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ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO

Gaetano Scherillo
Franco Gnoli

1 NOZIONI INTRODUTTIVE
1.1 La denominazione del corso
Per istituzioni si intendono le basi, i fondamenti di una conoscenza; per diritto, l’insieme
organizzato di regole di comportamento nei rapporti tra le persone; per romano si intende
relativo ad un periodo storico, caratterizzato dalla sovranità dell’antica Roma (754 a.c. – 565
d.c.).

1.2 Le basi romanistiche del diritto


La materia trattata nel corso è il diritto romano, ovvero il diritto che resse, organizzandone i
rapporti interni tra i membri, la comunità di Roma nel tempo intercorrente tra la sua
fondazione (754 a.c.), e la conclusione del regno dell’imperatore Giustiniano Augusto (565
d.c.).
Il diritto praticato durante questi 13 secoli di storia ha condizionato e tuttora condiziona
culturalmente gli ordinamenti giuridici di gran parte del mondo. I principi informatori, i
concetti, le terminologie del diritto moderno sono di formazione romana antica; risalire a tale
formazione, chiarendo quali sono le basi culturali del diritto vigente, è il fine di questo corso.

1.3 Diritto soggettivo, diritto oggettivo, obblighi, rapporti giuridici


Possiamo definire con l’espressione diritto oggettivo, le regole, o norme giuridiche
considerate dal punto di vista della collettività di persone che le riconosce esistenti.
Se consideriamo queste regole dal punto di vista delle persone singole, cioè dei singoli
soggetti che a quella particolare situazione di fatto sono interessati, si può dire che
dall’esistenza di queste regole consegue che la collettività riconosce ai singoli altrettanti
diritti soggettivi.
Ai diritti soggettivi, che appaiono l’individualizzazione delle regole generali costituenti il diritto
in senso oggettivo, corrispondono sempre a carico di altri soggetti dei doveri, che ne
vincolano la libertà e assumono il nome di obblighi.
Chiameremo con l’espressione rapporto giuridico la correlazione tra il potere conferito a
qualcuno da una norma per l’attuazione di un proprio interesse e il vincolo corrispondente a
carico di una o più persone. Nel rapporto giuridico si distinguono uno o più soggetti passivi,
ai quali la norma impone obblighi, e uno o più soggetti attivi, nell’interesse dei quali gli
obblighi vengono stabiliti. La stessa norma del diritto oggettivo impone obblighi ai primi
soggetti e abilita i secondi, a pretendere dai primi l’osservanza degli obblighi gravanti su di
loro.
1.4 Criteri per la composizione dei conflitti
Come nasce la necessità di stabilire regole e vincoli e a che cosa servono in concreto tali
regole e tali vincoli che costituiscono l’essenza del diritto?
Premessa è la definizione di bene, come tutto ciò che serve a soddisfare l’interesse
dell’individuo. In qualsiasi momento storico, i beni non sono disponibili all’infinito, ma sono
accessibili in quantità limitata. Questo entra in contrasto con il fatto che, tendenzialmente,
ogni individuo ha interessi illimitati. Risulta altrettanto evidente che questo comporta il
sorgere di un conflitto di interessi tra gli individui.
Sorto il conflitto per il perseguimento di un bene personale, questo può trovare soluzione
unicamente attraverso il sacrificio dell’interesse di uno a vantaggio dell’interesse dell’altro.
Schematicamente i possibili modi di risoluzione del conflitto sono:
1. composizione violenta del conflitto d’interessi, attraverso il ricorso alla forza –
minacciata o temuta.
2. tuttavia la conservazione di un bene superiore, oggetto dell’interesse di tutti, quale la
conservazione dell’aggregazione sociale, suggerisce alle persone che vi è in pratica un
modo più comodo ed efficace per la risoluzione dei problemi, ovvero la composizione
volontaria dei conflitti d’interesse. Questo implica la determinazione volontaria di quali siano
gli interessi da sacrificare e quali quelli da soddisfare – allo stesso tempo vi è però la
necessità di decidere di volta in volta quale sia la soluzione migliore.
3. l’individuazione preventiva, o opera di un’autorità sovra-ordinata ai particolarismi dei
singoli, di un criterio costante e non violento per risolvere i conflitti permetterà una
composizione autoritativa dei conflitti d’interesse; essa può considerarsi uno strumento
necessario per la sopravvivenza della vita associata, una funzione necessaria alla vita di
ogni comunità a carattere permanete: famiglia, associazione, stato. L’autorità cui è conferito
il potere di comporre i conflitti di interessi fra i membri di una comunità, si serve di criteri di
risoluzione preventiva, costituiti da regole o norme, le quali servono allo scopo di preordinare
la risoluzione autoritativa dei conflitti, si chiamano norme giuridiche.

1.5 Le norme giuridiche


Le norme giuridiche vengono introdotte come criteri da applicare in una comunità per
ottenere la composizione autoritativa dei conflitti che nascono tra i suoi membri.
Norma significa regola, definizione che se applicata al vivere sociale, può significare regola
di comportamento (norme sociali, norme di costumo, norme morali): quest’ultime non
vengono considerate norme giuridiche, perché non servono da criterio per la composizione
autoritativa dei conflitti di interesse.
Posto che il fine primario delle norme di diritto è stabilire quali interessi debbano essere
tutelati e quali viceversa subordinati ai primi, occorre aggiungere che l’attuazione di tale fine
necessita di una organizzazione, che è tanto più complessa quanto più è articolata e vasta la
comunità alla quale i soggetti appartengono.
Definiremo le norme giuridiche come “le regole, munite di forza coattiva, che organizzano
una collettività provvedendo alla composizione autoritativa dei conflitti di interesse tra i
consociati”.

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1.6 Caratteri delle norme giuridiche
Appartengono alle norme di diritto i caratteri della generalità, dell’astrattezza, della positività,
della coercibilità.
Il carattere della generalità consiste nel fatto che le norme si rivolgono alla generalità dei
consociati, non a singoli individui.
Per ciò che attiene all’astrattezza, si deve considerare che solitamente nella struttura di una
norma giuridica vi è la previsione di una situazione tipica, corrispondente ad uno schema
definito a priori, al quale la norma ricollega una conseguenza. La norma contiene la
previsione di un’ipotesi, e deve essere enunciata in modo che vi rientrino tutti i casi o
fattispecie.
La positività delle norme giuridiche è implicita nel fatto che esse sono stabilite da una
collettività organizzata. Sono pertanto giuridiche esclusivamente le regole che quella
comunità in quel momento storico si è data.
Il carattere della coercibilità delle norme giuridiche si riferisce al fatto che è possibile
ottenere l’applicazione concreta di una norma giuridica per mezzo dello Stato.
Ma in realtà non è per il timore delle conseguenze sanzionatorie che la maggior parte
dei soggetti applica di fatto i precetti della norma, ma perché li accetta in quanto utili,
o perché corrispondono a principi morali diffusi, o anche per semplice conformismo.

2 PARTIZIONI, FONTI, INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO

1.7 Partizioni sistematiche del diritto oggettivo: pubblico e privato


Fine principale della norma giuridica è di regolare in anticipo i futuri conflitti di interesse,
predisponendo gli strumenti organizzativi idonei ad attuare tale funzione. Assume la
denominazione di diritto oggettivo il complesso delle norme di una comunità, considerato dal
punto di vista della collettività che le pone, invece che dal punto di vista dei singoli che ne
sono destinatari e fruitori.
L’insieme delle norme oggettivamente considerate, essendo strumentale alla tutela degli
interessi relativi ai beni, venne ripartito dai giuristi romani, in due fondamentali categorie
d’intessi: gli interessi individuali e gli interessi collettivi. Il diritto pubblico si riferisce all’assetto
della comunità di Roma, mentre il diritto privato attiene all’interesse delle singole persone.
Sono individuali gli interessi dei singoli, da cui l’aggettivo privátus; sono collettivi gli interessi
della comunità considerata come un insieme di persone, pópulus, da cui l’aggettivo públicus:
da ciò venne formulata la partizione delle norme di diritto in ius privátum e ius públicum.
Posto che tutto il diritto, sia privato che pubblico, è al servizio della pacifica realizzazione
degli interessi delle persone, intesi come singoli che si trovano a vivere in modo associato, le
norme di diritto privato sono dirette a proteggere interessi facenti capo in modo diretto agli
individui, realizzando indirettamente la tutela dell’interesse pubblico; al contrario, le norme di
diritto pubblico sono dirette a proteggere gli interessi che sono assunti in modo diretto come
propri dalla comunità, e che così per via indiretta garantiscono la tutela degli interessi dei
singoli.
Con riferimento al diritto romano devono essere precisati due principi:
1. il diritto pubblico non può essere modificato, dal punto di vista delle sue applicazioni,
dalle convenzioni concluse dai privati. Mentre i privati possono, mediante accordi tra loro,
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regolare liberamente gli interessi mediante la composizione volontaria dei conflitti
d’interesse, la loro discrezionalità non può spingersi fino al punto di derogare una norma
considerata obbligatoria del diritto pubblico. La volontà dei privati non può derogare a norme
di ius públicum. In relazione a questo si può richiamare la tripartizione della dottrina
moderna: norme imperative, che sono inderogabili; norme dispositive, alle quali è ammessa
deroga da parte dei privati; norme suppletive, che operano soltanto nei casi in cui i privati
non abbiano fatto ricorso alla composizione volontaria dei conflitti (se in un contratto non si è
previsto cosa succede in caso di inadempimento, esistono queste norme che vanno a
supplire questa mancanza di previsione da parte delle parti).
2. nella concezione romana, tutte le volte che il pópulus Románus, era parte in un
rapporto giuridico, la sua attività era disciplinata dalle norme di ius públicum, il che gli
conferiva una posizione di supremazia in confronto ad altri soggetti. Oggi invece per valutare
se un rapporto giuridico sia regolato dal diritto pubblico o dal diritto privato ci si riferisce alla
natura, prevalentemente collettiva o individuale, degli interessi che si vogliono regolare.

1.8 Partizioni sistematiche del diritto oggettivo


La distinzione delle norme del diritto oggettivo in norme di diritto comune e norme di diritto
singolare prende spunto dal giurista Giulio Paolo per il quale: il diritto singolare è quello che
è stato introdotto dall’autorità dei legislatori in difformità dai normali principi a vantaggio di
interessi speciali.
Si possono pertanto distinguere norme di diritto che hanno per destinatari tutti i soggetti di
una comunità, formando nel loro insieme norme di ius commúne, i principi giuridici applicabili
alla generalità delle persone; e norme di ius singuláre, le quali, in deroga ai principi comuni,
per scelta dei legislatori, contengono previsioni riservate, alla considerazione di interessi
particolari.
Privilégium, nella Costituzione della Repubblica romana, era un provvedimento, avente i
caratteri formali della legge, diretto a danneggiare una persona folicamente avversa, ad
esempio qualificando a posteriori come reato un fatto da questi compiuto precedentemente.
Durante l’età imperiale i privilégia mutarono significato, assumendo quello di trattamento
normativo favorevole.

1.9 Precisazioni terminologiche su Stato, Legge, Norma


Lo Stato è una tra le varie esperienze di comunità permanente: l’esistenza del diritto non
presuppone l’esistenza dello Stato. L’esistenza e la necessità delle norme dipende dalla
volontà che qualunque aggregazione umana, esprime col dare a se stessa delle regole di
composizione dei conflitti e di organizzazione interna allo scopo di continuare ad esistere.
Come oggi la comunità di stati europei è un’associazione di soggetti sovrani, ma non uno
Stato unico, così nell’antica comunità di Roma, attraverso una primitiva fase federativa, fu
costituita una aggregazione di gruppi sovrani, denominati gentés; tale aggregazione
conosceva sia norme regolanti i rapporti fra le gentés, sia norme gentilizie, diverse in tutto o
in parte per ciascuna gens.
Quando si furono riuniti in uno Stato unitario, i romani della Roma repubblicana continuarono
comunque a riconoscere che laddove è presente un’organizzazione stabile di persone, lì è
presente il diritto.

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Ricordarsi poi che legge non è un sinonimo di norma.

1.10 Fonti del diritto


Il diritto è prodotto da fatti, che ciascuna comunità considera idonei a conferire positività a
regole nuove, le quali vengono inserite, nel loro stesso ordinamento. Questi fatti vengono
chiamati fonti di produzione del diritto.
Le fonti di produzione si distinguono in fonti autoritative e fonti non autoritative: le prime
consistono in attività di organi, ai quali la collettività ha conferito la competenza a produrre
norme e la cui positività è fondata sull’autorità posseduta e riconosciuta da essa; le seconde
consistono in fatti, la cui positività riposa nel consenso riconosciuto dai consociati
(consuetudini).
Si chiamano fonti di cognizione dei diritto i mezzi attraverso i quali le norme di un
ordinamento possono essere conosciute. Affinché una norma abbia il carattere della
positività è sufficiente che essa sia scaturita da una delle fonti di produzione riconosciute
come idonee dalla comunità medesima. Anzi, si può far poggiare la positività delle norme
sulla volontà della maggior parte dei loro destinatari di considerarle precetti giuridici.
Almeno in parte la fortuna di cui hanno goduto sino a noi le norme prodotte dalla comunità di
Roma antica, dipende dal fatto che il nucleo fondamentale di esse non fu opera di legislatori,
ma nacque direttamente dal consenso dei cittadini.
Dal punto di vista delle fonti di produzione, la storia romana verrà suddivisa in tre periodi:
1 il primo corre dalle origini della Comunità 754 a.c. fino alla seconda metà del secondo
secolo a.c., periodo nel quale dagli editti pretori iniziò a svilupparsi stabilmente un diritto dei
magistrati (ius honorárium).
2. il secondo periodo comprende gli anni che vanno dalla metà del II sec. a.c. alla prima
metà del III sec. d.c., quando con la morte di Alessandro Severo (235 d.c.), si concluse il
periodo della giurisprudenza classica.
3- il terzo periodo va dalla morte di Alessandro Severo fino alla morte, nel 565 d.c.
dell’imperatore Giustiniano, al quale è dovuta l’iniziativa della compilazione, delle fonti di
cognizione allora ritenute più importati.

1.11 Il periodo antico e il ius civíle


La costituzione romana del primo periodo, si modellò sullo schema della città-stato, cívitas. I
soggetti costitutivi o organi di tale costituzione erano : uno o più magistrati, un consiglio di
anziani – senátus, e una o più assemblee di cittadini – comítium nel quale erano inquadrati i
maschi atti alle armi.
Durante questo periodo, corrispondente a una civiltà di allevatori e contadini-soldati, la fonte
prevalente fu la tradizione del costume, costituente i móres, letteralmente i costumi. I móres
erano fonti non autoritative, a carattere consuetudinario, la loro positività derivava dall’essere
una pratica tradizionale, che si tramandava immutata da generazioni, perché il loro
contenuto precettivo era inteso quale regola facente parte dell’ordine naturale, che vincolava
sia le divinità che gli esseri umani.
L’insieme delle regole prodotte dai móres, nell’età arcaica, aveva come destinatari i Quirítes,
antichissima denominazione dei cittadini romani e si chiamava ius Quirítium. Di origine

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esclusivamente consuetudinaria, esso si applicava soltanto ai Quiriti e non alle persone di
nazionalità diversa.
Il ius Quirítium costituì il diritto oggettivo durante l’età della monarchia, nel corso della quale
– tra l’III e IV sec. a.c. – al vertice della città stato, la cívitas, stava un magistrato unico e
vitalizio, avente la qualifica di rex. Dopo la transizione dalla monarchia alla repubblica,
avvenuta verso la fine del IV sec. a.c., il rex fu sostituito da una coppia di magistrati dal
potere diseguale il praétor màximus e il praétor mìnor.
L’inizio dell’età repubblicana coincise con l’insorgere di un grave conflitto sociale che
contrapponeva i cittadini membri delle géntes, potenti aggregazioni minori provviste di una
notevole autonomia rispetto alla cívitas, che formavano il ceto gentilizio; e i cittadini estranei
alle géntes, costituito dal ceto plebleo.
Il complicarsi della vita sociale coincise – nel corso del periodo repubblicano fino al 23 a.c. –
con il progressivo abbandono del nome Quirítes a contrassegnare i destinatari dei móres,
con la sostituzione di un generico cíves: ius civíle, venne detto il diritto oggettivo comune a
tutti i cittadini; la sua fonte continuo a consistere nei móres, i quali essendo tramandati
oralmente richiedevano degli interpreti che li identificassero di volta in volta. Tale funzione fu
ricoperta per tutto il periodo antico, da sacerdoti che, in seduta segreta, rilasciavano dei
pareri giuridici, denominati respónsa e diretti ai richiedenti, che li consultavano per sapere
quali fossero le norme del ius civíle e come andassero applicate alle singole controversie.
Dopo l’avvento della fase repubblicana dello stato-città alla fonte consuetudinaria delle
norme si venne aggiungendo una fonte autoritativa, denominata lex: essa consisteva in un
provvedimento deliberato dall’assemblea del popolo, il comizio, su proposta di un
magistrato, munita di approvazione del senato. La nuova fonte proveniva dalla
collaborazione di tre organi, riconosciuti dalla cívitas come sovraordinati ad essa.
Le singole léges erano fonti autoritative di produzione perché poste in essere da organi
pubblici, ai quali la collettività aveva conferito l’autorità di emanare provvedimenti generali e
coercitivi; ciascuna léges conteneva una o più norme giuridiche, messe per iscritto. La lex
divenne fonte di produzione, ma anche di cognizione.
Durante l’età repubblicana, le poche léges vennero aggiungendosi alle molte norme di
costume, móres, senza sostituirle. Il diritto oggettivo nel suo complesso continuò a
consistere in norme di natura consuetudinaria, interpretate dai giuristi attraverso i respónsa.
Anche la famosa legge delle XII Tavole dovette essere in prevalenza una codificazione
scritta di norme consuetudinarie preesistenti, attuata per definire una volta per tutte la fonte
di cognizione esposta al pubblico.
Nel primo periodo il diritto romano rimase nel suo complesso un ordinamento a carattere
consuetudinario e giurisprudenziale (le consuetudini potevano venire identificate e applicate
solo per mezzo dell’opera di consulenza tecnica dei giuristi).

1.12 La giurisdizione dei pretori e gli editti


L’attività che si occupa della composizione autoritativa dei conflitti di interesse si chiama
giurisdizione: compito primario dell’organo romano della iurisdíctio era la scelta e la
dichiarazione delle norme secondo le quali ciascun conflitto avrebbe dovuto essere deciso.
La funzione giurisdizionale era svolta in Roma da uno dei magistrati della città-stato: nell’età
più antica dal magistrato supremo, il rex, al quale successero con la repubblica due

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praetóres, ai quali spettò più tardi il titolo di cónsules. Quando però i consoli furono assorbiti
primariamente da compiti militari e di governo, venne loro affiancato un praetór urbànus al
quale fece capo la giurisdizione civile.
Si denomina processo privato, il complesso degli atti successivi, tra loro legati dallo scopo
dell’accertamento e dell’esecuzione coattiva degli interessi privati, giudicati degni di tutela
nelle fattispecie controverse.
Durante la repubblica prendevano parte al processo quattro soggetti:
1. l’attore – àctor – cui si doveva l’iniziativa di agire per far valere il proprio interesse
contro quello di un altro soggetto;
2. il convenuto - réus – portatore di un interesse in conflitto con quello dell’attore. L’attore
e il convenuto costituivano le parti del processo.
3. il magistrato, cui spettava di presiedere alla risoluzione della controversia.
4. il giudice privato ,al quale competeva di esprimere l’opinione (senténtia) per mezzo
della quale il conflitto avrebbe trovato soluzione.
Al contrario del magistrato, il iúdex non si trovava inquadrato negli uffici pubblici, ma era un
soggetto privato che il pretore, dietro indicazione delle parti o d’ufficio, incaricava di
conoscere e giudicare delle fattispecie limitatamente a quel singolo processo.
(prima in epoca arcaica abbiamo i magistrato che si fa consigliare dai prudentes vedi pag.
12).
Il iúdex era destinatario di una istruzione da parte del magistrato, il quale gli indicava i criteri
ai quali si sarebbe dovuto attenere per emettere la sentenza, il giudice riceveva dal
magistrato l’indicazione della norma che avrebbe dovuto porre a confronto con la fattispecie
litigiosa e, esaminati gli elementi di fatto e le dichiarazioni prodotte, decidere se avesse
avuto ragione l’attore o il convenuto. In tale decisione consisteva la senténtia, la sentenza
del giudice privato.
Nell’interesse dei privati e per comodità propria il pretore era solito rendere pubblici i criteri ai
quali si sarebbe attenuto nell’istruire il giudice di volta in volta nominato per il singolo caso.
Tali criteri erano fatti redigere per iscritto e pubblicati in un luogo pubblico.
Ciascuna premessa generale di istruzioni a futuri giudici, così come ogni altro provvedimento
scaturente dal pretore, si chiamava edìctum.
Poiché l’editto, pubblicato all’atto dell’inizio di esercizio in carica, era destinato a rimanere in
vigore per un anno – esso col tempo venne a essere denominato edíctum perpétuum.
Considerata la relativa brevità del periodo di durata della carica magistratuale, il nucleo
centrale dell’editto perpetuo veniva accolto e confermato senza modificazioni significative dal
pretore successore.

1.13 Il ius honorárium nel sistema del diritto oggettivo


Il pretore fungeva da organo di applicazione della coercibilità delle norme prodotte dal ius
civíle, e in tale sua funzione, recependole e applicandole, ne confermava l’esistenza; in
secondo luogo egli aveva però anche il potere di supplire a lacune del ius civíle creando
norme sue proprie, per mezzo delle quali, a scopo di giustizia, veniva a riconoscere come
coercibili gli interessi, che la vita associativa della comunità romana desiderava fossero
elevati al rango di diritti soggettivi.

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Lo stesso ius civíle attraverso gli editti pretori veniva continuamente aggiornato, per mezzo
di tutte le modificazioni apportate dai pretori al testo scritto sugli albi.
Poiché hónor era il termine designante la carica magistratuale, fu denominato dai giuristi ius
honorárium, il complesso delle norme scritte negli albi pretori.
A Roma ebbero competenza giurisdizionale il pretore urbano, il pretore peregrino e gli edili
curiali; fuori Roma, nei municipi e nelle colonie i duóviri o i quattuórviri; nei territori extraitalici
i questori provinciali.
Dagli editti di tutti questi magistrati scaturì il ius honorárium, che si venne affiancando al ius
civíle tra gli ultimi due secoli della repubblica e il primo secolo del principato. Procedendo poi
quest’ultimo nella direzione dell’assolutismo, che postulava il controllo del sovrano sopra
ogni attività pubblica, verso il 130 d.c., su iniziativa di Adriano, venne operata una
codificazione degli editti, nel senso che il loro testo, definitivamente stabilito, non poté più
subire modificazioni su iniziativa dei magistrati.
I magistrati assolvevano a una duplice funzione: erano gli organi attraverso i quali il ius civíle
operava nei casi controversi in modo coattivo; in secondo luogo, quando ritenevano giusto
disapplicare regole civilistiche, perché superate da nuovi usi, o addirittura porre in essere
nuove norme, aggiornavano il diritto in vigore, creandone di nuovo.
Anche dopo la cessazione della funzione creativa dei magistrati, il diritto oggettivo, pur
venendo integrato da numerose iniziative legislative degli imperatori, rimase costituito, nella
sua parte più significativa, dai principi del ius civíle integrato dalle regole del ius honorárium.

1.14 Ius civíle e ius honorárium


Lo ius honorárium, fino alla fine del III sec. d.c., si mantenne distinto dal ius civíle. A seguito
del passaggio dal principato alla monarchia assoluta, vennero meno i motivi che
giustificavano la distinzione, e si ebbe un processo di fusione dei due sistemi – in particolare
grazie all’opera svolta dalla giurisprudenza che interpreta i due sistemi coordinandoli.

1.15 Le norme romane di ius géntium


Secondo Gaio, il ius civíle sarebbe il complesso delle norme che ogni comunità politica si
sarebbe posta per se stessa e solo ad essa applicabile; ius géntium sarebbe invece il
complesso delle norme che, essendo fondato sull’ordinamento naturale delle cose, vale
presso tutti i popoli (diritto naturale). Tale concezione muoveva dall’osservazione che alcuni
istituti giuridici si riscontravano – ritenevano si riscontrassero – presso tutti i popoli, in quanto
fondati sulla naturàlis ràtio.
Il ius cívile, prodotto dalle consuetudine dell’interpretazione giurisprudenziale, a cui si
aggiunsero le norme prodotte dalle leggi, valeva soltanto per i romani. I rapporti con gli
stranieri, nella fase più antica, erano scarsi.
Quando però Roma divenne potenza mondiale, l’ordinamento giuridico preesistente non
bastò più: la stessa espansione fece sorgere una serie infinita di nuove relazione che
necessitavano di tutela. Roma vi provvide non tanto estendendo anche agli stranieri, i
peregrìni, l’efficacia del ius cívitas, bensì affidando al praétor peregrìnus, la tutela
giurisdizionale dei rapporti tra romani e stranieri, e tra stranieri e stranieri. Essendo il praétor
peregrìnus, come il praétor urbànus, munito del potere di comando e del potere
giurisdizionale, egli poté organizzare i giudizi indipendentemente dall’applicabilità del ius

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cívile agli interessi in conflitto. Così nella giurisdizione del pretore peregrino, con un
procedimento analogo a quello che condusse alla formazione del ius honorárium, si venne a
creare un sistema di norme, enunciate annualmente dal magistrato, la cui sfera di efficacia
comprendeva le controversie tra romani e stranieri o fra stranieri: tale sistema di norme è il
ius géntium. Nella pratica il magistrato, non potendo applicare il criterio di composizione del
ius cívile, utilizzava adattamenti di istituti civili o recepiva istituti stranieri.
Nel proseguo del tempo le norme di ius géntium si ritennero applicabili anche ai romani, e si
ebbero recezioni di esso sia nel ius honorárium sia nel ius cívile, verosimilmente ad opera
della giurisprudenza. A evoluzione compiuta – I sec. a.c. – il ius géntium, rimase in antitesi
con il ius cívile, indicante quella parte di diritto romano, da qualsiasi fonte prodotto,
applicabile solo ai cittadini romani.

1.16 Le norme consuetudinarie


Sia il ius honorárium che ius géntium furono scritti negli editti annuali dei magistrati, ai quali i
romani, attraverso le elezioni comiziali, attribuivano il diritto di emanare gli editti.
Ma gran parte del diritto oggettivo di Roma cioè lo ius civile continua ad essere a carattere
consuetudinario.
La consuetudine può definirsi il comportamento costante dei consociati con il convincimento
di ubbidire a una regola di diritto. Pertanto la consuetudine consta di due elementi: un
elemento obbiettivo, il comportamento costante dei consociati; e in elemento soggettivo, la
convinzione di ubbidire ad una regola di diritto; non è invece necessario che il
comportamento duri da molto tempo, basta che non sia equivoco.
Per quanto concerne il diritto romano, la designazione propria per le norme consuetudinarie
è móres: considerando che lo stesso appellativo designa le norme di costume, si desume
che all’origine le norme giuridiche e le norme di costume erano indifferenziate.
Altro rilievo: gli ordinamenti primitivo conoscono soltanto la consuetudine, e lo sviluppo di
fonti autoritative richiede una certa complessità nell’organizzazione della collettività.
Per quanto riguarda il diritto privato romano, la consuetudine è la forma di gran lunga
prevalente per un lungo periodo di tempo, malgrado acquistino sempre più terreno le fonti
autoritative. Soltanto con Giustiniano, si afferma almeno in teoria, la prevalenza delle fonti
autoritative sulla consuetudine, alla quale ci si riferisce solo in assenza di altre disposizioni.

1.17 Le norme prodotte da fonti autoritative


Premesso che ogni ordinamento giuridico conosce più fonti del diritto contempo-
raneamente, segue l’analisi dell’evoluzione delle fonti nelle varie fasi di sviluppo del diritto
romano.
1. nella fase del diritto quiritario, sola fonte non autoritativa è la consuetudine. Lo
sviluppo di questo diritto era rimesso a un collegio di sacerdoti, i quali erano custodi e i
conoscitori della tradizione giuridica, i soli che fossero in grado di interpretare il diritto e
dichiarare l’esistenza di un principio implicito nell’ordinamento. Accanto al diritto
consuetudinario si pone la normanzione da parte degli organi della civitàs. Fonte autoritativa
è la legge comiziale, cioè l’approvazione di norme da parte dell’assemblea del popolo, su
proposta del magistrato e ratificata da parte del senato.

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2. L’età classica è contraddistinta da una molteplicità di sistemi. Accanto al ius cìvile,
che permane con le sue fonti (consuetudine e legge comiziale), si pongono dapprima il ius
géntium e successivamente il ius honorárium. Fonte autoritativa del diritto onorario è l’editto
del magistrato, che conteneva l’elenco dei mezzi giuridici che avrebbe applicato
nell’esercizio della sua attività. L’avvento del principato ebbe conseguenze notevoli anche
nel campo delle fonti del diritto. Una nuova fonte di ius cìvile è il senatoconsulto: ovvero il
riconoscimento di efficacia normativa diretta al parere del senato. L’altra, d’importanza
maggiore, è la costituzione del principe, ovvero l’emanazione di norme da parte del
principe – tra cui si annoverano: edìcta, ordinanze di carattere generale dirette a tutti i sudditi
o parte di essi; mandàta, istruzioni rivolte ai funzionari e governatori delle provincie; decréta,
decisioni di controversie concrete sottoposte all’esame del principe; rescrìpta ed epìstulae,
responsi su casi pratici. Con l’avanzare del principato le vecchie fonti del diritto si
inaridiscono: si trattava di fonti troppo legate all’ordinamento cittadino, per essere in grado di
funzionare con il nuovo sistema. Tuttavia esse non furono abolite: la giurisprudenza continuò
ad includerle nel catalogo delle fonti di diritto.
3. Nella fase postclassica, caratterizzata dalla monarchia assoluta, l’imperatore si pone
come unica fonte del diritto. Diviene fonte per eccellenza la costituzione imperiale, ovvero
quel tipo di norme che l’imperato pone come norme generali. Anche in questo caso,
l’affermazione della volontà dell’imperatore, non implica l’abrogazione del diritto prodotto
dalle antiche fonti non più attive, che si designano come ius vétus (diritto antico). Essendo
l’imperato unica fonte del diritto, si sviluppò la tendenza verso forme di catalogazione e
raccolte, nelle quali egli stesso stabiliva quali fossero le opere della giurisprudenza da
considerarsi ius vétus.

1.18 L’interpretazione del diritto


La norma giuridica prevede in astratto un’ipotesi di fatto tipica e contiene una corrispondente
precetto giuridicamente sanzionato: perché sia possibile applicarla al caso concreto, occorre
stabilire esattamente qual è l’ipotesi di fatto tipica prevista in astratto, per vedere se il caso
concreto vi rientri, e inoltre determinare quale sia la portata del caso contenuto nella norma.
L’operazione logica che ha per scopo la determinazione del contenuto delle norme, si
chiama: interpretazione delle norme.
L’interpretazione può essere: autentica, in quanto opera degli stessi organi che hanno
competenza normativa; dottrinale, è opera della scienza giuridica. Le fonti romane
contengono alcune massime di esperienza per l’interpretazione logica delle norme, che nel
diritto giustinianeo, sono diventate altrettante norme vincolanti per l’interprete.
A seconda dei procedimenti usati si distinguono: un’interpretazione grammaticale e una
logica. Nella prima si guarda il significato delle parole e la loro disposizione nel discorso, in
modo da ricostruire il senso letterale della norma; nella seconda si ha riguardo della
posizione della norma nel sistema.
A seconda dei risultati a cui si perviene, si usa distinguere tra un’interpretazione estensiva,
restrittiva o modificativa, a seconda che la portata della norma risulti più ampia, più ristretta,
o comunque diversa dal quel che sarebbe il senso letterale.
Il risultato di questo procedimento è la costituzione del sistema del diritto, cioè la
determinazione di nessi tra norma e norma, l’elaborazione di principi generali.

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Nessi e principi non sono opera arbitraria dell’interprete, ma sono impliciti nel sistema:
l’interprete è colui che ha i mezzi tecnici per renderli evidenti. Ciò spiega l’altra forma di
interpretazione che è l’analogia, a cui si ricorre quando un caso non rientra in nessuna
norma particolare: si fa ricorso a norme che regolano casi simili, o si risale fino a regole
generali che possono disciplinare il caso in esame.

1.19 Interpretàtio e iurisprudéntia


Funzione caratteristica dei giuristi è l’interpretazione delle norme. Tuttavia esiste una
sensibile differenza tra giurisprudenza nel significato moderno e quello nell’accezione
romana. Modernamente si intende con tale termine l’insieme delle sentenze emesse dai
magistrati che esercitano la funzione giurisprudenziale. Quando invece ci si riferisce
all’esperienza romana, con giurisprudenza si indica, il prodotto dell’attività dei giudici,
l’attività interpretativa dei giudici.
Il nucleo più antico di diritto romano fu il ius cìvile, complesso di norme in massima parte di
carattere consuetudinario: non aveva bisogno di essere messo per iscritto per entrare e
rimanere in vigore. Proprio per questo carattere di oralità richiedeva, in sede pratica di
applicazione, l’intervento di esperti conoscitori, i prudéntes, ai quali veniva richiesto di
identificare quali norme fossero applicabili quando vi era un conflitto di interessi.
Riconosciute le norme, veniva richiesto ai prúdentes di formulare la risoluzione della
controversia. Questa serviva alle parti, oppure al magistrato che, normalmente non era un
esperto di diritto, ma piuttosto un privato, eletto per un anno a svolgere la pubblica funzione
di esercitare la giurisdizione.
Né le parti in causa né il magistrato avevano a disposizione un codice da consultare per
leggervi i principi da applicare al conflitto d’interessi; entrambe dovevano ricorrere alla
mediazione del prúdens.
Facendo da filtro tra norma generale e fattispecie particolare, il giureconsulto aveva come
obbiettivo quello di realizzare una soluzione pratica al caso propostogli, in attuazione
dell’idea secondo cui il diritto è la scienza pratica di ciò che è buono e ciò che è giusto.
E non soltanto le norme di ius cìvile erano fatte oggetto di interpretàtio, ma anche le norme
prodotte da fonti autoritative.
Come già ricordato nell’età arcaica la figura del giurista coincideva con quella
dell’appartenente a quella del collegio sacerdotale dei pontefici, ciò per il legame tra norma
di diritto e norma del culto religioso.
Tra il II e il I sec. a.c. la giurisprudenza dei pontìfices viene progressivamente affiancata, e
alla fine sostituita, da un ceto di giuristi laici, provenienti dalle famiglie più illustri di Roma.
Sul finire della repubblica molti appartenenti alle famiglie aristocratiche si specializzarono
nella prativa giuridica gratuita del cavére, dell’àgere e del respondére.
La pratica del cavére, consiste nel prestare assistenza tecnica a che aveva la necessità di
compere un atto giuridicamente importante e comportante rischi elevati se mal formulato.
L’attività dell’àgere corrisponde all’assistenza tecnica di un soggetto impegnato in una
controversia davanti a un magistrato.
Con il termine respondére, che consiste nella risposta ad un quesito relativo all’applicazione
di norme giuridiche a un caso concreto; tali respònsa servivano, tanto ai privato quanto ai
magistrati, per la soluzione di casi attuali e anche futuri.

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Questi venivano annotati per iscritto dal loro autore o dai suoi discepoli: ne nacquero opere
redatte su Lìbri. Tali raccolte, che portavano il nome dei giuristi dell’epoca, contenevano
pareri inerenti controversie di diritto privato.
L’età che corrisponde al periodo di storia costituzionale del Principato, è denominata età
della giurisprudenza classica. A quest’epoca appartiene l’attività più vasta e meglio
documentata dei giuristi romani.

2 Il soggetto di diritto
2.1 Il soggetto di diritto
I concetti di diritto soggettivo e di rapporto giuridico, presuppongono il concetto di soggetto
del diritto. È soggetto del diritto colui al quale il diritto obbiettivo può conferire un potere per
la tutela di un proprio interesse, o in capo al quale può costituirsi un rapporto giuridico. Se
tale potere viene effettivamente conferito, si parla di titolare di un diritto soggettivo.
La condizione di colui al quale l’ordinamento riconosce l’attitudine al conferimento di un
diritto soggettivo, si dice personalità giuridica (presupposto necessario del prodursi di
effetti giuridici in capo ad un soggetto).
Da questo emerge che la personalità giuridica non è qualcosa d’innato, preesistente al
diritto, ma esiste in quanto il diritto oggettivo la riconosce.
Il problema del conferimento della personalità giuridica è un problema di organizzazione, in
quanto l’ordinamento giuridico ritiene che l’attribuzione di un potere per la tutela dei propri
interessi sia funzione socialmente utile. Ogni ordinamento giuridico risolve il problema per
conto proprio, secondo una propria valutazione dell’attitudine dei singoli e dei gruppi di
essere soggetto di rapporti giuridici.
L’attitudine a essere soggetto di diritti o a essere soggetto attivo o passivo di rapporti
giuridici prende il nome di capacità giuridica. Se la capacità giuridica è generica si identifica
con la personalità giuridica; ma può anche riferirsi a singoli atteggiamenti particolari.
Dalla capacità giuridica deve tenersi ben distinta la capacità di agire, che è l’attitudine di
porre in essere atti giuridici. Fondamento ne è la capacità di intendere e volere.
L’ordinamento giuridico ogni qual volta ritiene che un essere umano sia dotato della capacità
di intendere e volere in grado sufficiente, gli riconosce la capacità di agire.
La capacità giuridica riguarda gli effetti della norma, è l’attitudine, il presupposto a che gli
effetti della norma si producano in capo a qualcuno; la capacità di agire riguarda l’attività
necessaria a promuovere gli effetti della norma; la prima è una qualità conferita
indipendentemente dalla volontà del soggetto, la seconda è un’attitudine conferita alla
volontà del soggetto. La capacità giuridica è l’aspetto statico della soggettività; la capacità
d’agire ne è l’aspetto dinamico.
Poiché sono concetti distinti si possono avere soggetti muniti di capacità giuridica, ma privi
della capacità di agire (infante, pazzo), e per converso individui privi della capacità giuridica,
ma dotati della capacità di agire (schiavo).
Anche la capacità di agire può essere intesa in senso generico come attitudine a compiere
atti giuridici, o in senso specifico con riferimento a determinate categorie di atti o negozi
giuridici. Aspetti particolari della capacità di agire sono la capacità di disporre e la capacità di
compiere atti illeciti.

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2.2 Persone fisiche e persone giuridiche
La dottrina distingue i soggetti di diritto in due categorie, l’una comprendente gli individui
umani, l’altra gli enti cui l’ordinamento riconosce personalità giuridica: persone fisiche e
persone giuridiche.
A differenza che nel diritto moderno, nel diritto romano si ha la formazione poco a poco, e
non senza fatica, della figura della persona giuridica, intesa come corporazione.

2.3 Esistenza dell’individuo umano


La personalità giuridica è conferita all’individuo umano – persona fisica: ma perché ciò
avvenga devono concorrere alcuni presupposti fissati dall’ordinamento. Il primo presupposto
che il diritto romano richiede, è l’esistenza dell’essere umano: è necessaria la nascita e che
il feto sia nato vivo.
Il concepito non ancora nato è privo della personalità giuridica, tuttavia la sua posizione è
presa in considerazione dal diritto: in particolare, i diritti soggettivi e i rapporti giuridici che gli
saranno attribuiti al momento della nascita gli vengono riservati e tutelati in attesa che si
compia l’evento della nascita.

2.4 Gli státus


Nel diritto romano, l’esistenza dell’essere umano è condizione necessaria, ma non
sufficiente, perché si abbia un soggetto di diritti. È necessario che concorrano in lui alcune
situazioni rispetto a talune collettività organizzate: tali situazioni sono definite stàtus.
Secondo la dottrina si suole distinguere tre státus: lo státus libertátis, che esprime la
situazione di uomo libero, lo státus civitátis, che esprime la situazione di cittadino romano; lo
státus famìliae, che esprime la situazione occupata nel gruppo familiare. Mentre lo státus
libertátis è in ogni caso necessario perché si abbia la personalità giuridica, per la capacità di
diritto privato devono concorrere lo státus civitátis e lo státus famìliae. Questa reciproca
posizione si spiega tenendo presente che in origine il diritto pubblico e il diritto privato erano
riferibili a ordinamenti giuridici diversi: in tale condizione lo státus rappresenta la condizione
richiesta dall’ordinamento per attribuire la capacità nel proprio ambito. Assunto poi
l’ordinamento delle famìliae entro l’ordinamento della civìtas, la situazione rispetto alla
cìvitas divenne per forza rilevante anche per la famìlia.

2.5 Estinzione della persona


La personalità giuridica viene meno per il venire meno dell’esistenza di uno degli stàtus, cioè
per morte o per càpitis deminùtio.
a. la prova della morte può essere data da chiunque vi abbia interesse o con qualsiasi
mezzo idoneo. Quando più persone fossero morte nello stesso evento, la giurisprudenza le
riteneva morte nello stesso istante.
b. L’estinzione della capacità giuridica per la perdita di uno degli stàtus costituisce la
càpitis deminùtio: diminuzione di persona. Le fonti distinguono tre specie: càpitis deminùtio
màxima, quando si perde lo stàtus libertàtis, la càpitis deminùtio média quando si perde lo
stàtus civitàtis, e la càpitis deminùtio mìnima, quando si perde lo stàtus famìliae. La perdita
di uno stàtus poteva avere rilievo anche per altri ordinamenti: la càpitis deminùtio màxima
aveva come conseguenza anche la perdita dello stàtus civitàtis e familiae; la càpitis
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deminùtio média aveva come effetto la perdita dello stàtus familiae ma non dello stàtus
libertàtis; la càpitis deminùtio mìnima aveva effetto soltanto nei riguardi della famìlia, ma non
toccava gli altri stàtus.
La càpitis deminùtio togliendo la capacità giuridica, ha efficacia estintiva circa i diritti
soggettivi e i rapporti giuridici costitutivi in capo a chi la subisce.

2.6 I sérvi e la loro condizione giuridica


La condizione giuridica di servo, è frutto di un lungo sviluppo storico, che nella sua struttura
si profila secondo un duplice aspetto: servo da un lato è oggetto di diritti, dall’altro è
anch’esso membro del gruppo familiare.
Essenza della condizione di schiavo è un vincolo di perpetua subordinazione considerato
tanto assorbente da annullare la personalità giuridica: vincolo di dipendenza,
originariamente, nei confronti di una gens, di cui lo schiavo faceva parte, ma di cui era
suddito. Ipotizzata dalle fonti è l’origine della schiavitù con la prigionia di guerra: quando i
consorzi gentilizi non erano ancora uniti nella civìtas, è possibile che la prigionia di guerra
generasse un vincolo di subordinazione nei confronti di una gens.
Nella famìlia poi lo schiavo è soggetto al paterfamìlias, alla stessa stregua dei membri liberi.
Venuto poi meno il vincolo di subordinazione dello schiavo alla gens, la condizione di
schiavo divenne mera condizione di coloro che erano privi di personalità giuridica.
La condizione giuridica dello schiavo si può così delineare:
a. lo schiavo non ha personalità nei confronti di nessun ordinamento giuridico. È oggetto
di diritti soggettivi e rapporti giuridici; è oggetto di diritti reali; è una cosa in senso tecnico.
L’unione tra schiavi o tra schiavi e liberi non è matrimonio: da ciò derivano conseguenze
circa la condizione giuridica dei figli nati da tali unioni (i figli seguono la condizione giuridica
della madre). Lo schiavo non ha diritto ad essere parte in giudizio, né come attore né come
convenuto, ma è necessario l’intervento di un dichiarante.
b. In quanto però è individuo umano, e come tale può avere la capacità di intendere e
volere, allo schiavo è riconosciuta la capacità di agire sia in negozi giuridici che in atti illeciti;
data la sua mancanza di personalità giuridica, i rapporti giuridici che ne scaturiscono non
sono in capo a lui, ma al paterfamìlias.
c. All’interno del gruppo familiare lo schiavo è sottoposto alla potestà del paterfamìlias,
come i membri liberi del gruppo. Su questo potere personale si sovrappone la signoria
patrimoniale, la proprietà: lo schiavo è oggetto di domìnium ex iùre Quiritium. Tuttavia
all’interno dell’ordinamento familiare si riconosce allo schiavo, una personalità di fatto, che
ha massimo rilievo nell’istituto del pecùlium – complesso di beni che il paterfamìlias lascia in
godimento e amministrazione allo schiavo.
d. La personalità di fatto è presa in considerazione anche in altre fattispecie: l’uccisione
di uno schiavo non è solo un danno aquiliano, ma è anche un omicidio, e punito come tale.
Così anche il servo ha la capacità di intervenire in giudizio come testimone.

2.7 Fonti della schiavitù


Sono i modi attraverso cui l’individuo umano cade nella condizione di servo. Le fonti romane
classificano tali modalità secondo due categorie: iurìs géntium e iùris civìlis.

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I modi iurìs géntium (prigionia, nascita) sono i modi originari, risalenti ad un epoca anteriore
alla nascita delle civìtas e riferibili alle gens; i secondi, di importanza minore, presuppongono
che sia sorto l’ordinamento della civìtas.
I modi iùris civìlis sono: la consegna del cittadino ad uno stato extra-tevere per liberarsi di
una responsabilità internazionale; la consegna del debitore insolvente; la revoca del liberto
ingrato; la condanna a talune pene gravi.
I modi di iurìs géntium sono:
a. la nascita da madre schiava. Poiché con la schiava non vi è matrimonio, il figlio segue
la condizione della madre al momento della nascita.
b. la prigionia di guerra: anche il cittadino romano caduto in prigionia diveniva schiavo,
ma se ritornava in patria, riacquistava la capacità giuridica e i diritti soggettivi ad essa
connessi.

2.8 Modi di acquisto dello stàtus libertàtis


Allo stàtus libertàtis si perviene per nascita (da madre libera) o per liberazione dalla
schiavitù. Da qui la distinzione fondamentale tra liberi in: ingénui (nati da genitori liberi) e
libertìni (liberati dalla schiavitù).
La liberazione dalla schiavitù avviene con atto di sovranità familiare, la manumìssio
(liberazione dalla mànus, potere del paterfamìlias); mediante il quale in paterfamìlias
rinuncia solennemente alla sua potestà e rende libero lo schiavo.
Le fonti ricordano tre modi di manumìssio secondo lo ius cìvile, i quali, se posti in essere da
chi avesse sullo schiavo la potéstas, rendevano il manomesso libero e cittadino romano.
a. il manumìssio testaménto: il più antico, consiste in una dichiarazione solenne del
paterfamìlias nel testamento; originariamente il testamento era l’atto con il quale si
designava il successore al governo della famìlia – un atto di sovranità familiare.
b. La manumìssio cénsu – che presuppone l’ordinamento della civìtas – consiste
nell’iscrizione dello schiavo, ad opera del paterfamìlias, nelle liste del censo;
c. La manumìssio vindìcta, era stata creata utilizzando il processo di libertà: un
assertore, d’accordo con il paterfamìlias, affermava dinnanzi al pretore, la libertà dello
schiavo e il magistrato, in mancanza di contraddizione, pronunciava libero lo schiavo.
Nel proseguo del tempo nel costume sociale di introdussero altre forme non solenni di
manumìssio (ìnter amico, per ménsa, per epìstulam), le quali però non erano riconosciute
dal ius civìle, e quindi senza effetto di fronte ad esso.
Tuttavia, a difesa dei manomessi in tali modi, intervenne il pretore che negò la vindicàtio in
servitùtem, restando teoricamente schiavi, ma vivendo come liberi.
Il controllo della civìtas sulle manomissioni, si esplicò non solo prescrivendo forme solenni,
ma anche impedendo, ove concorressero determinate circostanze, che i manomessi
acquisissero la cittadinanza (es: stabilendo una proporzione tra il numero di schiavi del
testatore e manomessi; oppure le manomissioni in fronde ai creditori, dichiarate nulle).
Nel diritto di Giustiniano, la schiavitù rimarrà un istituto conservato in omaggio alla
tradizione.

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2.9 Lo stàtus civitàtis
Lo stàtus civitàtis ha riguardo all’appartenenza alla cìvitas; denota la condizione di membro
di quella collettività organizzata. È condizione per avere la personalità giuridica, in
conformità con il ius civile. Lo stàtus civitàtis si acquista:
a. per nascita. La prole nata tra persone fornite di connùbium segue la condizione del
padre al momento del concepimento; la prole nata fuori dal matrimonio segue la condizione
della madre al momento della nascita.
b. Per atto sovrano della cìvitas, la quale ammette nella collettività un nuovo membro, e
può riguardare un singolo individuo o collettività organizzate.
c. Per atto sovrano del paterfamìlias, che manomette uno schiavo in uno dei modi
riconosciuti dallo ius civile.
Rapporti fra l’ordinamento della cìvitas e quello delle famìliae: dato che il primo si pone
superiore all’altro, ne segue che lo stàtus civitàtis è rilevante ai fini dell’attribuzione dello
stàtus familiae.
Gli stranieri non hanno la capacità giuridica, ma possono avere la capacità di agire, secondo
il ius civile; hanno invece capacità giuridica secondo il ius géntium. : il commèrcium è la
capacità di compiere con i romani alcuni negozi patrimoniali (mancipàtio); il connùbium è la
capacità di unirsi in matrimonio legittimo con cittadini romani.

2.10 Persone escluse dalla cittadinanza romana


Il sistema sopra descritto, si mantenne anche nell’espansione di Roma fuori dall’Italia, dove i
territori annessi sono sottoposti al governo militare di Roma, ma restano fuori dalla civìtas.
Di coloro che sono fuori dalla cittadinanza romana, le fonti citano due categorie:
a. i latìni, comunemente intesi in una condizione intermedia fra quella di un cittadino
romano e quella di peregrìnus.
b. I peregrìni, sudditi di Roma, ma fuori della civìtas, si distinguono tra quelli che
facevano parte di una collettività sottomessa a Roma, e conservata come autonoma.
Con l’estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero (212 d.c.) decadde
ogni distinzione.

2.11 Il matrimonio: definizione e concetto


Nel linguaggio delle fonti pagane il matrimonio appare considerato come una relazione
eterosessuale monogamica permanente di fatto, produttiva di conseguenza giuridiche, ma
non un atto giuridico di per se stesso (parallelo con il possesso – situazione di fatto in cui il
soggetto si trova in rapporto con la cosa).
Il matrimònium del padre e della madre è il presupposto di fatto affinché i figli nati dalla
coppia acquistino la condizione di figli legittimi ed entrino a far parte della famìlia paterna; se
non vi fosse la condizione di matrimònium, essi acquisterebbero la condizione giuridica della
madre e sarebbero figli naturali.

2.12 Gli sponsali


Con il nome di sponsàlia i giuristi designano la promessa di matrimonio, con la quale ha
inizio il fidanzamento ufficiale. Anticamente, e fino al periodo repubblicano, gli sponsali
venivano formalizzati da un solenne impegno verbale, fonte di obbligazione per il
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promittente, coercibile attraverso lo strumento processuale. Dalla media repubblica, gli
sponsali persero rilevanza giuridica, in quanto si ritenne che la coazione giuridica alle nozze
non fosse lecita.
L’istituto riacquistò rilievo, per influenza cristiana, nell’età postclassica: la famiglia del futuro
sposo, versava alla famiglia della sposa, a garanzia della promessa, una soma di danaro,
chiamata àrra; in caso di rottura del fidanzamento per colpa di lui, la somma veniva
incamerata da chi l’aveva ricevuta; mentre se la responsabilità era di lei, la somma doveva
essere restituita per un importo doppio.

2.13 Mànus e matrimònium


Nella famìlia oltre ai figli sottoposti alla pàtria potèstas, alle persone libere sottoposte al
mancìpium del pàter, ai servi sottoposti alla domìnica potèstas, possono essere ricomprese
le donne in mànu, cioè assoggettate al potere del capo famiglia denominato mànus. Si tratta
di una signoria simile alla pàtria potèstas, che il capo famiglia esercita sulla propria moglie, e
sulle eventuali mogli dei figli a lui sottoposti: la moglie in mànu, è considerata nella famiglia
in posizione giuridicamente di figlia del pàter e sorella dei propri figli. Il paterfamìlias acquista
la mànus sulla sposa mediante atti negoziali, o in difetto mediante l’esercizio di fatto
ininterrotto per un periodo di un anno (usucapione).
Durante l’impero, era tuttavia possibile che la sposa, invece di entrare nella famiglia dello
sposo con un matrimonio accompagnato dalla mànus, non si sottoponesse a tale potere
perché lei, essendo sùi iùris, volesse mantenere la propria indipendenza, oppure perché,
essendo lei alìeni iùris, chi aveva potestà su di lei non volesse modificare tale rapporto
giuridico: in tal caso il matrimonio era sìne mànu, e la donna rimaneva giuridicamente
estranea alla famiglia del suo sposo. Assente la mànus, alla morte del marito la moglie non
ereditava nulla da lui.
Fino all’ultima età repubblicana il matrimonio era ordinariamente accompagnato dalla
convéntio in mànum, cioè dall’atto costitutivo del potere sulla sposa, denominato mànus;
mentre dall’ultima età repubblicana all’età imperiale prevalse il matrimonio sìne mànu.
La convéntio in mànum, avveniva in tre modi:
a. la confarreàtio: solenne cerimonia religiosa che aveva come momento solenne,
l’offerta a Giove di una focaccia di farro; tale atto segnava l’inizio della relazione
matrimoniale e l’ingresso della sposa nella famiglia agnatizia (rapporto di parentela
patrilineare) dello sposo.
b. La coémptio: negozio giuridico, variante della mancipàtio, le cui dichiarazioni solenni
erano adottate come causa del trasferimento della sposa dall’una all’altra famiglia.
c. L’ùsus: se non interveniva una delle due forme precedenti, l’acquisto della mànus si
poteva avere attraverso l’applicazione del principio dell’esercizio di fatto – l’ùsus; l’esercizio
di fatto per un anno ininterrotto sanava l’assenza di mànus.
Se si voleva invece evitare che la convivenza fosse accompagnata dalla mànus, i mòres
riconobbero efficacia all’ usurpàtio trinòctii: qualora la donna durante l’anno fosse rimasta
lontana dalla residenza del marito almeno tre notti consecutiva, l’ ùsus non avrebbe prodotto
l’acquisto della mànus sulla sposa, in quanto l’esercizio di fatto era stato interrotto e avrebbe
dovuto ricominciare dall’inizio.

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Perché il matrimonio avesse riconoscimento dal punto di vista del ius civìle entrambe i
coniugi dovevano essere in possesso del connùbium, ossia della capacità giuridica
matrimoniale: esso era posseduto da chi godeva dello stàtus civitàtis, dai Latìni e da talune
comunità di peregrìni favorite da Roma. Senza connùbium, il matrimonio si riduceva a una
unione di fatto e i figli che ne fossero nati seguivano la condizione giuridica della madre.
Erano di impedimento ad un’efficace unione matrimoniale i vincoli di parentela, sia agnatizi
che di sangue, e vari divieti legali, nonché, per i soggetti alìeni iùris, l’assenso dell’avente
potestà.

2.14 Rapporti patrimoniali fra coniugi


Quando il matrimonio era accompagnato dalla mànus l’intero patrimonio famigliare era del
marito o dell’avente potestà su di lui; la moglie, appartenete in tal caso alla categoria dei sùi,
eredi necessari, avrebbe ereditato la propria quota in concorrenza con i figli.
Nel matrimonio senza mànus, vigeva il principio della separazione dei beni: ciascuno dei
coniugi, o del rispettivo avente potestà, manteneva la titolarietà di un patrimonio distinto.
Tuttavia anche nel matrimonio sìne mànu, la moglie se titolare di beni, o altra persona per
lei, doveva apportare una volta tanto un contributo alle spese della vita matrimoniale: questa
condizione patrimoniale si chiamava, dos, dote.
Proprietario della dote restava il marito; su di lui incombeva l’obbligo di restituzione allo
scioglimento del vincolo matrimoniale; per garantirne l’esecuzione si poteva imporre al
marito di prestare cauzione.
Nel corso del principato si affermò la tendenza a limitare l’esercizio del diritto di proprietà del
marito sui beni dotali; nell’epoca di Giustiniano, tale tendenza si orientò al riconoscimento al
marito di usufruttuario della dote.

2.15 La famìlia
Lo stàtus famìlia denota la situazione di fronte alla collettività organizzata della famìlia. Il
vincolo di appartenenza a tale collettività non è un vincolo di sangue – che poteva esistere –
ma la comune subordinazione alla potestà di un capo, il paterfamìlias.
Il termine famìlia si riferisce ad un insieme di persone, unite da una relazione giuridica
specifica o anche da un generico legame che accomuna il complesso di parenti: si parla di
una famìlia pròprio iure e di una famìlia commùni iùre. La prima è costituita dalle persone
che sono sottoposte alla potestà del paterfamìlias: alla morte di questi la famìlia si scinde in
altrettante familiae, quanti sono i filiifamìlias. Ma tra tutti coloro che sarebbero stati soggetti
alla potestà del paterfamìlias, se non fosse morto, permane un vincolo di agnazione, onde
esiste un gruppo formato dagli agnàti: tale gruppo è la famìlia commùni iùre.
Agnazione: è il vincolo che lega tra loro gli appartenenti a una famìlia commùni iure, cioè
coloro che sono attualmente o sono stati sottoposti alla potestà dello stesso. Agnàti: coloro
che sono sottoposti a tale vincolo. La natura del vincolo è autoritativa, cioè la sottoposizione
alla potestà. Si distingue pertanto dalla parentela di sangue, cognàtio, determinata dalla
discendenza per nascita da un comune capostipite. Il vincolo unifica tra loro soltanto i parenti
in linea maschile; sono agnàti anche gli adottivi.

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Anche la cognàtio ha qualche rilevanza per il diritto: è rilevante iure civìli ai fini degli
impedimenti matrimoniali; in antitesi con il ius civile, il pretore fondò sulla cognàtio il suo
sistema di successione intestata.

2.16 Natura della famìlia


Struttura e funzioni della famìlia romana sono ben diversi da quelli di un gruppo di parenti
legati da vincolo di sangue. Sono infatti esclusi dalla famìlia tutti i parenti di sangue in linea
femminile, e gli stessi discendenti in linea maschile ove escano dalla famiglia per ragioni
diverse dalla morte del paterfamìlias; viceversa ne fanno parte anche coloro che vi siano
entrati per atto sovrano di lui; la madre stessa non appartiene alla famìlia dei propri figli, se
non vi sia entrata assoggettandosi alla potestà del paterfamìlias – per mànus.
Il potere che il paterfamìlias esercitava sui soggetti della familia si esprime attraverso la
coercìtio (arrivava al punto del diritto di vita e di morte): poteva venderli, locarne le opere,
abbandonarli in soddisfacimento di una responsabilità per atti illeciti commessi da loro,
esporre o uccidere i neonati.
Si ritiene che tali funzioni dovessero essere preordinate a finalità di ordine interno e di difesa
dall’esterno, di un gruppo non di tipo domestico. La famìlia, costituisce un ordinamento
giuridico autonomo e originario: da tale ordinamento dipendono la struttura del gruppo, le
reciproche posizioni dei suoi componenti, la loro ammissione o esclusione, la funzione e i
poteri del paterfamìlias.
La civìtas, una volta costituitasi, eliminò l’istituzione delle gens ma dovette arrestarsi di fronte
alla famìlia, il cui ordinamento è rilevante di fronte alla civìtas. Anzi originariamente il diritto
privato non è altro che l’ordinamento giuridico dei gruppi familiari, e la contrapposizione tra
diritto pubblico e diritto privato va originariamente intesa come contrapposizione tra
ordinamento della civìtas e ordinamento della famìliae.
Con ciò si comprende come lo stàtus famìliae, cioè la posizione di fronte al gruppo familiare,
sia un presupposto della capacità giuridica. Come lo stàtus civitàtis è la condizione posta
dall’ordinamento della civìtas per attribuire la capacità giuridica del soggetto di fronte a se
stesso; così lo stàtus famìlias è la condizione posta per attribuire la capacità di fronte alla
famìliae.
Avvenuta poi la recezione dell’ordinamento familiare nell’ordinamento della civìtas, lo stàtus
famìlias è rilevante anche per il ius civìle, ma solo per quella parte riferibile ai gruppi familiari.

2.17 Composizione della famìlia


La famìlia è un gruppo di persone il cui vincolo di appartenenza ha carattere necessario ed è
dato dalla comune subordinazione alla signoria del partefamìlias. Una prima distinzione è in
funzione della potestà:
a. chi esercita la potestà è il paterfamìlias: pàter significa signore sovrano, quindi capo
del gruppo familiare; è l’ascendente maschio più remoto del gruppo. Si tratta di un titolo
personale, inerente la posizione occupata nel gruppo, indipendentemente dall’avere dei figli.
b. Dall’altro lato abbiamo le persone soggette alla potestà del paterfamìlias. In origine il
potere era unico, e si faceva sentire in maniera uniforme su tutte le persone soggette. Nel
proseguo del tempo il potere viene a differenziarsi a seconda della diversa posizione
occupata dai soggetti nell’ordinamento familiare. E così abbiamo:

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 I filiifamìlias: soggetti alla pàtria potèstas. Tale posizione spetta ai discendenti in linea
maschile di ambo i sessi del paterfamìlias, sia nati nella famìlia sia entrati per atto sovrano
del paterfamìlia. Tra i figli occupano un posto preminente i sùi, cioè i figli immediati del
paterfamìlias, destinati alla sua morte a diventare capi dei gruppi in cui si scinderà la
famìlia.
 La moglie (ùxor) del paterfamìlia o le mogli dei filiifamìlias, assoggettatesi alla mànus
mediante apposto negozio.
 I filiifamilias altrui venduti al paterfamìlias in espiazione di un torto commesso: in origine
si trattava di veri e propri schiavi che, per influenza della civìtas, fu ammesso che
conservassero lo stàtus libertàtis.
 Gli schiavi soggetti alla domìnica potéstas, oggetto di signoria patrimoniale.
Il solo paterfamìlias è sùi iurìs, cioè indipendente dal potere altrui; gli altri sono aliéni iùris,
cioè in signoria altrui.

2.18 Condizione dei componenti della famìlia


La capacità giuridica di diritto privato spetta solo al paterfamìlias; tutti gli altri componenti non
hanno capacità giuridica.
Egli è anche il solo che abbia competenza dispositiva, compiendo atti di sovranità familiare
sia in ordine alla posizione degli altri membri della famìlia (manomettendo schiavi, facendo
uscire o entrare membri, nominando tutori agli impuberi o alle donne), sia in ordine alla sorte
del gruppo dopo la sua morte.
Tuttavia l’esplicitazione di tale attività non è completamente libera per il paterfamilìas, in
quanto la civìtas la assoggetta al suo controllo, stabilendo limiti a determinate forme di
sovranità familiare; infatti, tutti i più importanti negozi di sovranità familiare richiedono l’uso di
forme solenni, taluni richiedono una forma di controllo formale e, talvolta, sostanziale.
Il paterfamìlias è il solo titolare del patrimonio familiare ed è il solo che ne abbia la capacità
di disporne, sia con negozi ìnter vivos che mòrtis càusa.
Le persone alìeni iùris, che sono tutte prive della capacità giuridica di diritto privato, se
provviste della capacità di intendere e volere, possono avere la capacità di agire, nel senso
che possono compiere atti di acquisto a favore del patrimonio familiare. Non possono invece
fare assumere obbligazioni e rendere responsabile il paterfamìlias, salvo il caso di
responsabilità nossale per atti illeciti da loro commessi. (L' azione nossale è un istituto
giuridico del diritto romano di natura penale. Attraverso questa azione il pater famìlias o il
dominus metteva a disposizione della vittima del reato, o al suo pater famìlias, il soggetto
che l'aveva commesso. Qualora non l'avesse fatto, lo stesso pater famìlias rispondeva
personalmente del delitto commesso).
Ai filiusfamìlias maschi – e soltanto ad essi – già in epoca antica viene riconosciuta una
limitata capacità patrimoniale passiva, ovvero quella di assumere in proprio obbligazioni
civilmente valide e conseguentemente la capacità di essere parte in giudizio come
convenuto. Analogamente a quanto visto per gli schiavi, anche per i membri liberi della
famìlia si parla di pecùlium, complesso di beni lasciati in godimento e amministrazione dal
paterfamìlias, ma per l’ordinamento della civìtas continuano ad essere del paterfamìlias.

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Da Augusto in poi, acquista particolare rilievo il pecùlium castènse, costituito dai beni che i
filiusfamìlias militare acquista in occasione del servizio militare: di tale patrimonio viene
riconosciuta la capacità in proprio di disporre.
Un capovolgimento del principio di unità del patrimonio familiare si avrà, a partire da
Costantino, con i bòna adventìcia: quel complesso di beni provenienti da ascendenti materni
e lucri nuziali, che vengono lasciati in proprietà al filiifamìlias, mentre al paterfamìlias viene
lasciata l’amministrazione e il godimento, costruito come usufrutto legale. Con ciò è
riconosciuta al filiusfamìlias la piena capacità patrimoniale.
Il diritto pretorio ha, d’altro canto, derogato al principio che le persone alièni iùris non
possono – salvo il caso di responsabilità per atto illecito – obbligare il parterfamìlias. Il
pretore, tenendo conto negli scambi commerciali dell’affidamento del terzo venuto in
rapporto con lo schiavo o con il filius famìlias, poteva addossare al paterfamìlias una
responsabilità per i debiti contratti dalle persone soggette alla sua potestà, la quale talvolta si
estende all’intero ammontare del debito, talvolta è limitata al pecùlium.

2.19 I liberti e il rapporto di patronato


La manomissione, l’atto con cui il paterfamìlias rende libero lo schiavo, è un atto di sovranità
familiare e aveva un effetto non solo nei riguardi della civìtas, ma anche di fronte
all’ordinamento familiare.
L’essenza del rapporto di patronato è un vincolo agnatizio tra liberto e patrono o discendenti
maschi del patrono. Da tale rapporto deriva il diritto di successione del patrono se il liberto
muore intestato o senza discendenti sùi, il diritto della tutela del liberto impubere e della
liberta, la reverenza – offìcium – che il liberto deve al patrono (non si tratta di un dovere
morale, ma si concretizza in una serie di limitazioni a carico del liberto, che di fatto ne
limitano la capacità giuridica).

2.20 Condizioni limitatrici della capacità giuridica


Si parla di limitazioni della capacità giuridica quando l’ordinamento giuridico, toglie la
capacità particolare per una determinata categoria di diritti soggettivi e di rapporti giuridici.
Non è possibile tuttavia stabilire con regole a priori quando si abbiano tali limitazioni e quale
ne sia l’ampiezza.
Nelle varie epoche del diritto romano le cause limitatrici della capacità giuridica – le quali
possono contemporaneamente funzionare come cause limitatrici della capacità di agire –
riguardano:
1. la pubblica estimazione – infàmia;
2. l’essere donna;
3. la religione diversa da quella cattolica : in relazione al riconoscimento
del Cristianesimo, quale religione di Stato, la monarchia assoluta limita in vario modo la
capacità giuridica dei dissidenti della religione di Stato.
4. la particolare condizione sociale e professionale: es. coloni, attori.
5. i prigionieri di guerra rientrati in patria attraverso il commercio degli
schiavi.

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2.21 Condizioni limitatrici della capacità di agire
La capacità di agire manca quando l’ordinamento giuridico ritiene che il soggetto sia privo
della capacità di intendere e volere; è invece limitata, quando l’ordinamento ritiene che la
capacità di agire esista, ma sia in misura minore a quella richiesta per taluni atti giuridici.
Se l’incapace di agire è aliéni iùris, la sola conseguenza è che egli non può compiere atti
giuridici per il suo paterfamìlias.
Se l’incapace è sùi iùris, e si tratta di un’incapacità permanente, si pone il problema di
provvedere alla vita e alle vicende dei rapporti giuridici che gli fanno capo. Il problema si
risolve mediante la creazione di un ufficio che si sostituisce, in parte o totalmente
all’incapace; ovvero una cerchia di attribuzioni assegnate ad una persona, per
l’adempimento di una funzione costituita per fine pubblico o per l’utilità di un’altra persona.
Le condizioni che tolgono o limitano in modo permanente la capacità di agire di una persona
sùi iùris sono l’età, il sesso femminile, l’infermità di mente, la prodigalità. Gli uffici organizzati
a protezione degli incapaci sono la tutela e la cura.
La distinzione fondamentale in merito all’età è fra età pubere ed età impubere. È impubere
chi non ha raggiunto la capacità di procreare. Tra gli impuberi si distinguono gli infanti –
coloro che non sanno parlare; fino a sette anni di età -; e infàntia maiòres, coloro che anno
superato l’infanzia ma ancora impuberi: questi ultimi, si ritiene abbiano la capacità di
intendere e volere in grado limitato.
Dopo Giustiniano perde ogni rilievo la distinzione tra puberi e impuberi, e la distinzione
diviene quella tra maggiore e minore età.

2.22 La tutela
Secondo il ius civìle, l’impubere sùi iùris e la donna sùi iùris anche pubere, sono soggetti a
tutela che consiste nella potestà nei confronti di un soggetto libero allo scopo di proteggerlo.
Originariamente si trattava di una potestà familiare: tutore è colui destinato dal testamento, o
in essenza di questo dall’agnato prossimo – ad esercitare la tutela sulle donne e gli
impuberi.
Mentre nello sviluppo storico di tale istituto la tutela agnatizia della donna, divenne
un’integrazione della capacità di agire del tutore mediante l’interposizione della auctòritas, la
tutela degli impuberi si organizza come ufficio protettivo, soprattutto quando la designazione
del tutore iniziò a riguardare la civìtas.
Il tutore nominato dagli organi della civìtas ha il potere di amministrare il patrimonio
dell’impubere e quello di interporre l’auctòritas ai negozi giuridici conclusi dall’impubere.

2.23 La cura dei pazzi e dei prodighi


I pazzi e i prodighi ( prodigo è un soggetto che avendo ereditato dei beni li amministra in
modo sconsiderato e in pregiudizio della famiglia) sono soggetti a cùra. La cura ha per
oggetto l’amministrazione del patrimonio ed esclude ogni interposizione della capacità
deficiente mediante l’interposizione dell’auctòritas. Anche la cura, come la tutela, appare
disposta più nell’interesse dalla famiglia che dell’incapace.
Nel diritto romano più recente, la cura dei prodighi è disposta dal magistrato ed in
particolare, il pazzo viene sottoposto alla cura dell’agnato prossimo, il quale ha ampie facoltà

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di disporre dei beni; il dissipatore di beni (prodigo) viene interdetto dal pretore, il quale
nomina un curatore.

2.24 La persona giuridica. Concetti fondamentali


La persona giuridica è l’ente diverso dall’uomo individuo, cui l’ordinamento attribuisce la
personalità giuridica, ovvero lo riconosce soggetto di diritti.
Si distinguono l’ente corporazione o associazione, là dove prevale l’organizzazione delle
persone, dall’ente fondazione, in cui l’elemento principale è l’organizzazione dei beni.
Nell’una e nell’altra ipotesi si parla di ente morale, alla quale una comunità organizzata
riconosce per scopi meritevoli di tutela, i diritti di persona giuridica.
In quanto fittizi, gli enti morali possono agire nei rapporti intersoggettivi soltanto attraverso
persone fisiche che ne costituiscono gli organi.
La persona giuridica è una collettività organizzata o un’organizzazione di beni destinati al
soddisfacimento degli interessi di gruppo, cui l’ordinamento attribuisce la personalità
giuridica. Requisiti della persona giuridica sono:
1. l’esistenza di una collettività organizzata, che tenda a propri fini e possa essere centro
di interessi di gruppo, ovvero di beni destinati al soddisfacimento di interessi;
2. il riconoscimento, l’atto con cui l’ordinamento giuridico, valutati positivamente gli
interessi perseguiti e ritenuto che promuoverne la tutela sia socialmente utile, eleva la
collettività o l’organizzazione, di fronte a se, quale soggetto di diritti, cioè che abbia la
personalità giuridica.

2.25 Schema della persona giuridica


“se è dovuto qualcosa alla collettività, esso non è dovuto ai singoli: e ciò che deve la
collettività i singoli non lo devono” ( Ulpiano).
La collettività si pone come soggetto distinto dai singoli componenti; trattandosi di collettività
organizzata, la persona giuridica ha un proprio ordinamento interno, con attribuzioni di poteri
e compiti e con regolazioni di funzioni: tale ordinamento, con il riconoscimento, diviene
rilevante anche di fronte all’ordinamento che conferisce la personalità, il quale lo assoggetta
al proprio controllo.
Non essendo la persona giuridica un individuo e perciò mancando di capacità di intendere e
volere, occorre provvedere alla sua capacità di agire: vi si provvede mediante organi.
Gli organi possono essere unitari ( se costituiti da una persona sola) o collegiali ( se costituiti
da una pluralità di persone). Un esempio di organo collegiale nel diritto pubblico sono il
Senato e i comizi.
Gli organi possono essere interni se la loro attività si esaurisce nell’ambito dell’ordinamento
interno della collettività o esterni se pongono la collettività in relazione con altri soggetti.
Il riconoscimento della persona giuridica nella storia fu un processo lungo e travagliato,
dapprima si era intravisto un concetto di persona pubblica, e solo nel diritto giustinianeo si
conobbe il concetto di fondazione.
Non sono ritenute persone giuridiche le famiglie né le géntes, neppure municipi, colonie,
città e neanche la civìtas, la quale, secondo alcuni, presenta una situazione uguale a quella
della famiglia e secondo altri, la collettività si risolve appunto in una somma dei singoli
componenti.

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Infine, l’ordinamento delle persone giuridiche si modella su quello delle città e avremo quindi:
a) come l’ordinamento della città si concreta nella costituzione, così quello della
corporazione si concreta nel proprio statuto che ne determina gli organi e le loro
competenze, l’ammissione dei membri etc.
b) Come di regola gli organi della città sono i magistrati, il senato e l’assemblea del popolo,
così nelle corporazioni abbiamo un ordo collegii, costituito dai membri rivestiti da cariche, e
una plebes collegii, costituita dall’insieme dei membri e in più gli actores (impiegati), preposti
ai singoli affari.
c) Come la città, anche la corporazione ha un patrimonio (res communes) e una cassa (arca
communis), su cui i membri hanno un’aspettativa in caso di scioglimento della persona
giuridica.
La persona giuridica si estingue quando siano venuti meno tutti i suoi membri, può perdurare
anche se questi si siano ridotti a uno solo.

3 L’oggetto dei diritti


3.1 Il patrimonio
L’ordinamento giuridico tutela degli interessi che sono riferiti a dei beni, questi beni sono a
loro volta oggetto di rapporti giuridici e di diritti soggettivi.
Bene è tutto ciò che presenta un’utilità per l’individuo in quanto serve a soddisfare un
bisogno. I beni sono presi in considerazione dall’ordinamento giuridico quando a causa del
loro numero limitato vi è la possibilità che sorgano conflitti di interessi rispetto ad essi.
Il complesso dei beni che fanno capo ad una persona ne costituisce il patrimonio – termine
connesso al concetto di pàter. I beni in senso giuridico comprendono ciò che è soggetto al
nostro potere, sia esso garantito dal iùs civìtas che dal pretore, sia ciò che non è attualmente
soggetto al nostro potere, ma rispetto al quale abbiamo delle aspettative a conseguirlo.
Patrimonio è il complesso di beni spettanti a una persona sotto protezione del diritto e delle
aspettative dirette a conseguirne altri, concepito come facente capo a un titolare, suscettibile
di spostarsi ad un’altra persona.
Si dicono patrimoniali i diritti soggettivi e rapporti giuridici che si riferiscono al patrimonio: tali
sono i diritti reali, i diritti di eredità e i diritti di obbligazione; i primi due comprendono ciò che
è soggetto a signoria, gli altri comprendono le aspettative.
Distinzione profilata nelle fonti è quella tra res corporàles, cioè quelle percettibili con i sensi,
e quelle incorporàles, quali i diritti (attenzione: non è una categoria per beni immateriali).
Originariamente il patrimonio del paterfamìlias doveva comprendere le sole res corporàles,
oggetto di domìnium ex iùre Quìritium, cui successivamente si aggiunsero quelle oggetto di
signoria protette dal pretore, quelle oggetto di proprietà provinciale, e infine con fatica, le
aspettative.

3.2 Definizione di cosa


Res è qualsiasi entità che la coscienza sociale concepisce separata dalla persona, in modo
da vere un’esistenza obbiettiva a sé stante, cui la coscienza sociale attribuisce un valore
economico e socialmente apprezzabile in quanto idonea soddisfare i bisogni umani, e che è
possibile oggetto di signoria.

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Quindi per esempio non sono res i corpi celesti perché non hanno un valore economico
apprezzabile.
È importante sapere che, per i Romani, l’uomo stesso è una cosa nel caso sia in condizione
di schiavitù, sta proprio in questo al differenza tra liberi e schiavi.
Per i Romani sono cose anche le operae, cioè i servigi, considerate frutto dell’uomo, fanno
parte delle res corpolares.

3.3 Criteri generali di classificazione delle cose


Dal punto di vista della condizione giuridica fondamentale, cioè della suscettibilità o meno di
essere oggetto di rapporti giuridici patrimoniali, abbiamo la contrapposizione tra res in
patrimònio e res éxtra patrimònium, cioè tra res in commércium e res éxtra commércium. A
seconda che gli interessi di cui le cose sono centro siano prevalentemente sociali o
individuali, il ius civìle – distingue le res màncipi e le res nec màncipi: accanto a questa
esisteva la distinzione tra cose immobili e cose mobili.
La coscienza sociale poneva in essere ulteriori distinzioni:
a. cose fungibili e cose infungibili
b. cose consumabili e cose inconsumabili;
c. cose divisibili e cose indivisibili;
d. cose semplici, cose composte e cose collettive;
e. parti di cose e accessori;
f. frutti e cose madre.

3.4 Classificazione secondo la condizione giuridica fondamentale


Il criterio posto alla base della condizione giuridica delle cose è la distinzione tra res in
nòstro patrimonio e res èxtra nostrum patrimònium.
Tale distinzione si può formulare nel senso che esse siano in generale suscettibili di rapporti
giuridici patrimoniali e privati o meno.
Quelle umane si suddividono in nullius cioè di nessuno e singulorum cioè appartenenti ai
singoli.

sacre
divine
religiose

Res nullìus
umane pubbliche
singulòrum
private

3.5 Le res divìni iùris


Le res sàcrae sono le cose destinate al culto degli dei, e ad esse consacrate e di essi
considerati di proprietà. La consacrazione è una cerimonia religiosa pubblica; un vero e
proprio negozio giuridico di diritto sacro. Senza la consacrazione pubblica, debitamente
autorizzata, la cosa non diveniva sacra. Tale regime risponde al principio dell’esclusione
degli usi umani: i giuristi le considerano non suscettibili di far parte del patrimonio di alcuno.

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Le res religiòsae. Sono le cose appartenenti agli dei Mani, cioè i sepolcri e gli oggetti
destinati alla conservazione e all’ornamento dei cadaveri. Come le res sàcrae, non sono
suscettibili di far parte del patrimonio di alcuno. Tuttavia esiste un rapporto tra il sepolcro e
una persona a cui spetta di provvedere al culto degli dei Mani, di diritto sacro, riconosciuto
dal ius civìle: il privato è titolare di un diritto soggettivo sul sepolcro, in cui rientrano le facoltà
di vigilare e provvedere alla conservazione del sepolcro, di visitarlo, di deporvi offerte
sacrificali, e di esservi sepolto e di deporvi un cadavere. Quest’ultima facoltà ha un
contenuto economico e pertanto oggetto di negozi giuridici patrimoniali.
Le res sànctae. Le cose che senza essere sacre o religiose, sono difese da ogni violazione
da parte degli uomini e da cui gli uomini devono astenersi, per non incorrere in gravi
sanzioni. Tra queste le mura e le porte, non solo di Roma, ma anche dei municipi.

3.6 Res pùblicae, res universitàtis, res commùnes òmnium


Le res humànis iùris nelle Istituzioni di Gaio, si distinguono in pubbliche e private, a seconda
che appartengano ad una collettività organizzata o ai singoli.
Nella classificazione marcianéa, al posto delle res pùblicae, troviamo la tripartizione res
commùnes òmnium, res pùblicae, res universitàtis, a seconda che le cose si considerino
appartenenti a tutti gli uomini in quanto tali (mare, l’acqua), oppure allo Stato concepito come
persona giuridica (demanio pubblico), ovvero alle città concepite come persone giuridiche
(basiliche, piazze).
Nelle res publicae troviamo le res in usu populi (basiliche, teatri stati, sono i beni demaniali
dello Stato) e le res in patrimonio populi (denaro, schiavi, miniere, saline, beni patrimoniali
dello Stato).

3.7 Cose con prevalente importanza sociale o meramente individuale


L’ordinamento giuridico romano pone una fondamentale distinzione delle cose, a seconda
che esse servano a soddisfare interessi prevalentemente collettivi o prevalentemente
individuali. Questa distinzione si riflette sul regime di circolazione delle merci, in quanto le
cose di interesse sociale sono assoggettate a un più rigoroso controllo da parte della
collettività.

3.8 Res màncipi e res nec màncipi: comprensione e regime


Il catalogo delle res màncipi comprendeva i fondi (anche le case) situati sul suolo italico e
quelli in territori dotati di ius itàlicum; gli schiavi; gli animali da tiro e soma; le 4 servitù
rustiche più antiche.
Tutte le altre cose erano nec màncipi. Le prime erano le cose di preminente importanza
sociale, le seconde quelle di importanza meramente individuale.
Mentre le res nec màncipi potevano alienarsi usando la semplice tradìtio o consegna, le res
màncipi richiedevano per lo stesso effetto, l’uso delle forme solenni di mancipàtio o della in
iùre céssio. In mancanza, fino al compimento dell’usucapione e salvo i rimedi pretori, chi
acquistava una res màncipi restava indifeso, sia contro il trasferente che restava proprietario
sia contro i terzi, dai quali non poteva rivendicarla.
La circolazione delle res màncipi era sottoposta a vincoli in favore del gruppo familiare: le
donne sùi iùris non potevano alienare le res màncipi senza l’auctòritas del tutore.

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Per converso, la circolazione regolare delle res màncipi, era più garantita, perché l’alienante,
in caso di minacciata evizione, doveva intervenire in giudizio per difendere l’acquirente, e
qualora si fosse sottratto, incombeva su di lui una responsabilità pari al doppio del valore
della cosa.
La formazione del catalogo delle res màncipi risale all’età antica, e si tratta di un catalogo
chiuso. Prova di questo è che l’elenco comprende cose che sono d’importanza sociale per
un’economia basata sull’allevamento e l’agricoltura.
Già nell’epoca classica, la distinzione è in decadenza, non più pienamente sentita nella
coscienza sociale. Inoltre la differenza si attenua, perché anche la circolazione delle res nec
màncipi trova garanzia prima, attraverso la stipulazione di apposite garanzie, poi attraverso
una specifica azione da compera.

3.9 Origine della distinzione


La distinzione tra res màncipi e res nec màncipi si affermò entro quei gruppi che costituirono,
successivamente, la civìtas: le gèns e/o la famìlia. La civìtas, recepì del proprio ordinamento,
tale distinzione.
Le res màncipi erano, originariamente le cose di interesse e proprietà comune del gruppo: i
fondi, le case, le cose essenziali per l’agricoltura.
Il mancìpium, è anche una delle designazioni della signoria patrimoniale e politica del
paterfamìlias: le res màncipi cadevano pertanto sotto il potere sovrano del capo del gruppo
familiare, che si faceva sentire in egual modo sia sui membri della famiglia, sia sulle cose
indispensabili sulla vita del gruppo. Nel prosieguo del tempo negli oggetti del mancìpium si
pose una distinzione, per cui le persone restarono oggetto della signoria politica, mentre le
cose furono attratte dalla signoria patrimoniale, che si evolse nel domìnium ex iùre Quirìtium:
da questo momento la distinzione tra res màncipi e res nec màncipi si profila come
distinzione tra cose di rilevanza sociale e cose di importanza personale.

3.10 Decadenza della distinzione. Cose mobili e immobili


La distinzione già in decadenza nell’epoca classica, venne definitivamente abolita da
Giustiniano. Tuttavia la funzione di tale distinzione, nel diritto giustiniano, venne assunta da
quella tra cose mobili e cose immobili.

3.11 Cose fungibili, cose consumabili


Fungibili si dicono le cose appartenenti a uno stesso genere, quando gli usi le ritengono tutte
ugualmente adatte ad adempiere alle stesse funzioni economiche, e quindi considerano
indifferente e reciprocamente sostituibili l’uno all’altro di tali oggetti.
Per contro infungibili si dicono le cose che gli usi del commercio considerano dotate di una
individualità propria e pertanto destinate ognuna ad adempiere una diversa funzione
economico-sociale; non sono indifferentemente sostituibili le une alle altre.
Esempi di cose fungibili: l’olio, il vino, denaro. Esempi di cose infungibili: uno schiavo, un
fondo, vino rispetto a grano.
Vi è anche una fungibilità e infungibilità soggettiva: le parti in un contratto possono sostituire
all’apprezzamento usuale del commercio un apprezzamento proprio, considerando fungibili
cose infungibili, o viceversa.

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Altra distinzione contrappone tra loro le cose consumabili e le cose inconsumabili: anche
questa distinzione è fondata su un criterio economico-sociale. Consumabili si dicono le cose
in cui uso normale consiste nella loro distruzione (alimenti); inconsumabili, il cui uso normale
non ne impone la distruzione, e sebbene logorabili, suscettibili di uso ripetuto.

3.12 Cose divisibili e cose indivisibili


Si dicono divisibili le cose quando, frazionandole, le parti conservano la funzione economico-
sociale che aveva il tutto; indivisibili, le cose la cui funzione economico-sociale del tutto va
distrutta con il frazionamento. Esempi di cose divisibili: fondi, somme di denaro; esempi di
cose indivisibili: un animale vivo, una statua.
Un criterio posto alla base della distinzione è che una cosa può passare da una categoria
all’altra con il mutare della destinazione: una statua di bronzo è indivisibile, ma se
considerata come quantità di bronzo, è divisibile.
Nella pratica le categorie devono sempre essere viste in rapporto alla concretezza della
fattispecie, alla luce delle valutazioni economico-sociali, in un dato tempo e luogo; ciò a
conferma dell’estraneità delle categorie a valutazioni di natura naturalistica.

3.13 Cose semplici, cose composte e cose collettive


Sono semplici le cose in cui gli usi sociali non tengono conto dell’inevitabile pluralità degli
elementi costitutivi, e le parti costitutive cessano di esistere come cose a sé stanti.
Composte sono invece le cose in cui gli usi sociali tengono conto degli elementi costitutivi, il
tutto è considerato dalla congiunzione di più cose che non perdono l’esistenza come cose
distinte.
Sono reputate semplici tanto le cose fornite dalla natura (frutti, piante) quanto i prodotti
dell’uomo (mattoni, vaso); esempi di cose composte: la casa, la nave.
La rilevanza giuridica della distinzione consiste in questo: nelle cose semplici non sono
possibili rapporti giuridici distinti dal tutto e sulle parti costitutive, considerate inesistenti a sé
stanti; nelle cose composte vi è la possibilità di rapporti giuridici sul tutto e sulle parti
costitutive (nave-scialuppe).
Di conseguenza, la cosa altrui incorporata in una cosa semplice è definitivamente persa dal
proprietario, mentre nelle cose composte di regola ciò non avviene.
Infine le cose collettive sono aggregati di cose, non congiunte materialmente tra loro, ma
tuttavia ritenute formare un tutto, avuto riguardo della comune funzione economico-sociale a
cui tutte sono destinate: il gregge, le attrezzature.
Le cose collettive non devono confondersi con le universalità patrimoniali, cioè i complessi
patrimoniali organizzati sotto un unico titolo giuridico.

3.14 Parti di cosa e cose accessorie


Parte di una cosa è ogni elemento – sia incorporato che no – che secondo gli usi sociali è
considerato costitutivo rispetto alla cosa.
È invece accessoria la cosa che ha meramente funzione strumentale, non costitutiva rispetto
alla cosa (principale).

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3.15 Frutti e cosa produttiva
Il concetto di frutto in senso giuridico coincide con il concetto economico di reddito: è frutto
ciò che costituisce reddito della cosa.
I frutti intesi in questo senso possono essere costituiti da parti di una cosa madre, e possono
essere staccati.
Accanto a questi vi sono altri frutti che non sono parti staccate, ma sono puro reddito, in
quanto provengono dall’impiego o dalla gestione economica della cosa: interessi sul
capitale. A loro volta i frutti naturali devono essere considerati in varie fasi, le quali
presentano interesse giuridico distinto:
1. frutti pendenti, quelli ancora aderenti alla cosa produttiva e non ancora esistenti come
cosa a sé stante;
2. frutti separati, quelli staccati dalla cosa madre ed esistenti come cosa a sé e quindi
capaci di rapporti giuridici distinti;
3. frutti percetti: quelli che si sono raccolti; frutti percipiendi, quelli che per negligenza o per
scelta del possessore della cosa si è omesso di raccogliere;
4. frutti esistenti: quelli che si trovano ancora presso il possessore; frutti consumati: quelli
che il possessore ha consumato in senso giuridico (trasformato o alienato).

4 ACQUISTO E PERDITA DEI DIRITTI


3.18 Concetto di fatto giuridico
Ogni situazione di fatto che abbia per effetto l’applicazione di una norma giuridica si dice
fatto giuridico; fatto giuridico è ogni situazione di fatto cui l’ordinamento giuridico ricollega la
produzione di effetti giuridici.
Tutte le circostanze e situazioni di fatto che il diritto non prende in considerazione, sono
lasciate sfornite di conseguenze giuridiche.
Tra gli effetti che il diritto oggettivo ricollega ai fatti giuridici ci sono:
a. l’esistenza, la modificazione o la cessazione dei presupposti necessari al costituirsi,
modificarsi o estinguersi dei rapporti giuridici in capo al soggetto (capacità giuridica, capacità
di agire).
b. L’effettiva nascita, modificazione o cessazione dei diritti soggettivi e dei vincoli
corrispondenti.

3.19 Particolarità relative agli effetti dei fatti giuridici


Circa il prodursi degli effetti dei fatti giuridici abbiamo:
a. effetti propri ed effetti di altro ordine. Se alla fattispecie concreta manca uno degli
elementi che il diritto oggettivo ritiene rilevanti per ricollegarvi gli effetti previsti, tali effetti non
potranno ricollegarsi; dall’altro lato il diritto può ricollegare a talune di queste circostanze
effetti giuridici di altro ordine (vendita nulla).
b. Pendenza dei rapporti giuridici. Normalmente i fatti giuridici producono effetti sicuri.
Quando invece al compimento del fatto segue uno stato di incertezza, si ha uno stato di
pendenza (negozio sottoposto a condizione).
c. Effetti anticipati o prodromici. Durante la pendenza gli effetti propri del fatto non si
verificano, ma possono intanto verificarsi effetti di altro ordine. Es.: il negozio sottoposto a
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condizione sospensiva, finché la condizione non si è verificata non produce i suoi effetti
propri, ma il gravato deve astenersi da tutto ciò che frustrerebbe l’aspettativa della
controparte.
d. Efficacia retroattiva. Normalmente i fatti giuridici producono effetti per il futuro, ma talvolta
questi effetti si fanno decorrere da un momento anteriore al compimento del fatto, si
retrodatano ad un momento anteriore.
e. Efficacia differita o limitata nel tempo. Si ha quando all’attuazione di un rapporto giuridico
si è apposto un termine iniziale o finale: in tal caso gli effetti del negozio cominceranno a
prodursi o cesseranno, alla scadenza del termine.
f. Quiescenza e reviviscenza. Talvolta il fatto giuridico può avere come conseguenza una
fase di paralisi di un rapporto giuridico. Durante la quiescenza il diritto non può essere
esercitato, pur non estinguendosi. La quiescenza può essere eliminata da un fatto
posteriore, per effetto del quale il rapporto giuridico riprende il suo vigore primitivo.
g. Conversione. Effetto di un fatto giuridico può essere una trasformazione di contenuto o di
natura di un rapporto preesistente, effetto di un altro fatto giuridico.

3.20 Classificazione dei fatti giuridici


Dal punto di vista della natura oggettiva i fatti giuridici si distinguono in:
a. fatti positivi e fatti negativi, a seconda che gli effetti giuridici siano ricollegati al
verificarsi di circostanze o situazioni di fatto, o per converso siano ricollegati al non verificarsi
di fatti o omissioni di atti.
b. Fatti semplici e fatti complessi, a seconda che gli effetti giuridici siano ricollegati ad
una sola circostanza di fatto, o per converso ad una pluralità di circostanze variamente
ricollegate tra loro, le quali possono essere contemporanee o successive.
c. Fatti momentanei o stati di fatto continuativi, a seconda che gli effetti giuridici siano
ricollegati alla formazione di una situazione di fatto (semplice o complessa), essendo
indifferente che perduri nel tempo, oppure che questi siano ricollegati alla permanenza di
una situazione di fatto.
Dal punto di vista della valutazione fatta dall’ordinamento giuridico in merito al fatto come
prodotto della volontà umana, ovvero che la volontà umana sia indifferente, i fatti di
distinguono:
a. fatti giuridici in senso stretto, sono fatti per cui l’ordinamento tiene conto soltanto del
risultato, e gli è indifferente che questo sia il prodotto della volontà umana o il risultato di
circostanze da essa indipendenti (frana).
b. Atti giuridici, sono quegli atti che l’ordinamento ritiene il prodotto della volontà umana,
e in cui valuta la volontà che li determina e la coscienza che li accompagna. Se il risultato
della valutazione è favorevole, nel senso che l’ordinamento li approva e li ritiene meritevoli di
protezione, si avranno gli atti leciti. Se invece il risultato della valutazione è sfavorevole, cioè
l’ordinamento combatte i fini cui tende la volontà umana in quei casi , si ha l’atto illecito.
Degli atti leciti è possibile una ulteriore distinzione, a seconda che il loro fine sia o meno
quello del prescrivere un regolamento di interessi. Quando il fine non sia quello di
prescrivere un regolamento di interessi avremo gli atti leciti in senso stretto; viceversa,
avremo i negozi giuridici.

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in senso stretto
fatti giuridici illeciti
atti giuridici leciti in senso stretto
leciti
negozio giuridico

Soltanto alcuni – una minoranza – tra gli atti di volontà umani sono idonei – in date
circostanze previste e formulare dal diritto oggettivo - ad avere rilievo giuridico; tra di essi nel
diritto privato si distinguono, per la funzione svolta di interferire nelle relazioni tra soggetti, gli
atti negoziali: negozio è un atto lecito di volontà che opera dinamicamente nei rapporti tra le
persone, regolandone i rispettivi interessi.

3.21 Concetto e definizione di negozio


Il negozio giuridico è un atto lecito – atto di volontà diretto ad uno scopo valutato
favorevolmente dall’ordinamento – con il quale i privati prescrivono un regolamento
impegnativo ai propri interessi.
Il negozio è uno strumento della composizione volontaria dei conflitti di interesse. Come
abbiamo visto le norme giuridiche forniscono il criterio per la composizione autoritativa dei
conflitti di interesse, forniscono cioè il criterio generale ed astratto posto alla base della
norma da applicarsi al caso concreto; i conflitti si possono però anche comporre
volontariamente, quando i titolari degli interessi regolano autonomamente il modo in cui tali
conflitti debbono essere risolti.
Il complesso dei mezzi che l’ordinamento pone a disposizione per arrivare alla composizione
autoritativa del conflitto è il processo, che consiste in una successione si atti preordinata al
fine di giungere al provvedimento autoritativo che dirime il conflitto. I mezzi con i quali i
privati compongono volontariamente i conflitti di interesse sono i negozi, gli atti leciti con i
quali essi stessi prescrivono il regolamento dei loro interessi.
Ciò premesso è possibile istituire un parallelo tra negozio giuridico e la sentenza che decide
una controversia: l’uno e l’altro sono strumenti per la composizione dei conflitti di interesse,
ma il primo mira alla composizione volontaria, il secondo alla composizione autoritativa. Si
comprende come si ricorra al secondo, soltanto quando il primo non ha effetto.
Il negozio è anche strumento di autonomia privata. Il negòtium, tra le diverse accezioni,
significa affare, è un atto di autonomia privata contenente un regolamento di interessi
considerato come impegnativo dalla coscienza sociale: il regolamento di interessi, l’affare,
diventa negozio giuridico, in quanto l’ordinamento lo prende in considerazione e lo munisce
di effetti. In altri termini, l’ordinamento giuridico ritiene utile la funzione svolta dai negozi, e di
conseguenza interviene a disciplinarli con norme di organizzazione, ricollegandovi effetti
giuridici destinati ad attuare lo scopo pratico previsto dai soggetti.
Così allo scopo pratico dello scambio di cosa contro prezzo corrisponde il negozio di
compravendita; allo scopo pratico di prestare il denaro corrisponde il negozio del mutuo.
Pertanto, il negozio giuridico è un atto di autonomia privata, al quale l’ordinamento
giuridico riconosce una funzione socialmente utile, idonea in concreto a realizzare un
regolamento di interessi.

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3.22 Elementi del negozio
La sopra delineata struttura del negozio giuridico può scomporsi in alcuni elementi costitutivi:
a. Contenuto. il negozio giuridico differisce dagli altri atti leciti non negoziali perché è
destinato ad attuare un regolamento di interessi prescritto dal soggetto in modo precettivo.
Tale regolamento di interessi è il contenuto del negozio: il contenuto così inteso è elemento
costitutivo del negozio.
b. Causa. Tipico del negozio è anche lo scopo pratico, che viene assunto a far parte
della struttura del negozio, costituendone un elemento.
c. Volontà - atto. Il negozio giuridico è un atto di autonomia privata: pertanto l’atto,
inteso come determinazione di volontà che sia stata manifestata, è elemento costitutivo del
negozio giuridico.
Gli elementi costitutivi del negozio giuridico sono pertanto tre: la determinazione, che si
estrinseca attraverso la manifestazione di volontà; la causa, scopo pratico cui tende il
soggetto e la funzione economico-sociale del negozio; il contenuto, il regolamento di
interessi prescritto dal soggetto in modo precettivo.
Tali elementi sono interdipendenti: la volontà si determina verso un scopo pratico e si
estrinseca nel mondo dei fatti prescrivendo un regolamento di interessi, così che senza lo
scopo pratico non è concepibile una determinazione di volontà.
Inoltre sono anche inscindibili: tutti e tre gli elementi devono concorrere perché si abbia un
negozio giuridico, senza che si possa attribuire alcuna prevalenza all’uno o all’altro.
Comunemente gli elementi costitutivi del negozio vengono designati come essenziali, e si
distinguono dai c.d. elementi naturali – conseguenze eliminabili del negozio – e dai c.d.
elementi accidentali, estranei dalla normale struttura del negozio, ma che il soggetto
potrebbe inserirvi.

3.23 Presupposti del negozio


L’ordinamento giuridico non si limita a disciplinare la struttura del negozio, ma ne subordina
l’efficacia, ossia la produzione di effetti giuridici, all’esistenza di alcuni presupposti, il primo
dei quali riguarda i soggetti coinvolti, il secondo gli interessi regolati, il terzo il rapporto tra
soggetti ed interessi.
a. Capacità di agire. Ovvero la capacità di compiere negozi giuridici. L’esistenza di
questo presupposto discende dalla definizione di negozio come atto di autonomia privata,
che esige la capacità di intendere e volere, presupposto della capacità di agire.
b. L’idoneità dell’oggetto, cioè l’esistenza del bene o interesse da regolare con il
negozio, e la possibilità che esso riceva il regolamento di interessi predisposto nel negozio.
c. La legittimazione del soggetto, ossia la sua competenza ad ottenere gli effetti giuridici
predisposti nel regolamento di interessi.

3.24 La manifestazione di volontà


Elemento costitutivo del negozio è la determinazione della volontà nel senso che io
manifesto al mondo qual è la mia volontà attraverso un atto giuridico, se non lo facessi non
sarebbe un atto perché nessuno saprebbe cosa voglio fare visto che non compio l’azione. È
opportuno precisare che la manifestazione di volontà, non è sinonimo di dichiarazione,
questa infatti può esprimersi anche senza parola ma solo con atti (ancora oggi è così: salgo
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sul tramergo usufruisco del trasporto pubblico dunque accetto di pagare il biglietto per
questo).
La manifestazione di volontà può avere due forme: può essere un comportamento o una
dichiarazione, ed è l’ordinamento giuridico che, in relazione al tipo di negozi, prescrive
quando occorra l’uno o l’atro.
La dichiarazione può inoltre essere:
a. non recettizia o recettizia, a seconda che sia efficace anche se non giunta a
conoscenza del destinatario o dei destinatari, o invece sia necessario che il/i destinatario/i
ne sia/no venuto/i a conoscenza.
b. Espressa o tacita. È espressa o diretta quando avviene per mezzo di segni che la
coscienza sociale o l’ordinamento giuridico considerano mezzi di manifestazione esplicita e
diretta del volere, quali la parola, la firma. È tacita o indiretta, quando avviene per mezzo di
un contegno della persona per cui ne debba desumere una certa determinazione di volontà
(comportamento concludente, vedi esempio tram).
c. Non bisogna confonde la manifestazione tacita con il silenzio, che è l’assenza di ogni
manifestazione, e quindi di regola, non può valere come dichiarazione di volontà. Solo
eccezionalmente il silenzio vale come dichiarazione: 1) quando il valore del silenzio è stato
dalle parti convenzionalmente stabilito; 2) quando vi sia a carico di qualcuno l’onere di
contraddire, ed egli non contraddice.

3.25 La forma
La manifestazione riveste sempre una forma, in quanto la forma non è altro che l’aspetto
esteriore della manifestazione.
Talvolta l’ordinamento può prescrivere che la manifestazione rivesta una forma determinata,
nel senso che essa è rilevante se compiuta nella forma prescritta; dove l’ordinamento nulla
prescrive, qualsiasi forma può essere adoperata, purché idonea.
Quando l’ordinamento richiede forme determinate, si parla di forme costitutive o essenziali,
che possono essere generiche o specifiche.
Le forme, infine possono avere funzione meramente probatoria, nel senso che servono
come mezzo atto a documentare l’esistenza di una dichiarazione.
L’antico ius civìle conosce solo forme costitutive: le forme sono date in genere dalla
pronuncia di parole solenni o dal compimento di determinati atti o dall’una o dall’altra
insieme. Nella mancipàtio, l’affermazione della proprietà da parte dell’acquirente è
accompagnata dal gesto di afferrare il bene e inoltre si compie la cerimonia della pesatura
del metallo (il prezzo) sulla bilancia tenuta dal pesatore: parole e gesti sono insieme
dichiarazione formale di volontà e attuazione del predisposto regolamento di interessi.
Nella spònsio, la forma costituitiva consiste in un dialogo tra futuro creditore e futuro
debitore, si ha solo la pronuncia di parole solenni.
Successivamente, ad opera prevalentemente del pretore, accanto alle vecchie forme tipiche,
spunta la forma generica della scrittura: non ha carattere costitutivo ma meramente
probatorio, nel senso che serve a documentare l’avvenuta conclusione del negozio.
Nell’età postclassica si avrà la sparizione di tutte le forme solenni verbali e la
generalizzazione della scrittura che, però continuerà ad avere una funzione probatoria.

33
3.26 Significato della manifestazione
La manifestazione non ha soltanto un significato soggettivo, quello che le attribuisce
l’agente, ma anche un significato oggettivo, quello che le viene comunemente attribuito,
conforme ai mezzi di espressione usati nella coscienza sociale.

3.27 Nozione di causa


La causa è anzitutto lo scopo pratico, cui tendono i soggetti, che ogni negozio è destinato ad
attuare: nella compravendita la causa è lo scambio di cosa contro prezzo, nel mutuo è il
prestito di denaro o cose fungibili, ecc. Tale scopo pratico si riscontra in tutti i negozi di quel
determinato tipo, pertanto è uniforme, costante e invariabile per tutti i negozi di quel tipo e,
come tale, diviene elemento costitutivo del negozio, perché caratterizza il tipo di negozio a
cui appartiene.
Ma lo scopo pratico è preso in considerazione dall’ordinamento, che munisce il negozio di
effetti destinati al raggiungimento di esso, in quanto ritiene che tale scopo adempia ad una
funzione socialmente utile. Da ciò, la causa, rappresenta la funzione socialmente utile del
negozio. La causa è:
a. lo scopo pratico cui è indirizzata la volontà che caratterizza il tipo di negozio;
b. la funzione economico-sociale;
c. il motivo ultimo determinante, che si estrinseca nel mondo dei fatti.
La causa non può essere esattamente caratterizzata quando non si tenga conto di questi tre
elementi che sono tra loro inscindibili e interdipendenti.

3.28 Il contenuto
Altro elemento costitutivo del negozio è il contenuto, cioè il regolamento precettivo di
interessi; esso serve a distinguere i negozi giuridici dagli altri atti leciti che, invece non
contengono alcun regolamento di interessi.
Il negozio giuridico, contenendo un regolamento di interessi predisposto dai titolari
medesimi, è un modo di composizione volontaria dei conflitti di interesse. Nei limiti e in forza
dell’autonomia privata, il regolamento di interessi si è prescritto dai soggetti, ed è sentito
dalla coscienza sociale come impegnativo.
Il comando giuridico contenuto in un negozio giuridico differisce dal comando contenuto in
una norma perché ha sempre carattere concreto, cioè concerne gli interessi singolarmente
individuati (se la norma è generale e astratta, il negozio giuridico è invece concreto).

3.29 Contenuto del negozio e c.d. elementi accidentali


La dottrina, in antitesi con gli elementi essenziali del negozio, suole designare gli elementi
naturali ed accidentali.
I c.d. elementi naturali del negozio sono normali conseguenze che l’ordinamento giuridico
trae dal regolamento di interessi proposto dai soggetti, ma che i soggetti possono eliminare.
I c.d. elementi accidentali sono da mettere in relazione con le caratteristiche del
regolamento di interessi attuato con il negozio, il quale ha carattere impegnativo e,
normalmente, immediato. Ma può accadere i che i soggetti vogliano subordinare l’entrata o il
permanere del negozio in vigore, ad un evento futuro; oppure differirne l’entrata in vigore ad
una data successiva o limitarne il vigore nel tempo.
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Fondamentale è che queste limitazioni siano espressamente inserite nel contenuto
precettivo del negozio: mediante clausole, modalità, patti, riserve tali condizioni configurano
diversamente il negozio. Esse sono: la condizione, il modo e il termine.

3.30 La condizione concetto e apponibilità


La condizione è la previsione di un evento futuro ed obbiettivamente incerto, al cui verificarsi
è subordinato l’entrata in vigore o il risolversi del regolamento di interessi contenuto nel
negozio giuridico. Dal punto di vista della struttura esterna del negozio, la condizione è una
dichiarazione accessoria.
La condizione genera uno stato di pendenza circa il prodursi o meno degli effetti del negozio;
tale stato di pendenza è destinato a venir meno quando si verifichi l’evento previsto, oppure
al contrario, quando sia certo che non può più verificarsi.
Non a tutti i negozi sono apponibili condizioni. Nel diritto romano vi sono una serie di negozi
dell’antico ius civìle che non tollerano condizioni: i negozi solenni traslativi di proprietà o
costitutivi di diritti reali, come la mancipàtio e la in iùre céssio; negozi solenni liberatori di
obbligazioni come la acceptilàtio, la expensilàtio e la solùtio per aés et libra; l’accettazione
solenne dell’eredità; l’auctòritas tutòris; il conferimento dei poteri al cògnitor. Tutti questi
negozi hanno in comune che sono destinati ad attuare un regolamento di interessi avente
carattere immediato e definitivo, quindi incompatibile con la sospensione o subordinazione
degli effetti del negozio. L’apposizione di una condizione a un negozio che non la tollera ha
come conseguenza la nullità del negozio.

3.31 Requisiti
Dalla definizione di condizione si desume che l’evento dedotto deve essere futuro ed
obbiettivamente incerto. In particolare non sono condizioni:
a. le condizioni presenti o passate, in cui l’avvenimento dedotto non è futuro;
b. le condizioni necessarie, in cui l’evento dedotto è futuro, ma certo;
c. le condiciònes iùris, quelle in cui l’evento dedotto è un elemento costitutivo del
negozio, o un presupposto a cui l’ordinamento giuridico subordina il riconoscimento del
negozio stesso (capacità del soggetto).
d. Le condizioni impossibili, sia fisicamente che giuridicamente, ovvero quelle in
cui l’evento contemplato non può verificarsi materialmente, ovvero per un divieto
dell’ordinamento giuridico.

3.32 Specie di condizioni


Secondo il modo di operare sul regolamento di interessi le condizioni si distinguono in
sospensive e risolutive. È sospensiva la condizione che subordina al verificarsi di un evento
futuro e obbiettivamente incerto l’entrata in vigore del regolamento di interessi; è risolutiva la
condizione che fa dipendere dal verificarsi dell’evento futuro ed incerto il venir meno del
negozio giuridico.
Le condizioni si suddividono inoltre, in positive e negative, a seconda che sia previsto il
verificarsi ovvero il non verificarsi di un evento futuro ed incerto.

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Infine le condizioni si distinguono in potestative e casuali. In particolare sono potestative le
condizioni in cui l’evento consiste in un comportamento di una delle parti; sono casuali se
l’adempimento non dipende dalla volontà delle parti.

3.33 Effetti della condizione


Gli effetti dell’apposizione della condizione devono essere valutati in tre momenti:
1. il momento della pendenza, quando è tuttora incerto se l’evento si verificherà;
2. il momento dell’avveramento o adempimento, quando l’evento si è verificato o,
trattandosi di condizione negativa, è certo che non si verificherà più;
3. il momento della mancanza: quando l’evento non si è verificato ed è certo che non si
verificherà più.
1. la pendenza della condizione impedisce che si producano gli effetti propri del negozio; ma
la possibilità che tali effetti si producano in seguito fa sorgere sin dall’inizio nel soggetto
attivo un’aspettativa, presa in considerazione dall’ordinamento e, nella controparte, un
vincolo corrispondente, di non frustrare l’aspettativa. Quindi il negozio condizionato, durante
la pendenza della condizione, produce effetti anticipati o prodromici.
Colui che è destinato ad assumere la posizione di soggetto passivo nel rapporto nascente
dal negozio condizionato è tenuto a non far nulla che possa impedire l’avveramento della
condizione; deve astenersi da atti di disposizione o trasformazione economica che
pregiudichino l’aspettativa della controparte.
Il titolare dell’aspettativa può chiedere alla controparte la prestazione di garanzia, o al
pretore la concessione di provvedimenti cautelari o conservativi.
Qualora il rapporto sia un’obbligazione, durante la pendenza della condizione, esso può
essere oggetto di novazione (l'estinzione di un rapporto di obbligazione tra due parti,
creditrice e debitrice, con conseguente nascita di uno nuovo, rispetto al precedente mutato
nel titolo o nell'oggetto).
Per quanto riguarda il momento di cui si debbano valutare i presupposti a cui l’ordinamento
subordina il riconoscimento del negozio si elencano:
 la capacità di agire deve sussistere al momento della conclusione del negozio, è
irrilevante il suo successivo venir meno;
 l’idoneità del soggetto deve sussistere sia al momento dell’avveramento della
condizione, sia al momento in cui il negozio è concluso;
 la legittimazione dei soggetti deve sussistere al momento dell’avveramento della
condizione.
2. la condizione positiva si considera adempiuta soltanto con l’effettiva realizzazione
dell’evento previsto, mentre la condizione negativa si considera adempiuta non solo quando
l’evento non si è verificato, ma anche quando si è certi che non si verificherà più.
La condizione si ha per adempiuta se il gravato ha frapposto ostacoli al verificarsi
dell’evento. Per quanto riguarda gli effetti dell’adempimento, nel diritto classico, si ritiene che
gli effetti propri del negozio si producano solo dal momento dell’avveramento della
condizione e solo per l’avvenire.
3. per la mancanza della condizione, se si tratta di condizione sospensiva, il regolamento di
interessi non entrerà mai in vigore e non produrrà effetti; se si tratta di condizione risolutiva,

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la mancanza fa si che gli effetti del negozio, che si sono già prodotti, si consolidano e
diventano irrevocabili.

3.34 Il termine
Il termine è una data, un evento futuro ma certo, dalla quale si fanno decorrere o si fanno
cessare gli effetti del negozio. Si distingue perciò un termine iniziale da quale si fanno
decorrere gli effetti del negozio e un termine finale, dal quale si fanno cessare gli effetti.
Non a tutti i negozi è applicabile un termine: in genere le per le stesse ragioni per cui un si
possono apporre condizioni.
Per quanto riguarda gli effetti dell’apposizione di un termine – a differenza della condizione –
caratteristica è la certezza: il termine è un evento del quale si può essere incerti solo sul
quando si verifichi (quando morirai).
Mentre la condizione ingenera, uno stato di pendenza, il termine non fa differire l’entrata in
vigore del regolamento di interessi o limitare l’efficacia nel tempo; il rapporto è già nato alla
conclusione del negozio. Ne consegue che il rapporto, anche prima della scadenza del
termine, è trasmissibile agli eredi, sia sul lato attivo, che su quello passivo.

3.35 Il modo
È una clausola particolare ai soli negozi di liberalità, siano essi ìnter vìvos o mòrtis càusa, e
consiste in un peso che il disponente pone a carico del beneficiario, col quale impone a
questi di destinare tutto o in parte il lascito ad uno scopo particolare, ma senza elevare
l’adempimento a condizione sospensiva dell’acquisto.
Per lo ius civìle, l’obbligo di adempiere era sfornito di sanzione giuridica, ossia era
incoercibile, e pertanto induceva nel beneficiario solo un dovere morale. Per ovviare a ciò, si
produceva indirettamente la coercibilità, facendo assumere espressamente al beneficiario
l’obbligo mediante apposita stipulazione, oggetto di tutela pretoria.
Nel diritto giustinianeo il modo è divenuto direttamente coercibile, concedendo al disponente
e ai suoi eredi di agire contro il beneficiario inadempiente, sia per ottenere l’esecuzione, sia
per ottenere la revoca del beneficio.

3.36 Sostituzione nel negozio


L’ordinamento giuridico riconosce la possibilità di concludere negozi al posto di chi non ne
ha la capacità o la possibilità, conferendo ad altri il potere di concludere negozi, e la regola,
a salvaguardia dell’autonomia privata.
L’ordinamento riconosce la sostituzione nella conclusione di un negozio entro certi limiti e
sotto dati presupposti, e in genere solo quando tra autore del negozio e titolare degli
interessi vi sia un rapporto giustificato.

3.37 Figure di sostituzione


La figura più semplice è quella del nùncius, un intermediario, che si limita a riferire alla
controparte le dichiarazioni di volontà dell’interessato: non è il nùncius a prescrivere il
regolamento di interessi e in tal senso rimane estraneo alla conclusione del negozio. Si
suole parlare di manifestazione di volontà a mezzo di altri.

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In tutte le altre figure in cui si ha una vera e propria sostituzione, nel diritto romano, si hanno
tre casi possibili:
a. gli effetti del negozio si producono in capo al sostituto, salvo poi trasferirli
all’interessato mediante altro negozio;
b. gli effetti del negozio si producono sia in capo al sostituto, sia in capo
all’interessato;
c. gli effetti del negozio si producono esclusivamente e direttamente in capo
all’interessato.
a. il primo sistema è quello dell’interposizione gestoria, detta anche rappresentanza
indiretta: è il sistema seguito dal ius civìle: viene di regola applicato dal tutore, dal curatore
del pazzo e del prodigo, all’amministratore stabile proposto alla gestione di un patrimonio,
tutti costoro acquistano in proprio e si obbligano in proprio; gli effetti giuridici dei negozi da
loro conclusi vengono successivamente, mediante altri negozi, riversati nella sfera
dell’interessato, figura particolare dell’interposizione gestoria è l’interposizione processuale.
b. Il secondo sistema si trova applicato sul terreno del diritto onorario, nella responsabilità
del paterfamìlias per le obbligazioni assunte da persone sottoposte alla sua potestà. Accanto
alla obligàtio civìlis(obbligazione civile), che sorge il capo al filiusfamìlias, e alla obligàtio
naturàlis, che sorge in capo allo schiavo (se è luia stipulare per il suo padrone), il pretore
addossa una responsabilità in capo al paterfamìlias, rimasto estraneo alla conclusione del
negozio. Questa tipologia la troviamo inoltre nei contratti a favore di terzi e nelle promesse
fatte al terzo.
c. Il terzo sistema è quello della rappresentanza. Qui gli effetti giuridici del negozio concluso
dal sostituto (rappresentante) sorgono direttamente e immediatamente in capo al titolare
degli interessi.
È necessario precisare che la rappresentanza non deve essere confusa con i casi in cui
l’acquisto sia fatto da persone aleni iuris in favore del loro paterfamilias: in tal caso non vi è
rappresentanza, perché la rappresentanza esige la separazione tra le sfere giuridiche del
rappresentante e del rappresentato, mentre in questo caso la persona alièni iùris, data la
sua incapacità patrimoniale, non ha un patrimonio proprio. Qui si tratta solitamente di negozi
conclusi da organi della persona giuridica. Anche in questo caso non vi è separazione tra la
sfera giuridica dell’organo e quella della persona giuridica.
Come detto lo ius civìle, preferì il sistema dell’interposizione gestoria a quello della
rappresentanza. Come in altri casi, fu il diritto pretorio, a riconoscere il sistema della
rappresentanza, mediante la denegazione dell’azione al gestore o contro il gestore.
Sarà nel diritto giustinianeo, che la rappresentanza trova largo riconoscimento.

3.38 Presupposti della sostituzione


Presupposto sia della rappresentanza, che dell’interposizione gestoria è il potere di
concludere negozi per conto altrui. Tale potere, è conferito dall’ordinamento ed è stabilito in
specifici casi e con dei limiti, può essere:
a. indipendentemente dalla volontà dell’interessato, qualora il titolare sia incapace di
provvedere da se: tutore e curatore;
b. attribuito dalla volontà dell’interessato, che non abbia l’opportunità di gestire da se i
propri interessi. Il conferimento può essere sia esplicito, mediante atto solenne o attraverso

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dichiarazione destinata al terzo, sia implicito, mediante affidamento di una cerchia di affari
ad un procuratore.
c. Eccezionalmente assunto per iniziativa del gestore, nei casi in cui è ammessa la
gestione di affari altrui.
Trattandosi di rappresentanza, dato che gli effetti del negozio si producono direttamente in
capo al titolare degli interessi, il rappresentante deve farsi riconoscere come tale dalla
controparte. Non è necessaria in tal senso una dichiarazione formale, basta che la sua
posizione, l’esistenza del potere e gli eventuali suoi limiti, siano chiaramente riconoscibili alla
controparte.
Per quanto riguarda gli altri presupposti cui l’ordinamento giuridico subordina il
riconoscimento del negozio, abbiamo:
a. la capacità di agire, intesa sia come capacità generica, sia come capacità di disporre:
basta che sussista nel rappresentante, non è richiesta nell’interessato;
b. allo stesso modo l’assenza di anormalità nella determinazione o manifestazione di
volontà deve valutarsi unicamente in capo al rappresentante;
c. invece, per quanto riguarda la legittimazione dei soggetti, occorre distinguere tra
rappresentanza e interposizione gestoria; nella rappresentanza si richiede che il
rappresentante sia munito del relativo potere, ma per il resto si guarda al rappresentato; per
l’interposizione gestoria si guarda al gestore, in quanto il negozio produce effetti in capo al
gestore, ed è quindi lui che deve avere la competenza a porlo in essere.

3.39 Classificazione dei negozi giuridici: manifestazione della volontà


Dal punto di vista della manifestazione di volontà, i negozi giuridici possono essere:
a. negozi dichiarativi e negozi reali, a seconda che la manifestazione di volontà consista
in una dichiarazione (recettizia o non recettizia) o, in tutto o in parte, in un comportamento.
b. Negozi solenni o formali e negozi non solenni o non formali, secondo che
l’ordinamento prescriva o meno, il modo di manifestazione della volontà. Nei primi il tipo è
caratterizzato dalla forma solenne invece, dove la forma è libera, è caratterizzato soltanto
dalla funzione economico-sociale.
c. Negozi unilaterali o negozi bilaterali. Sono unilaterali i negozi che si esauriscono nella
manifestazione di volontà (sia essa comportamento o dichiarazione) di una sola parte. Per
contro sono bilaterali i negozi costituiti dalla manifestazione di volontà di due parti,
contrapposte e convergenti in modo da formare un accordo. La distinzione tra negozi
unilaterali e bilaterali non va confusa con quella tra contratti unilaterali e contratti bilaterali.
Sono unilaterali i contratti in cui l’obbligazione sorge a carico di una sola parte, bilaterali i
contratti in cui le obbligazioni sorgono in carico ad ambedue le parti.
d. Negozi semplici e negozi complessi. Il negozio è complesso quando la
manifestazione di volontà di una parte (o di entrambe) consta della dichiarazione di più
soggetti, non contrapposte, ma parallele, aventi lo stesso contenuto e destinate a fondersi in
unità; semplice quando la manifestazione consta della dichiarazione di un unico soggetto.
e. Negozi puri e negozi condizionali: dove viene posta, o meno, una condizione.

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3.40 Classificazione dei negozi: dal punto di vista del contenuto
Dal punto di vista del contenuto, ossia del regolamento di interessi attuato, i negozi possono
essere:
a. negozi ìnter vivos e negozi mòrtis causa. I secondi sono i negozi cui l’attuazione del
regolamento di interessi è subordinata alla morte dell’autore, e quindi possono produrre
effetti definitivi, solo dopo la morte dell’autore;
b. sono detti ìnter vivos, i negozi cui l’attuazione del negozio risponde alle più svariate
esigenze della vita pratica.

3.41 Classificazione dei negozi: dal punto di vista della causa


Dal punto di vista della causa, abbiamo:
a. negozi a titolo oneroso e negozi a titolo gratuito. I primi sono i negozi
patrimoniali in cui la causa è onerosa: l’acquisto di una delle parti trova un corrispettivo in
una perdita corrispondente. Sono a titolo gratuito i negozi in cui l’acquisto di una delle parti
non trova un corrispettivo in una perdita corrispondente.
b. Negozi causali e negozi astratti. I primi sono quei negozi in cui la causa, che
caratterizza il tipo di negozio, appare attraverso la struttura del negozio. Per contro si dicono
astratti i negozi in cui la causa non si rileva attraverso la struttura del negozio, e pertanto
possono servire ad attuare cose diverse. Es.: negozi causale – compravendita. Negozio
astratto: la mancìpatio dell’età classica serve a trasferire la proprietà res màncipi per
qualsiasi causa (vendita, donazione, dote) che non risulta dal negozio.

3.42 L’interpretazione dei negozi e i suoi criteri


Come la norma giuridica ha bisogno di essere interpretata, e poiché il negozio contiene un
comando giuridico, così anche il negozio ha bisogno di essere interpretato.
L’interpretazione del negozio è l’operazione logica che ha per scopo quello di far conoscere
il contenuto concreto del negozio, ossia il regolamento di interessi che i soggetti hanno
inteso porre in essere.
Le vie percorse per arrivare a tale conoscenza, danno talvolta la preferenza agli indici
obbiettivi (significato dell’atto secondo la coscienza sociale) e talvolta a indici soggettivi. I
criteri seguiti inoltre divergono a seconda che si tratti di negozi ìnter vivos o mòrtis causa
(nei primi avremo due parti a confronto, mentre nei secondi no).
Nei negozi mòrtis causa criterio direttivo è l’intenzione del disponente, significato soggettivo;
nei negozi ìnter vivos, è invece decisivo il significato obbiettivo della manifestazione, cioè il
significato nel quale essa è stata intesa nell’ambiente sociale in cui è stata emessa –
indipendentemente dall’eventuale significato voluto dall’autore.
Qualora la dichiarazione fosse ambigua o lacunosa, essa deve essere chiarita o integrata a
seconda che si tratti di negozi ìnter vivos o mòrtis causa.
a. nei negozi mòrtis causa, si cerca di ricostruire, per quanto possibile, il vero pensiero
del disponente.
b. Nei negozi ìnter vivos, dove non sia possibile ricostruire il significato che, secondo
l’esperienza normale doveva essere inteso dai soggetti, viene in soccorso il principio
dell’auto-responsabilità privata, secondo il quale, al soggetto che assume l’iniziativa del
negozio, incombe l’onere di curare e controllare la chiarezza delle espressioni usate, e
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pertanto egli subisce le conseguenze dannose derivanti dall’inosservanza di tale onere.
Qualora nemmeno tale criterio soccorra, il negozio è nullo.

3.43 Inefficacia dei negozi


L’ inefficacia del negozio può dipendere tanto da circostanze interne ad esso, quanto a
circostanze esteriori, si distinguono:
a. il negozio è invalido quando è inidoneo a produrre gli effetti propri a cui appartiene per un
difetto intrinseco del negozio stesso, cioè per mancanza o per vizio di uno degli elementi
costitutivi del negozio.
b. È inefficace in senso stretto, quando il negozio, che di per sé sarebbe idoneo a produrre
effetti propri dei tipo a cui appartiene, non è in grado di produrli per una circostanza
estrinseca.
Le ipotesi di inefficacia sono :
1. il mancato avverarsi di una circostanza necessaria per il negozio, oppure il verificarsi di
una circostanza che ne impedisce l’attuazione.
2. la revoca o rescissione del negozio, sia ad opera di un terzo, di cui il negozio abbia leso i
diritti, sia ad opera dell’autore del negozio stesso.
3. il mancato avverarsi dell’evento elevato a condizione sospensiva.

3.44 Invalidità dei negozi


Invalido è il negozio inidoneo a produrre gli effetti propri del tipo a cui appartiene per una
causa ad esso intrinseca. Nel diritto moderno si distingue a questo proposito tra nullità e
annullabilità.
Si ha nullità del negozio quando manca un presupposto o un elemento costitutivo del
negozio, e pertanto il negozio è inidoneo a produrre gli effetti suoi propri, indipendentemente
da qualsiasi azione diretta alla sua attuazione. La sentenza con la quale è accertata la nullità
è dichiarativa ed è invocabile sia dai terzi che rilevabile d’ufficio.
Si ha annullabilità del negozio, quando tutti gli elementi costitutivi del negozio esistono, ma
qualcuno di essi è affetto da un vizio: il negozio è di per sé idoneo a produrre i suoi effetti
propri, ma la parte contraente interessata ha modo di impedirne la realizzazione, o farne
rimuovere retroattivamente gli effetti già prodotti. L’invalidità del negozio è solo eventuale,
essendo subordinata all’iniziativa della parte interessata. L’annullabilità non può essere fatta
valere da terzi o rilevata d’ufficio, e la sentenza che l’accerta è costitutiva (la situazione
giuridica che ne deriva trova la sua genesi nella sentenza).
Tale distinzione è però quella prevista nei diritto giustinianeo, e non corrisponde a quella del
diritto classico, dove bisogna rifarsi alla distinzione tra ius civìle e diritto pretorio.
Il ius civìle conosceva soltanto negozi pienamente validi e negozi nulli: per il ius civìle, il
negozio, o mancava di alcuni presupposti, e allora era nullo, o li aveva, e allora era valido,
senza che rilevassero eventuali vizi che potessero inficiare alcuni di essi. La reazione contro
tali vizi partì dal pretore, il quale non potendo creare ius civìle, non poteva dichiarare
inefficace un negozio, ma poteva solo, con i mezzi a sua disposizione, paralizzarne gli effetti
sul terreno del diritto pretorio. Nel ius civìle la nullità corrisponde a un’invalidità iùre civìli e
l’annullabilità a un’invalidità iùre praetòrio.

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Nel diritto giustinianeo, scomparso il dualismo tra ius civìle e diritto pretorio, i rimedi giuridici
sono concessi direttamente dalla legge. Qui, invece, bisogna distinguere i casi in cui
l’invalidità è stabilita ìpso iùre, e i casi in cui è subordinata all’iniziativa di parte.

3.45 Cause di invalidità riguardanti i presupposti del negozio


Le cause di invalidità del negozio possono riguardare sia i presupposti cui l’ordinamento
subordina il riconoscimento del negozio, sia gli elementi costitutivi di esso, quindi bisogna
essere certi che le parti siano idonee a porre in essere il negozio. Il negozio sarà pertanto
invalido:
1. quando manchi o sia deficiente la capacità di agire del soggetto, intesa sia come
capacità generica, sia come capacità specifica in relazione al negozio che compie.
2. quando manchi o sia deficiente l’idoneità dell’oggetto, ovvero l’oggetto su cui cade il
negozio non sia idoneo a ricevere un regolamento di interessi, ovvero sia illecito.
3. quando manchi o sia deficiente la legittimazione del soggetto, sia perché manchi la
facoltà di disporre dell’oggetto in questione, o in generale quando manchi il potere di
disporre; oppure perché manchi al soggetto la specifica idoneità a divenire soggetto attivo o
passivo del rapporto che dovrebbe sorgere dal negozio.

3.46 Cause di invalidità riguardanti gli elementi costitutivi del negozio


Invalidità che interessano il contenuto, ossia il regolamento precettivo di interessi:
a. quando manchi, e la mancanza sia riconoscibile, un regolamento precettivo di
interessi. Rientrano in questo caso lo scherzo palese, il negozio riprodotto a scopo didattico
o a scopo di rappresentazione scenica.
b. Quando il negozio non rientri in nessuna delle figure tipiche riconosciute. Rientrano in
questo caso i negozi ai quali, pur non tollerandolo, vengono apposte condizioni o termini.
c. Quando un negozio contravvenga ad un precetto proibitivo di legge.
Invalidità concernenti la causa:
a. illiceità della causa;
b. consapevole divergenza tra causa tipica del negozio e lo scopo pratico da conseguire
(simulazione);
Invalidità che interessano la manifestazione di volontà:
a. quando manchi la forma solenne prescritta dall’ordinamento giuridico per riconoscere il
negozio;
b. quando la manifestazione si presenti obbiettivamente come tale, ma sia soltanto
apparente, perché non vi corrisponda alcuna volontà (manifestazione imposta con violenza;
resa da infante o pazzo);
c. quando vi sia discrepanza inconsapevole tra determinazione del volere e manifestazione
(errore ostativo);
d. quando vi sia incongruenza tra manifestazioni di volontà reciproche.
Invalidità che interessano il processo di formazione della volontà:
a. l’errore della formazione della volontà, sia esso spontaneo, o provocato dal dolo altrui;
b. dal timore provocato dalla violenza morale altrui.

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3.47 Invalidità riguardanti la causa
Le anormalità riguardanti la causa concernono:
a. l’illiceità della causa, quando il negozio persegue uno scopo pratico riprovato dal
diritto, sia perché contrario a norme proibitive o imperative, sia perché contrario alla morale.
b. La consapevole divergenza dell’intento pratico dei soggetti dalla causa tipica del
negozio: il negozio è adoperato per un fine diverso da quello in vista del quale il diritto l’ha
riconosciuto. È questo il caso della simulazione, che si distingue in assoluta e relativa: nella
simulazione assoluta vi è un negozio sotto il quale non vi è nulla; nella simulazione relativa i
negozi sono due, quello simulato o apparente, e il negozio dissimulato, mascherato sotto il
primo. La simulazione fu anche un comodo espediente per supplire a deficienze di negozi
già riconosciuti, consentendo di adattare a nuovi scopi di autonomia privata, i negozi
esistenti.
Altra tipologia sono i negozi fiduciari, in cui il trasferimento della proprietà serve solo come
scopo per attuare uno scopo diverso. Mentre il negozio simulato è soltanto apparente, il
negozio fiduciario viene effettivamente compiuto, ma lo scopo ha un fine meramente
strumentale, ovvero quello di perseguirne un secondo che viene enunciato in un secondo
negozio.

3.48 Errore ostativo


Tra le anormalità che concernono la manifestazione di volontà merita particolare riguardo la
discrepanza inconsapevole tra la determinazione del volere e la sua manifestazione. In tale
ipotesi un soggetto, nel compiere un negozio, per effetto di una falsa rappresentazione,
attribuisce alla propria dichiarazione o al proprio comportamento un significato diverso da
quello che essi hanno obbiettivamente.
Non conta il caso in cui tale errore derivi da cause interne del dichiarante, quali la
distrazione, l’ignoranza, l’inettitudine a comprendere o a farsi comprendere con esattezza,
ovvero da causa a lui estranea, come quando ci si avvale dell’opera di un intermediario.
In ordine all’errore ostativo rileviamo:
a. perché tale errore sia rilevante per il diritto occorre che sia essenziale, ossia deve cadere
su elemento di tale importanza da far venire meno ogni corrispondenza tra determinazione e
manifestazione del volere. Casi di errore essenziale sono:
 l’errore sull’identità della persona cui è indirizzata la dichiarazione, o della persona
contemplata nella dichiarazione non recettizia;
 l’errore sull’identità della cosa cui si riferisce la dichiarazione, sia che riguardi la
designazione materiale (una cosa rispetto ad un’altra), sia che riguardi la designazione
intellettuale.
 L’errore sul negozio nel suo complesso. Tale errore si ha quando la dichiarazione,
rappresentata in un documento o trasmessa da un nùncius, viene scambiata o sostituita
con un'altra.
Non è per contro essenziale l’errore incorso nella descrizione o nella denominazione del
destinatario o della persona contemplata, o della cosa oggetto del negozio, quando la
persona o la cosa siano sicuramente identificate.
b. quanto agli effetti di tale errore, occorre distinguere tra negozi ìnter vivos e
mòrtis causa:
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 nei negozi mòrtis causa, l’errore essenziale è sempre invalidante e indice a nullità il
negozio;
 nei negozi ìnter vivos, specialmente quelli bilaterali, l’errore è irrilevante e il negozio è
valido, restando le conseguenze a carico di chi ha errato, a meno che l’errore sia
esternamente riconoscibile : in quel caso l’errore è rilevante e il negozio è nullo.

3.49 Dissenso
Mentre l’errore ostativo è sempre unilaterale, perché la parte attribuisce alla propria
dichiarazione un significato diverso a quello che essa ha obbiettivamente, il dissenso o
malinteso può aver luogo nei soli negozi bilaterali: invece dell’accordo tra dichiarazioni di
volontà reciproche, si ha disaccordo.
È ovvio che il dissenso è rilevante ogni qualvolta fa venire meno l’accordo tra le parti:
pertanto il dissenso che cada su un elemento essenziale del consenso, rende nullo il
negozio. In particolare sono rilevanti i casi seguenti:
a. quando faccia venir meno l’accordo delle parti circa la causa tipica del negozio;
b. il dissenso sull’identità dell’oggetto, quando faccia venir meno l’accordo delle parti
circa l’identificazione dell’oggetto del negozio.
c. il dissenso sulla misura delle prestazioni reciproche, al contrario, non sempre invalida
il negozio: il negozio è valido sulla quantità minore, se su questa si è formato l’accordo.

3.50 Errore nella determinazione del volere


Altre anormalità possono colpire il processo di formazione del volere, il quale viene
perturbato da motivi che non dovrebbero operare. Tali sono l’errore, sia esso spontaneo o
provocato con dolo da altri, e il timore generato dall’altrui violenza.
L’errore nel processo di formazione del volere consiste in un erroneo apprezzamento dovuto
ad ignoranza o falsa conoscenza della situazione di fatto, che determina la volontà in modo
diverso da quello in cui si sarebbe determinata se la realtà fosse stata esattamente
apprezzata. Da ciò si comprende la differenza con l’errore ostativo: nell’errore ostativo
l’errore cade sulla manifestazione, con la conseguenza che la manifestazione non
corrisponde con il volere; nell’errore spontaneo, la manifestazione corrisponde alla
determinazione, ed è la determinazione che è irregolarmente avvenuta.
Tale tipo di errore diviene solo eccezionalmente tale da farlo assimilare all’errore ostativo:
a. quando l’errore cade non sull’identificazione materiale della cosa, che è anzi certa,
bensì su una qualità essenziale, quella che determina la funzione economico-sociale della
cosa.
b. L’errore cade sull’esistenza in concreto dei presupposti di un determinato tipo di
negozio – errore di fatto o di diritto.
In considerazione della speciale natura del negozio è talvolta rilevante l’errore sui motivi
nelle disposizioni di ultima volontà.

3.51 Dolo e violenza


Atti illeciti influenti sulla determinazione del volere sono il dolo e la violenza: il dolo consiste
nei raggiri intesi ad indurre altri in errore; la violenza consiste nella minaccia, intesa ad
indurre il timore. Dolo e violenza non sono vizi del volere ma cause esterne che agiscono
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sulla determinazione del volere. Furono presi in considerazione dal diritto pretorio come atti
illeciti, ovvero produttivi delle conseguenze giuridiche proprie nel diritto privato: il pretore
pose a carico dell’autore del dolo o della violenza l’obbligo di pagare alla vittima una
riparazione pecuniaria e inoltre pose a disposizione della vittima i mezzi per opporsi
all’esecuzione del negozio.
Poiché però il dolo e la violenza non erano presi in considerazione dal ius civìle, il negozio,
avendo tutti gli elementi costitutivi, era valido, né il pretore avrebbe potuto dichiararlo nullo.
Nel diritto giustinianeo, venuto meno il binomio tra ius civìle e ius honoràrium, il dolo e la
violenza vengono considerati elementi incidenti i vizi della volontà; i negozi sono di per sé
validi, conservando i rimedi pretori, su iniziativa della parte interessata, prevedendo due casi
di annullabilità: àctio dòli, excéptio dòli.
a. DOLO il dolo è il raggiro diretto a trarre in inganno il soggetto negoziale, per
determinarlo a concludere il negozio o a concluderlo a condizioni diverse; ogni astuzia,
inganno, artificio, finalizzati a trarre in errore un’altra persona. Si usa distinguere fra un dòlus
màlus e un dòlus bònus: con quest’ultimo si designano le malizie e furberie usuali nel
commercio, che la coscienza sociale considera tollerate. Il dòlus màlus induce un errore, che
cade sul processo di determinazione, agendo come motivo perturbatore. Il pretore,
considerandolo un atto riprovevole, lo ritenne atto illecito, estendendo sul dolo il trattamento
riservato agli altri atti illeciti del diritto pretorio, concedendo una riparazione pecuniaria alla
vittima o la difesa della vittima contro eventuali conseguenze dannose. Tali rimedi furono:
 una àctio dòli, penale e infamante, diretta contro l’autore del dolo mirante, non tanto ad
ottenere l’annullamento del negozio, ma a far conseguire alla vittima una riparazione
pecuniaria;
 una excéptzio dòli, concessa alla vittima convenuta in giudizio dall’autore del dolo per
ottenere l’esecuzione del negozio: essa paralizza l’azione, ossia rende il negozio
improduttivo di effetti sul terreno del diritto pretorio.
b. MINACCIA la violenza morale, distinta da quella fisica, consiste in una minaccia intesa
a generare in altri, il timore, in modo da indurre alla conclusione del negozio. Essa non toglie
la volontarietà dell’atto, ma ne vizia la libertà di determinazione: anche in questo caso,
essendovi la determinazione di volontà, il negozio era valido ius civìle. La violenza fu
pertanto presa in considerazione dal pretore, che la considerò atto illecito, purché
ricorressero alcuni presupposti:
 che il male minacciato sia illecito, cioè che la violenza sia adoperata a torto;
 che la minaccia sia effettiva – cioè non sospettata ma concretata nel fatto – e seria, cioè
tale da fare impressione ad una persona dotata di sufficiente carattere;
 che il male minacciato sia, nel comune apprezzamento, più grave di quello consistente
nella conclusione del negozio;
 che via sia un nesso tra minaccia e conclusione del negozio, nel senso che questa sia
determinata da quella.
I rimedi introdotti dal pretore furono:
a. una àctio mètus: azione penale concessa alla vittima e diretta contro l’autore
della violenza, il cui scopo era quello di far conseguire alla vittima, una riparazione
pecuniaria pari al quadruplo dell’ammontare delle cose estorte.

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b. una excèptio mètus, concessa alla vittima, quando il negozio non fosse ancora
stato eseguito, convenuta in giudizio per la sua esecuzione. Con tale excèptio l’azione
diretta contro la vittima viene paralizzata, e il negozio reso improduttivo di effetti.
c. una restitùtio in ìntegrum, quando il negozio sia stato eseguito.

3.52 Fasi di invalidità del negozio: invalidazione, convalidazione


Il negozio può perdere la sua originaria validità, o può successivamente acquistare una
validità che originariamente non c’era.
a. l’invalidità può essere originaria, se contemporanea al sorgere del negozio, o successiva,
se la causa dell’invalidità sorge successivamente alla conclusione del negozio.
b. l’invalidità può sanarsi in due modi, normalmente con effetto retroattivo, per effetti di fatti
giuridici che eliminano l’invalidità o impediscono di farla valere, o conferendo al negozio la
validità inserendo nella fattispecie concreta il presupposto dalla cui mancanza dipende
l’invalidità. Tali fatti giuridici che convalidano il negozio invalido sono:
1. la conferma, normalmente espressa mediante un secondo
negozio giuridico, di contenuto uguale, ma senza essere affetto dalla causa di invalidità
(eccezionalmente tacita);
2. la ratifica, la quale, a differenza della precedente non emanata
dagli autori del negozio, ma da parte di colui per conto del quale è stato compiuto il
negozio.
3. nei casi in cui l’invalidità è operata solo dietro iniziativa della parte
interessata, la sanatoria può avvenire per rinuncia all’impugnazione;
c. fenomeno distinto dalla convalidazione è la conversione: nella convalidazione si ha il venir
meno della causa di invalidità ed è lo stesso negozio a diventare inattaccabile; nella
conversione il negozio rimane invalido come negozio appartenete ad un determinato tipo,
ma è valido come appartenete ad un tipo diverso.

4 L’ATTO ILLECITO
4.1 L’atto illecito in generale
Classificando gli atti giuridici, si sono qualificati illeciti, gli atti giuridici riprovati dal diritto, che
vi ricollega effetti difformi dalla volontà, ossia la sanzione.
Nell’atto illecito si ha, innanzi tutto, la lesione di un interesse altrui, individuale o collettivo.
Tuttavia la lesione è condizione necessaria, ma non sufficiente, a costruire un atto illecito:
occorre che vi sia la violazione di un precetto giuridico.
Diremo illecito l’atto riprovato dal diritto, in quanto viola un precetto giuridico posto a tutela
degli interessi altrui.
Così definito l’atto illecito, è possibile distinguere in esso un’azione, un evento, e
un’antigiuridicità dell’azione. L’azione è un comportamento dell’autore (riprovato dal diritto), e
l’evento è la lesione di un interesse altrui, tutelato da un precetto giuridico. Azione ed evento
sono in relazione di causalità tra di loro: l’evento deve essere riferibile all’azione altrui (ciò
costituisce l’imputabilità).
Secondo la natura dell’interesse leso e del precetto giuridico violato, si distinguono l’illecito
pubblico e l’illecito privato: è pubblico l’atto che lede gli interessi della collettività o che viola

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un precetto del diritto pubblico; è privato l’atto che lede un interesse privato o un precetto del
diritto privato.
Nel diritto romano gli illeciti pubblici si denominano crìmina e gli illeciti privati delìcta. Essi
differiscono tra loro anche per il tipo di sanzione, per il modo in cui tale sanzione viene
applicata, ma non differiscono dal punto di vista della struttura.
Va da se che se un atto illecito lede contemporaneamente un interesse pubblico e uno
privato, verranno applicate le sanzioni proprie del diritto pubblico e del diritto privato.

4.2 La sanzione e la responsabilità


La conseguenza che il diritto ricollega all’atto illecito è la sanzione: la conseguenza della
violazione del precetto posto a tutela dell’interesse altrui.
La sanzione ha una duplice funzione: repressiva e riparatoria.
La sanzione repressiva (pena) si limita a infliggere un male al trasgressore, senza
preoccuparsi di rimuovere o riparare la lesione dell’interesse: essa è unicamente
commisurata all’entità del torto come tale.
La sanzione riparatoria o risarcitoria, è intesa ad eliminare le conseguenze lesive dell’atto
illecito, realizzando, dove possibile lo stato di fatto conforme al precetto violato, o quanto
meno sostituendo al bene perduto un surrogato idoneo a soddisfare l’interesse: essa è
fondata sull’idea di equivalenza economica.
La sanzione pone il trasgressore nella necessità giuridica di sottostare al male minacciato,
subendo la pena o la riparazione. Tale situazione in cui si trova l’autore dell’atto illecito,
prende il nome di responsabilità.

4.3 L’atto illecito privato


Può definirsi la violazione di un precetto del diritto privato posto a tutela dell’interesse altrui
elevato a diritto soggettivo. Nell’atto illecito privato si possono distinguere un elemento
soggettivo ed uno soggettivo. L’elemento oggettivo comprende:
a. l’azione, ossia il comportamento lesivo (eccezionalmente il pericolo di lesione);
b. l’evento, cioè la lesione di un interesse altrui;
c. l’antigiuridicità dell’azione: la violazione di un precetto giuridico.
L’elemento soggettivo consiste nell’imputabilità, cioè della riferibilità dell’atto a qualcuno
come suo autore. Perché si abbia imputabilità deve esistere un nesso causale tra azione
antigiuridica e l’evento – inoltre occorre che vi sia volontarietà dell’azione, il cui presupposto
è la capacità di intendere e volere.
In ordine al requisito della volontarietà dell’azione, il diritto romano presenta un lungo
sviluppo storico.
a. nell’età più antica la volontarietà si argomentava con il nesso causale tra azione ed
evento: una volta constatata la dipendenza dell’evento dall’azione altrui, l’agente era
senz’altro imputabile.
b. In seguito, accanto a questa primitiva figura, si pone l’imputabilità per dolo. Come
atteggiamento dell’imputabilità, dolo significa non solo volontarietà del fatto, ma anche
previsione delle conseguenze lesive, e quindi coscienza del torto che si reca ad altri;
coscienza non della lesione del precetto giuridico, ma della lesione dell’interesse altrui.

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c. Più tardi, ad opera della giurisprudenza, come figura intermedia si pone la colpa in
senso tecnico, che presuppone la volontarietà dell’azione, ma non la previsione delle
conseguenze lesive e quindi non la coscienza del torto; per tanto viene concepita come
inosservanza di un onere di prudenza che incombe su ciascuno nella propria condotta verso
gli altri.
Non in tutti gli atti illeciti l’imputabilità assume gli stessi aspetti. Per gli illeciti privati, si
distingue tra torto contrattuale e torto extra contrattuale.

4.4 Torto e responsabilità contrattuale


Dicesi contrattuale il torto che interviene nello svolgimento di un rapporto di obbligazione tra
l’autore e la vittima della lesione. Extracontrattuale è il torto, per converso, che non
interviene nello svolgimento di tale rapporto. Sorgono qui due precisazioni:
a. Nel torto contrattuale l’evento consiste nella lesione dell’interesse del creditore alla
prestazione, cioè nell’inadempimento dell’obbligazione a cui si è tenuti.
b. L’imputabilità assume diversi aspetti, a secondo del rapporto in cui interviene.
Originariamente si distinguono:
 Rapporto in cui l’imputabilità è limitata al dolo;
 Rapporti in cui l’imputabilità si desume dal nesso causale tra il comportamento di che x
es. doveva custodire la cosa e la perdita di questa.
L’imputabilità viene di regola concepita come difformità di un modello ideale di condotta,
indipendentemente da quale sia il rapporto di obbligazione nel caso specifico, si tratta di un
modello costituito dalla bòna fìdes, oppure dalla diligéntizia dell’uomo normale (cùlpa inteso
come venir meno alla diligèntia).
Nel diritto giustinianeo la colpa è intesa come inosservanza del dovere giuridico di diligenza;
e di essa si profilano diversi gradi: cùlpa lèvis, cùlpa làta, cùlpa in concrèto.

4.5 Sanzioni dell’illecito privato


Anche per quanto riguarda le sanzioni dell’illecito privato, si è avuto un lungo sviluppo
storico. Originariamente la sanzione era una sanzione penale o repressiva: l’atto illecito dava
luogo alla vendetta da parte dell’offeso. Una volta costituitasi la civìtas, la vendetta venne
assunta sotto il controllo di questa, la quale determinava i casi in cui era lecita e i modi in cui
doveva essere attuata.
Ma sin dai tempi remoti la vendetta può, di regola, essere eliminata dal pagamento della
composizione, somma di danaro pagata all’offeso a titolo di riscatto dalla vendetta;
composizione dapprima volontaria, e successivamente imposta dal pretore.
Nel diritto classico la sanzione dell’illecito privato si concretizza, di solito, nell’obbligazione di
pagare all’offeso una somma di danaro. Il compenso pecuniario ha però due funzioni
diverse, repressiva e risarcitoria, che non si escludono a vicenda, ma possono cumularsi.
Perciò abbiamo:
a. tutti gli atti illeciti in cui l’evento è una lesione patrimoniale (danno) danno luogo
all’obbligo di risarcire il danno, che è tipicamente sanzione riparatoria;
b. alcuni atti illeciti, tassativamente determinati sia dal ius civìle, sia dal pretore,
danno luogo all’obbligo di pagare alla vittima una somma di danaro, non intesa a risarcire il

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danno, ma a procacciare alla vittima una soddisfazione per il torto subito (sanzione
repressiva).
c. Poiché le funzioni sono diverse, non si escludono a vicenda, ma si cumulano.

5 LA DIFESA DEI DIRITTI


5.1 Concetti fondamentali
Assicurare la difesa del diritto soggettivo contro l’altrui resistenza e assicurarla solo a chi ne
sia effettivamente titolare è esigenza imprescindibile di ogni ordinamento giuridico. In ogni
ordinamento giuridico, la soluzione del problema oscilla tra due estremi:
a. rimettere al singolo la difesa del proprio diritto soggettivo, rendendo legittima
l’autodifesa, assoggettandola al controllo da parte della collettività, imponendo eventuali
limiti entro i quali possa essere considerata lecita;
b. mettere a disposizione dei singoli l’autorità e la forza degli organi della
collettività, con l’esclusione dell’autodifesa privata.

5.2 Il processo
L’istituto con il quale l’ordinamento giuridico risolve il problema della difesa del diritto è il
processo, ovvero il complesso di mezzi intesi a superare la resistenza opposta alla
realizzazione del diritto soggettivo.
La collettività organizzata, al fine di mantenere la pace sociale componendo i conflitti di
interesse fra consociati, assume tra i propri compiti anche quello di superare le incertezze
circa l’esistenza, la titolarità e il modo di essere dei diritti soggettivi.
Accanto al processo messo in moto dal privato per la difesa dei diritti soggettivi, ve ne è un
altro, in cui l’iniziativa e l’impulso spettano ad un organo della collettività. Nel diritto romano
si parla di processo privato per il primo, e di processo pubblico per il secondo.
In questo corso ci occuperemo di processo privato - iudìcium privàtum – il cui fine è la
composizione autoritativa dei conflitti di interesse. Tale composizione avviene
prioritariamente attraverso un processo di esecuzione – diretto a superare la resistenza alla
realizzazione dell’interesse protetto dalla norma; il processo di cognizione assumerà un
carattere incidentale rispetto a quello di esecuzione.
Il processo deve inoltre concretizzarsi in una pronuncia autoritativa, che dirimi il conflitto di
interessi; per realizzare ciò è necessario che vi sia un’autorità, un organo della collettività
organizzata, al quale l’ordinamento giuridico attribuisce il potere di emanare pronunzie,
munite di forza coattiva.

5.3 Ragione, azione, rapporto processuale, rapporto litigioso


Il rapporto processuale, corre tra due parti: l’attore e il convenuto.
Attore è colui al quale spetta l’iniziativa del processo e l’onere di affermare una ragione in
giudizio, convenuto è colui che oppone resistenza alla pretesa dell’attore.
La ragione è l’affermazione di un rapporto giuridico. L’azione è indicata dalla stessa iniziativa
del processo e il potere di esercitare tale iniziativa. Il processo costituisce esso stesso un
rapporto giuridico, il rapporto processuale; questo va tenuto nettamente distinto dal rapporto
litigioso, che altro non è che il rapporto giuridico dedotto in giudizio.

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5.4 L’autodifesa privata
Il punto di partenza per descrivere il fenomeno processuale è l’autodifesa privata, ossia la
difesa del diritto, attuata ad opera dell’interessato, senza l’intervento di un’autorità superiore.
È concepibile che nelle origini l’autodifesa privata fosse ammessa illimitatamente; alcuni
degli stessi mezzi più antichi di difesa processuale (sistema lègis actiònes), si configurano
come atti di esercizio privato delle proprie ragioni, legalizzati nella forma e sottoposti al
controllo della cìvitas.
Ancora nel diritto classico il privato è autorizzato a far uso della forza, sia per respingere
l’altrui violenza ingiusta, sia direttamente contro altri privati, per rimuovere uno stato di fatto
contrario al proprio diritto.
A cominciare dall’età del principato, e più nell’età della monarchia assoluta, l’autodifesa
privata subì notevoli limitazioni.

5.5 La giurisdizione. Definizione e concetto


Il concetto fondamentale per lo studio del processo è quello di giurisdizione. Il concetto
romano di iurisdìctio subì una profonda evoluzione nel tempo, considerato dapprima come
un potere, prerogativa personale del magistrato, e solo in proseguo, come una funzione
dello Stato, esercitata per tramite del magistrato.
Nel diritto moderno la giurisdizione è senz’altro un’attività esercitata da organi dello Stato;
nel diritto romano la giurisdizione era concepita alle origini come con potere personale del
magistrato giusdicente.
La giurisdizione è un’attività in cui possono distinguersi più momenti: quello finale, che vede
la formulazione della concreta regola giuridica ad opera del magistrato, e una precedente
attività di interpretazione dell’ordinamento giuridico, svolta per trovare la norma da applicare
al caso in esame.
Nel diritto romano è frequente riscontrare come l’attività di accertamento dei presupposti di
fatto, è demandata ad un iùdex diverso dal magistrato munito di giurisdizione. Soltanto al
termine di una lunga evoluzione la distinzione tra provvedimento decisorio del magistrato e
quello del giudice viene meno, in quanto il magistrato si è assunto il compito di svolgere tutte
le attività necessarie.

5.6 Il magistrato e il giudice


Nel diritto moderno, nelle sentenze in generale, si possono isolare due elementi: da un lato
l’accertamento della situazione di fatto, dall’altro l’enunciazione della regola di diritto,
destinata a disciplinare in concreto tale situazione.
Nel processo romano (fino all’epoca postclassica) accade che il compimento di queste due
operazioni sia affidato ad organi diversi, l’uno – il magistrato – incaricato di formulare la
regola giuridica destinata a disciplinare la fattispecie, con un decrètum; l’altro – il iùdex –
incaricato di accertare gli elementi del fatto stesso e di riscontrare l’applicabilità o meno della
regola di diritto che il magistrato ha formulato, con sentèntia.
Tutta l’evoluzione del processo romano verso la cognìtio interamente magistratuale si risolve
in una progressiva tendenza verso l’unificazione dell’organo investito di queste due funzioni.
Per quanto riguarda la figura del giudice può essere messa in luce una netta evoluzione:

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- in un primo tempo, il giudice è un esperto di res divìnae, nominato dal magistrato
nell’ambito del collegio dei pontefici; col tempo si vennero a introdurre collegi giudicanti
stabili, specializzati per materia, a composizione laica;
- successivamente il giudice singolo divenne un privato cittadino, con requisiti d’idoneità,
investito della propria funzione da un provvedimento magistratuale, tenendo conto del
desiderio delle parti;
- da ultimo si giunse al punto in cui il magistrato ritenne inutile nominare un giudice,
assumendosi personalmente, oltre alla sua tradizionale funzione di ius dìcere, anche quella
di iudicàre.

5.7 Il concetto di competenza come misura della giurisdizione


La giurisdizione, a partire dall’ epoca classica, va vista come una funzione statuale, il cui
esercizio è ripartito fra diversi magistrati e funzionari incaricati. Sorge in tal senso il concetto
di competenza come misura della giurisdizione, che viene suddivisa fra vari soggetti per
territorio, materia, per valore.
Il processo di frazionamento della giurisdizione è comunque di origine antica. All’epoca delle
guerre puniche, accanto al pràetor urbànus, fece la sua comparsa il pràetor peregrìnus, che
esercitava la sua funzione sulle controverse fra stranieri in Roma, o fra cittadini e stranieri.
Da una suddivisione di giurisdizione per materia, con la suddivisione dei territori extraitalici,
comparve una suddivisione per territorio.
Alla ripartizione per materia si ritorna, invece, con la comparsa della giurisdizione
specializzata degli edìli curùli, in tema di compravendita di schiavi e animali; con l’Impero
tale ripartizione prederà sempre più piede.
Quanto alla competenza per valore, essa appare con il riconoscimento di una limitata
giurisdizione ai magistrati municipali, la cui competenza è anche limitata per territorio.
Con la diffusione dell’istituto dell’appello, durante l’Impero, si venne a creare un’ulteriore
ripartizione delle competenze per grado di giudizio.

5.8 Caratteri generali dell’evoluzione del processo romano


La civìtas fin dal suo primo costituirsi, non poté lasciare campo libero all’autodifesa privata,
al fine di evitare il perpetuarsi di conflitti. Da qui la necessità dell’intervento di un’autorità
superiore, dapprima intensa non tanto a tutelare il diritto oggettivo, quanto diretto a tutelare
la pacifica convivenza dei cìves: da un lato sottoponendo a controllo l’autodifesa privata,
imponendo i modi in cui essa doveva esercitarsi per essere rilevante di fronte alla civìtas;
dall’altro impedendo che le parti entrassero in lotta, sottoponendo l’autodifesa convenzionale
alla composizione autoritativa dei conflitti di interesse.
Quando si fece ricorso ad un rito processuale vero e proprio, esso si espresse nelle
actiònes, delle quali si possono descrivere tre fasi storiche: il processo per lègis actiònes,
il processo per fòrmulas, il processo èxtra òrdinem.
Il primo rappresenta la fase più antica, dagli inizi al II sec. a.c.: corrisponde alla fase del
diritto quiritario.
Il processo per fòrmulas, è coevo alla fase di maggior sviluppo del diritto romano, dall’ultimo
secolo della Repubblica al III sec. d.c.

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Il processo èxtra òrdinem, è invece sempre coesistito con gli altri due: tende a generalizzarsi
nell’età del principato, e appare infine come unico tipo di processo nell’ultima fase del diritto
romano.

5.9 La regolamentazione legislativa del processo


Il processo è regolato da fonti autoritative ben più di quanto lo siano gli istituti di diritto
privato. La più antica figura di processo civile, ebbe origine consuetudinaria, e tuttavia già la
legge delle XII Tavole, regolava la materia in modo particolareggiato; ad essa è da attribuire
la scomparsa del carattere religioso del processo.
Anche in relazione al processo formulare vanno ricordate due leggi: la lex Aebùtia, e la lex
Iùlia: quest’ultima conteneva disposizioni minuziose sull’esecuzione delle sentenze. Si ritiene
che la lex Iùlia contenesse, regole applicabili a qualsiasi processo, da parte di qualsiasi
magistrato fornito di giurisdizione.

5.10 Il processo per lègis actiònes. Caratteri generali


Il processo privato romano nella sua fase più antica è un sistema di lègis actiònes: àctio,
letteralmente significa azione, e allude alle dichiarazioni solenni che le parti dovevano
pronunciare e ai gesti che dovevano compiere; lègis actiònes significa modo di comportarsi
conforme alla legge.
Tale tipo di processo è possibile solo fra le parti che siano cittadini romani patresfamìlias, e
soltanto per rapporti giuridici riconosciuti dal ius civìle.
L’attore (àctor) ha l’onere di indurre l’avversario (rèus) a comparire con lui avanti al
magistrato, e comunicare la ragione che egli intende far valere, richiamandosi ad una norma
del ius civìle. Se il magistrato ritiene inammissibile la ragione, perché non fondata su una
norma, denega l’azione, ponendo fine al dibattito. Se la riconosce fondata, il processo si
instaura, e il convenuto è posto nella necessità di prendere posizione di fronte alla ragione
fatta valere dall’attore.
La sua posizione è diversa a seconda dei casi: differenza tra àctio in rem e àctio in
persònam.
Àctio persònam: significa modo di agire contro una persona e allude all’atto del creditore
che mira ad impadronirsi della persona del debitore, atto ben visibile nella più antica delle
actiònes, la mànus inièctio.
Àctio in rem: significa modo di agire sulla cosa, e allude alla lotta dei due contendenti
intorno all’appartenenza della cosa.
Tanto in persònam, quanto in rem, il processo lègis actiònes si svolge in due stadi: uno
stadio in iùre, davanti al magistrato giusdicente, giuridicamente il più importante, e uno
stadio, in iudìcio, davanti al giudice.
Lo stadio in iùre consiste in un rito solenne, nel quale si assiste ad una recita davanti al
magistrato di parole immutabili, fissate dalla consuetudine o desunte dalla legge, e nel
contestuale compimento di gesti prescritti; ogni fase del rito si chiude con una pronuncia del
magistrato, caratterizzata da parole solenni: quest’ultimo dirige e conclude il rituale.
È possibile raccogliere in due categorie i mòdi lège agèndi: i primi diretti all’accertamento di
un rapporto giuridico; i secondi i modi diretti all’esecuzione.

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5.11 I singoli mòdi lège agèndi. Il processo di cognizione
I mòdi lège agèndi, diretti all’accertamento di un rapporto giuridico sono:
a. lègis àctio sacramènto: caratteristica propria è lo scambio dei sacramènta, ossia una
promessa reciproca di ciascuna delle parti di pagare all’erario, in caso di soccombenza, un
determinata somma di danaro preventivamente depositata. Il giudice doveva decidere quale
dei due sacramènta fosse conforme al diritto. La decisione sui sacramènta implicava anche
la decisione sul merito della lite. La lègis àctio sacramènto assume due forme:
 in rem: è la forma originaria, applicata per far valere la signoria
inerente a rapporti assoluti o per accertare lo status di una persona. Le parti si recano
davanti al magistrato in iùre, dove deve essere portata la cosa (o parte di essa), o la
persona alièni iùris, intorno alla quale si controverte.
In iùre ognuna delle parti tocca la cosa in questione con una bacchetta, e afferma la propria
ragione pronunciando parole solenni. Dopo che le parti hanno così rivendicato la cosa,
interviene il magistrato, il quale ordina loro di lasciare la cosa. Le parti mediante la pronuncia
di parole solenni, addivengo allo scambio dei sacramènta, con cui il giudice è investito della
questione e alla sua decisione le parti sono vincolate. Dopo lo scambio dei sacramènta, il
magistrato attribuisce il possesso provvisorio a quello dei litiganti che offre maggiori
garanzie; intervengono garanti per la restituzione della cosa e dei frutti in caso di
soccombenza del possessore provvisorio. Così la questione è portata davanti al giudice
privato, il quale deve limitarsi a pronunciare quale dei due giuramenti sia conforme o meno
al diritto.
 lègis àctio sacramènto in persònam. Qui abbiamo l’affermazione
di un attore che tiene dietro la negazione del convenuto. Qui le parti non si recano
d’accordo davanti al magistrato, ma l’attore chiama in giudizio il convenuto, che è tenuto a
seguirlo sotto la minaccia della mànùs inièctio; in iùre l’attore afferma la propria ragione e,
se il rèus nega, si addiviene allo scambio dei sacramènta con l’intervento dei rispettivi
garanti in caso di soccombenza. Anche qui il giudice si limita a pronunciare il giuramento di
chi dei due sia conforme al diritto. Qualora invece il convenuto confermi la pretesa
dell’attore, il magistrato ne dispone la cattura, da parte dell’attore, che apre la via al
procedimento di esecuzione.

b. lègis àctio per iùdicis arbitrìve postulatiònem: era esperibile soltanto per far valere
determinate ragioni.
Nella lègis àctio per iùdicis arbitrìve postulatiònem manca lo scambio dei sacramènta e il
giudice è direttamente investito della questione. L’attore afferma in iùre le proprie ragioni e il
convenuto le nega, dopo di che l’attore si rivolge al magistrato affinché assegni un giudice, il
tutto attraverso la pronuncia di parole solenni. È probabile che questo tipo di processo sia
sorto per azioni divisorie: successivamente applicato ai crediti nascenti dal contratto formale
spònsio. In origine, trattandosi di dividere cose comuni, o di assegnare terreni d’incerta
spettanza, si richiedeva al magistrato di nominare un tecnico, per ripartire i beni tra gli
interessati. Non trattandosi di un conflitto diretto d’interessi, non poteva trovare applicazione
la lègis àctio sacramènto, quest’ultima particolarmente onerosa in quanto era necessario
impegnare somme di danaro a titolo di scommessa. La nuova figura, molto meno

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macchinosa, indusse il legislatore nella legge delle XII Tavole, ad estenderne il campo di
applicazione ai crediti da spònsio.
c. lègis àctio per condictiònem: introdotta nel III sec. a.c. per i crediti di somme
determinate di danaro ed esteso ai crediti di cose determinate. È il più semplice dei mòdus
agèndi: non solo anche in esso manca lo scambio dei sacramènta, ma l’attore si limita ad
affermare con parole solenni l’esistenza del credito e il suo ammontare. Se il rèus negava,
l’attore lo invitava a ripresentarsi dopo trenta giorni dal magistrato per farsi assegnare un
giudice. Il nome condìctio, dare convegno, indica l’invito a ripresentarsi dinnanzi al
magistrato. Se durante i trenta giorni non era intervenuto un accordo, che avesse reso inutile
la seconda udienza, il magistrato nominava un giudice, affidandogli il compito si dare la
sentenza sull’esistenza del credito.

5.12 La lìtis contestàtio nella lègis actiònes e la costituzione del rapporto


processuale
Ciascuna delle lègis actiònes descritte consta di una fase che si svolge dinnanzi al
magistrato – fase in iùre – e di un’altra che si svolge dinnanzi al giudice – fase in iudìcio.
I due stadi processuali sono separati da un atto d’importante significato giuridico,
denominato lìtis conterstàtio – contestazione della lite. Impostata la controversia davanti al
magistrato, ciascuna parte si rivolge alle persone presenti, intimando loro, quali testimoni, di
conservare memoria di ciò a cui avevano assistito, per riferirne all’organo giudicante nello
stadio successivo.
Da quel momento in poi l’oggetto del quale si trattava era irrevocabilmente e definitivamente
trasferito in giudizio. Da questa formalità derivavano tre effetti:
a. effetto satisfativo: l’attore si intendeva fin d’ora soddisfatto dall’accoglimento della
propria richiesta, operato dal giudice con sentenza a lui favorevole;
b. effetto conservativo: il rapporto giuridico dedotto in giudizio non era più suscettibile di
venir modificato;
c. effetto estintivo: il rapporto preesistente alla lite, cioè quello sostanziale, era stato
irrimediabilmente estinto, perché traslato in un nuovo rapporto, quello processuale.

5.13 I singoli mòdi lège agèndi: il processo di esecuzione


I mòdi lège agèndi diretti all’esecuzione sono:
a. lègis àctio per mànus iniectiònem. È la più antica ed è la tipica àctio in persònam:
anticamente nel senso di aggressione rituale alla persona, consiste nell’attività di un
soggetto intesa a impadronirsi dell’altro soggetto per realizzare su di esso, il suo diritto. Di
regola la mànus inièctio è ammessa previo accertamento vincolante di obbligazioni
pecuniarie, quale risulta da un iudicàtum, oppure da ammissione davanti al giudice del
debitore. Terminato un processo di accertamento con la condanna del debitore, questi ha
trenta giorni di tempo per adempiere all’obbligo di pagare il creditore. Trascorso questo
termine, senza l’adempimento dell’obbligo, il creditore ha diritto di afferrare il debitore
ovunque si trovi e di condurlo con la forza di fronte al magistrato. Qui egli pone in essere il
rito, mettendo le mani addosso al debitore con l’assenso del magistrato, pronunciando certe
parole. Al debitore non era lecito liberarsi da sé; per lui doveva intervenire un vindex, che
affermasse l’infondatezza del procedimento: l’intervento del garante liberava
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immediatamente e definitivamente il debitore, ma si apriva un processo di accertamento
contro il vindex che, in caso di soccombenza, metteva capo ad una mànus inièctio contro di
lui per la misura del doppio. Qualora non si fosse presentato alcun vindex, e il debitore non
avesse soddisfatto l’obbligazione, il magistrato confermava la mànus inièctio, autorizzando il
creditore a condurre con sé il debitore. Il creditore teneva presso la propria casa il debitore in
stato di prigionia per sessanta giorni; durante questo periodo egli era tenuto a presentare il
debitore a tre mercati settimanali successivi, per ottenere un eventuale riscatto da parenti o
amici. Trascorso questo periodo, senza che fosse intervenuto alcun accordo, il creditore
poteva realizzare il suo diritto sulla persona fisica del debitore, vendendo come schiavo o
mettendolo a morte.
L’intervento della civìtas, nel V sec. a.c., si manifestò disciplinando tutto il procedimento e
imponendo che la mànus inièctio, si facesse con l’autorizzazione del magistrato; dichiarando
ammissibile ma mànus inièctio solo in determinate ipotesi; innestando la figura del vindex.
b. lègis àctio per pignori capiònem. Consiste nel prendere possesso di una cosa del
debitore allo scopo di costringerlo al pagamento e quando questo manchi, al
soddisfacimento del credito.

5.14 Genesi del processo formulare


Il sistema delle lègis actiònes funzionò finché perdurarono le condizioni nel quale sorse,
ovvero finché l’ordinamento giuridico della civìtas fu il ius civìle. Ma con l’andare del tempo,
in conseguenza dell’espansione di Roma, i limite del processo per lègis actiònes si fecero
sentire in modo sempre più grave. Più che il rigido formalismo che vincolava le parti e il
magistrato a dichiarazioni predeterminate e immutabili (bastava uno sbaglio per produrre la
nullità del procedimento), e il costo, gli inconvenienti più gravi erano che tale processo era
aperto solo ai cittadini romani, e che fosse esperibile solo per pretese riconosciute dal ius
civìle.
Di qui la necessità di un processo che eliminasse tali inconvenienti: il processo formulare,
rispose a tali esigenze, rimanendo il processo privato principale per tutta l’epoca classica.
Storicamente, dalla prima metà del III sec. a.c., fu istituito il praètor peregrìnus, magistrato
specializzato nell’esercizio della giurisdizione su controversie con e fra stranieri; non avendo
questi ultimi la capacità giuridica dal punto di vista del ius civìle, è certo che il pretore
dirigesse i processi secondo un rito diverso da quello delle lègis actiònes. È lecito
immaginare che innanzi tutto per i peregrìni e, in seguito, considerata la praticità della
soluzione, anche per i cittadini romani, si sia venuta diffondendo la pratica di istruire
controverse davanti al magistrato, e di deferirne la risoluzione a un giudice privato. Tra la
fine della fase in iùre e l’inizio dell’accertamento ad opera del giudice, divenne utile
riassumere i termini della controversia in un breve documento scritto.

5.15 Caratteri del processo formulare


Carattere fondamentale del processo formulare, che lo distingue dal precedente, è la
fòrmula: ossia il documento scritto nel quale è designata la persona del giudice, è fissata la
pretesa dell’attore e il giudice è incaricato di condannare il convenuto se la pretesa
dell’attore apparirà fondata e di assolverlo nel caso contrario.

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Il magistrato, anche nel processo formulare, mantiene la propria funzione giurisdizionale
autoritativa, emette provvedimenti decisori. Tra questi, due sono fondamentali:
a. dàre ìudice: nominare il giudice, scelto dalle parti in un albo curato dal magistrato, e
investirlo del potere di giudicare;
b. dàre iudìcium: emanare la formula, ovvero provvedimento di carattere decretale e
decisorio applicata al caso concreto.
c. Denegàtio actiònes: talvolta la decisione del pretore poteva consistere nel diniego del
giudizio, ovvero di nominare il giudice. Questo non solo quando la ragione non era tra quelle
riconosciute, ma anche quando la ragione era tra quelle riconosciute ma, con
apprezzamento discrezionale, egli riteneva che la sua realizzazione potesse condurre a
conseguenze inique.
Se l’azione era dàta, la questione controversa era sottoposta al giudice dal magistrato
mediante formula scritta, con la quale veniva enunciata la regola di diritto doveva applicare,
valutando, con i mezzi probatori, la concreta situazione di fatto, per concludere se
sussistevano o meno gli elementi per condannare il convenuto. Il giudice non era mai
investito della soluzione delle questioni di diritto, ma doveva limitarsi a indagini sul fatto.
Il magistrato, quale designato alla formulazione dei termini giuridici della controversia, finiva
spesso per creare ex nòvo vere e proprie norme: questo potere creativo è alla radice del ius
honoràrium.
La ripartizione di compiti tra magistrato e giudice, si basava sulla risoluzione di due diversi
ordini di problemi: la valutazione della circostanza di fatto in cui si concreta il rapporto
controverso, e la formulazione delle regole di diritto alla luce delle quali esso va valutato.

5.16 Congegno e parti della formula


La formula, nelle sue parti costitutive, è sempre preceduta dalla designazione del giudice.
Nella formula più semplice abbiamo l’affermazione di una ragione fatta valere dell’attore, e
subordinata ad essa, qualora risulti fondata, l’attribuzione al giudice della potestà di
condannare il convenuto; di assolverlo in caso contrario.
La formula ha la struttura di un periodo ipotetico alternativo, nel quale posta una premessa o
una serie di premesse, la cui sussistenza è oggetto di accertamento, si afferma come
conseguenza che il giudice, se le premesse saranno accertate, dovrà condannare il
convenuto, e assolverlo al contrario. In questo processo condannare significa porre a carico
del rèus un’obbligazione di contenuto pecuniario; assolvere significa dichiarare il rèus libero
da tale obbligazione.
Le parti, o clausole, di principale applicazione nelle formule sono:
a. la intèntio: affermazione della ragione fatta valere dall’attore. Può essere cèrta, se la
ragione affermata abbia un oggetto determinato, o incèrta, se l’oggetto è interminato.
b. La condemnàtio: è l’attribuzione al giudice della potestà di condannare il convenuto
se risultano fondate le premesse contenute nell’intèntio. Anche questa sarà cèrta o incèrta a
seconda che sia espressa in una somma di danaro determinata.
c. La demonstràtio: è l’indicazione del fatto che valse a costituire il rapporto giuridico
dedotto in giudizio; si affermano i fatti da cui risulta l’intèntio.
d. La adiudicàtio: si trova soltanto nella formula dei giudizi divisori; con essa si
conferisce al giudice il potere di fare le parti tra i litiganti.

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5.17 Vari tipi di formule
a. Fòrmulae in ius e fòrmulae in factum: le formule sono correlate a ragioni
riconosciute dal ius civìle o ritenute degne di protezione dal pretore. Nelle prime l’intèntio la
questione è posta in termini di diritto, nel senso che si afferma un diritto soggettivo
dell’attore, o un obbligo giuridico del convenuto. Ma il pretore accorda la tutela giudiziaria
anche a rapporti non riconosciuti dal ius civìle, ma da lui ritenuti degni di protezione: in tali
casi è impossibile porre l’intèntio in termini di diritto, e pertanto la ragione è posta in termini
di fatto, nel senso che si espongono i fatti dedotti dall’attore e si attribuisce al giudice il
potere di condannare il convenuto se questi risultino veri.
b. Fòrmulae ùtiles. Si tratta di un altro modo utilizzato dal pretore per estendere la
propria tutela ai rapporti non riconosciuti dal ius civìle. In questa ipotesi egli procede per
analogia, estendendo la tutela a situazioni di fatto diverse, ma più o meno analoghe ad altre
cui il ius cìvile, ricollegava il sorgere di effetti giuridici.
c. Fòrmulae fictìciae. (c’è una fictio) Formule caratterizzate dalla circostanza che in
esse viene indicato un elemento di fatto che in realtà non esiste, o la non esistenza di un
elemento che in realtà esiste. Sono usate quando il pretore estende la propria tutela a
rapporti analoghi a quelli già presi in considerazione dal ius civìle, ma diversi da essi per
qualche elemento: al tal fine si suppone l’esistenza di una circostanza di fatto che in realtà
manca, e che se esistesse renderebbe il rapporto tutelabile dal ius civìle.

5.18 Altre clausole della formula


La formula, oltre a quelle citate, può contenere altre clausole, che sono:
a. L’excèptio: eccezione. Il convenuto ha l’alternativa di riconoscere la pretesa
dell’attore oppure di negarne il fondamento, impegnandosi nel processo. Ma può darsi che
esistano circostanze tali da non negare il fondamento della pretesa dell’attore, ma tali da
paralizzarla; per lo più si tratta di circostanze irrilevanti per lo ius civìle, ma che provate
renderebbero iniqua la condanna del convenuto. Perché il giudice possa tenerne conto, e di
conseguenza assolvere il rèus, è necessario che anche di essa se ne faccia menzione nella
formula, mediante l’excèptio. La maggior parte delle eccezioni prende in considerazione
circostanze di fatto irrilevanti per il ius cìvìle (dolo, violenza morale, ecc), ma considerate di
rilievo in una coscienza sociale progredita, e di cui il pretore ha tenuto conto. L’excèptio non
ha solo una funzione negativa di sottrarre il convenuto alla condanna, ma anche quella
positiva di assicurare una protezione agli interessi che il ius cìvile non tutela. In pratica
l’excèptio è uno dei molti aspetti del dualismo tra ius civìle e ius honoràrium. Talvolta può
accadere che di fronte a circostanze fatte valere dal convenuto l’attore possa farne valere
un’altra, tale da paralizzarla; in tal caso nella formula, oltre all’excèptio, sarà inserita la
replicàtio, teoricamente fino all’infinito.
b. La praescrìptio. È una precisa determinazione dei limiti della controversia, premessa
alla formula e intesa ad evitare la deduzione in giudizio di pretese che si vogliono far valere.
c. Dell’arbitràtus de restituèndo. Tale clausola, conforme alla sua funzione, si trova
innanzi tutto nelle formule delle azioni in rem, le quali mirano alla restituzione della cosa.
d. Infine vi sono altre clausole che mirano, non già ad escludere la condanna del
convenuto, ma a ridurne o delimitarne l’ammontare.

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5.19 Classificazione delle azioni: actiònes in rem e actiònes in persona
La classificazione principale delle actiònes (ragione) è quella che si contraddistingue in:
a. actiònes in rem. Come già visto a proposito del processo per lègis actiònes, questa
distinzione si traduceva in una differente struttura: nell’àctio in rem il convenuto doveva
affermare una propria ragione di fronte alla ragione fatta valere dall’attore, mentre ciò non
avveniva nella àctio in persònam. Nel processo formulare invece il convenuto, anche
nell’àctio in rem, non è tenuto ad affermare una propria ragione nei confronti dell’attore.
Secondo Gaio, sono azioni in persònam, quelle con cui si fa valere un diritto di credito verso
una persona determinata; sono azioni in rem quelle in cui l’attore vanta un diritto soggettivo
èrga òmnes: proprietà, usufrutto, titolo di erede, ecc, poste a difesa di diritto soggettivi
assoluti.
b. actiònes in persònam. Con questo tipo di azione si profilano rapporti giuridici di
obbligazione, sia essi riconosciuti dal ius civìle o anche dal pretore; con l’ àctio in rem si
profilano rapporti di tipo reale. L’ àctio in persònam è posta a difesa dei diritti soggettivi
relativi e l’avversario contro cui potrà essere esperita l’azione è predeterminato. Questa
distinzione si ripercuote sulla struttura diversa della formula.
Altra differenza, che sussiste nel processo formulare tra i due tipi di azione, è quella
connessa alla differente alternativa posta al convenuto:
a. nell’ àctio in persònam, il convenuto può confessare oppure accettare di contestare la
lite;
b. nell’ àctio in rem, il convenuto può disinteressarsi della cosa, autorizzando di fatto
l’attore a portarsi via con sé, o al pretore di ordinare di trasferire la cosa, oppure rem
dèfendere, impegnandosi nel processo.

5.20 Actiònes poenàles e actiònes reipersecutòriae


Per comprendere la precedente distinzione è necessario analizzare la nozione di poèna,
ovvero la riparazione pecuniaria di un torto subito, destinata a procurare alla vittima una
soddisfazione per il torto; essa è da tener distinta dal risarcimento del danno, il quale invece
mira ad eliminare la lesione patrimoniale che il torto ha arrecato, e solo in tali limiti.
Sono pertanto penali le azioni nascenti da atto illecito privato, civile o pretorio, che mirano a
far conseguire una pena, intesa come riparazione del torto; tutte le altre azioni sono
ripersecutorie – quindi sono tali tutte le azioni in rem e le azioni in persònam non nascenti da
atti illeciti.
Le azioni penali presentano, in confronto alle altre azioni, altri caratteri, che sono:
a. la intrasmissibilità passiva; l’azione può essere esperita solo contro il colpevole,
non contro i suoi eredi, a meno che l’offensore sia morto dopo la lìtis contestàtio. Talune
azioni – quelle dirette alla vendetta – sono intrasmissibili anche dal lato attivo: possono
essere esperite soltanto dall’offeso, eccetto il caso di cui sopra.
b. La nossalità. Quando si tratta di un atto illecito commesso da persona alièni iùris,
l’azione si esperisce contro il paterfamìlias, che abbia in potestà il colpevole; il paterfamilìas,
può però liberarsi abbandonando il colpevole al soggetto leso. Egli ha pertanto l’alternativa o
di assumere la difesa del proprio sottomesso, assumendosi l’obbligazione in proprio ed
esponendosi al pagamento della poèna, oppure operare spontaneamente la nòxae dedìtio.
Se il paterfamìlias non assumeva la difesa del colpevole oppure non operava la nossalità, e
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nessun altro si presentava ad assumerla, il magistrato ne autorizzava la cattura, ovvero
autorizzava l’esecuzione personale sul paterfamìlias mediate la mànus inièctio.
c. La cumulatività. Se l’atto illecito è stato commesso da più persone, l’azione è
esperibile contro ciascuna di esse, senza che l’avere esperito l’azione contro una consumi
l’azione esperibile verso le altre.
I tre caratteri dell’azione penale si spiegano tenendo presente che alle origini dall’atto illecito
nasceva la vendetta, la quale poteva essere eliminata da una composizione pecuniaria,
dapprima volontaria, poi imposta coattivamente dagli organi della civìtas. La poèna non è
altro che questa composizione pecuniaria, che evitava la vendetta; l’azione penale tiene
conto, in pratica dell’antica vendetta che doveva essere diretta contro la persona
dell’offensore, e non poteva essere eliminata dalla restituzione, in quanto mirante a rifarsi
dell’offesa patita infliggendo un male all’offensore. Tali caratteri sono rimasti nell’azione
penale.

5.21 Iudìcia strìcta e iudìcia bònae fìdei


La distinzione riguarda gli schemi delle formule con le quali le ragioni sono profilate in
giudizio. Essa concerne la specie e la misura dei poteri che mediante la formula sono
conferiti al giudice, e in particolare la maggiore o minore discrezionalità di apprezzamento.
a. nei iudìcia strìcta (giudizi di stretto diritto) il giudice è vincolato letteralmente alla
formula; se il convenuto ha circostanze da far valere occorre che provveda inserendo nella
formula le apposite eccezioni.
b. Iudìcia bònae fìdei. Sono un numero limitato di giudizi, relativi a rapporti di
obbligazione, in cui l’intèntio è formularmente caratterizzata dalla clausola “secondo buona
fede”. Tale giudizio conferisce al giudice libertà di poteri, nel senso della discrezionalità di
apprezzamento della buona fede tra le parti. Bòna fìdes, significa onestà, quella correttezza
che è costume osservare e che si è in diritto di esigere nei rapporti tra galantuomini, e che
nulla ha a che vedere con l’equità. La clausola inserita nella formula prevede che il giudice
sia chiamato ad indagare tutto il comportamento delle parti, a cominciare dal momento in cui
ebbe inizio il rapporto, per vedere se è stato conforme alla bòna fìdes.
c. Iudìcia arbitraria. Categoria intermedia, contengono nella formula l’arbitràtus de
restituèndo. Il giudice potrà condannare solo se il convenuto, invitato a restituire, si sarà
rifiutato di farlo o lo avrà fatto in modo insoddisfacente.

5.22 Il rapporto processuale


Il processo si svolge tra due parti, tra chi afferma soggetto attivo del rapporto dedotto in
giudizio, e chi nega l’esistenza o la titolarità alla controparte, rispettivamente attore e
convenuto.
L’idoneità conferita dall’ordinamento di essere parte in giudizio è un aspetto particolare della
capacità giuridica – presupposto necessario alla costituzione del rapporto giuridico
(filiusfamìlias, salvo eccezioni, e servo fa difetto la capacità di essere in giudizio).
Abbiamo poi l’attitudine – anch’essa conferita dall’ordinamento giuridico – di assumere la
posizione processuale di attore o di convenuto è la capacità di stare in giudizio; anch’essa è
presupposto necessario per la costituzione del rapporto processuale.

59
La capacità di essere parte e la capacità di stare in giudizio non sempre concorrono in capo
allo stesso soggetto: es. il filiusfamìlias non può essere parte, ma può stare in giudizio.
Ulteriore presupposto per la costituzione del rapporto processuale è la legittimazione attiva o
passiva dell’àctio, ossia la competenza ad ottenere o risentire degli effetti giuridici
dell’esperimento dell’àctio.
Come nel negozio giuridico la legittimazione spetta ai titolari degli interessi che dal negozio
ricevono il regolamento, così la legittimazione dell’àctio compete normalmente ai soggetti del
rapporto litigioso; ma come la legittimazione nel negozio può spettare a persona diversa,
quando il titolare degli interessi non abbia la capacità o la possibilità di provvedere da sé,
così anche la legittimazione dell’àctio può spettare a persone diverse, quando manchi la
capacità o l’opportunità di sostenere la relativa lite. In questo caso si ha il fenomeno della
sostituzione processuale.
Quando al soggetto del rapporto litigioso faccia difetto la capacità, sostituto processuale sarà
il titolare dell’ufficio privato cui è connesso il regolamento di interessi dell’incapace (tutore,
curatore); quando soggetto del rapporto processuale è una persona giuridica, sostituto sarà
l’organo nella cui competenza rientra; quando al soggetto del rapporto litigioso fa difetto solo
l’opportunità, egli può farsi sostituire da un cògnitor o gli può subentrare un procuràtor,
ovvero, nella veste di convenuto, un defènsor.
Il rapporto processuale una volta costituitosi con la lìtis contestàtio, rimane definitivamente
identificato nei suoi elementi soggettivi e oggettivi, così come non è più ammesso un
mutamento delle parti o del giudice.

5.23 Effetti della lìtis contestàtio


La lìtis contestàtio ha la funzione di fissare in modo immutabile e vincolante per le parti il
rapporto dedotto in giudizio. Essa adempie ad una funzione imprescindibile di qualsiasi
processo: se la condizione continuasse a mutare sarebbe impossibile giungere ad una
decisione.
Alla lìtis contestàtio si ricollegano diversi effetti, taluni di carattere positivo (effetti conservativi
e satisfattivi), i quali presuppongono una sentenza positiva per l’attore, e altri di carattere
preclusivo (effetti estintivi), i quali invece sono indipendenti dall’esito del processo.
a. Effetti conservativi. La lìtis contestàtio fissa gli elementi del rapporto litigioso e toglie
efficacia a taluni fatti che sarebbero di per sé idonei a modificarlo o estinguerlo: es. rende
nulla l’alienazione.
b. Effetti satisfattivi. La lìtis contestàtio identifica in modo irrevocabile il tema della
decisione, determinando l’entità e la misura di quanto spetta all’attore.
c. Effetti estintivi. La lìtis contestàtio impedisce una nuova lite e un nuovo processo in
ordine alla medesima ragione che si profila in giudizio, ovvero la ragione fatta valere non può
farsi valere un’altra volta, qualunque sia l’esito del processo.

5.24 Il concorso delle azioni


L’effetto estintivo della lìtis contestàtio non si verifica solo quando si riproponga la stessa
azione già proposta; esso può anche verificarsi quando si proponga un’azione diversa, ma
fondata sugli stessi presupposti e mirante allo stesso risultato pratico. In tale ipotesi si parla

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di concorso delle azioni. Es: concorso dell’azione penale con un’azione ripersecutoria;
cumulo delle azioni penali.

5.25 Lo stadio in iudìcio e la sentenza


Lo stadio in iudìcio si svolge senza solennità, non essendo nemmeno necessaria la
presenza delle parti. È dominato dall’oralità. L’onere della prova spetta all’attore e, per i fatti
che sono fondamento dell’eccezione, al convenuto.
Nel processo formulare non esistono gerarchie tra i mezzi di prova: i giudice valuta
liberamente le prove, scritte ed orali. È con le prove che le parti vincono o perdono la causa.
L’attore può avere le più fondate ragioni, ma se non è in grado di dimostrare la fondatezza
delle proprie pretese, per il giudice è come se tali ragioni non esistessero.
L’importante materia delle prove era insegnata nelle scuole di retorica, nelle quali si
apprendeva l’arte del persuadere: in tali scuole si distingueva tra probatiònes inartificiàlis e
probatiònes artificiàlis: le prime erano riscontri oggettivi, come documenti scritti o relazioni
testimoniali; le seconde erano argomentazioni logiche formulate dai rètori.
Il giudice formatasi la propria convinzione, emetteva la sentèntia, ossia il suo parere
vincolante di assoluzione o di condanna pecuniaria.

5.26 La res iudicàta


La sentèntia, del processo di cognizione, rappresenta la soluzione delle questioni proposte
in giudizio dalle parti con la litìs contestàtio ed ha un duplice contenuto: una decisione,
positiva o negativa, sulla ragione profilata in giudizio; e una conseguente pronuncia, che
costituisce a carico del convenuto un nuovo vincolo, se condannato, o lo libera, se di
assoluzione.
Nel processo formulare la sentenza non contiene alcun comando, ma solo un accertamento
vincolante sulle ragioni dedotte in giudizio; l’accertamento è implicito nella condanna, perché
il giudice la può emettere solo se è dimostrato. Il suo accertamento riguarda solo il fatto, non
la qualificazione giuridica del rapporto, la quale è opera del magistrato, assistito dalla
consulenza dei giuristi.
Rispetto alla ragione profilata in giudizio, la decisione ha un’efficacia caratteristica
denominata cosa giudicata, che può essere definita come l’efficacia della decisione, in
quanto accerta situazioni giuridiche esistenti, ossia l’esistenza o il modo di essere del
rapporto fra le parti.
La res iudicàta ha una funzione preclusiva, ossia esclude che la ragione su cui si è deciso
possa formare oggetto di nuovo processo; ha inoltre una funzione normativa, ossia fissa in
modo vincolante, per l’avvenire, il rapporto litigioso, fungendo da esempio per fattispecie
simili che si presenteranno in giudizio.

5.27 L’appello
La sentenza del giudice o la pronuncia del magistrato può essere gravata da appello, ossia
l’istanza con la quale il soccombente si rivolge ad un’autorità superiore a quella che ha
emanato la sentenza, chiedendone la riforma, cioè l’emanazione di una sentenza più
favorevole.

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5.28 Il processo di esecuzione
Sia nel processo formulare che in quello lègis actiònes, non si può procedere all’esecuzione
della sentenza, che mira a far ottenere all’attore una somma pecuniaria, in quanto la
sentenza non è titolo esecutivo. La sentenza di un giudice privato non è un provvedimento
autoritativo in cui sia insita di per sé una efficacia esecutiva, ma soltanto un parere
vincolante dal quale scaturisce, se di condanna per il convenuto, un’obbligazione. Il
condannato ha trenta giorni per adempiere alla prestazione in danaro che ne costituisce il
contenuto; trascorso inutilmente questo termine senza che le parti abbiano trovato un
accordo, l’attore riporta il convenuto dinnanzi al pretore per mezzo di una ius vocàtio
(convocazione). Comparse le parti, il magistrato rivolge al convenuto una solenne
intimazione ad adempiere all’attore di pagare; se l’intimato non paga e non oppone
argomenti giustificativi al proprio comportamento omissivo, il magistrato con proprio decreto
autorizza la dùctio, ossia l’esecuzione sulla persona: l’attore era così autorizzato a condurre
il condannato a casa propria e tenerlo in custodia. Questa prigionia privata non era
preordinata alla riduzione in schiavitù o all’uccisione del condannato: questi poteva
riacquistare la libertà prestando il proprio servizio per un periodo proporzionato alla somma
dovuta.
Se invece l’intimato resisteva all’ordine del magistrato, opponendo ragioni valide in merito
all’inesistenza dell’obbligo verso l’attore, e tali ragioni erano considerate rilevanti dal
magistrato, il quale pertanto non concedeva la dùctio, l’attore insoddisfatto aveva la facoltà
di intentare contro il convenuto un’azione in persònam di cognizione, impegnandosi in una
nuova lìtis contestàtio; impegnandosi in essa il convenuto accettava di rischiare, se giudicato
perdente, una condanna pari al doppio dell’ammontare della prestazione.
Accanto all’esecuzione personale, a cominciare dall’ultimo secolo della Repubblica, il pretore
istituì, sul piano del ius honoràrium, una forma di esecuzione sul patrimonio: caratteristica è
che tale forma di esecuzione investiva l’intero patrimonio del debitore: questi veniva
spogliato dell’intero patrimonio e sostituito da un nuovo titolare, comparatore dei beni, che si
assumeva l’obbligo di pagare i creditori: la procedura prese il nome di bonòrum vendìctio.
La bonòrum vendìctio produce la infàmia del debitore che la subisce, ovvero una grave
diminuzione della capacità del soggetto.
Accanto alla bonòum vendìctio, che ha carattere concorsuale simile all’odierna procedura
fallimentare, vi è il pìgnus in càusa iudicàti càptum (pegno ottenuto in forza di cosa
giudicata), che consiste nel prendere i singoli beni del debitore, per autorità del magistrato,
ottenendo soddisfacimento dalla vendita delle cose pignorate.

5.29 Altri provvedimenti magistratuali


Nel potere di comando del magistrato (l’impèrium), oltre alla concessione delle fòrmulae,
rientra la competenza ad emanare provvedimenti complementari al processo, ovvero
strumenti autoritativi non processuali di regolazione dei conflitti di interesse.
a. la restitùtio in integrum – rimessione in pristino: è un provvedimento che toglie
efficacia a qualsiasi negozio o stato di fatto, che abbia prodotto a carico del soggetto
conseguenze fondate sul ius civìle, ma ritenute dal magistrato contrarie all’equità; chi ha
subito pregiudizio viene rimesso nelle condizioni in cui si trovava prima che il negozio fosse
compiuto.
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b. La stipulatiònes praetòriae: sono così chiamate le promesse solenni, che i cittadini
possono essere costretti a prestare nella forma della stipulàtio, negozio bilaterale a carattere
contrattuale, obbligatorio, solenne e astratto, in cui la forma consiste in una domanda e nella
conseguente risposta dinnanzi al magistrato; lo scopo è di rafforzare un obbligo esistente o
di assicurare la difesa di diritti non protetti dal ius civìle, ma ritenuti meritevoli di protezione
dal pretore.
c. La missiònes in possessiònem: è una pronuncia del magistrato, posta in essere da
magistrati dotati di impèrium, con la quale si autorizza il soggetto a prendere possesso di
una cosa determinata, o di un complesso di beni, per una durata più o meno lunga e con
poteri di controllo, di disposizione e di amministrazione che variano di caso in caso.
d. Gli interdìcta – emanare un ordine per decreto: è un’ordinanza con la quale il
magistrato dotato di impèrium, fa obbligo a qualcuno di restituire cose o ripristinare situazioni
violate, oppure esibire cose o persone, o astenersi da un determinato comportamento.
Qualora l’intimato non avesse ottemperato all’ordine, il richiedente dell’interdizione si
impegnava con lui in un vero e proprio processo; il procedimento mirava al risarcimento del
danno conseguente all’illecita violazione del possesso.

5.30 La cognìtio èxtra òrdinem


Il processo privato ordinario, caratteristico dell’ultimo secolo dell’età repubblicana e di tutto il
principato, rimase quello formulare. Tuttavia già durante il principato augusteo si assiste
all’applicazione del seguente principio: ogni volta che all’autorità imperiale viene richiesta la
protezione di interessi non precedentemente tutelati, essa non dà incarico al pretore
applicando la giurisdizione ordinaria, ma preferisce creare una nuova e autonoma autorità
giurisdizionale, che risponde solo all’imperatore.
Tale nuova giurisdizione, incaricata di conoscere le fattispecie controverse inquadrate nella
nuova competenza, opera al di fuori dell’òrdo iudiciòrum privatòrum, ed esercita quella che
fu denominata cognìtio èxtra òrdinem, cioè cognizione della cause estranee alla procedura
normale.
Tra le prime materie ad essere comprese nella competenza della nuova giurisdizione, vi
furono quelle dei fedecommessi, degli obblighi di prestazioni alimentari, degli onorari dei
professionisti.
Caratteri comuni a queste cognitiònes extraordinàriae:
a. l’unicità della fase del processo, che non si svolgeva più davanti al magistrato e poi
davanti al giudice privato, ma aveva luogo direttamente di fronte ad un magistrato o
funzionario imperiale.
b. Il rapporto processuale non scaturiva più dall’accordo delle parti sul programma del
giudizio (lìtis contestàtio), ma dalla citazione in giudizio del convenuto da parte dell’attore,
che non era più privata ma eseguita a cura di ausiliari pubblici dell’autorità giusdicense;
c. La possibilità che il processo potesse aver luogo anche in assenza di una delle due
parti, in contumacia.
d. Il sempre più diffuso uso della scrittura negli atti processuali, mentre prima bastava
mettere per iscritto la fòrmula;
e. L’introduzione di vincoli alla libera valutazione delle prove da parte dell’organo
giudicante, attraverso il meccanismo della presunzione.

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f. La possibilità che la sentenza, invece di condurre a una condanna pecuniaria,
imponesse coercitivamente un comportamento, la cui attuazione era assistita dalla forza
pubblica.
g. La possibilità di appello, con più di un grado di giudizio; conseguenza
dell’ordinamento gerarchico delle cariche in un regime imperiale.
Con le cognitiònes extraordinàriae cambia l’ideologia alla base del fenomeno processuale:
mentre nella lìbera res pùblica il processo vedeva la preponderanza dei soggetti privati – le
parti e il giudice – in confronto con l’unico soggetto pubblico – il magistrato – e l’organo
giudicante traeva la propria legittimazione a pronunciarsi, da un accorso tra attore e
convenuto sull’oggetto del contendere, nel processo imperiale il giudice non è determinato
dai privati, ma è precostituito dall’organizzazione permanente dello Stato.
Durante l’intera età classica i processi celebrati secondo il nuovo rito convissero, in quantità
minoritarie, con i processi formulari, integrati con la possibilità di invocare l’intervento
riparatore del principe; solo durante la fase della monarchia assoluta, il rito della cognitiònes
extraordinàriae prese poco a poco il sopravvento, fino a divenire esso stesso processo
ordinario per tutte le controversie.

6 I DIRITTI REALI
6.1 La proprietà. Osservazioni generali
Diritto reale designa il rapporto, tutelato dall’ordinamamento, che esiste tra un soggetto
titolare di una cosa, in virtù del quale è imposto ai terzi un obbligo puramente negativo di
astenersi di interferire nel rapporto tra il titolare, e la cosa stessa.
A secondo del tipo di relazione, che può essere più o meno stretta o onnicomprensiva, si è
venuto storicamente costituendo una pluralità di diritti reali tipici, che si distinguono a
seconda del loro contenuto.
Il diritto reale per eccellenza è la proprietà, che nel senso di astensione e non ingerenza, ha
per i romani la sua forma tipica nel domìnium ex iùre quirìtium; mentre si distinguono per i
loro contenuto, più limitato, i diritti reali su cose altrui, distinti a loro volta dai diritti reali di
godimento (usufrutto, enfiteusi, superficie) e i diritti reali di garanzia (pegno, ipoteca).
Questa partizione dei diritti, tipica della dottrina moderna, non corrisponde esattamente a
quella romana, nella quale è espressamente considerata la contrapposizione, dal punto di
vista dei mezzi di tutela che ne assicurano la realizzazione, tra diritti reali e diritti di
obbligazione (àctio in rem e àctio in persònam): mentre il diritto di obbligazione implica
un obbligo di cooperazione da parte del soggetto passivo per la realizzazione
dell’interesse del soggetto attivo, nei diritti reali il soggetto passivo è tenuto a un non
fàcere.
L’assolutezza del diritto di proprietà, tuttavia non esclude che ad esso possano essere
apportati dei limiti; ma una sua caratteristica peculiare e che le eventuali limitazioni, che
possono ridurre i diritto a mero titolo, non sono mai considerate definitive, e ogni volta che
qualcuna viene ad estinguersi, il proprietario subentra di nuovo automaticamente,
nell’esercizio delle facoltà sottrattegli: caratteristiche che prende il nome di principio di
elasticità del dominio.

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La terminologia impiegata dai romani per indicare la proprietà (domìnium sul piano del diritto
sostanziale; mèum èsse àio, sul piano del diritto processuale) denota il carattere di
assoggettamento totale, di signoria da parte del proprietario su un bene.

6.2 Cenni sull’origine della proprietà


Dallo studio delle civiltà primitive si ritiene che la proprietà sia stata concepita dopo un più
antico periodo nel quale i beni sarebbero stati in uso collettivo ai gruppi politici della fase pre-
civica. Da una primitiva fase di proprietà collettiva si sarebbe passati alla proprietà
individuale, incentrata sul paterfamìlias come uno degli aspetti della signoria assoluta di
carattere politico.
Sembra probabile che il diritto di proprietà quiritaria, sia stato un semplice aspetto in
relazione a oggetti particolari, di un più generico potere del pàter famìlias su tutto il
complesso del nucleo familiare, costituito sia dalle persone che dalle res; da tale potere
onnicomprensivo si sarebbe distaccata a poco a poco la signoria sulle cose, stante la
sempre maggior necessità davanti alla civìtas, dell’appartenenza della res a un determinato
titolare.

6.3 Acquisto della proprietà. Acquisto a titolo originario


Il diritto di proprietà si costituisce in capo ad un soggetto quando si verifica uno dei fatti
considerati idonei dall’ordinamento a creare ex novo e a trasmettere a favore di un individuo
tale diritto.
Tali fatti giuridici (oggi definiti modi di acquisto della proprietà), erano presi in considerazione
dai romani a seconda che rientrassero nell’ambito del ius naturàle o del ius gèntium (ispirati
ad una naturàle ràtio), o dell’ambito del ius civìle (propri della comunità romana).
La dottrina distingue fra modi di acquisto a titolo originario e modi di acquisto a titolo
derivato. L’acquisto a titolo originario c’è quando vi è un rapporto diretto con la cosa, senza
che vi sia un collegamento immediato con un precedente diritto altrui; è a titolo derivato,
quando deriva dal rapporto con una determinata persona, precedente titolare della cosa.
Modi di acquisto della proprietà a titolo originario:
a. Occupazione: consiste nel concreto impossessamento di una cosa priva di titolare,
con l’intenzione di renderla propria. Sono res nullìus, in diritto romano, gli animali selvatici,
gli oggetti reperibili nel mare e acque pubbliche, le cose del nemico.
b. Accessione: si verifica nei vari casi in cui si abbia unificazione tra due cose, l’una
principale e l’altra accessoria, appartenenti a soggetti differenti. Il proprietario della cosa
principale, acquista con l’unificazione la proprietà della cosa accessoria. La dottrina
distingue tre gruppi di casi in cui si riconosce accessione: tra cosa mobile e altra cosa mobile
(pezzi per costruire una statua); tra mobile e immobile (piantagione – edificazione su
proprietà altrui); tra immobile e immobile (alluvione, avulsione).
c. Specificazione: è la trasformazione, con attività idonea, di una materia prima in una
nuova cosa (oro in anello). Quando l’autore è persona diversa dal proprietario della materia
prima e ha prestato la sua opera per sua iniziativa, si pone il problema della proprietà della
cosa.
d. Confusione e commistione: quando più quantità di materia, suscettibili di essere
mescolate, appartenenti a proprietari diversi, si fondono in una massa unica. La mescolanza

65
irreversibile comporta tra i due proprietari un regime di comunione, sempre che si abbia dato
vita a una nuova res (specificazione).
e. Acquisto di frutti: si determina al momento della separazione dalla cosa madre, a
favore del proprietario, usufruttuario o possessore in buona fede; quest’ultimo è tenuto alla
restituzione dei frutti non consumanti al proprietario rivendicante.

6.4 Acquisto a titolo derivato


Mentre nei moderni ordinamenti il trasferimento della proprietà che, fin dal raggiungimento
dell’accordo, determina la trasmissione della proprietà della cosa, il diritto romano classico
non concepiva contratti di per sé traslativi della proprietà; l’acquisto a titolo derivato della
proprietà si poteva conseguire – eccetto la successione – mediate uno dei modi tipici di
trasferimento della cosa, a carattere non contrattuale: la mancipàtio, che si applicava alle
sole res màncipi (di interesse collettivo cioè i fondi e gli edifici siti in Italia, gli schiavi e gli
animali che potevano essere domati sul collo o sul dorso (quali i cavalli o gli asini), e le
servitù prediali.) ; la in iùre cèssio, atta a trasferire ogni categoria di cose e diritti; la tradìtio
alle sole cose res nec màncipi (i beni di importanza meramente individuale).
La mancipàtio è il tipico atto negoziale solenne, verbale e gestuale, di trasferimento
dell’appartenenza delle res oggetto di mancipàtio; appartiene all’ambito esclusivo dello ius
civìle e pertanto accessibile ai soli cittadini romani e ai muniti di commèrcium. È un atto che
non sopporta l’apposizione di elementi accidentali quali condizioni e termini.
Alla presenza di non meno di cinque testimoni, cittadini romani puberi, e di un pesatore
portante una bilancia di bronzo, l’accipiente, toccando la cosa di cui si trasferiva la proprietà,
pronunciava il formulario: “dichiaro che questo servo è mio secondo il diritto dei uiriti e mi sia
comperato con questo bronzo e questa bilancia in bronzo”; dopo di che percuoteva la
bilancia con un pezzo di bronzo non coniato, e lo consegnava, quale prezzo all’alienante.
Nessuna dichiarazione era resa invece dall’allienante; era invece richiesta la presenza della
cosa. Il compimento della mancipàtio, oltre che l’immediato trasferimento del domìnium ex
iùre Quirìtium dall’allienante all’accipiente, comportava il sorgere nei confronti del primo di un
obbligo di garanzia nei confronti del secondo per eventuali pretese di terzi (garanzia di
evizione).
Dall’esame delle fonti si suppone che la mancipàtio – per l’epoca più antica – fu una vera e
propria compravendita a effetti reali immediati; mentre con la diffusione del denaro, e con il
sorgere della compravendita ad effetti obbligatori, venne sempre più ad essere utilizzata
come negozio astratto, utilizzato per far conseguire alle parti, non solo il semplice passaggio
di proprietà, quanto scopi diversi (es: trasferimento della pàtria potèstas sulle donne e sui
figli).
Di larghissimo impiego a Roma, dall’età repubblicana all’età imperiale, viene meno nell’età
post-calssica in corrispondenza dell’affievolirsi della distinzione tra res màncipi e res nec
màncipi.

6.5 In iùre cèssio


Sotto le spoglie di un apparente processo di rivendicazione, in iùre cèssio perseguiva il
trasferimento dell’appartenenza di cose o di complessi di cose (sia màncipi che nec màncipi)
o di diritti soggettivi tra un soggetto e l’altro.

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Alienante e acquirente si recavano davanti al magistrato, e qui l’acquirente, tenendo in mano
la cosa o una sua parte rappresentativa, pronunciava cèrta vèrba della lègis àctio, e toccava
la cosa con una bacchetta, la fèstuca (segno di appartenenza nel diritto romano). Il
magistrato a questo punto interrogava l’alienante, se a ciò intendesse opporsi con
un’asserzione eguale e contraria: questi da parte sua taceva, rinunciando ad un’opposizione
per lui certamente vittoriosa. Constatato l’abbandono della lite da parte di uno dei fittizi
contendenti, il magistrato assegnava la cosa all’unica parte attiva.
Di origine antica, utilizzata anche come modo normale di costituzione di diritti reali minori,
cadde in disuso alla fine dell’età classica.

6.6 Tradìtio
Tradìtio designa la materiale consegna di una res da un soggetto all’altro, senza alcuna
formalità. Perché l’effetto della tradìtio sia quello del trasferire la proprietà, occorre che
sussistano alcuni presupposti, senza i quali la semplice consegna non può sfociare in un
vero negozio di alienazione. Tali sono:
a. che oggetto della tradìtio sia una res nec màncipi; a cominciare dal I sec. a.c. se si
tratta di una res màncipi, la tradìtio trasferisce il possesso efficace per l’usucapione, tutelato
dal pretore.
b. Che la res sia in proprietà del cedente, o quanto meno in suo possesso;
c. La concorde volontà dell’acquirente e del cedente di trasferire da uno all’altro la cosa;
d. Una iùsta càusa traditiònis, ossia un rapporto tra cedente e acquirente tale che
l’ordinamento giuridico riconosca sufficiente il passaggio di proprietà;
e. L’effettiva consegna della cosa o la sua messa a disposizione dell’acquirente.

6.7 Altri modi di acquisto della proprietà. Usucapione e prescrizione


estintiva
Adiudicàtio: è l’acquisto della proprietà mediante la divisione giudiziale dei beni oggetto di
comproprietà. Ha luogo nei giudizi divisori, diretti a suddividere cose comuni o interi
patrimoni ereditari fra più contitolari o fra coeredi.
Lìtis aestimàtio: è il modo di acquisto della proprietà strettamente dipendente dal processo
formulare. Quando la formula conteneva questa clausola e il convenuto non poteva o voleva
dare esecuzione all’invito di restituire la cosa, veniva condannato a corrisponderne il valore
pecuniario, in tal modo la cosa stessa diventava di sua proprietà.
Usucapione. Significa acquisto mediante possesso. Acquisto limitato ai soli cittadini romani,
la proprietà si acquista mediante il possesso per un certo periodo continuativo della cosa
altrui, iniziato secondo il giusto titolo e con persuasione di non ledere il diritto altrui. Scopo
dell’istituto è quello di far conseguire certezza giuridica a situazioni inizialmente irregolari,
protrattesi per un periodo ragionevolmente lungo senza che su di esse sia avuto
contestazione attiva da parte degli aventi diritto. Es.: una res màncipi trasferita mediante
tradìtio – insufficienza del titolo che l’usucapione sana dopo che si ha avuto possesso
ininterrotto per un certo periodo. I requisiti dell’usucapione sono:
a. res hàbilis: non tutte le cose sono usucapibili. Son escluse le cose incorporali, le cose
extra commercio, le cose rubate e prese con violenza. La inusucapibilità non si limita al
primo possessore, ma le accompagna come un marchio ad ogni successivo trasferimento.
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b. Titulus: consiste in una situazione giuridica effettivamente esistente, tale da
giustificare il passaggio di proprietà, ma avvenuta in modo irregolare;
c. Fìdes (bòna): consiste nella convinzione dell’usucapiente di non ledere con il suo
possesso un diritto altrui.
d. Possèssio: consiste nella signoria di fatto sulla cosa, rimasta ininterrotta dall’inizio. In
caso di interruzione il periodo per l’usucapione ricomincia a decorrere dall’inizio, non
tenendo conto del periodo precedentemente trascorso.
e. Tèmpus. È il periodo richiesto affinché presenti le altre quattro condizioni, si consegua
l’acquisto per usucapione, il periodo è fissato nelle XII Tavole in due anni per le res sòli
(cose del suolo, gli immobili), in un anno per le cèteras res (tutte le altre cose, i beni mobili)
Praescrìptio lòngi tèmporis. La prescrizione estintiva è un istituto analogo all’usucapione.
Applicata ai fondi provinciali romani. A chi ha posseduto continuativamente per dieci o
vent’anni (a seconda del luogo di residenza del possessore), in base a una giusta causa e
senza opposizione altrui, è concesso un mezzo processuale opponibile vittoriosamente alle
altrui pretese sull’immobile. Tale strumento non sortisce l’effetto di far acquisire la proprietà,
ma soltanto quello di respingere le azioni in rem rivolte dall’effettivo titolare del fondo.
Questo risponde al principio che il titolare decade dal proprio diritto quando non lo esercita
per un lungo tempo, astenendosi dal difenderlo all’altrui usurpazione.

6.8 Perdita della proprietà


La proprietà si perde, oltre ai casi di compravendita, anche quando il soggetto titolare è
privato della capacità giuridica; nonché, quando la cosa è distrutto o posta tra le res extra
commèrcium, o quando è volontariamente abbandonata cioè è derelicta. Si perde la
proprietà del servo quando questi diventa soggetto di diritto con la manomissione, cessando
di essere catalogato tra le res.

6.9 Tipi di proprietà e loro tutela giuridica


Il concetto di proprietà, fatto all’incirca coincidere al domìnium ex iùre Quirìtium, sia a causa
delle molteplici situazioni soggettive che del diverso regime territoriale, conobbe tre principali
situazioni giuridiche configurabili sia dal punto di vista sostanziale che da quello
processuale, con i diritti di proprietà. Essi sono il domìnium ex iùre Quirìtium , unica forma di
proprietà piena e illimitata, detta proprietà civile o quiritaria; la proprietà provinciale; la
proprietà pretoria, considerata, dal punto di vista pratico del suo esercizio, come bònis
habère (avere tra i beni).
Il domìnium, essendo riconosciuto dal ius civìle, è prerogativa dei soli cittadini romani; può
avere ad oggetto ogni sorta di beni mobili in commèrcio, può riguardare solo i beni immobili
sul suolo italico ed eccezionalmente, su territori giuridicamente parificati.
Gli immobili situati su suolo provinciale, e non ius Itàlicum, è escluso ai privati il domìnium ex
iùre Quirìtium; tali fondi, essendo zone di occupazione militare, rimangono al popolo romano,
e i privati possono goderne non a titolo di proprietà, ma come possessori o usufruttuari. La
loro qualità di non proprietari è tangibile se facciamo riferimento allo stipendium (o tributum
se si tratta di province imperiali) che le province dovevano a Roma regolarmente. Anche se
non si tratta di piena proprietà questa “pseudo-proprietà” si ereditava e poteva essere
alienata.

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La distinzione fra domìnium ex iùre Quirìtium e bònis habère, vale a dire tra proprietà civile
e proprietà pretoria, si base sulla distinzione del ius civìle e del ius honoràrium. Quest’ultimo,
posto in essere dagli editti pretori, pur non potendo derogare in linea di principio al ius civìle,
ne costituì un aggiornamento, attraverso il riconoscimento di situazioni di fatto meritevoli di
tutela giuridica. In particolare la situazione di fatto protetta dal magistrato era quella di chi
avesse ottenuto la disponibilità di una res màncipi trasmessagli con la tradìtio, invece che
con la mancipàtio o con la in iùre cèssio.
Il diritto pretorio lo proteggeva spacciandolo per possessore in buona fede fino a quando
questi non acquistava la proprietà con l’usucapione.
Per questo si parla di “avere la cosa tra i propri beni”-“in bonis habere rem”, perché era il
pretore che ti consentiva di tenerla fino a che non si sistemava la faccenda.
Stessa cosa quando si acquistava da colui che non era proprietario della cosa, sarebbe la
nostra tutela dell’affidamento.
A questa tripartizione della proprietà romana, è connessa una pluralità di mezzi processuali
predisposti per renderne effettivo l’esercizio; è la diversità di tali mezzi che qualifica
diversamente il rapporto tra il soggetto e la cosa.
Come difendersi dallo spossessamento se si è proprietari?
In caso di attacco alla proprietà civile, al dòminus spossessato compete in età antica la legis
actio sacramento in rem, poi con il processo formulare la rèi vindicàtio.
Se invece si trattava di proprietà repubblicana, il pretore forniva l’Actio Publicana. L' actio
publiciana è un' actio ficticia (si basa su una fictio iuris, una finzione giuridica). Permette di
tutelare l'acquirente in buona fede che non sia riuscito a divenire formalmente proprietario
per avere trascurato di eseguire le formalità necessarie all' acquisto di un bene( es:
mancipatio o in iure cessio, necessarie per l'aquisto di res mancipi).
Se l’attacco al proprietario era posto per limitare il suo godimento del diritto di proprietà
troviamo rimedi come l’Actio negatoria: questa era data al proprietario contro chi vantasse
sulla cosa diritti reali parziari(usufrutto, servitù prediale).

6.10 Comunione
Oltre che a un solo soggetto, la cosa poteva appartenere in proprietà a più titolari: la
comunione. Essa può costituirsi per volontà dei soggetti che vi partecipano – comunione
volontaria -,sia per fatti indipendenti dalla volontà – comunione necessaria.
Il problema della proprietà di una cosa a più titolari, è stato risolto dal diritto romano in modi
diversi a seconda che si tratti dell’età antica o dell’età classica.
Nell’età arcaica, alla morte del paterfamìlias, i suoi beni passavano in proprietà ai figli in
comune, formano una comunione indivisa.
Nella comproprietà classica, vige il principio secondo cui a ciascuno dei comproprietari è
titolare di una parte ideale, ossia una quota. Tale principio sancisce che ciascun contitolare
può esercitare il suo diritto sulla propria parte ideale della cosa, purché sia compatibile con i
diritti altrui esistenti: può cedere la propria quota, o costituire su di essa diritti reali parziali,
ma non può ledere i diritti altrui.
Al principio generale della non interferenza degli atti di ciascun condomino con i diritti pro-
quota degli altri, sono riconosciute due eccezioni:

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a. iùs adcrèscendi: diritto di accrescimento. quando una delle quote in cui il diritto è
suddiviso viene meno, il fenomeno dell’elasticità del dominio fa si che il diritto dei restanti si
accresca automaticamente, estendendosi sulla quota abbandonata.
b. iùs prohibèndi. Ogni compartecipe ha il diritto di porre il veto su qualsiasi innovazione
materiale, a qualunque opera di qualsiasi comproprietario, sulla cosa comune.
La comunione si estingue con il venir meno della pluralità dei titolari: ciò può avvenire per
alienazione o abbandono della quota da parte di tutti i comproprietari fino a che ne rimane
uno solo; normalmente si scioglie per volontà dei compartecipi, ciascuno dei quali può in
ogni momento, trasformare la quota di ciascuno in altrettanti singoli diritti di proprietà
attraverso l’indicium communi dividundo.

6.11 Il possesso. Nozione ed elementi


Oltre alle situazioni in cui un soggetto esercita la signoria sulla cosa in base ad un titolo,
l’ordinamento riconosce, in qualche misura, degne di tutela anche situazioni in cui i soggetti
hanno di fatto la disponibilità del bene, prescindendo che tale disponibilità derivi da un titolo.
Si tratta di una protezione immediata, che l’ordinamento concede a chi possiede la cosa, e al
quale viene arbitrariamente negata tale disponibilità.
Da un lato chi possiede la cosa, induce i consociati a presumere che tale possesso sia
legittimamente acquisito; dall’altro sussiste l’esigenza di conservare la pace tra i consociati
impedendo atti di turbativa e spoglio ai danni del possessore; solo in un secondo tempo, con
una regolare procedura, si potrà in caso di conflitto, giungere all’accertamento circa
l’eventuale illegittimità di tale situazione.
I romani dell’età classica chiamavano possèssio la situazione di chi aveva la disponibilità di
fatto su una cosa – sia che fosse o meno proprietario – accompagnata dall’intenzione di
tenerla con l’esclusione di qualsiasi altro.
Di tale nozione fanno parte due elementi fondamentali, uno oggettivo e l’altro psicologico.
L’elemento oggettivo, consiste nell’effettiva disponibilità materiale della cosa (còrpore
possidère); l’elemento soggettivo, corrisponde all’intenzione di continuare a tenere la cosa
per sé senza interferenze altrui (ànimus possidèndi). Soltanto la compresenza dei due
elementi configura una situazione di possesso, e la contraddistingue dalla detenzione, in cui
vi è l’elemento oggettivo ma manca quello soggettivo.

6.12 Acquisto e perdita del possesso


L’acquisto e la perdita del possesso sono strettamente connessi. Il requisito soggettivo, che
investe la sfera della volontà del soggetto, difetta quando vi sia l’incapacità di intendere e
volere, per cui il possesso non può essere acquisito dall’insano di mente, dall’infante, mentre
per l’impubere è necessaria l’auctòritas tutori; né si può parlare di possesso per chi riceve la
cosa per tenerla per conto altrui (depositario, usufruttuario, comodatario).
Il possessore viene tutelato con ordini o divieti emanati dal pretore su richiesta del
possessore, diretti contro gli autori degli atti di turbativa o spoglio.

6.13 Quasi possesso e possesso dei diritti


Nella concezione romana classica il possesso, poggiando su i due requisiti oggettivo e
soggettivo, non poteva avere che per oggetto cose corporali. Tuttavia il termine possèssio, lo

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si trovava anche usato, per indicare la situazione di chi, pur essendo giuridicamente titolare
di uno status, si comportava come se lo fosse di fatto e ne veniva socialmente considerato
come titolare effettivo.
Protezione interdittale venne concessa nel diritto classico ai titolari, effettivi o presunti, di un
diritto reale su cosa altrui (usufrutto, superficie). Per distinguere queste situazioni da quelle
in cui ricorreva un possesso vero e proprio, alcuni giuristi parlarono di quàsi possèssio.

6.14 Diritti reali su cosa altrui


Quando sulla cosa di proprietà esistono, oltre al diritto del soggetto, altri diritti assoluti di
natura reale, si parla di diritti reali sulla cosa altrui. Il titolare del diritto di proprietà sarà il
soggetto passivo dello iùs in re alièna. I diritti reali su cosa altrui, hanno per contenuto la
facoltà attribuita al loro titolare su svolgere determinate attività sulla cosa altrui.
Lo iùs in re alièna, insiste direttamente sulla cosa, e permane anche se variano i soggetti
che della cosa sono proprietari. Nel diritto romano si conoscono originariamente due figure
di diritti reali su cosa altrui, ossia le servitù prediali e l’usufrutto; ad esse si aggiunsero con il
proseguo del tempo altre figure.

6.15 Servitù prediali. Nozione e principi


Le servitù prediali, così chiamate dal termine praèdium, ossia fondo, consistono in
determinate e tipiche limitazioni alla proprietà su un fondo, costituite a vantaggio della
proprietà su un fondo vicino. Caratteristiche essenziali del diritto i servitù sono che esso
deve necessariamente costituirsi a vantaggio di un fondo, per una sua utilità oggettiva; la
seconda consiste nella necessaria vicinanza tra fondo servente e quello dominante –
vicinanza che non significa necessariamente contiguità. Corollari di questi due principi
generali sono: nessuno può avere servitù su cosa propria; la servitù non può consistere in
un fare.

6.16 Le singole servitù prediali


Nel diritto romano le servitù prediali sono limitate e tipiche. Dal punto di vista della loro
funzione distinguevano fra servitù rustiche (quelle sui fondi destinati alla coltivazione) e
quelle urbane (imposte agli edifici, sia urbani che agricoli).
Tra le servitù rustiche, le più antiche facevano parte dell’elenco chiuso delle res màncipi,
ed erano il sentiero, la strada, il passaggio con greggi e mandrie, e la condotta l’acqua.
Tra le servitù urbane, erano distinte in tre principali categorie: le servitù riguardanti il regime
delle acque di scarico; quelle riguardanti le costruzioni concernenti la luce e il prospetto degli
immobili.

6.17 Costituzione, difesa ed estinzione delle servitù


Le quattro più antiche servitù rustiche, essendo res màncipi, si costituivano originariamente
tramite mancipàtio e la in iùre cèssio, oppure mediante usucàpio servitùtis.
Verso la fine dell’epoca classica si cominciarono a costituire servitù per destinazione del
padre di famiglia, nei casi in cui, alienando un fondo a due diversi proprietari, uno dei due
fondi conservava dei servigi a favore dell’altro.

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L’azione data al titolare del fondo dominante cui fosse contestato il proprio diritto di servitù
era una vindicàtio servitùtis. Formule analoghe e contrarie erano contenute nell’editto
pretorio, a favore del proprietario di fondi che altri pretendessero gravati da servitù.
L’estinzione della servitù può intervenire per rinuncia esplicita del titolare, consistente in una
mancipàtio o in iùre cèssio a favore del proprietario del fondo servente; per il non uso
durante il periodo corrispondente a quello richiesto per l’usucapione degli immobili. Per le
servitù che non richiedono un comportamento attivo, si ha estinzione soltanto in seguito a un
atto compiuto dal proprietario del fondo servente e protrattosi senza opposizione dall’altra
parte; per modificazione dello stato dei fondi, tale da farne venir meno l’utilità della servitù;
per confusione, ossia la concentrazione nella stessa persona della titolarità dei due fondi.

6.18 Usufrutto. Nozione e principi generali


Per usufrutto i giuristi romani classici intendono il diritto inalienabile, conferito
temporaneamente ad un dato soggetto, di usare una cosa inconsumabile altrui e di
percepirne i frutti, senza alterarne la struttura e la destinazione economico-sociale della cosa
stessa. È un diritto reale, costituito a vantaggio di una persona e avente ad oggetto il
godimento di una cosa inconsumabile e fruttifera.
I requisiti dell’usufrutto rispondo ai seguenti principi:
a. per la cosa vi è l’immodificabilità della sua struttura e destinazione economico-sociale.
Ogni atto di disposizione della cosa o che ne alteri l’essenza spetta al proprietario.
b. per l’usufruttuario, vi è l’immodificabilità della sua persona e della sua attuale
posizione giuridica. L’usufrutto è intrasmissibile come diritto reale; la morte dell’usufruttuario
o la sua capiti deminùtio estinguono l’usufrutto, che non si trasmette agli eredi.
c. Temporaneità. L’usufrutto è costituibile soltanto a termine e può durare al massimo
quanto la vita dell’usufruttuario. Se questi è una persona giuridica, la durata è limitata
convenzionalmente a 100 anni.

6.19 Usufrutto. Costituzione, tutela, estinzione


I modi usuali di costituzione dell’usufrutto, sono la in iùre cèssio, la dedùctio da una
mancipàtio o da in iùre cèssio del bene, di cui l’acquirente acquista solo la nuda proprietà.
Poteva costituirsi usufrutto anche in sede di giudizio di divisione.
La difesa giudiziaria è analoga a quella vista a proposito delle servitù: una viindicàtio
ususfrùctus; a tale azione è contrapposta l’àctio negatìva, che compete al dominus contro
chi si pretenda usufruttuario sulla cosa sua.
L’usufrutto si estingue per rinunzia (compiuta in iùre cèssio), per perimento della cosa o del
titolare; modificazioni sostanziali della cosa, o non uso, o unificazione in una stessa persona
della proprietà e dell’usufrutto; scadenza del termine.

6.20 Altri diritti affini all’usufrutto


Diritti aventi un contenuto e spesso anche un regime in parte analogo all’usufrutto furono:
a. quasi usufrutto. Riguarda la trasmissione di legati testamentari relativi a beni
consumabili lasciati in usufrutto; un senatoconsulto ammise che i beni consumabili
passassero anch’essi al usufruttuario, ma in proprietà, con l’obbligo garantito da cauzione,

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della restituzione alla scadenza, dalle cose consumabili in altrettanta quantità, peso e
misura.
b. Ùsus. Diritto reale parziario intrasferibile di usare una cosa senza percepirne i frutti.
c. Habitàtio. Diritto, conferito ad una persona, di abitare una casa altrui e di darla in
locazione a terzi.
d. Opere di servi ed animali. Diritto di usare delle opere degli schiavi e degli animali
altrui.

6.21 Enfiteusi. Nozione e precedenti storici


Istituto di diritto post-classico, consistente nel diritto reale, trasmissibile ed inalienabile, di
godere in via piena ed esclusiva del fondo altrui con l’obbligo di non deteriorarlo e di pagare
un canone annuo.
L’enfiteusi è il risultato della fusione di istituti preesistenti, sia di origine romana che
orientale. Vengono richiamati in vita i principi vigenti per gli àgri vectigàli, terreni di proprietà
di enti pubblici, dati in concessione ai privati dietro corrispettivo di un canone annuo, e come
tali trasmissibili e alienabili a chiunque.
Nel corso del IV e V sec. d.c. divengono concedenti anche potenti famiglie private, titolari a
loro volta di vastissime estensioni di territorio, di cui l’impero, concede il godimento anche a
scopo difensivo.
Infine questi rapporti sono codificati in una apposita disciplina privatistica. In virtù di essa
l’enfiteusi costituisce un tipo a sé di contratto, che intercorre fra proprietario ed enfiteuta, cui
è attribuita la disponibilità piena ed esclusiva del fondo, dietro la prestazione di un
corrispettivo periodico, dal quale l’enfiteuta non è liberato anche se intervengono cause di
riduzione dell’utilizzabilità del fondo stesso.

6.22 L’enfiteusi giustinianea


Con Giustiniano l’enfiteusi si costituisce con qualsiasi convenzione fra le parti, senza
requisiti di forma. L’enfiteuta ha sul fondo gli stessi diritti che competono al proprietario,
salvo il pagamento del canone. Acquista i frutti del fondo al momento della separazione dalla
cosa madre; può trasmettere il proprio diritto sia mòrtis càusa che ìnter vìvos; ma prima di
procede all’atto di alienazione deve avvisare il proprietario, cui spetta il diritto di prelazione.
L’enfiteusi si estingue per mancato pagamento del canone per tre anni, o per la mancata
sopportazione degli oneri fiscali gravanti sul fondo, o per mancato adempimento di non
deterioramento del fondo; nonché per confusione, distruzione o rinuncia dell’enfiteuta.

6.23 La superficie
Il principio dell’illimitatezza della proprietà romana classica escludeva la sua divisione per
piani orizzontali. Si presentava tuttavia spesso l’esigenza di conferire un minimo di stabilità a
certe situazioni, in cui con il consenso del proprietario qualcuno aveva costruito sul suolo
altrui, con l’accordo che gli fosse garantito il massimo grado di disponibilità dell’edificio.
Dapprima attraverso la stipulazione di obbligazioni e successivamente attraverso l’intervento
del pretore, il diritto di superficie venne gradualmente rinforzato.

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Nel diritto giustinianeo, la superficie è definitivamente un diritto reale su suolo altrui. Il
superficiario, in virtù del suo diritto, aveva l’assoluta disponibilità dell’edificio, che poteva
alienare senza consultare il proprietario del suolo.

6.24 Diritti reali di garanzia. Fidùcia e pegno


L’adempimento di un’obbligazione può essere garantito in due modi: o ricorrendo ad una
terza persona, che si assume la responsabilità dell’eventuale inadempimento (garanzia
personale), o ponendo a disposizione del creditore una cosa il cui valore sostituisce l’oggetto
dell’adempimento mancato: in questo caso si parla di garanzia reale in quanto il creditore, in
caso di inadempienza, può pienamente soddisfarsi sulla cosa avuta in garanzia,
acquistandone la disponibilità èrga òmnes.
Anticamente i romani conoscevano una forma di garanzia denominata fidùcia cum creditòre,
che consisteva nel trasferimento, tramite mancipàtio o in iùre cèssio, del bene con il patto
che questi lo avrebbe ritrasferito nel caso di adempimento dell’obbligazione – ovviamente
solo per le res màncipi.
Più moderno è invece l’istituto del pìgnus, in quanto aveva per oggetto non solo le res
màncipi e non richiedeva solenni formalità; debitore e creditore convenivano, senza
particolari formalità, che al creditore fosse affidata, mediante consegna manuale, la
disponibilità di fatto della cosa mobile, di proprietà del debitore o di un terzo. In epoca
classica il pegno è disciplinato dal iùs honoràrium, che riconosce valore agli accordi fra le
parti.

6.25 Ipoteca
L’ipoteca di diritto romano è un diritto reale di garanzia simile al pegno, ma che viene
costituito su cosa di cui non viene trasferito il possesso al creditore. Per costituirla, basta una
semplice convenzione tra le parti. Sembra che abbia trovato origine con l’esigenza che il
locatore di un fondo rustico aveva di garantirsi il pagamento del canone di affitto da parte del
conduttore. Il locatore aveva un diritto di pegno sugli animali e gli attrezzi di proprietà del
conduttore. In caso di mancato pagamento della locazione, venne concesso al locatore di
impossessarsi dei beni del conduttore. Tale azione fu poi ulteriormente estesa, dal campo
delle locazioni rustiche a qualsiasi obbligazione, e su qualsiasi cosa corporale oggetto di
convèctio pìgnoris.

7 LE OBBLIGAZIONI
7.1 Concetto di obbligazione
Nelle fonti romane l’obbligazione è un vincolo giuridico, in forza del quale siamo tenuti a
compiere una prestazione, in conformità con le norme del diritto oggettivo vigente.
Da tale definizione emerge il concetto di vincolo personale, che consente di delineare una
nozione più generale di rapporto obbligatorio: è quel rapporto giuridico tra due o più soggetti,
nel quale l’interesse giuridicamente protetto di uno dei soggetti (creditore), trova la sua
attuazione solamente la coopera ione della controparte (debitore). Oggetto dell’obbligazione
può essere qualsiasi comportamento idoneo al soddisfacimento di un interesse: dàre,
trasferire la proprietà di una cosa; fàcere, compiere qualsiasi attività, compresa quella di

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consegnare una cosa senza trasferirne la proprietà; praestàre, garantire un evento
dipendente da altri soggetti o fattori esterni.

7.2 Fonti delle obbligazioni


Per fonte s’intende qualunque atto o fatto giuridico cui l’ordinamento ricolleghi, come da
causa ad effetto, il sorgere di un rapporto di obbligazione.
Gaio nelle Istituzioni propone tra le fonti delle obbligazioni la bipartizione contratto/delitto.
Consapevole che tale bipartizione non fosse sufficiente ad inquadrare tutte le fonti di
obbligazione, venne proposta un tripartizione, comprendente vari tipi di cause, intesa come
categoria generica e residuale.
La tripartizione divenne con Giustiniano una quadri partizione comprendente i contratti, i
quasi contratti, i delitti e i quasi delitti.

7.3 Trasferimento di crediti e debiti


La definizione stessa del rapporto di obbligazione fa sorgere il problema della variazione di
uno dei due soggetti nell’ambito del rapporto.
Ciò può avvenire per succèssio (subentro nel complesso dei rapporti giuridici attivi e passivi
di un altro) o specificatamente in singoli rapporti.
Nel primo caso il trasferimento del rapporto è di regola ammesso, salvo che si tratti di
rapporti che, per la loro natura, sono strettamente connessi alla persona che viene meno:
questi rapporti, aprendosi la successione, si estinguono.
Per contro, il diritto romano, di regola escludeva la possibilità di scambio di soggetti
nell’ambito di un singolo rapporto. Per ovviare a tale problema, che di fatto si presentava, si
ricorre alla novazione, indicando un’altra persona a favore della quale effettuare la
prestazione. La novazione non provocava il trasferimento del rapporto, ma l’estinzione del
primo e la sua sostituzione con un nuovo rapporto.
Solo a seguito di una lunga evoluzione, il diritto romano giunse a riconosce la cessione del
credito come un istituto autonomo.

7.4 Modi di estinzione delle obbligazioni


Il modo più normale di estinzione è l’adempimento dell’obbligazione, il quale ha tenuto un
comportamento idoneo a soddisfare l’interesse giuridicamente protetto del creditore.
In relazione al dualismo tra ius civìle e ius honoràrium, si distingue tra modi di estinzione
ìpso iùre, cioè la definitiva eliminazione del rapporto obbligatorio per lo ius cìvile; e i modi di
estinzione òpe exceptiònis (in forza di eccezione) tali da bloccare le conseguenze
processuali dell’inadempimento, mediante eccezione concessa dal magistrato.

7.5 Singoli modi di estinzione ìpso iùre


Adempimento. Per avere effetto estintivo l’adempimento deve essere compiuto dal
debitore, o da un suo incaricato, al creditore o a un suo incaricato (l’adstipulàtor).
Dàtio in solùtum. Ogni adempimento in forma diversa a quella stabilita; estingue
l’obbligazione solo se accettata dal creditore.
Acceptilàtio. Consiste nella solenne interrogazione del debitore al creditore: “hai ricevuto
quello che ti ho promesso? – con la relativa risposta . “ho ricevuto”.

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Solùtio per aès et lìbram. Consiste in un solenne rito del bronzo e della bilancia, che
consacra la liberazione da chi è obbligato da vincoli sorti col bronzo e la bilancia (si presume
fosse attuato quando il debitore si obbligava con il rito della mancipàtio.
Novàtio. Implica l’estinzione di una obbligazione connessa al sorgerne di un’altra sostitutiva
della prima.
Lìtis contestàtio. Estingue l’obbligazione ìpso iùre solo in presenza di alcuni requisiti
processuali.
Contràrius consènsum. Il consenso delle parti estinguer, senza forme particolari, le
obbligazioni sorte dalla stipulazione di contratti consensuali.
Confusione. Ogni qualvolta la poszione di debitore e creditore si concentrano nel medesimo
soggetto.
Estinzione del debitore. In seguito a morte o a càpitis deminùtio, provoca l’estinzione in
due ipotesi: quando il rapporto obbligatorio si basa sulle qualità della persona, o quando sia
sorto da atto illecito – pertanto non trasmissibile agli eredi.

7.6 Singoli modi di estinzione òpe exceptiònes


Si hanno casi di estinzione dell’obbligazione òpe exceptiònes ogni volta che l’intervento del
pretore determini, anche per singoli casi e rapporti, la concessione di una excèptio tendente
a paralizzare l’azione da parte del creditore, determinando di fatto l’inesigibilità di un debito.
Tra di essi: il patto di non richiedere; la lìtis contestàtio; compensazione; prescrizione
estintiva.

7.7 Inadempimento delle obbligazioni


L’inadempimento dell’obbligazione è di regola inquadrato come illecito solo quando la
prestazione sia possibile; la sopravvenuta impossibilità, purché non sia essa stessa
imputabile al debitore, ha di regola effetti liberatori. Questa regola si applica solo fino al
momento ultimo concesso ad debitore per l’adempimento; l’ulteriore ritardo, chiamato mòra,
determina in ogni caso la responsabilità del debitore, anche se sopravvenga l’impossibilità
della prestazione,
La costituzione in mora del debitore, consegue al formale invito ad adempiere fatto dalla
parte creditrice; l’invito non è necessario quando la scadenza del termine ultimo fosse già
stato stabilito.
La mora del debitore ha anche l’effetto di produrre la decorrenza degli interessi, le usùrae,
sulla prestazione dovuta o sul valore economico di essa.
Può verificarsi anche la mora del creditore, nella fattispecie dell’ingiustificato rifiuto di
ricevere l’adempimento; l’offerta formale, accompagnato dal deposito pubblico della somma
dovuta nelle obbligazioni pecuniarie, ha effetto liberatorio per il debitore.

7.8 Obbligazioni generiche e obbligazioni alternative


L’oggetto della prestazione deve essere determinato o comunque determinabile: oltre che da
una cosa specifica può essere costituito da una certa quantità di cose generiche.
L’obbligazione generica si differenzia dalle altre perché non si pone il problema del
perimento della cosa e, di regola, quindi non si pone il problema della sopravvenuta
impossibilità della prestazione.

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Nelle obbligazioni alternative, vengono dedotte due diverse prestazioni, l’una alternativa
all’altra. La scelta spetta, se non vi sono accordi in merito, al debitore. L’impossibilità
sopravvenuta di una delle due prestazioni, rende obbligatoria l’altra prestazione: se anche
quest’ultima, diviene impossibile, per fatto non imputabile al debitore, l’obbligazione si
estingue.
Nelle obbligazioni facoltative una sola è la prestazione base, a cui fa riferimento ogni effetto,
anche se si riconosce al debitore di liberarsi, spontaneamente, anche con un’altra
prestazione.

7.9 Obbligazioni con pluralità di soggetti


Il rapporto obbligatorio prevede necessariamente la presenza di almeno due parti
contrapposte, ma nulla esclude che le parti siano più numerose, sia da parte del creditore
che da parte del debitore.
Nelle obbligazioni parziarie da ciascun debitore è dovuta una parte della prestazione,
necessariamente divisibile.
Nelle obbligazioni solidali, la prestazione anche eventualmente divisibile, è dovuta una sola
volta per intero, da tutti i condebitori o a tutti i coocreditori, nel senso che l’adempimento, una
volta effettuato/ricevuto da una qualsiasi parte, estingue tutto il rapporto.

7.10 Obbligazioni naturali


Si intendono quei rapporti di debito ai quali manca, da parte dell’ordinamento giuridico, una
tutela completa, difettando per essi una diretta coercibilità. Tuttavia le obbligazioni naturali
sono giuridicamente rilevanti: ad esempio non è concessa l’azione di ripetizione di quanto
sia stato spontaneamente prestato in adempimento di un’obbligazione naturale.

7.11 Garanzie delle obbligazioni


Garantire un’obbligazione significa porre a disposizione del creditore mezzi che gli diano
maggiore affidamento di poter ottenere soddisfacimento del proprio interesse.
Tale effetto si può ottenere individuando, all’interno del patrimonio del debitore, determinati
beni, ponendoli a disposizione del creditore che, in caso di mancato adempimento, potrà
soddisfarsi su di essi (garanzie reali).
Lo stesso risultato si ottiene aggiungendo all’obbligazione garantita un’altra obbligazione, a
carattere accessorio, facente capo a diverso debitore, facendo in modo che il creditore
possa richiedere l’adempimento non solo al debitore principale, ma anche al garante.
I romani ottenevano questo attraverso tre applicazioni della spònsio – stipulàtio, consistenti
nel provocare una promessa solenne di una prestazione uguale a quella del debitore
principale. Queste erano: la spònsio, la fidepromìssio, la fideiùssio.

7.12 Contratti. Generalità


In diritto classico sono contratti, le manifestazioni di volontà di due o più soggetti dirette
verso un medesimo fine lecito e patrimoniale, rientranti in un limitato numero di schemi,
riconosciuti dall’ordinamento giuridico come fonti di obligàtio.

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I romani ammettevano solo un numero ristretto di casi tipici, al di fuori dei quali l’autonomia
privata non trovava riconoscimento in origine; cominciò a trovarlo solo più tardi, sul paino del
ius honoràrium.
Nell’epoca antica erano riconosciuti come fonte di obbligazione da contratto soltanto pochi
atti solenni verbali, compiuti secondo un rito con formulari rigidi.
In seguito il vincolo del contratto, poté sorgere dalla consegna della cosa ad altro soggetto,
con l’intesa che questi ne facesse un dato impiego e che restituisse in seguito la cosa o un
suo equivalente: qui la solennità diminuisce a vantaggio dell’accordo delle parti.
Successivamente l’elemento volontaristico diviene determinante, con i contratti consensuali,
in cui le obbligazioni traggono forza dal semplice accordo delle parti, su una causa
riconosciuta dal diritto.
In seguito, dapprima su iniziativa del pretore, che munisce di tutela i pàcta, ossia le
convenzioni tra le parti non rientranti nello ius civìle, e poi nell’età imperiale per opera della
giurisprudenza, l’accordo tra le parti (convèntio) su una causa determinata avente un
oggetto lecito e possibile, diviene requisito essenziale del contratto.
Requisiti del contratto divengono la causa e l’accordo, ossia l’incontro tra la volontà delle
parti sul medesimo oggetto. La causa è il fine economico-sociale perseguito dalle parti e
riconosciuto dal diritto secondo schemi preordinati dall’ordinamento. L’accordo, ossia la
reciproca manifestazione di volontà dei soggetti, diretta ad uno stesso fine, richiede nel
diritto classico che tale fine sia specificatamente contemplato dall’ordinamento giuridico.
Solo gli accordi fondati su una causa tipica, riconosciuta dal ius civìle, hanno effetti
obbligatori; effetti che il creditore può rendere operanti, in caso di inadempimento, mediante
un’àctio in persònam.
Per i romani il contratto produce soltanto effetti obbligatori,non essendo in grado di produrre
effetti reali: es. la èmptio-vendìctio (compravendita), non ha l’effetto di spostare la proprietà
della merce e del prezzo da una parte all’altra, ma fa sorgere reciproche obbligazioni di
compiere gli opportuni negozi traslativi (mancipàtio – tradìtio).
Gli effetti obbligatori del contratto romano possono gravare solo su una o su tutte le parti: es.
nel mutuo, contratto unilaterale, l’obbligazione è a carico di un lato solo; nella
compravendita, contratto bilaterale, le obbligazioni esistono a carico di entrambe le parti.
Dal punto di vista della manifestazione di volontà, i contratti non sono mai unilaterali, in
quanto i soggetti coinvolti sono sempre almeno due.
Ancora, i romani eludevano efficacia alla convenzione intesa ad arrecare vantaggio
economico a persona diversa dei contraenti (nullità dei contratti a favore di terzi).
In relazione al sorgere del vincolo obbligatorio, Gaio definisce una quadri partizione: contratti
reali, verbali, letterali e consensuali, che si perfezionano rispettivamente con la consegna
della cosa, con la pronuncia di determinati vèrba, con la redazione di scritture, o mediante il
raggiungimento di un semplice accordo fra le parti.

7.13 Contratti verbali. Spònsio e stipulàtio


I contratti verbali, consistono nella pronuncia di parole solenni (vèrba), sul presupposto in
epoca classica, dell’accordo fra le parti circa il sorgere del vincolo obbligatorio.
Tipico esempio è la stipulàtio, che consiste in una domanda verbale rivolta da un soggetto
(stipulàtor) a un altro soggetto (promìssor) di promettere una prestazione, seguita dalla

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risposta affermativa dell’interrogato, formulata, pena la nullità, con lo stesso verbo della
domanda.
La stipulàtio è il tipico contratto unilaterale, perché crea l’obbligazione a carico del solo
promittente; per obbligare anche l’altra parte è necessaria una seconda stipulàtio, con ruoli
invertiti: in questo caso i contratti sono due.
Oggetto della stipulàtio, può essere di qualsiasi natura lecita; può consistere in un dàre
(somma di danaro, cosa determinata o da determinare), o in un fàcere, o anche in un non
fàcere.
La stipulazione è negozio astratto, al cui schema formale viene fatto ricorso per il
conseguimento di vari scopi. Qualsiasi convenzione e rapporto potevano essere trasfusi in
una stipulàtio, conferendovi veste giuridica meritevole di tutela da parte dell’ordinamento.
Dalla stipulàtio nasce a la tutela del creditore contro il promittente e i suoi eredi una azione in
persona: sia nell’antica procedura lègis àctio, che nel procedimento per fòrmulas.
I requisiti di forma della stipulàtio rimasero in vigore per tutta l’epoca classica. Tuttavia, sulla
base delle consuetudini, invalse l’uso di accompagnare ogni stipulazione con un atto scritto
e sottoscritto da entrambe i contraenti, nel quale si asseriva l’avvenuta stipulazione.

7.14 Altri contratti verbali


Dotìs dìctio: è un contratto con cui la donna, il padre o il suo debitore per lei, in occasione
del matrimonio assumeva, nei confronti del futuro marito, l’obbligo di costituire dote.
Iusiuràndum libèrti: giuramento con effetti obbligatori compiuto dal servo prima della sua
manomissione.

7.15 Contratti reali. Mutuo


I contratti reali sono quelli in cui l’obbligazione nasce dalla consegna della cosa da un
soggetto all’altro, con l’intesa della successiva restituzione. Nel diritto romano classico i
principali sono: mutuo, deposito, comodato e pegno.
Il mutuo (prestito di consumo) è un contratto reale, in forza del quale un soggetto
(mutuante), trasferisce ad un altro soggetto (mutuatario), la proprietà di una somma di
danaro o di una quantità certa di cose fungibili, producendo in quest’ultimo l’obbligazione di
restituire altrettanto dello stesso genere e qualità, trattasi di contratto unilaterale in quanto è
una sola parte, il mutuatario, obbligata a una prestazione.
Elementi del mutuo sono la dàtio, o trasferimento in proprietà della somma o della cosa (da
compiersi con idoneo negozio traslativo), e la convèntio, l’accordo, avente ad oggetto la
restituzione.
La dàtio determina l’esatto ammontare dell’oggetto della prestazione dovuta dal mutuatario,
che non è tenuto a restituire nulla più: il mutuo romano è essenzialmente gratuito. Gli
interessi potevano essere eventualmente aggiunti facendo ricorso ad un altro contratto, una
stipulàtio, che d’intesa tra le parti si aggiungeva al contratto reale.

7.16 Deposito e comodato


Il deposito è un contratto reale, che si conclude con la consegna di una cosa mobile da un
soggetto (depositante) a un altro (depositario), che si obbliga gratuitamente a conservarla
per restituirla al depositante a un termine determinato a all’altrui richiesta.

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L’obbligazione a carico del depositario, che ha la detenzione della cosa e non può usarla,
consiste nel custodire la cosa e restituirla al depositante nelle condizioni in cui gli è stata
data, incrementata degli eventuali frutti maturati.
Il comodato (prestito d’uso) è un contratto reale con il quale un soggetto, il comodante,
consegna in detenzione ad un altro soggetto, il comodatario, una cosa inconsumabile,
convenendo che questi la usi in una determinata modalità, prima di adempiere all’obbligo di
restituirla al comodante.

7.17 Pegno e fidùcia cum creditòre


Il pegno è un diritto reale di garanzia. Come contratto reale, nell’ipotesi del pegno manuale,
si conclude tramite la consegna di una cosa al creditore pignoratizio, con l’assunzione e da
parte di questi di restituire la cosa, con gli eventuali frutti accessori, quando il debito venga
estinto.
Sembra che anticamente la funzione del pegno fosse svolta dalla fidùcia, consistente nella
mancipàtio o in iùre cèssio di una cosa con l’intesa che, una volta ottenuto l’adempimento,
l’accipiente ritrasmettesse con lo stesso mezzo la proprietà della cosa al cedente-debitore.
In tal caso non si tratta di un contratto, ma di un negozio traslativo della proprietà.

7.18 Contratti consensuali. Compravendita


Nei contratti consensuali il rapporto obbligatorio deriva dal semplice accordo delle parti,
manifestato in modo non solenne, avente ad oggetto un assetto di interessi riconosciuto
dall’ordinamento. Nel diritto romano i contratti consensuali sono tipici e limitati:
compravendita, locazione, conduzione, la società, il mandato. Sorti nell’ambito del ius
gèntium, questi contratti possono essere conclusi sia dai romani sia dai peregrìni – anche
mediante nùncius o per iscritti.
La compravendita, si conclude quando un soggetto, venditore, si obbliga a trasmettere
all’altro, compratore, il possesso di una cosa, e a garantirgliene il pacifico godimento, mentre
il compratore si obbliga a trasmettere in corrispettivo la proprietà di una somma di danaro.
La compravendita romana classica, non trasmette direttamente ne la merce né il prezzo, ma
è semplicemente produttiva di obbligazioni, il cui adempimento consiste nel reciproco
trasferimento. Il risultato dello scambio immediato di cosa contro prezzo era conseguito
mediante mancipàtio.
Elementi del contratto sono: l’accordo delle parti, la merce e il prezzo. L’importanza
dell’accordo delle parti viene principalmente evidenziato nelle fonti dal punto di vista
dell’errore che, se impedisce la concordanza di volontà delle parti, rende impossibile il
formarsi del contratto e il sorgere di obbligazioni.
Per la merce non deve trattarsi di cose èxtra commèrcium, o già perita al momento della
conclusione del contratto o già del compratore, mentre è lecita la compravendita di cose
altrui. La merce deve essere determinata o determinabile; può anche trattarsi di cosa futura,
purché venga ad esistenza, oppure di cosa aleatoria.
Oggetto di vendita possono essere anche oggetti incorporali, quali diritti reali su cose altrui
o crediti.
La compravendita è un contratto bilaterale: sorgono obbligazioni per entrambe le parti. Il
compratore è obbligato a trasferire la somma di danaro quale prezzo (a mezzo di una

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tradìtio), ed eventualmente anche gli interessi (usùrae), una volta entrato in possesso del
bene.
A carico del venditore sorgono un’obbligazione principale e due accessorie. L’obbligo
principale consiste nel trasferimento al compratore del possesso del bene: il venditore non è
invece tenuto al trasferimento della proprietà. Questo si spiega in quanto la compravendita
trae origina dal ius gèntium, in cui una delle parti poteva non essere di origine romana, ed
essendo interdetto al ius commèrcii, non vi era la possibilità di trasferire la proprietà di res
màncipi, con le necessarie mancipàtio o in iùre cèssio. Per ovviare a tale situazione, il
contratto di compravendita, costituiva delle obbligazioni in carico alle parti. Obbligazione
secondaria del venditore era quella di garantire il possesso all’acquirente da rivendicazioni di
terzi sulla cosa (garanzia di evizione) e di garantire il compratore da eventuali vizi occulti.
Le garanzie accessorie, anticamente, non discendeva automaticamente dalla
compravendita, ma da un’aggiuntiva stipulazione di garanzia o contro i vizi della cosa.
Nel periodo che intercorre tra la conclusione del contratto e la consegna della merce il
venditore è tenuto ad aver cura dei essa; ma in caso di perimento della cosa per caso
fortuito o per forza maggiore, il rischio è accollato direttamente al compratore, il quale è
tenuto a pagare per intero il prezzo.
Altre pattuizioni aggiunte alla compravendita possono essere quelle della riserva di recedere
il contratto un termine o per mancato pagamento.

7.19 Locazione-conduzione
È un contratto consensuale, bilaterale, per il quale un soggetto, il locatore, si obbliga a
mettere nella materiale disponibilità dell’altro, conduttore, una cosa, che questi si obbliga a
restituire, dopo averla goduta per un tempo determinato nel modo convenuto; al locatore,
secondo le varie ipotesi, spetta un corrispettivo una somma di danaro.
Per i romani vi sono tre sottospecie di locàtio-condùctio:
a. locàtio rèi, consiste nel cedere ad altri il temporaneo godimento della cosa dietro
corrispettivo;
b. locàtio operàrum, consiste nel porre a disposizione di altri, per un dato periodo, la
propria attività lavorativa di persona libera, dietro corrispettivo;
c. locàtio òperis, consiste nel promettere ad altri, dietro corrispettivo, l’attività
complessiva per il conseguimento di un certo risultato (costruire edificio, trasporto merci).
Elementi necessari del contratto sono: consenso delle parti, la cosa (res, operàrum, òperis),
il corrispettivo.
A tutela delle obbligazioni scaturenti dal contratto di locazione-conduzione sono date a
favore delle parti della àctio di buona fede (conferiscono al giudice ampia discrezionalità).

7.20 Società
È un contratto consensuale, bilaterale o plurilaterale, con il quale due o più soci, si obbligano
reciprocamente a mettere in comune, in tutto o in parte, i loro beni o le loro attività, per il
conseguimento di un risultato comune – caratteristica è l’omogenità delle obbligazioni dei
contraenti.
Per l’epoca classica i più diffusi tipi di società sono le socìetas òmnium bonòrum (società di
tutti i beni) e le socìetas unìus negòtii (società di un solo affare).

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Gli elementi del contratto sono: il consenso delle parti, che nelle società non deve essere
solo iniziale, ma deve persistere nel tempo; i beni e le attività conferiti; lo scopo del
vantaggio patrimoniale collettivo.
Fra le obbligazioni nascenti dal contratto di società è opportuno distinguere tra quelle interne
tra soci e quelle esterne che i soci possono avere con terzi, per il conseguimento del fine
comune.

7.21 Mandato
È un contratto consensuale, imperfettamente bilaterale, con cui il soggetto, mandate, da un
incarico ad un altro, mandatario, che accetta obbligandosi, di svolgere gratuitamente
un’attività nell’interesse del mandante o di un terzo.
Originariamente la funzione del mandatario sarebbe stata svolta dal procuràtor o dal
cògnitor.
Suoi elementi sono: l’accordo delle parti, l’oggetto, l’interesse del mandante o di un terzo.
L’attività del mandatario, che è gratuita, deve essere lecita e determinata; può
ricomprendere qualsiasi attività, non solo il compimento di atti giuridici come nel diritto
moderno.
Dal mandato sorge l’obbligazione, per il mandatario, di eseguire l’incarico accettato e di
condurlo a buon fine, in conformità alle istruzioni ricevute e alla natura dell’incarico. Essendo
estranea al diritto romano al rappresentanza diretta, si rende necessario che il mandatario
trasmetta al mandante, con strumenti giuridicamente idonei, i risultati dell’attività compiuta

7.22 La tutela dei pàcta e le figure disciplinate dal pretore


Accanto al termine convèntio, le fonti riportano spesso la terminologia pàctum convèntum
(patto convenuto), per designare accordi produttivi di conseguenze giuridiche, talora operanti
sul piano processuale e riconosciuti dall’editto del magistrato.
Il pàctum, che nel corso delle varie epoche assume significati difformi tra loro, è preso in
considerazione dalla dottrina romana riconoscendo ad alcune figure di accordi, non rientranti
tra i contratti, ma tuttavia disciplinati e protetti dal pretore come meritevoli di riconoscimento
e muniti di azioni per la tutela degli impegni assunti. Si tratta dei pàcta praetòria.

7.23 I contratti innominati


Con tale termine la dottrina romanistica indica una casistica di fattispecie in consistenti in
rapporti personali in cui il vincolo obbligatorio nasce tra le parti, anziché da contratto, dal
fatto che una di esse ha eseguito una prestazione liberamente convenuta, e può quindi
pretendere che l’altra parte compia la prestazione che a sua volta si era impegnata a
compiere. Si tratta di accordi per prestazioni corrispettive di scambio o sinallagmàtiche: essi
non rientrano in nessuna fattispecie riconosciuta dai sistemi del ius civìle, del ius gèntium o
del ius honoràrium. Furono i bizantini che concepirono il fatto che dall’esecuzione di una
prestazione eseguita in adempimento di un qualsiasi accordo lecito derivasse per l’altra
parte l’obbligo di adempiere alla prestazione precedentemente concordata. Dall’esecuzione
compiuta da una delle parti deriva il vincolo obbligatorio per l’altra.

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7.24 Atti leciti non contrattuali
La giurisprudenza classica e l’editto pretorio riconoscevano efficacia obbligatoria, oltre che ai
contratti e figure affini, anche ad altri atti leciti unilaterali non dipendenti da una preventiva
convèntio.
Tra questi la negotiòrum gèstio (gestione d’affari). Essa ricorre quando un soggetto, senza
averne ricevuto mandato e anche nell’ignoranza dell’interessato, e senza esservi tenuto da
proprio ufficio, intraprende la gestione di uno o più affari senza interesse proprio.
Requisiti per la gestione d’affari – inquadrata con Giustiniano nei quasi contratti – sono che
la gestione abbia ad oggetto affari altrui; che il gèstor compia l’attività di gestione per
conseguire un determinato risultato vantaggioso per altri; che l’attività intrapresa risponda a
requisiti di utilità oggettiva.

7.25 Indèbiti solùtio


Quando un soggetto, nell’erronea convinzione di essere vincolato da un’obbligazione di
dare, trasmette al presunto creditore una somma di danaro o di altri beni, i romani parlano di
solùtio indèbiti (pagamento dell’indebito) e concedono al solvente, per farsi ritrasmettere
quanto erroneamente dato, l’azione in persònam, la condìctio.

7.26 Altre figure principali


Altre ipotesi di atti leciti non contrattuali, generatori di obbligazione, sono:
a. pollicitàtio. Dichiarazione di volontà unilaterale sotto forma di promessa, fatta da un
soggetto nei riguardi di un civìtas o municìpium, in occasione di una candidatura a
determinate cariche, che ha per oggetto un’opera pubblica; è di per sé creatrice di un
obbligo per il suo autore se fatta per causa lecita.
b. Vòtum. Concettualmente analoga alla precedente, fatta dal pàter famìlias a una
divinità ed avente per oggetto una prestazione, resa coercibile dai sacerdoti di quella divinità
con procedura èxtra òrdinem.
c. Commùnio incìdens. Rapporto di comunione che sorge da qualunque fonte diversa
dal contratto di società.

7.27 Atti illeciti. Illecito civile e illecito pretorio


Oltre ai contratti e agli altri fatti leciti riconosciuti dall’ordinamento, le obbligazioni possono
essere originate da atti illeciti riprovati dall’ordinamento. Tuttavia non tutti i comportamenti
antigiuridici sono generatori di obligàtio, ma solo gli illeciti privati, che l’ordinamento romano
non giudicava meritevoli di repressione diretta e pubblica, ma li rendeva suscettibili di
sanzione su iniziativa del soggetto, attraverso l’àctio in persònam.
Gli illeciti romani non vanno confusi con i crìmina, perseguiti direttamente dallo Stato, in
quanto lesivi della comunità nel suo complesso.
Gli illeciti privati (denominati delìcta o malefìcia) erano ritenuti lesivi di singoli gruppi o
individuo e, in origine, autorizzavano la vendetta del gruppo o del singolo sull’offensore.
L’ordinamento intervenne successivamente a regolare la vendetta dei privati, ordinandone
prima la proporzionalità rispetto la lesione subita e successivamente la composizione
pecuniaria privata a titolo di pena sostitutiva.

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Da tale rapporto personale esistente l’ordinamento fece derivare una obligàtio, tutelata dalla
rispettiva azione, esperibile dalla vittima contro l’autore dell’illecito, per ottenere la
corrispondente somma a titolo di pena privata: una sanzione afflittiva che sostituì l’originaria
vendetta.
L’obbligazione penale, sorgeva secondo Gaio da quattro figure principali: fùrtum, la rapina, il
dàmnum iniùria dàtum, l’iniùria.
Le azioni – sia civili che pretorie – derivanti da atti illeciti si differenziavano in parte dalle altre
azioni private, per alcune peculiarità quali: la cumulatività, l’intrasmissibilità, la nossalità).

7.28 Furto
La nozione e configurazione del furto è oggetto di rilevanti mutamenti a seconda dell’epoca
storica del diritto romano. Nell’epoca più antica, grande importanza era attribuita a
perquisizioni solenni, da compiersi con un certo rituale, presso il domicilio del sospettato
autore dell’illecito, quando non vi fosse flagranza.
In origine, il fùrtum, doveva consistere nell’asportazione della cosa dall’altrui sfera di
disposizione, con l’intento di appropriarsene. Nell’età repubblicana tale nozione andò
estendendosi, ricomprendendo ogni danno dolosamente arrecato al altri sia a cose mobili
che immobili.
Attraverso fasi successive la giurisprudenza pervenne a considerare il fùrtum, dal punto di
vista oggettivo, come la sottrazione di cosa altrui, ad esclusione degli immobili, e dal punto di
vista soggettivo, richiese l’ ànimus lùcri facièndi, cioè l’intenzione di procurarsi un vantaggio
patrimoniale attraverso il furto. Elementi del furto per i classici sono:
a. la sottrazione della cosa altrui, che può consistere nella materiale asportazione, sia
nell’indebita appropriazione di cosa altrui già detenuta a titolo lecito (interversione del
possesso).
b. La consapevolezza, che è alla base del dolo dell’agente, del mancato consenso del
proprietario e dell’avente diritto a disporre della cosa;
c. L’ànimus lùcri facièndi, cioè l’intenzione di trarre un vantaggio patrimoniale dalla cosa
sottratta.
Le azioni derivanti dal furto competono, nel caso del furto manifesto, al proprietario o
dell’avente diritto contro il ladro; nel caso di fùrtum nec manifèstum, anche contro il complice
e l’istigatore.
Le azioni di furto sono infamanti e perpetue e possono essere esperite contro gli eredi del
ladro; sono cumulabili con le azioni ripercussorie.
A partire dalla tarda età classica, la persecuzione privata del furto concorre la sua
repressione pubblica.

7.29 Rapina
La sottrazione violenta di cosa altrui, cadeva originariamente, sotto le sanzioni più gravi
riguardanti il furto. Oltre che come fonte di obbligazione penale, la rapina fu oggetto di una
concorrente repressione criminale pubblica.

7.30 Iniùria
Termine impiegato nelle fonti romane in due accezioni: atto antigiuridico e lesione personale.

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Le iniùriae, da intendersi come atto lesivo fisico della persona, comportavano una sanzione
pecuniaria. Successivamente il pretore estese il campo della iniùria anche a ipotesi di
lesione dell’integrità morale altrui, accordando alla persona offesa dal delitto un’azione
formulare. Anche in questo caso alla repressione civilistica si accompagnò, una repressione
di carattere pubblicistico.

7.31 Damnùm inùria dàtum


A ricordo delle disposizione delle XII Tavole, i giuristi romani conservarono sanzioni contro
gli autori di danni arrecati ingiustamente alla cosa altrui. La materia fu regolata dalla lex
Aquìlia nel III sec. a.c., che conteneva tre gruppi di disposizioni riguardanti ipotesi di
danneggiamento:
a. l’uccisione di un servo o di un animale altrui (da armenti o greggi);
b. caso del creditore accessorio, che invece di esigere il credito, l’avesse estinto in forma
solenne a danno del creditore principale.
c. ogni altro danno, diverso da quelli sopra descritti, provocato dall’azione di incendiare,
spaccare, rovinare cose animate o inanimate altrui.
Se il convenuto contestava l’addebito accettando di misurarsi in giudizio, l’eventuale
condanna, era aumentata del doppio.
Successivamente, la responsabilità dell’autore del danneggiamento, originariamente limitata
al dolo, si estese a ipotesi di comportamento colposo e ai danni arrecati in modo indiretto.

8 SUCCESSIONI E DONAZIONI
8.1 Successione e liquidazione del rapporti giuridici
Succèssio è il fatto giuridico di prendere il posto di un’altra persona nella totalità dei suoi
rapporti giuridici trasmissibili. La successione può essere ìnter vìvos, o mòrtis càusa. A sua
volta quest’ultima può essere intestata, ossia regolata automaticamente dalle norme di diritto
oggettivo, oppure testamentaria, cioè regolata da un testamento.
Quando un soggetto di diritto si estingue, i rapporti che facevano a lui capo si possono
interrompere e i suoi beni alienati a nuovi proprietari: si parla di liquidazione dei rapporti del
soggetto estinto. Tali rapporti possono invece venir proseguiti, e l’appartenenza dei beni
continuata, da un altro soggetto subentrante: si parla allora di successione.

8.2 Eredità ed erede


Il diritto ereditario romano intende la herèditas, in due accezioni: un primo significato indica
l’insieme dei beni che facevano capo ad un defunto, e che sono destinati ad uno o più eredi;
un secondo significato, di recezione, coincide con l’istituto giuridico della successione.

8.3 Successione legittima e successione testamentaria


Si può divenire successori ereditari sia per testamento che senza di esso. Si diventa eredi
testamentari quando il de cùius, ha determinato la successione con un proprio atto di
autonomia privata, il negozio giuridico testamèntum; si diviene eredi intestati, quando

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l’eriditando nulla abbia disposto in proposito, o pur esistendo un testamento, esso sia
inefficacie.
A differenza del diritto vigente, per i romani nessuno può morire disponendo per testamento
soltanto di una parte dei rapporti giuridici e del patrimonio, lasciando per quanto non indicato
che provveda la successione legittima.
Se il pàter faceva testamento, le norme sulla successione legittima non potevano trovare
applicazione, e anche se non aveva disposto per tutto il patrimonio, quanto era rimasto fuori
dal testamento andava agli eredi testamentari, in forza di un diritto di accrescimento. Questa
regola attesta il favore per l’eredità testamentaria, a danno di quella intestata.

8.4 Capacità di succedere, di acquistare, indegnità


Affinché si apra una successione mòrtis càusa occorre che sia avvenuto il fatto giuridico
della morte di un soggetto sùi iùris avente un patrimonio.
Perché si abbia successione rispetto al defunto occorre però il requisito della capacità di
succedere. Tale requisito è posseduto da chi sia nato ed ancora vivo al momento
dell’apertura della successione; ma sono capaci di succedere anche i nascituri, purché
concepiti al momento della morte del de cùius.
Le persone alièni iùris possono succedere, ma mancando loro della capacità giuridica, esse
succedono per l’avente potestà su di loro.
Può invece ricevere l’eredità in proprio il servo del testatore che lo abbia istituito erede, ma
occorre che nello stesso testamento il suo padrone lo abbia preventivamente reso libero
mediante una manumìssio testamènto.
Non hanno invece capacità di succedere i peregrìni, i condannati a pena capitale, e nell’età
postclassica, gli eretici, gli ebrei, e in generale coloro che non sottostanno alla religione
cristiana ufficiale.
Poteva essere successore il pòpulus romànus, divenuto persona giuridica; tale capacità fu
data successivamente alle civitàtes, ai municìpia.
Distinta dalla capacità di succedere è capacità di acquistare, che presuppone il possesso
della prima. Connessa all’istituzione della legislazione matrimoniale, che contempla una
serie di casi in cui il soggetto, pur idoneo a succedere, era incapace di acquistare perché
celibe, o coniugato ma senza figli, oppure donna di facili costumi.
L’indegnità è l’insieme dei casi in cui a un soggetto, capace di ricevere e di acquistare,
vengono tolti i beni ereditari a vantaggio dell’erario, mediate confisca, in seguito ad un
atteggiamento offensivo tenuto dall’erede nei confronti del de cùius.

8.5 Bonòrum possèssio


Nel diritto delle successioni a causa di morte, come visto a proposito del diritto di proprietà,
si deve prendere atto dell’esistenza di due figure di successori universali: l’hères, per il ius
civìle; il bonòrum possèssor (possessore del patrimonio), per il ius honoràrium.
Il bònorum possesso è un istituto pretorio in applicazione del quale ad un soggetto è
concesso, previa istanza, di prendere possesso del patrimonio del defunto; tale situazione
provvisoria è destinata a trasformarsi, nel termine massimo di due anni per i beni immobili, in
proprietà quiritaria definitiva.

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La successione pretoria, essendo destinata a sfociare naturalmente nell’usucapione, ha
carattere provvisorio; in molti casi la successione civile e quella pretoria vengono a
coincidere, in quanto è lo stesso erede civile ad ottenere la bonòrum possèssio.

8.6 La successione ab intestàto secondo il ius civìle


Anche se i romani hanno dato principale importanza alla successione testamentaria, è logico
farvi precedere l’analisi della successione legittima, ovvero la successione a causa di morte
senza testamento.
La qualifica di hères, in assenza di testamento è riservata ai discendenti diretti – maschi e
femmine – del paterfamìlias, che si trovano sotto la sua potestà al momento della morte: si
tratta dei figli, sia naturali che adottivi, della vedova nel matrimonio cum mànu, e di eventuali
nipoti in linea retta in caso di pre-morte dei genitori.
Ma se non ci sono figli e mancando il testamento, la legge delle XII Tavole, prende il
considerazione altre due categorie di persone: l’agnato di grado di prossimo (il fratello), e poi
– mancando questi – i componenti della gens di cui il de cùius faceva parte.
Sia l’agnato che i membri della gens, non sono considerati affatto eredi; per loro troverà
applicazione l’usucapione, secondo il quale mediante il possesso continuato nel tempo da
possessori si tramuteranno in proprietari.
Quanto sopra vale per i soggetti ingènui, cioè nati liberi; per i libertìni, i servi manomessi,
essi possono avere degli eredi sùi, ma non possono avere agnati prossimi – in caso di
assenza dei primi, la loro famìlia è destinata al patrono.

8.7 La successione intestata pretoria


Dalla successione intestata (legittima), rimanevano escluse intere categorie di parenti: i figli
emancipati, i parenti in linea femminile (cognàti), i coniugi legati tra loro da matrimonio sìne
mànu. A ciò negli ultimi secoli della Repubblica, rimediarono i Pretori attraverso i loro editti
annuali, e la concessione della bonòrum possèssio sìne tàbulis.
All’inizio dell’età imperiale l’editto pretorio prometteva la tutela a quattro categorie di
successori:
a. i liberì (sùi), e i discendenti in linea retta usciti dalla pàtria potèstas del de cùius;
quindi i figli emancipati e i figli dati in adozioni e successivamente emancipati dal padre
adottivo.
b. In mancanza di richiesta dall’azione da parte dei lìberi, alla successione pretoria
erano chiamati i legìtimi, cioè gli agnàti, che la legge delle XII Tavole autorizzava ad
occupare i beni ereditari in assenza di sùi.
c. Dopo i legìtimi era chiamata la classe dei cognàti, cioè tutti i parenti naturali, tanto in
linea maschile che femminile, fino al sesto grado.
d. In mancanza di richiesta dei cognàti, era ammesso alla bonòrum possèssio il coniuge
superstite.

8.8 La successione testamentaria


Se il paterfamìlias se voleva evitare una successione legittima, aveva l’onere di esprimere in
maniera formale una propria volontà da far valere dopo la morte. La forma era quella del
testamèntum, che trae il proprio nome dalla parola tèstis, testimone.

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Secondo il diritto moderno, il testamento è un negozio unilaterale, destinato a produrre effetti
dopo la morte del suo autore, non recettizio (capace di dispiegare la sua efficacia anche
senza essere venuto a conoscenza del destinatario), solenne (forma vincolante),
personalissimo (non è ammessa sostituzione), revocabile; inoltre capace di contenere al suo
interno altri negozi quali manomissioni, legati, nomine di tutori.
Le vicende storiche del diritto romano conoscono tre tipi di testamento:
a. il più antico è il testamento comiziale. Era possibile due volte all’anno, quando allo
scopo era effettuata l’assemblea dei comizi curiali, presieduta dal pontefice massimo, dove il
testatore, mancando eredi legittimi, rendeva nota al popolo una persona che ne avrebbe
preso il posto alla sua morte.
b. Il secondo è il testamento compiuto dinnanzi all’esercito già schierato in battaglia: il
testatore indicava a quali tra i commilitoni desiderava che in caso di morte fossero distribuiti i
suoi beni.
c. Altro istituto molto antico è la mancipàtio famìliae: in caso di morte imminente il
paterfamìlias poteva trasferire con una mancipàtio, tutti i propri beni, ad un altro pàter di sua
fiducia, indicandogli a quali persone avrebbe dovuto darli alla sua morte. L’acquirente
fiduciario, era considerato analogo all’erede; egli assumeva l’incarico di trasferire, alla morte
del venditore, i beni ereditari alle persone che gli erano state indicate. Si trattava di uno
strumento di liquidazione attraverso dei legati.
Dalla fusione del testamento comiziale con la mancipàtio famìliae, i giuristi romani
ricavarono il tipo definitivo di testamento, denominato testamèntum per aès et lìbram. La
denominazione fa riferimento alla mancipàtio, che si compiva con il bronzo (aès) e la bilancia
(lìbra). Le persone che prendono parte al negozio testamentario sono il testatore, il pesatore
della bilancia e cinque testimoni, cittadini romani puberi.
Dell’avvenuto compimento delle solenni dichiarazioni, veniva scritto un breve processo
verbale.
Il negozio testamentario classico richiede la forma scritta, mentre la possibilità di un
testamento orale viene successivamente concessa ai militari in servizio.

8.9 Contenuto del testamento. Istituzione di erede e sostituzioni


Il testamento è un negozio contenitore di altri negozi mòrtis càusa. Il primo di essi è
l’istituzione di uno o più eredi, dal quale tutti gli altri negozio dipendono. Si tratta di un
negozio formulare, redatto in forma obbligatoriamente imperativa: “Lucio sia erede”,
accompagnato da condizioni sospensive o da clausole modali, ma non da condizioni
risolutive o termini.
Se il testatore ha discendenti maschi e non li vuole nominare eredi, ha l’onere di escluderli
nominativamente mediante un negozio di diseredazione.
Ciascun erede è successore universale, nel senso che prende il posto del defunto nella
totalità dei suoi beni e rapporti giuridici trasmissibili. In presenza di più coeredi, di solito era il
testatore a indicare la quota; in mancanza le quote si intendevano uguali.
Non soltanto le persone libere potevano essere istituiti eredi, ma anche gli schiavi: se propri
insieme all’istituzione di erede, si disponeva la manomissione testamentaria; se schiavi
altrui, l’eredità andava al suo attuale dòminus.

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Era ammissibile anche un’istituzione di erede per gradi o linee successive. Si tratta del
negozio della sostituzione ereditaria: Tizio sia erede, se non accetta sia ere Caio.
La sostituzione volgare può essere inserita dopo l’istituzione dell’erede, nell’eventualità che
l’istituito non voglia o non possa accettare.
La sostituzione pupillare, ha riguardo del figlio impubere, che in quanto tale, morto il suo
avente potestà viene affiancato da un tutore. Il negozio consiste nella nomina di uno o più
eredi, nel caso il pupillo muoia, in età impubere, e pertanto incapace di agire e di fare a sua
volta testamento.

8.10 Altri negozi contenuti nel testamento


Manumìssio testamènto: nel caso di istituzione dell’erede del servo, essa doveva essere
accompagnata dalla manomissione. Più frequente era l’ipotesi in cui il testatore concedesse
la libertà senza istituirli eredi (leggi imitatrici).
Dàtio tutòris: nomina di un tutore per i figli del testatore che alla sua morte fossero ancora
impuberi. Inoltre era possibile che il testatore nominasse un fiduciario nel testamento,
conferendogli l’incarico di curare l’esatta esecuzione delle volontà contenute nelle tàbulae.
Legàtum. Il negozio più diffuso nei testamenti è il legato. È un negozio solenne, mòrtis
càusa, contenuto nel testamento, con il quale si stabilisce un’attribuzione a carattere
patrimoniale al di fuori dell’istituzione di erede, a carico dell’eredità. Nell’età classica
venivano distinte quattro categorie di legati. Con Giustiniano, vennero abrogate le quattro
forme, e fu deciso che non la forma ma la volontà del testatore dovesse essere oggetto di
interpretazione: se le parole del de cùius, fossero state compatibili con l’acquisto della
proprietà del bene da parte del legatario, il negozio avrebbe prodotto effetti reali; in caso
diverso il negozio avrebbe avuto efficacia meramente obbligatoria.

8.11 Leggi limitative dei legati


A cominciare da quando alla semplice istituzione di erede venne ad aggiungersi la possibilità
di disporre attribuzioni patrimoniali a titolo particolare con il legato, venne in luce il problema
di inconvenienti a carico degli eredi: capitava che il testatore distribuisse tutto o quasi il suo
patrimonio ai legatari, trascurando l’erede che, quale successore universale – doveva
affrontare l’intero passivo dell’eredità, senza avere acquisito un attivo adeguato.
Vennero pertanto emanate leggi che limitarono il valore massimo dei legati: se i legati
superavano un limite prefissato, l’erede poteva farli proporzionalmente ridurre.

8.12 I fedecommessi
Già in epoca precristiana, accadeva che un soggetto, per mancanza di tempo o testimoni, o
per incapacità di ricevere dei destinatari, invece di far uso delle forme dei negozi
testamentari, esprimesse in modo informale, il desiderio che chi avesse conseguito lasciti
ereditari, effettuasse una prestazione a una persona designata o eseguisse il contenuto di
una raccomandazione. Fìdei commìtere, affidare alla correttezza altrui, era la locuzione che
esprimeva tale contenuto di preghiera o raccomandazione mòrtis càusa. Ferdercommesso
divenne il termine atto a designare tale atto di volontà; fedecommissario, designava il
soggetto beneficiario.

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A partire dal I sec. il fedecommesso fu annoverato, tra i negozi giuridici mòrtis càusa
costituenti il contenuto del testamento, accanto all’istituzione di erede, alla nominati di tutori,
ai legati, alle manomissioni dirette. Esso non produceva effetti né sul piano del ius civìle, né
sul piano del diritto pretorio, ma era un istituto facente parte dello ius extraordinàrium. La sua
efficacia aveva carattere obbligatorio, una volta accolto l’istituto nel sistema giuridico
imperiale, l’onorato, il fedecommissario, era considerato titolare di un diritto di credito nei
confronti di chi era stato onerato dalla richiesta.
Oltre che nel testamento, il fedecommesso poteva essere scritto in un documento separato, i
codicìlli.

8.13 L’acquisto dell’eredità


Tanto nell’ipotesi di successione testamentari, quanto in quella di successione intestata,
l’erede acquistava l’eredità secondo due modalità possibili: o vi era acquisto automatico, non
richiedente atti di volontà del successore, oppure vi era l’acquisto in seguito ad accettazione.
L’acquisto automatico si avere per gli eredi necessari: i figli in potestà, la moglie in mànu, i
discendenti diretti nel caso di genitore premorto. Costoro ereditavano senza necessità di
accettazione. Con l’acquisto automatico dell’eredità del testatore l’erede necessario diveniva
tale anche senza volerlo; anzi per lo ius civìle, anche contro la sua volontà. A questo pose
rimedio il diritto pretorio, che denegò le azioni a favore o contro l’erede.
All’infuori degli eredi necessari, tutti gli altri successori erano destinatari di un’offerta di
eredità, la delazione ereditaria; per divenire eredi avevano l’onere di compiere un atto di
accettazione: la crètio e la pro herède gèstio. La prima è un negozio giuridico unilaterale
solenne, orale, richiedente la presenza di sette testimoni; la seconda è un’accettazione
tacita, mediante il compimento di atti di gestione del patrimonio dai quali risulti implicita la
volontà di accettare.

8.14 La successione contro il testamento


Per lo ius civìle la mancata ed esplicita diseredazione dei sùi, che non venissero nel
contempo istituiti eredi comportava l’invalidità del testamento e il passaggio alla successione
legittima; cosi come se fossero sopravvenuti figli non preventivamente contemplati.
Sul piano della successione pretoria, il magistrato estese i diritti sùi herèdes, a tutti i figli,
compresi gli emancipati, concedendo l’azione bonòrum possèssio còntra tàbulas. La stessa
azione venne concessa al patrono e ai suoi discendenti, per la metà dei beni del liberto
morto senza figli.
La consapevolezza che attraverso il negozio della diseredazione, si potessero annullare i
diritti dei discendenti, i giuristi romani, suggerirono al parente che si riteneva ingiustamente
escluso a ricorrere in tribunale, con una querèla inofficiòsi testamènti (reclami di testamento
ingiusto: il ricorso era diretto ad accertare che il testatore aveva redatto le sue ultime volontà
in un momento di insanità mentale, documentata proprio dalla palese assurdità della
diseredazione.
Nell’età imperiale, si stabilizzò una vera e propria successione necessaria materiale: i
parenti vicini che non avessero ottenuto una quota minima, denominata porzione legittima,
potevano intentare un’azione di integrazione della legittima contro gli eredi testamentari.

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8.15 Tutela giudiziaria dell’erede e del bonòrum possèssor
Nella loro qualità di successori, tanto l’erede che il bonòrum possèssor possono esperire le
stesse azioni che competevano al de cùius, purché trattasi di rapporti giuridici trasmissibili.
All’erede spettano in via diretta, mentre al possessore in buona fede, con la formula fictìciae.

8.16 Donazione. Concetto e donàtio e sua disciplina


Mentre nel diritto moderno la donazione è un negozio giuridico avente natura contrattuale,
ne diritto romano antico e classico la donàtio è soltanto uno scopo (càusa) perseguito dl
soggetto che pone in essere un negozio. Si poteva ad esempio, fare una mancipàtio a basso
prezzo, perseguendo lo scopo di fare una donazione.
I caratteri fondamentali della donazione erano: l’arricchimento lecito di un soggetto
(donatario) senza adeguato corrispettivo e l’intenzione dell’altro soggetto (donatore) di
effettuare un atto di liberalità.
L’ordinamento romano conosce due previsioni normative intese a porre limiti alla càusa
donàndi, con qualsiasi negozio fosse perseguita: da un lato si pose un limite al valore della
donazione, ma a ciò erano esonerati i parenti e affini.
Di origine consuetudinaria è il divieto di donazione tra marito e moglie, sanzionato dalla
nullità dell’atto: lo scopo originario era forse quello di evitare spostamenti di patrimonio da
una famiglia ad un’altra dopo la diffusione del matrimonio sìne mànu.

8.17 Donàtio mòrtis càusa


Un tipo particolare di donazione, è la donazione in considerazione della morte. Il donante,
che riteneva di trovarsi nell’imminente rischio di morire, trasferiva una cosa al donatario, con
l’accordo che se questi non fosse morte, la cosa gli sarebbe stata restituita.

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