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Gaetano Scherillo
Franco Gnoli
1 NOZIONI INTRODUTTIVE
1.1 La denominazione del corso
Per istituzioni si intendono le basi, i fondamenti di una conoscenza; per diritto, l’insieme
organizzato di regole di comportamento nei rapporti tra le persone; per romano si intende
relativo ad un periodo storico, caratterizzato dalla sovranità dell’antica Roma (754 a.c. – 565
d.c.).
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1.6 Caratteri delle norme giuridiche
Appartengono alle norme di diritto i caratteri della generalità, dell’astrattezza, della positività,
della coercibilità.
Il carattere della generalità consiste nel fatto che le norme si rivolgono alla generalità dei
consociati, non a singoli individui.
Per ciò che attiene all’astrattezza, si deve considerare che solitamente nella struttura di una
norma giuridica vi è la previsione di una situazione tipica, corrispondente ad uno schema
definito a priori, al quale la norma ricollega una conseguenza. La norma contiene la
previsione di un’ipotesi, e deve essere enunciata in modo che vi rientrino tutti i casi o
fattispecie.
La positività delle norme giuridiche è implicita nel fatto che esse sono stabilite da una
collettività organizzata. Sono pertanto giuridiche esclusivamente le regole che quella
comunità in quel momento storico si è data.
Il carattere della coercibilità delle norme giuridiche si riferisce al fatto che è possibile
ottenere l’applicazione concreta di una norma giuridica per mezzo dello Stato.
Ma in realtà non è per il timore delle conseguenze sanzionatorie che la maggior parte
dei soggetti applica di fatto i precetti della norma, ma perché li accetta in quanto utili,
o perché corrispondono a principi morali diffusi, o anche per semplice conformismo.
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Ricordarsi poi che legge non è un sinonimo di norma.
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esclusivamente consuetudinaria, esso si applicava soltanto ai Quiriti e non alle persone di
nazionalità diversa.
Il ius Quirítium costituì il diritto oggettivo durante l’età della monarchia, nel corso della quale
– tra l’III e IV sec. a.c. – al vertice della città stato, la cívitas, stava un magistrato unico e
vitalizio, avente la qualifica di rex. Dopo la transizione dalla monarchia alla repubblica,
avvenuta verso la fine del IV sec. a.c., il rex fu sostituito da una coppia di magistrati dal
potere diseguale il praétor màximus e il praétor mìnor.
L’inizio dell’età repubblicana coincise con l’insorgere di un grave conflitto sociale che
contrapponeva i cittadini membri delle géntes, potenti aggregazioni minori provviste di una
notevole autonomia rispetto alla cívitas, che formavano il ceto gentilizio; e i cittadini estranei
alle géntes, costituito dal ceto plebleo.
Il complicarsi della vita sociale coincise – nel corso del periodo repubblicano fino al 23 a.c. –
con il progressivo abbandono del nome Quirítes a contrassegnare i destinatari dei móres,
con la sostituzione di un generico cíves: ius civíle, venne detto il diritto oggettivo comune a
tutti i cittadini; la sua fonte continuo a consistere nei móres, i quali essendo tramandati
oralmente richiedevano degli interpreti che li identificassero di volta in volta. Tale funzione fu
ricoperta per tutto il periodo antico, da sacerdoti che, in seduta segreta, rilasciavano dei
pareri giuridici, denominati respónsa e diretti ai richiedenti, che li consultavano per sapere
quali fossero le norme del ius civíle e come andassero applicate alle singole controversie.
Dopo l’avvento della fase repubblicana dello stato-città alla fonte consuetudinaria delle
norme si venne aggiungendo una fonte autoritativa, denominata lex: essa consisteva in un
provvedimento deliberato dall’assemblea del popolo, il comizio, su proposta di un
magistrato, munita di approvazione del senato. La nuova fonte proveniva dalla
collaborazione di tre organi, riconosciuti dalla cívitas come sovraordinati ad essa.
Le singole léges erano fonti autoritative di produzione perché poste in essere da organi
pubblici, ai quali la collettività aveva conferito l’autorità di emanare provvedimenti generali e
coercitivi; ciascuna léges conteneva una o più norme giuridiche, messe per iscritto. La lex
divenne fonte di produzione, ma anche di cognizione.
Durante l’età repubblicana, le poche léges vennero aggiungendosi alle molte norme di
costume, móres, senza sostituirle. Il diritto oggettivo nel suo complesso continuò a
consistere in norme di natura consuetudinaria, interpretate dai giuristi attraverso i respónsa.
Anche la famosa legge delle XII Tavole dovette essere in prevalenza una codificazione
scritta di norme consuetudinarie preesistenti, attuata per definire una volta per tutte la fonte
di cognizione esposta al pubblico.
Nel primo periodo il diritto romano rimase nel suo complesso un ordinamento a carattere
consuetudinario e giurisprudenziale (le consuetudini potevano venire identificate e applicate
solo per mezzo dell’opera di consulenza tecnica dei giuristi).
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praetóres, ai quali spettò più tardi il titolo di cónsules. Quando però i consoli furono assorbiti
primariamente da compiti militari e di governo, venne loro affiancato un praetór urbànus al
quale fece capo la giurisdizione civile.
Si denomina processo privato, il complesso degli atti successivi, tra loro legati dallo scopo
dell’accertamento e dell’esecuzione coattiva degli interessi privati, giudicati degni di tutela
nelle fattispecie controverse.
Durante la repubblica prendevano parte al processo quattro soggetti:
1. l’attore – àctor – cui si doveva l’iniziativa di agire per far valere il proprio interesse
contro quello di un altro soggetto;
2. il convenuto - réus – portatore di un interesse in conflitto con quello dell’attore. L’attore
e il convenuto costituivano le parti del processo.
3. il magistrato, cui spettava di presiedere alla risoluzione della controversia.
4. il giudice privato ,al quale competeva di esprimere l’opinione (senténtia) per mezzo
della quale il conflitto avrebbe trovato soluzione.
Al contrario del magistrato, il iúdex non si trovava inquadrato negli uffici pubblici, ma era un
soggetto privato che il pretore, dietro indicazione delle parti o d’ufficio, incaricava di
conoscere e giudicare delle fattispecie limitatamente a quel singolo processo.
(prima in epoca arcaica abbiamo i magistrato che si fa consigliare dai prudentes vedi pag.
12).
Il iúdex era destinatario di una istruzione da parte del magistrato, il quale gli indicava i criteri
ai quali si sarebbe dovuto attenere per emettere la sentenza, il giudice riceveva dal
magistrato l’indicazione della norma che avrebbe dovuto porre a confronto con la fattispecie
litigiosa e, esaminati gli elementi di fatto e le dichiarazioni prodotte, decidere se avesse
avuto ragione l’attore o il convenuto. In tale decisione consisteva la senténtia, la sentenza
del giudice privato.
Nell’interesse dei privati e per comodità propria il pretore era solito rendere pubblici i criteri ai
quali si sarebbe attenuto nell’istruire il giudice di volta in volta nominato per il singolo caso.
Tali criteri erano fatti redigere per iscritto e pubblicati in un luogo pubblico.
Ciascuna premessa generale di istruzioni a futuri giudici, così come ogni altro provvedimento
scaturente dal pretore, si chiamava edìctum.
Poiché l’editto, pubblicato all’atto dell’inizio di esercizio in carica, era destinato a rimanere in
vigore per un anno – esso col tempo venne a essere denominato edíctum perpétuum.
Considerata la relativa brevità del periodo di durata della carica magistratuale, il nucleo
centrale dell’editto perpetuo veniva accolto e confermato senza modificazioni significative dal
pretore successore.
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Lo stesso ius civíle attraverso gli editti pretori veniva continuamente aggiornato, per mezzo
di tutte le modificazioni apportate dai pretori al testo scritto sugli albi.
Poiché hónor era il termine designante la carica magistratuale, fu denominato dai giuristi ius
honorárium, il complesso delle norme scritte negli albi pretori.
A Roma ebbero competenza giurisdizionale il pretore urbano, il pretore peregrino e gli edili
curiali; fuori Roma, nei municipi e nelle colonie i duóviri o i quattuórviri; nei territori extraitalici
i questori provinciali.
Dagli editti di tutti questi magistrati scaturì il ius honorárium, che si venne affiancando al ius
civíle tra gli ultimi due secoli della repubblica e il primo secolo del principato. Procedendo poi
quest’ultimo nella direzione dell’assolutismo, che postulava il controllo del sovrano sopra
ogni attività pubblica, verso il 130 d.c., su iniziativa di Adriano, venne operata una
codificazione degli editti, nel senso che il loro testo, definitivamente stabilito, non poté più
subire modificazioni su iniziativa dei magistrati.
I magistrati assolvevano a una duplice funzione: erano gli organi attraverso i quali il ius civíle
operava nei casi controversi in modo coattivo; in secondo luogo, quando ritenevano giusto
disapplicare regole civilistiche, perché superate da nuovi usi, o addirittura porre in essere
nuove norme, aggiornavano il diritto in vigore, creandone di nuovo.
Anche dopo la cessazione della funzione creativa dei magistrati, il diritto oggettivo, pur
venendo integrato da numerose iniziative legislative degli imperatori, rimase costituito, nella
sua parte più significativa, dai principi del ius civíle integrato dalle regole del ius honorárium.
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cívile agli interessi in conflitto. Così nella giurisdizione del pretore peregrino, con un
procedimento analogo a quello che condusse alla formazione del ius honorárium, si venne a
creare un sistema di norme, enunciate annualmente dal magistrato, la cui sfera di efficacia
comprendeva le controversie tra romani e stranieri o fra stranieri: tale sistema di norme è il
ius géntium. Nella pratica il magistrato, non potendo applicare il criterio di composizione del
ius cívile, utilizzava adattamenti di istituti civili o recepiva istituti stranieri.
Nel proseguo del tempo le norme di ius géntium si ritennero applicabili anche ai romani, e si
ebbero recezioni di esso sia nel ius honorárium sia nel ius cívile, verosimilmente ad opera
della giurisprudenza. A evoluzione compiuta – I sec. a.c. – il ius géntium, rimase in antitesi
con il ius cívile, indicante quella parte di diritto romano, da qualsiasi fonte prodotto,
applicabile solo ai cittadini romani.
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2. L’età classica è contraddistinta da una molteplicità di sistemi. Accanto al ius cìvile,
che permane con le sue fonti (consuetudine e legge comiziale), si pongono dapprima il ius
géntium e successivamente il ius honorárium. Fonte autoritativa del diritto onorario è l’editto
del magistrato, che conteneva l’elenco dei mezzi giuridici che avrebbe applicato
nell’esercizio della sua attività. L’avvento del principato ebbe conseguenze notevoli anche
nel campo delle fonti del diritto. Una nuova fonte di ius cìvile è il senatoconsulto: ovvero il
riconoscimento di efficacia normativa diretta al parere del senato. L’altra, d’importanza
maggiore, è la costituzione del principe, ovvero l’emanazione di norme da parte del
principe – tra cui si annoverano: edìcta, ordinanze di carattere generale dirette a tutti i sudditi
o parte di essi; mandàta, istruzioni rivolte ai funzionari e governatori delle provincie; decréta,
decisioni di controversie concrete sottoposte all’esame del principe; rescrìpta ed epìstulae,
responsi su casi pratici. Con l’avanzare del principato le vecchie fonti del diritto si
inaridiscono: si trattava di fonti troppo legate all’ordinamento cittadino, per essere in grado di
funzionare con il nuovo sistema. Tuttavia esse non furono abolite: la giurisprudenza continuò
ad includerle nel catalogo delle fonti di diritto.
3. Nella fase postclassica, caratterizzata dalla monarchia assoluta, l’imperatore si pone
come unica fonte del diritto. Diviene fonte per eccellenza la costituzione imperiale, ovvero
quel tipo di norme che l’imperato pone come norme generali. Anche in questo caso,
l’affermazione della volontà dell’imperatore, non implica l’abrogazione del diritto prodotto
dalle antiche fonti non più attive, che si designano come ius vétus (diritto antico). Essendo
l’imperato unica fonte del diritto, si sviluppò la tendenza verso forme di catalogazione e
raccolte, nelle quali egli stesso stabiliva quali fossero le opere della giurisprudenza da
considerarsi ius vétus.
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Nessi e principi non sono opera arbitraria dell’interprete, ma sono impliciti nel sistema:
l’interprete è colui che ha i mezzi tecnici per renderli evidenti. Ciò spiega l’altra forma di
interpretazione che è l’analogia, a cui si ricorre quando un caso non rientra in nessuna
norma particolare: si fa ricorso a norme che regolano casi simili, o si risale fino a regole
generali che possono disciplinare il caso in esame.
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Questi venivano annotati per iscritto dal loro autore o dai suoi discepoli: ne nacquero opere
redatte su Lìbri. Tali raccolte, che portavano il nome dei giuristi dell’epoca, contenevano
pareri inerenti controversie di diritto privato.
L’età che corrisponde al periodo di storia costituzionale del Principato, è denominata età
della giurisprudenza classica. A quest’epoca appartiene l’attività più vasta e meglio
documentata dei giuristi romani.
2 Il soggetto di diritto
2.1 Il soggetto di diritto
I concetti di diritto soggettivo e di rapporto giuridico, presuppongono il concetto di soggetto
del diritto. È soggetto del diritto colui al quale il diritto obbiettivo può conferire un potere per
la tutela di un proprio interesse, o in capo al quale può costituirsi un rapporto giuridico. Se
tale potere viene effettivamente conferito, si parla di titolare di un diritto soggettivo.
La condizione di colui al quale l’ordinamento riconosce l’attitudine al conferimento di un
diritto soggettivo, si dice personalità giuridica (presupposto necessario del prodursi di
effetti giuridici in capo ad un soggetto).
Da questo emerge che la personalità giuridica non è qualcosa d’innato, preesistente al
diritto, ma esiste in quanto il diritto oggettivo la riconosce.
Il problema del conferimento della personalità giuridica è un problema di organizzazione, in
quanto l’ordinamento giuridico ritiene che l’attribuzione di un potere per la tutela dei propri
interessi sia funzione socialmente utile. Ogni ordinamento giuridico risolve il problema per
conto proprio, secondo una propria valutazione dell’attitudine dei singoli e dei gruppi di
essere soggetto di rapporti giuridici.
L’attitudine a essere soggetto di diritti o a essere soggetto attivo o passivo di rapporti
giuridici prende il nome di capacità giuridica. Se la capacità giuridica è generica si identifica
con la personalità giuridica; ma può anche riferirsi a singoli atteggiamenti particolari.
Dalla capacità giuridica deve tenersi ben distinta la capacità di agire, che è l’attitudine di
porre in essere atti giuridici. Fondamento ne è la capacità di intendere e volere.
L’ordinamento giuridico ogni qual volta ritiene che un essere umano sia dotato della capacità
di intendere e volere in grado sufficiente, gli riconosce la capacità di agire.
La capacità giuridica riguarda gli effetti della norma, è l’attitudine, il presupposto a che gli
effetti della norma si producano in capo a qualcuno; la capacità di agire riguarda l’attività
necessaria a promuovere gli effetti della norma; la prima è una qualità conferita
indipendentemente dalla volontà del soggetto, la seconda è un’attitudine conferita alla
volontà del soggetto. La capacità giuridica è l’aspetto statico della soggettività; la capacità
d’agire ne è l’aspetto dinamico.
Poiché sono concetti distinti si possono avere soggetti muniti di capacità giuridica, ma privi
della capacità di agire (infante, pazzo), e per converso individui privi della capacità giuridica,
ma dotati della capacità di agire (schiavo).
Anche la capacità di agire può essere intesa in senso generico come attitudine a compiere
atti giuridici, o in senso specifico con riferimento a determinate categorie di atti o negozi
giuridici. Aspetti particolari della capacità di agire sono la capacità di disporre e la capacità di
compiere atti illeciti.
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2.2 Persone fisiche e persone giuridiche
La dottrina distingue i soggetti di diritto in due categorie, l’una comprendente gli individui
umani, l’altra gli enti cui l’ordinamento riconosce personalità giuridica: persone fisiche e
persone giuridiche.
A differenza che nel diritto moderno, nel diritto romano si ha la formazione poco a poco, e
non senza fatica, della figura della persona giuridica, intesa come corporazione.
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I modi iurìs géntium (prigionia, nascita) sono i modi originari, risalenti ad un epoca anteriore
alla nascita delle civìtas e riferibili alle gens; i secondi, di importanza minore, presuppongono
che sia sorto l’ordinamento della civìtas.
I modi iùris civìlis sono: la consegna del cittadino ad uno stato extra-tevere per liberarsi di
una responsabilità internazionale; la consegna del debitore insolvente; la revoca del liberto
ingrato; la condanna a talune pene gravi.
I modi di iurìs géntium sono:
a. la nascita da madre schiava. Poiché con la schiava non vi è matrimonio, il figlio segue
la condizione della madre al momento della nascita.
b. la prigionia di guerra: anche il cittadino romano caduto in prigionia diveniva schiavo,
ma se ritornava in patria, riacquistava la capacità giuridica e i diritti soggettivi ad essa
connessi.
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2.9 Lo stàtus civitàtis
Lo stàtus civitàtis ha riguardo all’appartenenza alla cìvitas; denota la condizione di membro
di quella collettività organizzata. È condizione per avere la personalità giuridica, in
conformità con il ius civile. Lo stàtus civitàtis si acquista:
a. per nascita. La prole nata tra persone fornite di connùbium segue la condizione del
padre al momento del concepimento; la prole nata fuori dal matrimonio segue la condizione
della madre al momento della nascita.
b. Per atto sovrano della cìvitas, la quale ammette nella collettività un nuovo membro, e
può riguardare un singolo individuo o collettività organizzate.
c. Per atto sovrano del paterfamìlias, che manomette uno schiavo in uno dei modi
riconosciuti dallo ius civile.
Rapporti fra l’ordinamento della cìvitas e quello delle famìliae: dato che il primo si pone
superiore all’altro, ne segue che lo stàtus civitàtis è rilevante ai fini dell’attribuzione dello
stàtus familiae.
Gli stranieri non hanno la capacità giuridica, ma possono avere la capacità di agire, secondo
il ius civile; hanno invece capacità giuridica secondo il ius géntium. : il commèrcium è la
capacità di compiere con i romani alcuni negozi patrimoniali (mancipàtio); il connùbium è la
capacità di unirsi in matrimonio legittimo con cittadini romani.
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Perché il matrimonio avesse riconoscimento dal punto di vista del ius civìle entrambe i
coniugi dovevano essere in possesso del connùbium, ossia della capacità giuridica
matrimoniale: esso era posseduto da chi godeva dello stàtus civitàtis, dai Latìni e da talune
comunità di peregrìni favorite da Roma. Senza connùbium, il matrimonio si riduceva a una
unione di fatto e i figli che ne fossero nati seguivano la condizione giuridica della madre.
Erano di impedimento ad un’efficace unione matrimoniale i vincoli di parentela, sia agnatizi
che di sangue, e vari divieti legali, nonché, per i soggetti alìeni iùris, l’assenso dell’avente
potestà.
2.15 La famìlia
Lo stàtus famìlia denota la situazione di fronte alla collettività organizzata della famìlia. Il
vincolo di appartenenza a tale collettività non è un vincolo di sangue – che poteva esistere –
ma la comune subordinazione alla potestà di un capo, il paterfamìlias.
Il termine famìlia si riferisce ad un insieme di persone, unite da una relazione giuridica
specifica o anche da un generico legame che accomuna il complesso di parenti: si parla di
una famìlia pròprio iure e di una famìlia commùni iùre. La prima è costituita dalle persone
che sono sottoposte alla potestà del paterfamìlias: alla morte di questi la famìlia si scinde in
altrettante familiae, quanti sono i filiifamìlias. Ma tra tutti coloro che sarebbero stati soggetti
alla potestà del paterfamìlias, se non fosse morto, permane un vincolo di agnazione, onde
esiste un gruppo formato dagli agnàti: tale gruppo è la famìlia commùni iùre.
Agnazione: è il vincolo che lega tra loro gli appartenenti a una famìlia commùni iure, cioè
coloro che sono attualmente o sono stati sottoposti alla potestà dello stesso. Agnàti: coloro
che sono sottoposti a tale vincolo. La natura del vincolo è autoritativa, cioè la sottoposizione
alla potestà. Si distingue pertanto dalla parentela di sangue, cognàtio, determinata dalla
discendenza per nascita da un comune capostipite. Il vincolo unifica tra loro soltanto i parenti
in linea maschile; sono agnàti anche gli adottivi.
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Anche la cognàtio ha qualche rilevanza per il diritto: è rilevante iure civìli ai fini degli
impedimenti matrimoniali; in antitesi con il ius civile, il pretore fondò sulla cognàtio il suo
sistema di successione intestata.
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I filiifamìlias: soggetti alla pàtria potèstas. Tale posizione spetta ai discendenti in linea
maschile di ambo i sessi del paterfamìlias, sia nati nella famìlia sia entrati per atto sovrano
del paterfamìlia. Tra i figli occupano un posto preminente i sùi, cioè i figli immediati del
paterfamìlias, destinati alla sua morte a diventare capi dei gruppi in cui si scinderà la
famìlia.
La moglie (ùxor) del paterfamìlia o le mogli dei filiifamìlias, assoggettatesi alla mànus
mediante apposto negozio.
I filiifamilias altrui venduti al paterfamìlias in espiazione di un torto commesso: in origine
si trattava di veri e propri schiavi che, per influenza della civìtas, fu ammesso che
conservassero lo stàtus libertàtis.
Gli schiavi soggetti alla domìnica potéstas, oggetto di signoria patrimoniale.
Il solo paterfamìlias è sùi iurìs, cioè indipendente dal potere altrui; gli altri sono aliéni iùris,
cioè in signoria altrui.
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Da Augusto in poi, acquista particolare rilievo il pecùlium castènse, costituito dai beni che i
filiusfamìlias militare acquista in occasione del servizio militare: di tale patrimonio viene
riconosciuta la capacità in proprio di disporre.
Un capovolgimento del principio di unità del patrimonio familiare si avrà, a partire da
Costantino, con i bòna adventìcia: quel complesso di beni provenienti da ascendenti materni
e lucri nuziali, che vengono lasciati in proprietà al filiifamìlias, mentre al paterfamìlias viene
lasciata l’amministrazione e il godimento, costruito come usufrutto legale. Con ciò è
riconosciuta al filiusfamìlias la piena capacità patrimoniale.
Il diritto pretorio ha, d’altro canto, derogato al principio che le persone alièni iùris non
possono – salvo il caso di responsabilità per atto illecito – obbligare il parterfamìlias. Il
pretore, tenendo conto negli scambi commerciali dell’affidamento del terzo venuto in
rapporto con lo schiavo o con il filius famìlias, poteva addossare al paterfamìlias una
responsabilità per i debiti contratti dalle persone soggette alla sua potestà, la quale talvolta si
estende all’intero ammontare del debito, talvolta è limitata al pecùlium.
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2.21 Condizioni limitatrici della capacità di agire
La capacità di agire manca quando l’ordinamento giuridico ritiene che il soggetto sia privo
della capacità di intendere e volere; è invece limitata, quando l’ordinamento ritiene che la
capacità di agire esista, ma sia in misura minore a quella richiesta per taluni atti giuridici.
Se l’incapace di agire è aliéni iùris, la sola conseguenza è che egli non può compiere atti
giuridici per il suo paterfamìlias.
Se l’incapace è sùi iùris, e si tratta di un’incapacità permanente, si pone il problema di
provvedere alla vita e alle vicende dei rapporti giuridici che gli fanno capo. Il problema si
risolve mediante la creazione di un ufficio che si sostituisce, in parte o totalmente
all’incapace; ovvero una cerchia di attribuzioni assegnate ad una persona, per
l’adempimento di una funzione costituita per fine pubblico o per l’utilità di un’altra persona.
Le condizioni che tolgono o limitano in modo permanente la capacità di agire di una persona
sùi iùris sono l’età, il sesso femminile, l’infermità di mente, la prodigalità. Gli uffici organizzati
a protezione degli incapaci sono la tutela e la cura.
La distinzione fondamentale in merito all’età è fra età pubere ed età impubere. È impubere
chi non ha raggiunto la capacità di procreare. Tra gli impuberi si distinguono gli infanti –
coloro che non sanno parlare; fino a sette anni di età -; e infàntia maiòres, coloro che anno
superato l’infanzia ma ancora impuberi: questi ultimi, si ritiene abbiano la capacità di
intendere e volere in grado limitato.
Dopo Giustiniano perde ogni rilievo la distinzione tra puberi e impuberi, e la distinzione
diviene quella tra maggiore e minore età.
2.22 La tutela
Secondo il ius civìle, l’impubere sùi iùris e la donna sùi iùris anche pubere, sono soggetti a
tutela che consiste nella potestà nei confronti di un soggetto libero allo scopo di proteggerlo.
Originariamente si trattava di una potestà familiare: tutore è colui destinato dal testamento, o
in essenza di questo dall’agnato prossimo – ad esercitare la tutela sulle donne e gli
impuberi.
Mentre nello sviluppo storico di tale istituto la tutela agnatizia della donna, divenne
un’integrazione della capacità di agire del tutore mediante l’interposizione della auctòritas, la
tutela degli impuberi si organizza come ufficio protettivo, soprattutto quando la designazione
del tutore iniziò a riguardare la civìtas.
Il tutore nominato dagli organi della civìtas ha il potere di amministrare il patrimonio
dell’impubere e quello di interporre l’auctòritas ai negozi giuridici conclusi dall’impubere.
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di disporre dei beni; il dissipatore di beni (prodigo) viene interdetto dal pretore, il quale
nomina un curatore.
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Infine, l’ordinamento delle persone giuridiche si modella su quello delle città e avremo quindi:
a) come l’ordinamento della città si concreta nella costituzione, così quello della
corporazione si concreta nel proprio statuto che ne determina gli organi e le loro
competenze, l’ammissione dei membri etc.
b) Come di regola gli organi della città sono i magistrati, il senato e l’assemblea del popolo,
così nelle corporazioni abbiamo un ordo collegii, costituito dai membri rivestiti da cariche, e
una plebes collegii, costituita dall’insieme dei membri e in più gli actores (impiegati), preposti
ai singoli affari.
c) Come la città, anche la corporazione ha un patrimonio (res communes) e una cassa (arca
communis), su cui i membri hanno un’aspettativa in caso di scioglimento della persona
giuridica.
La persona giuridica si estingue quando siano venuti meno tutti i suoi membri, può perdurare
anche se questi si siano ridotti a uno solo.
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Quindi per esempio non sono res i corpi celesti perché non hanno un valore economico
apprezzabile.
È importante sapere che, per i Romani, l’uomo stesso è una cosa nel caso sia in condizione
di schiavitù, sta proprio in questo al differenza tra liberi e schiavi.
Per i Romani sono cose anche le operae, cioè i servigi, considerate frutto dell’uomo, fanno
parte delle res corpolares.
sacre
divine
religiose
Res nullìus
umane pubbliche
singulòrum
private
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Le res religiòsae. Sono le cose appartenenti agli dei Mani, cioè i sepolcri e gli oggetti
destinati alla conservazione e all’ornamento dei cadaveri. Come le res sàcrae, non sono
suscettibili di far parte del patrimonio di alcuno. Tuttavia esiste un rapporto tra il sepolcro e
una persona a cui spetta di provvedere al culto degli dei Mani, di diritto sacro, riconosciuto
dal ius civìle: il privato è titolare di un diritto soggettivo sul sepolcro, in cui rientrano le facoltà
di vigilare e provvedere alla conservazione del sepolcro, di visitarlo, di deporvi offerte
sacrificali, e di esservi sepolto e di deporvi un cadavere. Quest’ultima facoltà ha un
contenuto economico e pertanto oggetto di negozi giuridici patrimoniali.
Le res sànctae. Le cose che senza essere sacre o religiose, sono difese da ogni violazione
da parte degli uomini e da cui gli uomini devono astenersi, per non incorrere in gravi
sanzioni. Tra queste le mura e le porte, non solo di Roma, ma anche dei municipi.
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Per converso, la circolazione regolare delle res màncipi, era più garantita, perché l’alienante,
in caso di minacciata evizione, doveva intervenire in giudizio per difendere l’acquirente, e
qualora si fosse sottratto, incombeva su di lui una responsabilità pari al doppio del valore
della cosa.
La formazione del catalogo delle res màncipi risale all’età antica, e si tratta di un catalogo
chiuso. Prova di questo è che l’elenco comprende cose che sono d’importanza sociale per
un’economia basata sull’allevamento e l’agricoltura.
Già nell’epoca classica, la distinzione è in decadenza, non più pienamente sentita nella
coscienza sociale. Inoltre la differenza si attenua, perché anche la circolazione delle res nec
màncipi trova garanzia prima, attraverso la stipulazione di apposite garanzie, poi attraverso
una specifica azione da compera.
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Altra distinzione contrappone tra loro le cose consumabili e le cose inconsumabili: anche
questa distinzione è fondata su un criterio economico-sociale. Consumabili si dicono le cose
in cui uso normale consiste nella loro distruzione (alimenti); inconsumabili, il cui uso normale
non ne impone la distruzione, e sebbene logorabili, suscettibili di uso ripetuto.
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3.15 Frutti e cosa produttiva
Il concetto di frutto in senso giuridico coincide con il concetto economico di reddito: è frutto
ciò che costituisce reddito della cosa.
I frutti intesi in questo senso possono essere costituiti da parti di una cosa madre, e possono
essere staccati.
Accanto a questi vi sono altri frutti che non sono parti staccate, ma sono puro reddito, in
quanto provengono dall’impiego o dalla gestione economica della cosa: interessi sul
capitale. A loro volta i frutti naturali devono essere considerati in varie fasi, le quali
presentano interesse giuridico distinto:
1. frutti pendenti, quelli ancora aderenti alla cosa produttiva e non ancora esistenti come
cosa a sé stante;
2. frutti separati, quelli staccati dalla cosa madre ed esistenti come cosa a sé e quindi
capaci di rapporti giuridici distinti;
3. frutti percetti: quelli che si sono raccolti; frutti percipiendi, quelli che per negligenza o per
scelta del possessore della cosa si è omesso di raccogliere;
4. frutti esistenti: quelli che si trovano ancora presso il possessore; frutti consumati: quelli
che il possessore ha consumato in senso giuridico (trasformato o alienato).
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in senso stretto
fatti giuridici illeciti
atti giuridici leciti in senso stretto
leciti
negozio giuridico
Soltanto alcuni – una minoranza – tra gli atti di volontà umani sono idonei – in date
circostanze previste e formulare dal diritto oggettivo - ad avere rilievo giuridico; tra di essi nel
diritto privato si distinguono, per la funzione svolta di interferire nelle relazioni tra soggetti, gli
atti negoziali: negozio è un atto lecito di volontà che opera dinamicamente nei rapporti tra le
persone, regolandone i rispettivi interessi.
31
3.22 Elementi del negozio
La sopra delineata struttura del negozio giuridico può scomporsi in alcuni elementi costitutivi:
a. Contenuto. il negozio giuridico differisce dagli altri atti leciti non negoziali perché è
destinato ad attuare un regolamento di interessi prescritto dal soggetto in modo precettivo.
Tale regolamento di interessi è il contenuto del negozio: il contenuto così inteso è elemento
costitutivo del negozio.
b. Causa. Tipico del negozio è anche lo scopo pratico, che viene assunto a far parte
della struttura del negozio, costituendone un elemento.
c. Volontà - atto. Il negozio giuridico è un atto di autonomia privata: pertanto l’atto,
inteso come determinazione di volontà che sia stata manifestata, è elemento costitutivo del
negozio giuridico.
Gli elementi costitutivi del negozio giuridico sono pertanto tre: la determinazione, che si
estrinseca attraverso la manifestazione di volontà; la causa, scopo pratico cui tende il
soggetto e la funzione economico-sociale del negozio; il contenuto, il regolamento di
interessi prescritto dal soggetto in modo precettivo.
Tali elementi sono interdipendenti: la volontà si determina verso un scopo pratico e si
estrinseca nel mondo dei fatti prescrivendo un regolamento di interessi, così che senza lo
scopo pratico non è concepibile una determinazione di volontà.
Inoltre sono anche inscindibili: tutti e tre gli elementi devono concorrere perché si abbia un
negozio giuridico, senza che si possa attribuire alcuna prevalenza all’uno o all’altro.
Comunemente gli elementi costitutivi del negozio vengono designati come essenziali, e si
distinguono dai c.d. elementi naturali – conseguenze eliminabili del negozio – e dai c.d.
elementi accidentali, estranei dalla normale struttura del negozio, ma che il soggetto
potrebbe inserirvi.
3.25 La forma
La manifestazione riveste sempre una forma, in quanto la forma non è altro che l’aspetto
esteriore della manifestazione.
Talvolta l’ordinamento può prescrivere che la manifestazione rivesta una forma determinata,
nel senso che essa è rilevante se compiuta nella forma prescritta; dove l’ordinamento nulla
prescrive, qualsiasi forma può essere adoperata, purché idonea.
Quando l’ordinamento richiede forme determinate, si parla di forme costitutive o essenziali,
che possono essere generiche o specifiche.
Le forme, infine possono avere funzione meramente probatoria, nel senso che servono
come mezzo atto a documentare l’esistenza di una dichiarazione.
L’antico ius civìle conosce solo forme costitutive: le forme sono date in genere dalla
pronuncia di parole solenni o dal compimento di determinati atti o dall’una o dall’altra
insieme. Nella mancipàtio, l’affermazione della proprietà da parte dell’acquirente è
accompagnata dal gesto di afferrare il bene e inoltre si compie la cerimonia della pesatura
del metallo (il prezzo) sulla bilancia tenuta dal pesatore: parole e gesti sono insieme
dichiarazione formale di volontà e attuazione del predisposto regolamento di interessi.
Nella spònsio, la forma costituitiva consiste in un dialogo tra futuro creditore e futuro
debitore, si ha solo la pronuncia di parole solenni.
Successivamente, ad opera prevalentemente del pretore, accanto alle vecchie forme tipiche,
spunta la forma generica della scrittura: non ha carattere costitutivo ma meramente
probatorio, nel senso che serve a documentare l’avvenuta conclusione del negozio.
Nell’età postclassica si avrà la sparizione di tutte le forme solenni verbali e la
generalizzazione della scrittura che, però continuerà ad avere una funzione probatoria.
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3.26 Significato della manifestazione
La manifestazione non ha soltanto un significato soggettivo, quello che le attribuisce
l’agente, ma anche un significato oggettivo, quello che le viene comunemente attribuito,
conforme ai mezzi di espressione usati nella coscienza sociale.
3.28 Il contenuto
Altro elemento costitutivo del negozio è il contenuto, cioè il regolamento precettivo di
interessi; esso serve a distinguere i negozi giuridici dagli altri atti leciti che, invece non
contengono alcun regolamento di interessi.
Il negozio giuridico, contenendo un regolamento di interessi predisposto dai titolari
medesimi, è un modo di composizione volontaria dei conflitti di interesse. Nei limiti e in forza
dell’autonomia privata, il regolamento di interessi si è prescritto dai soggetti, ed è sentito
dalla coscienza sociale come impegnativo.
Il comando giuridico contenuto in un negozio giuridico differisce dal comando contenuto in
una norma perché ha sempre carattere concreto, cioè concerne gli interessi singolarmente
individuati (se la norma è generale e astratta, il negozio giuridico è invece concreto).
3.31 Requisiti
Dalla definizione di condizione si desume che l’evento dedotto deve essere futuro ed
obbiettivamente incerto. In particolare non sono condizioni:
a. le condizioni presenti o passate, in cui l’avvenimento dedotto non è futuro;
b. le condizioni necessarie, in cui l’evento dedotto è futuro, ma certo;
c. le condiciònes iùris, quelle in cui l’evento dedotto è un elemento costitutivo del
negozio, o un presupposto a cui l’ordinamento giuridico subordina il riconoscimento del
negozio stesso (capacità del soggetto).
d. Le condizioni impossibili, sia fisicamente che giuridicamente, ovvero quelle in
cui l’evento contemplato non può verificarsi materialmente, ovvero per un divieto
dell’ordinamento giuridico.
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Infine le condizioni si distinguono in potestative e casuali. In particolare sono potestative le
condizioni in cui l’evento consiste in un comportamento di una delle parti; sono casuali se
l’adempimento non dipende dalla volontà delle parti.
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la mancanza fa si che gli effetti del negozio, che si sono già prodotti, si consolidano e
diventano irrevocabili.
3.34 Il termine
Il termine è una data, un evento futuro ma certo, dalla quale si fanno decorrere o si fanno
cessare gli effetti del negozio. Si distingue perciò un termine iniziale da quale si fanno
decorrere gli effetti del negozio e un termine finale, dal quale si fanno cessare gli effetti.
Non a tutti i negozi è applicabile un termine: in genere le per le stesse ragioni per cui un si
possono apporre condizioni.
Per quanto riguarda gli effetti dell’apposizione di un termine – a differenza della condizione –
caratteristica è la certezza: il termine è un evento del quale si può essere incerti solo sul
quando si verifichi (quando morirai).
Mentre la condizione ingenera, uno stato di pendenza, il termine non fa differire l’entrata in
vigore del regolamento di interessi o limitare l’efficacia nel tempo; il rapporto è già nato alla
conclusione del negozio. Ne consegue che il rapporto, anche prima della scadenza del
termine, è trasmissibile agli eredi, sia sul lato attivo, che su quello passivo.
3.35 Il modo
È una clausola particolare ai soli negozi di liberalità, siano essi ìnter vìvos o mòrtis càusa, e
consiste in un peso che il disponente pone a carico del beneficiario, col quale impone a
questi di destinare tutto o in parte il lascito ad uno scopo particolare, ma senza elevare
l’adempimento a condizione sospensiva dell’acquisto.
Per lo ius civìle, l’obbligo di adempiere era sfornito di sanzione giuridica, ossia era
incoercibile, e pertanto induceva nel beneficiario solo un dovere morale. Per ovviare a ciò, si
produceva indirettamente la coercibilità, facendo assumere espressamente al beneficiario
l’obbligo mediante apposita stipulazione, oggetto di tutela pretoria.
Nel diritto giustinianeo il modo è divenuto direttamente coercibile, concedendo al disponente
e ai suoi eredi di agire contro il beneficiario inadempiente, sia per ottenere l’esecuzione, sia
per ottenere la revoca del beneficio.
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In tutte le altre figure in cui si ha una vera e propria sostituzione, nel diritto romano, si hanno
tre casi possibili:
a. gli effetti del negozio si producono in capo al sostituto, salvo poi trasferirli
all’interessato mediante altro negozio;
b. gli effetti del negozio si producono sia in capo al sostituto, sia in capo
all’interessato;
c. gli effetti del negozio si producono esclusivamente e direttamente in capo
all’interessato.
a. il primo sistema è quello dell’interposizione gestoria, detta anche rappresentanza
indiretta: è il sistema seguito dal ius civìle: viene di regola applicato dal tutore, dal curatore
del pazzo e del prodigo, all’amministratore stabile proposto alla gestione di un patrimonio,
tutti costoro acquistano in proprio e si obbligano in proprio; gli effetti giuridici dei negozi da
loro conclusi vengono successivamente, mediante altri negozi, riversati nella sfera
dell’interessato, figura particolare dell’interposizione gestoria è l’interposizione processuale.
b. Il secondo sistema si trova applicato sul terreno del diritto onorario, nella responsabilità
del paterfamìlias per le obbligazioni assunte da persone sottoposte alla sua potestà. Accanto
alla obligàtio civìlis(obbligazione civile), che sorge il capo al filiusfamìlias, e alla obligàtio
naturàlis, che sorge in capo allo schiavo (se è luia stipulare per il suo padrone), il pretore
addossa una responsabilità in capo al paterfamìlias, rimasto estraneo alla conclusione del
negozio. Questa tipologia la troviamo inoltre nei contratti a favore di terzi e nelle promesse
fatte al terzo.
c. Il terzo sistema è quello della rappresentanza. Qui gli effetti giuridici del negozio concluso
dal sostituto (rappresentante) sorgono direttamente e immediatamente in capo al titolare
degli interessi.
È necessario precisare che la rappresentanza non deve essere confusa con i casi in cui
l’acquisto sia fatto da persone aleni iuris in favore del loro paterfamilias: in tal caso non vi è
rappresentanza, perché la rappresentanza esige la separazione tra le sfere giuridiche del
rappresentante e del rappresentato, mentre in questo caso la persona alièni iùris, data la
sua incapacità patrimoniale, non ha un patrimonio proprio. Qui si tratta solitamente di negozi
conclusi da organi della persona giuridica. Anche in questo caso non vi è separazione tra la
sfera giuridica dell’organo e quella della persona giuridica.
Come detto lo ius civìle, preferì il sistema dell’interposizione gestoria a quello della
rappresentanza. Come in altri casi, fu il diritto pretorio, a riconoscere il sistema della
rappresentanza, mediante la denegazione dell’azione al gestore o contro il gestore.
Sarà nel diritto giustinianeo, che la rappresentanza trova largo riconoscimento.
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dichiarazione destinata al terzo, sia implicito, mediante affidamento di una cerchia di affari
ad un procuratore.
c. Eccezionalmente assunto per iniziativa del gestore, nei casi in cui è ammessa la
gestione di affari altrui.
Trattandosi di rappresentanza, dato che gli effetti del negozio si producono direttamente in
capo al titolare degli interessi, il rappresentante deve farsi riconoscere come tale dalla
controparte. Non è necessaria in tal senso una dichiarazione formale, basta che la sua
posizione, l’esistenza del potere e gli eventuali suoi limiti, siano chiaramente riconoscibili alla
controparte.
Per quanto riguarda gli altri presupposti cui l’ordinamento giuridico subordina il
riconoscimento del negozio, abbiamo:
a. la capacità di agire, intesa sia come capacità generica, sia come capacità di disporre:
basta che sussista nel rappresentante, non è richiesta nell’interessato;
b. allo stesso modo l’assenza di anormalità nella determinazione o manifestazione di
volontà deve valutarsi unicamente in capo al rappresentante;
c. invece, per quanto riguarda la legittimazione dei soggetti, occorre distinguere tra
rappresentanza e interposizione gestoria; nella rappresentanza si richiede che il
rappresentante sia munito del relativo potere, ma per il resto si guarda al rappresentato; per
l’interposizione gestoria si guarda al gestore, in quanto il negozio produce effetti in capo al
gestore, ed è quindi lui che deve avere la competenza a porlo in essere.
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3.40 Classificazione dei negozi: dal punto di vista del contenuto
Dal punto di vista del contenuto, ossia del regolamento di interessi attuato, i negozi possono
essere:
a. negozi ìnter vivos e negozi mòrtis causa. I secondi sono i negozi cui l’attuazione del
regolamento di interessi è subordinata alla morte dell’autore, e quindi possono produrre
effetti definitivi, solo dopo la morte dell’autore;
b. sono detti ìnter vivos, i negozi cui l’attuazione del negozio risponde alle più svariate
esigenze della vita pratica.
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Nel diritto giustinianeo, scomparso il dualismo tra ius civìle e diritto pretorio, i rimedi giuridici
sono concessi direttamente dalla legge. Qui, invece, bisogna distinguere i casi in cui
l’invalidità è stabilita ìpso iùre, e i casi in cui è subordinata all’iniziativa di parte.
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3.47 Invalidità riguardanti la causa
Le anormalità riguardanti la causa concernono:
a. l’illiceità della causa, quando il negozio persegue uno scopo pratico riprovato dal
diritto, sia perché contrario a norme proibitive o imperative, sia perché contrario alla morale.
b. La consapevole divergenza dell’intento pratico dei soggetti dalla causa tipica del
negozio: il negozio è adoperato per un fine diverso da quello in vista del quale il diritto l’ha
riconosciuto. È questo il caso della simulazione, che si distingue in assoluta e relativa: nella
simulazione assoluta vi è un negozio sotto il quale non vi è nulla; nella simulazione relativa i
negozi sono due, quello simulato o apparente, e il negozio dissimulato, mascherato sotto il
primo. La simulazione fu anche un comodo espediente per supplire a deficienze di negozi
già riconosciuti, consentendo di adattare a nuovi scopi di autonomia privata, i negozi
esistenti.
Altra tipologia sono i negozi fiduciari, in cui il trasferimento della proprietà serve solo come
scopo per attuare uno scopo diverso. Mentre il negozio simulato è soltanto apparente, il
negozio fiduciario viene effettivamente compiuto, ma lo scopo ha un fine meramente
strumentale, ovvero quello di perseguirne un secondo che viene enunciato in un secondo
negozio.
3.49 Dissenso
Mentre l’errore ostativo è sempre unilaterale, perché la parte attribuisce alla propria
dichiarazione un significato diverso a quello che essa ha obbiettivamente, il dissenso o
malinteso può aver luogo nei soli negozi bilaterali: invece dell’accordo tra dichiarazioni di
volontà reciproche, si ha disaccordo.
È ovvio che il dissenso è rilevante ogni qualvolta fa venire meno l’accordo tra le parti:
pertanto il dissenso che cada su un elemento essenziale del consenso, rende nullo il
negozio. In particolare sono rilevanti i casi seguenti:
a. quando faccia venir meno l’accordo delle parti circa la causa tipica del negozio;
b. il dissenso sull’identità dell’oggetto, quando faccia venir meno l’accordo delle parti
circa l’identificazione dell’oggetto del negozio.
c. il dissenso sulla misura delle prestazioni reciproche, al contrario, non sempre invalida
il negozio: il negozio è valido sulla quantità minore, se su questa si è formato l’accordo.
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b. una excèptio mètus, concessa alla vittima, quando il negozio non fosse ancora
stato eseguito, convenuta in giudizio per la sua esecuzione. Con tale excèptio l’azione
diretta contro la vittima viene paralizzata, e il negozio reso improduttivo di effetti.
c. una restitùtio in ìntegrum, quando il negozio sia stato eseguito.
4 L’ATTO ILLECITO
4.1 L’atto illecito in generale
Classificando gli atti giuridici, si sono qualificati illeciti, gli atti giuridici riprovati dal diritto, che
vi ricollega effetti difformi dalla volontà, ossia la sanzione.
Nell’atto illecito si ha, innanzi tutto, la lesione di un interesse altrui, individuale o collettivo.
Tuttavia la lesione è condizione necessaria, ma non sufficiente, a costruire un atto illecito:
occorre che vi sia la violazione di un precetto giuridico.
Diremo illecito l’atto riprovato dal diritto, in quanto viola un precetto giuridico posto a tutela
degli interessi altrui.
Così definito l’atto illecito, è possibile distinguere in esso un’azione, un evento, e
un’antigiuridicità dell’azione. L’azione è un comportamento dell’autore (riprovato dal diritto), e
l’evento è la lesione di un interesse altrui, tutelato da un precetto giuridico. Azione ed evento
sono in relazione di causalità tra di loro: l’evento deve essere riferibile all’azione altrui (ciò
costituisce l’imputabilità).
Secondo la natura dell’interesse leso e del precetto giuridico violato, si distinguono l’illecito
pubblico e l’illecito privato: è pubblico l’atto che lede gli interessi della collettività o che viola
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un precetto del diritto pubblico; è privato l’atto che lede un interesse privato o un precetto del
diritto privato.
Nel diritto romano gli illeciti pubblici si denominano crìmina e gli illeciti privati delìcta. Essi
differiscono tra loro anche per il tipo di sanzione, per il modo in cui tale sanzione viene
applicata, ma non differiscono dal punto di vista della struttura.
Va da se che se un atto illecito lede contemporaneamente un interesse pubblico e uno
privato, verranno applicate le sanzioni proprie del diritto pubblico e del diritto privato.
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c. Più tardi, ad opera della giurisprudenza, come figura intermedia si pone la colpa in
senso tecnico, che presuppone la volontarietà dell’azione, ma non la previsione delle
conseguenze lesive e quindi non la coscienza del torto; per tanto viene concepita come
inosservanza di un onere di prudenza che incombe su ciascuno nella propria condotta verso
gli altri.
Non in tutti gli atti illeciti l’imputabilità assume gli stessi aspetti. Per gli illeciti privati, si
distingue tra torto contrattuale e torto extra contrattuale.
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danno, ma a procacciare alla vittima una soddisfazione per il torto subito (sanzione
repressiva).
c. Poiché le funzioni sono diverse, non si escludono a vicenda, ma si cumulano.
5.2 Il processo
L’istituto con il quale l’ordinamento giuridico risolve il problema della difesa del diritto è il
processo, ovvero il complesso di mezzi intesi a superare la resistenza opposta alla
realizzazione del diritto soggettivo.
La collettività organizzata, al fine di mantenere la pace sociale componendo i conflitti di
interesse fra consociati, assume tra i propri compiti anche quello di superare le incertezze
circa l’esistenza, la titolarità e il modo di essere dei diritti soggettivi.
Accanto al processo messo in moto dal privato per la difesa dei diritti soggettivi, ve ne è un
altro, in cui l’iniziativa e l’impulso spettano ad un organo della collettività. Nel diritto romano
si parla di processo privato per il primo, e di processo pubblico per il secondo.
In questo corso ci occuperemo di processo privato - iudìcium privàtum – il cui fine è la
composizione autoritativa dei conflitti di interesse. Tale composizione avviene
prioritariamente attraverso un processo di esecuzione – diretto a superare la resistenza alla
realizzazione dell’interesse protetto dalla norma; il processo di cognizione assumerà un
carattere incidentale rispetto a quello di esecuzione.
Il processo deve inoltre concretizzarsi in una pronuncia autoritativa, che dirimi il conflitto di
interessi; per realizzare ciò è necessario che vi sia un’autorità, un organo della collettività
organizzata, al quale l’ordinamento giuridico attribuisce il potere di emanare pronunzie,
munite di forza coattiva.
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5.4 L’autodifesa privata
Il punto di partenza per descrivere il fenomeno processuale è l’autodifesa privata, ossia la
difesa del diritto, attuata ad opera dell’interessato, senza l’intervento di un’autorità superiore.
È concepibile che nelle origini l’autodifesa privata fosse ammessa illimitatamente; alcuni
degli stessi mezzi più antichi di difesa processuale (sistema lègis actiònes), si configurano
come atti di esercizio privato delle proprie ragioni, legalizzati nella forma e sottoposti al
controllo della cìvitas.
Ancora nel diritto classico il privato è autorizzato a far uso della forza, sia per respingere
l’altrui violenza ingiusta, sia direttamente contro altri privati, per rimuovere uno stato di fatto
contrario al proprio diritto.
A cominciare dall’età del principato, e più nell’età della monarchia assoluta, l’autodifesa
privata subì notevoli limitazioni.
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- in un primo tempo, il giudice è un esperto di res divìnae, nominato dal magistrato
nell’ambito del collegio dei pontefici; col tempo si vennero a introdurre collegi giudicanti
stabili, specializzati per materia, a composizione laica;
- successivamente il giudice singolo divenne un privato cittadino, con requisiti d’idoneità,
investito della propria funzione da un provvedimento magistratuale, tenendo conto del
desiderio delle parti;
- da ultimo si giunse al punto in cui il magistrato ritenne inutile nominare un giudice,
assumendosi personalmente, oltre alla sua tradizionale funzione di ius dìcere, anche quella
di iudicàre.
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Il processo èxtra òrdinem, è invece sempre coesistito con gli altri due: tende a generalizzarsi
nell’età del principato, e appare infine come unico tipo di processo nell’ultima fase del diritto
romano.
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5.11 I singoli mòdi lège agèndi. Il processo di cognizione
I mòdi lège agèndi, diretti all’accertamento di un rapporto giuridico sono:
a. lègis àctio sacramènto: caratteristica propria è lo scambio dei sacramènta, ossia una
promessa reciproca di ciascuna delle parti di pagare all’erario, in caso di soccombenza, un
determinata somma di danaro preventivamente depositata. Il giudice doveva decidere quale
dei due sacramènta fosse conforme al diritto. La decisione sui sacramènta implicava anche
la decisione sul merito della lite. La lègis àctio sacramènto assume due forme:
in rem: è la forma originaria, applicata per far valere la signoria
inerente a rapporti assoluti o per accertare lo status di una persona. Le parti si recano
davanti al magistrato in iùre, dove deve essere portata la cosa (o parte di essa), o la
persona alièni iùris, intorno alla quale si controverte.
In iùre ognuna delle parti tocca la cosa in questione con una bacchetta, e afferma la propria
ragione pronunciando parole solenni. Dopo che le parti hanno così rivendicato la cosa,
interviene il magistrato, il quale ordina loro di lasciare la cosa. Le parti mediante la pronuncia
di parole solenni, addivengo allo scambio dei sacramènta, con cui il giudice è investito della
questione e alla sua decisione le parti sono vincolate. Dopo lo scambio dei sacramènta, il
magistrato attribuisce il possesso provvisorio a quello dei litiganti che offre maggiori
garanzie; intervengono garanti per la restituzione della cosa e dei frutti in caso di
soccombenza del possessore provvisorio. Così la questione è portata davanti al giudice
privato, il quale deve limitarsi a pronunciare quale dei due giuramenti sia conforme o meno
al diritto.
lègis àctio sacramènto in persònam. Qui abbiamo l’affermazione
di un attore che tiene dietro la negazione del convenuto. Qui le parti non si recano
d’accordo davanti al magistrato, ma l’attore chiama in giudizio il convenuto, che è tenuto a
seguirlo sotto la minaccia della mànùs inièctio; in iùre l’attore afferma la propria ragione e,
se il rèus nega, si addiviene allo scambio dei sacramènta con l’intervento dei rispettivi
garanti in caso di soccombenza. Anche qui il giudice si limita a pronunciare il giuramento di
chi dei due sia conforme al diritto. Qualora invece il convenuto confermi la pretesa
dell’attore, il magistrato ne dispone la cattura, da parte dell’attore, che apre la via al
procedimento di esecuzione.
b. lègis àctio per iùdicis arbitrìve postulatiònem: era esperibile soltanto per far valere
determinate ragioni.
Nella lègis àctio per iùdicis arbitrìve postulatiònem manca lo scambio dei sacramènta e il
giudice è direttamente investito della questione. L’attore afferma in iùre le proprie ragioni e il
convenuto le nega, dopo di che l’attore si rivolge al magistrato affinché assegni un giudice, il
tutto attraverso la pronuncia di parole solenni. È probabile che questo tipo di processo sia
sorto per azioni divisorie: successivamente applicato ai crediti nascenti dal contratto formale
spònsio. In origine, trattandosi di dividere cose comuni, o di assegnare terreni d’incerta
spettanza, si richiedeva al magistrato di nominare un tecnico, per ripartire i beni tra gli
interessati. Non trattandosi di un conflitto diretto d’interessi, non poteva trovare applicazione
la lègis àctio sacramènto, quest’ultima particolarmente onerosa in quanto era necessario
impegnare somme di danaro a titolo di scommessa. La nuova figura, molto meno
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macchinosa, indusse il legislatore nella legge delle XII Tavole, ad estenderne il campo di
applicazione ai crediti da spònsio.
c. lègis àctio per condictiònem: introdotta nel III sec. a.c. per i crediti di somme
determinate di danaro ed esteso ai crediti di cose determinate. È il più semplice dei mòdus
agèndi: non solo anche in esso manca lo scambio dei sacramènta, ma l’attore si limita ad
affermare con parole solenni l’esistenza del credito e il suo ammontare. Se il rèus negava,
l’attore lo invitava a ripresentarsi dopo trenta giorni dal magistrato per farsi assegnare un
giudice. Il nome condìctio, dare convegno, indica l’invito a ripresentarsi dinnanzi al
magistrato. Se durante i trenta giorni non era intervenuto un accordo, che avesse reso inutile
la seconda udienza, il magistrato nominava un giudice, affidandogli il compito si dare la
sentenza sull’esistenza del credito.
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Il magistrato, anche nel processo formulare, mantiene la propria funzione giurisdizionale
autoritativa, emette provvedimenti decisori. Tra questi, due sono fondamentali:
a. dàre ìudice: nominare il giudice, scelto dalle parti in un albo curato dal magistrato, e
investirlo del potere di giudicare;
b. dàre iudìcium: emanare la formula, ovvero provvedimento di carattere decretale e
decisorio applicata al caso concreto.
c. Denegàtio actiònes: talvolta la decisione del pretore poteva consistere nel diniego del
giudizio, ovvero di nominare il giudice. Questo non solo quando la ragione non era tra quelle
riconosciute, ma anche quando la ragione era tra quelle riconosciute ma, con
apprezzamento discrezionale, egli riteneva che la sua realizzazione potesse condurre a
conseguenze inique.
Se l’azione era dàta, la questione controversa era sottoposta al giudice dal magistrato
mediante formula scritta, con la quale veniva enunciata la regola di diritto doveva applicare,
valutando, con i mezzi probatori, la concreta situazione di fatto, per concludere se
sussistevano o meno gli elementi per condannare il convenuto. Il giudice non era mai
investito della soluzione delle questioni di diritto, ma doveva limitarsi a indagini sul fatto.
Il magistrato, quale designato alla formulazione dei termini giuridici della controversia, finiva
spesso per creare ex nòvo vere e proprie norme: questo potere creativo è alla radice del ius
honoràrium.
La ripartizione di compiti tra magistrato e giudice, si basava sulla risoluzione di due diversi
ordini di problemi: la valutazione della circostanza di fatto in cui si concreta il rapporto
controverso, e la formulazione delle regole di diritto alla luce delle quali esso va valutato.
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5.17 Vari tipi di formule
a. Fòrmulae in ius e fòrmulae in factum: le formule sono correlate a ragioni
riconosciute dal ius civìle o ritenute degne di protezione dal pretore. Nelle prime l’intèntio la
questione è posta in termini di diritto, nel senso che si afferma un diritto soggettivo
dell’attore, o un obbligo giuridico del convenuto. Ma il pretore accorda la tutela giudiziaria
anche a rapporti non riconosciuti dal ius civìle, ma da lui ritenuti degni di protezione: in tali
casi è impossibile porre l’intèntio in termini di diritto, e pertanto la ragione è posta in termini
di fatto, nel senso che si espongono i fatti dedotti dall’attore e si attribuisce al giudice il
potere di condannare il convenuto se questi risultino veri.
b. Fòrmulae ùtiles. Si tratta di un altro modo utilizzato dal pretore per estendere la
propria tutela ai rapporti non riconosciuti dal ius civìle. In questa ipotesi egli procede per
analogia, estendendo la tutela a situazioni di fatto diverse, ma più o meno analoghe ad altre
cui il ius cìvile, ricollegava il sorgere di effetti giuridici.
c. Fòrmulae fictìciae. (c’è una fictio) Formule caratterizzate dalla circostanza che in
esse viene indicato un elemento di fatto che in realtà non esiste, o la non esistenza di un
elemento che in realtà esiste. Sono usate quando il pretore estende la propria tutela a
rapporti analoghi a quelli già presi in considerazione dal ius civìle, ma diversi da essi per
qualche elemento: al tal fine si suppone l’esistenza di una circostanza di fatto che in realtà
manca, e che se esistesse renderebbe il rapporto tutelabile dal ius civìle.
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5.19 Classificazione delle azioni: actiònes in rem e actiònes in persona
La classificazione principale delle actiònes (ragione) è quella che si contraddistingue in:
a. actiònes in rem. Come già visto a proposito del processo per lègis actiònes, questa
distinzione si traduceva in una differente struttura: nell’àctio in rem il convenuto doveva
affermare una propria ragione di fronte alla ragione fatta valere dall’attore, mentre ciò non
avveniva nella àctio in persònam. Nel processo formulare invece il convenuto, anche
nell’àctio in rem, non è tenuto ad affermare una propria ragione nei confronti dell’attore.
Secondo Gaio, sono azioni in persònam, quelle con cui si fa valere un diritto di credito verso
una persona determinata; sono azioni in rem quelle in cui l’attore vanta un diritto soggettivo
èrga òmnes: proprietà, usufrutto, titolo di erede, ecc, poste a difesa di diritto soggettivi
assoluti.
b. actiònes in persònam. Con questo tipo di azione si profilano rapporti giuridici di
obbligazione, sia essi riconosciuti dal ius civìle o anche dal pretore; con l’ àctio in rem si
profilano rapporti di tipo reale. L’ àctio in persònam è posta a difesa dei diritti soggettivi
relativi e l’avversario contro cui potrà essere esperita l’azione è predeterminato. Questa
distinzione si ripercuote sulla struttura diversa della formula.
Altra differenza, che sussiste nel processo formulare tra i due tipi di azione, è quella
connessa alla differente alternativa posta al convenuto:
a. nell’ àctio in persònam, il convenuto può confessare oppure accettare di contestare la
lite;
b. nell’ àctio in rem, il convenuto può disinteressarsi della cosa, autorizzando di fatto
l’attore a portarsi via con sé, o al pretore di ordinare di trasferire la cosa, oppure rem
dèfendere, impegnandosi nel processo.
59
La capacità di essere parte e la capacità di stare in giudizio non sempre concorrono in capo
allo stesso soggetto: es. il filiusfamìlias non può essere parte, ma può stare in giudizio.
Ulteriore presupposto per la costituzione del rapporto processuale è la legittimazione attiva o
passiva dell’àctio, ossia la competenza ad ottenere o risentire degli effetti giuridici
dell’esperimento dell’àctio.
Come nel negozio giuridico la legittimazione spetta ai titolari degli interessi che dal negozio
ricevono il regolamento, così la legittimazione dell’àctio compete normalmente ai soggetti del
rapporto litigioso; ma come la legittimazione nel negozio può spettare a persona diversa,
quando il titolare degli interessi non abbia la capacità o la possibilità di provvedere da sé,
così anche la legittimazione dell’àctio può spettare a persone diverse, quando manchi la
capacità o l’opportunità di sostenere la relativa lite. In questo caso si ha il fenomeno della
sostituzione processuale.
Quando al soggetto del rapporto litigioso faccia difetto la capacità, sostituto processuale sarà
il titolare dell’ufficio privato cui è connesso il regolamento di interessi dell’incapace (tutore,
curatore); quando soggetto del rapporto processuale è una persona giuridica, sostituto sarà
l’organo nella cui competenza rientra; quando al soggetto del rapporto litigioso fa difetto solo
l’opportunità, egli può farsi sostituire da un cògnitor o gli può subentrare un procuràtor,
ovvero, nella veste di convenuto, un defènsor.
Il rapporto processuale una volta costituitosi con la lìtis contestàtio, rimane definitivamente
identificato nei suoi elementi soggettivi e oggettivi, così come non è più ammesso un
mutamento delle parti o del giudice.
60
di concorso delle azioni. Es: concorso dell’azione penale con un’azione ripersecutoria;
cumulo delle azioni penali.
5.27 L’appello
La sentenza del giudice o la pronuncia del magistrato può essere gravata da appello, ossia
l’istanza con la quale il soccombente si rivolge ad un’autorità superiore a quella che ha
emanato la sentenza, chiedendone la riforma, cioè l’emanazione di una sentenza più
favorevole.
61
5.28 Il processo di esecuzione
Sia nel processo formulare che in quello lègis actiònes, non si può procedere all’esecuzione
della sentenza, che mira a far ottenere all’attore una somma pecuniaria, in quanto la
sentenza non è titolo esecutivo. La sentenza di un giudice privato non è un provvedimento
autoritativo in cui sia insita di per sé una efficacia esecutiva, ma soltanto un parere
vincolante dal quale scaturisce, se di condanna per il convenuto, un’obbligazione. Il
condannato ha trenta giorni per adempiere alla prestazione in danaro che ne costituisce il
contenuto; trascorso inutilmente questo termine senza che le parti abbiano trovato un
accordo, l’attore riporta il convenuto dinnanzi al pretore per mezzo di una ius vocàtio
(convocazione). Comparse le parti, il magistrato rivolge al convenuto una solenne
intimazione ad adempiere all’attore di pagare; se l’intimato non paga e non oppone
argomenti giustificativi al proprio comportamento omissivo, il magistrato con proprio decreto
autorizza la dùctio, ossia l’esecuzione sulla persona: l’attore era così autorizzato a condurre
il condannato a casa propria e tenerlo in custodia. Questa prigionia privata non era
preordinata alla riduzione in schiavitù o all’uccisione del condannato: questi poteva
riacquistare la libertà prestando il proprio servizio per un periodo proporzionato alla somma
dovuta.
Se invece l’intimato resisteva all’ordine del magistrato, opponendo ragioni valide in merito
all’inesistenza dell’obbligo verso l’attore, e tali ragioni erano considerate rilevanti dal
magistrato, il quale pertanto non concedeva la dùctio, l’attore insoddisfatto aveva la facoltà
di intentare contro il convenuto un’azione in persònam di cognizione, impegnandosi in una
nuova lìtis contestàtio; impegnandosi in essa il convenuto accettava di rischiare, se giudicato
perdente, una condanna pari al doppio dell’ammontare della prestazione.
Accanto all’esecuzione personale, a cominciare dall’ultimo secolo della Repubblica, il pretore
istituì, sul piano del ius honoràrium, una forma di esecuzione sul patrimonio: caratteristica è
che tale forma di esecuzione investiva l’intero patrimonio del debitore: questi veniva
spogliato dell’intero patrimonio e sostituito da un nuovo titolare, comparatore dei beni, che si
assumeva l’obbligo di pagare i creditori: la procedura prese il nome di bonòrum vendìctio.
La bonòrum vendìctio produce la infàmia del debitore che la subisce, ovvero una grave
diminuzione della capacità del soggetto.
Accanto alla bonòum vendìctio, che ha carattere concorsuale simile all’odierna procedura
fallimentare, vi è il pìgnus in càusa iudicàti càptum (pegno ottenuto in forza di cosa
giudicata), che consiste nel prendere i singoli beni del debitore, per autorità del magistrato,
ottenendo soddisfacimento dalla vendita delle cose pignorate.
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f. La possibilità che la sentenza, invece di condurre a una condanna pecuniaria,
imponesse coercitivamente un comportamento, la cui attuazione era assistita dalla forza
pubblica.
g. La possibilità di appello, con più di un grado di giudizio; conseguenza
dell’ordinamento gerarchico delle cariche in un regime imperiale.
Con le cognitiònes extraordinàriae cambia l’ideologia alla base del fenomeno processuale:
mentre nella lìbera res pùblica il processo vedeva la preponderanza dei soggetti privati – le
parti e il giudice – in confronto con l’unico soggetto pubblico – il magistrato – e l’organo
giudicante traeva la propria legittimazione a pronunciarsi, da un accorso tra attore e
convenuto sull’oggetto del contendere, nel processo imperiale il giudice non è determinato
dai privati, ma è precostituito dall’organizzazione permanente dello Stato.
Durante l’intera età classica i processi celebrati secondo il nuovo rito convissero, in quantità
minoritarie, con i processi formulari, integrati con la possibilità di invocare l’intervento
riparatore del principe; solo durante la fase della monarchia assoluta, il rito della cognitiònes
extraordinàriae prese poco a poco il sopravvento, fino a divenire esso stesso processo
ordinario per tutte le controversie.
6 I DIRITTI REALI
6.1 La proprietà. Osservazioni generali
Diritto reale designa il rapporto, tutelato dall’ordinamamento, che esiste tra un soggetto
titolare di una cosa, in virtù del quale è imposto ai terzi un obbligo puramente negativo di
astenersi di interferire nel rapporto tra il titolare, e la cosa stessa.
A secondo del tipo di relazione, che può essere più o meno stretta o onnicomprensiva, si è
venuto storicamente costituendo una pluralità di diritti reali tipici, che si distinguono a
seconda del loro contenuto.
Il diritto reale per eccellenza è la proprietà, che nel senso di astensione e non ingerenza, ha
per i romani la sua forma tipica nel domìnium ex iùre quirìtium; mentre si distinguono per i
loro contenuto, più limitato, i diritti reali su cose altrui, distinti a loro volta dai diritti reali di
godimento (usufrutto, enfiteusi, superficie) e i diritti reali di garanzia (pegno, ipoteca).
Questa partizione dei diritti, tipica della dottrina moderna, non corrisponde esattamente a
quella romana, nella quale è espressamente considerata la contrapposizione, dal punto di
vista dei mezzi di tutela che ne assicurano la realizzazione, tra diritti reali e diritti di
obbligazione (àctio in rem e àctio in persònam): mentre il diritto di obbligazione implica
un obbligo di cooperazione da parte del soggetto passivo per la realizzazione
dell’interesse del soggetto attivo, nei diritti reali il soggetto passivo è tenuto a un non
fàcere.
L’assolutezza del diritto di proprietà, tuttavia non esclude che ad esso possano essere
apportati dei limiti; ma una sua caratteristica peculiare e che le eventuali limitazioni, che
possono ridurre i diritto a mero titolo, non sono mai considerate definitive, e ogni volta che
qualcuna viene ad estinguersi, il proprietario subentra di nuovo automaticamente,
nell’esercizio delle facoltà sottrattegli: caratteristiche che prende il nome di principio di
elasticità del dominio.
64
La terminologia impiegata dai romani per indicare la proprietà (domìnium sul piano del diritto
sostanziale; mèum èsse àio, sul piano del diritto processuale) denota il carattere di
assoggettamento totale, di signoria da parte del proprietario su un bene.
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irreversibile comporta tra i due proprietari un regime di comunione, sempre che si abbia dato
vita a una nuova res (specificazione).
e. Acquisto di frutti: si determina al momento della separazione dalla cosa madre, a
favore del proprietario, usufruttuario o possessore in buona fede; quest’ultimo è tenuto alla
restituzione dei frutti non consumanti al proprietario rivendicante.
66
Alienante e acquirente si recavano davanti al magistrato, e qui l’acquirente, tenendo in mano
la cosa o una sua parte rappresentativa, pronunciava cèrta vèrba della lègis àctio, e toccava
la cosa con una bacchetta, la fèstuca (segno di appartenenza nel diritto romano). Il
magistrato a questo punto interrogava l’alienante, se a ciò intendesse opporsi con
un’asserzione eguale e contraria: questi da parte sua taceva, rinunciando ad un’opposizione
per lui certamente vittoriosa. Constatato l’abbandono della lite da parte di uno dei fittizi
contendenti, il magistrato assegnava la cosa all’unica parte attiva.
Di origine antica, utilizzata anche come modo normale di costituzione di diritti reali minori,
cadde in disuso alla fine dell’età classica.
6.6 Tradìtio
Tradìtio designa la materiale consegna di una res da un soggetto all’altro, senza alcuna
formalità. Perché l’effetto della tradìtio sia quello del trasferire la proprietà, occorre che
sussistano alcuni presupposti, senza i quali la semplice consegna non può sfociare in un
vero negozio di alienazione. Tali sono:
a. che oggetto della tradìtio sia una res nec màncipi; a cominciare dal I sec. a.c. se si
tratta di una res màncipi, la tradìtio trasferisce il possesso efficace per l’usucapione, tutelato
dal pretore.
b. Che la res sia in proprietà del cedente, o quanto meno in suo possesso;
c. La concorde volontà dell’acquirente e del cedente di trasferire da uno all’altro la cosa;
d. Una iùsta càusa traditiònis, ossia un rapporto tra cedente e acquirente tale che
l’ordinamento giuridico riconosca sufficiente il passaggio di proprietà;
e. L’effettiva consegna della cosa o la sua messa a disposizione dell’acquirente.
68
La distinzione fra domìnium ex iùre Quirìtium e bònis habère, vale a dire tra proprietà civile
e proprietà pretoria, si base sulla distinzione del ius civìle e del ius honoràrium. Quest’ultimo,
posto in essere dagli editti pretori, pur non potendo derogare in linea di principio al ius civìle,
ne costituì un aggiornamento, attraverso il riconoscimento di situazioni di fatto meritevoli di
tutela giuridica. In particolare la situazione di fatto protetta dal magistrato era quella di chi
avesse ottenuto la disponibilità di una res màncipi trasmessagli con la tradìtio, invece che
con la mancipàtio o con la in iùre cèssio.
Il diritto pretorio lo proteggeva spacciandolo per possessore in buona fede fino a quando
questi non acquistava la proprietà con l’usucapione.
Per questo si parla di “avere la cosa tra i propri beni”-“in bonis habere rem”, perché era il
pretore che ti consentiva di tenerla fino a che non si sistemava la faccenda.
Stessa cosa quando si acquistava da colui che non era proprietario della cosa, sarebbe la
nostra tutela dell’affidamento.
A questa tripartizione della proprietà romana, è connessa una pluralità di mezzi processuali
predisposti per renderne effettivo l’esercizio; è la diversità di tali mezzi che qualifica
diversamente il rapporto tra il soggetto e la cosa.
Come difendersi dallo spossessamento se si è proprietari?
In caso di attacco alla proprietà civile, al dòminus spossessato compete in età antica la legis
actio sacramento in rem, poi con il processo formulare la rèi vindicàtio.
Se invece si trattava di proprietà repubblicana, il pretore forniva l’Actio Publicana. L' actio
publiciana è un' actio ficticia (si basa su una fictio iuris, una finzione giuridica). Permette di
tutelare l'acquirente in buona fede che non sia riuscito a divenire formalmente proprietario
per avere trascurato di eseguire le formalità necessarie all' acquisto di un bene( es:
mancipatio o in iure cessio, necessarie per l'aquisto di res mancipi).
Se l’attacco al proprietario era posto per limitare il suo godimento del diritto di proprietà
troviamo rimedi come l’Actio negatoria: questa era data al proprietario contro chi vantasse
sulla cosa diritti reali parziari(usufrutto, servitù prediale).
6.10 Comunione
Oltre che a un solo soggetto, la cosa poteva appartenere in proprietà a più titolari: la
comunione. Essa può costituirsi per volontà dei soggetti che vi partecipano – comunione
volontaria -,sia per fatti indipendenti dalla volontà – comunione necessaria.
Il problema della proprietà di una cosa a più titolari, è stato risolto dal diritto romano in modi
diversi a seconda che si tratti dell’età antica o dell’età classica.
Nell’età arcaica, alla morte del paterfamìlias, i suoi beni passavano in proprietà ai figli in
comune, formano una comunione indivisa.
Nella comproprietà classica, vige il principio secondo cui a ciascuno dei comproprietari è
titolare di una parte ideale, ossia una quota. Tale principio sancisce che ciascun contitolare
può esercitare il suo diritto sulla propria parte ideale della cosa, purché sia compatibile con i
diritti altrui esistenti: può cedere la propria quota, o costituire su di essa diritti reali parziali,
ma non può ledere i diritti altrui.
Al principio generale della non interferenza degli atti di ciascun condomino con i diritti pro-
quota degli altri, sono riconosciute due eccezioni:
69
a. iùs adcrèscendi: diritto di accrescimento. quando una delle quote in cui il diritto è
suddiviso viene meno, il fenomeno dell’elasticità del dominio fa si che il diritto dei restanti si
accresca automaticamente, estendendosi sulla quota abbandonata.
b. iùs prohibèndi. Ogni compartecipe ha il diritto di porre il veto su qualsiasi innovazione
materiale, a qualunque opera di qualsiasi comproprietario, sulla cosa comune.
La comunione si estingue con il venir meno della pluralità dei titolari: ciò può avvenire per
alienazione o abbandono della quota da parte di tutti i comproprietari fino a che ne rimane
uno solo; normalmente si scioglie per volontà dei compartecipi, ciascuno dei quali può in
ogni momento, trasformare la quota di ciascuno in altrettanti singoli diritti di proprietà
attraverso l’indicium communi dividundo.
70
si trovava anche usato, per indicare la situazione di chi, pur essendo giuridicamente titolare
di uno status, si comportava come se lo fosse di fatto e ne veniva socialmente considerato
come titolare effettivo.
Protezione interdittale venne concessa nel diritto classico ai titolari, effettivi o presunti, di un
diritto reale su cosa altrui (usufrutto, superficie). Per distinguere queste situazioni da quelle
in cui ricorreva un possesso vero e proprio, alcuni giuristi parlarono di quàsi possèssio.
71
L’azione data al titolare del fondo dominante cui fosse contestato il proprio diritto di servitù
era una vindicàtio servitùtis. Formule analoghe e contrarie erano contenute nell’editto
pretorio, a favore del proprietario di fondi che altri pretendessero gravati da servitù.
L’estinzione della servitù può intervenire per rinuncia esplicita del titolare, consistente in una
mancipàtio o in iùre cèssio a favore del proprietario del fondo servente; per il non uso
durante il periodo corrispondente a quello richiesto per l’usucapione degli immobili. Per le
servitù che non richiedono un comportamento attivo, si ha estinzione soltanto in seguito a un
atto compiuto dal proprietario del fondo servente e protrattosi senza opposizione dall’altra
parte; per modificazione dello stato dei fondi, tale da farne venir meno l’utilità della servitù;
per confusione, ossia la concentrazione nella stessa persona della titolarità dei due fondi.
72
della restituzione alla scadenza, dalle cose consumabili in altrettanta quantità, peso e
misura.
b. Ùsus. Diritto reale parziario intrasferibile di usare una cosa senza percepirne i frutti.
c. Habitàtio. Diritto, conferito ad una persona, di abitare una casa altrui e di darla in
locazione a terzi.
d. Opere di servi ed animali. Diritto di usare delle opere degli schiavi e degli animali
altrui.
6.23 La superficie
Il principio dell’illimitatezza della proprietà romana classica escludeva la sua divisione per
piani orizzontali. Si presentava tuttavia spesso l’esigenza di conferire un minimo di stabilità a
certe situazioni, in cui con il consenso del proprietario qualcuno aveva costruito sul suolo
altrui, con l’accordo che gli fosse garantito il massimo grado di disponibilità dell’edificio.
Dapprima attraverso la stipulazione di obbligazioni e successivamente attraverso l’intervento
del pretore, il diritto di superficie venne gradualmente rinforzato.
73
Nel diritto giustinianeo, la superficie è definitivamente un diritto reale su suolo altrui. Il
superficiario, in virtù del suo diritto, aveva l’assoluta disponibilità dell’edificio, che poteva
alienare senza consultare il proprietario del suolo.
6.25 Ipoteca
L’ipoteca di diritto romano è un diritto reale di garanzia simile al pegno, ma che viene
costituito su cosa di cui non viene trasferito il possesso al creditore. Per costituirla, basta una
semplice convenzione tra le parti. Sembra che abbia trovato origine con l’esigenza che il
locatore di un fondo rustico aveva di garantirsi il pagamento del canone di affitto da parte del
conduttore. Il locatore aveva un diritto di pegno sugli animali e gli attrezzi di proprietà del
conduttore. In caso di mancato pagamento della locazione, venne concesso al locatore di
impossessarsi dei beni del conduttore. Tale azione fu poi ulteriormente estesa, dal campo
delle locazioni rustiche a qualsiasi obbligazione, e su qualsiasi cosa corporale oggetto di
convèctio pìgnoris.
7 LE OBBLIGAZIONI
7.1 Concetto di obbligazione
Nelle fonti romane l’obbligazione è un vincolo giuridico, in forza del quale siamo tenuti a
compiere una prestazione, in conformità con le norme del diritto oggettivo vigente.
Da tale definizione emerge il concetto di vincolo personale, che consente di delineare una
nozione più generale di rapporto obbligatorio: è quel rapporto giuridico tra due o più soggetti,
nel quale l’interesse giuridicamente protetto di uno dei soggetti (creditore), trova la sua
attuazione solamente la coopera ione della controparte (debitore). Oggetto dell’obbligazione
può essere qualsiasi comportamento idoneo al soddisfacimento di un interesse: dàre,
trasferire la proprietà di una cosa; fàcere, compiere qualsiasi attività, compresa quella di
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consegnare una cosa senza trasferirne la proprietà; praestàre, garantire un evento
dipendente da altri soggetti o fattori esterni.
75
Solùtio per aès et lìbram. Consiste in un solenne rito del bronzo e della bilancia, che
consacra la liberazione da chi è obbligato da vincoli sorti col bronzo e la bilancia (si presume
fosse attuato quando il debitore si obbligava con il rito della mancipàtio.
Novàtio. Implica l’estinzione di una obbligazione connessa al sorgerne di un’altra sostitutiva
della prima.
Lìtis contestàtio. Estingue l’obbligazione ìpso iùre solo in presenza di alcuni requisiti
processuali.
Contràrius consènsum. Il consenso delle parti estinguer, senza forme particolari, le
obbligazioni sorte dalla stipulazione di contratti consensuali.
Confusione. Ogni qualvolta la poszione di debitore e creditore si concentrano nel medesimo
soggetto.
Estinzione del debitore. In seguito a morte o a càpitis deminùtio, provoca l’estinzione in
due ipotesi: quando il rapporto obbligatorio si basa sulle qualità della persona, o quando sia
sorto da atto illecito – pertanto non trasmissibile agli eredi.
76
Nelle obbligazioni alternative, vengono dedotte due diverse prestazioni, l’una alternativa
all’altra. La scelta spetta, se non vi sono accordi in merito, al debitore. L’impossibilità
sopravvenuta di una delle due prestazioni, rende obbligatoria l’altra prestazione: se anche
quest’ultima, diviene impossibile, per fatto non imputabile al debitore, l’obbligazione si
estingue.
Nelle obbligazioni facoltative una sola è la prestazione base, a cui fa riferimento ogni effetto,
anche se si riconosce al debitore di liberarsi, spontaneamente, anche con un’altra
prestazione.
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I romani ammettevano solo un numero ristretto di casi tipici, al di fuori dei quali l’autonomia
privata non trovava riconoscimento in origine; cominciò a trovarlo solo più tardi, sul paino del
ius honoràrium.
Nell’epoca antica erano riconosciuti come fonte di obbligazione da contratto soltanto pochi
atti solenni verbali, compiuti secondo un rito con formulari rigidi.
In seguito il vincolo del contratto, poté sorgere dalla consegna della cosa ad altro soggetto,
con l’intesa che questi ne facesse un dato impiego e che restituisse in seguito la cosa o un
suo equivalente: qui la solennità diminuisce a vantaggio dell’accordo delle parti.
Successivamente l’elemento volontaristico diviene determinante, con i contratti consensuali,
in cui le obbligazioni traggono forza dal semplice accordo delle parti, su una causa
riconosciuta dal diritto.
In seguito, dapprima su iniziativa del pretore, che munisce di tutela i pàcta, ossia le
convenzioni tra le parti non rientranti nello ius civìle, e poi nell’età imperiale per opera della
giurisprudenza, l’accordo tra le parti (convèntio) su una causa determinata avente un
oggetto lecito e possibile, diviene requisito essenziale del contratto.
Requisiti del contratto divengono la causa e l’accordo, ossia l’incontro tra la volontà delle
parti sul medesimo oggetto. La causa è il fine economico-sociale perseguito dalle parti e
riconosciuto dal diritto secondo schemi preordinati dall’ordinamento. L’accordo, ossia la
reciproca manifestazione di volontà dei soggetti, diretta ad uno stesso fine, richiede nel
diritto classico che tale fine sia specificatamente contemplato dall’ordinamento giuridico.
Solo gli accordi fondati su una causa tipica, riconosciuta dal ius civìle, hanno effetti
obbligatori; effetti che il creditore può rendere operanti, in caso di inadempimento, mediante
un’àctio in persònam.
Per i romani il contratto produce soltanto effetti obbligatori,non essendo in grado di produrre
effetti reali: es. la èmptio-vendìctio (compravendita), non ha l’effetto di spostare la proprietà
della merce e del prezzo da una parte all’altra, ma fa sorgere reciproche obbligazioni di
compiere gli opportuni negozi traslativi (mancipàtio – tradìtio).
Gli effetti obbligatori del contratto romano possono gravare solo su una o su tutte le parti: es.
nel mutuo, contratto unilaterale, l’obbligazione è a carico di un lato solo; nella
compravendita, contratto bilaterale, le obbligazioni esistono a carico di entrambe le parti.
Dal punto di vista della manifestazione di volontà, i contratti non sono mai unilaterali, in
quanto i soggetti coinvolti sono sempre almeno due.
Ancora, i romani eludevano efficacia alla convenzione intesa ad arrecare vantaggio
economico a persona diversa dei contraenti (nullità dei contratti a favore di terzi).
In relazione al sorgere del vincolo obbligatorio, Gaio definisce una quadri partizione: contratti
reali, verbali, letterali e consensuali, che si perfezionano rispettivamente con la consegna
della cosa, con la pronuncia di determinati vèrba, con la redazione di scritture, o mediante il
raggiungimento di un semplice accordo fra le parti.
78
risposta affermativa dell’interrogato, formulata, pena la nullità, con lo stesso verbo della
domanda.
La stipulàtio è il tipico contratto unilaterale, perché crea l’obbligazione a carico del solo
promittente; per obbligare anche l’altra parte è necessaria una seconda stipulàtio, con ruoli
invertiti: in questo caso i contratti sono due.
Oggetto della stipulàtio, può essere di qualsiasi natura lecita; può consistere in un dàre
(somma di danaro, cosa determinata o da determinare), o in un fàcere, o anche in un non
fàcere.
La stipulazione è negozio astratto, al cui schema formale viene fatto ricorso per il
conseguimento di vari scopi. Qualsiasi convenzione e rapporto potevano essere trasfusi in
una stipulàtio, conferendovi veste giuridica meritevole di tutela da parte dell’ordinamento.
Dalla stipulàtio nasce a la tutela del creditore contro il promittente e i suoi eredi una azione in
persona: sia nell’antica procedura lègis àctio, che nel procedimento per fòrmulas.
I requisiti di forma della stipulàtio rimasero in vigore per tutta l’epoca classica. Tuttavia, sulla
base delle consuetudini, invalse l’uso di accompagnare ogni stipulazione con un atto scritto
e sottoscritto da entrambe i contraenti, nel quale si asseriva l’avvenuta stipulazione.
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L’obbligazione a carico del depositario, che ha la detenzione della cosa e non può usarla,
consiste nel custodire la cosa e restituirla al depositante nelle condizioni in cui gli è stata
data, incrementata degli eventuali frutti maturati.
Il comodato (prestito d’uso) è un contratto reale con il quale un soggetto, il comodante,
consegna in detenzione ad un altro soggetto, il comodatario, una cosa inconsumabile,
convenendo che questi la usi in una determinata modalità, prima di adempiere all’obbligo di
restituirla al comodante.
80
tradìtio), ed eventualmente anche gli interessi (usùrae), una volta entrato in possesso del
bene.
A carico del venditore sorgono un’obbligazione principale e due accessorie. L’obbligo
principale consiste nel trasferimento al compratore del possesso del bene: il venditore non è
invece tenuto al trasferimento della proprietà. Questo si spiega in quanto la compravendita
trae origina dal ius gèntium, in cui una delle parti poteva non essere di origine romana, ed
essendo interdetto al ius commèrcii, non vi era la possibilità di trasferire la proprietà di res
màncipi, con le necessarie mancipàtio o in iùre cèssio. Per ovviare a tale situazione, il
contratto di compravendita, costituiva delle obbligazioni in carico alle parti. Obbligazione
secondaria del venditore era quella di garantire il possesso all’acquirente da rivendicazioni di
terzi sulla cosa (garanzia di evizione) e di garantire il compratore da eventuali vizi occulti.
Le garanzie accessorie, anticamente, non discendeva automaticamente dalla
compravendita, ma da un’aggiuntiva stipulazione di garanzia o contro i vizi della cosa.
Nel periodo che intercorre tra la conclusione del contratto e la consegna della merce il
venditore è tenuto ad aver cura dei essa; ma in caso di perimento della cosa per caso
fortuito o per forza maggiore, il rischio è accollato direttamente al compratore, il quale è
tenuto a pagare per intero il prezzo.
Altre pattuizioni aggiunte alla compravendita possono essere quelle della riserva di recedere
il contratto un termine o per mancato pagamento.
7.19 Locazione-conduzione
È un contratto consensuale, bilaterale, per il quale un soggetto, il locatore, si obbliga a
mettere nella materiale disponibilità dell’altro, conduttore, una cosa, che questi si obbliga a
restituire, dopo averla goduta per un tempo determinato nel modo convenuto; al locatore,
secondo le varie ipotesi, spetta un corrispettivo una somma di danaro.
Per i romani vi sono tre sottospecie di locàtio-condùctio:
a. locàtio rèi, consiste nel cedere ad altri il temporaneo godimento della cosa dietro
corrispettivo;
b. locàtio operàrum, consiste nel porre a disposizione di altri, per un dato periodo, la
propria attività lavorativa di persona libera, dietro corrispettivo;
c. locàtio òperis, consiste nel promettere ad altri, dietro corrispettivo, l’attività
complessiva per il conseguimento di un certo risultato (costruire edificio, trasporto merci).
Elementi necessari del contratto sono: consenso delle parti, la cosa (res, operàrum, òperis),
il corrispettivo.
A tutela delle obbligazioni scaturenti dal contratto di locazione-conduzione sono date a
favore delle parti della àctio di buona fede (conferiscono al giudice ampia discrezionalità).
7.20 Società
È un contratto consensuale, bilaterale o plurilaterale, con il quale due o più soci, si obbligano
reciprocamente a mettere in comune, in tutto o in parte, i loro beni o le loro attività, per il
conseguimento di un risultato comune – caratteristica è l’omogenità delle obbligazioni dei
contraenti.
Per l’epoca classica i più diffusi tipi di società sono le socìetas òmnium bonòrum (società di
tutti i beni) e le socìetas unìus negòtii (società di un solo affare).
81
Gli elementi del contratto sono: il consenso delle parti, che nelle società non deve essere
solo iniziale, ma deve persistere nel tempo; i beni e le attività conferiti; lo scopo del
vantaggio patrimoniale collettivo.
Fra le obbligazioni nascenti dal contratto di società è opportuno distinguere tra quelle interne
tra soci e quelle esterne che i soci possono avere con terzi, per il conseguimento del fine
comune.
7.21 Mandato
È un contratto consensuale, imperfettamente bilaterale, con cui il soggetto, mandate, da un
incarico ad un altro, mandatario, che accetta obbligandosi, di svolgere gratuitamente
un’attività nell’interesse del mandante o di un terzo.
Originariamente la funzione del mandatario sarebbe stata svolta dal procuràtor o dal
cògnitor.
Suoi elementi sono: l’accordo delle parti, l’oggetto, l’interesse del mandante o di un terzo.
L’attività del mandatario, che è gratuita, deve essere lecita e determinata; può
ricomprendere qualsiasi attività, non solo il compimento di atti giuridici come nel diritto
moderno.
Dal mandato sorge l’obbligazione, per il mandatario, di eseguire l’incarico accettato e di
condurlo a buon fine, in conformità alle istruzioni ricevute e alla natura dell’incarico. Essendo
estranea al diritto romano al rappresentanza diretta, si rende necessario che il mandatario
trasmetta al mandante, con strumenti giuridicamente idonei, i risultati dell’attività compiuta
82
7.24 Atti leciti non contrattuali
La giurisprudenza classica e l’editto pretorio riconoscevano efficacia obbligatoria, oltre che ai
contratti e figure affini, anche ad altri atti leciti unilaterali non dipendenti da una preventiva
convèntio.
Tra questi la negotiòrum gèstio (gestione d’affari). Essa ricorre quando un soggetto, senza
averne ricevuto mandato e anche nell’ignoranza dell’interessato, e senza esservi tenuto da
proprio ufficio, intraprende la gestione di uno o più affari senza interesse proprio.
Requisiti per la gestione d’affari – inquadrata con Giustiniano nei quasi contratti – sono che
la gestione abbia ad oggetto affari altrui; che il gèstor compia l’attività di gestione per
conseguire un determinato risultato vantaggioso per altri; che l’attività intrapresa risponda a
requisiti di utilità oggettiva.
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Da tale rapporto personale esistente l’ordinamento fece derivare una obligàtio, tutelata dalla
rispettiva azione, esperibile dalla vittima contro l’autore dell’illecito, per ottenere la
corrispondente somma a titolo di pena privata: una sanzione afflittiva che sostituì l’originaria
vendetta.
L’obbligazione penale, sorgeva secondo Gaio da quattro figure principali: fùrtum, la rapina, il
dàmnum iniùria dàtum, l’iniùria.
Le azioni – sia civili che pretorie – derivanti da atti illeciti si differenziavano in parte dalle altre
azioni private, per alcune peculiarità quali: la cumulatività, l’intrasmissibilità, la nossalità).
7.28 Furto
La nozione e configurazione del furto è oggetto di rilevanti mutamenti a seconda dell’epoca
storica del diritto romano. Nell’epoca più antica, grande importanza era attribuita a
perquisizioni solenni, da compiersi con un certo rituale, presso il domicilio del sospettato
autore dell’illecito, quando non vi fosse flagranza.
In origine, il fùrtum, doveva consistere nell’asportazione della cosa dall’altrui sfera di
disposizione, con l’intento di appropriarsene. Nell’età repubblicana tale nozione andò
estendendosi, ricomprendendo ogni danno dolosamente arrecato al altri sia a cose mobili
che immobili.
Attraverso fasi successive la giurisprudenza pervenne a considerare il fùrtum, dal punto di
vista oggettivo, come la sottrazione di cosa altrui, ad esclusione degli immobili, e dal punto di
vista soggettivo, richiese l’ ànimus lùcri facièndi, cioè l’intenzione di procurarsi un vantaggio
patrimoniale attraverso il furto. Elementi del furto per i classici sono:
a. la sottrazione della cosa altrui, che può consistere nella materiale asportazione, sia
nell’indebita appropriazione di cosa altrui già detenuta a titolo lecito (interversione del
possesso).
b. La consapevolezza, che è alla base del dolo dell’agente, del mancato consenso del
proprietario e dell’avente diritto a disporre della cosa;
c. L’ànimus lùcri facièndi, cioè l’intenzione di trarre un vantaggio patrimoniale dalla cosa
sottratta.
Le azioni derivanti dal furto competono, nel caso del furto manifesto, al proprietario o
dell’avente diritto contro il ladro; nel caso di fùrtum nec manifèstum, anche contro il complice
e l’istigatore.
Le azioni di furto sono infamanti e perpetue e possono essere esperite contro gli eredi del
ladro; sono cumulabili con le azioni ripercussorie.
A partire dalla tarda età classica, la persecuzione privata del furto concorre la sua
repressione pubblica.
7.29 Rapina
La sottrazione violenta di cosa altrui, cadeva originariamente, sotto le sanzioni più gravi
riguardanti il furto. Oltre che come fonte di obbligazione penale, la rapina fu oggetto di una
concorrente repressione criminale pubblica.
7.30 Iniùria
Termine impiegato nelle fonti romane in due accezioni: atto antigiuridico e lesione personale.
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Le iniùriae, da intendersi come atto lesivo fisico della persona, comportavano una sanzione
pecuniaria. Successivamente il pretore estese il campo della iniùria anche a ipotesi di
lesione dell’integrità morale altrui, accordando alla persona offesa dal delitto un’azione
formulare. Anche in questo caso alla repressione civilistica si accompagnò, una repressione
di carattere pubblicistico.
8 SUCCESSIONI E DONAZIONI
8.1 Successione e liquidazione del rapporti giuridici
Succèssio è il fatto giuridico di prendere il posto di un’altra persona nella totalità dei suoi
rapporti giuridici trasmissibili. La successione può essere ìnter vìvos, o mòrtis càusa. A sua
volta quest’ultima può essere intestata, ossia regolata automaticamente dalle norme di diritto
oggettivo, oppure testamentaria, cioè regolata da un testamento.
Quando un soggetto di diritto si estingue, i rapporti che facevano a lui capo si possono
interrompere e i suoi beni alienati a nuovi proprietari: si parla di liquidazione dei rapporti del
soggetto estinto. Tali rapporti possono invece venir proseguiti, e l’appartenenza dei beni
continuata, da un altro soggetto subentrante: si parla allora di successione.
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l’eriditando nulla abbia disposto in proposito, o pur esistendo un testamento, esso sia
inefficacie.
A differenza del diritto vigente, per i romani nessuno può morire disponendo per testamento
soltanto di una parte dei rapporti giuridici e del patrimonio, lasciando per quanto non indicato
che provveda la successione legittima.
Se il pàter faceva testamento, le norme sulla successione legittima non potevano trovare
applicazione, e anche se non aveva disposto per tutto il patrimonio, quanto era rimasto fuori
dal testamento andava agli eredi testamentari, in forza di un diritto di accrescimento. Questa
regola attesta il favore per l’eredità testamentaria, a danno di quella intestata.
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La successione pretoria, essendo destinata a sfociare naturalmente nell’usucapione, ha
carattere provvisorio; in molti casi la successione civile e quella pretoria vengono a
coincidere, in quanto è lo stesso erede civile ad ottenere la bonòrum possèssio.
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Secondo il diritto moderno, il testamento è un negozio unilaterale, destinato a produrre effetti
dopo la morte del suo autore, non recettizio (capace di dispiegare la sua efficacia anche
senza essere venuto a conoscenza del destinatario), solenne (forma vincolante),
personalissimo (non è ammessa sostituzione), revocabile; inoltre capace di contenere al suo
interno altri negozi quali manomissioni, legati, nomine di tutori.
Le vicende storiche del diritto romano conoscono tre tipi di testamento:
a. il più antico è il testamento comiziale. Era possibile due volte all’anno, quando allo
scopo era effettuata l’assemblea dei comizi curiali, presieduta dal pontefice massimo, dove il
testatore, mancando eredi legittimi, rendeva nota al popolo una persona che ne avrebbe
preso il posto alla sua morte.
b. Il secondo è il testamento compiuto dinnanzi all’esercito già schierato in battaglia: il
testatore indicava a quali tra i commilitoni desiderava che in caso di morte fossero distribuiti i
suoi beni.
c. Altro istituto molto antico è la mancipàtio famìliae: in caso di morte imminente il
paterfamìlias poteva trasferire con una mancipàtio, tutti i propri beni, ad un altro pàter di sua
fiducia, indicandogli a quali persone avrebbe dovuto darli alla sua morte. L’acquirente
fiduciario, era considerato analogo all’erede; egli assumeva l’incarico di trasferire, alla morte
del venditore, i beni ereditari alle persone che gli erano state indicate. Si trattava di uno
strumento di liquidazione attraverso dei legati.
Dalla fusione del testamento comiziale con la mancipàtio famìliae, i giuristi romani
ricavarono il tipo definitivo di testamento, denominato testamèntum per aès et lìbram. La
denominazione fa riferimento alla mancipàtio, che si compiva con il bronzo (aès) e la bilancia
(lìbra). Le persone che prendono parte al negozio testamentario sono il testatore, il pesatore
della bilancia e cinque testimoni, cittadini romani puberi.
Dell’avvenuto compimento delle solenni dichiarazioni, veniva scritto un breve processo
verbale.
Il negozio testamentario classico richiede la forma scritta, mentre la possibilità di un
testamento orale viene successivamente concessa ai militari in servizio.
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Era ammissibile anche un’istituzione di erede per gradi o linee successive. Si tratta del
negozio della sostituzione ereditaria: Tizio sia erede, se non accetta sia ere Caio.
La sostituzione volgare può essere inserita dopo l’istituzione dell’erede, nell’eventualità che
l’istituito non voglia o non possa accettare.
La sostituzione pupillare, ha riguardo del figlio impubere, che in quanto tale, morto il suo
avente potestà viene affiancato da un tutore. Il negozio consiste nella nomina di uno o più
eredi, nel caso il pupillo muoia, in età impubere, e pertanto incapace di agire e di fare a sua
volta testamento.
8.12 I fedecommessi
Già in epoca precristiana, accadeva che un soggetto, per mancanza di tempo o testimoni, o
per incapacità di ricevere dei destinatari, invece di far uso delle forme dei negozi
testamentari, esprimesse in modo informale, il desiderio che chi avesse conseguito lasciti
ereditari, effettuasse una prestazione a una persona designata o eseguisse il contenuto di
una raccomandazione. Fìdei commìtere, affidare alla correttezza altrui, era la locuzione che
esprimeva tale contenuto di preghiera o raccomandazione mòrtis càusa. Ferdercommesso
divenne il termine atto a designare tale atto di volontà; fedecommissario, designava il
soggetto beneficiario.
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A partire dal I sec. il fedecommesso fu annoverato, tra i negozi giuridici mòrtis càusa
costituenti il contenuto del testamento, accanto all’istituzione di erede, alla nominati di tutori,
ai legati, alle manomissioni dirette. Esso non produceva effetti né sul piano del ius civìle, né
sul piano del diritto pretorio, ma era un istituto facente parte dello ius extraordinàrium. La sua
efficacia aveva carattere obbligatorio, una volta accolto l’istituto nel sistema giuridico
imperiale, l’onorato, il fedecommissario, era considerato titolare di un diritto di credito nei
confronti di chi era stato onerato dalla richiesta.
Oltre che nel testamento, il fedecommesso poteva essere scritto in un documento separato, i
codicìlli.
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8.15 Tutela giudiziaria dell’erede e del bonòrum possèssor
Nella loro qualità di successori, tanto l’erede che il bonòrum possèssor possono esperire le
stesse azioni che competevano al de cùius, purché trattasi di rapporti giuridici trasmissibili.
All’erede spettano in via diretta, mentre al possessore in buona fede, con la formula fictìciae.
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