha libertà di forma. La forma, anche se non indicata dalla legge, può essere ricavata mediante
analogia. Dobbiamo distinguere la forma che è prevista per la validità dell’atto, cosiddetta ad
substantiam, che è quella la cui mancanza porta alla nullità del contratto, e la forma ad probationem,
cioè la forma che serve solo a provare il contratto (se non viene rispettata quella forma non si può
provare in giudizio il contratto).
Argomento 12
Videolezione 1 – La formazione del contratto.
L'accordo è espresso quando risulta dalle dichiarazioni di volontà delle parti. L'accordo è tacito quando le
parti manifestano la loro volontà mediante comportamenti concludenti, che non costituiscono mezzi di
linguaggio e dai quali tuttavia, secondo le circostanze, si desume l'implicito intento negoziale (es.:
accettazione mediante esecuzione della prestazione richiesta). Il silenzio indica l'inerzia del soggetto che non
manifesta una volontà positiva o negativa. Quale comportamento omissivo il silenzio è inidoneo a
perfezionare l'accordo, che richiede invece l'incontro delle manifestazioni di volontà delle parti. Si ritiene per
altro che l'accordo si possa perfezionare nonostante il silenzio della parte quando sia la legge ad attribuire il
valore di consenso all'inerzia del soggetto. Si ritiene inoltre che possa valere come manifestazione tacita di
consenso il silenzio circostanziato, ossia il silenzio che sia accompagnato da circostanze tali da renderlo
significativo come sintomo rivelatore dell'intenzione della parte.
L’iter principale di formazione del contratto è quello che si articola nei due atti della proposta e
dell’accettazione: la proposta è una manifestazione di volontà contrattuale aperta all’adesione del suo
destinatario; l’accettazione è l’atto di accoglimento della proposta. Il contratto si considera concluso nel
tempo e nel luogo in cui il proponente ha avuto notizia dell’accettazione dell’altra parte. Questo vuol dire
che normalmente non basta che l’oblato accetti la proposta. Per arrivare al perfezionamento dell’accordo,
occorre che chi ha fatto la proposta abbia notizia dell’accettazione.
Requisiti specifici dell’accettazione sono la conformità e la tempestività. La conformità indica la totale
adesione alla proposta. L'accettazione deve cioè essere interamente conforme alla proposta. Un’accettazione
che modifica o integra il contenuto della proposta ha il valore di una nuova proposta o controproposta (art.
1326 c.c.). L’accettazione deve inoltre essere tempestiva e cioè deve pervenire entro il termine fissato nella
proposta o, in mancanza, entro il tempo ordinariamente necessario secondo la natura dell’affare o secondo gli
usi (art. 1326 c.c.). L’accettazione tardiva è inefficace. Il proponente, tuttavia, può reputarla efficace purché
ne dia avviso immediato all’oblato (art. 13263 c.c.). La proposta e l’accettazione sono atti recettizi. Un atto si
dice recettizio quando per la sua efficacia è necessario che esso sia portato a conoscenza del destinatario.
L’atto recettizio si reputa conosciuto dal destinatario nel momento in cui sia pervenuto al suo indirizzo.
103
Tuttavia, la legge tempera questa regola consentendo al destinatario la prova di essere stato senza colpa nella
impossibilità di prendere conoscenza dell’atto pervenuto al suo indirizzo (art. 1335 c.c.). Per impossibilità
senza colpa s’intende qui un impedimento estraneo alla sfera dell’organizzazione del destinatario o al suo
fatto volontario. Non potrebbe quindi il destinatario opporre, ad es., che il proprio dipendente non aveva
ritrasmesso la dichiarazione all’organo competente.
Fino al momento della conclusione del contratto ciascuna delle parti può revocare il proprio consenso. La
revoca è l’atto diretto a cancellare un precedente atto giuridico, ossia a privarlo di efficacia giuridica. La
revoca della proposta e la revoca dell’accettazione sono previste dalla legge come atti recettizi (art. 1335
c.c.). Esse, cioè, acquistano efficacia solo a seguito della loro ricezione da parte del destinatario. La revoca
non vale dunque a impedire la conclusione del contratto se essa non perviene al destinatario prima che
l’accordo si sia perfezionato. Precisamente, se l’oblato revoca la sua accettazione, occorre che la revoca
pervenga al proponente prima dell’accettazione. La revoca che perviene dopo o contemporaneamente
all’avviso dell’accettazione è ormai tardiva in quanto l’accordo si è già perfezionato. Al fine di agevolare
l’accettazione il proponente può rendere ferma la sua offerta per un certo tempo. In tal caso la proposta è
irrevocabile fino allo scadere del termine previsto. La proposta e l’accettazione diventano inefficaci se il loro
autore decede o perde la capacità di agire prima del perfezionarsi dell’accordo. Questa regola subisce due
importanti deroghe nelle ipotesi di proposta irrevocabile (se il proponente ha fatto un’offerta a fermo e muoia
prima che sia scaduto il termine fissato dal proponente, o comunque prima che la proposta abbia perso la sua
validità, la proposta rimane ferma) e di atti compiuti nell’esercizio di un’impresa (art. 1329 c.c. – “La
proposta, o l’accettazione, quando è fatta dall’imprenditore nell’esercizio della sua impresa non perde
efficacia se l’imprenditore muore, o diviene incapace prima della conclusione del contratto, salvo che si tratti
di piccoli imprenditori, o che diversamente risulti dalla natura dell’affare, o da altre circostanze”).
La regola secondo la quale il contratto è concluso quando il proponente ha conoscenza dell’accettazione
trova una prima deroga nei casi in cui su richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi
la prestazione dev’essere eseguita senza una preventiva risposta. In tali casi il contratto è concluso nel tempo
e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione (art. 1327c.c.). Un’altra particolare ipotesi di formazione del
contratto è quella che concerne l’adesione successiva di nuove parti. La possibilità dell’adesione di nuove
parti è tipica dei contratti con comunione di scopo dove le parti cooperano per la realizzazione di un interesse
comune (per es. contratti associativi). Il contratto che prevede l’adesione successiva di nuove parti si dice
‘aperto’. Una particolare previsione normativa è dedicata alla proposta di contratto da cui derivano
obbligazioni a carico del solo proponente. Tale proposta, anzitutto, è irrevocabile appena ricevuta dal
destinatario (art. 1333 c.c.). Inoltre, per la costituzione del rapporto è sufficiente il mancato rifiuto del
destinatario. Precisamente, il destinatario può rifiutare la proposta entro il termine richiesto dalla natura
dell’affare o dagli usi; se non rifiuta tempestivamente “il contratto è concluso” (art. 1333c.c.). Contratti con
obbligazioni a carico del solo proponente sono i contratti a titolo gratuito.
L’opzione è il contratto che attribuisce ad una parte (opzionario) il diritto di costituire il rapporto contrattuale
finale mediante una propria dichiarazione di volontà. La dichiarazione della parte vincolata, cioè quella che
conferisce l’opzione, si considera quale proposta irrevocabile per quanto attiene alla inefficacia della revoca
e alla persistente efficacia della dichiarazione pur a seguito del decesso o della sopravvenuta incapacità del
dichiarante (art. 1331 c.c.). Questo non vuol dire che il contratto di opzione sia una proposta irrevocabile. La
differenza strutturale è netta nel senso che la proposta è un atto unilaterale mentre l’opzione è un contratto. In
quanto l’efficacia della dichiarazione discende dal vincolo contrattuale, essa viene meno solo con la scadenza
del termine, l’estinzione del contratto o la rinunzia dell’opzionario al suo diritto. L’atto dell’opzionario è
sufficiente a costituire il rapporto contrattuale finale senza che occorra un ulteriore accordo delle parti. In ciò
si coglie la sicura distinzione rispetto al contratto preliminare, dal quale scaturisce l’obbligo di stipulare il
contratto definitivo. Dall’opzione scaturisce invece il potere dell’opzionario di formare il contratto finale:
tale potere viene comunemente qualificato come diritto potestativo. Il diritto di opzione è cedibile quando vi
sia il consenso del concedente e, in generale, quando sia cedibile il contratto finale. Il patto di opzione non è
trascrivibile in quanto non conferisce un diritto reale né una pretesa obbligatoria assimilabile a quella del
preliminare.
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Il patto di prelazione è quel patto che conferisce un diritto di preferenza rispetto ad altri, a parità di
condizioni, nel caso in cui il promittente decida di stipulare un determinato contratto. Vi è un promittente, il
quale si obbliga a dare all’altra parte, al prelazionario, una preferenza. Il promittente si obbliga a preferirlo
rispetto ad altri nel caso in cui decida di stipulare un contratto. L’efficacia del patto di prelazione è
un’efficacia meramente obbligatoria e questo vuol dire che se il promittente è inadempiente e non dà al
prelazionario la preferenza che gli era stata promessa, il prelazionario ha l’unico rimedio del risarcimento del
danno. Il prelazionario non potrebbe, come avviene nei casi di prelazione legale, pretendere di far valere il
suo diritto nei confronti di colui che avesse, in ipotesi, acquistato il bene del patto di prelazione. L’efficacia
meramente obbligatoria del patto di prelazione conferma che il patto è non trascrivibile.
Videolezione 2 – La responsabilità precontrattuale (parte 1).
La responsabilità precontrattuale, lo dice la parola “precontrattuale”, è una responsabilità che riguarda la fase
precedente al contratto, cioè quella fase delle trattative, quella fase in cui i soggetti cercano di trovare un
accordo, quell’accordo che diventa contratto. La responsabilità precontrattuale è una responsabilità che si
aggiunge alle altre due ipotesi che conosciamo: la responsabilità contrattuale da un lato e la responsabilità
extracontrattuale dall’altro. Vedremo che sono stati fatti degli sforzi da parte della dottrina e della
giurisprudenza per cercare di inquadrare questa responsabilità all’interno dell’uno o dell’altro settore.
Secondo l’avviso del Prof. questi sforzi non sono convincenti, in quanto si tratta di una responsabilità che
deve trovare le sue regole di volta in volta in relazione alla singola fattispecie che si vuole analizzare, senza
un inquadramento aprioristico all’interno di una categoria diversa. Del resto, il codice civile ha scelto un
termine diverso rispetto a “responsabilità contrattuale”, o “responsabilità extracontrattuale”.
All’interno delle norme sull’accordo, troviamo le norme che in generale vengono prese in considerazione
quando si parla di responsabilità precontrattuale. Le norme sono l’articolo 1337 e l’articolo 1338.
L’articolo 1337, rubricato “trattative e responsabilità precontrattuale”, dice che: “Le parti, nello svolgimento
delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”. L’articolo
stabilisce un obbligo di comportamento tra soggetti. Possiamo notare l’utilizzo del termine “parti”, ma in
realtà sappiamo che si può parlare di parti quando il contratto è già concluso, se il contratto non è ancora
concluso, in realtà, astrattamente, non dovremmo parlare di parti. Queste sono classificazioni che però
lasciano il tempo che trovano. Se due soggetti sono già in contatto tra di loro, secondo il legislatore sono già
da considerare “parti”, in quanto, in qualche modo, sono già in un rapporto tra loro. Le parti, in particolare,
sono un centro di interessi. Riguardo alla buona fede, in questo caso si tratta di buona fede oggettiva, vista in
senso oggettivo come comportamento leale e corretto.
L’articolo 1338 parla della conoscenza delle cause di invalidità e dice: “La parte che, conoscendo o dovendo
conoscere l'esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte è tenuta a
risarcire il danno da questa risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto”. Questa
è un’ipotesi specifica che riguarda i contratti che poi risultano essere invalidi. La parte che dà origine a
questa invalidità, ovvero, la parte che conosce o avrebbe dovuto conoscere la causa di invalidità del
contratto, deve rispondere per il danno. Anche qui si fa riferimento alla “parte” come parte contrattuale
perché il contratto è stato stipulato anche se poi risulta successivamente essere invalido. Questa norma a
differenza della precedente, che dà solo un obbligo di comportamento, dà una disciplina. L’articolo 1338
disciplina infatti gli effetti, dicendo quale danno deve essere risarcito e prevede il risarcimento dello stesso.
Nell’art. 1337 del Codice civile si prevede l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, ma non si prevede
l’obbligo di risarcimento del danno. A quale norma ci si deve allora rifare per il risarcimento del danno?
Sappiamo che quando manca una norma che detta una disciplina specifica nel nostro ordinamento, dobbiamo
fare ricorso all’analogia. In questo caso si deve fare rinvio o all’articolo 1218, che regola il risarcimento del
danno in caso di responsabilità contrattuale, o all’articolo 2043, che regola il risarcimento del danno in caso
di responsabilità extracontrattuale. Con l’articolo 1337 si tutela l’affidamento della parte nella prosecuzione
delle trattative. Dato che siamo all’interno della fase delle trattative, presupposto principale deve essere che
non si sia già perfezionato il contratto. Se si ha una mera puntuazione (una minuta), non si ha un contratto.
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La puntuazione (nell'iter di formazione progressiva del negozio) è uno scritto che riporta il consenso parziale
raggiunto su alcune clausole del contratto, ma il consenso al contratto (quindi la vincolatività) resta
subordinato al raggiungimento dell'accordo su tutte le clausole a cui le parti hanno interesse. Le parti non
subiscono il rischio del vincolo. Si ha mera valenza probatoria perché tramite lo scritto si può provare che si
era trovato un accordo su alcuni punti. Tuttavia, in alcuni casi, se si raggiunge l’accordo sui punti essenziali,
difficilmente si può dire che il contratto non è concluso. Infatti, in alcuni casi l'accordo sui punti essenziali
nelle forme previste dalla legge, se non espressamente subordinato alla definizione dei punti secondari, può
portare le parti, consapevolmente o meno, a obbligarsi e quindi non si è più in responsabilità precontrattuale,
ma si è già dentro il contratto. La fattispecie raggiunta può essere qualificata già come fattispecie contrattuale
definitiva - In tal caso, le parti accettano le clausole e subiscono il rischio del vincolo.
In alcuni casi, bisogna fare attenzione, la differenza è tra una mera puntuazione e un contratto preliminare,
questo perché spesso la puntuazione sono degli accordi che rimandano a un accorto definitivo. Ma che cos’è
il contratto preliminare? Il contratto preliminare è un contratto con cui le parti si obbligano a stipulare un
contratto definitivo. Nella puntuazione le parti non si obbligano a stipulare un contratto definitivo, nella
puntuazione le parti mettono solamente nero su bianco quali sono i punti sui quali hanno già trovato un
accordo. In alcuni casi, descrivono anche che si devono rivedere per la contrattazione definitiva in una
determinata data, ad esempio. In questo caso il discrimine diventa sottile. Infatti, se per caso si raggiunge un
accordo sui punti essenziali e poi si rimanda a un successivo momento per la contrattazione definitiva, un
contratto di questo genere potrebbe essere considerato già un contratto preliminare a tutti gli effetti. In tal
caso, le parti accettano le clausole e subiscono il rischio del vincolo: il diniego di stipulare il definitivo
costituisce inadempimento contrattuale (si è già all’interno della responsabilità contrattuale e non più
all’interno di quella precontrattuale).
Quali sono i presupposti perché si possa ritenere un soggetto responsabile per aver pregiudicato l’altra parte
che confidava facendo legittimo affidamento nella prosecuzione delle trattative? L’ipotesi è quella del
recesso ingiustificato dalle trattative, ma ovviamente, affinché possa sorgere una responsabilità, si deve
essere in una fase in cui la trattativa ha raggiunto una certa serietà e, in particolare, le parti devono aver preso
in considerazione gli elementi essenziali del contratto. Non si può affermare di aver fatto legittimamente
affidamento sulla prosecuzione del contratto se non si è, ad esempio, mai parlato del prezzo dell'immobile (in
vendita) visionato in seguito ad annuncio commerciale. In tal caso, l'immobile può ben essere venduto ad
altri, senza avviso alcuno, salvo che si sia stipulato un patto occasionato dalla trattativa precontrattuale: per
es. ci si accorda affinché colui che offre in vendita l'immobile avvisi l'altra parte prima di accettare una
concreta proposta di acquisto pervenuta da altro soggetto del mercato. Il mancato avviso comporta una
responsabilità contrattuale.
Esistono vari tipi di patti precontrattuali che portano a una responsabilità contrattuale per la chance perduta
di aver raggiunto la contrattazione, per esempio:
a) il patto di riserbo: la parte si obbliga a non divulgare informazioni;
b) il patto di esclusiva: la parte si obbliga a non svolgere altre trattative;
c) il patto di rimborsare le spese connesse alle trattative.
Anche il dovere di comportarsi secondo buona fede può risultare da un apposito patto sulle trattative, a cui
può anche accedere una clausola penale collegata al recesso ingiustificato. In tal caso si deve risarcire
l'interesse positivizzato con tale contratto, non solo l'interesse negativo. Il danno si configura come da perdita
di chance di raggiungere la contrattazione.
Riguardo al recesso dalle trattative, in relazione all’applicazione dell’art. 1337 si scontrano due principi: la
libertà negoziale, vista anche come libertà di non concludere il contratto, e la tutela del ragionevole
affidamento di chi confida nella prosecuzione delle trattative. Di conseguenza, Il recesso dalle trattative,
qualora non violi il ragionevole affidamento dell'altra parte, in linea generale non deve essere motivato, può
avvenire ad nutum (non si è tenuti a spiegare). È ovvio che la motivazione del recesso potrebbe rendere non
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più ragionevole l'affidamento dell'altra parte, soprattutto se sopraggiunge una causa di recesso di sicuro
rilievo economico e/o personale; ad esempio: «mi hanno informato in merito alla tua insolvenza, in relazione
a una serie di contrattazioni pregresse, così io non intendo più contrattare con te» - In tal caso, la motivazione
consente all'altra parte di eccepire qualcosa, come: «ti hanno informato male, perché si riferivano a un mio
omonimo; io ho sempre rispettato i vincoli contrattuali pregressi».
Resta salvo che il recesso senza manifestazione della motivazione, ma internamente motivato dall'insolvenza
effettiva - non già solo presunta o conosciuta mediante cattiva informazione o a seguito di avvenuta
“confusione” tra soggetti omonimi – è pienamente legittimo e non comporta alcuna responsabilità
precontrattuale: il soggetto attualmente insolvente non può legittimamente confidare nella prosecuzione delle
trattative (essendo queste inutili o – peggio! - potenzialmente dannose per l'altra parte). Il soggetto insolvente
è un soggetto che in generale non paga i suoi creditori e quindi non può confidare nella prosecuzione delle
trattative.
Videolezione 3 – La responsabilità precontrattuale (parte 2).
Facciamo ora riferimento all’articolo 1338, già menzionato nella precedente lezione, che riguarda il caso in
cui un soggetto che conosce o avrebbe dovuto conoscere la causa di invalidità di un contratto, non ne ha dato
notizia all’altra parte e per questo è responsabile per il danno sofferto dall’altra parte per aver confidato nella
validità del contratto stesso. Quando si parla di questo tipo di danno, questo tipo di danno viene definito
come danno limitato al mero “interesse negativo”. In particolare, l’interesse negativo consiste nelle spese che
il soggetto ha effettuato per addivenire a quel determinato contratto e in tutto ciò che il soggetto ha fatto per
arrivare a quel contratto teoricamente valido, anche nelle chance eventualmente perdute per via di quella
contrattazione. In particolare, quando si parla di interesse negativo, lo si contrappone al cosiddetto “interesse
positivo”, cioè all’interesse che deve essere risarcito nel caso in cui il contratto è concluso. Se il contratto è
concluso e perfezionato, la parte è tenuta all’adempimento e quando si parla di “interesse all’adempimento”,
di “interesse al concreto assetto che si sarebbe verificato con l’adempimento”, quello è l’interesse positivo.
Quando il contratto è validamente concluso, se una parte non adempie, l’altra parte può chiedere il
risarcimento per l’interesse positivo, cioè per quell’interesse che corrisponde all’esatta esecuzione del
contratto ed è correlato a tutti i danni che sono legati al fatto che il contratto non ha avuto l’esecuzione che
avrebbe dovuto avere.
Con l’articolo 1338, ci si ferma al momento della stipula; l’interesse che si può risarcire è l’interesse che
considera semplicemente l’aver stipulato un contratto invalido. Presupposto di applicazione della norma è
che si sia perfezionato un contratto invalido. Qui bisogna attenersi a un’interpretazione di “invalido”
strettamente letterale del testo normativo. L'inesistenza del contratto non rientra tra le invalidità, quindi non
si applica la norma. Se l'accordo non è concluso – quindi il contratto è inesistente – si rientra ancora nella
fase precontrattuale e il soggetto (che finora non ha avvisato l'altra parte in ordine a qualche importante
elemento, rilevante ai fini della validità del negozio) può ancora farlo: non è inadempiente a quest'obbligo in
via definitiva.
L’inefficacia è quella particolare situazione in cui versa un contratto perfettamente valido, che però non è
efficacie e cioè non produce effetti. I profili di inefficacia non dobbiamo ritenerli considerati dall’articolo
1338. Il soggetto che contrae non può ritenersi onerato di andare a spiegare all’altra parte come funziona la
legge, o come funzionano le norme sul contratto. L’altra parte ha l’onere di sapere. L’inefficacia del
contratto non può essere considerata alla stregua dell’invalidità ed è per questo motivo che non si applica
l’articolo 1338. Se una parte non informa l’altra in ordine alle cause di inefficacia, il contratto è valido, salva
la responsabilità che si trae da altre regole codicistiche. Anche da questo punto di vista, quindi, possiamo
interpretare letteralmente l’articolo 1338, che parla di cause di invalidità e di responsabilità di non aver
informato l’altra parte in merito a una causa di invalidità, non a una causa di inefficacia.
Un caso particolare di invalidità è quella inerente al soggetto che vende una cosa che non è propria, o che
vende in nome e per conto di un soggetto che non gli aveva dato procura, o eccedendo i limiti della procura.
In questo caso sì che sussiste una responsabilità, ma è sbagliato andare a inserirla nell’articolo 1338. Infatti,
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seppur si può parlare di responsabilità che riguarda la fase precontrattuale, rientra in una norma ben precisa
che è l’articolo 1398. L’articolo 1398 è una norma a sé che dice che: “Se il soggetto agisce senza aver
procura, o eccedendo i limiti della procura, è responsabile del danno sofferto dall’altra parte, che senza colpa
ha confidato nella validità del contratto”. La legge dice “validità del contratto”, ma in realtà si tratta di
“efficacia” perché il contratto stipulato dal soggetto non legittimato non è un contratto “invalido”, è un
contratto valido, ma “inefficacie”.
La responsabilità precontrattuale porta a un risarcimento per “interesse negativo”. Questo risarcimento può
essere modulato in relazione a determinati fattori, ad esempio, se c’è il dolo, cioè se la parte
intenzionalmente causa un pregiudizio in sede precontrattuale, dobbiamo ritenere che la responsabilità in
qualche modo debba aggravarsi. Se c’è il dolo, la responsabilità è più grave. Per esempio:
- Es. n. 1: si porta avanti una trattativa con un soggetto con l'intento iniziale (doloso) di non
concludere alcun contratto.
In questo caso si applica l'art. 1337 e il dolo può giocare un ruolo nella quantificazione del danno
risarcibile. Dobbiamo ritenere che siano risarcibili anche i danni imprevedibili, proprio perché il
soggetto intenzionalmente lede la libertà negoziale dell’altra parte in maniera dolosa, volendo
causare appositamente la lesione. Nell’articolo 1337, l’ipotesi tipica che può rientrare unicamente
nella norma è l’ipotesi del recesso ingiustificato dalle trattative. L’articolo 1337 è una norma che
parla in generale dell’obbligo di buona fede durante le trattative nella fase di formazione del
contratto e l’unica fattispecie che viene regolata, appunto, unicamente da questo articolo, è quella del
recesso ingiustificato dalle trattative.
- Es. n. 2: si conosce una causa di invalidità del contratto ma si va avanti fino alla contrattazione,
senza avvisare l'altra parte, che invece confida nella validità del negozio.
In questo caso si applica l'art. 1338, che contempla l'ipotesi della effettiva conoscenza della causa di
invalidità del contratto (cioè della piena consapevolezza in ordine all'invalidità da parte del soggetto
“danneggiante”): si deve, in ogni caso, risarcire il danno risentito dall'altra parte per aver questa
confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto, ma in caso di dolo si possono risarcire anche i
danni imprevedibili.

Nel caso di concorso di colpa del danneggiato, cioè se il danneggiato confida con negligenza nella validità
del contratto perché, per esempio, non è andato a vedere bene la targhetta che era posta vicino all’anello in
cui si specificava in maniera, anche sottile, che l’anello non era d’oro, o si capiva che non era d’oro dal tipo
di manifattura, non possiamo ritenere che si possa applicare l’articolo 1338 (si risarcisce il danno risentito
dall’altra parte “per aver confidato, senza sua colpa, nella validità” del contratto) perché appunto l’articolo
1338 onera del risarcimento del danno la parte quando l’altra ha confidato senza sua colpa nella validità del
contratto. Se si applica invece l'art. 1337 cod. civ., il concorso di colpa dovrebbe essere trattato secondo la
regola generale dettata dall'art. 1227*, 1° co., cod. civ, dovendosi far rinvio, appunto, alle norme generali in
materia di quantificazione del danno risarcibile. In ogni caso, la colpa nella produzione o nell’accrescimento
del danno deve essere sempre valutata (per entrambe le fattispecie: artt. 1337 e 1338 cod. civ.) secondo
quanto previsto dall'art. 1227, 2° co., cod. civ.
* Art. 1227: “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito
secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto
per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”.
Con riguardo agli obblighi di informazione dobbiamo fare attenzione; non esageriamo nel ritenere sussistenti
degli obblighi gravanti in sede precontrattuale, in quanto esiste un principio generale di libertà negoziale nel
nostro ordinamento. Facciamo degli esempi:
Es. n. 1: Tizio sa che esiste un progetto comunale che farà cessare l'edificabilità del suo terreno, ma decide di
metterlo in vendita senza avvisare la controparte, che acquista, certa dell'edificabilità. C'è responsabilità

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precontrattuale? – Un esempio di questo genere fa capire come nella contrattazione ognuno si dovrebbe
prendere il rischio delle azioni che compie. Quindi, se io vado a contrattare, sono io che devo andare a
informarmi. Dobbiamo escludere che un soggetto che vende un bene attualmente edificabile possa
considerarsi responsabile per non aver avvisato l’altra parte che il terreno cesserà la sua edificabilità. Il
contratto è perfettamente valido, è l’altra parte che si sarebbe dovuta informare.
Es. n. 2: Tizio sa che esiste un progetto comunale che darà l'edificabilità al terreno di Caio, il quale, ignaro,
decide di metterlo in vendita come terreno agricolo. C'è responsabilità precontrattuale? In questo caso Caio è
stato negligente e non si è informato bene. Anche qui si deve ritenere che Tizio non abbia alcuna
responsabilità precontrattuale, in quanto non esiste alcun obbligo di informare l’altra parte. La parte non ha
l'obbligo di legge di informare l'altra in ordine ai progetti futuri del Comune. Con riguardo ai raggiri, la
fattispecie non denota un errore rilevante. Si ha un errore effettivamente riconosciuto dall’altra parte (Tizio
sa bene che l’altra parte è in errore – nel primo esempio sa che l’altra parte è convinta che il suo terreno resti
edificabile, nel secondo caso sa che l’altra parte è convinta che il terreno resti agricolo), ma si tratta di un
errore di previsione, non è un errore essenziale. L’oggetto del contratto riguarda la compravendita di un
immobile che in quel momento è edificabile, nel caso dell’esempio n.1, o è agricolo, nel caso dell’esempio
n.2. Un errore di previsione non è rilevante ai fini del Codice civile.
Sicuramente è di più semplice soluzione il caso che riguarda:
- (Es. n.1) Il soggetto che induca l'altra parte all'acquisto affermando di sapere che non esiste alcun
progetto volto ad escludere l'edificabilità del terreno (in tal caso si ha certamente un raggiro);
- (Es. n. 2) Il soggetto che induca l'altra parte alla vendita dicendo che sa che quel terreno mai diverrà
edificabile.
In tali casi si potrebbe anche configurare la fattispecie della truffa.

In generale, il problema che abbiamo trattato riguarda la consapevolezza in ordine alla convenienza
economica dell’affare. Non si è tenuti a dare all’altra parte notizie in merito alla convenienza economica, o
meno dell’affare. Nel gioco della contrattazione le due parti devono riuscire a equilibrarsi da sole in base alle
informazioni che ciascuna di esse riesce a carpire nel mercato. Ciascuno deve subire i rischi connessi alla
propria consapevolezza, e al proprio livello di informazione, in ordine alla convenienza dell’affare e non è
tenuto a confidare all’altra parte le proprie informazioni private in ordine alla convenienza stessa. Questo
anche perché, a volte, per ottenere determinate informazioni, si spendono tanti soldi (per es. io faccio una
ricerca geologica costosissima per scovare se sotto alcuni terreni vi è dell’oro) e di conseguenza, le mie
ricerche devono premiare me, non l’altra parte, inconsapevole. Ovviamente salvi gli obblighi di
informazione derivanti dalla legge (come avviene per gli intermediari finanziari, che per esempio, devono
informare l’investitore prima di acquistare determinati titoli, o azioni), ciascuno deve affrontare il rischio
connesso al proprio livello di conoscenze e di informazioni private. La collaborazione che può rintracciarsi
nelle norme sulla responsabilità precontrattuale non può giungere a escludere la competizione tra le parti nel
gioco del libero mercato. Ovviamente, tutto cambia quando l’informazione deve essere data per legge.
Videolezione 4 – La responsabilità precontrattuale (parte 3).
L’articolo 1440 del Codice civile è una di quelle norme che permette di considerare sussistente una
responsabilità di tipo precontrattuale (essa, infatti, dà rilievo a una responsabilità che riguarda la fase
antecedente rispetto alla conclusione del contratto) quando in realtà il contratto è già concluso. L’articolo
1440 è una norma che riguarda un contratto concluso che nel suo assetto resta tale, ma nonostante il contratto
“resti in piedi”, si ipotizza un qualche effetto dovuto alla fase antecedente rispetto alla conclusione del
contratto. L’articolo 1440 si inserisce all’interno della disciplina del “dolo contrattuale”. In particolare, il
dolo contrattuale è uno dei vizi del consenso, il vizio per cui una parte, con dei raggiri, induce l’altra parte in
errore, ovvero, fa credere all’altra parte qualcosa che in realtà non è; pone l’altra parte in una situazione per
cui essa si fa una rappresentazione del contratto divergente rispetto a quello che in realtà quel contratto è. Nei
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casi in cui il dolo porta l’altra parte a concludere il contratto, si parla di “dolo determinante”; nei casi in cui il
dolo spinge la parte a concludere il contratto con condizioni diverse rispetto a quelle con le quali essa lo
avrebbe concluso, si parla di “dolo incidente”. Il dolo incidente comporta non la decisione di stipulare il
contratto, come nel caso di dolo determinante, perché il soggetto lo avrebbe stipulato comunque, bensì un
prezzo diverso e più alto - Per es. in sede di contrattazione, io già voglio comprare una casa, ma mi si dice
“Te la vendo a un prezzo più alto perché riesci a vedere questa cosa qua” e io accetto un prezzo più alto
proprio perché riesco a vedere quella cosa; in realtà poi scoprirò di non riuscire a vedere quel determinato
panorama perché era un raggiro. In questo caso, l’articolo 1440 dice che il contratto è valido e non è
annullabile come nel caso di dolo che induce a stipulare il contratto (dolo determinante), ma c’è una
responsabilità di chi ha posto quel raggiro e io, per questo motivo, ho diritto al risarcimento del danno, che
corrisponde a quello che io ho speso in più perché mi era stato fatto un raggiro per il quale sono stato indotto
a contrattare a condizioni diverse rispetto a quelle a cui avrei deciso di contrattare in mancanza di esso. A
questo punto succede dunque che esiste un contratto valido, ma esiste una responsabilità, che risale alla fase
delle trattative, del soggetto che mi ha raggirato. Il dolo incidente è quindi un dolo che riguarda la fase
antecedente alla stipula del contratto e che presuppone un’avvenuta conclusione del contratto.
Secondo una determinata giurisprudenza passata, la responsabilità da dolo incidente sarebbe una
responsabilità, che ormai possiamo considerare contrattuale a tutti gli effetti. Secondo tale teoria, tutto ciò
che avviene prima della conclusione del contratto, una volta concluso il contratto comporta verso il soggetto
che ha stipulato il contratto una responsabilità di tipo contrattuale. La Cassazione del 17 luglio 1976, infatti,
aveva stabilito che la responsabilità da dolo incidente sarebbe rientrata sempre nell’ambito della
responsabilità contrattuale: ormai il contratto è concluso e quello che è stato detto prima rientra ormai nei
rapporti tra due parti contrattuali già divenute tali. La recente giurisprudenza (Cassazione 11 giugno 2010),
invece, riconduce la responsabilità nell’ambito della responsabilità precontrattuale; si dà rilievo a una
circostanza: il fatto da cui deriva la responsabilità è avvenuto durante la fase precontrattuale. È vero che il
responsabile è un contraente, quindi un soggetto legato da un vincolo contrattuale, ma la fattispecie viene
inquadrata ormai nell’ordinamento attuale come responsabilità precontrattuale.
Il problema centrale da affrontare, quello che più interessa a livello giuridico nel caso di tecnica
argomentativa con riguardo alla responsabilità precontrattuale, è quello della disciplina applicabile.
L’articolo 1337 e l’articolo 1338 non stabiliscono assolutamente la quantificazione del danno risarcibile,
quali sono gli oneri probatori, quale sia la prescrizione della responsabilità. Ne deriva che l’interprete deve
trovare necessariamente una regola. Con riguardo al dolo incidente, come già visto, dire che la responsabilità
sia contrattuale, o precontrattuale, non cambia; è importante capire che disciplina si applica. Il centro della
problematica riguarda la disciplina da applicare.
In particolare, con riguardo alla prescrizione, l’interprete non ha una regola di prescrizione sul dolo
incidente. Le norme sulla prescrizione non prevedono una regola specifica per il dolo incidente. Dato che
l’interprete deve trovare sempre una disciplina, si procede per analogia e si prendono in considerazione le
norme sulla prescrizione. Le norme sulla prescrizione prevedono che, nel caso in cui si abbia una
responsabilità da contratto o da inadempimento di un’obbligazione, la prescrizione sia decennale - questo
perché esiste un titolo, il contratto. Nel caso di dolo incidente però, non c’è un titolo che obbliga
specificamente la parte a non raggirare l’altro; c’è un soggetto che compie un illecito verso l’altro. Il
contratto è già stipulato, ma non abbiamo nulla che può far risalire a quel comportamento precedente al
contratto. Non avendo questo titolo in mano, ma dicendo semplicemente che un soggetto ha interferito
nell’altrui libertà negoziale inducendo a stipulare un contratto a condizioni diverse, stiamo facendo valere
qualcosa che non potrà essere provata in giudizio con un titolo, ma solo mediante un testimone, ad esempio.
Dato che si parla di “testimone” e il soggetto in giudizio potrà far valere la responsabilità dell’altra parte che
ha realizzato il raggiro solo mediante testimonianza, la prescrizione è di 5 anni per il risarcimento del danno,
infatti, il legislatore ha voluto dare un tetto massimo alla capacità di ricostruire un fatto per testimonianza.
Stante alla ratio, per analogia, si dovrebbe applicare infatti l’art. 2947, che parla di prescrizione di 5 anni.
Dato che si tratta di prescrizione quinquennale, dopo 5 anni non si potrà far valere il dolo incidente.
Ovviamente, nel caso in cui, per esempio, ci sia un testo scritto che dimostri il raggiro e non è necessario
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l’intervento dei testimoni, il giudice potrebbe decidere di applicare la disciplina, che prevede la prescrizione
di dieci anni. In ogni caso, è importante ricordare che non esiste una certezza assoluta nell’interpretazione
della legge, ma un’argomentazione che riguarda l’ipotesi o che manchi un titolo, o che invece il titolo vi sia.
Il giudice potrebbe stabilire due tipi di prescrizioni diverse, nell’uno o nell’altro caso, secondo le ratio delle
norme che per analogia devono essere applicate.
In linea di principio, dobbiamo escludere che la responsabilità precontrattuale entri a pieno o nella
responsabilità contrattuale, o nella responsabilità extracontrattuale. È necessario cercare la disciplina di volta
in volta applicabile secondo quella che è la fattispecie concreta.
Videolezione 5 – La responsabilità precontrattuale (parte 4).
Attraversando le teorie che vedono la responsabilità precontrattuale inquadrata nella responsabilità
contrattuale, o extracontrattuale, vediamo quali sono le argomentazioni che da una e dall’altra parte vengono
prese in esame e vengono considerate un perno sul quale far ruotare l’inquadramento all’interno di un
sistema di responsabilità:
- C’è un obbligo nella responsabilità precontrattuale di salvaguardia verso un soggetto specifico (obbligo
tipico della responsabilità contrattuale – ci si rivolge alle “parti”);
- Nella responsabilità precontrattuale si parla di buona fede, che si spiega (secondo tradizione) all'interno di
un rapporto contrattuale, obbligatorio, tra soggetti specifici. Nel diritto romano la locuzione fidem praestare
riguarda i rapporti obbligatori.
- I soggetti sono determinati (questa caratteristica rientra nella responsabilità contrattuale)
- Il termine “devono” depone per l'inquadramento nella responsabilità contrattuale
- Quando sorge un affidamento specifico verso un soggetto, si ha un obbligo contrattuale (qualificato in
modo specifico rispetto al generale dovere di non causare danni ad altri)
- Se fosse responsabilità extracontrattuale non avrebbero senso le due norme contenute negli art. 1337 e
1338. Già ci sarebbe la norma generale, ovvero, l’articolo 2043 secondo cui qualunque fatto doloso o
colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga l’autore a risarcire i danni. Non avrebbe senso
specificare altre ipotesi.
- Se fosse responsabilità extracontrattuale non si capirebbe perché il legislatore adotti la locuzione
“responsabilità precontrattuale” nella rubrica dell'art. 1337

1)Analizziamo di seguito alcuni specifici argomenti a favore della natura contrattuale:


Con riguardo alla responsabilità precontrattuale, secondo alcuni studiosi, al limite si tratterebbe di
“responsabilità da contatto sociale”. La responsabilità da contatto sociale è una categoria di origine tedesca
che è nata per qualificare determinate obbligazioni che sorgono da un fatto. Secondo alcuni studiosi, la
responsabilità precontrattuale nascerebbe appunto da un fatto; il fatto che i soggetti si pongono in trattativa
tra di loro farebbe sorgere delle obbligazioni e questo farebbe sì che il trattamento sia quello del rapporto
obbligatorio, quindi la disciplina applicabile sarebbe quella della responsabilità contrattuale. Per la
responsabilità contrattuale deporrebbe, secondo i fautori di questa tesi, anche un argomento storico. In
particolare, un giurista dell’800, Jhering, fece studi e delineò questo tipo di responsabilità all’interno di una
responsabilità contrattuale, ovvero come se ci fosse un obbligo tra i due soggetti di rivelare le rispettive
informazioni che possano servire per escludere di cadere nella nullità, o invalidità del contratto. Le teorie di
Jhering, basate sulla culpa in contrahendo, devono considerarsi però del tutto superate, in quanto
riconducevano le fattispecie a una responsabilità contrattuale scaturente dal contratto nullo (con obbligo di
risarcimento del danno, senza possibilità di provare alcuna giustificazione), viziato da causa conosciuta ma
non comunicata. La tesi prendeva spunto non solo dal diritto romano ma anche dal codice austriaco, per il
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quale la responsabilità durante le trattative doveva essere trattata alla stessa stregua della responsabilità
scaturente degli obblighi formalizzati col contratto.
Qualche autore, nei primi anni del ‘900 parlava di un tacito accordo precontrattuale a portare avanti le
trattative. Il recesso ingiustificato dalle trattative è stato così sanzionato per la prima volta dalla
giurisprudenza (ad es.: Cass. 6 febbraio 1925) e in base a questa tesi è nata la norma dell’articolo 1337,
ovvero, la tesi che vedeva un tacito accordo tra i soggetti a portare avanti le trattative.
Queste teorie e queste analisi storiche sopra citate inquadravano questa responsabilità come responsabilità
contrattuale perché secondo questi autori c’era un accordo che accedeva al contratto, che di volta in volta
veniva in considerazione. Il tacito accordo tra le parti, o l’obbligo di informazione di Jhering, era un qualcosa
che allora rilevava ai fini della responsabilità contrattuale. Da questo argomento storico però non si può
trarre chissà che cosa, in quanto si tratta di argomentazioni che riguardano periodi precedenti al nostro
Codice civile, periodi in cui le norme avevano un inquadramento anche diverso. Questo, in particolare, è un
argomento che semplicemente dice “guardate che secondo alcuni autori c’è un obbligo”, ma il fatto che ci sia
un obbligo precedente, non significa che possiamo trarre un obbligo di questo tipo alla stregua di
un’obbligazione e quindi sanzionarlo come sanzioniamo l’inadempimento delle obbligazioni con le norme
sull’inadempimento delle obbligazioni.

2)Analizziamo di seguito alcuni specifici argomenti a favore della natura extracontrattuale:


- Tutti i doveri generici sono comportamenti doverosi, anche quelli extracontrattuali
- La concreta vicinanza delle sfere giuridiche si ha anche nella responsabilità extracontrattuale
- Manca l'individuazione di una specifica prestazione idonea a soddisfare l'interesse dell'altra parte
- Non si può conciliare la natura contrattuale con la libertà negoziale, sussistente durante le trattative, di non
essere vincolati all'altra parte
- Se fosse responsabilità contrattuale si avrebbe la presunzione di colpa, cioè di malafede, del convenuto in
giudizio, che ha effettuato il recesso ingiustificato dalle trattative (ciò contrasta con il principio per cui si
presume sempre la buona fede)
- Il precedente della norma sulla responsabilità precontrattuale si rinviene nell'art. 1151 cod. civ. 1865,
riguardante la responsabilità extracontrattuale (stesso inquadramento si aveva, già prima, nel Codice civile
francese); non esistendo delle norme specifiche, la responsabilità precontrattuale era inquadrata all’interno
della responsabilità extracontrattuale per fatto illecito.

Secondo questi presupposti, qual è però il vero metodo applicativo per risolvere i problemi? Il metodo
applicativo, come già ribadito più volte, è un metodo che richiede un certo studio per risolvere i problemi e i
giudici sembra che non sempre intendano seguirlo. Sembra piuttosto che i giudici preferiscano inquadrare la
responsabilità precontrattuale o nella responsabilità contrattuale, o nella responsabilità extracontrattuale. La
verità però è un’altra, si dovrebbe escludere un inquadramento assoluto della responsabilità precontrattuale
nell’uno, o nell’altro ambito. La stessa rubrica dell’articolo 1337, parla di responsabilità “precontrattuale”,
ovvero una responsabilità diversa rispetto a quella contrattuale ed extracontrattuale, e la disciplina
applicabile deve rintracciarsi, caso per caso, nelle norme del codice che rilevano secondo l’analogia legis.
L’articolo 12 delle preleggi, infatti, dice chiaramente che se manca la disciplina, l’interprete deve andare a
cercare una norma che regola un caso simile a una materia analoga. Se non la trova deve poi applicare i
principi generali dell’ordinamento giuridico.
Videolezione 6 – Il contratto preliminare (prima parte).

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Il contratto preliminare è una fattispecie che viene spesso utilizzata nella contrattazione, soprattutto nella
contrattazione privata alla quale ci rivolgiamo in maniera specifica. Con un contratto preliminare, un
soggetto o più soggetti (le parti) si obbligano a stipulare tra loro un successivo contratto, detto contratto
definitivo, avente un oggetto che è già predeterminato nel preliminare stesso. Ad esempio: Tizio (definito
“promittente venditore”) e Caio (definito “promissario acquirente”) si obbligano a stipulare tra loro un
contratto con il quale Tizio venderà al prezzo di 100.000 euro l’appartamento X a Caio che lo comprerà per
quel prezzo.
Il contratto preliminare ha la funzione generica di bloccare e rinviare nel tempo la stipula, tra le stesse parti,
del contratto definitivo e di stabilire, ovviamente, già l’oggetto di questo contratto definitivo, al fine di
fissarne almeno gli elementi essenziali. Per questo motivo, le parti potrebbero decidere di rinviare al
momento della stipula del definitivo la precisazione di alcuni elementi. Il preliminare basta che indichi
l’oggetto essenziale, tutti gli altri elementi accessori possono essere stabiliti con il contratto definitivo, o se il
contratto non li stabilisce, varranno stabiliti da norme di legge. Con il preliminare sorge il vincolo a stipulare
il contratto. Quando si fa un preliminare, si mette per esempio una clausola, si indica il termine finale entro
cui si farà il definitivo, a volte si inserisce già il nominativo del notaio presso cui ci si dovrà recare, a volte si
inseriscono determinate modalità di pagamento. Il preliminare può essere più o meno dettagliato, ma
l’importante è che ci sia il contenuto essenziale, ovvero l’oggetto, che deve essere già predeterminato. Nel
caso di vendita, per esempio, basta che sia indicato l’immobile e il prezzo di vendita.
Come precedentemente anticipato, funzione generica del preliminare è bloccare l’affare. Bloccare l’affare
serve anche a un eventuale mediatore che si occupa dell’affare. Se, ad esempio, i condomini decidono di
acquistare un bene che diventerà condominiale, in questo caso, spesso, ci si rivolge alle cosiddette agenzie
immobiliari (tecnicamente “mediatore immobiliare”). Il mediatore ha il compito di mettere in relazione le
parti e di far concludere un affare, concluso l’affare ha diritto al pagamento della provvigione. L’affare è
concluso non semplicemente quando le parti stanno trattando, ma quando si ha qualche scritto. Nel caso di
vendita di un immobile, secondo la giurisprudenza, la conclusione dell’affare si ha già quando è stato
stipulato un contratto preliminare. Il mediatore con il contratto preliminare blocca l’affare e da quel
momento i soggetti sono vincolati tra loro, nasce un valido vincolo tra i soggetti alla stipula del definitivo.
Quindi, la funzione del contratto preliminare di bloccare l’affare è una funzione che serve al mediatore, ma
serve soprattutto alle parti: si blocca l’affare rinviando il definitivo instaurarsi del rapporto,
procedimentalizzando l’iter di realizzazione dell’assetto di interessi a cui mirano le parti.
Il contratto preliminare va distinto dalla cosiddetta “minuta”; a volte i soggetti, durante la trattativa, mettono
per iscritto dei punti sui quali l’accordo è già concluso, ma si tratta semplicemente di una lettera in cui si
prendono appunti e ci si concorda su alcune cose. Il documento potrà servire ai fini probatori, ma non potrà
avere l’effetto di vincolare i soggetti a qualcosa, come appunto fa il contratto preliminare. È ovvio che se nel
documento le parti mettono per iscritto che tra di loro si obbligano a stipulare un contratto definitivo e non si
evince che è una minuta (per es. risulta il bene oggetto della vendita e il prezzo di vendita), quel documento
potrà essere ritenuto contratto preliminare. Il documento in questione, in questo caso, vincolerà le parti,
anche qualora le parti dovessero pensare che si tratti semplicemente di una minuta.
Nelle procedimentalizzazioni che possono portare alla stipula del contratto definitivo, possiamo passare dalla
minuta, a un preliminare del preliminare (il vincolo che i soggetti si pongono di stipulare un contratto
preliminare), al preliminare, al contratto. Si può quindi procedimentalizzare la fase e nell’autonomia
contrattuale che è concessa alle parti dal nostro ordinamento, si deve ammettere la più ampia
procedimentalizzazione.
Le funzioni specifiche del contratto preliminare sono tante, riportiamo di seguito qualche esempio:
- Valutare l’affidabilità di controparte;
- Procurarsi dei documenti rilevanti per la conclusione dell’affare;
- Procurarsi un mutuo per il pagamento del prezzo;
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- Esaminare se sussistono cause di annullamento (errori rilevanti, incapacità;
ecc.) o di nullità (es.: violazione di norme imperative) o di risoluzione (es.: vizi
della cosa).
Con riguardo alla causa in astratto, la causa del preliminare è una causa di scambio e cioè non si ammette,
genericamente, il cosiddetto “preliminare di donazione”, ovvero un preliminare che non vede uno scambio,
ma che sia un po’ unidirezionale, un preliminare che porti non tanto a uno scambio, ma a un’attribuzione a
titolo gratuito: con il preliminare di una donazione, il soggetto si obbliga a fare una donazione. Questo viene
considerato escluso. Non è facile pensare a un preliminare di una donazione, in quanto le norme sulla
donazione fanno capire come si preveda per l’ordinamento una volontà attuale di donare. Un soggetto non
può promettere di donare in futuro, la voglia di donare deve essere attuale e manifestata davanti al notaio alla
presenza di due testimoni. Esiste inoltre il divieto di donare beni futuri; la donazione non può comprendere
che beni presenti del donante ed è nulla la donazione che riguarda beni futuri. La donazione deve essere
attuale, non può riguardare qualcosa che ancora deve verificarsi. La donazione deve poi essere fatta tramite
atto pubblico, con specifiche indicazioni del valore del bene. Di conseguenza, dato che una cosa può
cambiare di valore nel tempo, questa è un’altra delle motivazioni che impediscono di ammettere nel
preliminare il preliminare di donazione (per es. cambia il valore degli immobili, o il valore dell’oro).
Promettere di donare in futuro non comporta alcun valido vincolo, proprio perché donare deve essere
qualcosa da attuare nel momento in cui ci si spoglia del bene: donare non può essere oggetto di un obbligo, la
donazione deve essere effettivamente eseguita. In alcune casistiche, solo nella misura in cui si possa parlare
di “donazione di un’obbligazione” e nella misura in cui, di conseguenza, un preliminare di donazione possa
essere attuale donazione (perché ci si obbliga al momento del preliminare), allora si può pensare a qualcosa
di valido.
Con riguardo alla causa in concreto, la causa è quello specifico, determinato, scambio posto in essere tra le
parti (ad es. lo scambio tra la promessa di vendita di un determinato bene e la promessa di comprarlo
pagando un determinato prezzo).
L’oggetto è il contenuto specifico del contratto (che, come abbiamo detto precedentemente, si confonde con
la causa in concreto).
Con riguardo alla necessità che ci sia lo scambio, non si ammette il preliminare dei contratti cosiddetti “reali
gratuiti”, che appunto sono a titolo gratuito. I contratti reali sono dei contratti che si perfezionano con la
consegna. Ad esempio, non ci si può obbligare a dare in prestito un libro (quello che noi chiamiamo prestito
è tecnicamente il contratto di comodato), non ci si può obbligare a dare in prestito l’alloggio del portiere. Se i
condomini dovessero decidere di dare in prestito l’alloggio al portiere, quel contratto nasce nel momento in
cui l’alloggio viene “consegnato”, ovvero vengono date le chiavi. Per il nostro ordinamento, i contratti reali
gratuiti si perfezionano appunto al momento della consegna, in quanto la gratuità della prestazione richiede
l’effettiva “dazione”, come causa idonea.
Videolezione 7 – Il contratto preliminare (seconda parte).
Nel 1997 è stata prevista la trascrivibilità del contratto preliminare e grazie a questo intervento sono state
introdotte nuove norme all’interno del Codice civile. Prima dell’introduzione di queste nuove norme, le
uniche norme che hanno riguardato il contratto preliminare nel Codice civile sono state gli articoli 1351 e
2932.
L’articolo 1351 è l’unica vera norma che espressamente si riferisce al contratto preliminare, tanto che la
rubrica dell’articolo 1351 è proprio intitolata “Contratto preliminare”; la norma dice: “Il contratto
preliminare è nullo se non è fatto nella stessa forma che la legge prescrive per il contratto definitivo”. È
prevista una forma ad sustantiam e cioè, in mancanza dell’osservanza di questa prescrizione in materia di
forma, il contratto è nullo: il contratto preliminare è nullo quando non risponde alla stessa forma che è
prevista dalla legge per il contratto definitivo. La norma in senso stretto prevede che sia la legge a indicare la

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forma del definitivo e questa deve essere la forma da eseguire anche per il contratto preliminare. L’onore di
forma per il contratto preliminare deve essere seguito quando la legge per il contratto definitivo prevede una
determinata forma ad sustantiam, cioè sotto pena di nullità. L’articolo 1351 è una norma non derogabile, che
prevede un onere di forma da rispettare imperativamente. Secondo il legislatore non avrebbe avuto senso
prevedere una forma per il contratto definitivo e una forma diversa per un contratto, il preliminare, che
comporta di arrivare ai medesimi effetti di quello definitivo; per esempio: con il contratto preliminare ci si
obbliga al trasferimento della proprietà e quindi all’effetto che poi si ha con il definitivo. Per questa ragione,
dice la Relazione al Re, è stata richiesta la forma scritta. Con riguardo al contratto preliminare, in
giurisprudenza e in dottrina ci si è domandati che forma deve avere la eventuale risoluzione consensuale di
un contratto preliminare; si tratta di uno dei casi per i quali la legge non prevede nulla, un vuoto legislativo.
Questo vuoto legislativo è da colmare con l’analogia e con l’analogia bisogna vedere se è effettivamente
possibile applicare qualche norma che preveda lo scritto, o qualche onere di forma per la risoluzione
consensuale del preliminare. Sciogliere un contratto preliminare non porta a un effetto traslativo per cui è
prevista la forma scritta (come nel caso della stipula del contratto preliminare), sciogliere un contratto
preliminare porta a nulla. Quindi, se prendiamo in considerazione la ragione (la ratio) dell’articolo 1351, non
possiamo applicare in via analogica questa ragione anche alla risoluzione consensuale di un preliminare.
Questo perché mentre il contratto preliminare conduce agli stessi effetti di quello definitivo (seppur in via
mediata prodotti dal contratto definitivo), con lo scioglimento consensuale del preliminare non produciamo
gli stessi effetti del definitivo; con lo scioglimento non si ha nulla e la situazione giuridica si blocca. Così, a
seguito dell’analisi delle norme da poter applicare in via analogica, si giunge alla conclusione che per la
risoluzione consensuale di un contratto preliminare non dovremmo poter applicare le norme che richiedono
la forma scritta, ciononostante per esigenze di certezza la giurisprudenza supera questo dato. Di
conseguenza, per la risoluzione consensuale di un preliminare non è previsto lo stesso adempimento formale,
ma la giurisprudenza lo richiede. Per la giurisprudenza, infatti, per la risoluzione consensuale di un
preliminare è prevista la stessa forma che è prevista per il preliminare.
Altra norma che si occupa del contratto preliminare è l’articolo 2932 del Codice civile, norma che parla
dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto. L’articolo 2932 non è una norma
dedicata solo al preliminare, essa è dedicata a tutti i casi in cui sorge un obbligo di concludere un contratto.
In particolare, la norma cita: “Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione,
l'altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo (norma derogabile), può ottenere una sentenza
che produca gli effetti del contratto non concluso.”
Dicevamo all’inizio, che nel 1997 è intervenuta una normativa che ha previsto la trascrivibilità del contratto
preliminare e quindi un’opponibilità di alcuni dei contratti preliminari, ma non di tutti. L’articolo 2645 bis è
il primo articolo interessato e prevede appunto l’opponibilità in seguito alla trascrizione del definitivo, che
deve avvenire entro tre anni al massimo. Quindi, se si vuole un effetto alla trascrizione del contratto
preliminare, il definitivo deve essere previsto entro i 3 anni rispetto alla trascrizione del preliminare,
altrimenti si perdono gli effetti della trascrizione del contratto preliminare (se è prevista la data a breve del
contratto definitivo, entro un anno da quella data deve essere per forza stipulato e trascritto il contratto
definitivo, ma in ogni caso non si possono superare i 3 anni dalla data di trascrizione del preliminare).
Norma importantissima legata alla trascrizione del preliminare è contenuta nell’articolo 2775 bis, che
prevede un privilegio a favore del promissario acquirente. In particolare, l’articolo dice: “Nel caso di
mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto ai sensi dell'articolo 2645 bis, i crediti del promissario
acquirente che ne conseguono hanno privilegio speciale sul bene immobile oggetto del contratto preliminare,
sempre che gli effetti della trascrizione non siano cessati al momento della risoluzione del contratto risultante
da atto avente data certa, ovvero al momento della domanda giudiziale di risoluzione del contratto o di
condanna al pagamento, ovvero al momento della trascrizione del pignoramento o al momento
dell'intervento nell'esecuzione promossa da terzi. Il privilegio non è opponibile ai creditori garantiti da
ipoteca relativa a mutui erogati al promissario acquirente per l'acquisto del bene immobile nonché ai creditori
garantiti da ipoteca ai sensi dell'articolo 2825 bis”. Quindi, è ovvio che se viene chiesto un finanziamento
alla banca che abbia come garanzia il bene immobile, quella garanzia alla banca non può essere tolta neanche
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con il privilegio speciale che cade sul bene immobile, privilegio speciale che permette in generale al
creditore privilegiato di ottenere il suo credito in via privilegiata rispetto a tutti gli altri creditori. Il
promissario acquirente, inoltre, non potrà far valere contro chi ha iscritto ipoteca anteriormente alla
trascrizione del contratto preliminare, alcun privilegio speciale verso questo soggetto sul bene immobile; non
sarà opponibile al creditore ipotecario che ha iscritto l’ipoteca prima della trascrizione del contratto
preliminare.
Videolezione 8 – Il contratto preliminare con effetti anticipati.
Il contratto preliminare con effetti anticipati è un contratto preliminare a cui conseguono degli effetti insoliti.
Noi sappiamo che il contratto preliminare è il contratto con cui le parti si obbligano a stipulare un contratto
definitivo in una determinata data (in assenza di data, la data sarà stabilita secondo le norme previste dal
Codice civile). Nei casi di contrattazione immobiliare o di contrattazioni di una certa importanza, la
contrattazione definitiva è spesso preceduta da una fase di contrattazione preliminare con cui le parti per
conoscersi e per cercare di bloccare l’affare stipulano un accordo con cui si obbligano a stipulare il contratto
definitivo. Le parti restano vincolate, ma il trasferimento del diritto avverrà solamente nel momento in cui
viene manifestato il consenso al contratto e al trasferimento stesso. Con il contratto preliminare si hanno solo
effetti obbligatori, non effetti reali. La proprietà non passa e il diritto non passa, si ha invece un obbligo
giuridico a concludere il contratto definitivo con cui poi si trasferirà il diritto e, nel caso di contratto
immobiliare, anche la proprietà stessa.
La fattispecie del contratto preliminare con effetti anticipati è caratterizzata da un’anticipazione di alcuni
effetti del contratto definitivo. Quando si stipula un contratto preliminare con effetti anticipati, si consegna
nelle mani del promissario acquirente, che paga una parte del prezzo, il bene (per es. l’immobile).
Se il soggetto che ha il godimento del bene chiede l’accertamento dell’avvenuta usucapione dopo 20 anni e il
convenuto (il promissario venditore) si oppone dichiarando che il suo non è possesso, bensì detenzione, il
convenuto può richiedere in via riconvenzionale la risoluzione del preliminare per grave inadempimento,
qualora il promissario acquirente non avesse pagato l’intera somma. Infatti, l’immissione nella disponibilità
del bene del promissario acquirente configura mera detenzione secondo la Cassazione, escludendosi il
possesso ai fini dell’acquisto della proprietà per usucapione. Riguardo l’inquadramento di questa fattispecie,
la Cassazione dice che esistono dei contratti accessori al contratto preliminare che devono essere qualificati
in due modi, inoltre, questi contratti accessori sono in collegamento negoziale tra di loro, sono
interdipendenti. I contratti accessori sono da un lato il comodato (per quanto riguarda la concessione
dell’utilizzazione del bene da parte del promittente venditore al promissario acquirente: una parte consegna
all’altra un bene a titolo gratuito) e dall’altro il mutuo gratuito (il promissario acquirente consegna al
promissario venditore una somma di denaro). Conseguentemente, con riferimento al comodato, la materiale
disponibilità del bene ha natura di “detenzione qualificata” (c’è un titolo della qualifica, un contratto che
permette di immettersi in questa situazione di diritto personale di godimento del bene) esercitata nel proprio
interesse. Il possesso può opporsi al promittente venditore solo dimostrando un’intervenuta interversione nel
possesso.
La pratica della contrattazione preliminare con effetti anticipati è una pratica molto diffusa nella
contrattazione immobiliare. Nelle more del procedimento che porta alla conclusione del contratto definitivo
(procedimento caratterizzato generalmente dalle verifiche sulle effettive caratteristiche del bene da un lato e
sulla solvibilità dell’acquirente dall’altro), si permette al promissario acquirente di godere del bene (a volte
solo per eseguire lavori) e al promittente venditore di ottenere una parte del prezzo. Quando si tratta di
eseguire i lavori, la situazione è più semplice, in quanto il promissario acquirente è ovvio che non possa
svolgere un’attività assimilabile a quella del proprietario, ma se ciò non viene specificato e viene detto
solamente “viene immesso nel possesso”, il promissario acquirente potrebbe ovviamente essere indotto in
errore non essendo un giurista e non essendo a conoscenza della normativa. Questo perché, per esempio, si
ritrova a pagare le bollette, a pagare la tassa per i rifiuti, o comunque a fare tutto ciò che farebbe un
proprietario su quell’immobile. In questi casi il promissario acquirente, indotto in errore, potrebbe ritenere di
essere il proprietario anche qualora sappia bene, o dovrebbe sapere bene, che in fondo il trasferimento della
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proprietà deve avvenire con un contratto definitivo e quindi, necessariamente, di diritto non può sentirsi
proprietario. Secondo la Cassazione e le sezioni unite, come precedentemente detto, la situazione
configurerebbe un collegamento negoziale tra due contratti (il comodato e il muto gratuito): il collegamento
si ha perché si ha una connessione finalistica tra i negozi che è volta al perseguimento di un interesse
economico unitario, inoltre, le parti vogliono coordinare i due contratti per ottenere non solo gli scopi singoli
di ciascuno dei due contratti, ma uno scopo ulteriore e autonomo rispetto a quelli che sono gli effetti di
ciascun negozio.
La posizione giuridica in cui si colloca il promissario acquirente non è secondo la Cassazione assimilabile a
quella di un possessore, ma piuttosto assimilabile alla situazione in cui si trova il comodatario (o meglio
ancora, il locatore). Il promissario acquirente è detentore qualificato e di conseguenza non è applicabile la
disciplina del possesso di buona fede quanto all’acquisto dei frutti, o all’usucapione, in quanto è detenzione e
non possesso; si ha un diritto personale di godimento, non un diritto reale come nel caso della proprietà.
Nonostante la Cassazione assimili la posizione giuridica in cui si trova il promissario acquirente a quella del
comodatario, la situazione non può assimilarsi a un comodato e vediamo quali sono gli errori della
configurazione fatta da parte della Corte di Cassazione:
- Mancano
a) La spontaneità connessa alla gratuità (non si può obbligare il proprietario a dare in comodato la
cosa)
b) La facoltà di recesso (per es. nel caso di comodato, io do in prestito un libro e posso
tendenzialmente richiederlo indietro – in questo caso questo non può avvenire, non si può
richiedere indietro il bene dato al promissario acquirente in virtù di un contratto preliminare con
effetti anticipati)
c) La garanzia per i vizi simile a quella che si ha per la donazione
d) Il perfezionamento del comodato si ha con la consegna (il comodato è un contratto reale, che
appunto si perfeziona con la consegna) – nel caso di contratto preliminare il perfezionamento del
contratto si può avere già con l’obbligo a consegnare la cosa
Inoltre, la situazione del promittente venditore è diversa da quella del soggetto che concede la cosa in
comodato.
Per quanto riguarda il pagamento anticipato del prezzo, anche qui non convince la configurazione come
“mutuo gratuito” perché manca a) la gratuità (viene pagata parte del prezzo e non per finanziare
gratuitamente il destinatario del pagamento, come sarebbe nel caso di mutuo gratuito - il pagamento, per
altro, non deve legarsi necessariamente alla concessione del godimento immediato del bene, perché potrebbe
essere legato al fatto che si dà una parte di prezzo che poi diventa un anticipo della contrattazione definitiva)
e b) non si tratta di un contratto reale, che si perfeziona appunto con la consegna come invece è il mutuo
gratuito (non ci si può obbligare a dare un mutuo gratuito, mentre ci si può obbligare a pagare una somma in
caso di contrattazione preliminare).
Di conseguenza, l’inquadramento corretto deve essere diverso. La causa che regge ogni singola operazione
tendente ad anticipare gli effetti del definitivo è permeata dalla principale causa della contrattazione, fondata
sullo scambio delle promesse di vendita e di acquisto, non certo da un mutuo gratuito connesso a un
comodato. Non si tratta quindi di singoli contratti collegati: le operazioni in esame non si possono inquadrare
in modo separato l’una dall’altra. Esse restano in vigore se resta in piedi la promessa centrale, mentre cadono
qualora questa venga meno. È tutto sorretto dalla causa della contrattazione preliminare. Se viene meno la
causa della contrattazione preliminare, o se un soggetto dimostra di non voler più fare il definitivo, allora si
può risolvere tutto e viene tutto meno.
Se per caso viene tutto meno e si risolve il contratto preliminare, per le restituzioni si devono applicare le
norme sulle restituzioni legate agli indebiti: il proprietario deve essere adeguatamente indennizzato perché ha
perduto il godimento del bene per un determinato periodo e deve restituire i soldi; il proprietario deve avere

117
quanto meno come indennizzo almeno una somma pari a quello che sarebbe il prezzo di locazione per il
periodo di effettivo godimento del bene.
Videolezione 9 – Le condizioni generali di contratto e clausole vessatorie.
Le condizioni generali di contratto sono condizioni che consentono di contrattare in modo rapido con una
generalità di soggetti: ci sono delle regole che sono poste tendenzialmente a tutela della rapidità dei traffici
commerciali per rendere veloce la contrattazione quando si tratta di contrattare con una pluralità di soggetti.
Prendiamo come esempio la situazione nella quale si trova un produttore di prodotti vitivinicoli, che deve
trasportare questi prodotti per inviarli di volta in volta ai propri clienti che li abbiano acquistati. In questo
caso si servirà di un’impresa di trasporti e questa impresa di trasporti avrà predisposto delle condizioni
generali di contratto, che si applicano automaticamente al rapporto con il soggetto che chiede un determinato
trasporto. Secondo il nostro Codice civile, il soggetto che ha la possibilità di predisporre delle condizioni
generali di contratto (il predisponente), ha ovviamente degli oneri, in quanto predisporre di condizioni
generali di contratto significa avvalersi di un vantaggio: tramite le condizioni generali di contratto il
predisponente evita di volta in volta di contrattare con ogni singolo utente. Con riguardo ai soggetti che
aderiscono al contratto invece, essi sono gli “aderenti” e costituiscono la massa dei possibili interessati a quel
determinato servizio e a quel determinato prodotto offerto. Per questo motivo si parla di contrattazione di
massa, di contrattazione standard in relazione alle condizioni generali di contratto.
La norma dice che: “Le condizioni generali di contratto sono efficaci nei confronti dell’aderente se al
momento della conclusione del contratto questi le conosceva, o avrebbe dovuto conoscerle usando
l’ordinaria diligenza”. Di conseguenza, è onere del soggetto che le predispone (il predisponente) e che vuole
che siano applicabili a tutti, renderle conoscibili secondo l’ordinaria diligenza. In mancanza
dell’adempimento qui indicato e cioè della possibilità della conoscibilità secondo l’ordinaria diligenza delle
clausole (per es. se le condizioni generali non vengono appese al muro, ma per esempio vengono appese in
una saletta chiusa a chiave, neanche con l’ordinaria diligenza l’utente potrebbe andare a leggerle), l’altra
parte potrebbe dire di non aver avuto, secondo l’ordinaria diligenza e quindi in maniera ordinaria, la
possibilità di leggere le condizioni generali, che di conseguenza, non sono applicabili, sono inesistenti.
Ricordiamo infatti che, se manca l’accordo su una clausola e manca quindi l’adempimento, manca il
requisito che porta al vincolo contrattuale e la clausola è da considerarsi inesistente; non si forma il vincolo
contrattuale (l’accordo) su quella clausola. È onere quindi di chi predispone condizioni generali di contratto,
renderle conoscibili secondo l’ordinaria diligenza.
In alcuni casi, ci sono delle condizioni generali che la legge ritiene particolarmente gravi; queste clausole
sono definite clausole vessatorie. Le clausole sono definite “vessatorie” perché “vessano”, ovvero, danno dei
pesi in più a carico tendenzialmente dell’aderente, oppure, prevedono dei vantaggi a favore del
predisponente. A un vantaggio a favore di una parte corrisponde sempre un sacrificio. Il Codice civile
prevede alcune condizioni generali di contratto che, perché possano considerarsi efficaci, devono non solo
essere rese conoscibili secondo l’ordinaria diligenza, ma devono prevedere anche un onere in più, un
adempimento in più; per alcune clausole serve una specifica sottoscrizione e sono delle clausole che per
questo motivo sono considerate dal legislatore particolarmente gravose. Le clausole vessatorie sono nulle se
non specificamente approvate per iscritto.
L’elenco delle clausole vessatorie prevede clausole che stabiliscono a favore del predisponente e clausole
che stabiliscono a carico dell’aderente.
Clausole che stabiliscono a favore del predisponente:
- Limitazioni di responsabilità (l’approvazione per iscritto può valere solo per gli esoneri, o per le
limitazioni della responsabilità, che non derivino né da dolo, né da colpa grave, ma derivino invece
da una negligenza meno grave e lieve – per es. nel caso in cui si sia richiesta una diligenza maggiore,
che non si è verificata);
- Facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione

118
Clausole che stabiliscono a carico dell’aderente:
- Decadenze più restrittive rispetto a quelle previste dalla legge;
- Limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni;
- Restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi;
- Tacita proroga o rinnovazione del contratto;
- Clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria
Tutte le clausole qui sopra elencate, sia quelle a favore del predisponente, sia quelle a carico dell’aderente,
non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto quando sono predisposte con condizioni
generali. Serve quindi una sottoscrizione (approvazione) separata, distinta da quella che riguarda le altre
condizioni. Deve essere garantita l’attenzione dell’aderente su ogni singola clausola vessatoria. È consentito
il richiamo al solo numero della clausola, ma non è ammesso, a tal fine, il richiamo in blocco e tutte le
clausole del contratto, o a una gran parte di esse. Si devono richiamare le singole clausole vessatorie. Ciò non
riguarda ovviamente le clausole che invece sono concordate dalle parti, per le quali vi è stata una
predisposizione concorde, e non riguarda neanche i contratti stipulati per atto pubblico (non si tratta più di
condizioni generali di contratto predisposte e rese semplicemente conoscibili, ma sono clausole tutte
concordate davanti a un notaio).
Videolezione 10 – Le condizioni generali di contratto del Prof. Bianca
Le condizioni generali di contratto sono le clausole che un soggetto, il predisponente, utilizza per regolare
uniformemente i suoi rapporti contrattuali. Il predisponente è di solito un imprenditore che utilizza le
clausole generali per disciplinare in modo uniforme i rapporti di erogazione di beni e servizi alla clientela. Il
fenomeno delle condizioni generali si è esteso al punto che difficilmente i consumatori possono accedere a
beni o servizi senza sottostare ai regolamenti contrattuali che le imprese predispongono in forma di clausole
contenute in moduli, formulari o avvisi.
Le condizioni generali sono efficaci nei confronti dell’aderente se al momento della conclusione del
contratto questi le conosceva o avrebbe dovuto conoscerle usando l'ordinaria diligenza (art. 13411 c.c.). La
misura dell’ordinaria diligenza deve riportarsi ad un criterio di normalità, con riferimento a ciò che è normale
attendersi dalla massa degli aderenti in relazione al tipo di operazione economica. L'applicazione di questo
criterio esclude che all' aderente possa richiedersi un particolare sforzo o una particolare competenza per
conoscere le condizioni generali usate dal predisponente. Le condizioni generali normalmente non
conoscibili sono senza effetto nei confronti dell’aderente. Le condizioni generali devono essere interpretate
secondo i criteri di interpretazione valevoli per il contratto (art. 1362 s. c.c.). Una particolare regola
interpretativa valevole per le condizioni generali è quella che in caso di dubbio impone di adottare
l'interpretazione più favorevole all'aderente (art. 1370 c.c.).
Le clausole vessatorie sono condizioni generali che aggravano la posizione dell’aderente rispetto alla
disciplina legale del contratto. La legge prevede una serie di clausole vessatorie e ne condiziona l'efficacia
alla specifica approvazione scritta dell’aderente (art. 13412 c.c.). Precisamente, non hanno effetto per
l'aderente senza la sua specifica approvazione per iscritto le condizioni che stabiliscono a favore del
predisponente a) limitazioni di responsabilità; b) facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l'
esecuzione, ovvero che stabiliscono a carico dell'aderente: c) decadenze; d) limitazioni alla facoltà di opporre
eccezioni; e) restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi; f) proroghe tacite o rinnovazioni del
contratto; g) clausole compromissorie e deroghe alla competenza dell' autorità giudiziaria. È opinione
generalmente seguita che la previsione dell'onere formale della specifica sottoscrizione riguardi
esclusivamente le clausole indicate dalla legge e che non possa estendersi analogicamente ad altre clausole
egualmente gravose (tassatività delle ipotesi normativamente previste). In mancanza della specifica
approvazione per iscritto la clausola vessatoria è priva di effetto pur se l'aderente ne abbia preso effettiva
conoscenza al momento della conclusione del contratto. La specifica approvazione per iscritto non si ritiene
necessaria quando la clausola vessatoria sia stata negoziata dalle parti.

119
Già da tempo la dottrina aveva avvertito che il problema posto dal fenomeno delle condizioni generali di
contratto è quello di tutelare gli aderenti contro la regolamentazione abusiva dei rapporti contrattuali, e cioè
contro l'abusivo aggravamento della posizione del contraente debole. I diversi tipi di controllo sostanziale dei
contratti d'impresa o addirittura la totale mancanza di un tale controllo avevano creato una situazione di
disparità tra gli imprenditori dei paesi europei e avevano reso necessario un intervento comunitario volto a
uniformare sul punto le legislazioni nazionali. L'intervento si è avuto con la Direttiva n. 93 del 5 aprile 1993,
che ha imposto agli Stati membri di adottare una tutela contrattuale minima del consumatore nei confronti
del professionista In esecuzione della Direttiva comunitaria la legge 6 febbraio 1996, n. 52, ha dettato la
disciplina dei «contratti del consumatore» immettendola nella normativa codicistica dei contratti in generale
(art. 1469 bis s.), e inserendola infine nel codice del consumo, emanato col d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206
(art. 33 s.). Punti salienti di questa disciplina sono: l'ambito oggettivo, esteso a tutte le clausole contrattuali,
anche se non integranti condizioni generali di contratto; l'ambito soggettivo, limitato ai contratti stipulati tra
professionisti e consumatori; il divieto di inserimento di clausole vessatorie nei singoli contratti e
conseguente nullità delle stesse; la tutela inibitoria contro la predisposizione di condizioni generali di
contratto vessatorie. In tal modo la nuova normativa ha previsto una duplice tutela sostanziale dei
consumatori: una tutela individuale, che può essere fatta valere mediante l'accertamento giudiziale della
vessatorietà delle clausole inserite nei singoli contratti, ed una tutela collettiva, volta a impedire in via
preventiva l'inserimento di condizioni generali di contratto nei singoli contratti.
A differenza della norma dell'art. 1341 cc, che fa esclusivo riferimento alla posizione delle parti nella
formazione del contratto (il predisponente e l'aderente), la nuova normativa ha riguardo alle figure del
professionista e del consumatore. Ai fini dell’applicazione della disciplina a tutela del consumatore,
professionista è il produttore o distributore di beni o servizi che realizza il contratto nel quadro della sua
attività imprenditoriale o professionale. Il consumatore, per converso, è la persona fisica che non agisce nel
quadro della sua attività professionale (art. 3 lett. a).
La normativa sui contratti del consumatore definisce in generale come vessatorie le clausole che, «malgrado
la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi
derivanti dal contratto» (art. 331). Il significativo squilibrio che connota la vessatorietà non attiene alle
determinazioni dell’oggetto e del corrispettivo. La normativa sui contratti del consumatore ha infatti inteso
rimettere tali determinazioni al giuoco del libero mercato e della concorrenza, fermo l'onere del
professionista di formularle in modo chiaro e comprensibile. Ciò da cui il consumatore dev'essere protetto è
piuttosto l'abuso del potere regolamentare del contratto. La vessatorietà è pertanto esclusa in relazione alle
clausole che sono state «oggetto di trattativa individuale», e cioè sono il risultato di una negoziazione tra le
parti, dovendosi intendere per trattativa non la discussione del testo ma lo scambio di proposte e
controproposte culminante in apprezzabili concessioni da parte del professionista. Senz' altro lecite sono poi
le clausole che riproducono norme di legge o di trattati internazionali vincolanti gli Stati dell'Unione Europea
o che attuano principi di tali trattati. Tali clausole non sono vessatorie in quanto la conformità alle leggi o ai
recepiti principi internazionali ne esclude in radice l'abusività.
L'accertamento della gravosità delle singole clausole è agevolato dalla legge, che prevede un elenco di
clausole presuntivamente vessatorie (c.d. lista grigia). Le clausole rientranti in questo elenco si presumono
vessatorie fino a prova contraria. L'onere di tale prova incombe sul professionista, ma la non vessatorietà
della clausola nel caso concreto può anche essere rilevata direttamente dal giudice. L'elenco, comprendente
20 clausole, non è tassativo. Clausole presuntivamente vessatorie sono quelle che ad es.: a) escludono o
limitano la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante
da un fatto o da un' omissione del professionista; b) escludono o limitano le azioni o i diritti del consumatore
nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso d'inadempimento totale o parziale o di
adempimento inesatto da parte del professionista; c) escludono o limitano l' opponibilità da parte del
consumatore della compensazione di un debito nei confronti del professionista con un credito vantato nei
confronti di quest'ultimo; d) prevedono un impegno definitivo del consumatore mentre l'esecuzione della
prestazione del professionista è subordinata ad una condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla
sua volontà; e) consentono al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se
120
quest'ultimo non conclude il contratto o ne recede, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal
professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a
recedere; f) impongono al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell'adempimento, il
pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente
d'importo manifestamente eccessivo; ecc. Una parziale deroga alla norma sulla lista grigia è sancita dal
codice con riguardo ai contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi finanziari e valori mobiliari. Le
clausole vessatorie sono nulle, ferma l'efficacia del contratto per la restante parte (art. 361 cod. cons.). La
nullità è sancita in favore esclusivo del consumatore e può essere rilevata d'ufficio dal giudice (art. 363 cod.
cons.).
Le clausole contrattuali devono essere formulate dal professionista «in un modo chiaro e comprensibile» (art.
351 cod. cons.). Il testo della norma conferma che l'onere del professionista non si limita a fare conoscere al
consumatore il testo delle clausole ma richiede ulteriormente l’utilizzazione di clausole «intellegibili».
L'inosservanza dell'onere di “parlar chiaro” può dar luogo a clausole incomprensibili o a clausole ambigue,
di cui sia dubbio il significato. Le clausole ambigue vanno interpretate nel significato più favorevole al
consumatore (art. 362 cod. cons.), conformemente alla regola dettata in tema d'interpretazione delle clausole
inserite in condizioni generali di contratto, moduli o formulari. Quelle insuscettibili di essere comprese da un
soggetto di media capacità e intelligenza devono invece ritenersi non incluse nel contenuto del contratto. Un
peculiare effetto del difetto di trasparenza è quello di attrarre nella valutazione della vessatorietà le clausole
che determinano l'oggetto o il corrispettivo (art. 342 cod. cons.). Lo squilibrio a carico del consumatore
dovrà allora essere corretto dichiarando l'inefficacia della clausola oscura (ad es.: la clausola diretta a
restringere irragionevolmente il rischio assicurato) e, se del caso, riportando ad equità il rapporto (ad es.:
sostituendo un prezzo equo al prezzo difficilmente percettibile nel suo ammontare).
Un'importante novità introdotta dalla disciplina dei contratti del consumatore è rappresentata dall' azione
inibitoria, intesa a rimuovere le clausole abusive dai testi delle condizioni generali di contratto (art. 37 cod.
cons.). Questa azione inibitoria si caratterizza come un rimedio collettivo in quanto non tutela il consumatore
quale parte di un determinato contratto ma tutela i destinatari delle condizioni generali di contratto, cioè la
generalità dei soggetti i cui rapporti contrattuali sono destinati ad essere regolati dalle condizioni generali
predisposte dal professionista. L'azione è diretta a fare inibire dal giudice l'uso delle condizioni generali di
contratto di cui sia accertata la vessatorietà. Conformemente al suo carattere collettivo l'azione inibitoria è
esercitabile non dal singolo consumatore ma dalle associazioni rappresentative dei consumatori e dei
professionisti nonché dalle camere di commercio.
La tutela del consumatore quale parte contrattuale debole si è aperta alla visione di una tutela globale dei
suoi rilevanti interessi. Questa tutela, già attuata su altri piani – sancendo ad es. la responsabilità oggettiva o
aggravata per i danni da prodotti difettosi – è stata formalmente proclamata dalla legge sui diritti dei
consumatori e degli utenti del 30 luglio 1998, n. 281, trasfusa nel codice del consumo. Il codice del consumo
riconosce e garantisce i diritti dei consumatori, specificandoli e indicandoli come diritti fondamentali. Gli
interessi protetti attengono alla salute, alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi, ad un’adeguata
informazione e ad una corretta pubblicità, all' educazione al consumo, alla correttezza, trasparenza ed equità
nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi, alla promozione e allo sviluppo dell'associanismo libero,
volontario e democratico tra i consumatori, all' erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di
efficienza (art.2 cod. cons.). Particolarmente significativa appare l'indicazione del diritto dei consumatori alla
correttezza nei rapporti contrattuali. Essa conferma che la tutela contro l'abuso del potere contrattuale del
professionista trova il suo referente nel precetto della buona fede.
Il dato caratterizzante della subfornitura si coglie nella dipendenza economica del subfornitore nei confronti
del committente. Il subfornitore, infatti, organizza la propria attività in funzione della lavorazione dei
semilavorati del committente o della sua materia prima ovvero della fornitura di beni o servizi conformi ai
progetti esecutivi o alle istruzioni tecniche del committente, ed è condizionato alla domanda di quest'ultimo
nonché al rapporto instaurato, insuscettibile di essere rimpiazzato mediante la cessione delle prestazioni a
terzi. A tutela del subfornitore la legge detta particolari prescrizioni a) sulla forma del contratto, b) sulla
121
determinatezza del contenuto, c) sui termini di pagamento del subfornitore, e prevede d) la nullità di alcune
tipiche clausole vessatorie (l. 18 giugno 1998, n. 192).
Argomento 13
Videolezione 1 – La forma del contratto.
La forma del contratto è il mezzo attraverso il quale le parti manifestano il loro consenso. Le principali forme
di contratto sono: l’atto pubblico; la scrittura privata; la forma orale; il comportamento concludente. La
regola generale è quella della libertà di forma, cioè le parti sono libere di manifestare il loro consenso con
qualsiasi mezzo idoneo. L’importante, ovviamente, è che ci sia questa idoneità e cioè che il mezzo prescelto
valga a esternare obiettivamente e socialmente la volontà delle parti.
Abbiamo detto che la regola generale è quella della libertà di forma, ma questa è una regola largamente
derogata perché vi sono numerosi contratti per i quali invece la legge richiede una determinata forma a pena
di nullità, o come si suol dire, ad sustantiam. Questi contratti vengono chiamati contratti formali, o contratti
solenni. Qui la forma è un elemento costitutivo del contratto: senza quella determinata forma il contratto è
reputato dalla legge nullo. I contratti formali sono contratti che si dividono, almeno in via principale, in due
categorie: i contratti che richiedono l’atto pubblico a pena di nullità e contratti che richiedono la scrittura
privata (che normalmente sono stipulati per atto pubblico). Contratti che richiedono l’atto pubblico a pena di
nullità sono per esempio: la donazione; la società per azioni; le convenzioni matrimoniali. Latto pubblico è il
documento che è redatto da un notaio, o da un altro pubblico ufficiale, autorizzato ad attribuirgli pubblica
fede. Con pubblica fede si intende che l’atto ha efficacia probatoria piena. L’atto pubblico, precisamente, fa
piena prova - fino a querela di falso - di ciò che in esso è documentato, ossia della provenienza del
documento dal pubblico ufficiale, delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale
attesta essere avvenuti in sua presenza. Quindi, la pubblica fede non riguarda il contenuto delle dichiarazioni
delle parti, ma riguarda il fatto che le dichiarazioni sono state rese dinanzi al notaio. Di conseguenza, per
esempio, la parte non potrebbe dire “Io non ho dichiarato di voler vendere” nonostante l’atto pubblico
contenga menzione della sua dichiarazione. Per contestare l’atto pubblico occorre la querela di falso e cioè la
denunzia intesa a dimostrare che il notaio ha falsamente inserito nell’atto la dichiarazione della parte, che
invece non aveva dichiarato quanto risulta da quell’atto.
Altra forma contrattuale è rappresentata dalla scrittura privata, o atto scritto. Per scrittura privata o atto
scritto s’intende il documento firmato dall’autore o dagli autori dell’atto. Di regola non è necessaria
l’autografia della dichiarazione (non è necessario che gli autori dell’atto scrivano di pugno la scrittura
privata), che può essere scritta da un terzo o a macchina. Ciò che importa è invece che sia autografa la firma
con la quale il soggetto sottoscrive il testo. L’onere minimo della scrittura privata è richiesto a pena di nullità
principalmente per le alienazioni immobiliari e per gli altri dispositivi di diritti reali immobiliari.
Abbiamo visto che i contratti formali sono quei contratti per i quali la forma è richiesta a pena di nullità. Vi
sono tuttavia anche contratti formali in cui la forma è richiesta solamente a fini probatori (o ad probationem).
Qui la forma non è un elemento costitutivo del contratto ma un onere richiesto ai fini della prova
dell'avvenuta stipulazione di esso (ad es.: il contratto di alienazione dell'azienda deve essere provato per
iscritto: art. 25561 c.c.). La mancata osservanza dell’onere formale non impedisce comunque che il contratto
sia validamente stipulato e che possa darsene la prova mediante un documento ricognitivo o mediante la
confessione.
La necessità della forma ai fini della validità, o per la prova del contratto, generalmente ha la sua fonte nella
legge. È tuttavia anche possibile che sia la stessa autonomia privata a prevedere la necessità di determinate
forme della manifestazione di volontà, in deroga al principio della libertà delle forme. È perfettamente
ammissibile, quindi, che ci siano forme volontarie volute dalle parti, o stabilite, quando ciò è possibile, in un
atto unilaterale. Si presume che la forma volontaria sia voluta per la validità del negozio.
Nel campo delle forme contrattuali, una grossa novità è costituita dai contratti telematici. I contratti
telematici sono i contratti stipulati in via telematica, ossia mediante l'uso di un elaboratore elettronico, o
122
computer. La novità telematica è data dalla forma elettronica usata, ma questa non solleva particolari
problemi in relazione agli atti e contratti a forma libera, i quali, come possono essere stipulati per telefono o
per telefax, ben possono essere stipulati mediante computer. Una legge del 1997 (la l, 15 marzo 1997, n. 59),
ha sancito il principio della validità e rilevanza a tutti gli effetti degli atti pubblici e privati attuati con
strumenti telematici o informatici conformi ai requisiti di legge. Per questa via è stato dato ingresso ad un
documento non cartaceo che, pur essendo privo di firma autografa, è formalmente equivalente alla scrittura
privata. I requisiti legali del documento telematico o informatico sono stati successivamente specificati da
altri interventi legislativi, e da ultimo dal codice dell’amministrazione digitale dove è prevista la “firma
digitale” che attesta l’autenticità e integrità del documento. La firma digitale è definita come una firma
elettronica qualificata, basata su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra
loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica,
rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico
o di un insieme di documenti informatici (art. 1, lett. s). La firma digitale si presume legalmente
riconducibile al titolare, salvo che questi ne dia prova contraria.
Videolezione 2 – Il contenuto e l’efficacia del contratto.
Il contenuto del contratto comprende ciò che le parti stabiliscono sia in ordine ai risultati materiali sia in
ordine agli effetti giuridici. Il contenuto del contratto in senso sostanziale si identifica nell’oggetto del
contratto. Il codice richiede che l’oggetto del contratto sia possibile, lecito, determinato o determinabile (art.
1346 c.c.). La possibilità deve intendersi sia in senso fisico o materiale sia in senso giuridico. L’oggetto del
contratto è materialmente possibile quando è astrattamente suscettibile di attuazione. Il giudizio di
possibilità, precisamente, non riguarda la concreta attitudine delle parti ad assolvere l’impegno assunto ma
l’astratta realizzabilità di tale impegno, sia pure con l’impiego di uno sforzo diligente superiore al normale. Il
giudizio di possibilità non esige l’attuale esistenza del bene previsto. Il contratto può infatti avere ad oggetto
un bene futuro. L’inesistenza del bene comporta impossibilità originaria del contratto solo quando ha per
oggetto un bene insuscettibile di esistenza o di identificazione.
Il contenuto del contratto è di regola determinato dalle parti, tuttavia, è anche possibile che le parti, con
riguardo ai singoli elementi del contratto, ne affidino la determinazione a un terzo. Infatti, i contraenti
possono stabilire che il rapporto contrattuale sia determinato da un terzo (art. 1349 c.c.). La legge prevede,
precisamente, la possibilità che le parti deferiscano al terzo di determinare la prestazione dedotta in contratto,
ma si ritiene comunemente che la determinazione del terzo possa comprendere qualsiasi elemento del
rapporto contrattuale. Se non è diversamente stabilito, si presume per legge che le parti intendono affidarsi
all’equo arbitrio del terzo, e cioè che il terzo debba procedere secondo il criterio del contemperamento degli
interessi dei contraenti. Se le parti si affidano al mero arbitrio del terzo, questi può invece procedere alla
determinazione del contratto secondo la su libera scelta. Quando le parti si erano rimesse al mero arbitrio del
terzo, se questi non può o non vuole procedere alla determinazione, e le parti non si accordano per la sua
sostituzione, il contratto deve considerarsi nullo. Questa nullità del contratto deriva dalla impossibilità di
determinare un elemento del rapporto contrattuale. La legge non prevede la sostituzione giudiziale del terzo
in quanto il deferimento delle parti al suo mero arbitrio sta ad indicare che esse si sono fidate esclusivamente
del suo giudizio. La determinazione fatta da altro terzo non potrebbe quindi considerarsi sostanzialmente
equivalente a quella originariamente prevista. Non trova allora applicazione il principio di conservazione del
contratto. Quando le parti non si rimettono al mero arbitrio del terzo, l’equa determinazione del terzo può
essere sostituita dall’equa determinazione del giudice. La determinazione del terzo quale equo arbitratore è
nulla quando essa sia manifestamente iniqua o erronea (art. 13491 c.c.). Altra e più grave causa di nullità
della determinazione del terzo è la mala fede. La mala fede rende nulla la determinazione anche se si tratta di
determinazione rimessa al mero arbitrio del terzo (art. 13492 c.c.). Per mala fede deve intendersi la voluta
parzialità della determinazione a favore di uno dei contraenti.
Parlando del contenuto del contratto, una menzione va fatta alle clausole d’uso, o usi negoziali. Le clausole
d'uso o usi negoziali sono pratiche generalizzate degli affari. Le clausole d'uso s'intendono inserite nel
contenuto del contratto salvo che risulti che esse non sono state volute dalle parti (art. 1340 c.c.). Le clausole
123
d'uso sono quindi considerate come clausole contrattuali, e come tali prevalgono sulle norme dispositive di
legge. Gli usi negoziali possono, ad es. prevedere la variabilità della quantità o della qualità della merce
entro determinati limiti di tolleranza, l'obbligo di restituire i contenitori, la garanzia di buon funzionamento,
ecc. Gli usi negoziali trovano applicazione senza che occorra la prova che le parti li abbiano conosciuti e
accettati.
Nel nostro ordinamento, elemento essenziale del contratto è la causa. La causa è la ragione pratica del
contratto, cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare. La causa si distingue rispetto all'
oggetto del contratto. L'oggetto indica il programma, ossia il contenuto dell'accordo delle parti, mentre la
causa indica l'interesse che tale programma è volto a soddisfare. La causa costituisce il fondamento della
rilevanza giuridica del contratto. Affinché il contratto sia riconosciuto come giuridicamente impegnativo non
è sufficiente che sussista l'accordo ma occorre anche che l'accordo sia giustificato da un interesse
apprezzabile. È in questo senso che la causa diviene elemento essenziale del contratto. Se manca l’interesse
apprezzabile, il contratto deve considerarsi nullo. Sebbene sia diffuso il riferimento alla causa tipica, quale
astratta funzione economico-sociale del negozio, occorre piuttosto riconoscere nella causa la ragione
concreta del contratto. In tal senso è decisivo osservare che la nozione di causa quale funzione pratica del
contratto può avere una sua rilevanza solo in quanto si accerti la funzione che il singolo contratto è diretto ad
attuare. Ora, rispetto al singolo contratto, ciò che importa sapere è la funzione pratica che effettivamente le
parti hanno assegnato al loro accordo. Ricercare l'effettiva funzione pratica del contratto vuol dire,
precisamente, ricercare l'interesse concretamente perseguito. Non basta, cioè, verificare se lo schema usato
dalle parti sia compatibile con uno dei modelli contrattuali ma occorre ricercare il significato pratico
dell’operazione con riguardo a tutte le finalità che - sia pure tacitamente - sono entrate nel contratto. Tenendo
conto della causa concreta che il contratto è diretto a realizzare è possibile anzitutto valutare la meritevolezza
sociale dell'interesse perseguito. Tale valutazione presuppone infatti che si sia accertato quale interesse o
complesso di interessi stanno realmente alla base dell’operazione negoziale.
Rispetto alla causa, vanno distinti i motivi delle parti. I motivi sono gli interessi che la parte tende a
soddisfare mediante il contratto ma che non rientrano nel contenuto di questo. I motivi sono di regola
irrilevanti in quanto le finalità esterne al contenuto del contratto non possono incidere sui diritti ed obblighi
delle parti senza compromettere di massima l'esigenza di certezza della regola contrattuale. I motivi
acquistano rilevanza giuridica se non rimangono nella sfera interna di ciascuna parte ma si obiettivizzano nel
contratto, divenendo interessi che il contratto è diretto a realizzare. Gli interessi che il contratto è diretto a
realizzare non sono per altro meri motivi ma, in buona sostanza, sono interessi che concorrono a integrare la
causa concreta del contratto. Di semplici motivi, o motivi in senso proprio, può invece parlarsi, secondo la
nozione sopra segnalata, con riguardo agli interessi che non rientrano nel contenuto del contratto. Anche i
motivi propriamente detti possono avere una determinata rilevanza. In particolare, la legge sanziona
espressamente la nullità del contratto quando le parti s'inducono a concludere il contratto esclusivamente per
un motivo illecito comune ad entrambe (art. 1345 c.c.). Va poi ricordato che l'errore sul motivo è causa di
annullabilità del testamento (art. 6242 c.c.) e della donazione (art. 787 c.c.) quando il motivo risulta dall' atto
e sia stato il solo a determinare il suo compimento.
Nel tema del contratto, una figura che ha trovato ingresso nelle applicazioni giurisprudenziali, è quella della
presupposizione. La presupposizione è una circostanza esterna che senza essere prevista quale condizione del
contratto ne costituisce un presupposto oggettivo. Es.: il contratto di vendita viene stipulato sul presupposto
che il compratore ottenga o è certo che otterrà un determinato finanziamento pubblico senza che tale
circostanza sia indicata come una condizione del contratto. Il venir meno della presupposizione importa il
rimedio del recesso unilaterale a favore della parte per la quale il vincolo contrattuale è divenuto intollerabile
o inutile. Il recesso può essere esercitato anche nell'ipotesi in cui il presupposto obiettivo del contratto sia già
in origine inesistente o impossibile a verificarsi.
I contratti si distinguono in contratti causali e in contratti astratti. Il contratto astratto è il contratto che si
perfeziona a prescindere dalla causa, mentre il contratto causale è il contratto che ha la causa come suo
elemento essenziale e che quindi non può perfezionarsi in assenza di essa. Sappiamo dalla norma che ci dice
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quali sono gli elementi essenziali del contratto, che la causa è di regola elemento essenziale del contratto.
L’astrattezza, di conseguenza, rappresenta un’anomalia del sistema e comunque un’eccezione che può
rilevare solo in quanto prevista dalla legge. Quando parliamo di astrattezza, intendiamo riferirci
all’astrattezza sostanziale, ovvero l’astrattezza che prescinde dall’elemento della causa. L’astrattezza
sostanziale non va confusa con l’astrattezza, o astrazione processuale, la quale esprime semplicemente
l'esonero dalla prova della causa del negozio. Un ricorrente esempio di questa astrazione è dato dalla
promessa di pagamento (art. 1988 cc). La promessa dispensa il destinatario di essa dall' onere di provare il
rapporto sottostante. Il promittente può per altro provare che la causa è insussistente o che è illecita. In tal
caso si accerta che la promessa non ha prodotto l'effetto suo proprio e che il promittente non è quindi
obbligato nei confronti del promissorio. La regola della causa quale requisito essenziale del contratto esprime
una generale soluzione negativa verso l'astrattezza sostanziale. La regola causale non si applica tuttavia
sempre col medesimo rigore e talvolta essa cede ad altre esigenze della vita di relazione. Il massimo rigore
della regola causale si coglie nei negozi traslativi di diritti reali immobiliari. Tali negozi sono infatti
assoggettati all' onere minimo della forma scritta, la quale comprende anche l'elemento causale. Se quindi la
causa non risulta dal contenuto del contratto, questo deve reputarsi nullo. Per i contratti che prevedono
l'alienazione di altri diritti o la prestazione di servizi, che non richiedono una determinata forma in ragione
del loro oggetto, la stipulazione può essere documentata senza che sia necessario indicare la causa dell’atto.
La causa infatti si presume. La presunzione di causa non comporta che il contratto sia astratto. Se si dimostra
che la causa è inesistente o illecita il contratto è senz'altro invalido. Così, ad es., le parti possono cedere il
contratto senza bisogno di indicare la ragione della cessione. Ma ciò non perché la cessione del contratto sia
un negozio astratto ma perché la causa si presume. Se per altro la causa non sussiste o è illecita ne consegue
la nullità del contratto. Carattere eccezionale hanno le ipotesi di negozi astratti previste dalla legge, quale, ad
es., l’assunzione dell’obbligazione effettuata mediante cambiale.
Il contratto si dice aleatorio quando è a carico di una parte il rischio di un evento casuale che incide sul
contenuto del suo diritto o della sua prestazione contrattuale. L'assunzione del rischio può inerire al tipo di
operazione negoziale (tipico contratto aleatorio è quello di assicurazione: art. 1882 c.c.) o può essere prevista
dalle parti in deroga alla regola legale di ripartizione dei rischi (contratti aleatori per volontà delle parti). I
contratti aleatori si contrappongono ai contratti commutativi, quali contratti in cui l'entità delle reciproche
prestazioni non dipende da fattori casuali. I contratti aleatori non si contrappongono, invece, ai contratti
corrispettivi in quanto l'aleatorietà non esclude la corrispettività delle prestazioni. Il carattere aleatorio del
contratto rileva principalmente in tema di rescissione per lesione poiché tale rimedio non è applicabile ai
contratti aleatori (art. 14484 c.c.).
Parlando dei contratti aleatori, si è detto come l’aleatorietà non escluda l’onerosità del contratto e non
escluda neppure la corrispettività. Ma quando un contratto è a titolo oneroso? In termini generali, un
contratto è a titolo oneroso quando a una prestazione principale di una parte corrisponde una prestazione
principale a carico dell’altra. Un contratto può essere oneroso anche se è un contratto associativo - nel
contratto associativo manca la corrispettività nel senso che ciascuna parte è tenuta a una prestazione, ma non
con vincolo di correlazione tra una prestazione e l’altra. I contratti a titolo oneroso si contrappongono ai
contratti a titolo gratuito, ossia quei contratti mediante i quali una parte conferisce un bene, o un servizio
senza una corrispondente prestazione a carico del beneficiario.
Un momento importante della disciplina del contratto è quello che attiene all’interpretazione.
L'interpretazione è l'operazione che accerta il significato giuridicamente rilevante dell’accordo contrattuale.
Il codice detta una serie di norme sulla interpretazione del contratto (art. 1362- 1371). In via di apertura è
enunciato il principio basilare secondo il quale nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la
comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole (art. 13622 c.c.) (ossia, non
limitarsi all' interpretazione letterale). Seguono poi le norme che impongono di valutare il comportamento
complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 13622 c.c.) (interpretazione
globale); di procedere all'interpretazione complessiva delle clausole (art. 1363 c.c.) (interpretazione
sistematica); di presumere che le espressioni generali siano limitate agli oggetti del contratto (art. 1364 c.c.),
e di presumere che i casi indicati a spiegazione di un patto abbiano semplice valore esemplificativo (art.
125
1365 c.c.) (interpretazione presuntiva). Un secondo gruppo di norme stabilisce che nel dubbio il contratto
deve interpretarsi nel senso in cui possa avere qualche effetto (art. 1367 c.c.) (interpretazione utile); le
clausole ambigue devono interpretarsi secondo le pratiche generali del luogo di conclusione del contratto o
del luogo dell'impresa, se una delle parti è un imprenditore (art. 1368 c.c.); le clausole inserite nelle
condizioni generali di contratto devono interpretarsi nel senso più favorevole all'aderente (art. 1370 c.c.); nel
dubbio persistente il contratto deve infine essere interpretato nel senso meno gravoso per l'obbligato se si
tratta di contratto a titolo gratuito, e nel senso che realizzi l'equo contemperamento degli interessi delle parti
se è a titolo oneroso (art. 1371 c.c.). Secondo l'opinione comunemente seguita, il primo gruppo di norme
attiene all'interpretazione c.d. soggettiva, la quale è diretta a chiarire la comune intenzione delle parti,
conformemente al principio di fondo sulla interpretazione del contratto; il secondo gruppo attiene invece
all'interpretazione c.d. oggettiva, la quale è diretta a fissare il significato del contratto quando è dubbia la
comune intenzione dei contraenti. In tal caso il significato del contratto si uniforma a canoni legali improntati
fondamentalmente alla conservazione dell'atto, alla tipicità e all'equità. Tra il primo e il secondo gruppo di
queste norme è collocata la regola che impone di interpretare il contratto secondo buona fede (art. 1366 c.c.).
La tendenza prevalente assegna la regola al secondo gruppo, ma appare preferibile riconoscere in essa il
ruolo di principale criterio di interpretazione soggettiva del contratto. Una regola inserita nel gruppo delle
regole oggettive è quella che impone di intendere le espressioni con più sensi nel senso più conveniente alla
natura e all'oggetto del contratto (art. 1369 c.c.) (interpretazione funzionale). A prescindere dalla sua
collocazione tale regola è da considerare primaria regola d'interpretazione soggettiva. Nella interpretazione
del contratto la buona fede rileva come obbligo di lealtà. Essa esige, precisamente, di preservare il
ragionevole affidamento di ciascuna parte sul significato dell’accordo. In applicazione di tale criterio
l'interprete deve adeguare l'interpretazione del contratto al significato sul quale le parti – in relazione alle
concrete circostanze – potevano e dovevano fare ragionevole affidamento.
Le norme di interpretazione del contratto, anche quando appartengono al secondo gruppo, sono sempre
norme che tendono a identificare il contenuto del contratto, ovvero, ciò che le parti hanno voluto. Queste
norme vanno nettamente distinte rispetto a quelle altre norme che presuppongono invece una lacuna del
contratto e provvedono a integrare questa lacuna, o a quelle norme che pur non essendovi una lacuna del
contratto, impongono un determinato contenuto che diverge da quello voluto dalle parti. Accanto alle
determinazioni convenzionali, e cioè alle disposizioni che si riconducono all' accordo delle parti e ne
costituiscono il contenuto, occorre distinguere l'integrazione del contratto, cioè le determinazioni del
rapporto che hanno titolo nella legge o in altre fonti esterne al contratto (fonti eteronome). La regola di fondo
dell'integrazione prevede che il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso ma
anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità (art.
1374 c.c.). Altra fonte di diritto obiettivo del rapporto contrattuale, alla quale occorre riconoscere particolare
preminenza, è la buona fede (art. 1375 c.c.). La buona fede si specifica in due fondamentali canoni di
condotta. Il primo canone di buona fede, valevole principalmente nella formazione e nella interpretazione del
contratto, impone la lealtà del comportamento. Nell'esecuzione del contratto e del rapporto obbligatorio la
buona fede si specifica come obbligo di salvaguardia. Qui la buona fede impone a ciascuna parte l’obbligo di
salvaguardare l'utilità dell'altra nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio. La buona fede non
va confusa con la diligenza impone, l'adeguato sforzo volitivo e tecnico per realizzare l'interesse del creditore
e per non ledere i diritti altrui. L'obbligo della buona fede, invece, vieta un comportamento sleale e, oltre,
impone di salvaguardare l'utilità della controparte, ma non giunge a richiedere un impegno elevato fino alla
soglia dello sforzo diligente. Con riguardo all'obbligo di salvaguardia possono segnalarsi i seguenti
comportamenti tipici di buona fede. a) Esecuzione di prestazioni non previste. Pur se il contratto non lo
preveda, la parte è tenuta secondo buona fede a compiere quegli atti giuridici o materiali che si rendono
necessari per salvaguardare l'utilità della controparte, sempreché si tratti di atti che non comportano un
apprezzabile sacrificio. Ad es., il venditore di un immobile deve prestare il proprio consenso per rendere
possibile la rettifica dell’atto pubblico di vendita al fine di rimuovere un errore relativo ai dati catastali
dell'immobile venduto. b) Modifiche del proprio comportamento. La parte è tenuta secondo buona fede a
modificare il proprio comportamento (prestazioni e oneri) se ciò si rende necessario per salvaguardare
l'utilità della controparte, salvo sempre il limite dell'apprezzabile sacrificio. Al riguardo possono segnalarsi i
126
casi nei quali la parte si rende conto che la prestazione come prevista in contratto è inidonea a realizzare
l'utilità della controparte perché, ad es., le indicate misure del bene da produrre non ne consentirebbero
un’appropriata utilizzazione o perché il bene da produrre non è conforme a nuovi requisiti legali. c)
Tolleranza delle modifiche della prestazione di controparte. La parte è tenuta secondo buona fede a tollerare
che la controparte esegua una prestazione diversa da quella prevista se ciò non pregiudica apprezzabilmente
il proprio interesse. Ad es., la parte non può rifiutare la prestazione eseguita in luogo diverso da quello
stabilito se questa inesattezza non gli impedisce di apprendere agevolmente il bene o il servizio dovutogli. d)
Avvisi. La parte è tenuta a comunicare alla controparte le circostanze di cui sia venuta a conoscenza se tali
circostanze sono rilevanti per l'esecuzione del contratto. Così, devono essere comunicate, ad es., le
circostanze la cui conoscenza consentirebbe alla controparte di evitare un danno o un inutile aggravio di costi
ovvero di eseguire una prestazione inesatta. e) Esercizio di poteri discrezionali. La parte è tenuta secondo
buona fede ad esercitare i suoi poteri discrezionali in modo da salvaguardare l'utilità della controparte
compatibilmente con il proprio interesse o con l'interesse per il quale il potere è stato conferito. Con riguardo
alla materia delle promozioni, ad es., dove le nomine a posti di particolare importanza e responsabilità
richiedono un potere largamente discrezionale, la buona fede è violata se la promozione venga rifiutata in
base a motivazioni false o irrilevanti.
La più comune forma di integrazione del contratto è rappresentata dalla legge. Il contratto è ampiamente
disciplinato da norme legislative generali e particolari. Tali norme possono essere dispositive o cogenti.
L'applicazione delle norme dispositive dà luogo all'integrazione suppletiva del contratto, e le stesse norme
sono dette suppletive. Tali norme concorrono a determinare gli effetti del contratto salva una diversa
disposizione delle parti. Le norme integrative del contratto possono assumere il carattere dell'inderogabilità
quando esse tutelano un interesse generale prevalente su quello delle parti, o anche l'interesse di una delle
parti contro la preminente forza contrattuale dell’altra. In generale, le disposizioni imperative si applicano
direttamente al rapporto contrattuale nonostante la diversa previsione delle parti (art. 1339 c.c.), realizzando
un'integrazione cogente del contratto. Così, ad es., la clausola che prevedesse una durata del contratto di
affitto a coltivatore diretto inferiore al limite legale sarebbe automaticamente sostituita dalla disposizione di
legge che prevede una durata minima di 15 anni (l. 3 maggio 1982, n. 203). In deroga alla regola valevole in
tema di nullità parziale del contratto (art. 14191 c.c.), la nullità di singole clausole sancita nell’interesse di
una parte non importa la nullità dell’intero contratto (nullità di protezione).
L'equità è un fondamentale principio d'integrazione del contratto. Per tutti quegli aspetti del contratto che
non sono determinati dalle parti, dalle leggi o dagli usi, è infatti l'equità che assurge a criterio generale di
determinazione (art. 1374 c.c.). Quale principio di integrazione del contratto l'equità è precisamente il
criterio del giusto contemperamento dei diversi interessi delle parti in relazione allo scopo e alla natura del!'
affare. Lo stesso criterio equitativo opera nei contratti a titolo gratuito, dove la determinazione del contratto
deve procedere contemperando l'interesse dell'avente diritto (ad avere il massimo quantitativo e qualitativo) e
quello dell’onerato (al minore sacrificio possibile, sempre tenendo conto dello scopo e della natura del
contratto). Particolarmente rilevante è il ruolo dell’equità nella determinazione del compenso in tutti i
contratti di prestazioni d'opera o di servizi, nei casi in cui tale compenso non sia altrimenti determinato o
determinabile.
Gli effetti del contratto possono distinguersi secondo la natura del diritto costituito, e precisamente possiamo
distinguerli tra effetti obbligatori, reali e autorizzativi. L'effetto obbligatorio consiste in generale nella
costituzione, alienazione o modificazione di un diritto di credito. L'effetto reale consiste nella costituzione,
alienazione o modificazione di un diritto reale. L'effetto autorizzativo consiste nell' attribuzione di un potere
o nella rimozione di un limite all' esercizio di un diritto. Si dice ad effetti reali il contratto che produce un
effetto reale immediato. L'immediatezza dell'effetto reale è espressione del più ampio principio
consensualistico, che trova generale applicazione nell' ambito di tutti i contratti di alienazione. I contratti ad
effetti reali sono governati nel nostro ordinamento dal principio del consenso traslativo. Quando il contratto
di alienazione ha per oggetto un bene determinato, l'acquisto del diritto si determina per effetto del consenso
delle parti legittimamente manifestato (art. 1376 c.c.). Nei contratti di alienazione aventi ad oggetto cose
determinate solo nel genere, il diritto si trasmette a seguito della individuazione (art. 1378 c.c.).
127
L'individuazione è l'atto di assegnazione di cose concrete in esecuzione di un'obbligazione traslativa
generica. Quale atto di assegnazione l'individuazione costituisce un autonomo atto giuridico.
L'individuazione è un atto dovuto dell'alienante, che richiede l'accettazione dell'altra parte. L'individuazione
può anche non richiedere l'accettazione dell'alienatario. Quando infatti si tratta di cose che devono essere
trasportate da un luogo ad un altro, l'individuazione si perfeziona mediante la consegna al vettore o allo
spedizioniere (art. 1378, in fine, c.c.).
Elementi accidentali del contratto sono la condizione, il termine e il modo. La condizione è una disposizione
che fa dipendere l'efficacia o la risoluzione del contratto dal verificarsi di un evento futuro e incerto (art.
1353 c.c.). La condizione che sospende l'efficacia del contratto è detta condizione sospensiva. Quella che ne
prevede l'eventuale risoluzione è detta risolutiva. La condizione si distingue poi in volontaria o legale
secondo che sia posta dalle parti o dalla legge.
La condizione sospensiva, come dice lo stesso termine, sospende gli effetti del contratto; questo vuol dire
che il debitore non è tenuto a eseguire la prestazione e il creditore non ha il diritto di esigerla. Si tratta di una
situazione ferma. Tuttavia, anche nella fase di pendenza della condizione, le parti possono far valere
determinate situazioni, posizioni, diritti, poteri, o rimedi – a parte la generica possibilità di ricorrere a
provvedimenti cautelativi, come il sequestro, sempre che siano presenti i requisiti richiesti da Codice di
procedura civile. Una regola fondamentale in tema di pendenza della condizione è quella che impone alle
parti di comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte. Più in particolare,
la parte è obbligata a non impedire l’avverarsi della condizione; se la condizione diviene impossibile per
causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento, questa condizione si considera
come avverata.
Dicevamo che le condizioni si distinguono in volontarie e legali. La condizione legale (o condicio iuris) è
una condizione posta dalla legge. La condizione legale può essere sospensiva o risolutiva. La condizione
legale si differenzia da quella volontaria in quanto dipende dalla legge e non dalla volontà delle parti.
Consegue che la condizione legale è un requisito necessario di efficacia del contratto mentre la condizione
volontaria ha il carattere della accidentalità. In linea di massima la disciplina dettata per la condizione
volontaria risulta applicabile alla condizione legale, salve le deroghe appropriate alla funzione dei requisiti
normativi di efficacia. Un comune esempio di condizione legale è quello che abbiamo quando il contratto
stipulato da un ente, o da un’amministrazione pubblica, richieda per la sua efficacia l’approvazione di un
organismo di controllo.
La condizione si distingue rispetto al termine in quanto essa rende incerto il rapporto mentre il termine è una
determinazione temporale che fa riferimento ad un evento certo nel suo accadimento anche se è incerto il
momento nel quale l'accadimento avrà luogo. Conformemente alla tradizione romana il criterio distintivo
deve quindi basarsi sulla certezza o incertezza dell’evento (del se) mentre, ai fini della distinzione, non ha
rilievo la certezza o incertezza del tempo (del quando). Nell' esempio classico il riferimento alla futura morte
di una determinata persona non costituisce condizione ma termine, essendo certo l'avvenimento (certo se)
anche se incerto il tempo di esso (incerto quando). La condizione si caratterizza invece per il riferimento ad
un evento incerto (incerto se) anche se a scadenza fissa (certo quando). Es.: il contratto si risolverà se alla
scadenza di 12 mesi non risulterà concessa la licenza. Sul piano della disciplina la distinzione di maggior
rilievo si coglie tra condizione sospensiva e termine iniziale. Il termine iniziale non incide sull' attuale
titolarità del diritto, di cui è rinviata nel tempo solo l'esigibilità, mentre la condizione sospensiva conferisce
al titolare un'aspettativa. La condizione si distingue anche rispetto al modo, quale clausola dei negozi a titolo
gratuito che obbliga il beneficiario dell’attribuzione a devolverla in tutto o in parte per una data finalità.
Anche la disposizione modale (a differenza del legato testamentario, la disposizione modale può non aver un
beneficiario determinato) può portare alla risoluzione del contratto. Nel modo, tuttavia, la risoluzione è una
conseguenza eventuale che deve essere prevista o desunta dal titolo e che rientra nel generale rimedio della
risoluzione per inadempimento. Nella condizione, invece, l'effetto risolutivo consegue all'obiettivo verificarsi
dell'evento in essa dedotto a prescindere da ogni valutazione di responsabilità per l'inadempimento.

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Il contratto tipico è il modello di un’operazione economica ricorrente nella vita di relazione. I contratti tipici
si distinguono in legali e sociali. Il contratto tipico legale, detto anche contratto nominato, è una figura
normativa che disciplina un tipo di operazione economica (vendita, mutuo, ecc.). Il contratto innominato è il
contratto che non rientra in un dato tipo legale. La possibilità di stipulare contratti innominati è
espressamente prevista in sede di riconoscimento normativo dell’autonomia contrattuale. Nell’esercizio di
tale autonomia le parti possono infatti stipulare contratti che non rientrano nei tipi legali purché diretti a
realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322 c.c.).
Passiamo ora in rassegna i principali contratti tipici, muovendo intanto da quello che possiamo definire il
numero uno dei contratti, perché è il contratto più comune, più conosciuto, di più antica tradizione: la
vendita. La vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il
trasferimento di altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo. Obbligazioni principali del venditore sono
quella di far acquistare al compratore la proprietà della cosa o il diritto, quella di consegnare la cosa, quella
di garantire il compratore dall’evizione e dai vizi della cosa. In virtù del principio del consenso traslativo il
compratore acquista il diritto per effetto stesso del contratto, sempreché il venditore sia legittimato a vendere
e si tratti di vendita di cose determinate. Se il venditore non è proprietario della cosa, è obbligato a
procurarne l’acquisto al compratore. L’evizione è la rivendica della cosa di parte di un terzo. Il compratore
che subisce l’evizione ha diritto al risarcimento del danno da parte del venditore. La garanzia è
imprescrittibile. Il venditore è inoltre tenuto a garantire che la cosa non sia gravata da garanzie reali o vincoli
derivanti da pignoramento o sequestro (art. 1482 c.c.), da oneri o diritti di godimento di terzi (art. 1489 c.c.),
che la cosa abbia le qualità essenziali o quelle promesse e non sia affetta da vizi. Se la cosa è gravata da
garanzie reali o altri simili vincoli, il compratore può sospendere il pagamento del prezzo e può far fissare
dal giudice un termine decorso il quale il contratto è risolto se il bene non risulta liberato. In presenza di altre
non conformità al contratto il compratore ha diritto alla risoluzione del contratto o alla riduzione del prezzo. I
vizi e la mancanza di qualità devono essere denunziati a pena di decadenza entro 8 giorni dalla scoperta.
Effettuata la denunzia, l’azione di garanzia si prescrive in 1 anno. In esecuzione della Direttiva 44/99/CE il
nostro legislatore ha dettato la disciplina della vendita dei beni di consumo, ora contenuta negli articoli del
codice del consumo emanato col d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (art. 128 s.). Punti salienti di questa
disciplina sono: 1) il suo ambito soggettivo, riferito ai contratti intercorrenti tra professionisti (venditori e
produttori) e consumatori; 2) il suo ambito oggettivo, riferito alla vendita, ai contratti di appalto e di opera
nonché in genere ai contratti finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre; 3) la
delimitazione della nozione di beni di consumo, con esclusione, tra l’altro, dei beni immobili;
4)l’obbligazione del venditore di consegnare beni conformi al contratto, anche sotto il profilo quantitativo e
qualitativo; 5)l’esperibilità di massima dei rimedi della riparazione e della sostituzione in caso di non
conformità del bene al contratto (per es. se si tratta di una vettura, il compratore può richiedere che la vettura
venga sostituita); il prolungamento dei termini della denuncia dei difetti di conformità (2 mesi) e della
prescrizione dell’azione di inadempimento (26 mesi).
Figure affini alla vendita sono la permuta e la somministrazione. La permuta è il contratto che ha per oggetto
il reciproco trasferimento della proprietà di cose o altri diritti, da un contraente all’altro. Alla permuta si
applicano, in quanto compatibili, le norme della vendita. La somministrazione è il contratto con il quale una
parte si obbliga, verso il corrispettivo di un prezzo, a eseguire prestazioni periodiche o continuative di cose.
A differenza della vendita a consegne ripartite, la somministrazione ha per oggetto distinte prestazioni
attributive, autonomamente disciplinate. L’inadempimento di una di esse non dà luogo di regola alla
risoluzione del contratto, salvo che sia di importanza tale da menomare la fiducia nell’esattezza delle
successive prestazioni. Se non è fissato un termine, ciascuna delle parti può recedere dando congruo
preavviso.
Altro comunissimo contratto tipico è il contratto di locazione. La locazione è il contratto col quale una parte
(locatore) si obbliga a far godere all’altra (locatario) una cosa mobile o immobile verso il pagamento di un
canone. La locazione conferisce al locatario un diritto personale di godimento nei confronti del locatore, il
quale è tenuto principalmente a mantenere la cosa in modo da consentire l’uso normale o il particolare uso
convenuto del bene e a garantirne il pacifico godimento (art. 1575 c.c.).
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Un contratto molto importante tra i contratti d’impresa è l’appalto. L’appalto è il contratto col quale una
parte assume con la propria organizzazione imprenditoriale il compimento di un’opera o di un servizio verso
un corrispettivo in danaro. A differenza del contratto d’opera, che ha anch’esso ad oggetto il compimento di
un’opera, nell’appalto l’appaltatore si obbliga a eseguire l’opera con la propria organizzazione
imprenditoriale. Nel contratto d’opera, è previsto invece che l’opera venga eseguita con il lavoro prevalente
del prestatore d’opera e della sua famiglia.
Nell’ambito dei contratti tipici, un’importanza di primo piano deve essere riconosciuta al contratto di
trasporto. Col contratto di trasporto una parte (vettore) si obbliga verso l’altra a trasferire persone o cose da
un luogo all’altro (art. 1678 c.c.). Il Codice civile disciplina il contratto di trasporto terrestre, mentre il
contratto di trasporto aereo e il contratto di trasporto marittimo sono disciplinati dal codice della navigazione
e dalle leggi speciali. Nel trasporto di cose il vettore risponde per la perdita e avaria delle cose consegnategli.
Fra i contratti tipici, va particolarmente menzionato il mandato. Il mandato è il contratto con il quale una
parte (mandatario) si obbliga a compiere atti giuridici per conto dell’altra (mandante). Il contratto si presume
oneroso. Un carattere proprio del mandato è quello della normale revocabilità del mandato. Il mandato può
essere revocato anche se era stata pattuita l’irrevocabilità dello stesso. Il mandante però se non c’è una giusta
causa, risponde dei danni. Poi ci sono delle ipotesi, ma sono eccezionali, per le quali il mandato è
irrevocabile e cioè la revoca non ha effetto. Ciò ha luogo quando il mandato è stato conferito anche
nell’interesse del mandatario, o di terzi. Nel caso di mandato collettivo, conferito con unico atto e per un
interesse comune, questo mandato può essere revocato, ma solo con il consenso di tutti i mandanti; non ha
effetto la revoca da parte di uno solo dei mandanti.
Accenniamo ora al deposito. Il deposito è il contratto col quale una parte (depositario) riceve dall’altra
(depositante) una cosa mobile obbligandosi a custodirla e a restituirla in natura. Il deposito si presume
gratuito salvo che la qualità professionale del depositario o altre circostanze depongano per la sua onerosità.
Il depositario deve restituire la cosa a richiesta del depositante, salvo che sia stato convenuto un termine a
favore del depositario. La restituzione deve essere effettuata al depositante o alla persona da questo indicata,
senza che il depositario possa esigere la prova che il depositante è proprietario della cosa depositata. Norme
particolari sono dettate per il deposito in albergo (art. 1783 s. c.c.), per il deposito nei magazzini generali
(art. 1787 s. c.c.), per il deposito bancario (art. 1834 c.c.). Il deposito bancario ha normalmente per oggetto
denaro e normalmente il depositario diviene proprietario del denaro, obbligandosi a restituire non quelle
determinate specie monetarie che gli sono state conferite, ma il cosiddetto “tantundem”, cioè una quantità e
qualità di denaro corrispondente a quello ricevuto. Abbiamo quindi una figura anomala di deposito, che
rientra nella nozione di deposito irregolare.
Facciamo ora riferimento alle nozioni di comodato e di mutuo, contratti che nel linguaggio corrente noi
chiamiamo prestiti. Il comodato è il contratto col quale una parte (comodante) consegna all’altra
(comodatario) una cosa mobile o immobile affinché se ne serva per un tempo determinato. Il contratto è
essenzialmente gratuito (se manca la gratuità, sconfiniamo nell’ipotesi della locazione). Il comodatario
acquista un diritto personale di godimento sulla cosa, di cui può servirsi per l’uso previsto o per l’uso
normale in relazione alla natura della cosa. Il comodatario è tenuto a custodire e conservare la cosa con la
diligenza del buon padre di famiglia e non può concederla in uso a terzi senza l’autorizzazione del
comodante (art. 1804 c.c.) Se non è stato convenuto un termine, la cosa deve essere restituita a richiesta del
comodante.
Altro importante contratto tipico è il mutuo e cioè il contratto col quale una parte (mutuante) consegna
all’altra (mutuatario) una determinata quantità di denaro o di cose fungibili, e l’altra parte si obbliga a
restituire il denaro o le altre cose nella stessa quantità e qualità. Il mutuatario acquista la proprietà delle cose
dategli a mutuo (art. 1814). Il mutuo è presuntivamente oneroso, comportando l’obbligo del mutuatario di
corrispondere gli interessi nella misura del tasso legale o nella misura convenuta. Il mutuo è un contratto
reale in quanto si perfeziona con la consegna della cosa. Carattere consensuale ha invece il preliminare di
mutuo, col quale una parte promette all’altra di darle a mutuo denaro o altre cose fungibili.

130
I contratti tipici che abbiamo ricordato non esauriscono ovviamente l’elenco dei contratti regolati dalla legge,
ovvero l’elenco dei contratti nominati. Lo stesso Codice civile prevede e disciplina tutta una serie di
contratti, anche molto importanti. Basti pensare al contratto di assicurazione, ai contratti bancari, al contratto
di lavoro. Ognuno di questi contratti ha una sua definizione, una sua disciplina, che ritroviamo appunto nel
Codice civile, o in altre leggi speciali. Dobbiamo poi tener conto di contratti che hanno raggiunto ormai una
loro tipicità socioeconomica pur non essendo previsti e disciplinati dalla legge, come per esempio il leasing.
Il leasing, o locazione finanziaria, è il contratto col quale una parte si obbliga ad acquistare un bene e a
metterlo a disposizione dell’altra parte (utilizzatore) verso un canone e per un tempo determinato, con facoltà
per l’utilizzatore di acquisirne la proprietà alla scadenza dietro versamento di un determinato importo.
Argomento 14
Videolezione 1 – L’invalidità del contratto.
Nell’ampio schema dell’invalidità, noi ritroviamo in particolare le figure della nullità, dell’annullabilità e
della rescindibilità. La nullità è la più grave forma d'invalidità negoziale che colpisce il contratto che sia
privo di un elemento costitutivo, o che sia illecito. La nullità colpisce il contratto sin dall’origine; la nullità
opera di diritto e può essere giudizialmente accertata in ogni tempo. La nullità si distingue in totale e
parziale. La nullità totale investe l'intero contratto. La nullità parziale in senso oggettivo investe una parte del
suo contenuto mentre la nullità parziale in senso soggettivo colpisce singoli rapporti di partecipazione al
contratto. Essa è pertanto configurabile relativamente ai contratti plurilaterali. La nullità si distingue ancora
in assoluta e relativa. La nullità assoluta può essere fatta valere da tutte le parti e, oltre, da tutti i terzi
interessati. Quella relativa designa la nullità che può essere fatta valere da determinati legittimati. La nullità
del contratto esprime una valutazione negativa dell’ordinamento, la quale non esclude che il contratto nullo
possa avere una sua efficacia nei confronti dei terzi o anche delle parti (v. avanti n.7, 8). Gli effetti che la
legge eccezionalmente ricollega al contratto nullo e, in generale, la disciplina normativa della nullità
presuppongono che sussista un'operazione qualificabile come contratto, alla quale sia riferibile la qualifica
della nullità. Presuppongono cioè l’esistenza del contratto. La nullità deve quindi essere tenuta distinta
rispetto all'inesistenza quale mancanza di un fatto o atto socialmente rispondente alla nozione di contratto.
Prima causa di nullità è la mancanza o l'impossibilità originaria di un elemento costitutivo. Elementi
costitutivi del contratto sono l'accordo, l'oggetto, la causa e la forma, quando richiesta a pena di nullità. Per
quanto attiene all' accordo la mancanza di esso deve intendersi come mancanza della fattispecie oggettiva in
cui si identifica giuridicamente l'accordo e non come deficienza della volontà negoziale. Se poi non vi è un
atto socialmente valutabile come accordo, deve senz' altro parlarsi di inesistenza del contratto. La mancanza
dell’oggetto si riscontra quando il contenuto del contratto non è né determinato né determinabile e quando il
bene sul quale sono destinati a cadere gli effetti contrattuali è insuscettibile di esistenza o di identificazione.
Anche la mancanza della causa comporta di regola la nullità del contratto. La mancanza di forma, infine,
comporta la nullità quando si tratta di forma prevista dalla legge come requisito necessario del contratto.
Altra causa di nullità è la illiceità. Il contratto è illecito quando è contrario a norme imperative (salvo che la
legge preveda una conseguenza diversa dalla nullità). La nullità del contratto discende altresì dalla illiceità
della causa. La causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume.
Illeciti possono essere anche i motivi e possono dar luogo alla nullità del contratto quando le parti si sono
determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune a entrambe. La contrarietà
all’ordine pubblico indica la contrarietà ai principi basilari del nostro ordinamento giuridico. Larga parte di
tali principi trova espressione nella Carta costituzionale. In particolare, rientra nell'ordine pubblico il rispetto
dei diritti fondamentali della persona. Il buon costume indica la morale sociale, quei canoni fondamentali di
onestà pubblica e privata che la coscienza sociale reputa irrinunziabili. Atti contrari al comune senso di
onestà sono considerati non solamente gli atti lesivi della dignità sessuale ma in genere quelli che in un dato
ambiente e momento storico sono condannati dalla coscienza sociale. Il contratto contrario al buon costume è
nullo, ma le prestazioni eseguite non possono essere ripetute (per es. se io ho consegnato una somma di
denaro a un pubblico funzionario affinché compia un atto contrario ai suoi doveri di ufficio, avvalendomi
della nullità del contratto, io non posso pretendere la restituzione della somma che ho versato).
131
Avverte il codice (art. 14183 c.c.) che il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge.
Tradizionali casi di nullità comminata specificamente dalla legge sono, ad es. quelli concernenti i divieti dei
patti successori (art. 458 c.c.), del patto leonino (art. 2265 c.c.), del patto commissorio (art. 2744 c.c.), ecc.
Di recente si assiste al fenomeno di un sistematico intervento di leggi speciali, che utilizzano la sanzione
della nullità in funzione di tutela di contraenti deboli (nullità di protezione): vedi, ad es., il T.U. delle leggi
bancarie (d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385), che prevede la nullità dei contratti bancari non redatti per iscritto;
la disciplina dei contratti del consumatore che sancisce la nullità delle clausole vessatorie. Generalmente
queste nullità non possono essere fatte valere dalla parte destinataria dei divieti.
Una particolare figura di illiceità è quella che concerne il contratto in frode alla legge. Il contratto è in frode
alla legge quando costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa. La frode si
distingue rispetto alla contrarietà alla legge in quanto essa ne realizza una violazione indiretta. Precisamente,
il contratto fraudolento in sé considerato non incorre nella proibizione di legge poiché il suo contenuto non
integra un risultato vietato. La frode si realizza piuttosto attraverso una combinazione di atti negoziali leciti
preordinati al conseguimento di un risultato finale illecito. Esempi tipici di contratti in frode alla legge sono
dati dalle interposizioni reali, mediante le quali il soggetto elude un divieto di acquisto stipulando un
mandato con un terzo, incaricato di acquistare in proprio nome e di ritrasmettere il bene al mandante.
L’azione di nullità è l’azione che tende a far accertare e dichiarare la nullità del contratto. È un’azione che
tende a ottenere una sentenza dichiarativa, infatti la nullità opera di diritto. Il giudice non annulla il contratto,
ma accerta che il contratto è nullo. Questa azione è imprescrittibile e può essere esercitata da chiunque vi
abbia interesse. L'azione di nullità può accompagnarsi alla domanda di risarcimento del danno se ricorrono
gli estremi della responsabilità precontrattuale. A prescindere dalla responsabilità precontrattuale le
prestazioni eseguite in tutto o in parte costituiscono un indebito oggettivo in quanto prive di titolo e devono
essere restituite.
Un tempo era comune indicare il contratto nullo come un contratto “nato morto”, ossia come un contratto
privo di effetti. Tuttavia, se pure eccezionalmente, vi sono effetti che vengono prodotti dal contratto nullo e
che sono quindi ricollegabili a tale contratto. Nel nostro ordinamento si riscontrano due generali ipotesi di
efficacia del contratto nullo: la conversione del contratto e la tardività della trascrizione della domanda di
nullità. Si diceva prima che la domanda di nullità fosse imprescrittibile e potesse essere quindi proposta in
ogni tempo. Tuttavia, la legge dice che se la domanda di nullità è trascritta dopo 5 anni dalla trascrizione
dell’atto nullo, la sentenza che dichiara la nullità non pregiudica i diritti che i terzi di buona fede hanno
acquisito in base a un atto trascritto e scritto prima della trascrizione della domanda di nullità.
La conversione è una modifica legale del contratto che ne evita la nullità nel rispetto sostanziale dello scopo
delle parti. Precisamente, il contratto nullo può produrre gli effetti di un diverso contratto, del quale abbia i
requisiti di sostanza e di forma, se, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, deve ritenersi che esse lo
avrebbero voluto se ne avessero conosciuto la nullità. Presupposti di operatività della conversione sono 1) la
nullità del contratto; 2) l'idoneità degli effetti giuridici modificati a soddisfare in misura apprezzabile gli
interessi delle parti; 3) la presenza nel contratto stipulato dei requisiti necessari per produrre i diversi effetti
giuridici; 4) l'ignoranza delle parti circa l'invalidità del contratto stipulato. Si tratta dunque di un’ipotesi di
salvataggio legale del contratto, che opera per effetto di legge. Il contratto automaticamente si converte in un
altro contratto che sia sostanzialmente idoneo a soddisfare gli interessi delle parti.
Il nostro ordinamento non conosce una generale figura di sanatoria del contratto nullo. In qualche caso
eccezionale però la legge ammette la sanatoria del negozio nullo mediante conferma. La conferma comporta
la relativa efficacia dell'atto rispetto al confermante. La conferma è prevista dalla legge con riguardo alla
donazione, nel senso che la nullità di questa non può essere fatta valere dagli eredi o aventi causa dal donante
i quali, conoscendo la causa di nullità, abbiano dato conferma o volontaria esecuzione alla donazione dopo la
morte del donante. Analoga sanatoria è prevista per il testamento. Quindi, se si ritiene che il testamento orale
sia un testamento nullo, è ammissibile, in base a questa previsione di legge, la sua sanatoria: coloro che
potrebbero far valere la nullità del testamento, prestano invece ossequio alla volontà del testatore dando
esecuzione alle disposizioni testamentarie.
132
*Da questo momento in poi, la videolezione diventa facoltativa (contenuto parzialmente presente nella
lezione successiva sull’annullabilità) *
Altra fondamentale forma di invalidità del contratto è l’annullabilità, cioè quella forma d’invalidità del
contratto suscettibile di annullamento a seguito di sentenza. L’annullabilità è una forma meno grave di
invalidità. In qualche modo il contratto è malato di una malattia che può portarlo alla morte, ma finché non
interviene la sentenza di annullamento, il contratto provvisoriamente è produttivo dei suoi effetti. Per aversi
annullamento, occorre che venga esercitata un’azione. Questa azione può essere esercitata solo da
determinati legittimati. Se l’azione non viene esercitata entro il termine di prescrizione, il contratto
annullabile diventa definitivamente valido.
Cause di annullabilità sono l'incapacità legale o naturale della parte e i vizi del consenso. Cause di
annullabilità sono poi previste in particolari situazioni di abuso a danno di una delle parti (es: contratto
concluso dal rappresentante in conflitto d'interessi col rappresentato). I vizi del consenso comprendono
l’errore, la violenza, il dolo.
L’errore è una falsa rappresentazione della parte in ordine al contratto o ai suoi presupposti. L'errore si
distingue in errore vizio (o errore motivo) ed errore ostativo. L'errore vizio attiene alla formazione della
volontà della parte (senza l'errore la parte non avrebbe voluto concludere il contratto). L'errore ostativo
attiene invece alla dichiarazione della parte (il contraente ha correttamente formato la propria volontà ma
questa è stata inesattamente dichiarata o trasmessa). Si distingue ancora tra errore di fatto, che cade sugli
elementi contrattuali o su circostanze esterne, ed errore di diritto, che cade su norme giuridiche. L’errore è
causa di annullamento del contratto quando è essenziale e riconoscibile. L’errore è essenziale quando cade
sulla natura o sull'oggetto del contratto; sull'identità dell'oggetto della prestazione o su una qualità del
medesimo che secondo il comune apprezzamento deve ritenersi determinante del consenso; sull'identità o
sulle qualità dell'altro contraente, sempreché l'una o le altre siano state determinanti del consenso. Essenziale
è inoltre qualificato l'errore di diritto quando abbia costituito la ragione unica o principale del contratto. Oltre
che essenziale l'errore deve essere anche riconoscibile da parte dell'altro contraente. La riconoscibilità
sussiste quando - in relazione al contenuto e alle circostanze del contratto e alle qualità dei contraenti - una
persona di normale diligenza avrebbe dovuto rilevare l'errore, cioè avrebbe dovuto riconoscere la falsa
rappresentazione della controparte.
L’errore può cadere sui motivi, ma non è di regola causa di annullamento del contratto. Una deroga a questa
regola è contenuta nella disciplina della donazione, la quale può essere impugnata per errore sul motivo, se
questo risulta dall' atto ed è il solo che ha determinato il donante a compiere la liberalità.
Errore di diritto è l’errore che cade su norme giuridiche. Esso è causa di annullamento quando abbia
costituito la ragione unica o principale del consenso.
Secondo la previsione normativa l'errore di calcolo non dà luogo all' annullamento ma alla rettifica del
contratto salvo che, concretandosi in errore sulla quantità, abbia assunto un'importanza determinante.
Secondo la giurisprudenza l'errore di calcolo è solo l'errore nella elaborazione aritmetica dei dati esattamente
assunti in contratto. Così, ad es., vi è errore di calcolo se le parti, dopo avere fissato la quantità della merce
venduta e il prezzo unitario di questa, computano inesattamente il prezzo globale.
Un grave vizio della volontà è rappresentato dalla violenza. La violenza è la minaccia che costringe la
persona a stipulare un contratto non voluto, o a subirne un determinato contenuto. Essa consiste in una
minaccia seria di un male ingiusto e notevole alla persona, o ai beni del contraente, o anche di terzi. La
minaccia però, e questo lo dice la legge, può essere diretta anche a conseguire vantaggi giusti (per es. la
minaccia di far valere un diritto). Con la minaccia non deve essere confuso il timore riverenziale e cioè la
soggezione psicologica che il soggetto ha verso altri per l’importanza della loro posizione. Il timore
riverenziale non è causa di annullamento del contratto. La semplice soggezione psicologica non è sufficiente
ad alterare in maniera determinante la volontà contrattuale.

133
Parliamo ora di un’altra tradizionale forma di vizio del consenso: il dolo. Il dolo è qualsiasi forma di raggiro
che altera la volontà contrattuale della vittima. Il dolo è causa di annullabilità del contratto quando è
determinante del consenso, cioè quando il raggiro induce il soggetto a stipulare un contratto che altrimenti
non avrebbe stipulato. Si parla in tal caso di dolo vizio. Il dolo vizio si distingue rispetto al dolo incidente,
quale raggiro che non è determinante del consenso ma incide sul contenuto del contratto (il contraente
avrebbe egualmente concluso il contratto ma a condizioni diverse). Il dolo incidente non dà luogo
all’annullamento del contratto ma solo al risarcimento del danno.
Tradizionalmente è esclusa l’annullabilità del contratto in presenza di dolo lecito, comunemente chiamato
dolus bonus, ossia della millantata esaltazione di un bene o di un servizio. L'esaltazione millantata dei beni e
servizi dell'impresa è tollerata anche nella pubblicità commerciale. Il limite è tuttavia superato quando si
attribuiscono alla prestazione specifiche qualità non rispondenti al vero. La pubblicità deve allora
considerarsi menzognera, e fonte di responsabilità extracontrattuale.
A differenza della nullità, che può essere fatta valere da qualsiasi interessato e che può essere anche rilevata
d’ufficio dal giudice sulla base degli atti di causa, l’annullamento del contratto è riservato all’iniziativa della
parte. Precisamente, è solo la parte nel cui interesse è sancita l’annullabilità del contratto, che può far valere
ed esercitare l’azione di annullamento. Nei casi di incapacità legale il contratto può essere impugnato dal
rappresentante legale. L'azione di annullamento è soggetta alla prescrizione quinquennale. Si tratta quindi di
una prescrizione breve che rende inapplicabile l'ordinario termine decennale di prescrizione (art. 2946 c.c.).
Nei casi di vizi del consenso la prescrizione decorre dal momento in cui l'errore o il dolo sono stati scoperti
ovvero è cessata la violenza; nei casi di incapacità legale dal momento in cui la parte incapace è divenuta
maggiorenne ovvero è stata revocata l'interdizione o l'inabilitazione. Al di fuori di questi casi il termine di
prescrizione quinquennale decorre dal giorno della conclusione del contratto. Anche dopo il decorso del
termine di prescrizione l'annullabilità può essere fatta valere dalla parte convenuta per l'esecuzione del
contratto. Ciò significa che la parte può sempre far valere l'invalidità del contratto in via di eccezione,
quando la controparte esercita nei suoi confronti un diritto derivante dal contratto invalido. Se il contratto
viene annullato, cadono gli effetti che si sono prodotti. Ciò vuol dire che le prestazioni eseguite devono
essere restituite. Qui si applica la regola dell’indebito oggettivo. L’annullamento del contratto non pregiudica
i diritti dei terzi acquirenti di buona fede a titolo oneroso, salvo che l’annullamento dipenda da incapacità
legale.
A differenza del contratto nullo, che non è convalidabile né sanabile, il contratto annullabile invece è
convalidabile. Il contratto annullabile può essere convalidato dalla parte legittimata all’azione di
annullamento, la quale conferma il contratto invalido. Il contratto annullabile confermato non è più
suscettibile di annullamento. La convalida può essere espressa o tacita. La convalida è espressa quando la
parte manifesta la volontà di confermare il contratto annullabile mediante un’apposita dichiarazione. La
dichiarazione deve contenere la specifica menzione del contratto e della causa d'invalidità. La convalida non
ha effetto se persiste il vizio del consenso o lo stato d'incapacità. La convalida è tacita quando la parte che è a
conoscenza della causa di annullabilità dà volontaria esecuzione al contratto.
Una particolare forma di sanatoria del contratto annullabile è data dalla rettifica. La rettifica riguarda il
contratto viziato da errore, ovvero riguarda i casi in cui la volontà della parte sia viziata da errore. In questo
caso, la parte non in errore ha il potere di offrire di eseguire il contratto in modo conforme al contenuto e alle
modalità del contratto che la parte in errore intendeva concludere. La rettifica estingue il diritto della
controparte all' annullamento del contratto.
La rescindibilità è una forma d'invalidità del contratto posta principalmente a tutela di chi contrae a
condizioni inique per il suo stato di bisogno o di pericolo. Lo stato di bisogno caratterizza la generale azione
di rescissione, che richiede anche l'approfittamento della controparte e la lesione oltre la metà, cioè una
sproporzione tra prestazione e controprestazione tale che il valore dell'una sia inferiore alla metà del valore
dell'altra. L'ipotesi del contratto concluso in stato di pericolo è caratterizzata da ciò, che la parte stipula il
contratto per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla
persona. Il rimedio della rescissione non è applicabile relativamente ai contratti aleatori, cioè a quei contratti
134
che sono caratterizzati proprio dal rischio del sopravvenire di una sproporzione del rapporto delle
prestazioni. Questa preclusione si spiega in base al rilievo che nei contratti aleatori la sproporzione tra le
prestazioni non ha significato di lesione perché essa rientra nel rischio connesso al contratto stipulato. La
parte non può quindi dolersi della sproporzione tra dare e avere se essa è il risultato sfavorevole dell’alea
assunta. Il termine di prescrizione dell’azione di rescissione è eccezionalmente breve, un anno. A differenza
di quanto è previsto per ciò che concerne l’annullabilità del contratto, decorso l’anno, la vittima non può
invocare l’invalidità del contratto neppure in via di eccezione. Il contratto rescindibile non ammette
convalida, è previsto tuttavia che possa essere ricondotta a equità. Precisamente, la parte destinataria
dell’azione di rescissione può offrire di modificare il contratto in maniera tale da ricondurlo a equità e, di
conseguenza, eliminare lo squilibrio delle prestazioni. L’esercizio di questo potere estingue il diritto del
contraente leso di chiedere la rescissione del contratto.
Parliamo infine della simulazione, cioè del fenomeno dell’apparenza contrattuale creata intenzionalmente. Vi
è simulazione quando le parti stipulano un contratto con l’intesa che esso non corrisponda alla realtà del loro
rapporto. La simulazione può essere assoluta, o relativa. Nella simulazione assoluta, le parti fingono di
stipulare un contratto, mentre in realtà non intendono stipulare alcun contratto. Nella simulazione relativa,
invece, le parti fingono di stipulare un contratto, mentre in realtà vogliono stipulare un diverso contratto (per
es. il contratto di vendita che dissimula una donazione). Oltre l’apparenza, l’elemento caratterizzante della
simulazione è l’accordo simulatorio, cioè l’intesa sul significato in tutto o in parte apparente del contratto.
Videolezione 2 – L’annullabilità (contenuto parzialmente già presente nella videolezione precedente di
Bianca – parte facoltativa).
L’annullabilità del contratto trova la sua disciplina nel Codice civile. In particolare, ci sono delle norme che
si occupano dei vizi che portano alla speciale sanzione dell’annullabilità e ci sono delle norme che si
occupano invece, specificamente, dell’azione di annullamento e degli effetti dell’annullamento del contratto.
L’annullabilità è considerata nel novero delle invalidità contrattuali, in cui si inserisce in primo luogo la
nullità (che deve essere distinta dall’inesistenza; in caso di contratto nullo degli effetti, seppur limitati, ci
sono, mentre nel caso di contratto inesistente questo non avviene, l’accordo non si forma.). Subito dopo la
nullità, segue l’annullabilità del contratto e la rescissione del contratto. Quando parliamo di annullabilità,
parliamo di una sanzione meno grave della nullità. Dagli effetti ci rendiamo conto, in modo particolare, di
quanto essi siano più limitati e meno incisivi rispetto a quelli previsti per la nullità del contratto. Per quanto
concerne le cause di annullamento del contratto, sono cause che a loro volta vengono considerate di
importanza diversa rispetto a quelle che portano alla nullità del contratto, tanto che, secondo una teoria che
ormai sembra abbastanza superata, si dovrebbe distinguere il vizio della nullità, che tutelerebbe interessi di
carattere generale dell’ordinamento, dal vizio dell’annullabilità, che tutelerebbe invece degli interessi di
carattere privato dei singoli soggetti che vengono in esame nei casi specifici.
Quando si ha l’annullabilità tendenzialmente il giudice non può intervenire d’ufficio come avviene per la
nullità, a meno che dal tenore della domanda giudiziale non si evinca che in fondo l’annullamento del
contratto rientra tra quello che è l’interesse delle parti e, in alcuni casi specifici, il giudice riesce addirittura a
evincere l’annullamento senza che ci sia stata apposita domanda di parte. In linea generale, comunque,
mentre la nullità è sottratta alla disponibilità delle parti, l’azione di annullamento viene considerata un’azione
tendenzialmente lasciata alla disponibilità dei soggetti privati.
La legge prevede innanzitutto l’annullabilità nel caso di incapacità; incapacità che significa principalmente:
minore età del soggetto; incapacità giudiziale (incapacità che è dovuta a una sentenza, o a un decreto nel caso
dell’amministrazione di sostegno, che porta a menomare la capacità di agire di una determinata persona
fisica). L’incapace è tutelato dalla legge con la sanzione dell’incapacità e proprio per questa ragione
l’incapace può fruire di questa tutela della legge; la legge presume che non sia pienamente consapevole degli
atti che sta compiendo. Anche l’incapace naturale, ossia il soggetto che non sia sottoposto a interdizione, a
inabilitazione, o ad amministrazione di sostegno, è tutelato con l’annullamento del contratto compiuto. Nel
caso di incapacità naturale (pensiamo, per esempio, al soggetto che si è ubriacato), gli atti compiuti dal
135
soggetto incapace naturale sono annullabili, come sono annullabili i contratti (è prevista una diversa
disciplina per l’annullamento degli atti e l’annullamento dei contratti). Il fatto che il soggetto non sia
pienamente consapevole, secondo l’ordinamento deve comportare questa sanzione che lascia un po’ alla
disponibilità privata il verificarsi degli effetti della sanzione: l’annullabilità. Stessa cosa avviene anche in
altri casi in cui la consapevolezza non è piena, i cosiddetti vizi del consenso. La stessa terminologia ci fa
comprendere appunto che si tratta di ipotesi che sono sempre legate alla consapevolezza in ordine agli effetti
del contratto. I vizi del consenso sono l’errore, la violenza e il dolo. L’errore è la divergenza tra il contenuto
del contratto e la rappresentazione che di questo contenuto se ne fa una parte. L’errore è rilevante se è
oggettivamente riconoscibile dall’altro contraente. La violenza è una minaccia di un male grave e ingiusto
che riguarda la persona, o i beni del contraente. Deve essere una minaccia tale da fare impressione a una
persona sensata, da farle temere di esporre sé e i suoi beni a un male ingiusto e notevole. Una minaccia di
questo bene porta all’annullabilità del contratto, ovvero all’annullabilità dell’accordo che si forma in seguito
a una minaccia di questo genere. Stessa cosa quando si ha un raggiro, il dolo, cioè quando c’è un raggiro che
è volto a far cadere una parte in un errore, che seppur non essenziale, porta l’altra parte alla conclusione del
contratto. Oltre a questi vizi del consenso (errore, violenza, dolo), sono previsti anche altri casi dalla legge.
Si pensi alle norme che riguardano il conflitto di interessi, o il contratto con sé stesso. Quando c’è un
rappresentante, il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi col rappresentato può essere
annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto, o riconoscibile dal terzo. È chiaro che
anche in questi casi, il conflitto di interessi porta a una divergenza del contratto rispetto a quella che è la
consapevolezza che ha la parte; porta a un difetto sempre di consapevolezza che ha la parte che è
rappresentata da un soggetto che è in conflitto di interessi. Ragionamento simile si può fare con riguardo al
contratto con sé stesso: è annullabile il contratto che il rappresentante conclude con sé stesso in proprio, o
come rappresentante di un’altra parte, a meno che il rappresentato lo abbia autorizzato specificamente in tal
senso, oppure il contenuto del contratto sia determinato in modo tale da escludere la possibilità di conflitto di
interessi. L’impugnazione può essere proposta solo dal rappresentato.
Ci sono norme in cui l’azione di annullamento si comprende un po’ meno. In particolare, c’è una norma che
implica l’annullabilità dell’atto di disposizione di un bene della comunione legale, che un coniuge compie,
senza il necessario consenso dell’altro (per es. il coniuge vende la casa che è in comunione legale senza che
l’altro ne sappia nulla). L’annullabilità è inoltre da interpretare in termini strettissimi. L’azione di
annullamento può essere proposta dal coniuge, il cui consenso era necessario, entro un anno dalla data da cui
ha avuto conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dall’atto di trascrizione.
A differenza del contratto nullo, il contratto annullabile produce i suoi effetti fino a che non sopravviene una
sentenza costitutiva, ovvero, una sentenza di annullamento che ha carattere costitutivo. Questo vuol dire che
dal momento della sentenza si ha l’annullamento. Mentre la nullità è qualcosa che si ha all’origine per il
grave vizio presente sul contratto e quindi la sentenza di nullità è meramente dichiarativa, la sentenza di
annullamento produce l’annullamento, è costitutiva e crea l’annullamento da quel momento. È quindi vero
che il contratto è efficace se così vuole la parte tutelata fino alla sentenza costitutiva, ma se la parte tutelata
non vuole adempiere, può non adempiere in quanto ha l’eccezione di adempimento. L’annullamento infatti
può essere chiesto solamente dalla parte che giuridicamente ha interesse. L’annullabilità tutela gli interessi
privati di una parte proprio perché l’azione è prevista in capo a una parte che deve manifestare l’interesse a
questa azione chiedendo in giudizio l’annullamento. In realtà, se c’è una tutela prevista dall’ordinamento, si
deve escludere che si possa fare una distinzione tra nullità e annullabilità, tra tutela degli interessi generali
nel caso di nullità e tutela di interessi privati nel caso di annullabilità, in quanto se c’è una tutela secondo
l’ordinamento, significa che l’ordinamento ha visto come interesse della collettività dare una tutela a quel
soggetto. L’interesse della collettività nel caso della nullità, trattandosi di un vizio che l’ordinamento
considera grave, si riflette nella possibilità di chiunque abbia interesse di richiedere la nullità; nel caso
dell’annullabilità si riflette nella possibilità della parte lesa di richiedere l’annullamento.
In tema di prescrizione c’è proprio una regola che è legata al fatto che non si tratti di un vizio come quello di
nullità e che si tratti invece di un vizio tendenzialmente lasciato alla disponibilità privata, tanto che la
prescrizione per l’azione è limitata e breve: è quinquennale. Il vizio non è gravissimo, si ha disponibilità
136
privata. È una prescrizione che decorre dal momento in cui si ha consapevolezza in ordine al contratto. Per
l’incapacità, per esempio, è una prescrizione che decorre solamente dal momento della revoca
dell’interdizione, o dell’inabilitazione. Negli altri casi, il termine decorre dal giorno della conclusione del
contratto.
Quando il contratto è un contratto plurilaterale, L’annullabilità del vincolo di una sola parte di un contratto
plurilaterale, non comporta annullamento del contratto, salvo che la partecipazione di questa parte debba
considerarsi essenziale.
Nel caso di incapacità, noi abbiamo detto che tendenzialmente si è voluta dare una disponibilità privata
dell’annullabilità e questo ha comportato le peculiari regole che abbiamo visto, ma nel caso dell’incapace,
abbiamo visto anche che si deve attendere che abbia consapevolezza. Nel caso dell’incapace non c’è una
disponibilità nel momento in cui il soggetto è incapace, perché ancora la consapevolezza in ordine all’atto
dell’incapace non si ha. Proprio per questa ragione, l’incapacità del condannato in stato di interdizione legale
comporta che l’incapacità di questo soggetto può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse. Di
conseguenza, in questi casi manca la disponibilità anche in capo all’incapace e al suo rappresentante. Si ha
un’annullabilità assoluta. L’annullabilità assoluta si ha anche per l’incapace giudiziale in un altro caso; il
matrimonio di chi è stato interdetto per infermità di mente può essere impugnato dal tutore, dal pubblico
ministero e da tutti coloro che abbiano un interesse legittimo, se al tempo del matrimonio vi era già sentenza
di interdizione passata in giudicato, o se l’interdizione è stata pronunciata posteriormente, ma l’infermità
esisteva al tempo del matrimonio. In questo caso abbiamo dunque una mancanza di disponibilità che porta a
un’annullabilità assoluta e questo vale sia per l’interdetto legale (il condannato), che non può disporre
neanche tramite il rappresentante in ordine all’annullabilità stessa (tant’è che può essere fatta valere da
chiunque ne abbia interesse), sia per il matrimonio, che non è un contratto (l’annullamento del matrimonio
può essere fatto valere da chiunque vi abbia un interesse).
L’annullabilità ha effetto retroattivo, quindi, una volta che c’è la sentenza di annullamento, gli effetti del
contratto cadono e questo effetto retroattivo fa sì che tutto ciò che è stato eventualmente dato, prestato,
pagato, in seguito al contratto, diventa indebito. Se diventa indebito, si applicano le norme sulla ripetizione
dell’indebito e devono essere restituite le prestazioni. Per l’incapace vale però una regola particolare, in
quanto l’incapace potrebbe aver fatto deteriorare un bene, o non aver avuto accortezza nella cura di un
determinato bene; se il contratto è annullato per incapacità di uno dei contraenti, egli non è tenuto a restituire
all’altro la prestazione ricevuta, se non nei limiti in cui è stata rivolta a suo vantaggio.
Inoltre, tra gli effetti dell’annullamento vi è, in caso di responsabilità precontrattuale, la possibilità che venga
richiesto il risarcimento del danno per l’interesse negativo (le spese tendenzialmente sostenute per la
contrattazione). La parte che conoscendo, o dovendo conoscere, l’esistenza di una causa di invalidità del
contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte, è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere
confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto. Si tratta del risarcimento del danno per l’interesse
negativo.
Vi sono delle regole particolari che stanno a metà strada con riguardo ai terzi; esse stanno a metà strada con
le regole che si applicano in caso di nullità, per cui in genere si prevede che non si abbia nessun effetto, e le
regole previste per la risoluzione. In particolare, l’annullamento che non dipende da incapacità legale non
pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede (i terzi che ignoravano l’annullabilità del
contratto), salvi gli effetti della trascrizione. Con riguardo alla risoluzione, la risoluzione del contratto per
inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o
periodica, riguardo ai quali l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite. La
risoluzione, anche se è stata espressamente pattuita, non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti
della trascrizione della domanda di risoluzione. Quindi, in conclusione, mentre per la risoluzione i terzi
tutelati sono tutti, per l’annullamento i terzi tutelati sono quelli di buona fede che hanno acquistato a titolo
oneroso. Si prevede poi che debbano essere trascritte le domande dirette a far dichiarare la nullità,
l’annullamento, gli atti soggetti a trascrizione e anche le domande dirette a impugnare la validità stessa della
trascrizione. Se la domanda diretta a far dichiarare la nullità o l’annullamento è trascritta dopo 5 anni dalla
137
data di trascrizione dell’atto che si intende impugnare, la sentenza che accoglie la domanda di annullamento,
o di nullità, non pregiudica i diritti che sono stati acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede, in baso
a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda. Se però la domanda è diretta a far
pronunziare l’annullamento per una causa diversa dall’incapacità legale, la sentenza che l’accoglie non
pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla
trascrizione della domanda, anche se questa è stata trascritta prima che siano decorsi 5 anni dalla data della
trascrizione dell’atto impugnato purché, in questo caso, i terzi abbiano acquistato a titolo oneroso.
Argomento 15
Videolezione 1 – L’obbligazione in generale.
L’obbligazione è lo specifico dovere giuridico in forza del quale un soggetto, detto debitore, è tenuto ad una
determinata prestazione patrimoniale per soddisfare l’interesse di un altro soggetto, detto creditore. Oltre a
designare la posizione debitoria il termine obbligazione indica il rapporto che intercorre tra debitore e
creditore. Questo rapporto prende comunemente il nome di rapporto obbligatorio. Il rapporto obbligatorio
può definirsi come il rapporto avente ad oggetto una prestazione patrimoniale che un soggetto, detto
debitore, è tenuto ad eseguire per soddisfare l’interesse di un altro soggetto, detto creditore. Al debito è
correlativo il credito, ossia il diritto del creditore alla prestazione dovutagli. L’obbligazione deve essere
distinta rispetto all’onere. L’onere è un comportamento necessitato del soggetto per il soddisfacimento di un
interesse proprio. L’onere, precisamente, è un requisito necessario per il conseguimento di un risultato
favorevole. L’obbligazione è invece imposta al soggetto per il soddisfacimento di un interesse altrui
giuridicamente tutelato. L’inadempimento comporta quindi una situazione antigiuridica che esige la
riparazione dell’interesse leso. Fonti dell’obbligazione sono il contratto, l’atto illecito e qualsiasi altro atto o
fatto idoneo a produrla in conformità dell’ordinamento giuridico.
Il rapporto obbligatorio non va confuso con il rapporto contrattuale, che è il rapporto che intercorre tra le
parti del contratto, rapporto al quale inerisce una varietà di posizioni giuridiche soggettive indicate
unitariamente nella titolarità del contratto. La distinzione tra rapporto obbligatorio e rapporto contrattuale è
importante, tra l’altro, per comprendere la distinzione tra cessione del credito e cessione del contratto. La
cessione del credito ha per oggetto una singola posizione soggettiva inerente al rapporto obbligatorio, mentre
la cessione del contratto ha per oggetto il complesso delle posizioni che fanno capo al titolare del rapporto
contrattuale.
Anche la pubblica amministrazione può essere debitrice. Le obbligazioni della pubblica Amministrazione
sono regolate di massima dalla disciplina generale di diritto comune. La preminenza pubblica
dell’Amministrazione, titolare di poteri autoritari per l’esercizio delle sue funzioni, non altera infatti la
struttura del rapporto obbligatorio in quanto le correlative posizioni di debito e credito si pongono su un
piano di formale parità giuridica. L’applicazione di massima della disciplina di diritto comune può essere
derogata dal titolo o dalla legge. Si tratta per altro generalmente di deroghe giustificate dalle esigenze di
struttura e di funzionamento dell’Amministrazione, che non alterano la sostanza del rapporto, come, ad es.,
le disposizioni sul procedimento di pagamento delle obbligazioni pecuniarie dello Stato, sull’onere
probatorio posto a carico degli eredi del creditore, sul tasso d’interesse nelle obbligazioni di rimborso
tributario, ecc.
Si è detto che i soggetti del rapporto obbligatorio sono il debitore e il creditore. Questi soggetti devono essere
determinati, o determinabili. Questo principio di determinatezza dei soggetti del rapporto obbligatorio segna
anzitutto la distinzione tra obbligazioni da una parte, e doveri generici dall'altra. I doveri generici sussistono
nei confronti della generalità dei consociati regolando la vita di relazione (per es. non è obbligazione il
dovere che abbiamo di non arrecare danno ad altri). L'obbligazione impone invece un dovere specifico nei
confronti del soggetto che è portatore del particolare interesse da soddisfare. Il creditore, a sua volta, è
titolare della pretesa all'adempimento nei confronti esclusivi dell'obbligato. Il diritto di credito è,
precisamente, un diritto relativo. I soggetti del rapporto obbligatorio sono determinabili quando è stabilito
dal titolo o dalla legge il modo per la loro determinazione.
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Un’ipotesi di soggetto determinabile, in particolare di creditore determinabile, scaturisce dalla promessa al
pubblico. La promessa al pubblico è il negozio mediante il quale un soggetto s'impegna pubblicamente ad
eseguire una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata
azione. La promessa è vincolante dal momento stesso in cui essa è resa pubblica, e può essere revocata solo
per giusta causa, e comunque non dopo che la situazione si sia verificata o l'azione sia stata compiuta. La
promessa al pubblico è un negozio unilaterale. Essa non va confusa con l'offerta al pubblico, la quale è una
proposta contrattuale e dà luogo alla formazione di un contratto a seguito dell'accettazione altrui. La
promessa al pubblico è invece fonte diretta dell'obbligazione del promittente verso il beneficiario.
Oggetto o contenuto del rapporto obbligatorio è la prestazione, ossia ciò che è dovuto dal debitore al
creditore. La prestazione consiste nella realizzazione di una data finalità materiale o giuridica. Elemento
funzionale del rapporto obbligatorio è l’interesse del creditore. L’interesse creditorio non deve
necessariamente essere un interesse economico. Secondo il codice la prestazione deve avere carattere
patrimoniale e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore. Da questa norma si
desume pertanto che l'obbligazione può essere costituita per soddisfare i più vari interessi ideali, come
interessi morali, artistici, religiosi, ecc.
Oltre alla patrimonialità sono requisiti legali della prestazione, la patrimonialità, la possibilità, la liceità e la
determinatezza o determinabilità. La patrimonialità è un carattere specifico dell'obbligazione. Essa,
precisamente vale a distinguere l'obbligazione rispetto agli obblighi giuridici di contenuto non economico.
Gli altri requisiti sono invece condizioni di esistenza del rapporto obbligatorio. Precisamente, se la
prestazione è inizialmente impossibile, illecita o indeterminabile, l'obbligazione non sorge; se la prestazione
diviene successivamente impossibile, illecita o indeterminabile, essa si estingue.
La disciplina dell’obbligazione detta il principio secondo il quale il debitore e il creditore devono
comportarsi secondo le regole della correttezza. La correttezza, designata anche come buona fede in senso
oggettivo, è un principio di solidarietà che il Codice sancisce nella disciplina dell’obbligazione, ma anche
nella disciplina del contratto. Quest’obbligo si specifica come obbligo di salvaguardia, nel senso che
ciascuno dei due soggetti deve salvaguardare l’utilità dell’altro nei limiti in cui ciò non comporti un
apprezzabile sacrificio. Alla correttezza è tenuto sia il debitore che il creditore. Il creditore, in base al dovere
di buona fede, non può abusare della sua posizione creditoria e deve evitare un aggravio della posizione del
debitore, che non sia giustificato da un corrispondente interesse del creditore stesso. Questo dovere di buona
fede da parte del creditore, ad esempio, impone di avvertire il debitore che l’esecuzione della prestazione
presenta un determinato pericolo. Per quanto riguarda il debitore, “buona fede” vuol dire che egli non
semplicemente deve eseguire la prestazione, ma deve attivarsi per evitare che l’esecuzione di questa
prestazione non comporti un risultato inutile per il creditore, o un risultato addirittura pregiudizievole.
Quindi, diciamo che la buona fede amplia la sfera della doverosità del debitore, ma non richiede uno sforzo
che vada oltre i limiti di un apprezzabile sacrificio. Qui si coglie la differenza tra la buona fede e la diligenza.
Un esempio di comportamento corretto da parte del debitore può ravvisarsi nel caso in cui il debitore si
accorga che l’esecuzione della prestazione, così come programmata dal creditore, porterebbe a un risultato
inutilizzabile da parte del creditore stesso.
Accanto alla buona fede, una figura fondamentale nell’ambito della disciplina del rapporto obbligatorio è
costituita dalla diligenza. Nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di
famiglia. In generale la diligenza è l'impiego delle energie e dei mezzi idonei alla realizzazione di un
determinato fine. La diligenza dovuta dal debitore è l'impiego normalmente adeguato delle energie e dei
mezzi utili al soddisfacimento dell'interesse del creditore. La diligenza dovuta dal debitore si pone come
criterio fondamentale di determinazione della prestazione obbligatoria e, insieme, come criterio di
responsabilità. Come criterio di responsabilità la diligenza indica lo sforzo che il debitore deve impiegare per
evitare l'inadempimento o l'inesattezza dell'adempimento. Come criterio di determinazione della prestazione
la diligenza indica il modello di precisione e di abilità tecnica cui il comportamento dovuto deve
conformarsi. Il debitore è tenuto alla diligenza del buon padre di famiglia. Questa tradizionale formula
esprime la nozione di diligenza media, ossia della diligenza buona ma non eccezionale. La diligenza del
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buon padre di famiglia è improntata al canone della normalità, volendo significare in definitiva diligenza
normalmente adeguata al fine. Nell'adempimento delle obbligazioni professionali la diligenza va valutata con
riguardo alla natura dell'attività esercitata (art. 11762 c.c.). Questo riferimento non implica un diverso
significato della diligenza. La diligenza professionale è pur sempre diligenza media, che esige la perizia
normale della categoria professionale cui il debitore appartiene o dovrebbe appartenere nell'assumere
l'obbligazione. La regola della diligenza media può essere variamente derogata dalla legge o dal titolo
negoziale. Il debitore può quindi essere tenuto ad un grado maggiore o minore di diligenza, ossia ad una
diligenza massima o minima. Al diverso grado della diligenza corrisponde una diversa misura di
responsabilità, particolarmente nel senso che l'obbligo della diligenza massima rende responsabile il debitore
anche per colpa lieve mentre l'obbligo della diligenza minima lo rende responsabile solo per colpa grave.
Singoli aspetti della diligenza sono la cura, la cautela, la perizia e la legalità.
La cura indica l'attenzione volta al soddisfacimento dell'interesse creditorio. Altro aspetto della diligenza è la
cautela, ossia l'osservanza delle misure di cautela idonee ad evitare che sia impedito il soddisfacimento
dell'interesse che l'obbligazione è diretta a soddisfare e che siano pregiudicati altri interessi del creditore
giuridicamente tutelati. Ad es., la consegna e il montaggio di una macchina nei locali del creditore devono
essere eseguiti, con la prudenza necessaria ad evitare danni alla macchina e ad evitare anche danni ai locali e
agli altri beni del creditore. Un ulteriore aspetto della diligenza è costituito dall'impiego delle adeguate
nozioni e strumenti tecnici. L'impiego delle adeguate nozioni tecniche è la perizia. Il debitore è tenuto di
regola ad una normale perizia, commisurata al modello del buon professionista, cioè ad una misura obiettiva
che prescinde dalle concrete capacità del soggetto. Altro aspetto della diligenza è costituito dalla legalità,
intesa come l'osservanza delle norme giuridiche rilevanti al fine del soddisfacimento dell'interesse del
creditore e al rispetto della sua sfera giuridica. L'osservanza della legalità si rende necessaria non solo nello
svolgimento di attività giuridiche :(es.: esecuzione di mandato) ma anche nello svolgimento di attività
materiali assoggettate in tutto o in parte a disciplina giuridica. Anche quando la prestazione non consiste nel
compimento di atti giuridici, l’illegalità del comportamento del debitore può tradursi in inesattezza della
prestazione se pregiudica l’interesse del creditore. Per es. il vettore terrestre che esegue l’operazione di
trasporto deve osservare le norme giuridiche che regolano la circolazione stradale.
Una classificazione tradizionale divide le obbligazioni in obbligazioni di dare, fare, non fare. Si tratta quindi
di una divisione che non esaurisce la materia e che può servire solo come un primo inquadramento
sistematico. Obbligazioni di dare sono le obbligazioni aventi a contenuto il trasferimento di un diritto o la
consegna di un bene. Le obbligazioni di dare si distinguono in specifiche e generiche. Le obbligazioni
specifiche hanno ad oggetto beni specificati nella loro identità mentre le obbligazioni generiche hanno ad
oggetto beni designati secondo l'appartenenza ad un genere, ossia secondo l'appartenenza ad una categoria di
beni. In senso lato si definiscono obbligazioni di fare tutte le obbligazioni aventi ad oggetto un'attività
materiale o giuridica che non consista in un dare. L’obbligazione di non fare è l’obbligazione negativa che ha
ad oggetto un comportamento omissivo del debitore, che può consistere in un non fare o anche in un non
dare.
Un’altra distinzione che ricorre ormai nella teoria dell’obbligazione è quella tra obbligazioni di mezzi e
obbligazioni di risultato. Obbligazioni di mezzi sono le obbligazioni in cui il debitore è tenuto a svolgere
un'attività a prescindere dal conseguimento di una determinata finalità; obbligazioni di risultato sono invece
le obbligazioni in cui il debitore è tenuto a realizzare una determinata finalità a prescindere da una specifica
attività strumentale. Tipica obbligazione di mezzi è, ad es., quella del medico, il quale è obbligato a prestare
la propria opera ma non a guarire il paziente, e, in genere, quella del professionista intellettuale. La
differenza tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato è la differenza tra due diversi contenuti della
prestazione dovuta. Precisamente, nelle prime la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo
dell'attività del debitore, e il debitore adempie quindi esattamente l'obbligazione se svolge l'attività prevista
nel modo dovuto. Nelle seconde ciò che è dovuto è il risultato, e per adempiere esattamente l’obbligazione il
debitore deve conseguire tale risultato. Se il risultato non si realizza l'obbligazione è quindi inadempiuta pur
se il debitore abbia tenuto un comportamento diligente. Ciò vuol dire, ancora, che la prova del
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comportamento diligente non è prova dell'adempimento. La distinzione tra obbligazioni di mezzi e
obbligazioni di risultato non rileva ai fini dell'applicazione della disciplina generale delle obbligazioni e della
responsabilità contrattuale ma ai fini della identificazione della prestazione dovuta.
Tra le obbligazioni di risultato possono inquadrarsi le obbligazioni del fatto altrui. Obbligazioni del fatto
altrui sono le obbligazioni in cui il debitore è obbligato a che un terzo tenga un certo comportamento positivo
o negativo, stipulando o non stipulando un negozio giuridico, assumendo un'obbligazione, rinunziando ad un
diritto, astenendosi da un acquisto, eseguendo un'opera muraria nel proprio fondo, ecc. Chi promette
l'obbligazione o il fatto di un terzo è tenuto a indennizzare l'altro contraente se il terzo rifiuta di obbligarsi o
non compie il fatto promesso.
L’obbligazione alternativa è l’obbligazione in cui sono dovute due o più prestazioni ma un solo
adempimento. Essa si verifica quando il debitore si libera eseguendo una tra le prestazioni che formano
oggetto dell’obbligazione. Gli elementi che caratterizzano l’obbligazione alternativa sono a) la pluralità
dell’oggetto e b) l’unicità dell’adempimento. a) La pluralità dell’oggetto è data da ciò, che tutte le prestazioni
sono dovute fin dalla costituzione del rapporto obbligatorio e fino al momento della concentrazione, cioè
fino al momento in cui sia esercitato il potere di scelta dell’una o dell’altra. L’obbligazione alternativa si
distingue quindi rispetto a quella facoltativa, in cui è dovuta una prestazione ma il debitore ha la facoltà di
liberarsi eseguendone una diversa. b) Unicità dell’adempimento, vuol dire che il debitore è tenuto ad
eseguire una sola delle prestazioni dovute. Il debitore, precisamente, si libera eseguendo la prestazione
prescelta da lui stesso ovvero dal creditore o da un terzo secondo la previsione del titolo. Con riguardo
all’impossibilità sopravvenuta di una delle prestazioni occorre distinguere secondo che tale impossibilità sia
imputabile o meno ad una delle parti. L’impossibilità sopravvenuta di una delle prestazioni non imputabile
alle parti converte senz’altro l’obbligazione alternativa in obbligazione semplice, concentrando il suo oggetto
nella prestazione possibile. L’impossibilità sopravvenuta per causa imputabile ad una delle parti è regolata
conformemente a questi principi: 1) l’impossibilità imputabile alla parte che ha il diritto di scelta è a carico
della parte medesima, che perde il diritto di scelta; 2) l’impossibilità imputabile alla parte che non ha il
diritto di scelta non pregiudica il diritto di scelta dell’altra parte. In p
Dicevamo che l’obbligazione alternativa si distingue rispetto all’obbligazione facoltativa. L’obbligazione
facoltativa (o con facoltà alternativa) è l’obbligazione in cui è dovuta una prestazione ma il debitore ha la
facoltà di liberarsi eseguendone un’altra. L’obbligazione facoltativa si considera un’obbligazione semplice
essendo dovuta una sola prestazione. Ne consegue che se tale prestazione diviene impossibile, l’obbligazione
si estingue senza che rilevi la possibilità di esecuzione della prestazione rimessa alla facoltà del debitore.
Il termine dell’obbligazione è il tempo dell’adempimento, cioè il tempo nel quale o durante il quale la
prestazione dev’essere eseguita. Il tempo può essere determinato con riferimento al calendario o ad un
evento certo nel suo accadimento. Il termine può essere riferito anche ad un evento di cui è incerto il
momento del suo accadimento (es.: il momento della morte). Il termine si presume a favore del debitore. Il
termine a favore del debitore rende la prestazione inesigibile fino al momento della scadenza. Il termine può
essere a favore esclusivo del creditore. In tal caso il creditore può esigere subito l’adempimento. Il tempo
dell’adempimento può essere determinato dal titolo, dagli usi, dalla legge o dal giudice. In mancanza, si
applica il criterio legale della immediata scadenza della prestazione. Se però un termine è necessario, e non
risulta altrimenti determinato o determinabile, esso è fissato dal giudice. Il computo del termine si effettua
tenendo conto di alcune regole valevoli per la prescrizione, appositamente richiamate. In particolare, il
computo si effettua secondo il calendario comune; non si tiene conto del giorno iniziale; se il termine scade
in un giorno festivo, esso è prorogato al giorno seguente non festivo; se il termine è indicato in mesi o anni,
esso scade nel giorno corrispondente al giorno del mese iniziale (ad es., il 1° aprile il debitore si obbliga di
pagare entro due mesi: il termine scadrà il 1° giugno); se nel mese finale manca il giorno corrispondente, il
giorno di scadenza è l’ultimo del mese.
Il luogo dell’adempimento è quello indicato dal contratto e, più in generale, dal titolo (testamento, sentenza,
ecc.). Il luogo può essere poi determinato dagli usi, i quali sono espressamente richiamati dal codice. Se il
luogo dell’adempimento non è indicato dal titolo né è determinato dagli usi, trovano applicazione i criteri
141
determinativi legali. Il codice prevede quattro criteri generali di determinazione del luogo della prestazione,
espressi nelle seguenti regole: a) l’obbligazione dev’essere adempiuta nel luogo desumibile dalla natura e
dalle circostanze della prestazione; b) l’obbligazione di consegnare cosa certa e determinata dev’essere
adempiuta nel luogo in cui la cosa si trovava al tempo in cui è sorta l’obbligazione; c) l’obbligazione
pecuniaria dev’essere adempiuta al domicilio del creditore; d) in tutti gli altri casi l’obbligazione dev’essere
adempiuta al domicilio del debitore. I pagamenti delle Amministrazioni statali sono disciplinati dalla
normativa generale di contabilità dello Stato, la quale indica come luogo di pagamento quello degli uffici
delle tesorerie.
Videolezione 2 – Le obbligazioni pecuniarie.
Obbligazioni pecuniarie sono le obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro. La specialità delle
obbligazioni pecuniarie è data dalla specialità del denaro che non è di regola né un bene di consumo né un
bene produttivo, non essendo direttamente idoneo a soddisfare un determinato bisogno né a produrre altri
beni. Il denaro è piuttosto un bene caratterizzato dalla sua autonoma funzione quale mezzo generale di
acquisto e di pagamento. Il denaro è monopolio dello Stato ed ha un corso legale, ossia è mezzo legale di
pagamento. Il denaro avente corso legale in un dato ordinamento giuridico è la valuta. I debiti pecuniari si
estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale:
in questa regola si esprime il principio nominalistico. Il principio nominalistico non si applica ai debiti di
valore. Debiti di valore sono i debiti pecuniari determinabili esclusivamente in ragione di un dato valore
economico (es.: obbligo di risarcimento del danno). Secondo la definizione corrente in giurisprudenza i
debiti di valore avrebbero senz’altro ad oggetto un “valore” economico e non in una determinata somma di
denaro. Nelle obbligazioni che non sono di valore e che vengono chiamate di “valuta”, le variazioni di valore
della moneta sono irrilevanti.
Nel tema delle obbligazioni pecuniarie emerge la figura dell’interesse. In particolare, gli interessi sono le
prestazioni pecuniarie percentuali e periodiche dovute da chi utilizza un capitale altrui o ne ritarda il
pagamento. Gli interessi si distinguono anzitutto secondo la loro fonte. Si qualificano legali gli interessi che
hanno fonte nella legge, convenzionali gli interessi che hanno titolo nel contratto. Gli interessi si distinguono
poi secondo la loro causa. Al riguardo una distinzione di fondo va fatta tra interessi compensativi e interessi
moratori. Moratori sono gli interessi che costituiscono una liquidazione forfettaria minima del danno per il
ritardo nel pagamento dei debiti di denaro. Compensativi sono in generale gli interessi aventi funzione
remunerativa, cioè gli interessi che rappresentano un compenso percentuale periodico dovuto in cambio del
vantaggio della disponibilità di una somma di denaro spettante al creditore. Nell'ambito degli interessi che
hanno funzione remunerativa possono distinguersi: a) gli interessi sui capitali concessi a mutuo o comunque
in godimento (frutti civili); b) gli interessi sulle somme liquide ed esigibili (interessi di pieno diritto); c) gli
interessi sulle somme dovute a titolo di prezzo dal compratore che abbia già ricevuto il possesso della cosa
produttiva di frutti o di altri proventi; d) gli interessi sulle somme dovute a titolo risarcitorio o indennitario.
Queste varie ipotesi di interessi sono accomunate in ciò, che esse prescindono dalla mora del debitore e
trovano piuttosto fondamento nel principio della naturale fecondità del denaro, ossia nel principio secondo il
quale la disponibilità nel tempo del denaro altrui va remunerata perché essa integra un obiettivo vantaggio
economico. Il principio della naturale fecondità del danaro è espresso in termini generali della norma che
sancisce la decorrenza degli interessi su tutte le somme liquide ed esigibili (interessi detti anche di pieno
diritto). Requisiti degli interessi di pieno diritto sono la liquidità e la esigibilità del credito. Credito liquido è
il credito il cui ammontare è certo o accertabile mediante operazioni di mero conteggio aritmetico. Credito
esigibile è il credito non soggetto a condizione sospensiva né a termine in favore del debitore.
Il tasso d’interesse può essere legale, ma può essere anche determinato convenzionalmente. Qui però
l’autonomia privata incontra un limite ben rigoroso nel divieto degli interessi usurari, cioè il divieto di fissare
interessi esorbitanti rispetto ai valori di mercato. Precisamente, sono usurari gli interessi previsti in misura
superiore alla soglia massima periodicamente determinata dal Ministro del tesoro. Sono inoltre usurari gli
interessi che pur non superando tale soglia sono dati o promessi in misura sproporzionata da chi si trova in
condizioni di difficoltà economica o finanziaria. Sul piano civilistico la clausola degli interessi usurari è
142
nulla e gli interessi non sono dovuti nemmeno nella misura legale. L’usura costituisce anche reato. Il
carattere usurario degli interessi va accertato con riguardo esclusivo al momento in cui sono promessi o
convenuti.
Anatocismo è il diritto agli interessi sugli interessi. Teniamo presente che l’obbligazione avente a oggetto gli
interessi è un’obbligazione pecuniaria, che può dar luogo appunto al diritto a interessi con riguardo alla
prestazione pecuniaria di cui sia ritardato il pagamento. Gli interessi anatocistici sono legali o convenzionali.
Gli interessi anatocistici legali sono dovuti a seguito di domanda giudiziale. Essi decorrono dal giorno della
domanda sugli interessi che siano scaduti e dovuti da almeno 6 mesi. Per i primi 6 mesi, dunque, non
spettano interessi anatocistici. Gli interessi anatocistici possono poi avere fonte nella convenzione. La
convenzione è nulla se stipulata prima che siano divenuti esigibili gli interessi primari. Per poter produrre
interessi anatocistici, inoltre, gli interessi primari devono essere dovuti da almeno 6 mesi. Ciò vuol dire che
le somme dovute a titolo di interessi sono insuscettibili di produrre interessi anatocistici prima che sia
trascorso un semestre dal momento in cui è sorta l'obbligazione avente ad oggetto tali somme. La norma del
codice sulla scadenza degli interessi anatocistici fa salvi gli “usi contrari” – per es. gli usi bancari sono
irrilevanti ai fini della determinazione degli interessi anatocistici.
Videolezione 3 – L’adempimento e gli altri modi di estinzione dell’obbligazione.
L’adempimento è l’esecuzione della prestazione. Requisiti soggetti dell’adempimento sono la legittimazione
dell’adempiente, detta legittimazione ad adempiere, e quella del destinatario, detta legittimazione a ricevere.
La legittimazione ad adempiere designa la competenza del soggetto ad eseguire la prestazione; la
legittimazione a ricevere designa la competenza del soggetto ad accettare la prestazione con effetto
liberatorio per il debitore. La nozione di legittimazione non va confusa con quella di titolarità del rapporto
obbligatorio. La titolarità del rapporto obbligatorio è la spettanza delle posizioni di debito e di credito.
Titolari del rapporto obbligatorio sono il debitore e il creditore. La legittimazione è invece il potere di attuare
le posizioni di debito e di credito. Legittimati ad adempiere sono di regola il debitore e i suoi ausiliari, le
persone autorizzate dalla legge o dal giudice, e in genere tutti i terzi, salvo che il creditore abbia un
apprezzabile interesse a non ricevere la prestazione del terzo. La legittimazione ad adempiere spetta in primo
luogo al debitore. Il debitore è tuttavia eccezionalmente privo della legittimazione ad adempiere nell’ipotesi
di fallimento: i pagamenti eseguiti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai
creditori concorsuali. L’incapacità del debitore non esclude invece la sua legittimazione ad adempiere. Il
debitore non può infatti ripetere (pretendere la restituzione) la prestazione a causa della sua incapacità. Il
debitore incapace può tuttavia risultare pregiudicato da una prestazione eseguita con modalità o contenuti
diversi da quelli previsti, se tale diversità implica a suo carico un detrimento economico superiore a quello
richiesto dal preciso adempimento. In tal caso avrà diritto ad essere indennizzato per il pregiudizio subito,
ma entro i limiti dell’arricchimento conseguito dal creditore.
Come si diceva, qualsiasi terzo è legittimato ad adempiere l’obbligazione altrui; qualsiasi terzo può di regola
adempiere un’obbligazione altrui anche contro la volontà del creditore, se questi non ha interesse a che il
debitore esegua personalmente la prestazione. Accanto all'interesse apprezzabile del creditore a che la
prestazione non sia eseguita da persona diversa dall'obbligato, la legge prevede l'opposizione del debitore
manifestata al creditore quale causa che legittima quest'ultimo a rifiutare la prestazione del terzo.
L'adempimento del terzo ha per effetto l'estinzione dell'obbligazione del debitore nei confronti del creditore.
All'adempiente non compete il diritto di rimborso se il pagamento integra un atto di liberalità. In caso
contrario l'adempiente potrà far valere il diverso titolo in base al quale ha eseguito l'obbligazione (mandato
senza rappresentanza, gestione di affari altrui, ecc.).
La legittimazione a ricevere è il potere di ricevere la prestazione con effetto estintivo del debito. A differenza
del credito, che è il diritto all'esecuzione della prestazione e che è correlativo all'obbligo del debitore, la
legittimazione a ricevere indica una posizione di potere la quale spetta di regola al creditore ma può
competere ad altri soggetti, anche in via esclusiva. Questi altri legittimati sono, precisamente, il
rappresentante, la persona indicata dal creditore, la persona autorizzata dalla legge o dal giudice (art. 11881
c.c.). La legittimazione a ricevere la prestazione spetta di regola al creditore. In quanto il creditore ha il
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diritto all'adempimento è normale, infatti, che egli abbia anche il potere di ricevere la prestazione con effetto
liberatorio per il debitore. Il creditore può tuttavia non essere legittimato a ricevere a causa della perdita della
disponibilità giuridica del credito (es.: a seguito di fallimento) o a causa della propria incapacità. Se il
creditore è legalmente incapace, unico legittimato a ricevere è il rappresentante legale del creditore (art.
1190). Il pagamento al creditore incapace può liberare il debitore se questi prova che ciò che è stato pagato è
stato rivolto a vantaggio dell’incapace.
Il pagamento fatto al non legittimato è inefficace nei confronti del creditore. Il debitore rimane quindi
obbligato ad eseguire la prestazione. Il debitore è tuttavia liberato se il creditore ratifica il pagamento o se
abbia profittato dell’adempimento. Il debitore è liberato anche se esegue il pagamento in buona fede a chi
appare legittimato a riceverlo. L'effetto liberatorio del pagamento eseguito al non legittimato richiede due
presupposti, uno di carattere soggettivo, la buona fede del debitore, l'altro di carattere oggettivo, l'apparenza
della legittimazione in capo al ricevente. La buona fede è la credenza del debitore che il ricevente sia il vero
creditore o sia comunque destinatario del pagamento. L'apparenza di legittimazione del ricevente costituisce
il presupposto obiettivo della fattispecie liberatoria: affinché il debitore sia liberato occorre, precisamente,
che il pagamento sia eseguito a chi appare legittimato a ricevere in base a circostanze univoche, ossia in base
a circostanze che nella valutazione di un soggetto di normale diligenza inducano a ritenere effettivamente
esistente la legittimazione del ricevente. Effetto del pagamento al creditore apparente è la liberazione del
debitore e l’obbligo di chi ha ricevuto il pagamento di restituirlo al vero creditore secondo la disciplina
dell’indebito.
La prova del pagamento è di regola un onere a carico del debitore. Prova documentale tipica è la quietanza.
La quietanza è la dichiarazione scritta con la quale il creditore attesta di avere ricevuto il pagamento in essa
indicato. La validità della dichiarazione può essere contestata per mancanza di veridicità. Se il debitore non
ha eseguito la prestazione o l’ha eseguita solo parzialmente, il creditore conserva infatti in tutto o in parte il
suo diritto. È però a suo carico l’onere di provare che la quietanza in tutto o in parte non risponde a verità. La
quietanza è inoltre nulla se estorta con violenza. La quietanza può essere rilasciata mediante atto pubblico
ossia mediante dichiarazione ricevuta dal notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirle
pubblica fede (art. 2699 c.c.), ovvero mediante dichiarazione scritta. A tal fine non è tuttavia essenziale la
forma della scrittura privata richiesta per i contratti, ma è sufficiente che la dichiarazione provenga dal
creditore, pur se non firmata dal medesimo. L'efficacia probatoria della quietanza riguarda esclusivamente la
prestazione in essa indicata. Una presunzione di pagamento ulteriore è legalmente attribuita alla quietanza
solo con riguardo agli interessi. Precisamente, il rilascio della quietanza per il capitale fa presumere il
pagamento degli interessi. Spesso la quietanza si accompagna all'espressa dichiarazione del creditore di
ricevere la prestazione a saldo di quanto dovutogli, ossia ad integrale soddisfacimento di quanto spettantegli.
Questa ulteriore dichiarazione non ha valore probatorio perché non ha ad oggetto l'accadimento di un fatto.
Essa non vale neppure come rinunzia ad eventuali altri crediti o all'eventuale differenza della prestazione
perché un tale significato negoziale non si desume con certezza da un atto di contenuto meramente
dichiarativo. Affinché si possa parlare di rinunzia o di transazione occorre piuttosto che la volontà remissiva
o transattiva emerga dal contesto dell'atto e abbia un oggetto sufficientemente determinato.
L'imputazione del pagamento è il riferimento della prestazione al debito da estinguere tra più debiti di eguale
natura del debitore verso il creditore. L'imputazione si distingue in volontaria e legale. L'imputazione
volontaria si distingue a sua volta in imputazione per atto del debitore e per atto del creditore. L'imputazione
del pagamento spetta in primo luogo al debitore. Il debitore non può imputare il pagamento prima al capitale
e poi agli interessi e alle spese. Se il debitore non esercita il diritto d'imputazione, tale diritto può essere
esercitato dal creditore. Il creditore, allora, può dichiarare nella quietanza a quale debito va imputato il
pagamento: il debitore che accetta la quietanza non può poi pretendere un'imputazione diversa, salvo che vi
sia stato dolo o sorpresa da parte del creditore. Il dolo indica il comportamento fraudolento del creditore
diretto a trarre in inganno il debitore (facendogli credere che l'imputazione fatta risponde ai criteri legali, che
non può essere contestata dal debitore, ecc.), mentre la sorpresa consiste in ciò, che il creditore approfitta
delle condizioni personali del debitore per fare senza opposizione un'imputazione a sé favorevole. In
mancanza d'imputazione volontaria trovano applicazione i criteri legali d'imputazione, ispirati ora a ragioni
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di favore per il debitore ora a ragioni di favore per il creditore. Un primo criterio legale d'imputazione è
quello, che ascrive il pagamento agli interessi e alle spese, poi al capitale. Gli altri criteri legali sono i
seguenti. 1) Tra un debito scaduto e un debito non scaduto la prestazione è imputata al debito scaduto. 2) Tra
più debiti scaduti il pagamento è imputato a quello meno garantito. 3) Tra più debiti egualmente garantiti il
pagamento è imputato a quello più oneroso per il debitore. 4) Tra più debiti egualmente onerosi il pagamento
è imputato al più antico, ossia a quello scaduto da più tempo. 5) L'ultimo criterio è quello della ripartizione
proporzionale della prestazione tra le varie obbligazioni.
L’adempimento può dar luogo alla surrogazione e cioè al subingresso di un terzo nei diritti del creditore in
conseguenza del pagamento del debito e col concorso delle altre condizioni di legge. Funzione della
surrogazione è quella di assicurare al terzo adempiente o mutuante il recupero di quanto prestato
consentendogli di avvalersi delle stesse azioni, garanzie e privilegi del creditore soddisfatto. Si distinguono
tre tipi di surrogazione: 1) la surrogazione per volontà del creditore: il creditore surroga il terzo adempiente
nei propri diritti verso il debitore; 2) la surrogazione per volontà del debitore: il debitore che prende a mutuo
la somma al fine di pagare il debito surroga il mutuante nei diritti del creditore; 3) la surrogazione legale: il
terzo che adempie è surrogato di diritto.
L’obbligazione è diretta al soddisfacimento dell’interesse del creditore, ma è rilevante giuridicamente anche
un interesse del debitore e, precisamente, l’interesse a non subire pregiudizio dal ritardo imputabile al
creditore e soprattutto l’interesse a liberarsi dall’obbligazione. L'interesse del debitore a non subire
pregiudizio dal ritardo imputabile al creditore e a liberarsi dall'obbligazione trova tutela giuridica negli
istituti dell'offerta formale e non formale di pagamento e della liberazione coattiva. Mediante l'offerta non
formale il debitore evita la mora. Il debitore, cioè, non risponde per il ritardo se il creditore non accetta senza
motivo legittimo la prestazione offertagli in forma semplice o irrituale. L'offerta è non formale o irrituale
quando non ha i requisiti formali dell'offerta solenne prevista per la costituzione in mora del creditore.
L’offerta irrituale dev’essere seria, esatta e tempestiva. Le obbligazioni pecuniarie presentano un particolare
problema di esattezza della prestazione con riguardo all’ offerta eseguita mediante titoli diversi dal denaro. Il
problema va risolto positivamente quando il debitore offre vaglia postali o assegni di conto corrente postale,
libretti postali o bancari, assegni circolari e altri analoghi titoli che documentano in maniera certa un credito
liquido e prontamente esigibile verso lo Stato o verso un istituto di credito. Tali titoli, assumono infatti
nell’economia moderna un significato ed una sicurezza equivalenti a quelli della moneta.
La mora del creditore è il ritardo dell’adempimento imputabile al creditore, il quale senza motivo legittimo
non accetta o non rende possibile la prestazione offertagli nelle forme di legge o nelle forme d'uso. La mora
comporta principalmente a carico del creditore il rischio dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione e
l'obbligo di risarcire al debitore il danno derivante dal ritardo. L’offerta formale della prestazione è anzitutto
l’offerta eseguita nelle forme di legge. Essa si distingue in offerta reale e offerta per intimazione. L'offerta
reale consiste nella diretta presentazione del denaro o degli altri beni fatta da un pubblico ufficiale, il quale li
reca con sé e li mette materialmente a disposizione del creditore. L'offerta per intimazione consiste nell'invito
che un pubblico ufficiale rivolge al creditore di riceversi il bene in un certo luogo e in un certo tempo, o di
compiere gli atti necessari per rendere possibile la prestazione. I requisiti di validità dell'offerta fatta nelle
forme di legge sono anzitutto i requisiti sostanziali di esattezza oggettiva e soggettiva della prestazione. Il
codice, precisamente, richiede 1) che l'offerta sia fatta al creditore capace o a chi è legittimato a ricevere per
lui; 2) che sia fatta da persona legittimata ad adempiere; 3) che comprenda la totalità della prestazione dovuta
e l'importo delle spese liquide; 4) che sia fatta dopo la scadenza del termine, se questo è a favore del
creditore; 5) che sia fatta dopo l'avverarsi della condizione, se l'obbligazione è sottoposta a condizione
sospensiva; 6) che sia fatta personalmente al creditore o nel suo domicilio. A costituire in mora il creditore
occorre che l’offerta formale sia poi convalidata dal giudice con sentenza passata in giudicato. Offerta
formale della prestazione è anche l’offerta eseguita nelle forme d'uso cioè con l'osservanza delle modalità
della prassi costante e generalizzata in un determinato luogo o in un determinato settore di affari. L'offerta
nelle forme d'uso è anch'essa un'offerta formale o rituale. Il creditore può essere costituito in mora sia
mediante un'offerta fatta nelle, forme legali sia mediante un'offerta fatta nelle forme d'uso, tranne che si tratti
della consegna di bene immobile, per la quale occorre comunque l'offerta per intimazione notificata nelle
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forme processuali. L'offerta nelle forme usuali avente ad oggetto la consegna di cose mobili ha effetto solo
dal giorno del deposito giudizialmente convalidato. La costituzione in mora del crediate non libera il debitore
dall’obbligazione. Ai fini della liberazione dall’obbligazione occorre piuttosto il deposito se l'obbligazione
ha per oggetto la consegna di beni mobili o il sequestro se l'obbligazione ha per oggetto la consegna di cose
immobili. Il deposito e il sequestro devono essere giudizialmente convalidati. Riguardo alle semplici
obbligazioni di fare, a seguito dell'offerta per intimazione esse si estinguono secondo la regola
dell'impossibilità temporanea della prestazione.
La dazione in pagamento, denominata dal codice prestazione in luogo dell'adempimento, è la prestazione che
il debitore esegue, col consenso del creditore, in sostituzione di quella dovuta. La sostituzione della
prestazione dovuta con altra prestazione implica la volontà negoziale sia del creditore che del debitore, cioè
l’accordo contrattuale di questi soggetti. Il debitore che esegue una prestazione traslativa in sostituzione della
prestazione dovuta è tenuto verso il creditore alla garanzia della vendita, ossia risponde alla pari del
venditore per il mancato realizzarsi dell'alienazione e per i vizi o mancanza di qualità. Al creditore è inoltre
lasciata l'alternativa di esigere la prestazione originaria e il risarcimento del danno.
Tipico modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento è la novazione oggettiva. La
novazione oggettiva è il contratto mediante il quale le parti estinguono l'obbligazione originaria sostituendo
ad essa una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso. Elemento caratterizzante della novazione è
l'intento novativo, ossia la volontà delle parti di estinguere la precedente obbligazione e di sostituirla con la
nuova (l’animus novandi). Altro elemento caratterizzante della novazione è dato dalla diversità della nuova
obbligazione (l’aliquid novi). Secondo la definizione normativa, infatti, le parti sostituiscono alla precedente
obbligazione una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso. La diversità dell'oggetto attiene alla
prestazione mentre la diversità del titolo deve intendersi come diversità del titolo sostanziale, ossia della
causa dell'obbligazione. La causa dell'obbligazione si identifica nella causa del contratto, e l'obbligazione
novata ha un «titolo diverso» quando la causa del contratto novativo non è riconducibile a quella del
precedente rapporto (es.: l'obbligo di pagare una somma di denaro per canoni anticipati di locazione si
converte in obbligo di pagare il prezzo dell'immobile). Modifiche accessorie come l'apposizione o
l'eliminazione di un termine non producono novazione. La novazione non ha carattere satisfattivo in quanto
non comporta il soddisfacimento dell'interesse creditorio originario né di un interesse succedaneo ma la
trasformazione del rapporto obbligatorio in un nuovo rapporto. L'inesistenza della precedente obbligazione
rende la novazione «senza effetto». Questa previsione deve intendersi nel senso che è senz'altro nulla la
novazione di un'obbligazione che deriva da fattispecie inesistente, nulla o annullata o che è già estinta. La
precedente obbligazione non è infatti un mero presupposto del contratto ma elemento essenziale del suo
oggetto, in quanto la novazione ha per oggetto la sostituzione di un'obbligazione con un'altra.
Altro tipico modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento è la remissione. La remissione è
il negozio unilaterale mediante il quale il creditore rinunzia gratuitamente al diritto di credito. La
dichiarazione del creditore di rimettere il debito ha carattere recettizio in quanto per produrre l'estinzione
dell'obbligazione essa deve essere comunicata al debitore. Quest'ultimo può rifiutare la remissione del
debito, ma ha l'onere di comunicare il rifiuto al creditore entro un congruo termine. La remissione non
richiede una forma particolare né occorre che la volontà del creditore sia manifestata espressamente, ma il
codice esclude espressamente che la rinunzia alle garanzie abbia il significato di remissione del debito. La
remissione non pregiudica i diritti di usufrutto e di pegno costituiti sul credito. Precisamente, la remissione
estingue il rapporto obbligatorio intercorrente tra il creditore e il debitore, ma essa è inopponibile ai terzi
titolari di diritti di usufrutto e di pegno sul credito. In tal senso manca una espressa previsione normativa,
quale si riscontra in tema di confusione.
La compensazione è in generale l’elisione di due reciproche obbligazioni, fino al limite della loro
concorrenza. La compensazione può essere legale, giudiziale e volontaria, secondo che essa operi in forza di
legge, di provvedimento del giudice o per volontà delle parti. La compensazione legale è la compensazione
che ha luogo di diritto quando tra due persone intercorrono l'una verso l'altra debiti pecuniari od omogenei,
certi, liquidi ed esigibili. Tali debiti si estinguono per le quantità corrispondenti. La compensazione legale
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estingue i debiti nel momento stesso in cui essi vengono a coesistere, ma il giudice non può rilevarla
d'ufficio. La non rilevabilità d'ufficio della compensazione impone al soggetto che se ne voglia avvalere
l'onere di eccepirla. L'estinzione dell'obbligazione per compensazione comporta l'estinzione delle garanzie.
Dal momento della coesistenza dei debiti, precisamente, il creditore non può più avvalersi delle garanzie
annesse al suo credito: oltre che dal debitore la compensazione può infatti essergli opposta sia dal fideiussore
sia dal terzo datore di pegno o ipoteca. Il creditore che paga il proprio debito senza avvalersi della
compensazione non può più giovarsi, in pregiudizio dei terzi, dei privilegi e delle altre garanzie, salvo che
abbia pagato il proprio debito ignorando «per giusti motivi» di essere a sua volta creditore. In tale ipotesi il
creditore conserva eccezionalmente le sue garanzie. La compensazione giudiziale è la compensazione
pronunziata dal giudice, su richiesta di parte, quando il debito della controparte opposto in compensazione è
illiquido ma di pronta e facile liquidazione. La compensazione volontaria è la compensazione negoziale,
ossia la compensazione che ha titolo nella volontà delle parti a prescindere dai requisiti della compensazione
legale o giudiziale. La compensazione volontaria ha il medesimo fondamento di quella legale, ossia
l'economia degli adempimenti. Mediante la compensazione le parti semplificano i loro rapporti, evitano uno
scambio superfluo di adempimenti e riducono la prestazione dovuta al saldo tra dare e avere.
Altro modo di estinzione diverso dall’adempimento è la confusione. La confusione è un modo di estinzione
dell'obbligazione che ha luogo quando le posizioni di debitore e di creditore si riuniscono definitivamente
nella stessa persona. La riunione nella stessa persona delle posizioni debitoria e creditoria deve intendersi
come la vicenda successoria per la quale il debitore succede nella posizione del creditore, il creditore succede
in quella del debitore o un terzo succede nelle posizioni di entrambi. L'effetto estintivo della confusione è
fondato sul venir meno della struttura bilaterale del rapporto obbligatorio, quale relazione intercorrente tra un
debitore e un creditore. La confusione non pregiudica i diritti dei terzi. Questo principio è espressamente
affermato dal codice con riguardo ai diritti di usufrutto e di pegno. Precisamente, la confusione non opera in
pregiudizio dei titolari di diritti di usufrutto e di pegno sul credito. L'erede con beneficio d'inventario
conserva verso l'eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto, tranne quelli che si sono
estinti per effetto della morte. Questa previsione deve essere intesa allora nel senso che crediti e debiti del
defunto verso l'erede rilevano come poste attive e passive dell'asse ereditario, e che la confusione non altera
il limite di responsabilità dell'erede quale risulta dall'entità dell'asse ereditario in cui siano computate tali
poste.
L'obbligazione si estingue per l'impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da causa non
imputabile al debitore. L'impossibilità sopravvenuta della prestazione è una situazione impeditiva
dell'adempimento che il debitore non è in grado di superare né di prevenire con la diligenza richiestagli. Il
fondamento della causa estintiva dell'impossibilità sopravvenuta dev'essere ricercato nel limite dell'impegno
richiesto al debitore: il superamento di questo limite, segnato dalla diligenza dovuta, non può essere preteso
dal creditore. Si afferma spesso che l’impossibilità sopravvenuta deve avere gli stessi caratteri
dell’assolutezza e dell’oggettività, onde la prestazione sarebbe impossibile se nessun debitore può eseguirla.
Il codice prevede per altro che la prestazione si considera divenuta impossibile anche quando la cosa è
smarrita senza che possa esserne provato il perimento. È certo, qui, che il debitore è liberato a prescindere
dalla circostanza che altri (l'abusivo ritrovatore) potrebbe adempiere. Altro esempio che si desume da
un’interpretazione sicura e consolidata è quella secondo la quale la prestazione è impossibile se la cosa
dovuta sia stata rapinata. Va detto poi che tutti gli impedimenti che colpiscono la persona del debitore
(malattie, lesioni, ecc.) nelle prestazioni a carattere personale rilevano in termini di impossibilità liberatoria.
L'impossibilità è definitiva quando l'impedimento è irreversibile o si ignora se possa venire meno; è
temporanea quando l'impedimento deriva da una causa prevedibilmente transitoria. Un tipico esempio di
impossibilità temporanea è dato dallo sciopero. L'impossibilità definitiva estingue senz'altro l'obbligazione,
salvo l'obbligo del debitore di dare tempestiva comunicazione al creditore. L'impossibilità temporanea
sospende l'obbligo della prestazione, escludendo la responsabilità del debitore per il ritardo. Anche se
transitoria l'impossibilità dà luogo all'estinzione dell'obbligazione se essa perdura fino a quando, «in
relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell’oggetto», il debitore non può essere ritenuto obbligato
ovvero il creditore non ha più interesse a conseguire la prestazione. Con riguardo alle prestazioni aventi ad

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oggetto una cosa determinata, il creditore subentra nel diritto di risarcimento o di indennizzo spettante al
debitore verso terzi in conseguenza della sopravvenuta impossibilità, e può pretendere dal debitore le
prestazioni che questi abbia già ricevuto a tale titolo (commodum repraesentationis).
Le parti del rapporto obbligatorio possono disporre liquidazioni negoziali mediante le quali il patrimonio del
debitore è convertito in tutto o in parte in denaro. Tali operazioni prendono il nome di volontarie in quanto si
tratta di liquidazioni previste dall'autonomia delle parti e attuate nell'esercizio di comuni poteri privati. Sotto
questo riguardo esse si differenziano quindi dalle liquidazioni giudiziarie, affidate all'autorità giudiziaria o a
pubblici ufficiali nominati e controllati da tale autorità (es.: il fallimento). Liquidazioni negoziali in funzione
di pagamento sono la cessione dei beni ai creditori, la cessione in pagamento (art. 1198 c.c.), il mandato a
riscuotere, mediante il quale il creditore assume da parte del debitore l’incarico di riscuotere i crediti di
questo e di soddisfarsi sul ricavato.
Videolezione 4 – Cessione del credito. Modifiche relative al soggetto passivo dell’obbligazione.
Tipologie di obbligazioni e obbligazioni naturali.
La cessione del credito è il negozio mediante il quale il creditore (cedente) trasferisce il diritto di credito ad
un terzo (cessionario). Il codice proclama espressamente il principio della libera cessione dei crediti,
statuendo che il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito anche senza il consenso del
debitore. In deroga al generale principio della libera cessione i crediti sono incedibili quando 1) hanno
carattere strettamente personale e quando 2) la cessione è vietata dalla legge o 3) esclusa dalla volontà delle
parti. La causa della cessione del credito è l'interesse che di volta in volta l'atto è diretto a realizzare e che
giustifica l'atto medesimo. Può quindi aversi una vendita del credito, una cessione in pagamento, una
cessione a causa di garanzia, e così via. Il credito si trasferisce assieme ai suoi accessori. Diritti accessori
espressamente menzionati, come oggetto della cessione sono i diritti di garanzia. Le garanzie si trasferiscono
automaticamente, fatta eccezione per l’ipoteca, che richiede (non sempre) l’annotazione della trasmissione in
margine all’iscrizione ipotecaria.
Secondo il codice la cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto quando questi l'ha accettata o
quando gli è stata notificata. Il debitore è liberato se paga 'al cedente prima dell'accettazione o della
notificazione, salvo che il cessionario dimostri che il debitore stesso era a conoscenza dell'avvenuta cessione.
L'invalidità del pagamento eseguito al cedente se il cessionario prova che il debitore sapeva che il credito era
stato ceduto, conferma che la liberazione del debitore non dipende dal fatto che il cedente è ancora creditore
bensì dalla circostanza che l'adempiente ha pagato a chi gli appariva ragionevolmente come creditore, ossia
in base al principio di tutela della buona fede. La rilevanza della cessione nei confronti del debitore ceduto
non va confusa con la sua opponibilità ai terzi, nella quale si esprime la prevalenza del titolo di acquisto
rispetto al titolo altrui. Requisiti di opponibilità della cessione ai terzi aventi causa e ai creditori sono
l'accettazione e la notificazione di data certa. In caso di conflitto più cessionari la cessione che per prima sia
stata accettata o notificata prevale sulle altre, anche se di data posteriore. La stessa regola vale relativamente
alle costituzioni di pegno e di usufrutto.
Nella cessione a titolo oneroso il cedente è tenuto verso il cessionario alla garanzia dell’esistenza del credito
al tempo della cessione. La garanzia dell'esistenza del credito (nomen verum) ha per oggetto il risultato
traslativo della cessione, e rende responsabile il cedente in tutte le ipotesi in cui il cessionario non consegue
la titolarità del credito cedutogli o, avendola conseguita, la perde per fatto del cedente. Il cedente non
garantisce invece la solvenza del debitore ceduto. Il pericolo di non potere conseguire la prestazione è un
rischio che grava di per sé sul creditore, e che passa quindi normalmente al cessionario quale nuovo titolare
del credito. È però possibile, ed è anzi frequente, che il cedente assuma la garanzia negoziale della solvenza
del debitore. Il cedente che garantisce la solvenza del debitore ceduto risponde nei limiti di quanto ha
ricevuto. In caso di insolvenza del debitore ceduto il cessionario può cioè pretendere dal cedente solo la
restituzione di quanto gli abbia versato come corrispettivo della cessione. La garanzia della solvenza viene
meno se il cessionario non si attiva diligentemente per far valere le sue ragioni creditorie verso il debitore
ceduto. A carico del cessionario è posto in tal modo l'onere di prendere le normali iniziative giudiziali e

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stragiudiziali per la realizzazione del credito: costituzione in mora, azione per l'adempimento, pignoramento,
ecc.
Il factoring è un contratto che ha ad oggetto la cessione globale dei crediti presenti e futuri inerenti ad
un’impresa a fronte di un finanziamento o di altre controprestazioni. L’ingresso del factoring nella pratica
commerciale aveva suscitato perplessità in dottrina in ordine alla sufficiente determinatezza dell’oggetto e in
ordine alla derogabilità della norma sui requisiti di opponibilità del contrato. La difficoltà di conciliare la
nuova figura con la disciplina del codice sono state superate dalla legge del 21 febbraio 1991, n. 52,
regolante la cessione dei crediti di impresa. La legge del 1991 sancisce espressamente la cedibilità dei crediti
“anche prima che siano stipulati i contratti dai quali sorgeranno”, e dichiara sussistente il requisito della
determinatezza dell’oggetto anche nella cessione dei crediti di massa “se è indicato il debitore ceduto”. Il
cedente assume legalmente la garanzia della solvenza dei debitori, ma “nei limiti del corrispettivo pattuito”.
Requisito di opponibilità della cessione è la data certa del pagamento del corrispettivo da parte del
cessionario.
Il debito si trasferisce da un soggetto all’altro normalmente per via ereditaria, questo è sicuro. Sappiamo
infatti che l’erede subentra oltre che nei crediti, anche nei debiti del defunto. Invece, si ritiene che non sia
consentita una cessione volontaria del debito. Si ritiene che non sia consentita questa cessione perché le
forme attraverso le quali le parti possono sostituire il vecchio debitore con un nuovo debitore sono quelle
previste dalla legge della delegazione, della espromissione e dell’accollo. Questo vorrebbe dire che, anche
quando le parti chiamano cessione del debito il loro negozio, questa cessione andrebbe comunque a
collocarsi nell’ambito di una di queste tre figure. La delegazione è l'incarico conferito da un soggetto, detto
delegante, ad un altro soggetto, detto delegato, di pagare o di obbligarsi a pagare ad un terzo, detto
delegatario. La delegazione si distingue in passiva e attiva. Il codice prevede esclusivamente la delegazione
passiva, quale fattispecie in cui il debitore assegna al creditore un nuovo debitore, e questi si obbliga verso il
creditore. La delegazione si dice attiva, quando il delegante è creditore del delegato, e il conferimento
dell'incarico delegatorio è un modo di utilizzazione indiretta del credito che il delegante ha verso il delegato.
La legge non prevede espressamente la delegazione attiva ma nella pratica negoziale è comune che il
delegante sia creditore del delegato e che attraverso l'incarico conferito al delegato utilizzi il proprio credito
verso quel soggetto. Nella pratica negoziale, anzi, è comune che la delegazione sia al tempo stesso passiva e
attiva, che cioè il delegante utilizzi il proprio credito verso il delegato per liberarsi del suo debito verso il
delegatario. La prestazione del delegato varrà allora ad estinguere sia l'obbligazione del delegante verso il
delegatario (rapporto di valuta) sia l'obbligazione del delegato verso il delegante (rapporto di provvista).
Inoltre, se il delegato si è obbligato nei confronti del delegatario, la prestazione estinguerà al tempo stesso
anche questa obbligazione.
L’incarico delegatorio o delega, ossia l'incarico conferito dal delegante al delegato, rientra nel1a nozione del
mandato. Esso richiede il consenso, sia pure tacito, del delegato. Il consenso del delegato è necessario anche
quando questi sia debitore del delegante. Non si tratta quindi di un atto unilaterale, come sembrerebbe
indicare l'espressione ‘ordine' con la quale la dottrina ha tradizionalmente denominato l'incarico delegatorio
(iussum), in aderenza alla terminologia delle fonti romane. In esecuzione della delega il delegato può
obbligarsi verso il terzo (il delegatario) o può senz'altro pagare. La delegazione si distingue in delegazione
promissoria o delegazione di pagamento secondo che ricorra l'una o l'altra ipotesi.
Nella delegazione promissoria l'obbligazione del delegato verso il delegatario nasce da un atto negoziale di
promessa di pagamento mediante il quale il delegato si obbliga nei confronti del delegatario per conto del
delegante (non nasce quindi dall'accordo delegante-delegato). L'assunzione del debito è un atto negoziale
unilaterale del delegato. La promessa del delegato ha causa nei due rapporti sottostanti che intercorrono tra il
delegante e il delegato (il rapporto di provvista), e tra il delegante e il delegatario (il rapporto di valuta). Al
riguardo si dice tradizionalmente che la delegazione ha una doppia causa. La validità della promessa di
pagamento fatta dal delegato prescinde tuttavia di regola dai rapporti sottostanti. La promessa di pagamento
si qualifica allora come un negozio astratto. L'astrattezza della promessa di pagamento caratterizza
propriamente la delegazione ordinaria, detta delegazione astratta o pura per distinguerla rispetto alla
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delegazione titolata. L'astrattezza della delegazione si esprime nel principio della inopponibilità delle
eccezioni relative ai rapporti di provvista e di valuta. L'astrazione della promessa di pagamento, quale risulta
dal regime delle eccezioni, rafforza sensibilmente la posizione del creditore rispetto al nuovo debitore. Il
delegato può rifiutarsi di pagare sollevando le eccezioni relative al rapporto di provvista solo se risulti essere
nullo, il rapporto di valuta tra il delegante e il delegatario. In tal caso il delegato potrà sollevare al delegatario
tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre al delegante (tranne quella di compensazione).
La delegazione può essere cumulativa e privativa. Essa è ordinariamente cumulativa nel senso che
l’obbligazione del delegato nei confronti del delegatario è un’obbligazione che si aggiunge all’obbligazione
del delegante nei confronti dello stesso soggetto, cioè del delegatario. Privativa invece, o liberatoria, è la
delegazione quando essa determina la liberazione del debitore originario, ma ciò può avvenire solo in quanto
il creditore lo consenta mediante dichiarazione espressa. Il creditore che ha accettato l’obbligazione del terzo
non può rivolgersi al delegante se prima non ha richiesto al delegato l’adempimento.
L'espromissione è il negozio mediante il quale un terzo (espromittente) assume nei confronti del creditore
(espromissario) l'obbligazione del debitore (espromesso) senza delega di quest'ultimo. L'espromittente non
può avvalersi delle eccezioni relative al suo rapporto col debitore originario salvo diverso accordo col
creditore. L'espromittente può invece sollevare le eccezioni relative al rapporto di valuta (estromesso-
espromissario). Si avverte qui una differenza rispetto alla disciplina della delegazione, dove normalmente il
delegato non può opporre le eccezioni relative al rapporto di valuta. Non tutte le eccezioni relative al
rapporto di valuta possono per altro essere opposte dall'espromittente. Anzitutto, non possono essere opposte
le eccezioni personali al debitore originario, ossia le eccezioni che presuppongono una specifica
legittimazione del soggetto (es.: l'eccezione volta all'annullamento del contratto per vizio del consenso).
L'espromittente non 'può neppure opporre le eccezioni che il debitore originario avrebbe potuto opporre sulla
base di fatti sopravvenuti all'espromissione. Questa regola può spiegarsi in base all'idea che l'obbligazione
principale è ormai quella dell'espromittente e che la remissione o altre vicende favorevoli al debitore
originario, divenuto debitore sussidiario, non devono pregiudicare il preminente diritto del creditore verso il
nuovo obbligato. Altra disposizione esclude che l'espromittente possa opporre al creditore l'eccezione di
compensazione che a quest'ultimo avrebbe potuto opporre il debitore originario. La compensazione è
inopponibile a prescindere dalla circostanza che essa si sia verificata prima o dopo l'espromissione. Come la
delegazione anche l'espromissione è normalmente cumulativa (o semplice) in quanto costituisce in capo
all'espromissario un nuovo credito che si aggiunge a quello del debitore originario. L’espromissione che
comporta la liberazione del debitore originario è detta privatistica o liberatoria. A tal fine occorre una
dichiarazione espressa dell’espromissario. A seguito dell'espromissione liberatoria le garanzie si estinguono,
salvo che il garante acconsenta al loro mantenimento. Questa regola, comune alla delegazione e all'accollo,
non concerne i privilegi, i quali sopravvivono, salvo che vi sia stata novazione del debito.
L'accollo è il contratto mediante il quale il debitore (accollato) e un terzo (accollante) convengono che questi
assuma il debito del primo. Il creditore (accollatario) può aderire all'accollo, rendendo irrevocabile la
stipulazione a suo favore. L'accollo si distingue rispetto all'espromissione, che è un negozio intercorrente tra
il creditore e un terzo, mentre l'accollo è un accordo tra il debitore e un terzo. L'accollo si distingue poi
rispetto alla delegazione. Anche nella delegazione si riscontra un accordo tra debitore e terzo, ma tale
accordo ha per oggetto l’incarico di pagare al creditore o di promettergli una data prestazione mentre con
l’accollo il terzo fa proprio il debito dell’obbligato. L'accollo è normalmente cumulativo in quanto
l'obbligazione dell'assuntore si aggiunge a quella del debitore originario che continua ad essere obbligato
verso l'accollatario. L’accollo cumulativo è quindi un contratto a favore di terzo, in quanto il creditore
acquista un nuovo credito che si aggiunge al credito originario. Non può invece parlarsi di contratto a favore
di terzo quando condizione espressa dell’accollo è la liberazione del debitore originario. Questa condizione
per essere operativa deve per altro essere accettata dal creditore. L'accollo si dice privativo o liberatorio
quando il debitore originario viene liberato dalla sua obbligazione. Il debitore originario rimane tuttavia
obbligato se il nuovo debitore era già insolvente al tempo dell'accollo, ossia al tempo in cui si costituiva la
nuova obbligazione in favore del creditore.

150
L’accollo si distingue in dottrina in accollo interno e accollo esterno. L'accollo interno (o semplice) è
l'accollo che produce effetti esclusivamente rispetto alle parti, debitore originario e assuntore. L'accollo
interno si contrappone a quello esterno, ossia all'accollo direttamente efficace rispetto al creditore-
accollatario. La legge prevede e disciplina l'accollo esterno ma nell'esercizio della loro autonomia le parti
possono ben stipulare un accordo ad effetti meramente interni. Oltre che per volontà delle parti l’accollo può
avere effetti meramente interni a seguito del rifiuto dell'accollatario. In tal caso l'accollo esterno si converte
in accollo interno.
Il termine accollo legale (o ex lege) designa l'assunzione cumulativa del debito in capo ad un terzo per effetto
di legge. Ad es., a seguito dell'alienazione dell'azienda l'alienatario risponde assieme all'alienante dei debiti
aziendali risultanti dai libri contabili.
Le obbligazioni solidali sono le obbligazioni che fanno capo ai più debitori o a più creditori ognuno dei quali
è tenuto o ha diritto ad un’unica prestazione e l’esecuzione di questa, fatta da uno dei debitori o ricevuta da
uno dei creditori, ha effetto liberatorio per tutti o nei confronti di tutti. Le obbligazioni solidali si distinguono
in obbligazioni solidali passive e obbligazioni solidali attive. Le obbligazioni solidali passive sono le
obbligazioni che fanno capo a più debitori, tutti tenuti ad una sola prestazione in modo che l’adempimento
dell’uno libera gli altri. I debitori sono obbligati in solido quando le obbligazioni a) derivano dalla stessa
fonte, e b) hanno ad oggetto un’unica prestazione, pur se con diverse modalità. In presenza di questi
presupposti il vincolo di solidarietà si costituisce in base alla regola generale della c.d. presunzione di
solidarietà, salvo che risulti diversamente dal titolo negoziale o dalla legge (gli eredi, ad es., non sono tenuti
in solido). L’identità della prestazione non esclude che i singoli coobbligati siano tenuti con modalità
diverse. Le modalità diverse possono concernere il tempo, il luogo ed altri aspetti o circostanze che non
alterino comunque la sostanziale identità del bene o del servizio dovuti. Nelle obbligazioni solidali si
distingue un lato interno e un lato esterno. Il lato esterno della solidarietà riguarda i rapporti tra debitori e
creditori mentre il lato interno riguarda i rapporti tra i condebitori. Il carattere solidale dei singoli rapporti
importa, come si è visto, che tutti sono tenuti ad eseguire o hanno diritto di ricevere l’adempimento nella sua
totalità. Dal lato esterno debiti e crediti hanno quindi ad oggetto l’intera prestazione. Dal lato interno, invece,
l’obbligazione si divide tra i diversi debitori o tra i diversi creditori. Questa divisione “nei rapporti interni”
vuol dire che il carico della prestazione o il vantaggio della prestazione si dividono tra i vari consorti,
giustificando tra l’altro gli obblighi di rimborso e di restituzione. Nelle obbligazioni derivanti da illecito, in
particolare, la prestazione si divide tra i responsabili in proporzione alla gravità delle colpe e all’entità delle
conseguenze dannose. Nelle obbligazioni derivanti da contratto la prestazione si divide tra debitori e creditori
secondo le quote stabilite dai contraenti o in proporzione alla loro partecipazione all’affare. Se non risulta
diversamente le quote si presumono eguali.
È possibile, tuttavia, che il titolo preveda il cosiddetto “beneficio di ordine”. Il beneficio di ordine comporta
che il creditore non possa rivolgersi al condebitore destinatario del beneficio di ordine se prima non si sia
rivolto, per chiedere la prestazione, ad altri condebitori. È possibile anche che il titolo preveda il cosiddetto
“beneficio di escussione”. In base al beneficio di escussione, il creditore ha l’onere di procedere
preventivamente in via esecutiva sui beni di altro condebitore e rivolgersi al condebitore titolare del
beneficio di escussione solamente dopo aver esaurito infruttuosamente l’azione esecutiva nei confronti
dell’altro condebitore.
Abbiamo parlato fino ad ora delle obbligazioni solidale passive, ma abbiamo visto che il codice prevede
anche le obbligazioni solidali attive. Le obbligazioni solidali attive sono le obbligazioni che fanno capo a più
creditori, tutti aventi diritto ad una sola prestazione in modo che l’adempimento fatto ad uno di essi libera il
debitore anche nei confronti degli altri. La presunzione legale di solidarietà non opera con riguardo alle
obbligazioni con più creditori. Se più crediti derivano dalla stessa fonte e hanno ad oggetto la medesima
prestazione, essi si dividono tra i vari aventi diritto secondo la regola della parziarietà. La costituzione del
vincolo di solidarietà attiva deve quindi risultare dal titolo negoziale o da una speciale previsione normativa.
Nelle obbligazioni solidali attive il debitore può pagare all’uno o all’altro dei creditori secondo la sua scelta.

151
La facoltà di scelta spettante al debitore viene meno quando uno dei creditori lo abbia prevenuto mediante
domanda giudiziale.
Va detto qualcosa ora per quanto riguarda il regime delle eccezioni. Le eccezioni si distinguono in eccezioni
comuni ed eccezioni personali. Eccezioni comuni sono quelle che possono essere fatte valere da ciascun
condebitore o nei confronti di ciascun concreditore perché attengono al rapporto obbligatorio nella sua
oggettiva identità. Personali sono invece le eccezioni che attengono esclusivamente al rapporto che lega il
condebitore al creditore, o il debitore al singolo concreditore. Queste eccezioni possono essere fatte valere
solamente dal soggetto a tutela del quale l’eccezione è prevista dalla legge e può essere fatta valere. Si diceva
per esempio che, il vincolo obbligatorio deve avere a oggetto un un’unica prestazione in relazione alla quale
però possono essere previste modalità diverse. In relazione a queste diverse modalità, possibile che rilevino
eccezioni personali. Per esempio, abbiamo visto il beneficio d’ordine. Il beneficio d’ordine può essere
eccepito esclusivamente da colui a favore del quale il beneficio è stato previsto. Trattandosi di obbligazioni
personali, esse non possono essere fatte valere dagli altri condebitori. Tuttavia, se l’obbligazione solidale è
stata assunta nell’interesse esclusivo di alcuni dei debitori, o di alcuni dei creditori, il debitore può giovarsi
delle eccezioni personali al debitore principale, o al creditore unico interessato.
Gli atti che modificano l’obbligazione, se compiuti da uno dei condebitori, in genere non sono opponibili
agli altri condebitori e, se intervengono nel rapporto tra il debitore e uno dei concreditori, non sono
opponibili agli altri concreditori. Tuttavia, gli altri condebitori e gli altri concreditori possono approfittarne.
Quindi qui abbiamo negozi i cui effetti possono essere utilizzati dai terzi in base alla loro scelta. Esempio
importante è quello della transazione; la transazione ha effetto nei confronti delle parti che l’abbiano
stipulata, ma gli altri condebitori, o concreditori possono dichiarare di volerne approfittare. Principio analogo
si applica per quanto riguarda le vicende processuali; la sentenza che definisce il rapporto tra un condebitore
e il creditore, o tra il debitore e uno de concreditori, ha effetto solamente tra le parti, ma gli altri concreditori
e gli altri condebitori, che siano rimasti estranei al processo, possono tuttavia profittare della sentenza.
L’obbligazione può essere indivisibile. Indivisibile è l'obbligazione insuscettibile di adempimento parziale o
per la natura della prestazione ovvero per il modo in cui essa è stata voluta dalle parti. Secondo la formula
normativa, l'indivisibilità dell'obbligazione attiene alla indivisibilità della cosa o del fatto, che sono oggetto
della prestazione. L’indivisibilità può essere materiale o economico-funzionale. L'indivisibilità economico-
funzionale sussiste quando la scomposizione della cosa o del servizio in parti distinte comporta una grave
perdita di utilità o di valore della prestazione. L'inscindibilità giuridica sussiste quando le singole parti non
hanno i requisiti di legge per la loro autonoma utilizzazione (un appartamento, ad es., non può essere diviso
se le singole parti non hanno i requisiti igienico-sanitari necessari per l’accertamento amministrativo della
loro abitabilità). Le obbligazioni indivisibili rientrano nello schema della solidarietà poiché ciascun debitore
è tenuto ad eseguire l'intera prestazione (indivisibilità passiva) o ciascun creditore ha diritto di ricevere
l'intera prestazione (indivisibilità attiva). Alle obbligazioni indivisibili si applica la disciplina della solidarietà
salve alcune differenze richieste dalla particolarità del vincolo. L’applicazione del regime solidale ha luogo
anche quando si sia in presenza di più concreditori, perché comunque la prestazione a cui è tenuto il debitore
è una prestazione che va eseguita una sola volta e totalmente e questa prestazione sarà quindi eseguita nei
confronti di uno dei concreditori, senza che occorra una specifica previsione del titolo o della legge.
Un cenno meritano le obbligazioni cosiddette collettive. Le obbligazioni collettive sono obbligazioni in cui la
prestazione dev'essere eseguita congiuntamente da parte di tutti i debitori o a favore di tutti i creditori. Nel
primo caso tali obbligazioni prendono il nome di obbligazioni collettive passive, nel secondo caso di
obbligazioni collettive attive. Per un comune esempio di obbligazioni collettive passive si pensi alle
obbligazioni assunte dai componenti di un trio musicale. L'obbligazione collettiva attiva ha per oggetto una
prestazione che dev'essere eseguita congiuntamente a favore di più creditori. Un adempimento isolato non è
liberatorio e può essere legittimamente rifiutato in quanto il diritto di ciascun creditore non è semplicemente
quello di ricevere la prestazione ma quello di riceverla assieme agli altri creditori. Si pensi, ad es.,
all'obbligazione assunta da un'agenzia turistica nei confronti dei componenti di una comitiva di familiari.

152
Occupiamoci infine dell’obbligazione naturale. L'obbligazione naturale è un dovere morale o sociale
giuridicamente non vincolante. Essa non è sanzionata in diritto ma il suo spontaneo adempimento non
ammette ripetizione (restituzione) della prestazione eseguita. Requisiti dell’adempimento dell’obbligazione
naturale sono la spontaneità e la proporzionalità. L’adempimento deve cioè essere eseguito senza coazione e
la prestazione deve cioè essere adeguatamente proporzionata ai mezzi di cui l’adempiente dispone e
all'interesse da soddisfare. Sebbene il requisito della proporzionalità non sia menzionato dal codice, esso
deve ritenersi implicito nella stessa idea di obbligazione naturale, in quanto alla stregua della coscienza
sociale non è doveroso ciò che va al di là di quanto l'adempiente può ragionevolmente fare o di quanto il
beneficiario abbia ragionevolmente bisogno. La irripetibilità del pagamento è indicata dalla legge come
l'unico effetto dell'obbligazione naturale.
Argomento 16
Videolezione 1 – L’inadempimento (parte 1).
L’inadempimento è la fonte di uno dei due tipi di responsabilità che sono disciplinati dal Codice civile. Il
Codice civile infatti disciplina, in due sezioni diverse, la responsabilità contrattuale e la responsabilità
extracontrattuale: la responsabilità extracontrattuale è quel tipo di responsabilità che sorge quando si crea ad
altri, tendenzialmente negligentemente, un danno ingiusto (pensiamo al caso di un sinistro); la responsabilità
contrattuale non è solamente la responsabilità che nasce da contratto, cioè da quell’accordo tra due o più
parti per costituire o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale, ma è una responsabilità che riguarda in
generale tutti i casi in cui vi sia un inadempimento, ovvero un inadempimento di un’obbligazione, cioè vi sia
un’obbligazione e questa obbligazione non sia stata adempiuta - per responsabilità contrattuale intendiamo
quel tipo di responsabilità che sorge con l’inadempimento. Mentre nella responsabilità extracontrattuale, o
per fatto illecito, i soggetti non sono in rapporto tra loro e la responsabilità sorge con il danno, nella
responsabilità contrattuale, o per inadempimento, i soggetti sono già in rapporto tra loro, cioè sono in
rapporto di obbligazione: uno deve qualcosa all’altro in forza di un dovere giuridico che chiamiamo
obbligazione e che, secondo la definizione che ci è stata tramandata dagli antichi romani, è un dovere
giuridico in forza del quale un soggetto (detto debitore) deve una determinata prestazione a un altro soggetto
(detto creditore); la prestazione deve avere carattere patrimoniale e corrispondere a un interesse del creditore,
anche di tipo non patrimoniale. Quando l’oggetto dell’obbligazione non viene adempiuto, ovvero la
prestazione che deve essere effettuata dal debitore al creditore non viene adempiuta, allora si parla di
inadempimento e nasce la responsabilità contrattuale, o responsabilità da inadempimento di un’obbligazione.
Per essere ancora più precisi, parliamo di responsabilità contrattuale, o da inadempimento di
un’obbligazione, quando vi è una divergenza tra il programma oggetto dell’obbligazione e quanto viene
eseguito dal debitore. Allora, mentre nella responsabilità extracontrattuale abbiamo bisogno di un danno,
quindi di un pregiudizio economico, quando parliamo di responsabilità contrattuale, o da inadempimento di
un’obbligazione, abbiamo invece un’entità economica da valutare come prima base per il nascere della
responsabilità, ma nella responsabilità da inadempimento di un’obbligazione basta semplicemente che vi sia
una divergenza tra l’oggetto della prestazione e quanto effettivamente viene eseguito. Questa divergenza crea
già responsabilità, da questa divergenza nascono già degli effetti a prescindere dal fatto che poi si verifichi
un danno; se si verifica un danno allora questo danno deve essere risarcito. È dunque una responsabilità che
nasce a livello giuridico e che si può verificare solo con un’analisi giuridica. Nella responsabilità
extracontrattuale, di contro, l’analisi è economica ed è tendenzialmente legata a un’analisi di fatto.
Vediamo ora l’articolo 1218, che si cita normalmente quando si parla di responsabilità contrattuale, o di
responsabilità di inadempimento delle obbligazioni. L’articolo 1218 recita: “Il debitore che non esegue
esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il
ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. Questa
norma ci dice che la conseguenza dell’inadempimento quando c’è un danno è l’obbligo di risarcire il danno,
a meno che non provi che l’inadempimento è stato determinato da un’impossibilità dovuta a causa a lui non
imputabile, ma oltre a dire questo ci fa notare come sia rilevante l’esattezza nell’esecuzione della
prestazione. La nozione di inadempimento la possiamo quindi ritagliare da questo articolo, in quanto esso ci
153
fa capire come l’inadempimento sia appunto questa inesattezza nell’esecuzione della prestazione dovuta – a
maggior ragione, è inadempimento la totale mancanza di esecuzione.
Quando si parla di inesattezza della prestazione, questa inesattezza può rilevare in due modalità: si può
parlare di inesattezza della prestazione da un punto di vista qualitativo, o di inesattezza della prestazione da
un punto di vista quantitativo. Quando si parla di inesattezza da un punto di vista qualitativo, si intende
riferirsi alle caratteristiche della prestazione; la prestazione doveva essere eseguita con determinate
caratteristiche e queste caratteristiche mancano. L’inesattezza da un punto di vista quantitativo comporta
invece una variazione della quantità prestabilita per una data prestazione (per es. si è stabilito un certo
numero di lezioni in lingua tedesca, ma il numero di lezioni effettuate risulta inferiore). L’inesattezza può
riguardare anche il mancato rispetto di un termine. In questo caso, quando il termine non viene rispettato,
l’inadempimento lo si può considerare definitivo, o provvisorio (nel caso di inadempimento provvisorio si
configura un ritardo nell’adempimento). - Per es. si deve organizzare un ciclo di lezioni di letteratura tedesca
entro il mese di ottobre; non le si organizza entro il mese di ottobre, ma le si organizza un po’ più in là: se si
conclude l’anno scolastico senza che quel ciclo di lezioni venga svolto, l’inadempimento è definitivo, mentre
se questo ciclo di lezioni ancora può essere adempiuto e ancora può rispondere all’interesse del creditore,
l’inadempimento è provvisorio. - A volte il termine può essere superato portando non a un inadempimento
definitivo perché a volte il termine non è un termine essenziale, non è un termine improrogabile. In questo
caso è chiaro che si possa continuare a adempiere.
L’inadempimento può essere imputabile, o non imputabile. Imputabile significa che dipende dalla sfera
controllabile dal debitore; non imputabile significa che è dovuta a fattori estranei alla sfera che deve essere
controllata dal debitore. Quando il programma contrattuale non viene adempiuto, o il programma
obbligatorio non viene adempiuto, se il debitore vuole evitare di risarcire il danno, deve dimostrare che ciò è
dovuto a un fattore esterno. È dunque importante che l’inadempimento sia imputabile, o non imputabile. Il
concetto di imputabilità viene fatto corrispondere al concetto di colpa e quindi nelle sue sottocategorie di
negligenza, incuria, mancanza di cautela, imperizia, mancanza di diligenza. Per conoscere se c’è
inadempimento e quindi obbligo di risarcimento del danno, dobbiamo aver presente questo concetto
dell’imputabilità.
Videolezione 2 – L’inadempimento (parte 2).
Perché vi sia inadempimento deve sussistere un’obbligazione e il termine di esecuzione deve essere scaduto.
L’obbligazione deve avere un contenuto e una prestazione suscettibile di valutazione economica, ma deve
corrispondere a un interesse che può essere anche non patrimoniale. Se non si hanno queste caratteristiche, vi
possono essere degli obblighi, ma non ne parleremo in termini di “obbligazione”, non ne parleremo in
termini tecnici di responsabilità contrattuale; non è un inadempimento di obbligazioni, si tratterà piuttosto di
inadempimento di obblighi giuridici e in alcuni casi, in relazione ad alcuni tipi di obblighi che non sono
obbligazioni civili, non potremo neanche parlare di inadempimento. Nel Codice civile troviamo degli
obblighi che non sono obbligazioni, in quanto non hanno il carattere della patrimonialità e la prestazione non
è suscettibile di valutazione economica; sono obblighi giuridici, ma non obbligazioni. Un settore che, per
esempio, non ha interessi patrimoniali è il settore del diritto di famiglia. In questo caso parleremo di
“obblighi giuridici” e non certo di “obbligazione”, o meglio, di “obbligazione civile”.
Inoltre, quando parliamo di inadempimento e di responsabilità da inadempimento delle obbligazioni,
parliamo delle cosiddette obbligazioni civili e non intendiamo riferirci ad altra categoria che chiamiamo
comunque obbligazione, anche se in senso meno tecnico, quale l’obbligazione naturale. L’obbligazione
naturale va distinta dall’obbligazione civile e con “obbligazione naturale” si intende quell’obbligo morale,
quel dovere morale che ci muove verso determinate prestazioni: per es. una persona si avvicina a noi quando
andiamo al distributore di benzina e ci aiuta a far benzina; verso questa persona ci teniamo moralmente tenuti
a corrispondere qualcosa e per questo motivo le diamo una mancia. È importante sottolineare che non siamo
giuridicamente tenuti a farlo, ma ci riteniamo moralmente tenuti a farlo. Le obbligazioni naturali derivano da
un dovere morale, o sociale. Si ritiene che rientrino nell’ambito di questo tipo di prestazioni, le prestazioni
tra conviventi, i quali non abbiano stretto nessun accorto che possa comportare un obbligo: due soggetti di
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fatto vivono insieme e uno mantiene l’altro. L’unico effetto dell’obbligazione naturale è che, se
spontaneamente viene dato qualcosa in esecuzione di un dovere morale o sociale, non è ammessa la
ripetizione (non lo si può richiedere indietro).
Con riguardo all’obbligazione civile e al suo relativo inadempimento, a volte il fatto che il credito sia già
esigibile non basta per configurare un inadempimento; ad esempio, il creditore non può dire “Il credito è già
esigibile, si è verificato quell’evento che noi avevamo posto a condizione del pagamento”. Questo perché a
volte il termine è a favore del debitore, a volte è a favore del creditore. Quando per esempio il termine è a
favore del debitore, è il debitore che sceglie quando adempiere.
Per l’inadempimento del contratto sono previsti specifici rimedi risolutori. La responsabilità si configura a
prescindere dal danno. Tra i rimedi troviamo, innanzitutto, la possibilità di risolvere il contratto a causa
dell’inadempimento, salvo sempre la possibilità di chiedere il risarcimento del danno, oppure, la possibilità
di chiedere l’adempimento, anche se per equivalente, di quella prestazione (ad esempio, l’adempimento in
termini semplicemente economici – “dammi lo stesso valore in termini monetari”). La risoluzione per
inadempimento è una risoluzione che si deve chiedere davanti al giudice, ma sono previsti alcuni rimedi che
possono portare alla risoluzione, a prescindere dall’intervento del giudice; sono previste alcune ipotesi di
risoluzione del contratto in via stragiudiziale: per esempio, se vi è un termine essenziale e questo non viene
rispettato; se vi è una clausola che prevede espressamente la risoluzione del contratto per l’inadempimento di
una determinata obbligazione, viene inadempiuta quella prestazione e il creditore intende valersi di questa
facoltà di risoluzione privata prevista dalle parti nell’ambito dell’autonomia contrattuale; se il debitore non
adempie e il creditore invia una diffida ad adempiere entro un determinato termine e questo termine non
viene rispettato. Certo è che anche in questi casi, tendenzialmente, per far valere, per dimostrare, per
accertare, che questa risoluzione di diritto si è verificata davvero perché vi erano i presupposti, si va spesso e
volentieri in giudizio anche per questi inadempimenti. Ne consegue che l’intervento del giudice c’è, ma la
risoluzione per queste ipotesi viene automaticamente, mentre nel caso di risoluzione per inadempimento si
deve andare dal giudice ed è il giudice che risolve il contratto accertando l’avvenuto inadempimento.
Quando la prestazione viene eseguita, ma non esattamente, può valere come adempimento parziale: viene, in
parte, soddisfatto l’interesse del creditore. Il creditore può decidere se accettare l’adempimento parziale e
questo è previsto dalla legge. Se si ha un contratto, la legge prevede che vi possa essere un’impossibilità
parziale della prestazione e nel caso in cui vi sia un’impossibilità parziale della prestazione, l’altra parte ha
diritto a una riduzione del prezzo, o della controprestazione e può anche decidere di recedere dal contratto se
non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale. In questo modo, la legge fa capire come sia
rimessa al creditore la decisione di accettare o meno un adempimento parziale nel caso di contratto.
Se l’inesattezza è minima può comportare la scarsa importanza dell’inadempimento e il contratto non si può
risolvere; se l’inadempimento non è importante nella logica contrattuale, ad esempio perché è
quantitativamente minimo, o qualitativamente la differenza non è così rilevante, in questo caso il contratto
non si può risolvere per inadempimento. E’ chiaro che l’inesattezza può riguardare vari fattori: può derivare
senza dubbio dall’imputabilità e quindi derivare da una sfera che era controllabile dal debitore; può
riguardare il luogo della prestazione (in alcuni casi è essenziale, ma in altri casi si può tollerare l’esecuzione
in un luogo diverso); può riguardare, come precedentemente detto, la quantità (adempimento parziale) o la
qualità (per le obbligazioni di genere deve essere non inferiore alla media) – la qualità può essere materiale
(vizio del bene), o giuridica (sussistenza di diritti altrui sul bene).
Videolezione 3 – L’impossibilità sopravvenuta.
Quando parliamo di inadempimento, si fa riferimento a un inadempimento imputabile, mentre quando si
parla di impossibilità, si fa riferimento a un’impossibilità non imputabile. Il Codice civile parla di
impossibilità dell’obbligazione come causa di estinzione dell’obbligazione - è ovvio che se l’impossibilità è
imputabile al debitore, questa configura un inadempimento e una responsabilità contrattuale. Quando
diciamo che una prestazione è divenuta impossibile, in generale, a meno che non specifichiamo che è dovuta
a causa imputabile al debitore, ci riferiamo a un’impossibilità non imputabile. Allo stesso modo, quando
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parliamo di inadempimento del debitore, ci riferiamo a un inadempimento imputabile, non certo a un
inadempimento dovuto a un’impossibilità sopravvenuta.
L’impossibilità sopravvenuta si fa rientrare all’interno dei modi di estinzione dell’obbligazione non
satisfattori. Non satisfattori ovviamente perché il creditore non viene soddisfatto; l’interesse del creditore
non viene soddisfatto quando si ha impossibilità sopravvenuta. La legge dice che l’obbligazione si estingue e
l’interesse creditorio non viene soddisfatto in quanto, estinguendosi l’obbligazione, ovviamente, il creditore
vede venir meno il programma obbligatorio la cui esecuzione incontrava il suo interesse.
L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa
impossibile. Con “causa non imputabile al debitore”, si intende che la causa che ha dato luogo
all’impossibilità non è prevedibile, non si può prevenire utilizzando l’ordinaria diligenza, non si può
prevedere. Il concetto di prevedibilità è un concetto che strettamente si confonde con quello di colpa. In
sostanza, la mancanza di imputabilità corrisponde a quella che chiamiamo “mancanza di colpa”.
L’impossibilità sopravvenuta può essere sia materiale, che giuridica. Quando parliamo di impossibilità
materiale, possiamo per esempio pensare alla distruzione di un bene: si promette in vendita un determinato
bene a un determinato soggetto e durante la notte un fulmine distrugge il bene. L’impossibilità è materiale in
quanto materialmente l’oggetto non c’è più. Come abbiamo detto, l’impossibilità può essere però anche
giuridica, in quanto, per esempio, sorge giuridicamente un vincolo: si promette in vendita un bene e sorge
giuridicamente un vincolo di inalienabilità di quel bene. In questo caso è impossibile giuridicamente eseguire
l’obbligazione che è nata con la promessa di vendere quel bene al soggetto.
Diverso dal concetto di impossibilità è il concetto di mera difficoltà di esecuzione, se si tratta ovviamente di
una difficoltà che il debitore deve superare con la diligenza prescritta dal vincolo contrattuale - nel caso si
tratti invece di una difficoltà di esecuzione di livello più ampio, questa mera difficoltà può corrispondere con
l’impossibilità e può essere considerata un’impossibilità relativa, che conduce all’estinzione
dell’obbligazione. Diversa è poi anche l’eccessiva onerosità sopravvenuta, cioè un imprevedibile aumento
del sacrificio economico correlato alla prestazione dovuta dal debitore. L’eccessiva onerosità sopravvenuta
non è impossibilità della prestazione: la prestazione è sempre possibile anche se è diventata eccessivamente
onerosa.
L’impossibilità si distingue in impossibilità assoluta e impossibilità relativa. Nel caso di impossibilità
assoluta, il debitore non può più adempiere (neanche utilizzando mezzi alternativi) – perimento, o
inalienabilità giuridica sopravvenuta; nel caso di impossibilità relativa, il debitore può adempiere utilizzando
mezzi alternativi.
L’attenzione deve essere focalizzata sul programma da realizzare. Tramite l’interpretazione del contenuto, si
può risalire a quello che è il preciso oggetto della prestazione, preciso oggetto della prestazione che fa
riferimento, implicitamente o esplicitamente, a determinati mezzi da utilizzare nell’adempimento.
L’imputabilità stessa del soggetto dipende dall’oggetto del rapporto contrattuale. Per esempio, se perisce
l’azienda dell’imprenditore (debitore), non possiamo ritenere che l’impossibilità della prestazione sia
imputabile al debitore, in quanto dal programma obbligatorio si deduce che non è stata considerata l’ipotesi
della necessità dell’imprenditore di avvalersi di aziende esterne. È implicito, e a volte anche esplicito, che
l’imprenditore debba avvalersi della propria azienda.
Questa differenza tra impossibilità assoluta e impossibilità relativa si realizza e ha connotazioni peculiari con
riguardo alla prestazione di servizi, anche con riguardo alla prestazione di servizi professionali. Se
ritenessimo necessaria un’impossibilità assoluta, dovremmo dire che uno sciopero dei lavoratori di una
categoria potrebbe configurare un’impossibilità assoluta della prestazione: per esempio, il soggetto che deve
prestare un determinato servizio si vede senza nessun collaboratore (se per il servizio sono necessari
collaboratori!). Al tal riguardo, lo sciopero, attuato in tutte le sedi nazionali, dei lavoratori di una categoria
configura impossibilità assoluta (nel Paese in cui è stato indetto lo sciopero), quello che viene praticato solo
dai dipendenti di un’impresa configura impossibilità soggettiva. Mentre nel primo caso la totale astensione

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dal lavoro di tutti i lavoratori di quella categoria, impedisce all’imprenditore di servirsi di un’altra impresa
per effettuare la sua prestazione, nel secondo caso questo non avviene perché lo sciopero coinvolge solo i
dipendenti dell’imprenditore che deve effettuare una determinata prestazione. Questo imprenditore potrebbe
rivolgersi, in astratto, a un altro imprenditore per effettuare la prestazione.
Con riguardo alle figure professionali o alla prestazione di attività professionale, se si deve prestare
un’attività, si considera anche liberatoria quell’impossibilità che colpisce la persona del debitore, in quanto si
tratta di prestazioni che devono essere effettuate da una determinata persona. Pensiamo ad esempio a un
raffreddore, o a un incidente stradale; tali impedimenti hanno effetto liberatorio.
Con riguardo all’impossibilità temporanea, è fondamentale il legame tra la stessa e l’interesse del debitore e
del creditore. L’obbligazione si estingue se l’impossibilità temporanea comporta che il debitore non può più
ritenersi vincolato, così come l’obbligazione si estingue se l’impossibilità temporanea comporta che il
creditore non ha più interesse. Ciò avviene anche in caso di cosa smarrita: pensiamo al caso in cui una
determinata cosa deve essere prestata a un dato soggetto, la prestazione che ha per oggetto una cosa
determinata si considera impossibile anche in caso di smarrimento della cosa; se successivamente si ha il
ritrovamento della cosa e il ritrovamento avviene dopo un tempo per cui il debitore non può essere più
ritenuto obbligato a eseguire la prestazione, l’obbligazione si estingue, così come si estingue se il
ritrovamento avviene in un momento in cui il creditore non ha più interesse a conseguire la cosa.
Con riguardo all’impossibilità parziale, se la prestazione è divenuta impossibile solo in parte il debitore si
libera eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile. Quando ciò avviene con riguardo ai
contratti (si parla di prestazioni corrispettive), quando la prestazione di una parte è divenuta solo
parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della sua prestazione (della
controprestazione) e può anche recedere dal contratto se non ha interesse apprezzabile all’adempimento
parziale – anche qui l’interesse del creditore è fondamentale.
Se la prestazione che ha per oggetto una cosa determinata è divenuta impossibile, in tutto o in parte, il
creditore subentra nei diritti spettanti al debitore in dipendenza del fatto che ha causato l’impossibilità, e può
esigere dal debitore la prestazione di quanto questi abbia conseguito a titolo di risarcimento. Nel caso in cui
si tratta però di contratti con prestazioni corrispettive, si ha una risoluzione per impossibilità sopravvenuta
del contratto e quindi le due obbligazioni cessano, non si ha più diritto di nessuno.
Videolezione 4 – La mora del debitore.
La mora del debitore è un ritardo nell’adempimento dell’obbligazione. Il ritardo è un inadempimento di
carattere temporale, provvisorio, che comporta l’obbligo del risarcimento del danno se è imputabile al
debitore. Il ritardo può diventare definitivo e può configurare un inadempimento definitivo quando raggiunge
una soglia tale per cui non c’è più interesse del creditore all’adempimento - ciò si deve ricavare ovviamente
in maniera oggettiva dal contenuto dell’obbligazione di cui si tratta. Se non si ha inadempimento definitivo e
quindi non si è giunti alla definitività dell’inadempimento, ancora ovviamente il debitore può adempiere, ma
è obbligato a risarcire i danni.
A questo punto, per dare una definizione precisa di mora, diciamo che: la mora è la situazione in cui versa il
debitore che ritarda in maniera a lui imputabile, se il creditore effettua la richiesta di pagamento (nei casi in
cui questa è prescritta dalla legge). Il debitore in mora non è liberato in caso di sopravvenuta impossibilità
della prestazione derivante anche da causa a lui non imputabile, se non prova che l’oggetto della prestazione
sarebbe ugualmente perito presso il creditore. Dunque, in termini sintetici, con la costituzione in mora, il
creditore, costituendo in mora il debitore, trasferisce sul debitore il rischio dell’impossibilità sopravvenuta.
Quando il debitore è in mora, egli è sempre responsabile, in linea generale, di quello che succede, anche in
caso di impossibilità sopravvenuta che si realizzi per causa a lui non imputabile. Questo perché
l’impossibilità sopravvenuta si è verificata in un momento successivo alla costituzione in mora. Vige inoltre
una sanzione forte nel caso in cui sia commesso un illecito nel perimento, o nello smarrimento della cosa che
deve essere consegnata; in particolare, se la cosa perita (o smarrita) è stata illecitamente sottratta, il

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perimento (o lo smarrimento) non libera chi l’ha sottratta dall’obbligo di restituirne il valore. Con riguardo
poi alle obbligazioni pecuniarie, una norma stabilisce che il debitore in mora (il debitore che non ha pagato
una determinata somma di denaro che doveva pagare al creditore) deve gli interessi legali, anche se non
erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno - se prima della
mora però erano dovuti degli interessi superiori rispetto alla misura legale, quella misura superiore deve
essere rispettata. Inoltre, al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore, spetta l’ulteriore
risarcimento del danno.
La costituzione in mora è un atto giuridico scritto e recettizio (significa che si perfeziona nel momento in cui
ne ha notizia il destinatario), con cui si richiede il pagamento. Secondo una prima tesi si tratterebbe di un atto
giuridico in senso stretto (atto che produce i suoi effetti a prescindere dal fatto che chi compie l’atto voglia
quegli effetti): per esempio, un creditore incapace potrebbe effettuare una costituzione in mora. Secondo
un’altra impostazione, invece, potrebbe configurarsi come negozio giuridico (particolare tipo di atto
giuridico che produce effetti nella misura in cui rilevi la volontà degli effetti e quindi rilevi il consenso, la
capacità, la voglia di avere quegli effetti): quando rileva il consenso, è possibile richiedere l’annullamento
del negozio giuridico per vizio del consenso, oppure per incapacità - se non si vogliono gli effetti, la
costituzione in mora sarebbe annullabile secondo le norme sull’incapacità giudiziale, o naturale. Secondo la
prima tesi, quella che ritiene che anche il creditore incapace possa costituire in mora, il debitore deve
considerare efficace la costituzione in mora effettuata dall’incapace, ma non è tenuto a effettuare il
pagamento nelle mani di quest’ultimo.
Anche con riguardo al debitore, il requisito di capacità è importante. In particolare, il debitore nei cui
confronti è rivolta la costituzione in mora deve essere capace. Quando il creditore effettua la costituzione in
mora, lo deve fare verso un debitore capace di intendere e di volere, altrimenti non si ha costituzione in
mora. Nonostante questo, però, il debitore che ha eseguito la prestazione dovuta non può impugnare il
pagamento a causa della propria incapacità.
In alcuni casi, non c’è bisogno di fare l’atto scritto, formale, di costituzione in mora; la mora in questi casi è
automatica. I casi sono i seguenti:
- In caso di fatto illecito (il diritto che il soggetto aveva, per esempio, verso l’oggetto danneggiato, si
trasforma automaticamente in un credito risarcitorio; nasce immediatamente l’obbligo di risarcire il
danno e l’obbligo è automatico);
- Se il debitore ha dichiarato per iscritto di non voler eseguire l’obbligazione (in tal caso è superflua la
richiesta del creditore e si deve escludere che il ritardo sia imputabile al creditore);
- Se è scaduto il termine e l’obbligazione deve essere eseguita al domicilio del creditore (anche in tal
caso è superflua la richiesta di pagamento e si deve escludere che il ritardo sia imputabile al
creditore);
- Se si tratta di obbligazioni negative inadempiute – si fa la cosa che non si doveva fare (è superflua la
richiesta del creditore e il ritardo non può essere imputato a quest’ultimo).
Videolezione 5 – La mora del creditore.
Il creditore è in mora quando, senza motivo legittimo, non riceve il pagamento offertogli nei modi indicati
dalla legge o dagli usi o non compie quanto è necessario affinché il debitore possa adempiere l’obbligazione.
Il dovere di cooperazione tra debitore e creditore è un dovere generale, che si lega alla correttezza che deve
impostare i rapporti tra debitore e creditore; il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole
della correttezza. Questo dovere si specifica come un dovere di andare in contro agli interessi dell’altro
soggetto, nei limiti di un apprezzabile sacrificio del proprio interesse. La cooperazione esprime una
solidarietà tra il soggetto debitore e quello creditore. Nel caso di mora del creditore, il creditore non coopera
ed è quindi come se rifiutasse la prestazione del debitore; la mancata cooperazione e il rifiuto sono trattati da
questo punto di vista allo stesso modo.

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La mora si ha quando il creditore manifesta un rifiuto implicito, o esplicito, senza motivo legittimo. I motivi
legittimi sono principalmente quelli che riguardano l’inesattezza della prestazione: la prestazione che viene
offerta è qualitativamente, o quantitativamente diversa.
Effetti della mora del creditore:
- Gli effetti si producono dal giorno dell’offerta, se questa è dichiarata valida con sentenza passata in
giudicato o se è accettata dal creditore;
- Quando il creditore è in mora, è a suo carico l’impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa
non imputabile al debitore; se il bene perisce e la prestazione non può essere eseguita a causa di
un’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore, il rischio grava sul creditore. La
cosa non può più essere data perché è perita, ma ciò non grava sul debitore che aveva offerto la
prestazione nelle forme dovute. Quindi, se il rischio cade sul creditore, questo significa che egli deve
comunque pagarne il prezzo; la controprestazione a carico del creditore e a favore del debitore è
sempre dovuta. Il perimento del bene non viene subito dal debitore che ha offerto il bene nelle forme
previste dalla legge, ma viene subito dal creditore, il quale non è liberato dall’eventuale sua
controprestazione;
- Non sono dovuti gli interessi che non siano stati percepiti dal debitore;
- Non sono dovuti i frutti della cosa che non siano stati percepiti dal debitore. Se il debitore percepisce
dei frutti, li deve al creditore nel momento in cui questi accetterà la prestazione, ma se non sono stati
percepiti dei frutti dal debitore, egli non è tenuto a corrispondere il valore dei frutti al creditore che
sia in mora;
- Il creditore in mora deve risarcire i danni derivanti dalla mora (deve inoltre sostenere le spese per la
custodia e la conservazione della cosa).
Come precedentemente anticipato con riguardo alla costituzione in mora del creditore, il creditore è in mora
quando non consente al debitore di adempiere o quando non riceve il pagamento nonostante l’offerta reale,
per intimazione o secondo gli usi. Mentre, se l’offerta è fatta con modi diversi da quelli previsti dal codice
(non offerta reale, non per intimazione, non secondo gli usi), il creditore non è in mora, ma non lo può essere
neanche il debitore (a meno che non vi sia un motivo legittimo di rifiuto della prestazione). Quindi il debitore
non può considerarsi responsabile, ma non può avvantaggiarsi degli effetti che si collegano alla mora del
creditore.
Le offerte previste dal Codice civile sono:
- Offerta reale: deve effettuarsi se l’obbligazione ha per oggetto danaro, titoli di credito, o cose mobili
da consegnare al domicilio del creditore. Si tratta di un atto di effettiva presentazione del danaro o
dei beni;
- Offerta per intimazione: deve effettuarsi in caso di cose mobili da consegnare in luogo diverso, di
immobili, di obbligazioni di fare. Si tratta di un atto notificato al creditore nelle forme previste per
l’atto di citazione in giudizio;
- Offerta nelle forme d’uso: gli effetti della mora si hanno col deposito (accettato o dichiarato valido
con sentenza passata in giudicato)
La legge prevede quali siano i requisiti di validità dell’offerta. Affinché l’offerta sia valida è necessario: che
sia fatta al creditore capace di ricevere, o a chi ha facoltà di ricevere per lui - requisito di capacità di ricevere
atti giuridici; che sia fatta da persona che può validamente adempiere; che comprenda la totalità della somma
o delle cose dovute, dei frutti, degli interessi, delle spese liquide e anche una somma per le spese non liquide
(non già stabilite nel loro ammontare), con riserva di un supplemento se è necessario – requisito di esattezza
dell’adempimento; che il credito sia esigibile; che si sia verificata la condizione dalla quale dipende
l’obbligazione; che l’offerta sia fatta alla persona del creditore nel suo domicilio; che l’offerta sia fatta da un
pubblico ufficiale autorizzato all’effettiva presentazione dell’offerta. Questi requisiti di validità sono oggetto
di valutazione da parte del giudice, a meno che l’offerta non sia stata già accettata dal creditore. Nel caso

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l’offerta non sia stata già accettata dal creditore, essa deve infatti essere dichiarata valida con sentenza
passata in giudicato.
Una volta eseguita l’offerta, il debitore si libera con:
- il deposito: in caso di beni mobili (presso stabilimenti di pubblico deposito o in luogo autorizzato dal
giudice) o somme di danaro (anche presso un istituto di credito);
- Il sequestro: in caso di beni immobili;
Se si tratta di cose deperibili, o di dispendiosa custodia può esserne autorizzata la vendita e il deposito
del prezzo.
Videolezione 6 – La risoluzione giudiziale per inadempimento.
La risoluzione per inadempimento consiste nello scioglimento del vincolo contrattuale in seguito alla
mancata esecuzione della prestazione dovuta, o all’inesattezza nell’esecuzione stessa. Si tratta di un potere
concesso alla parte che subisce l’inadempimento. L’inadempimento di una parte giustifica il venir meno
delle obbligazioni dell’altra, ma questa può scegliere di mantenerle in vita e chiedere l’adempimento. Il
potere concesso alla parte che subisce l’inadempimento, in alcuni casi, quando si tratta di risoluzione
giudiziale, viene manifestato attraverso una domanda giudiziale, in altri casi invece, il potere si manifesta
con una risoluzione stragiudiziale tramite una diffida ad adempiere, una clausola risolutiva espressa (e la
manifestazione di volersi avvalere di questa clausola), o con un termine essenziale inserito nel contratto (si
ammette sempre la volontà della parte di ricevere la prestazione nonostante la scadenza del termine
essenziale).
-Parliamo in questa lezione della risoluzione giudiziale-
Nei contratti con prestazioni corrispettive (alla prestazione di una parte corrisponde la controprestazione
dell’altra parte: la vendita è un tipico esempio), quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni,
l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il
risarcimento del danno. La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per
l’adempimento, ma non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione. Dalla data
della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione. Non dobbiamo
ritenere che “prestazioni corrispettive” significhi sempre prestazioni onerose, perché, a volte, anche dei
contratti a titolo gratuito ammettono forme di risoluzione. Per esempio, pensiamo all’articolo 793, che
prevede la cosiddetta “donazione modale”, cioè una donazione gravata da un onere: il donatario è tenuto
all’adempimento dell’onere, entro i limiti del valore della cosa donata, e se per caso si ha un inadempimento
dell’onere previsto, se è previsto dall’atto di donazione, può essere domandata dal donante o dai suoi eredi la
risoluzione per inadempimento dell’onere di questa donazione modale. Quindi, anche nei contratti in cui non
è previsto un compenso come corrispettivo, è ben possibile chiedere la risoluzione per inadempimento. Il
fatto che vi sia un modo, un onere, nella donazione, significa in fondo che vi sono prestazioni da ambo i lati:
il donante dà qualcosa, in cambio il donatario ha un onere (deve far qualcosa). Anche qui vi è una
corrispettività e dunque vi è il presupposto necessario.
Pensiamo poi anche al contratto gratuito, il contratto gratuito è un mandato che non prevede un compenso a
favore del mandatario; il mandatario si obbliga nei confronti del mandante a compiere determinati atti
giuridici per conto del mandante, ma in cambio non chiede nessun compenso. In dottrina si ritiene, che anche
nel caso di contratto gratuito, vi possano essere delle prestazioni che portano alla risoluzione del contratto se
esse non sono adempiute da parte del mandante. In particolare, se servono dei soldi, ad esempio, per
l’adempimento del mandato, il mandante è tenuto a darli al mandatario. Infatti, se non vengono corrisposti
dal mandante questi soldi (o comunque i mezzi necessari per eseguire il mandato), il mandatario può
sciogliersi dal rapporto. In questo caso, non si ravvisa una vera e propria corrispettività, come nel caso
precedente di donazione modale, in quanto il fatto che il mandante deve somministrare i mezzi necessari per
l’esecuzione del mandato, non è qualcosa che va a favore di un soggetto diverso dal mandante stesso, non è
un qualcosa che va a compensare, o arricchire qualcun altro. Se il mandante non somministra i mezzi
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necessari perché il mandatario possa adempiere il suo mandato, il mandatario non adempie il suo mandato e
l’inadempimento non è a lui imputabile. Si avrà un’impossibilità per il mandatario di adempiere
l’obbligazione, impossibilità che a un certo punto potrà perdurare per tanto tempo fino al punto di far
estinguere l’obbligazione. Una volta estinta l’obbligazione, cade per impossibilità sopravvenuta lo stesso
contratto (per impossibilità sopravvenuta, non per inadempimento).
Altro presupposto per la risoluzione si applica ai contratti plurilaterali con cosiddetta comunione di scopo,
cioè in quei contratti in cui vi sono più di due parti in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al
conseguimento di uno scopo comune. In questo caso la risoluzione non è automatica in caso di
inadempimento di una delle parti, che venga anche dichiarato in giudizio. Nei contratti di questo genere,
l’inadempimento di una delle parti non importa la risoluzione del contratto rispetto alle altre, salvo che la
prestazione mancata debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale -se vi è un’essenzialità della
prestazione mancata, si capisce che si risolve l’intero contratto di comunione di scopo. Se l’inadempimento
riguarda solo una parte, si può sciogliere semplicemente il rapporto con questa parte, senza coinvolgere
l’intera vicenda contrattuale.
La risoluzione giudiziale, come abbiamo visto, ha dei presupposti e determinate regole di disciplina.
Innanzitutto, visto che è giudiziale, comporta la necessità che per aversi la risoluzione, si abbia una sentenza:
viene fatta una domanda giudiziale, il giudice valuta e il contratto si risolve in seguito alla sentenza. La
sentenza ha natura costitutiva, in particolare, essa verifica che vi siano i presupposti per inadempimento e
risolve il contratto. Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa
importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte; deve esserci una certa gravità, o comunque una non
scarsa importanza. La non scarsa importanza è un qualcosa che deve essere valutato d’ufficio dal giudice,
senza bisogno che la parte lo richieda. La valutazione viene fatta al momento della domanda di risoluzione;
al momento della domanda l’inadempimento non deve essere di scarsa importanza - Dopo una domanda di
risoluzione, il debitore non può adempiere ed è per questo motivo che il giudice si deve riferire al momento
della domanda e non certo a un momento successivo. Il dovere di correttezza e collaborazione tra le parti non
consente di chiedere lo scioglimento del rapporto per inadempimenti di natura irrisoria.
Con riguardo ad alcuni contratti specifici, sono previste norme particolari. Per esempio, per la
somministrazione sembra che valgano norme diverse. La somministrazione è il contratto mediante cui una
parte si obbliga verso il corrispettivo di un prezzo a eseguire a favore dell’altra delle prestazioni periodiche,
o continuative di cose. Con riguardo alla somministrazione: in caso di inadempimento di una delle parti
relativo a singole prestazioni, l’altra parte può richiedere la risoluzione del contratto di somministrazione se
l’inadempimento ha una notevole importanza (non basta che sia di non scarsa importanza) e se è tale da
menomare la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti.
In linea generale, nel caso di risoluzione giudiziale per inadempimento, non è richiesto dalla legge che
l’inadempimento sia imputabile. La legge ritiene semplicemente che ci debba essere un inadempimento. Se
c’è l’inadempimento si può richiedere la risoluzione in ogni caso, ma se addirittura l’inadempimento è
imputabile, si ha l’obbligo di risarcimento del danno.
Non è presupposto per la risoluzione giudiziale la costituzione in mora.
Gli effetti della risoluzione per inadempimento sono i seguenti:
- La parte inadempiente non può più adempiere;
- Il richiedente (chi chiede la risoluzione) non può più chiedere l’adempimento;
- La risoluzione ha effetti retroattivi (entrambi i contraenti sono tenuti a restituire quanto
eventualmente già ricevuto in esecuzione del contratto), salvo il caso di contratti ad esecuzione
continuata o periodica, riguardo ai quali l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già
eseguite (ad esempio, se il conduttore di un immobile smette di versare il canone dovuto
periodicamente, il locatore non è tenuto a restituire i canoni ricevuti in precedenza);

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- La risoluzione, anche se è stata espressamente pattuita, non pregiudica i diritti acquistati dai terzi,
salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione. Ad esempio, Tizio vende un quadro a
Caio il quale, prima ancora di versare il prezzo, lo vende a Mevio. Se il contratto tra Tizio e Caio è
risolto per l'inadempimento di Caio, l'acquisto di Mevio è salvo. Se il contratto di compravendita è
soggetto a trascrizione, l'acquisto è salvo solo se la sua trascrizione precede quella della domanda di
risoluzione.
Videolezione 7 – La risoluzione stragiudiziale per inadempimento.
In questa lezione vengono analizzati i casi in cui è data al potere diretto del creditore, in una forma di
autotutela, la possibilità di sciogliersi dal vincolo contrattuale, ottenendo in via di diritto (senza bisogno di
andare dinanzi a un giudice) la risoluzione del contratto. Si ritiene che non vi sia bisogno di andare dinanzi a
un giudice, ma in realtà, la pratica forense insegna che, anche in casi di questo genere, tendenzialmente, si va
da un giudice. Questo perché, nonostante l’avvenuta risoluzione in via stragiudiziale, può avvenire che l’altra
parte contesti l’avvenuta risoluzione e ci sia quindi la necessità di andare da un giudice perché valuti la
sussistenza dei presupposti per la risoluzione stragiudiziale e accerti l’effettiva risoluzione di diritto del
contratto. Il giudizio porterà ovviamente a una sentenza che non avrà natura costitutiva come nella
risoluzione giudiziale.
Le fattispecie di risoluzione stragiudiziale sono: la diffida ad adempiere; la clausola risolutiva espressa; il
termine essenziale per una delle parti. Si tratta di tre metodi di risoluzione stragiudiziale del contratto, che
hanno operatività diverse tra loro. Questi metodi hanno in comune solo un dato, ossia l’esercizio del potere
del creditore, che chiede di sciogliersi dal vincolo contrattuale una volta constatato l’inadempimento del
debitore. Il creditore, grazie a questi metodi, può richiedere una risoluzione di diritto del contratto. In
particolare, il creditore chiede di svincolarsi da un rapporto negoziale, che non ha più una sua giustificazione,
in considerazione del fatto che il debitore risulta essere inadempiente. In questi casi, come precedentemente
affermato, è possibile che il creditore decida di sciogliere il vincolo contrattuale optando per la risoluzione,
ma può anche verificarsi che egli scelga l’adempimento. Resta nella facoltà del creditore optare per
l’adempimento tardivo, o per un adempimento per equivalente, cioè con una somma di denaro che
corrisponde a quanto dovuto al creditore. È vero però che, nella maggior parte dei casi, il creditore preferisce
risolvere il contratto quando c’è un inadempimento dell’altra parte.
Le tre diverse metodologie, nonostante abbiano in comune l’esercizio del potere del creditore, hanno però
anche delle differenze. La diffida riguarda l’esercizio di un potere che si manifesta e che nasce nel momento
in cui il debitore è inadempiente, a prescindere dal fatto che sia prevista la facoltà di risolvere il contratto con
“diffida ad adempiere” all’interno del contratto - la legge permette di utilizzare direttamente questo rimedio.
A differenza della diffida ad adempiere, che viene concessa sempre al creditore per ogni tipo di contratto che
non viene adempiuto dall’altra parte, la clausola risolutiva espressa e il termine essenziale permettono invece
la risoluzione in ossequio a una pattuizione che è già inserita nel contratto, o comunque si deve ritenere
legata al contratto stesso. Viene esercitato un potere di risoluzione che già è insito nel contratto.
La diffida ad adempiere è disciplinata dall’articolo 1454: “Alla parte inadempiente l'altra può intimare per
iscritto di adempiere in un congruo termine, con dichiarazione che, decorso inutilmente detto termine, il
contratto s'intenderà senz'altro risoluto. Il termine non può essere inferiore a quindici giorni, salvo diversa
pattuizione delle parti o salvo che, per la natura del contratto o secondo gli usi, risulti congruo un termine
minore. Decorso il termine senza che il contratto sia stato adempiuto, questo è risoluto di diritto”. In
relazione a quanto scritto nella norma, il creditore deve dunque comunicare che il contratto s’intende risolto
di diritto se il debitore non adempie entro un determinato termine; la legge dice che il termine deve essere
congruo (la congruità si misura in relazione alla natura dell’affare). La diffida ad adempiere in 15 gg consiste
in un atto scritto, che deve essere dichiarato all’altra parte, ma ovviamente non basta la dichiarazione: gli atti
unilaterali producono effetto nel momento in cui pervengono alla persona ai quali sono destinati. Di
conseguenza, non basta che il creditore dichiari, ma deve portare la dichiarazione a conoscenza della persona
a cui è destinata. Questa richiesta assomiglia a una costituzione in mora perché il debitore riceve la richiesta
di adempimento per iscritto (il debitore è costituito in mora mediante intimazione, o richiesta fatta per
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iscritto) ed è importante sottolineare che anche in questo caso, così come nel caso di risoluzione giudiziale,
l’inadempimento non deve essere di scarsa importanza. Infatti, se l’inadempimento è di scarsa importanza,
non si può ottenere né la risoluzione giudiziale, né la risoluzione per diffida. Il momento per valutare la non
scarsa importanza non è il momento in cui si effettua la diffida, in quanto con essa si dà un termine ultimo
per adempiere, ma è il momento della scadenza del definitivo, in quanto è quello il momento del definitivo
inadempimento.
La clausola risolutiva espressa è disciplinata dall’articolo 1456, che dice: “I contraenti possono convenire
espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta
secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata
dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva”. Come suggerito dal nome, la clausola
risolutiva deve appunto essere espressa, non tacita, e presupposto per l’applicazione di questa norma è che si
individui una determinata obbligazione; la clausola accede a una determinata obbligazione. Se l’obbligazione
non è adempiuta secondo le modalità stabilite, il creditore dichiara all’altra parte di volersi avvalere della
clausola risolutiva espressa. La dichiarazione si deve intendere come comunicazione, in quanto essendo un
atto unilaterale, per avere efficacia deve essere portata a conoscenza del destinatario e si presume conosciuta
nel momento in cui giunge al suo indirizzo. In questo caso, il contratto non si risolve appena c’è
l’inadempimento, ma la risoluzione si verifica di diritto quando avviene la comunicazione che dichiara la
volontà di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa. L’inadempimento previsto dalla clausola ha
sicuramente non scarsa importanza per il creditore e il requisito della non scarsa importanza assume un
rilievo soggettivo, valutato al momento della contrattazione (non viene valutato in via oggettiva al momento
dell’inadempimento).
Altro metodo di risoluzione stragiudiziale per inadempimento è quello del termine essenziale. L’articolo
1457 dice che: “Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale
nell'interesse dell'altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l'esecuzione nonostante la
scadenza del termine, deve darne notizia all'altra parte entro tre giorni. In mancanza, il contratto si intende
risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”. Deve esserci un termine
essenziale e l’essenzialità si desume dal contratto, essa deve essere espressamente prevista dalle parti, o
derivante dalla natura dell’affare. L’essenzialità può essere una clausola espressa, ma può essere anche una
clausola tacita: quando l’essenzialità è prevista dalle parti, si tratta di clausola espressa; se l’essenzialità
deriva dalla natura dell’affare, non si tratta di clausola espressa. La scadenza del termine essenziale ha
sicuramente non scarsa importanza per il creditore. Il requisito della non scarsa importanza assume un rilievo
soggettivo se il termine è considerato essenziale dalle parti, oggettivo se dipende dalla natura dell’affare.
Videolezione 8 – La risoluzione per impossibilità sopravvenuta.
La norma di legge che si occupa in generale della risoluzione per impossibilità sopravvenuta è l’articolo
1463, articolo che riguarda i contratti con prestazioni corrispettive. La norma dice: “Nei contratti con
prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può
chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla
ripetizione dell'indebito”. Se la prestazione diventa impossibile per causa non imputabile al debitore,
l’obbligazione si estingue e il debitore è liberato: in caso di contratto con prestazioni corrispettive, il debitore
non può ottenere la controprestazione e deve restituire quanto eventualmente già ricevuto - In caso di
impossibilità sopravvenuta, la causa viene meno e con essa automaticamente anche il contratto.
Un tema che viene trattato al lato rispetto a quello dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione è quello
che riguarda l’impossibilità di utilizzazione della prestazione. Per esempio, uno studio professionale effettua
un ordine da un mobilificio per ottenere un arredamento particolare che comprende mobili molto grandi e
imponenti. Per una causa non imputabile al soggetto che deve ricevere la prestazione, succede che si è
costretti a lasciare quello studio professionale per trasferirsi in un locale più piccolo dove i mobili che sono
stati ordinati non potrebbero essere utilizzati. Che succede in questo caso? Certo non si ha un’impossibilità
della prestazione e non possiamo collegarci all’impossibilità sopravvenuta della stessa perché l’impresa che
produce i mobili, nonostante il creditore abbia cambiato il locale dello studio, può ancora effettuare la
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prestazione, anche se il creditore non potrà utilizzare i mobili. In questo caso, allora, il contratto deve essere
interpretato anche secondo ciò che non è effettivamente scritto nel contratto e cioè secondo le regole di
interpretazione del contratto, che permettono di dare al contratto un contenuto, che sia corrispondente a
quello che le parti hanno manifestato. Se dal contratto risulta, per esempio, che quei mobili devono servire
nella misura in cui si possa permanere nello studio e che si tratta di uno studio preso in locazione per il quale
non si ha la certezza della disponibilità, allora anche in questo caso si può dire che l’impossibilità di
utilizzare la prestazione diventi simile a un’impossibilità di quella prestazione. In questo caso, infatti,
l’utilizzazione dei mobili è contemplata come qualcosa di essenziale all’interno del contratto. Ovviamente, se
così non fosse, questo ragionamento non si potrebbe fare; deve risultare dal contratto lo scopo perseguito dal
creditore.
L’impossibilità può essere anche parziale. In particolare, nei contratti con prestazioni corrispettive, quando la
prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente
riduzione della prestazione da essa dovuta e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse
apprezzabile all’adempimento parziale. Ricordiamo inoltre, che il creditore può sempre rifiutare
l’adempimento parziale, anche in caso di prestazione divisibile, salvo che la legge, o gli usi dispongano
diversamente.
Come abbiamo visto, l’impossibilità parziale nei contratti con prestazioni corrispettive comporta questa
alternativa: o la riduzione della controprestazione, o la recessione del contrato per un mancato interesse
apprezzabile. Questa alternativa porta quindi a un eventuale fase di recesso e il recesso unilaterale dal
contratto è un qualcosa che nel nostro codice non è visto di buon occhio. Il recesso è un qualcosa che in
genere è ammesso solo se la legge lo prevede, o le parti consensualmente lo prevedono. Il recesso deve avere
una sua giustificazione forte e la legge lo prevede in ipotesi abbastanza eccezionali. Con riguardo
all’impossibilità temporanea, non è possibile prevedere che il creditore receda nel caso di contratti con
prestazioni corrispettive quando una prestazione è divenuta temporaneamente impossibile; l’obbligazione si
estingue se l’impossibilità perdura fino a quando il debitore non può più essere ritenuto obbligato ovvero il
creditore non ha più interesse. Non si può applicare per analogia la norma prevista per l’impossibilità
parziale all’impossibilità temporanea, quella del recesso è una facoltà di carattere straordinario.
Con riguardo ad alcuni tipi di contratti, la disciplina dell’impossibilità ha delle peculiarità, in particolare, ci
riferiamo ai contratti che trasferiscono diritti reali. Nei contratti che trasferiscono la proprietà di una cosa
determinata ovvero costituiscono o trasferiscono diritti reali, il perimento della cosa per una causa non
imputabile all'alienante non libera l'acquirente dall'obbligo di eseguire la controprestazione, ancorché la cosa
non gli sia stata consegnata – l’acquirente è già divenuto proprietario e deve pagare per la cosa ormai
divenuta di sua proprietà; con l’acquisto del bene, l’acquirente acquista anche il rischio che il bene possa
perire per una causa non imputabile. Stessa cosa avviene, quando l'effetto di trasferimento sia differito fino
allo scadere di un termine. Qualora oggetto del trasferimento sia una cosa determinata solo nel genere,
l'acquirente non è liberato dall'obbligo di eseguire la controprestazione, se l'alienante ha fatto la consegna o
se la cosa è stata individuata. L'acquirente è in ogni caso liberato dalla sua obbligazione, se il trasferimento
era sottoposto a condizione sospensiva e l'impossibilità è sopravvenuta prima che si verifichi la condizione.
Con riguardo al contratto plurilaterale (quando ci sono nel contratto più parti, non solo due), l’impossibilità
della prestazione di una delle parti, non importa lo scioglimento di tutto il contratto plurilaterale rispetto alle
altre parti, salvo che la prestazione mancata si debba, secondo le circostanze del caso, considerare essenziale
proprio nella logica dell’intero contratto.
Con riguardo agli effetti, a seguito di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, come precedentemente già
detto, non si può ottenere la controprestazione e si deve restituire quanto eventualmente già ottenuto –
secondo le norme sulla ripetizione dell’indebito. Se viene meno la causa (la giustificazione di quel contratto)
e ho ricevuto qualcosa per quel contratto, quello che ho ricevuto è come se assumesse la veste di un indebito,
di qualcosa che non avrei dovuto ricevere e che non ha più ragion d’essere nel mio patrimonio, in quanto io
non devo più dar nulla perché la prestazione che dovevo effettuare è divenuta impossibile per causa non
imputabile a me.
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Inoltre, sempre con riguardo alle norme sulla ripetizione dell’indebito, secondo l’articolo 2037 “Chi ha
ricevuto indebitamente una cosa determinata è tenuto a restituirla. Chi ha ricevuto la cosa in buona fede non
risponde del perimento o del deterioramento di essa, ancorché dipenda da fatto proprio, se non nei limiti del
suo arricchimento” e secondo l’articolo 2038 “Chi, avendo ricevuto la cosa in buona fede, l'ha alienata prima
di conoscere l'obbligo di restituirla è tenuto a restituire il corrispettivo conseguito. Se questo è ancora dovuto,
colui che ha pagato l'indebito subentra nel diritto dell'alienante. Nel caso di alienazione a titolo gratuito, il
terzo acquirente è obbligato, nei limiti del suo arricchimento, verso colui che ha pagato l'indebito.”
Videolezione 9 – Il fatto illecito.
Il fatto illecito è uno di quei fatti che danno origine a un’obbligazione; il fatto illecito è una fonte di
obbligazione. In particolare, il fatto illecito è fonte di un’azione risarcitoria, che tendenzialmente avviene con
il pagamento di una somma di denaro, ma che può anche avvenire in forma specifica, cioè con la
ricostituzione effettiva e specifica, ad esempio, del bene che è stato distrutto a seguito del fatto illecito.
Quando parliamo di fatto illecito, parliamo di un certo tipo di responsabilità: la responsabilità
extracontrattuale. La responsabilità contrattuale è quella che nasce con l’inadempimento di un’obbligazione,
mentre la responsabilità extracontrattuale sorge quando non vi è un’obbligazione precedente e nasce una
responsabilità. La responsabilità extracontrattuale non è una responsabilità da inadempimento di
un’obbligazione, ma una responsabilità da fatto illecito. In maniera non tecnica si usa fare una distinzione tra
responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, ma in maniera più tecnica noi sappiamo che la responsabilità
contrattuale è quella che nasce da inadempimento di un’obbligazione e la responsabilità extracontrattuale è
quella che nasce da fatto illecito.
Il fatto illecito viene descritto nell’articolo 2043 del Codice civile, che dice: “Qualunque fatto doloso o
colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Parliamo di un fatto che cagiona un danno e che obbliga (da qui la nascita dell’obbligazione) al risarcimento
dello stesso. La responsabilità nasce dal fatto illecito, ossia dalla creazione del danno – responsabilità
extracontrattuale. Il nostro ordinamento ha scelto un elemento che ben ci fa comprendere come l’illecito si
riferisca a un illecito di “danno”, l’illecito in cui è fondamentale che si sia creato un danno. Non basta una
condotta che va contro qualche norma, o che contravviene a qualche regola. Perché si abbia responsabilità
extracontrattuale e perché si abbia fatto illecito deve esserci un danno. Il fatto che ci deve essere un danno fa
comprendere come siano da respingere alcune tesi dottrinali, che vogliono far sorgere la responsabilità anche
nel caso di mero pericolo di danno e che vogliono dare ingresso a un’indiscriminata utilizzazione dell’azione
cosiddetta “inibitoria” per la cessazione di un pericolo di danno. Secondo l’avviso del Prof. Napoli, dato che
l’illecito è un illecito di “danno”, l’azione inibitoria non potrà mai essere legata all’articolo 2043 del Codice
civile e al fatto illecito. Vi sono dei casi per i quali l’ordinamento prevede l’esercizio di determinate azioni
quando si teme un pericolo, ma non si tratta di fatto illecito, bensì di pericolo temuto. L’illecito a cui fa
riferimento l’articolo 2043 è un illecito di danno (illecito civile) e non di pericolo di esso (illecito di
condotta). Se qualcuno ha fatto qualcosa di sbagliato, deve arrivare al danno affinché si possa dire che sorge
la responsabilità extracontrattuale per fatto illecito, altrimenti siamo all’interno di altre norme (qualora vi
siano i presupposti, sennò non si potrà far nulla).
Per esempio, la nostra procedura civile prevede dei provvedimenti d’urgenza quando vi sono dei pericoli,
però anche quella norma, che è l’articolo 700 del Codice civile, è una norma specifica, che deve essere
utilizzata quando ricorrono gli specifici presupposti che la stessa indica. L’articolo 700 del Codice civile dice
infatti: “chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via
ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al
giudice i provvedimenti d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare
provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”. Questa norma viene applicata nei casi in cui il
giudice veda una parvenza di diritto in capo al soggetto e il pericolo di un pregiudizio imminente,
irreparabile, che non permette di attendere. Nel caso in cui vi siano tali presupposti e non si possa attendere
l’esito del giudizio ordinario, il giudice decide in via d’urgenza, velocemente, e dà appunto un
provvedimento d’urgenza. Data la necessaria presenza dei presupposti indicati, la norma ovviamente in
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questo caso non potrà essere l’articolo 2043 del Codice civile, che prevede e prescrive un danno, ma sarà
piuttosto l’articolo 700 del Codice civile. Non confondiamo quindi la responsabilità extracontrattuale con le
azioni inibitorie, nonostante una certa dottrina le ritenga a tutela del fatto illecito. Dobbiamo ritenere che le
azioni inibitorie, legate appunto a un pericolo e a una condotta (non a un danno), portano all’applicazione di
altre norme, come appunto l’articolo 700 del Codice civile.
L’articolo 2043 contempla degli elementi, in particolare indica “un fatto doloso o colposo”: deve esserci un
fatto. Il fatto è certamente umano e di conseguenza riferibile a una condotta umana.
Il dolo nel caso di responsabilità extracontrattuale è l’intenzionalità (non confondiamo il dolo della
responsabilità per fatto illecito con il dolo contrattuale, che è un vizio del consenso): l’intenzione di compiere
un comportamento per creare un danno ingiusto, che porta alla responsabilità e all’obbligo di risarcirlo. Il
dolo, quindi l’intenzionalità, ha vari gradi. I penalisti che hanno studiato il dolo, hanno studiato i vari gradi,
cioè i vari tipi di dolo e li hanno classificati: il dolo diretto è l’intenzione di compiere un danno, si ha un
intenzione netta e precisa (per esempio, io lancio una pietra per rompere un vetro altrui); il dolo eventuale è
l’accettazione del rischio che si possa verificare un danno (per esempio, io lancio dei mattoni dalla finestra
del quinto piano senza guardare chi c’è giù) – nel caso di dolo eventuale, il comportamento è pur sempre
considerato doloso, anche se si tratta di dolo un po’ meno grave rispetto a quello diretto, con cui si vuole
creare appositamente il danno specifico. Il grado di dolo, o comunque la presenza di dolo in capo a un
soggetto è rilevante. Nel caso in cui il soggetto venga sottoposto a un’azione di responsabilità, è possibile per
il giudice prendere atto del grado del dolo per quantificare e modellare il risarcimento in maniera specifica su
quel tipo di comportamento. Per esempio, l’articolo 2056 del Codice civile dice: “Il lucro cessante (il
mancato guadagno della persona ingiustamente danneggiata) è valutato dal giudice con equo apprezzamento
delle circostanze del caso.”
L’articolo 2043 ci dice che oltre che doloso, il fatto illecito potrebbe anche essere colposo. La colpa è la
divergenza tra lo standard di comportamento che ordinariamente un soggetto deve avere nel contesto in cui si
trova e il comportamento effettivamente tenuto. Cioè, per quella determinata situazione è opportuno tenere
uno standard di un certo tipo e il soggetto se ne discosta. In termini poi di specificazione terminologica più
concreta, si dice tendenzialmente che la colpa è una negligenza; una distrazione; un’imperizia, se attuata da
un soggetto che aveva l’onere di avere un una specifica perizia professionale nel compiere quel determinato
atto; un’incuria nello svolgere un’attività; un’imprudenza. Anche la colpa può avere dei gradi: colpa lieve;
colpa grave; colpa cosciente. La colpa grave si ha quando, per esempio, corro a velocità altissima con la
macchina e corro così tanto che con la mia negligenza vado a urtare un altro veicolo. La colpa lieve si ha
quando, per esempio, vado piano con la macchina seguendo tutte le regole del codice stradale, ma non sono
stato attento al fatto che la suola della mia scarpa si era scollata; la suola cade e non riuscendo più a frenare a
causa di questo fatto, causo un incidente. Nel caso di colpa lieve, la divergenza rispetto allo standard che si
doveva tenere è minima. Quando la divergenza è grande, si parla di colpa grave. Al fine dell’applicazione
dell’articolo 2056 precedentemente citato, il giudice terrà conto anche delle differenze di colpa. La colpa,
quando si parla di “colpa cosciente”, può essere molto vicina al dolo. C’è una linea sottile che permette di
distinguere la colpa cosciente dal dolo eventuale: il dolo eventuale è l’accettazione del rischio che con il
proprio comportamento si crei un danno; la colpa cosciente è la previsione della possibilità di creare un
danno in astratto, ma la convinzione di non procurarlo (per esempio, mi affaccio alla finestra con in mano dei
sacchi pieni di roba pesante da gettare. Sotto c’è un cassonetto aperto. Mi trovo al quinto piano e penso che
con la mia mira centrerò il cassonetto e non beccherò la macchina che c’è accanto. So che in astratto da
quell’altezza potrei colpire la macchina, ma io sono così convinto delle mie capacità, che sono sicuro di non
colpirla. Lancio il sacco e colpisco la macchina – si tratta di colpa cosciente perché non ho accettato il
rischio di colpirla, ma sono sicuro di non colpirla). La colpa cosciente non è chiamata “dolo” perché non si è
accettato il rischio di cagionare il danno. Quanto più si avvicina una colpa cosciente a un dolo eventuale,
tanto più sarà simile il risarcimento che il giudice dovrà disporre.
Con riguardo alla relazione tra il comportamento doloso, o colposo e il danno che si crea, si dice che un
elemento per la nascita della responsabilità sarebbe il cosiddetto nesso causale, ma secondo il Prof. è
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importante solamente che diciamo che è importante capire che il soggetto abbia cagionato il danno. –
Argomento che viene affrontato in modo specifico nelle lezioni successive sul nesso di causalità.
Cagionare un danno significa cagionare un pregiudizio economico. Nello specifico, il danno è un’entità di
carattere economico. Il danno rileva anche un danno giuridicamente rilevante; la legge dice che il danno per
essere risarcibile deve essere ingiusto e ingiusto significa contro la legge. Secondo l’applicazione
dell’articolo 2043, il danno è ingiusto quando è contrario ai dettami dell’ordinamento giuridico, quando lede
degli interessi che sono da tutelare secondo il nostro ordinamento giuridico (esistono danni ammessi dalla
legge). C’è stata un’evoluzione nel concetto di ingiustizia. All’inizio si riteneva che fossero ingiusti i danni
che riguardavano i diritti assoluti, quei diritti che cioè si possono far valere nei confronti di tutti.
Successivamente, si è posto il problema a) sui diritti relativi, che ormai si dice sarebbero risarcibili in via
extracontrattuale per fatto illecito (anche se secondo il Prof. non si devono ritenere assolutamente risarcibili)
– i diritti relativi sono i diritti che si possono azionare verso un soggetto(in particolare, i diritti di credito);
b)sul possesso e la detenzione - in questo caso, effettivamente, si potrebbe ipotizzare un risarcimento; c)sulla
lesione degli interessi legittimi – secondo una sentenza della Cassazione si dice che sarebbe risarcibile anche
la lesione degli interessi legittimi (il Prof. non è d’accordo in quanto ritiene che ci si trovi nell’ambito delle
norme che riguardano la giurisdizione amministrativa); d) sulle aspettative – la responsabilità
extracontrattuale si ha nel caso vi siano azioni conservative; e) sulla perdita di chance – Bisogna valutare il
danno. È difficile trovare un caso di responsabilità civile extracontrattuale per fatto illecito che nasce con la
perdita di chance.
Videolezione 10 – Differenze tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
La differenza tra la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale è importantissima e rilevante. Si tratta di
due tipi di responsabilità che sono disciplinate da due parti completamente diverse del nostro Codice civile.
La responsabilità contrattuale, o tecnicamente responsabilità da inadempimento delle obbligazioni, è
disciplinata dagli articoli 1218 e seguenti del Codice civile, mentre la responsabilità extracontrattuale, o più
tecnicamente responsabilità da fatto illecito, è disciplinata dagli articoli 2043 e seguenti del Codice civile,
che contengono norme del tutto diverse - anche se in parte la disciplina della responsabilità extracontrattuale
richiama quella della responsabilità contrattuale.
L’articolo 2043, che parla di responsabilità extracontrattuale, dice: “Qualunque fatto doloso o colposo che
cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. È una
responsabilità che sorge con il danno ingiusto, è una fattispecie di danno. Quando si causa un danno ingiusto,
contrario agli interessi che secondo l’ordinamento giuridico sono ritenuti meritevoli di tutela, nasce la
responsabilità extracontrattuale e conseguente risarcimento del danno. L’illecito nasce se il danno è causato
da un soggetto volontariamente, o negligentemente (con colpa).
Del tutto diversa è l’impostazione dell’articolo 1218 sulla responsabilità contrattuale, in quanto la fattispecie
non è una fattispecie di danno, ma è una fattispecie giuridica. La fattispecie di danno è una fattispecie
economica, cioè si deve produrre un pregiudizio economico perché sorga la responsabilità extracontrattuale.
Secondo l’articolo 1218 invece, non è necessario che si produca un danno, la responsabilità sorge prima,
quando si ha l’inadempimento, quando non si ha un’esatta esecuzione della prestazione. L’articolo 1218
dice: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non
prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da
causa a lui non imputabile.”
Già dalla dizione di questi due articoli, si nota una prima differenza, una differenza in termini probatori. Nel
caso dell’articolo 2043, chi è stato danneggiato deve andare in giudizio a provare la fattispecie, in
particolare, si ha l’onere di provare i fatti costitutivi della propria domanda giudiziale - bisogna provare che
qualcuno, negligentemente, abbia causato un danno. Se il danno viene provato, l’altro soggetto dovrà
risarcirlo, a meno che non provi che manca qualcuno di questi elementi (per es. la colpa; il nesso tra il
comportamento e il danno; il danno). Secondo l’articolo 1218, invece, è tutto invertito. Mentre nell’articolo
2043 l’obbligo di risarcimento del danno nasce dal danno, secondo l’articolo 1218 si ha un titolo e sorge già
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responsabilità contrattuale quando il programma non viene adempiuto. Nel caso dell’articolo 1218 non è il
creditore della prestazione che deve provare che l’inadempimento è dovuto alla colpa del debitore ed è
imputabile a lui, questo perché egli possiede già un titolo. Secondo questo schema, dato che si ha un titolo,
ossia un’obbligazione preesistente tra i due soggetti, è a carico del debitore provare che l’inadempimento, o
il ritardo, è stato determinato da un’impossibilità di adempiere derivante da causa non imputabile a lui.
Quindi, nel caso di responsabilità extracontrattuale, l’onere della prova della colpa è a carico del danneggiato
che deve provare che vi è colpa, negligenza, del soggetto che era tenuto a comportarsi in un determinato
modo per evitare che si cagionassero danni ingiusti ad altri; nel caso di responsabilità contrattuale, l’onere
della prova è a carico del debitore.
Nella responsabilità extracontrattuale, proprio perché manca un titolo, la legge ha voluto dare un termine di
prescrizione breve: si può richiedere il risarcimento del danno avvenuto per fatto illecito entro 5 anni. In
genere la legge dice che i diritti si possono far valere per 10 anni (prescrizione ordinaria), ma in questo caso,
mancando un titolo, i fatti devono essere ricostruiti in giudizio e per essere ricostruiti servono testimonianze.
Più passa il tempo e più c’è difficoltà nel ricordare; applicare il termine lungo della prescrizione decennale
per una responsabilità, che si fonda sulla ricostruzione dei fatti attraverso le testimonianze, non è possibile.
Nella responsabilità contrattuale si ha un titolo, permane il titolo e non si modifica. Il titolo porta con sé una
facilità di prova del diritto a quella determinata prestazione, che si allega come non adempiuta in giudizio. La
presenza del titolo permette di far valere la responsabilità contrattuale entro il termine ordinario di 10 anni.
Nel caso di responsabilità extracontrattuale, risponde direttamente come responsabile del fatto illecito
chiunque abbia la capacità di intendere e di volere. Anche l’interdetto potrebbe avere un attimo di lucidità e
rispondere in via extracontrattuale, questo perché per rispondere in via extracontrattuale basta la capacità di
intendere e di volere, che è la capacità naturale, quella che permette di comprendere le conseguenze delle
proprie azioni. Diversamente, la responsabilità contrattuale è certamente legata alla possibilità di contrattare,
di entrare in obbligazioni. Si fa riferimento in questo caso alla capacità di agire. Per contrattare, per stringere
un’obbligazione, serve tendenzialmente la capacità di agire, cioè la capacità che si acquista con la maggiore
età e che riguarda l’idoneità a compiere e a ricevere atti giuridici, l’idoneità a compiere atti che abbiano
rilevanza giuridica, l’idoneità a contrattare.
Il danno risarcibile è diverso tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Nel caso di responsabilità
extracontrattuale vengono risarciti anche i danni imprevedibili, contrariamente, nel caso di responsabilità
contrattuale, generalmente, vengono risarciti solo i danni prevedibili.
Con riguardo alla mora, nel caso di responsabilità extracontrattuale si ha mora automatica, mentre nel caso di
responsabilità contrattuale, si ha mora non automatica.
Videolezione 12 – Introduzione al tema del cosiddetto rapporto di causalità.
Nelle trattazioni recenti, troviamo pagine e pagine sul nesso di causalità e un primo interrogativo ce lo
poniamo perché nelle trattazioni antiche, invece, non era riservato alcuno spazio al nesso di causalità, oppure
erano riservate solamente poche righe.
Il nesso di causalità di cui parleremo e sul quale si concentrano tantissime sentenze, così come tantissimi
testi giuridici sulla responsabilità civile, riguarda il nesso tra il comportamento posto in essere dal soggetto e
il danno che comporta il sorgere della responsabilità extracontrattuale. Nonostante quanto detto, i discorsi
relativi alla causalità si trovano spesso effettuati dalla giurisprudenza e dalla dottrina anche in materia di
responsabilità contrattuale, o in materia di responsabilità da inadempimento delle obbligazioni. In realtà,
essendoci già la figura dell’inadempimento alla quale bisogna guardare per capire se il soggetto entra o meno
in responsabilità, nel caso della responsabilità contrattuale, problemi relativi all’accertamento del nesso di
causalità non possono essere analizzati come problemi autonomi a sé, ma devono essere analizzati come
problemi relativi alla delimitazione del preciso contenuto dell’obbligazione. Diversamente avviene con
riguardo alla responsabilità extracontrattuale, per la quale il problema più arduo da risolvere è che cosa sia la
causalità come autonomo elemento del fatto illecito, che porta a far sorgere un illecito civile. La norma di

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partenza è quindi l’articolo 2043 e cioè la norma con cui esordisce la parte di Codice che riguarda la
responsabilità da fatto illecito (extracontrattuale). Quando un comportamento cagiona un danno è questo il
centro del problema della causalità nella responsabilità extracontrattuale.
Che problemi si pongono? Innanzitutto, si pone un’indagine di carattere scientifico. Quando parliamo di
causalità, pensiamo infatti ai rapporti di causa-effetto. Noi intendiamo capire che cosa vuol dire che un fatto
doloso o colposo cagiona ad altri un danno ingiusto e, in particolare, per capire che cosa vuol dire
“cagionare” dobbiamo andare a scavare all’interno del nostro vocabolario. Nel vocabolario, il verbo
“cagionare” ci rimanda ai rapporti di causa-effetto: si può dire che una condotta cagiona qualcosa se si
instaura una cosiddetta catena di cause ed effetti che portano a quel danno ingiusto. Se partiamo dall’analisi
della causalità, dobbiamo sapere innanzitutto che cosa si intende con “causalità” nelle scienze naturalistiche.
Andando a vedere gli studi filosofici sui rapporti di causa-effetto, si scopre che nessuna certezza si possa mai
avere in ordine ai rapporti di causa-effetto. Questo perché tutto può dipendere dalla particolare posizione
dell’osservatore, ma anche dalla conoscenza (per es. se non sono conosciuti gli effetti di un determinato
mangime che si dà a degli animali, eventuali alterazioni sulla cute di questi animali prima che si conoscano
gli effetti del mangime, potrebbero essere ricondotti a qualcos’altro). È tutto soggettivo ed è tutto rapportato
alla misura con la quale l’uomo riesce ad accertare un rapporto di causalità e a comprenderlo. Il deficit è
legato quindi all’imperfezione della relatività dell’uomo. Abbiamo un mondo in cui vi sono non dei rapporti
di causa-effetto certi e assoluti, ma delle possibili cause di probabili effetti; c’è una concatenazione tra
possibili cause di possibili effetti. Gli errori sono quindi insiti anche nelle scienze naturalistiche, considerato
che il punto di osservazione è l’uomo e la relatività che lo contraddistingue nella sua osservazione.
Partendo dall’assenza di certezze naturalistiche con riguardo alla causalità, certo è che in alcuni casi qualche
certezza l’abbiamo scoperta. Se non in senso assoluto, almeno in senso relativo, abbiamo raggiunto delle
razionali certezze terrestri-umane in relazione a determinate modificazioni della realtà e a determinati
rapporti di causalità. Queste certezze sono certezze naturalistiche che muovono da un principio di causalità
legato a una concatenazione causale che comporta sempre modificazioni della realtà (per es. viene presa una
biglia, viene spostata e inserita dentro il tubo). Partiamo da un principio di causa-effetto legato alla
modificazione della realtà: alla modificazione della realtà possiamo legare un postulato di causalità, una
causalità secondo cui si deve ritenere tendenzialmente causale quell’antecedente in mancanza del quale non
si sarebbe verificato l’evento (per es. l’antecedente dell’inserimento della biglia nel tubo è certamente
causale). Questo permette di analizzare modificazioni della realtà, che in alcuni casi sono rette da alcune
regole proprie delle scienze naturalistiche. Quando vi sono delle modificazioni della realtà analizzabili e vi
sono delle regole naturalistiche scientifiche, certamente dobbiamo tenerle in considerazione. Noi dobbiamo
considerare che i veri rapporti di causa-effetto siano quelli legati a modificazioni della realtà tali per cui, in
mancanza di un’antecedente, il fattore susseguente non si sarebbe verificato. Si parla in questo caso di
rapporti naturalistici-materiali, ossia rapporti tra modificazioni della realtà.
L’altro rapporto da andare ad analizzare per andare a studiare i nessi tra condotte e danni, tra condotte e
responsabilità, è quello sicuramente di rilievo naturalistico-economico, che riguarda la modificazione della
realtà e la causazione di un danno (per es. se rompo il vetro di una macchina, avrò creato un pregiudizio al
proprietario). Si deve arrivare alla causazione di un danno, cioè a un pregiudizio economico. Il fatto di creare
un pregiudizio economico, fa comprendere come questo sia un qualcosa di ulteriore da accertare
necessariamente.
Videolezione 13 – Il cosiddetto rapporto di causalità e l’analisi dei rapporti rilevanti.
(Continuo della lezione precedente)
Abbiamo detto che se conosciamo delle scienze naturalistiche che ci permettono di individuare - nonostante
sappiamo che non esistano scienze esatte e che è tutto legato all’imperfezione dell’uomo - una catena causale
di modificazione della realtà, certamente dobbiamo dargli rilievo. Ma per la responsabilità civile non basta
una modificazione della realtà, si deve anche creare un danno. Il danno richiesto dal nostro ordinamento
(dall’articolo 2043) è un danno che ha un’accezione particolare: si parla di danno che deve essere ingiusto. Il
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danno ingiusto deve essere cagionato con dolo, o con colpa, cioè ci sono degli elementi, oltre l’elemento
della modificazione della realtà, che devono essere presi in considerazione. La modificazione della realtà
deve essere quindi qualificabile da un punto di vista economico, quale danno, ma anche da un punto di vista
giuridico. Deve esserci una relazione di carattere giuridico tra il comportamento e quello che si produce. Di
conseguenza, in totale la causalità risulta da una relazione che passa da: uno stadio di mera modificazione
della realtà (stadio meramente naturalistico), a uno stadio naturalistico-economico, a uno stadio naturalistico-
economico-giuridico.
In alcuni casi, non si riesce a conoscere esattamente quali siano le leggi che regolano le modificazioni della
realtà su un determinato fatto (pensiamo a un agente patogeno che viene messo in circolazione e di cui non si
conoscono le possibili cause, o le patologie che può creare), oppure non si riesce a risalire a una particolare
modificazione della realtà che ha innescato un processo causale (pensiamo al caso di più soggetti che
lanciano delle pietre, ma non si riesce a risalire a quale soggetto abbia lanciato la pietra che ha rotto il vetro
dell’auto). In questi casi, il rapporto che viene in considerazione è certamente una relazione di carattere
economico perché il pregiudizio si ha e può succedere anche che venga in considerazione una relazione di
carattere giuridico (se si riesce a fondare una responsabilità usando le norme giuridiche, ossia se si riesce a
trovare un dolo o una colpa di qualche soggetto), ma non può venire in considerazione una relazione di
carattere naturalistico, in quanto non si riesce ad accertare con esattezza il nesso di causalità naturalistico. In
casi di questo genere abbiamo sicuramente difficoltà e dobbiamo certamente trovare una soluzione risolutiva
poiché, anche in questi casi, non è esclusa a priori la possibilità di accordare un risarcimento. Tra le relazioni
che si instaurano infatti, oltre quelle precedentemente elencate, c’è un’altra relazione di carattere
esclusivamente economico-giuridico da tenere in considerazione, che riguarda il rapporto che si crea tra la
condotta che non modifica la realtà (o come precedentemente visto, che non si riesce ad accertare che
modifichi la realtà) e il risarcimento (in alcuni casi), oppure tra il fatto illecito e i danni conseguiti (in questo
caso si devono quantificare i danni risarcibili; i danni risarcibili si quantificano in base ad alcune norme
specifiche). Si tratta di una relazione esclusivamente di carattere economico-giuridico, in quanto la causalità,
quale rapporto naturalistico, non riguarda il rapporto tra il danno già verificatosi che ha fatto sorgere la
responsabilità e il danno da risarcire.
Abbiamo detto che un rilievo centrale nelle sentenze e nelle trattazioni recenti dei giudici viene dato al
rapporto di causalità. La responsabilità viene fondata sull’accertamento del cosiddetto nesso di causalità.
Perché si possa fondare la responsabilità sull’accertamento di un nesso di causalità, bisogna ovviamente
distinguere tutti gli elementi dell’illecito e vedere quale elemento dell’illecito incardina in questa fantomatica
causalità. Per fare un ragionamento di questo genere, occorrerebbe studiare le scienze naturalistiche, ma in
alcuni casi, come abbiamo visto, questo è impossibile a causa dell’impossibilità di conoscere esattamente
tutti i rapporti di causa ed effetto. Allora, dato che per la logica della responsabilità civile si ha la necessità di
giungere a un risarcimento, in questi casi si deve far a meno della causalità e dei rapporti di causa-effetto. In
sostituzione, si analizzano altri elementi. Quali sono questi elementi? In primo luogo, abbiamo i criteri di
rimproverabilità soggettiva dei comportamenti, che possono essere più o meno severi. Solo sui criteri di
rimproverabilità soggettiva si potrà basare una responsabilità nel caso in cui non si riesca a trovare una
causalità naturalistica (un rapporto di causa-effetto).
Se manca un rapporto di causa-effetto accertabile dalle scienze, ma si vuole instaurare ugualmente una
relazione per fini risarcitori, significa che si sta facendo un’operazione non più naturalistica, non più di
causalità, non più materiale, bensì giuridica. Quindi, parlare di causalità è fuorviante in quanto il
comportamento e l’evento dannoso potrebbero essere retti non da una causalità materiale (come deve essere
intesa la causalità), cioè da una modificazione della realtà, ma potrebbero essere retti (e in tantissime ipotesi
ciò avviene) da una relazione giuridica, dalla valorizzazione di elementi prettamente economico-giuridici e
non certo naturalistici. Parlare di causalità materiale è fuorviante, si dovrebbe parlare sempre di causalità
rilevante per il diritto. La causalità è tendenzialmente sempre da considerare causalità giuridica.
Videolezione 14 – Il cosiddetto rapporto di causalità: danno fattispecie e danno risarcibile.

170
Andando avanti nella trattazione della tematica della causalità, notiamo come il problema della distinzione
tra vari tipi di causalità all’interno della fattispecie dell’illecito (dell’articolo 2043), sia dovuta al fatto che
nello stesso articolo 2043, la parola “danno” compare due volte. La norma dice: “Qualunque fatto doloso o
colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
La prima volta, la parola danno compare come elemento costitutivo della fattispecie. La fattispecie
dell’illecito è una fattispecie dannosa, che si concretizza quando un fatto, doloso o colposo, cagiona ad altri
un danno. Se non si arriva a un danno, non si ha un illecito. È questa la fattispecie che fa sorgere l’illecito e
con esso il diritto al risarcimento. Possiamo dunque definire come “danno-fattispecie” quello indicato nella
prima parte della norma, che serve affinché sorga la responsabilità della fattispecie extracontrattuale e sorga
l’illecito stesso. Il danno da risarcire è invece quello indicato nella seconda parte della norma, che “obbliga
colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Per risarcire il danno, intervengono varie norme indicate
nell’articolo 2056, che stabiliscono che in caso di responsabilità extracontrattuale sono da risarcire tutti i
danni, anche quelli imprevedibili. Il fatto di andare a invadere la sfera altrui ledendo l’interesse altrui e il
fatto di andare a cagionare un danno ingiusto ad altri, dolosamente o colposamente, porta a risarcimenti
molto severi. Non essendoci la possibilità di tirar fuori gli interessi di una parte e dell’altra, il soggetto deve
rispondere di tutti i danni, anche di quelli imprevedibili. L’articolo 2056 prevede una mitigazione di questa
severa regola per il lucro cessante (come già visto in lezioni precedenti): “Il lucro cessante è valutato dal
giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso”.
Le norme indicate dall’articolo 2056 applicabili per il risarcimento del danno sono: l’articolo 1223; l’articolo
1226; l’articolo 1227. Queste norme sono dettate in tema di inadempimento delle obbligazioni e di
responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, ma l’articolo 2056 in realtà rinvia a queste norme
anche per la responsabilità extracontrattuale. Sono tutte norme che permettono di fare una distinzione tra il
danno effettivamente verificatosi e il danno da risarcire. Queste sono norme che fanno capire che c’è un
danno che esiste e un danno da quantificare a livello giuridico; il danno ontologicamente realizzato può non
coincidere con il danno effettivamente da risarcire. Se si realizzano determinati danni, non per questo devono
essere sempre risarciti. Tali norme quantificano e limitano il livello di risarcimento. In particolare:
- L’articolo 1223 dice: “Il risarcimento del danno per l’inadempimento (nel caso di responsabilità
extracontrattuale, fatto illecito) o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal
creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.” – Le
conseguenze mediate e indirette non sarebbero da risarcire. Se un danno è un danno non con
conseguenza immediata e diretta, ma con conseguenza che viene qualificata mediata e indiretta, non
è da risarcire.
- L’articolo 1226 ci fa anch’esso comprendere come ci sia una differenza tra il danno effettivamente
verificatosi e quello che si risarcisce. L’articolo 1226 dice: “Se il danno non può essere provato nel
suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”. – Il giudice stabilisce la
regola del caso concreto secondo una sua valutazione equitativa, che tiene in considerazione i vari
elementi e le circostanze del caso.
- L’articolo 1227 dice: “Se il fatto colposo del creditore (nel caso di responsabilità extracontrattuale,
del danneggiato) ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità
della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni
che il creditore (il danneggiato) avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza.” – anche questa
norma ci fa capire che un conto è il danno davvero verificatosi e un conto è quello che viene
risarcito, in quanto questo viene diminuito nel caso in cui ci sia concorso del danneggiato nella
causazione del danno, o nel caso in cui il danneggiato avrebbe potuto evitarlo usando l’ordinaria
diligenza.
L’articolo che in tema di causalità viene in rilievo in maniera peculiare è l’articolo 1223. Questo perché in
alcuni testi si trova che il principio del risarcimento legato alle conseguenze immediate e dirette del fatto
illecito, sarebbe un principio da applicare in generale a tutta la causalità, anche a quella che non riguarda la
quantificazione del danno risarcibile, ma che riguarda invece la relazione tra il comportamento e l’evento
dannoso, ossia l’evento che si concretizza e che fa sorgere la responsabilità extracontrattuale. L’articolo
171
1223, come abbiamo detto, è una norma dedicata all’inadempimento e non dedicata in via diretta al fatto
illecito; l’aver rinviato con l’articolo 2056 all’articolo 1223 anche per la quantificazione del danno risarcibile
in via extracontrattuale, pone la necessità di sovrapporre a quello che l’articolo 1223 chiama
“inadempimento”, il “fatto illecito”. In realtà il professore, a differenza di quanto fanno altri studiosi,
preferisce sostituire alla parola “inadempimento”, la parola “fatto doloso, o colposo” in quanto il fatto doloso
o colposo e l’inadempimento sono entità rapportabili dato che entrambe sono realtà comportamentali. Infatti,
se vogliamo essere coerenti col fatto che l’inadempimento è un’entità meramente giuridica comportamentale,
allora sarebbe più coerente sostituire la parola “inadempimento” con la parte comportamentale del fatto
illecito, ossia con “Il fatto doloso o colposo”. In questo caso rientrerebbe nella perdita subita da risarcire
immediatamente, connessa al fatto doloso o colposo, anche il cosiddetto danno-fattispecie, ossia quello che
fa sorgere la responsabilità extracontrattuale.
Videolezione 15 – Il cosiddetto rapporto di causalità nel diritto penale.
Continuando l’analisi in materia di causalità, notiamo una cosa particolare. In quasi tutte le sentenze che si
occupano di nesso di causalità e purtroppo anche in tantissimi studi giuridici e testi dottrinali in materia, si fa
riferimento a due norme del Codice penale, che sono dedicate alla ricerca della causalità e che vengono
considerate norme sulle quali si baserebbe la ricerca del nesso di causalità, anche nel diritto civile. –
Ricordiamo che quando parliamo di causalità, l’analisi della causalità che stiamo svolgendo è un’analisi che
riguarda la causalità cosiddetta del “fatto”, della “fattispecie”; la causalità di cui alla prima parte dell’articolo
2043, ossia la causalità del rapporto che collega il fatto doloso o colposo al danno ingiusto, che fa sorgere la
responsabilità extracontrattuale e il diritto al risarcimento del danno.
Nei testi e nelle sentenze spesso si trova che la causalità nel nostro ordinamento è disciplinata dagli articoli
40 e 41 del Codice penale. Queste due norme hanno due caratteristiche specifiche: 1) in nessun altro
ordinamento del mondo esistono norme sulla causalità nei codici di diritto penale; 2) si tratta di norme, che a
detta dei migliori studiosi del diritto penale, sono perfettamente inutili, in quanto a prescindere
dall’applicazione di queste norme, la causalità nel diritto penale deve essere rinvenuta sulla base dei principi
del diritto penale, sulla ratio penalistica, non certo su criteri di causalità. Sono norme che tra l’altro
permettono applicazioni in un senso e nel senso opposto, e che in alcuni casi vengono del tutto disapplicate
dagli stessi giudici penali.
Quindi, norme che sono considerate perfettamente inutili dall’autorevole dottrina penalistica, verrebbero
considerate dalla giurisprudenza civile come norme addirittura poste a fondamento della causalità. La cosa fa
pensare perché se parliamo di diritto civile e di diritto penale, sappiamo perfettamente che analizziamo due
ordinamenti completamenti diversi, retti da principi diversi. Il diritto civile, ma soprattutto la responsabilità
civile, è retta da principi che cercano di contemperare le esigenze di tutela del danneggiante con le esigenze
di tutela del danneggiato. Nel nostro ordinamento civilistico, le esigenze di tutela del danneggiante e del
danneggiato si equivalgono. C’è una sorta di parità e di uguaglianza nell’ordinamento civilistico, che è alla
base di tutta la normativa sul risarcimento. Nel diritto penale invece, la situazione è completamente diversa.
Nel diritto penale, all’esigenza di reprimere un reato, all’esigenza di dare quella sanzione personalizzata al
soggetto reo, viene contrapposta un’esigenza primaria che non può essere in alcun modo superata da
nessun’altra esigenza, ossia quella dell’impossibilità di punire un soggetto se non si ha la certezza che questo
soggetto abbia commesso un determinato reato. C’è la tutela dell’imputato fino al limite del ragionevole
dubbio: nel nostro ordinamento, se sussiste ancora un ragionevole dubbio sulla sussistenza e
sull’accertamento di un determinato fatto, il soggetto che viene chiamato in causa non può essere punito e
soggetto a sanzione penale. Questa regola è strettamente legata al principio di tassatività delle disposizioni
penalistiche, al principio di impossibilità di applicarle in via analogica. Nel diritto civile, vige invece il
principio contrario. Mentre nel diritto penale se il giudice non accerta la sussistenza di un reato in capo a un
soggetto non può inventare un’altra fattispecie simile (la legge penale deve essere interpretata in modo stretto
e rigoroso, senza applicarla per analogia), nel diritto civile, la legge civile può e deve essere estesa quando
serve, quando c’è una lacuna. Nel diritto penale se c’è una lacuna, questa va a favore dell’imputato; nel
diritto civile se c’è una lacuna, il giudice la colma con l’analogia. Questo fa già comprendere come sia
172
criticabile in astratto ritenere che sia possibile l’applicazione generalizzata di norme dettate per il diritto
penale nel diritto civile.
L’articolo 40 del Codice penale dice: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come
reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua
azione od omissione. Non impedire un evento (omissione), che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale
a cagionarlo.” – A volte viene riportato nei testi giuridici che l’omissione equivale all’azione in tema di
causalità, ma in realtà, se fosse davvero così a livello causale, tutti saremmo sempre responsabili di tutto. In
tema di causalità, ha rilievo il produrre una modificazione della realtà, ossia “il fare”, non certo il “non fare”.
L’omissione può rilevare solo se c’è un obbligo giuridico precedente e quindi rilevare come inadempimento
di quell’obbligo giuridico, ossia nella responsabilità contrattuale.
L’articolo 41 del Codice penale dice: “Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche
se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od
omissione e l'evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole
sufficienti a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente commessa
costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita. Le disposizioni precedenti si applicano
anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui.”
Come già precedentemente detto, queste norme sono da considerarsi perfettamente inutili, tant’è che nel
diritto penale queste norme non sono applicate e utilizzate. I criteri utilizzati nel diritto penale sono altri. In
particolare, si seguono criteri probabilistici, criteri statistici, ecc.
Videolezione 16 – Il cosiddetto rapporto di causalità nei progetti normativi dell’Europa.
Analizziamo adesso i profili relativi allo studio del nesso di causalità che riguardano i processi di
armonizzazione del diritto europeo. I processi di armonizzazione cercano di operare su larga scala. Essi non
si sono rivolti solamente a un’armonizzazione del diritto contrattuale, ma hanno cercato anche di
armonizzare delle regole in materia extracontrattuale. Da qualche anno si lavora per l’armonizzazione delle
legislazioni degli stati membri in materia di responsabilità extracontrattuale. È ovvio che regole comuni in
materia di responsabilità permettono di garantire meglio un mercato uniforme. Se un soggetto in uno stato
membro incorre in determinate regole di responsabilità e un altro stato membro incorre in regole diverse,
certo è che questo può portare a problemi; può portare a scegliere paesi in cui insediarsi, o insediare la
propria attività, escludendo altri paesi. Un’armonizzazione renderebbe uniforme l’Europa dal punto di vista
della responsabilità extracontrattuale intera.
In particolare, facciamo riferimento ai “Principles of European law” (i principi di diritto europeo),
riguardanti i problemi della responsabilità non contrattuale e il danno cagionato ad altre persone
(responsabilità extracontrattuale). I principi di diritto europeo sono stati predisposti e hanno lavorato per
l’armonizzazione alcuni studiosi, in particolare il working team of extracontractual oblications, il quale opera
all’interno dello Study group on European Civil Code (si tratta di un gruppo di studio sulla codificazione
europea, sulla predisposizione di un unico grande codice europeo). I principi di diritto europeo dedicano uno
specifico capo, il quarto capo, proprio alla “Causation”, ossia alla causalità, al rapporto di causa-effetto che
riguarda la responsabilità extracontrattuale. Questo capo si compone di 3 articoli, che andremo ad analizzare.
Con riguardo al primo articolo, esso detta un criterio di ordine generale. Secondo questo criterio di ordine
generale, si deve ritenere che un soggetto causa ad altri un danno che è legalmente sanzionabile quando il
danno è considerato come conseguenza della sua condotta, oppure come derivato dalla fonte di pericolo di
cui il soggetto è responsabile. Questa norma è di fondamentale importanza, in quanto esprime una regola
generale di causalità. Nonostante questo, però, questa norma per essere applicata deve essere interpretata e
ha bisogno di ulteriori precisazioni, che potrà dare solamente il giudice. Certo è che la forza di questa norma
sta nella prima parte, che dice “danno legalmente sanzionabile”; se il danno è considerato “legalmente”
sanzionabile, si ha già una determinata forza, probabilmente maggiore rispetto a quella che poi si dovrà dare
al vero rapporto di causa-effetto. Il piano dell’analisi della legge è certamente un piano da tenere in primaria

173
considerazione in una norma di questo genere. La parte strettamente di causalità che dice “conseguenza della
condotta o “derivato dalla fonte di pericolo” è una parte che necessita di regole di copertura, che dovrà
necessariamente trovare il giudice di volta in volta. Proprio dall’interpretazione della locuzione
“conseguenza” e della locuzione “derivato da fonte di pericolo”, si possono prendere le mosse per provare a
trarre qualche criterio valido in ambito di accertamento strettamente naturalistico. È ovvio che il minimo di
interpretazione che dobbiamo dare a questa norma, anche qui a livello causalistico, è quella naturalistica. Se
una condotta provoca una modificazione della realtà, che configura un danno che è legalmente sanzionabile,
allora questa condotta, questa causalità materiale che porta a una modificazione che poi chiamiamo danno,
deve essere certamente presa in considerazione e si deve partire da questa.
Una parte interessante è la seconda parte del primo articolo. Nella seconda parte si dice che “In caso di
danno alla persona, o di morte, non deve essere presa in considerazione la predisposizione personale della
vittima in relazione al tipo, o all’entità del danno sofferto.”: se la vittima ha una predisposizione personale,
una patologia, ciò non può comportare una diminuzione di risarcimento, o un’esclusione del nesso di
causalità; c’è ugualmente l’imputabilità del fatto al soggetto che ha attuato la condotta perché questo
soggetto invade la sfera altrui (responsabilità extracontrattuale). Questa è un’altra regola fondamentale, che a
volte nel nostro ordinamento non è stata sempre presa in considerazione, tanto che si è cercato di operare
delle mitigazioni, per esempio quella del secondo comma dell’articolo 2056, che prevede la possibilità del
giudice di valutare il mancato guadagno con “un’equa valutazione delle circostanze del caso”, e comunque in
alcuni casi si è ritenuto problema di causalità quello riguardante la predisposizione personale della vittima.
Con questa parte della norma si fa riferimento al principio per il quale nella responsabilità extracontrattuale
si debba risarcire anche il danno imprevedibile. Tale regola è una specificazione di un più grande principio
per cui non devono considerarsi rilevanti delle concause che sono precedenti all’illecito.
Passiamo ora al secondo articolo sulla Causation. Il secondo articolo è dedicato alla cooperazione nella
causazione del danno. Si prevede che il carico di responsabilità venga esteso anche nei confronti del soggetto
che partecipa alla produzione dell’illecito, del soggetto che istiga all’illecito, del soggetto che meramente
assiste all’illecito. C’è un obbligo di solidarietà tra tutti. Anche chi assiste a un illecito non può essere
considerato del tutto estraneo se sta lì e non fa nulla; assistere meramente all’illecito comporta responsabilità.
In questa norma si è voluto dire che non importa andare a trovare necessariamente una diretta
compartecipazione e che questa sia provata, basta che il soggetto assista all’illecito per essere considerato
responsabile dal punto di vista civile.
Il capo si chiude con un terzo articolo, che disciplina il concorso di altre cause nella produzione dell’evento.
La norma considera il caso in cui il danno possa essere stato causato da uno, o più avvenimenti in relazione
ai quali sono responsabili differenti persone. Se è certo che il danno è cagionato da alcuni antecedenti ma
non viene individuato il preciso antecedente, si presume che ogni soggetto responsabile di ciascun
antecedente abbia dato un contributo e il danneggiato deve essere ugualmente risarcito. Così si ripartiscono
le responsabilità nel caso di danni con riguardo dei quali resti anonimo il soggetto che direttamente ha
cagionato il pregiudizio.
Da questo panorama della Causation traiamo fuori delle regole, che sono regole in fondo di responsabilità.
Anche se queste norme si inseriscono all’interno di questo capo rubricato appunto “Causation” e ci si sforza
a parlare causalità, in realtà non si parla altro che di imputazione di responsabilità.
Videolezione 17 – Il cosiddetto rapporto di causalità e il criterio della condicio sine qua non.
Entriamo nello specifico nelle singole teorie che sono state proposte per spiegare la causalità all’interno del
diritto. Siamo partiti da un’impostazione per la quale la causalità è davvero tale (è un rapporto di causa-
effetto) quando si hanno modificazioni della realtà concatenate e quando può essere riscontrata dal punto di
vista naturalistico. Dal punto di vista giuridico, già abbiamo più volte indicato come si debba stare attenti e
come non si possa parlare senza cautele di causalità.

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Varie teorie sono state ipotizzate, tutte teorie volte a dare un contenuto concreto a questa fantomatica
causalità, a questo elemento del fatto illecito, che viene chiamato causalità. È come se ci fosse la necessità di
trovare una valenza giuridica della causalità. Le teorie muovono a questo riguardo da grandi presupposti.
Uno di questi presupposti è che la responsabilità civile è diversa da quella penale; mentre nel diritto penale si
richiede una causalità individuale, specifica, nel diritto civile viene riconosciuto generalmente sufficiente il
riscontro di una causalità generale. La causalità generale nel diritto civile permette l’applicazione della
regola del “più probabile che non”, cioè si può condannare un soggetto al risarcimento perché è “più
probabile che non”, è più probabile che il soggetto abbia davvero commesso quell’illecito piuttosto che non
l’abbia commesso. Ci sono versioni più o meno forti di questa regola. Per alcuni non basterebbe una
causalità generale, servirebbe qualcosa che entri più nello specifico anche nel diritto civile, mentre ci sono
altri orientamenti che propendono per una versione più ampia, una versione molto generalizzata.
Andiamo ad analizzare il primo criterio, criterio che viene studiato per primo. Esso in fondo è la base di tutti
i criteri perché forse è l’unico criterio davvero di causalità. Si tratta di un criterio che già conosciamo per le
scienze naturalistiche. Esso è il vero criterio di causalità per le scienze naturalistiche ed è l’unico criterio che
vale per la vera causalità (che è quella naturalistica), che riguarda le modificazioni della realtà. Si tratta del
criterio della cosiddetta “Condicio sine qua non”. Secondo questo criterio è da considerare causale ogni
antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato. Si deve quindi fare un procedimento mentale: si
fa un accertamento e si prendono determinati fattori che si ipotizza possano essere causali. Il procedimento è
mentale in quanto la ricostruzione viene fatta dopo l’evento. Se escludendo mentalmente un fattore da quel
fatto, si conclude mediante questa astrazione mentale, che non si sarebbe verificato l’evento senza quel
fattore, allora quel fattore è da considerare causale perché è la condicio sine qua non (una condizione senza
la quale l’evento non si sarebbe verificato). Questa teoria comporta una necessaria equivalenza di tutte le
cause; essa è anche chiamata teoria dell’equivalenza delle cause. Tutte le cause senza le quali l’evento non si
sarebbe verificato non possono essere distinte tra loro. Non possiamo dire che una è più rilevante dell’altra:
in ogni caso, drasticamente, tolta una di esse l’evento non si sarebbe verificato. - Si capisce in questo modo
che stiamo considerando dal punto di vista causale equivalente la condotta di chi istiga e la condotta di chi
compie l’illecito.
Riguardo questa teoria sono state fatte delle critiche. Il primo problema è che con questa teoria si rischia di
andare a cause troppo remote; pensiamo che potremmo ritenere causale anche il fatto della procreazione del
soggetto che ha causato l’illecito. Un’altra critica mossa riguarda l’impossibilità di applicazione della teoria
nel caso di incertezza scientifico-naturalistica. C’è una logica scientifico-naturalistica che ci diche che quel
tipo di fattori provocano quel determinato tipo di eventi; senza quel tipo di fattori, quel tipo di eventi non si
provocano. Esiste una legge scientifica. In assenza di leggi scientifiche, nessun uso può essere fatto di una
teoria come quella della condicio sine qua non, che toglie fattori per capire se l’evento si sarebbe ugualmente
verificato. In assenza di una legge di copertura, non si può certamente utilizzare la condicio sine qua non. La
teoria della condicio sine qua non, inoltre, non è assolutamente utilizzabile nel caso di omissione. Se
utilizzassimo il criterio della condicio sine qua non, allora tutti saremmo sempre responsabili di tutto.
Per ovviare agli inconvenienti della teoria della condicio sine qua non, si sono elaborate altre teorie. Una di
queste teorie è quella della causalità efficiente (o sufficiente). Secondo questa teoria, non vengono
considerati causali gli antecedenti se vi è un fattore sopravvenuto idoneo, già di per sé, a causare il danno. –
Già capiamo, che allontanandoci dalla teoria della condicio sine qua non per attenuarne gli effetti da un
punto di vista di responsabilità, siamo al di fuori della causalità e questo perché la causalità non è un criterio
di responsabilità. Quello della causalità efficiente non è un vero criterio di causalità: non si può escludere la
relazione di causa a effetto relativamente a un fatto naturalisticamente causale, ma si può escludere la
responsabilità del soggetto (che ha posto in essere i presupposti per la realizzazione di quel fatto), e questo lo
si può fare utilizzando i criteri su cui si fonda la responsabilità nel nostro ordinamento.
Videolezione 18 – Il cosiddetto rapporto di causalità e il criterio dell’adeguatezza.
Parliamo adesso di altre due teorie strettamente legate tra loro cosiddette di causalità: la teoria della causalità
adeguata e la teoria della regolarità causale.
175
La teoria della causalità adeguata è una delle varie teorie che nascono per cercare di attenuare quegli effetti
drastici, inesorabili, che abbiamo visto collegati all’applicazione forte, rigida, del criterio della condicio sine
qua non. Secondo la teoria della causalità adeguata, è causa quel fattore che, secondo un giudizio
aprioristico, rientra tra quel tipo di fattori idonei a produrre eventi dello stesso tipo di quello concretamente
verificatosi. Questo ragionamento, ovviamente, può effettuarsi su rilievi di ordine statistico, probabilistico
(fattore idoneo a produrre l’evento = fattore che rientra tra quelli che, con alta percentuale di verificazione,
producono quel tipo di eventi). Rientrano nel giudizio di adeguatezza anche le eventuali conoscenze
personali dell’agente. Il giudizio di prevedibilità (statistico, probabilistico) implica che assumono rilievo
preponderante anche le presunzioni; nel nostro ordinamento, le presunzioni, quando sono gravi, precise e
concordanti, danno la possibilità di essere utilizzate quale mezzo di prova (quando l’ordinamento prevede
che non sia necessario un altro mezzo di prova). In particolare, nel giudizio relativo al sorgere di una
responsabilità extracontrattuale, le presunzioni hanno un rilievo centrale. Questa teoria incontra però dei
limiti nella misura in cui si scontra con dei dati di fatto legati alla necessità della giurisprudenza di far
rispondere anche per conseguenze statisticamente “anomale”. Per esempio, si pensi al caso in cui la vittima
di un incidente stradale, a causa delle lesioni riportate, è sottoposta a una necessaria trasfusione di sangue e
contrae un’epatite virale a causa del sangue infetto somministrato. L’autore dell’incidente stradale per cui la
vittima è stata sottoposta a trasfusione, è da ritenere responsabile rispetto alla patologia dell’epatite contratta
dal soggetto? La corte di cassazione ha risposto affermativamente. Questo fa capire che si ritiene
responsabile il soggetto anche per conseguenze che possiamo considerare anomale rispetto al fatto
dell’incidente. Il fatto che si sia deciso di far rispondere il soggetto anche per queste conseguenze,
certamente fa comprendere come l’adeguatezza non possa mai essere considerata un criterio di responsabilità
pieno. Il criterio dell’adeguatezza risolve altri profili; un conto è andare ad analizzare quali sono i
presupposti perché nasca il fatto illecito, un conto è andare ad analizzare quali sono le conseguenze
risarcibili. Bisogna fare attenzione a questo proposito perché, in caso di illecitoextra contrattuale, le
conseguenze risarcibili sono conseguenze che possono essere anche imprevedibili.
Quali critiche sono state mosse alla teoria della causalità adeguata?
- Discrezionalità del giudice (che sceglie quale grado di idoneità possa essere sufficiente): un criterio,
che viene considerato causale, diventa un criterio utilizzabile dal giudice secondo una sua certa
discrezionalità.
- Impossibilità di applicazione per i casi di illeciti caratterizzati da ricchezza di dettagli: se un dato
evento si è realizzato con ricchezza di dettagli, come facciamo a dire che rientra tra quegli eventi che
normalmente sono cagionati da quel determinato tipo di fattore antecedente? La ricchezza di dettagli
esclude che si possa fare una generalizzazione. La ricchezza di dettagli esclude che l’evento si possa
inserire in una qualsiasi delle casistiche della statistica.
- Confusione con l’elemento della colpa (oggettiva): quando si parla di causa adeguata che
normalmente è idonea a produrre un determinato tipo di eventi in cui rientra l’evento effettivamente
concretizzatosi, si parla di un qualcosa che normalmente avviene, che normalmente si produce
secondo le scienze statistiche; si tratta di qualcosa di prevedibile. Se il soggetto può prevedere
l’evento, allora il soggetto è in colpa. La teoria della causalità adeguata non è allora un criterio di
causalità, ma un criterio di valutazione della prevedibilità, della aprioristica prevedibilità di un
determinato evento e quindi della sussistenza della colpa in capo al soggetto che ha posto in essere
l’antecedente, che rientra in quel tipo di antecedenti che normalmente producono quel tipo di eventi.
Il soggetto avrebbe dovuto prevederlo e il soggetto è in colpa.
La teoria dell’adeguatezza si risolve quindi non tanto in una teoria di causalità, ma in un giudizio di colpa. In
particolare, il criterio serve per delimitare le cause rilevanti sulla base della loro connessione con l’elemento
soggettivo richiesto per far sorgere la responsabilità. Ma non tutte le ipotesi di responsabilità sono ipotesi di
responsabilità per colpa. In alcuni casi, le ipotesi sono di responsabilità oggettiva. Nei casi che ricadono
nell’ambito delle norme sulla responsabilità oggettiva, il criterio di imputazione è quello che permette di
considerare “adeguato” (rispetto al danno da risarcire) un determinato fattore. Pensiamo alla regola per la
quale il datore di lavoro risponde degli illeciti commessi dai dipendenti nell’esercizio delle loro mansioni. In
176
questo caso, il criterio dell’adeguatezza è un criterio che riguarda il far rientrare o meno la commissione di
quel fatto illecito nell’ambito delle mansioni, quale occasione necessaria dell’illecito stesso. Il criterio
dell’adeguatezza si risolve in un criterio di imputazione della responsabilità, di selezione dei fattori rilevanti
sulla base di quello che l’ordinamento ritiene rilevante.
Teoria vicinissima a quella dell’adeguatezza è quella della regolarità causale, che in realtà non riguarda la
nascita della responsabilità. Mentre la teoria dell’adeguatezza nasce, almeno nella sua intenzione, per far
sorgere una responsabilità, la teoria della regolarità causale serve per quantificare il danno risarcibile una
volta già natala la responsabilità. Questa teoria urta con l’articolo 1223 del Codice civile secondo cui è
risarcibile il danno che sia conseguenza immediata e diretta dell’illecito, o della condotta illecita. Per la
giurisprudenza, tuttavia, questa norma è superata proprio sulla base della regolarità causale: per la
giurisprudenza sono risarcibili anche i danni mediati e indiretti, se si ha una regolarità causale, cioè se i danni
sono “effetti normali” dell’illecito.
Videolezione 19 – Il cosiddetto rapporto di causalità e i criteri dello scopo della norma e del rischio
specifico.
Questa lezione riguarda lo studio di altri due criteri di causalità. In particolare, parleremo del criterio dello
scopo della norma violata e del criterio del rischio specifico.
Con riguardo al criterio dello scopo della norma violata, possiamo anticipare che è un criterio che la nostra
dottrina ha preso di peso dalla Germania. Non è un criterio che ben si armonizza al sistema giuridico della
nostra responsabilità civile. Secondo il criterio dello scopo della norma violata, l’apporto causale rileva
quando il fatto dannoso verificatosi integra la realizzazione del danno che la norma violata intende prevenire:
1) c’è una norma che intende prevenire un determinato tipo di danno e un soggetto che contravviene a quella
norma ponendo in essere una condotta che è contraria a quella norma; 2) si realizza quel danno che la norma
intendeva prevenire; 3) la condotta del soggetto è da considerare antecedente causale rilevante. È ovvio che
in questo modo si dà alla responsabilità civile una funzione maggiormente preventiva; i soggetti in via
preventiva non pongono in essere quei tipi di comportamenti e questo perché, in pratica, non rileverebbe più
un effettivo dolo, o un’effettiva colpa del soggetto in relazione a quel tipo di danno, ma basterebbe che il
soggetto oggettivamente si ponga in contrasto con la norma giuridica che intende prevenire quel tipo di
danno – oggettiva idoneità di un fatto a produrre un danno ingiusto. Quando si applica un criterio di questo
genere è ovvio che assumano un ruolo rilevante le presunzioni e questo perché, se la norma intende prevenire
un certo tipo di danno e il soggetto pone in essere una condotta in contrasto con quella norma e poi si verifica
quel tipo di danno, secondo lo schema del nostro ordinamento, possiamo dire che si può presumere che quel
tipo di condotta, in contrasto con la norma, abbia condotto a quel tipo di danno.
Gli esempi che si fanno quando si vuole parlare della teoria dello scopo della norma violata, riguardano la
violazione di una norma. La violazione può essere dolosa (intenzionale) di una specifica norma, oppure
violazione di una norma che porta a colpa specifica. Nel nostro ordinamento però, le ipotesi di responsabilità
sono ipotesi molto aperte, c’è un’atipicità dell’illecito, c’è la possibilità di incorrere in responsabilità per
mera colpa generica, per mera negligenza. La responsabilità civile nel nostro ordinamento nasce non per
violazione di una specifica norma, ma per violazione di un canone generale di diligenza e per una colpa
generica. Per questa ragione, questo criterio non si inserisce bene in un ordinamento come il nostro, ma si
inserirebbe meglio in un ordinamento in cui vengono tipizzate con norme specifiche le ipotesi di
responsabilità extracontrattuale, come appunto l’ordinamento tedesco - da noi può essere utilizzato per i casi
in cui la responsabilità viene tipizzata maggiormente: pensiamo alle norme penali, che specificano
dettagliatamente le responsabilità e le norme che non si devono violare, o ai casi di responsabilità oggettiva.
Inoltre, ciò che è importante porre in rilievo, è che questo criterio non riguarda la causalità, ma piuttosto il
fondamento della responsabilità. Questo criterio, infatti, non ci permette di conoscere quando una causa
conduce a un determinato effetto, ma ci spiega semplicemente come nasce la responsabilità.
Un altro criterio che viene studiato e che si trova nei testi che parlano di nesso di causalità è la cosiddetta
teoria del rischio specifico. Secondo questa teoria, un antecedente è causale rispetto al danno verificatosi
177
quando quest’ultimo realizza il rischio specifico creato da quel tipo di antecedente. In Germania questa teoria
ottiene un’altra specificazione (anche questa è una teoria che trae spunto dalla dottrina tedesca): in Germania
si precisa che non può sorgere alcuna responsabilità se il danno è uno di quelli che tipicamente si rischia di
produrre nel quotidiano vivere sociale. Nel nostro ordinamento, si specifica riguardo a questa teoria, che
l’antecedente deve incrementare le oggettive probabilità di verificazione del danno. A tale scopo, si usano
delle scienze statistiche, che consentono di comprendere se quel tipo di antecedenti abbiano potuto
aumentare l’oggettiva probabilità di verificazione di quel tipo di danni in cui rientra il danno effettivamente
verificatosi. È ovvio quindi che c’è bisogno dell’uso della scienza. Però a volte le scienze, nel momento in
cui viene posta in essere una condotta, non permettono di sapere se essa accresca o meno il rischio di
realizzazione di un certo danno. Cosa succede quindi se ciò dovesse riuscirsi a comprendere
successivamente? Facciamo comunque rispondere il soggetto, che neanche se avesse fatto i più grandi studi
scientifici, avrebbe mai potuto immaginare che la sua condotta avrebbe accresciuto le probabilità di
verificazione del danno? Lo facciamo rispondere a posteriori perché poi la scienza ha scoperto,
successivamente, che quel tipo di condotta accresce in genere il rischio di verificazione di quel tipo di danno
che si è prodotto? Certamente no. Questo è un enorme elemento di debolezza della teoria del rischio
specifico, per il quale possiamo dire che nel nostro ordinamento non si può ipotizzare di applicarla. Se fosse
il rischio specifico a portare alla responsabilità, anche uno studio a posteriori, che permette di affermare che
quel tipo di antecedente posto in essere ha accresciuto il rischio di quel tipo di danno, porterebbe a
responsabilità e ciò sarebbe assurdo e contravverrebbe a ogni principio di giustizia sociale. È ovvio che non
ci si può basare sull’incremento delle oggettive probabilità di verificazione del danno.
La teoria del rischio specifico non è un criterio che riguarda la causalità, ma l’imputazione della
responsabilità. Un criterio di questo genere consente di comprendere quali tipi di rischi possono essere creati
legittimamente; se si va oltre, si rientra nella colpa o nel diverso criterio di imputazione della responsabilità.
In conclusione, la vera essenza dei criteri cosiddetti di causalità non è la scoperta di nessi di causalità (nesso
causa-effetto), e questo lo abbiamo visto in relazione a tutti i criteri, o almeno a quasi tutti. Tutti questi criteri
di causalità non sono criteri di causalità, ma sono criteri di imputazione della responsabilità. L’unico criterio
causale (riguardante le modificazioni della realtà) è quello della condicio sine qua non.
Videolezione 20 – L’eccessiva onerosità sopravvenuta (parte 1).
La lezione prende spunto da una norma di legge, che è l’articolo 1467 del Codice civile. L’articolo 1467 del
Codice civile riguarda il contratto con prestazioni corrispettive.
Articolo 1467: “Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la
prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari
e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti
stabiliti dall’Articolo 1458* (att. 168). La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità
rientra nell’alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla
offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.”
Analizziamo la fattispecie di queste due norme. La fattispecie riguarda dei contratti che non hanno
un’esecuzione immediata, automatica, ossia contratti che hanno ad oggetto prestazioni, che nella logica del
contratto appaiono come future. In particolare, la fattispecie si applica ai contratti che hanno un’esecuzione
“continuata, periodica, o differita”. Quando pensiamo a un’esecuzione continuata, o periodica, possiamo
pensare, per esempio, a una somministrazione di petrolio effettuata da una grande impresa di estrazione del
petrolio nei confronti di un’impresa di rivendita del petrolio, che può avvenire sia continuativamente, che
periodicamente. Con riguardo all’esecuzione differita invece, il contratto prevede che la prestazione non
debba essere eseguita immediatamente, ma successivamente. Ad esempio, ci si obbliga a costruire un
edificio a favore di un committente e si prevede un termine per il quale dovrà cominciare questa esecuzione
differita.

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Un elemento della fattispecie da analizzare è sicuramente “il verificarsi di avvenimenti straordinari e
imprevedibili”, ossia il verificarsi di qualcosa che non può essere previsto e che non rientra nell’ordinario,
nella norma; per esempio: una guerra, un terremoto, un incendio di proporzioni devastanti, ecc. Tali
avvenimenti comportano un determinato effetto: la prestazione che era prevista come futura è divenuta
eccessivamente onerosa. Se la prestazione diventa eccessivamente onerosa, l’obbligazione resta in piedi e
non si estingue automaticamente come avviene per l’impossibilità sopravvenuta. Il debitore è tenuto a
effettuare la prestazione eccessivamente onerosa, a meno che non ricorre al rimedio dell’eccessiva onerosità
sopravvenuta. L’eccessiva onerosità si verifica, per esempio, quando in seguito a una guerra, il petrolio
diminuisce e il prezzo aumenta. L’impresa che si era obbligata a somministrare il petrolio a un dato prezzo a
una determinata società di trasformazione di idrocarburi, ora deve acquistarlo, se vuole adempiere, a un
prezzo ormai esagerato rispetto alla logica contrattuale. L’eccessiva onerosità sopravvenuta si distingue
dall’impossibilità sopravvenuta e tutto ciò rileva solo se non si rientra nella normale alea del contratto, cioè
nel normale rischio che i soggetti che stipulano devono accettare. Se si rientra in quello che è il rischio
normale che i soggetti devono accettare, allora non si può certamente richiedere una risoluzione per
eccessiva onerosità sopravvenuta.
Quindi, in casi di questo genere, quando si tratta di contratti con prestazioni corrispettive, si dice che si
rompe la proporzione stabilita dalle parti tra le prestazioni. In realtà vedremo che non è così, ma certamente
si altera la struttura economica della prestazione del debitore. In questi casi, la parte che deve la prestazione
che è divenuta eccessivamente onerosa, può chiedere la risoluzione; può chiedere che in giudizio venga
sciolto con sentenza il vincolo contrattuale. È chiaro che se il nostro ordinamento esclude che quando si è
costituiti in mora si possa far valere addirittura l’impossibilità sopravvenuta, a maggior ragione non si può
pensare che un debitore in mora possa chiedere la risoluzione in caso di eccessiva onerosità sopravvenuta. Il
debitore, infatti, se c’è costituzione in mora, avrebbe dovuto adempiere prima. Se il debitore non fosse
caduto in mora, non si sarebbe verificata l’eccessiva onerosità. Se si è in mora si è in una condizione di
imputabilità di tutto ciò che avviene. Il ritardo comporta l’imputabilità di ciò che avviene successivamente.
*Articolo 1458: La risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il
caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l'effetto della risoluzione non si
estende alle prestazioni già eseguite. La risoluzione, anche se è stata espressamente pattuita, non pregiudica i
diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione.
Videolezione 21 – L’eccessiva onerosità sopravvenuta (parte 2).
Quali sono le ragioni (la ratio) dell’articolo 1467, che prevede che un soggetto non sia costretto a sopportare
il crescere a dismisura dei costi per la prestazione che deve adempiere quando ciò non è a lui imputabile e
quando ciò avvenga in seguito ad avvenimenti straordinari e imprevedibili?
Secondo una tesi, si avrebbe in questa fattispecie un’alterazione della causa del contratto, cioè dell’interesse
esteriorizzato con il contratto, che porta le parti a vincolarsi; se si altera questo interesse, si dice che i
soggetti non dovrebbero più restare vincolati. Ma, in primo luogo, si può dire che questa tesi parte da un
presupposto che non è scritto da nessuna parte. La causa in astratto non viene alterata (lo scambio permane),
e anche la causa in concreto (o l’oggetto) del contratto resta invariata. Cambia solo qualcosa nel concreto
impiego di mezzi per l’esecuzione, rispetto a quanto originariamente programmato: il costo di una delle
prestazioni cambia, rispetto a quanto originariamente programmato.
Qualcuno lega l’articolo 1467 alla cosiddetta presupposizione. Tante sentenze della Corte di cassazione,
prendendo spunto da una dottrina di matrice tedesca, hanno ritenuto esistente nel nostro ordinamento un
fantomatico istituto, che in realtà non trova alcun riscontro negli articoli di legge: la cosiddetta
presupposizione. Secondo i giudici che hanno emesso queste sentenze, la ratio della norma (l’articolo 1467)
sarebbe la stessa della “presupposizione”. La presupposizione sarebbe una situazione di fatto (o di diritto),
che non dipende dalla volontà delle parti, ma presupposto imprescindibile per le stesse, il cui mutamento
comporterebbe la risoluzione dell’articolo 1467.

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Qual è allora il vero fondamento della norma? In realtà non bisogna andare molto lontano, ossia andare a
cercare il fondamento nella causa, o nella teoria della presupposizione. Basta semplicemente capire bene
cosa questa norma ha voluto dire: la ratio è la garanzia per la parte rispetto al rischio dell’imprevedibilità, in
relazione alle condizioni economiche del contesto in cui si inserisce il contratto, onde evitare che il vincolo
permanga anche in seguito al venir meno della convenienza (quindi dell'interesse) relativa, cioè di quella
specifica convenienza che ha condotto all'accordo.
Videolezione 22 – L’eccessiva onerosità sopravvenuta (parte 3).
Presupposti per l’applicazione dell’articolo 1467 del Codice civile:
- la prestazione non deve essere stata eseguita. Se è stata eseguita (anche se non è stata eseguita la
controprestazione), si ha estinzione per adempimento, quindi la parte, giuridicamente, non può avere
più interesse alla risoluzione;
- si applica anche ai rapporti preliminari. Per es. al patto di opzione (patto mediante il quale un
soggetto si obbliga a tener ferma una determinata proposta di contratto e l’altra parte può decidere di
accettare o meno entro un determinato termine), o al contratto preliminare;
- non deve considerarsi rilevante la diminuzione del valore della controprestazione (anche se la tesi
maggioritaria afferma il contrario). Del resto, se la controprestazione è una controprestazione in
denaro, vige il principio nominalistico per cui il rischio della svalutazione è a carico del soggetto che
deve ricevere la somma. Se invece si tratta di una controprestazione diversa, la svalutazione nel
contesto di riferimento non incide sul contratto, salvo che non sia apposta una condizione in tal
senso.
Secondo la norma, il rimedio è la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, un rimedio che porta allo
scioglimento del contratto attraverso una sentenza costitutiva. C’è una tesi però che ritiene che, se la
controprestazione consistente nel trasferimento di un determinato diritto è stata adempiuta e il diritto è stato
trasferito ad altri, non si può chiedere la risoluzione, in quanto non si può restituire quanto ottenuto – si
ritiene che in questo caso si possa avere solo la riduzione equitativa, ma l'art. 1467 descrive la riduzione a
equità quale facoltà della parte contro cui è domandata la risoluzione (e non come un diritto del soggetto che
deve una data prestazione). Al contrario, deve valere l’articolo 2038 del Codice civile, che dice: “Chi,
avendo ricevuto la cosa in buona fede, l'ha alienata prima di conoscere l'obbligo di restituirla è tenuto a
restituire il corrispettivo conseguito. Se questo è ancora dovuto, colui che ha pagato l'indebito subentra nel
diritto dell'alienante. Nel caso di alienazione a titolo gratuito, il terzo acquirente è obbligato, nei limiti del
suo arricchimento, verso colui che ha pagato l'indebito.” (questa norma si applica anche per l’eccessiva
onerosità sopravvenuta).
L’articolo 1467 dice: “La parte contro cui è domandata la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta
può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”. L’accettazione in questo caso
non serve: la legge prevede che è sufficiente l’offerta, nel corso del giudizio, di ricondurre a equità, da parte
del convenuto. Si possono modificare entrambe le prestazioni. L’offerta non deve essere considerata come
un negozio giuridico perché è una manifestazione processuale, che avviene durante il giudizio di risoluzione
attivato per la risoluzione del contratto. Per la sua impugnazione, varranno le regole di impugnazione
processuali: se il giudice, con sentenza passata in giudicato, esclude la risoluzione in seguito a una
determinata offerta, non si può più riaprire il giudizio, salvo che per revocazione (per es. in caso di dolo di
una delle parti in danno dell'altra).
Argomento 17
Videolezione 1 – La trascrizione.
La trascrizione è uno strumento di tutela dei diritti, che rinforza la tutela apprestata a favore di determinati
diritti, che il legislatore considera importanti. Con la trascrizione viene reso noto l’acquisto di diritti che
riguardano i beni immobili. La trascrizione si realizza infatti attraverso la pubblicazione (ad esempio,
dell’acquisto) nei registri immobiliari. Il sistema della trascrizione può considerarsi un sistema di pubblicità
180
che riguarda, di norma, i diritti (quelli considerati dal legislatore degni di una tutela) relativi ai beni
immobili. Generalmente questo è un modo per rafforzare il diritto, non per crearlo. La trascrizione non è un
sistema che dà il diritto, in quanto essa non porta all’acquisto del diritto. La trascrizione porta a rafforzare un
diritto già acquistato con il principio consensualistico, cioè con lo scambio del consenso legittimamente
manifestato nelle forme dovute.
L’articolo 2643 del Codice civile indica gli atti che devono (in realtà si tratta di un onere) essere trascritti. In
particolare, l’articolo 2643 dice: “Si devono (in realtà trascrivere non è un obbligo, ma piuttosto un onere.
Non si deve necessariamente trascrivere e non c’è alcuna sanzione contro chi non trascrive. Il soggetto che
non trascrive rischia solo che il suo diritto non abbia una tutela forte) rendere pubblici col mezzo della
trascrizione:
1) i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili;
2) i contratti che costituiscono, trasferiscono o modificano il diritto di usufrutto su beni immobili, il diritto di
superficie, i diritti del concedente e dell'enfiteuta;
2-bis) i contratti che costituiscono, trasferiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati,
previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale;
3) i contratti che costituiscono la comunione dei diritti menzionati nei numeri precedenti;
4) i contratti che costituiscono o modificano servitù prediali, il diritto di uso sopra beni immobili, il diritto di
abitazione;
5) gli atti tra vivi di rinunzia ai diritti menzionati nei numeri precedenti;
6) i provvedimenti con i quali nell'esecuzione forzata si trasferiscono la proprietà di beni immobili o di altri
diritti reali immobiliari, eccettuato il caso di vendita seguita nel processo di liberazione degli immobili dalle
ipoteche a favore del terzo acquirente;
7) gli atti e le sentenze di affrancazione del fondo enfiteutico (l’enfiteusi è quel diritto che porta il soggetto
che ottiene l’enfiteusi ad avere il godimento di un immobile con l’obbligo di migliorarlo, pagando un dato
canone);
8) i contratti di locazione di beni immobili che hanno durata superiore a nove anni;
9) gli atti e le sentenze da cui risulta liberazione o cessione di pigioni o di fitti non ancora scaduti, per un
termine maggiore di tre anni;
10) i contratti di società e di associazione con i quali si conferisce il godimento di beni immobili o di altri
diritti reali immobiliari, quando la durata della società o dell'associazione eccede i nove anni o è
indeterminata;
11) gli atti di costituzione dei consorzi che hanno l'effetto indicato dal numero precedente;
12) i contratti di anticresi (il diritto di godere dei frutti di un fondo per il pagamento del debito);
12-bis) gli accordi di mediazione (mediazione civile e commerciale) che accertano l'usucapione con la
sottoscrizione del processo verbale autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato;
13) le transazioni che hanno per oggetto controversie sui diritti menzionati nei numeri precedenti;
14) le sentenze che operano la costituzione, il trasferimento o la modificazione di uno dei diritti menzionati
nei numeri precedenti.”
Per la trascrizione, inoltre, è prevista la necessità che l’atto sia reso in forma pubblica, o comunque con
scrittura privata autenticata.

181
La funzione principale della trascrizione è l’opponibilità. La trascrizione prevista dall’articolo 2643
garantisce l’opponibilità degli acquisti (salvo rare eccezioni in alcune zone d’Italia, in cui si utilizza il
sistema tavolare). Chi trascrive un acquisto si trova in posizione di vantaggio rispetto a chi non lo trascrive,
ma anche rispetto a chi lo trascrive in una data successiva. La trascrizione ha carattere personale: chi
trascrive un acquisto, lo trascrive a proprio favore e contro il soggetto che ha trasferito il diritto, il dante
causa.
Deve essere rispettato il cosiddetto principio di continuità delle trascrizioni: la trascrizione ha valore nella
misura in cui l’atto trascritto contro un determinato dante causa faccia seguito a una precedente trascrizione a
suo favore, relativa allo stesso diritto. Se un soggetto ha acquistato un diritto, ma manca la trascrizione
dell’atto a favore del dante causa, la trascrizione effettuata da chi acquista il diritto non può avere effetto,
cioè non può essere opposta a chi può vantare una trascrizione a proprio favore che fa seguito a precedenti
trascrizioni a favore dei precedenti titolari (danti causa) del diritto trasferito, senza soluzione di continuità.
Tali concetti fanno riferimento agli articoli seguenti:
*L’articolo 2644 è la norma sull’opponibilità: “Gli atti enunciati nell'articolo precedente non hanno effetto
riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base a un atto trascritto o
iscritto anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi. Seguita la trascrizione, non può avere effetto
contro colui che ha trascritto alcuna trascrizione o iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore,
quantunque l'acquisto risalga a data anteriore.”
*L’articolo 2650 è l’articolo sulla continuità delle trascrizioni: “Nei casi in cui, per le disposizioni
precedenti, un atto di acquisto è soggetto a trascrizione, le successive trascrizioni o iscrizioni a carico
dell'acquirente non producono effetto, se non è stato trascritto l'atto anteriore di acquisto. Quando l'atto
anteriore di acquisto è stato trascritto, le successive trascrizioni o iscrizioni producono effetto secondo il loro
ordine rispettivo, salvo il disposto dell'articolo 2644.”
Videolezione 2 – Pegno e ipoteca.
I diritti reali di garanzia vincolano determinati beni al soddisfacimento del credito in via preferenziale. Diritti
reali di garanzia sono il pegno e l’ipoteca. Il pegno è il diritto reale di garanzia costituito su cose mobili o
diritti mobiliari, che conferisce al creditore il diritto di prelazione sulla cosa o sul diritto ricevuto in pegno. Il
pegno può essere costituito dal debitore o da un terzo in favore del debitore. Il patto costitutivo del pegno su
cosa mobile si perfeziona solo a seguito della consegna al creditore della cosa o del documento che ne
attribuisce la legittimazione esclusiva a disporre. Consegnatario può essere anche un terzo in qualità di
custode. La permanenza del pegno nel possesso del creditore o del terzo condiziona il diritto pignoratizio. La
prelazione inoltre può essere fatta valere solo se il patto costitutivo del pegno sia fatto per iscritto, abbia data
certa e indichi in modo determinante il pegno e il credito. Il creditore cui è consegnata la cosa ne diviene
possessore, ma deve custodirla con la normale diligenza, e non può usata né concederla in pegno o in
godimento a terzi. Può però soddisfarmi sui frutti civili, imputandosi prima alle spese per la conservazione
del bene, poi agli interessi e al capitale.
Il creditore pignoratizio insoddisfatto può far vendere la cosa o il diritto ricevuto in pegno e soddisfarsi sul
ricavato. La vendita deve avvenire nelle forme previste dal codice (vendita al pubblico incanto o a prezzo
corrente tramite persona autorizzata dalla legge o dal giudice). Il datore del pegno può consentire forme
diverse e forme diverse possono anche essere previste dal patto costitutivo del pegno. Alternativa alla
vendita è l’assegnazione della cosa. Precisamente, il creditore può domandare al giudice che gli venga
assegnata la casa in proprietà previa stima del suo valore o al prezzo corrente se si tratta di cosa avente un
prezzo di mercato.
Oltre che su cose e su universalità di cose, il pegno può esse costituito su crediti e altri diritti aventi ad
oggetto beni mobili. Il patto costitutivo del pegno su crediti esige la forma scritta ed è efficace solo a seguito
della notificazione di esso al debitore del credito dato in pegno o della sua accettazione con atto di data certa.
Al creditore va consegnato il documento che certifica il credito. Quando scade il credito dato in pegno è il
182
creditore pignoratizio che deve riscuoterlo e depositare il riscosso. Se il creditore garantito è esigibile, il
creditore pignoratizio può senz’altro soddisfare il suo credito utilizzando il denaro riscosso. Sempre nel caso
in cui il credito garantito sia esigibile, il creditore pignoratizio può chiedere l’assegnazione del credito
ricevuto in pegno o farlo vendere qualora questo credito non sia ancora scaduto. Nei confronti del creditore
pignoratizio la posizione del debitore del credito dato in pegno è equiparata a quella del debitore ceduto nei
confronti del cessionario.
L’ipoteca è il diritto reale di garanzia che ha ad oggetto beni immobili o diritti reali di godimento sui beni
immobiliari e conferisce al creditore ipotecario il diritto di seguito e il diritto di prelazione. Il diritto di
seguito è insito nel carattere reale della garanzia e significa che il creditore ipotecario può fare espropriare il
bene ipotecato chiunque ne sia divenuto proprietario. Il diritto di prelazione significa che il creditore
ipotecario può soddisfarsi sul ricavato della vendita del bene o del diritto ipotecato con preferenza rispetto
agli altri creditori, che non abbiano un prevalente diritto di prelazione. Elemento costitutivo è comunque
l’iscrizione nei registri immobiliari.
Quale che sia la fonte dell’ipoteca, l’ipoteca può avere ad oggetto la proprietà di beni immobili, l’usufrutto,
la superficie, il diritto dell’enfiteuta e il diritto del concedente, le rendite dello Stato, i beni mobili registrati
(autoveicoli, navi, ecc.). Il creditore ipotecario non ha il possesso del bene ipotecato ma può agire per far
cessare comportamenti suscettibili di provocare il perimento o il deterioramento del bene. L’ipoteca che ha
ad oggetto diritti diversi dalla proprietà segue la sorte dei diritti sui quali è costituita, ma può sopravvivere
alla loro estinzione derivante da confusione o da altre cause estintive.
L’ipoteca volontaria si costituisce mediante contratto e anche mediante un atto unilaterale di concessione da
parte del titolare del bene (art. 2821 c.c.). La costituzione dell’ipoteca esige a pena di nullità la forma
dell’atto pubblico o della scrittura privata ed è efficace solo a seguito della iscrizione nei pubblici registri. La
costituzione di ipoteca su beni altrui o su beni futuri non può essere validamente iscritta prima che il
concedente sia divenuto titolare del bene o la cosa sia venuta ad esistenza.
L’ipoteca legale è l’ipoteca che ha titolo nella legge. Essa è prevista ad es. a favore dell’alienante di un
immobile a garanzia dei crediti derivanti dall’alienazione. L’ipoteca è iscritta d’ufficio dal conservatore dei
registri immobiliari. L’ipoteca giudiziale è l’ipoteca che ha titolo in una sentenza di condanna al pagamento
di una somma di denaro o di altra prestazione o di condanna al risarcimento del danno da liquidarsi
successivamente. La costituzione dell’ipoteca richiede l’iscrizione del provvedimento giudiziale.
L’ordine delle ipoteche dipende dalla data della iscrizione: l’ipoteca iscritta ad una data prevale sulle
ipoteche iscritte in data successiva. I creditori ipotecari di grado anteriore hanno diritto di soddisfarsi sul
ricavato della vendita del bene ipotecato con preferenza rispetto ai creditori di grado successivo. Il creditore
di grado successivo che sia rimasto insoddisfatto a causa della prelazione esercitata dal creditore di grado
anteriore, può per altro beneficiare del diritto di surrogarsi nell’ipoteca iscritta a favore del creditore di grado
anteriore su altri beni dello stesso debitore. Su questi beni la garanzia del surrogante prevale sulle ipoteche di
data posteriore alla propria iscrizione.
Quale diritto avente funzione di garanzia di un credito l’ipoteca è accessoria al credito garantito, e ne segue
la sorte. La cessione del credito ipotecario comporta quindi la trasmissione dell’ipoteca (la cessione può
essere annotata a margine dell’iscrizione ipotecaria). L’estinzione del credito ipotecario, poi, determina
l’estinzione dell’ipoteca. A seguito del pagamento, quindi, potrà essere chiesta la cancellazione della
garanzia, per la quale occorrono il consenso del concedente o una sentenza che ordina la cancellazione.
L’obbligazione ipotecaria può essere adempiuta da un terzo, secondo la regola generale, con effetto
liberatorio dell’ipoteca. Una particolare facoltà liberatoria dell’ipoteca è attribuita dalla legge al terzo
acquirente del bene ipotecato. Il terzo acquirente, precisamente, può liberare il bene dall’ipoteca depositando
il prezzo a favore dei creditori ipotecari. A tal fine occorre che l’acquirente notifichi la sua proposta a tutti i
creditori ipotecari iscritti, indicando tra l’altro l’importo del prezzo (pattuito col venditore o dichiarato
dall’acquirente medesimo). I creditori possono richiedere l’espropriazione del bene. In mancanza, la
liberazione del bene segue al deposito del prezzo.
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Il codice sancisce la nullità del patto commissorio, mediante il quale si attribuisce al creditore il diritto di
appropriarsi dell’oggetto del pegno o dell’ipoteca nel caso in cui l’obbligazione non venga adempiuta alla
scadenza (art. 2744 c.c.). L’interpretazione giurisprudenziale comprende nel divieto l’alienazione di un bene
in garanzia, sottoposta alla condizione risolutiva del mancato tempestivo adempimento dell’obbligazione. Si
riconosce invece la liceità del patto mediante il quale il creditore si riserva, per il caso di inadempimento del
debitore, il diritto di appropriarsi del bene al prezzo da stimare dopo l’inadempimento (patto Marciano).
Videolezione 3 – La prescrizione. Profili generali.
Il tema della prescrizione è disciplinato nella parte finale del nostro Codice civile; il Codice civile si occupa
dei diritti e decide di dedicare la propria parte finale a qualcosa che riguarda la perdita di essi.
L’articolo 2934 del Codice civile dice: “Ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo
esercita per il tempo determinato dalla legge”. Il legislatore, esprimendosi così, vuole riconoscere un effetto
estintivo (che fa estinguere il diritto) all’inerzia del titolare del diritto per un determinato tempo. La legge
prescrive il tempo entro cui un determinato diritto deve esercitarsi, altrimenti si prescrive. In particolare, la
legge dispone che, trascorsi i termini di prescrizione, il diritto si estingue se non viene esercitato. Questa
norma fa comprendere una propensione del legislatore per i comportamenti attivi, che portano all’esercizio
del diritto: se hai un diritto lo devi esercitare = se non lo eserciti, perdi il diritto.
La regola della prescrizione la prendiamo dal Codice francese. Il codice previgente (Codice del 1865) infatti,
in linea con quanto avveniva nell’ordinamento francese e con il Codice napoleonico francese, contemplava
anche la prescrizione acquisitiva (il passare del tempo produce un effetto acquisitivo e non estintivo), da noi
conosciuta come usucapione. La vicinanza tra i due istituti, quello della prescrizione acquisitiva e quello
della prescrizione estintiva, si ripropone anche in alcune norme del Codice civile attuale, tant’è che l’articolo
1165 del Codice civile dice: “Le disposizioni generali sulla prescrizione, quelle relative alle cause di
sospensione e d'interruzione e al computo dei termini si osservano in quanto applicabili, rispetto
all'usucapione”.
Quali sono le ragioni della prescrizione? Secondo un’idea generalizzata, la prescrizione risponderebbe a
delle esigenze di certezza, ma più che ad esigenze di certezza (a cui risponde maggiormente l’istituto della
decadenza) l’istituto della prescrizione risponde a esigenze di tutela dei comportamenti attivi, in relazione
alle relazioni sociali. Vengono tutelate le attività meritevoli. Un soggetto che trascura i propri diritti è un
soggetto che non mette in atto un comportamento meritevole secondo l’ordinamento; egli dimostra di non
avere interesse al proprio diritto (e l’interesse è alla base del diritto: i diritti si hanno perché si ha un
interesse). La manifestazione di interesse è quindi necessaria, per il nostro ordinamento, almeno entro
determinati limiti di tempo. In mancanza, il diritto perde il suo fondamento più intimo, che è proprio
l'interesse: ecco perché si estingue.
La disponibilità della prescrizione è strettamente legata all’interesse del soggetto che si può avvantaggiare
della prescrizione. Nel nostro ordinamento vige un principio generale per il quale, quando un soggetto si può
avvantaggiare di un comportamento altrui, può anche decidere di non avvantaggiarsene. C’è quindi una certa
disponibilità da parte del debitore che, ad esempio, può far valere la prescrizione del suo debito. Il credito
prescritto resta pur sempre un credito (anche se è prescritto) dal punto di vista naturale, da adempiere
secondo un dovere sociale o morale: per questa ragione è possibile l’adempimento - a riguardo, l’articolo
2940 dice: “Non è ammessa la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato in adempimento di un
debito prescritto” (il soggetto paga qualcosa che non era giuridicamente tenuto a pagare, ma era moralmente
tenuto a pagare; il dovere sociale o morale esclude di richiedere indietro quello che è stato pagato). Dal punto
di vista giuridico, non si è più vincolati, in considerazione della rilevanza che giuridicamente assume
l'interesse del soggetto che deve manifestare attivamente l'intenzione di ricevere il pagamento. Quando un
credito è prescritto, è il debitore che può eccepire l'avvenuta prescrizione per evitarne il pagamento. Come
detto, il creditore potrebbe sempre avanzare la richiesta (sarebbe fondata solo su ragioni naturali, non
giuridiche). Non operando automaticamente il rilievo della prescrizione in giudizio, ma essendo necessario

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che il debitore manifesti apposita eccezione, sì è detto che la prescrizione darebbe un diritto potestativo
proprio al debitore.
A livello sistematico, il fatto, che il debitore può decidere ugualmente di pagare anche se il credito è
prescritto, risponde a un principio generale, che consente ai soggetti di non avvantaggiarsi dei
comportamenti altrui in grado di causare un arricchimento. Quindi, se l’arricchimento che si causa nella sfera
del debitore, dovuto a questa dismissione da parte del creditore - che può avvenire espressamente con la
remissione del debito, che può avvenire con un contratto con obbligazione a carico del solo proponente, che
può avvenire con il rinunciare ad attivarsi (con l’inerzia) – , non è corrispondente all’interesse del debitore
stesso, il debitore può rinunciare all’arricchimento e nel caso della prescrizione, può decidere di non
avvalersene adempiendo all’obbligazione. Il debitore ha la possibilità di escludere l’effetto estintivo quando
la mancanza di pagamento non corrisponde al suo interesse, se invece la mancanza di pagamento corrisponde
al suo interesse, e quindi questi non rinuncia alla prescrizione e non vuole adempiere, allora possiamo
considerare il credito totalmente prescritto per ambo le situazioni, quella creditoria e quella debitoria. Per
questa ragione la prescrizione non può essere rilevata d'ufficio. L'effetto estintivo immediato della
prescrizione, come nella remissione del debito, si ha quando l'estinzione corrisponde all'interesse del
debitore.
Non può rinunziare alla prescrizione chi non può disporre validamente del diritto (è chiaro che si deve
trattare di un soggetto che abbia la capacità di agire e la legittimazione su quel diritto). Si può rinunziare alla
prescrizione solo quando questa è compiuta. La rinunzia può risultare da un fatto incompatibile con la
volontà di valersi della prescrizione (per es. un pagamento). L'ordinamento esclude quindi che, con una
rinuncia preventiva alla prescrizione da parte del debitore, il creditore possa scegliere di non attivarsi per
lunghissimo tempo, non manifestando così l'interesse che è il fondamento intimo del suo diritto. I diritti
hanno infatti una loro ragione se ne viene rivelato l’interesse di base.
Esistono diritti non esposti a prescrizione:
- L'azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di altri per
usucapione.
Sono anche imprescrittibili le altre azioni a difesa della proprietà:
- L'azione negatoria (il proprietario può agire per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla
cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio);
- l'azione di regolamento di confini (quando il confine tra due fondi è incerto, ciascuno dei proprietari può
chiedere che sia stabilito giudizialmente);
- l'azione per apposizione di termini (se i termini tra fondi contigui mancano o sono diventati irriconoscibili,
ciascuno dei proprietari ha diritto di chiedere che essi siano apposti o ristabiliti a spese comuni).
Si pensi anche ai diritti fondamentali della persona umana.
Sono inoltre imprescrittibili le azioni di accertamento, quali l'azione di nullità e l'azione di simulazione (volta
a far valere che un contratto è simulato, cioè per es. che non se ne volevano gli effetti). Anche l'eccezione di
annullabilità è imprescrittibile.
Videolezione 4 – La decadenza.
La decadenza comporta l’impossibilità di esercitare un diritto. Sostanzialmente però, dobbiamo notare una
cosa. È chiaro che, se tramite l’applicazione di un determinato istituto, non si può più esercitare un diritto,
tendenzialmente, la mancanza della possibilità di esercitare un diritto comporta in sostanza lo stesso effetto
dell’estinzione. Nella sostanza quindi, i due istituti della prescrizione e della decadenza devono essere visti
insieme. Di conseguenza, avremo bisogno di orientarci e comprendere, se non una differenza sostanziale e
aprioristica tra una fantomatica decadenza e una fantomatica prescrizione, almeno la distinzione di disciplina

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tra un termine e un altro. La decadenza la chiameremo in questo modo non perché abbia un’ontologica
diversità, ma perché a livello di disciplina legislativa, riteniamo che il legislatore voglia applicare quella
prevista sotto la decadenza nel Codice civile e non la disciplina prevista in materia di prescrizione.
L’istituto della decadenza garantisce nel nostro Codice una certezza. La decadenza è definita come “la
perdita di un diritto a causa del mancato esercizio entro il termine previsto dalla legge o da un patto privato
(per es. contratto)”. Secondo il nostro ordinamento, ma ciò non vale per tutti i diritti, non può perdurare oltre
un certo limite temporale una situazione di incertezza, la quale deve essere necessariamente definita in un
senso (esercizio del diritto secondo quanto prescritto dalla legge o pattiziamente = si impedisce la decadenza)
o nell’altro (mancato esercizio del diritto = perdita della facoltà di esercitarlo. Ciò, ad esempio, non vale per i
cosiddetti “diritti indisponibili”, che sono diritti che possono sempre essere esercitati (che non si prescrivono
mai), per cui non può essere mai previsto con riguardo al loro esercizio, in generale, un termine di
decadenza. - Per determinate azioni correlate all’esercizio di questi diritti però, qualche termine di decadenza
può essere previsto.
Il profilo della decadenza, che garantisce la certezza di una data situazione, comporta che si dia rilevanza
all’interesse dell’altra parte, della parte nei cui confronti il diritto deve essere esercitato. Se si dice che
l’ordinamento vuole certezza in ordine alla definizione di una data situazione, in un senso o nell’altro,
significa tendenzialmente che vi sono interessi - contrapposti a quelli del soggetto che può o che vorrebbe
esercitare il diritto - che vengono tutelati e che si intende garantire. Proprio la rilevanza, che viene data
all’interesse dell’altra parte, comporta che, nel caso in cui si tratti di un termine stabilito da un contratto o da
una norma di legge relativa a diritti disponibili, la decadenza può essere impedita anche dal riconoscimento
del diritto effettuato dalla persona contro la quale si deve far valere. L’esempio classico che si fa a tal
proposito è quello relativo alla garanzia per i vizi della cosa venduta: il venditore è tenuto a garantire che la
cosa venduta sia immune da vizi, che la rendano inidonea all'uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo
apprezzabile il valore. Il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la
riduzione del prezzo, salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione. Il compratore decade
dal diritto alla garanzia, se non denunzia i vizi al venditore entro otto giorni dalla scoperta, salvo il diverso
termine stabilito dalle parti o dalla legge. La denunzia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto
l'esistenza del vizio o l'ha occultato. L'azione si prescrive, in ogni caso, in un anno dalla consegna. / Per i
beni di consumo, vale una regola diversa: in caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al
ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, ovvero ad una
riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto. Il consumatore decade dai diritti se non
denuncia al venditore il difetto di conformità entro due mesi dalla data della scoperta.
Come abbiamo visto, la legge distingue nel Codice del consumo tra termine di “prescrizione” e “decadenza”.
Ma quando il legislatore non utilizza questi termini, come facciamo a sapere se si tratta di un termine di
prescrizione, o di decadenza? Bisogna capire qual è l’intenzione del legislatore. Il criterio che ci piace
seguire è quello che fa leva solamente su quanto previsto dal legislatore. Se il legislatore ha previsto che alla
decadenza si applica una determinata disciplina, che è prevista nel Codice civile, e alla prescrizione si
applica un’altra disciplina, che è sempre prevista nel Codice civile, e si tratta di due discipline diverse, allora
dobbiamo fare un’interpretazione teleologica dei termini previsti. Se viene previsto un termine e non viene
indicato dalla legge se questo termine è di decadenza, o di prescrizione, si deve capire se il legislatore, nella
ratio di quella determinata normativa, intendeva applicare l’una disciplina, o l’altra. In linea di principio, non
possiamo avere criteri aprioristici per definire un termine “di prescrizione”, o “di decadenza”, in base ad altri
elementi: dobbiamo sempre effettuare un’interpretazione teleologica, volta a scoprire l’intenzione del
legislatore. Per effettuare questa interpretazione e per comprendere, bisogna studiare le norme sulla
prescrizione e sulla decadenza. A tale riguardo, la legge dispone che quando un termine è previsto a pena di
decadenza, non si applicano le norme dettate in tema di interruzione della prescrizione. - Anche se possono
essere previste delle regole speciali (sostanzialmente in deroga). Inoltre, ci sono alcune norme, che
consentono la possibilità di applicare anche alla decadenza le norme sulla sospensione della prescrizione. La
sospensione della prescrizione comporta la sospensione del termine; ricorre da quel momento (il momento
della sospensione del termine) un periodo successivo a quello del termine di sospensione: si uniscono il
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periodo precedente e quello successivo. Diversamente, l’interruzione della prescrizione comporta il nascere
di un nuovo termine di prescrizione: si interrompe il termine e decorre un nuovo termine uguale di
prescrizione.
Alcune norme però sono simili. Alcune norme dettate per la prescrizione possono essere infatti applicate
analogicamente alla decadenza. Per esempio:
- Art. 2963 - Computo dei termini di prescrizione … Non si computa il giorno nel corso del quale cade
il momento iniziale del termine e la prescrizione si verifica con lo spirare dell'ultimo istante del
giorno finale. Se il termine scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente non
festivo…;
- Art. 2939 - Opponibilità della prescrizione da parte dei terzi. La prescrizione può essere opposta dai
creditori e da chiunque vi ha interesse, qualora la parte non la faccia valere…;
- Per altro (art. 2967 - Effetto dell'impedimento della decadenza), quando la decadenza è impedita, il
diritto rimane soggetto alle disposizioni che regolano la prescrizione.

L’effetto della decadenza è tendenzialmente considerato nella disponibilità privata. Infatti, la decadenza non
può essere rilevata d'ufficio dal giudice (deve essere eccepita dalla parte), salvo che, trattandosi di materia
sottratta alla disponibilità delle parti, il giudice debba rilevare le cause d'improponibilità dell'azione - ma la
prova deve riguardare fatti concreti, positivi (non omissioni nel tempo), quindi basta «allegare» l’avvenuta
decadenza.
La decadenza limita l’autonomia privata e quindi le norme devono essere di stretta interpretazione, esse non
possono essere applicate analogicamente in altri casi. È tuttavia ammesso un patto privato sulla decadenza
(quando si tratta di materia di diritti disponibili); il patto è nullo se rende eccessivamente difficile a una delle
parti l’esercizio del diritto…e può essere sottoposto al rispetto di alcune formalità. Le parti possono
modificare la disciplina legale della decadenza e rinunziare, anche tacitamente, alla decadenza, ma non deve
trattarsi di materia sottratta alla disponibilità privata.
Videolezione 5 – Riepilogo generale su prescrizione e decadenza (facoltativa).
La prescrizione è un modo generale di estinzione dei diritti. Si estinguono per prescrizione i diritti che non
sono esercitati per il tempo determinato dalla legge. Fondamento della prescrizione è una valutazione
normativa di disinteresse del titolare che trascura a lungo di far valere il suo diritto. La disciplina della
prescrizione è inderogabile ed è nullo ogni patto diretto a modificarla.
La prescrizione è un fatto estintivo del diritto rimesso alla discrezionalità del destinatario dell’effetto
liberatorio, il quale può eseguire il pagamento, rinunziare alla prescrizione, non opporsi alla domanda del
titolare del diritto prescritto. Il pagamento eseguito in adempimento di un debito prescritto non dà luogo a
ripetizione. Ai fini della irripetibilità occorre tuttavia che il pagamento sia eseguito spontaneamente. È
pertanto ripetibile il pagamento eseguito a seguito di messa in mora, di domanda giudiziale o anche di
minacce da parte del creditore. La prescrizione può essere rinunziata solo da chi abbia la disponibilità del
diritto prescritto e solo dopo che la prescrizione è compiuta. La prescrizione non è rilevabile d’ufficio dal
giudice. Il debitore ha quindi l’onere di eccepire la prescrizione del credito. Se il debitore non eccepisce la
prescrizione nei confronti del suo creditore, gli altri creditori possono far valere la prescrizione in luogo del
debitore. La prescrizione può altresì essere fatta valere da qualsiasi terzo che risulterebbe pregiudicato
dall’accoglimento della domanda suscettibile di essere opposta mediante l’eccezione di prescrizione.
La prescrizione estingue di massima tutti i diritti. Dalla estinzione per prescrizione sono eccettuati tuttavia i
diritti indisponibili e quei diritti che la legge dichiara espressamente imprescrittibili. Diritti indisponibili sono
principalmente i diritti della personalità. Nell’ambito delle azioni patrimoniali sono dichiarate
imprescrittibili, tra le altre, l’azione di rivendicazione e la petizione di eredità. La prima riflette la

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imprescrittibilità del diritto di proprietà (il diritto di proprietà non si estingue per il mancato godimento del
titolare, seppure protratto nel tempo).
Coerentemente con il fondamento dell’istituto, la valutazione normativa di disinteresse del titolare, il codice
prevede la sospensione del corso della prescrizione quando la relazione intercorrente tra le parti ostacola di
fatto l’esercizio del diritto per il vincolo di coniugio che le unisce, per la soggezione di una parte alla potestà
dell’altra, ecc. La sospensione della prescrizione è poi prevista nei casi in cui il titolare è impedito dalla sua
condizione di minorenne o di infermità mentale per il tempo in cui non ha un rappresentante legale (e per
altri 6 mesi dopo la nomina del rappresentante o la cessazione dell’incapacità). È prevista anche una
sospensione per cause belliche. Le cause di sospensione possono intervenire durante il decorso del termine di
prescrizione. In tal caso esse non cancellano il periodo di prescrizione già maturato. Venuta meno la causa di
sospensione, il termine di prescrizione torna a decorrere e il nuovo periodo di prescrizione sarà sommato a
quello eventualmente già maturato.
La prescrizione è suscettibile di sospensione ed è suscettibile anche di interruzione. L’interruzione indica
l’arresto del decorso del termine di prescrizione con conseguente cancellazione del periodo di prescrizione
già maturato. A seguito della interruzione torna a decorrere un nuovo termine prescrizionale. Cause che
interrompono la prescrizione sono la domanda giudiziale diretta a far valere il diritto soggetto a prescrizione,
il ricorso all’arbitrato, la costituzione in mora, il riconoscimento del diritto da parte dell’obbligato. La
domanda giudiziale vale anche a sospendere il decorso della prescrizione per tutta la durata del giudizio. Se
la prescrizione ha per oggetto un’azione, l’interruzione ha luogo solo a seguito della proposizione della
domanda.
I diritti si prescrivono in generale nel termine di 10 anni, (prescrizione ordinaria), salvo che la legge preveda
termini più lunghi (es.: la servitù si prescrive in 20 anni: art. 10731 c.c.) o termini più brevi. Prescrizioni di 5
anni sono previste, tra l’altro, con riguardo al diritto di risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, ai
canoni locatizi e agli interessi. Tra le prescrizioni più brevi possono segnalarsi quelle concernenti l’azione
del consumatore diretta a far valere i difetti di conformità del bene di consumo vendutogli (26 mesi) e
l’azione di annullamento dell’atto di disposizione di beni immobili della comunione posto in essere da un
coniuge senza il consenso dell’altro (1 anno). In generale il termine di prescrizione inizia a decorrere dal
momento in cui il diritto può essere fatto valere – questo vuol dire che in tutte le ipotesi in cui il diritto sia,
ad esempio, sottoposto a condizione sospensiva, la prescrizione non corre.
La prescrizione è compiuta quando è trascorso l’ultimo giorno del termine. Non si conta il primo giorno, cioè
il giorno in cui cade il momento iniziale della prescrizione. Altre disposizioni riguardano la scadenza del
termine in giorno festivo (il termine è prorogato al giorno seguente non festivo); l’indicazione del termine in
mesi (il termine scade nel giorno corrispondente al giorno iniziale: ad es., il termine di 1 mese che inizia a
decorrere il 1° gennaio scade il 1° febbraio successivo); la mancanza nel mese di scadenza del giorno
corrispondente al giorno iniziale (il termine si compie nell’ultimo giorno del mese di scadenza: ad es., il
termine di 1 mese che inizia a decorrere dal 31 gennaio scade il 28 febbraio successivo).
Accanto alla prescrizione estintiva, si distingue la prescrizione presuntiva. Prescrizioni presuntive sono le
prescrizioni che comportano la presunzione legale dell’avvenuto pagamento del debito (art. 2954 s. c.c.).
Trascorso il periodo di prescrizione, cioè, si presume legalmente che il creditore abbia percepito quanto
dovutogli. La presunzione di pagamento può essere vinta dal riconoscimento del debito o dal giuramento
prestato dal creditore di non aver ricevuto la prestazione. Prescrizioni presuntive sono previste, tra l’altro,
con riguardo ai crediti dell’albergatore: 6 mesi; dei lavoratori per le retribuzioni corrisposte a periodi non
superiori al mese: 1 anno; dei professionisti per il compenso dell’opera prestata: 3 anni, ecc.
La decadenza è un modo di estinzione dei diritti per il mancato adempimento di un onere nel termine
perentoriamente stabilito dalle parti o dalla legge. Ad es. il compratore ha l’onere di denunziare i vizi della
cosa entro 8 giorni dalla loro scoperta. Il compratore che non effettua tempestivamente la denunzia perde il
diritto alla garanzia. Assolto l’onere della denunzia il diritto di garanzia è soggetto alla prescrizione di 1
anno. La distinzione tra prescrizione e decadenza va tenuta ferma considerando il diverso fondamento delle
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due figure. Mentre per la prescrizione si è visto che questo fondamento attiene a una valutazione normativa
di disinteresse del titolare del diritto, con riguardo invece alla decadenza, rileva un’altra esigenza, e cioè
l’esigenza di limitare rigorosamente nel tempo l’adempimento di oneri che incidono su situazioni giuridiche
altrui, evitando così il protrarsi dell’incertezza di tali situazioni. Coerentemente a tale fondamento la
decadenza non è suscettibile né di sospensione e neppure di interruzione. L’unico modo per non incorrere
nella decadenza è quello di adempiere tempestivamente l’onere. A differenza di quanto abbiamo visto per la
prescrizione, la decadenza è un istituto che può essere modificato dalla volontà delle parti, le quali possono
anche introdurre termini di decadenza non previsti dalla legge. La decadenza può essere infatti stabilita
anche mediante patto, ma il termine previsto non deve essere talmente breve da rendere eccessivamente
difficile la sua osservanza

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