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REATI CONTRO LA PERSONA

Estratto dal VII volume del

Trattato teorico – pratico di diritto penale

diretto da F. Palazzo e C.E. Paliero

Reati contro la persona e contro il patrimonio

a cura di F. Viganò e C. Piergallini

seconda edizione

Capitolo I – Delitti contro la vita

Introduzione

L’omicidio rappresenta l’archetipo di fatto illecito, punito con le più severe sanzioni criminali in tutti
gli ordinamenti e in tutte le epoche storiche. La tutela della vita di ciascun consociato dalle offese
che altri possono arrecarvi costituisce un nucleo irriducibile di funzioni statuali. Posto il principio
secondo cui uccidere è vietato – salva la sussistenza di eventuali cause di giustificazione – ogni
sistema giuridica si preoccupa di definire (nell’ambito di un codice se si tratta di ordinamenti civil
law, come il nostro) i tratti caratterizzanti ciascuna species in cui si può manifestare il genus
“causazione della morte di un uomo”. Nel caso di specie, faremo riferimento alle norme contenute
nel capo I, titolo XII, libri II del codice penale.

L’analisi prende le mosse dal tratto comune a tutte le figure legali di omicidio: il danno arrecato al
bene giuridico vita mediante la causazione della morte di un uomo. sotto il PROFILO
OGGETTIVO tutti i reati presentano la stessa struttura e gli stessi profili problematici:

 Individuazione dell’ oggetto materiale del reato (problema connesso: a partire da quale
momento si può parlare di uomo?)
 Individuazione della condotta (attiva od omissiva) con cui si realizza il reato
 Individuazione dell’evento costitutivo del reato stesso (la morte di un uomo)
 Individuazione del nesso causale sussistente tra la condotta e l’evento affinchè possa
affermarsi la responsabilità penale dell’agente.

L’analisi poi si concentra sulle singole fattispecie omicidi arie disciplinate nel cp:

1. Ipotesi di causazione volontaria della morte di un uomo:


- Omicidio doloso (a cui si ricollega il sistema di circostanze aggravanti speciali)
- Figure privilegiate di omicidio e istigazione o aiuto al suicidio
- Tipologie di eutanasia
2. Ipotesi di causazione involontaria della morte di un uomo:
- Omicidio colposo (di cui le altre figure legali di omicidio involontario rappresentano delle
- ipotesi speciali: omicidio preterintenzionale, morte come conseguenza di altro delitto).

NB: il nostro sistema ha rinunciato alla responsabilità oggettiva!

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L’elemento oggettivo nei delitti di omicidio

Il bene giuridico della vita

L’interesse giuridico tutelato da tutte le fattispecie di omicidio presenti nel nostro ordinamento è la
vita umana. Interesse che, seppur non previsto espressamente dalla Costituzione, è da ritenersi
dotato di copertura costituzionale, in quanto presupposto logico – fattuale per il godimento di ogni
altro diritto della persona; dunque, è implicitamente tutelato dall’art. 2 Cost. (“diritti inviolabili
dell’uomo”).

Si è discusso a lungo in dottrina circa la natura del bene giuridico in oggetto: la vita umana è
tutelata in quanto diritto individuale di ciascun essere umano, oppure oggetto della tutela penale è
anche l’interesse dello stato alla conservazione della consistenza demografica della popolazione,
così che ogni individuo possa adempiere ai propri doveri nei confronti della famiglia e della
collettività? Considerando l’attuale sistema costituzionale, questo interrogativo risulta essere
anacronistico. L’eventuale rilevanza anche pubblicistica della tutela della vita umana non è altro
che il riflesso della protezione degli interessi del singolo individuo, che costituisce sempre il fine e
mai il mezzo dell’azione dei pubblici poteri.

Il soggetto passivo

A) soggetto passivo e insieme oggetto materiale dei reati di omicidio è l’ uomo – da intendersi
come sinonimo di persona umana, senza alcuna limitazione di genere – di cui viene cagionata
la morte.

La prima questione da risolvere concerne il momento a partire dal quale è possibile ritenere
che l’essere vivente sia uscito dallo stadio prenatale per diventare un essere umano: nella
prospettiva del diritto penale questo momento segna il discrimine tra l’applicabilità delle
discipline extra – codicistiche in materia di tutela del feto (l. 194/1978) e dell’embrione (l.
40/2004) e l’applicabilità delle norme del codice penale poste a protezione della persona.

Il dato normativo a cui fare riferimento e che da preziose indicazioni è l’ art. 578 cp 
disciplina la fattispecie dell’infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale,
equiparando l’uccisione del “neonato subito immediatamente dopo il parto” a quella del “feto
durante il parto”, rendendo chiara così l’intenzione del legislatore di anticipare rispetto alla
nascita il momento di inizio della qualità di uomo, equiparando – appunto – al neonato il feto
non ancora fuoriuscito dall’alveo materno quando sia già iniziata ala fase del parto (la
giurisprudenza intende fare riferimento alla rottura del sacco contenente il liquido amniotico, la
c.d. “rottura delle acque”).

Nonostante la norma faccia riferimento solo alle ipotesi di uccisione del feto da parte della
madre che versi in condizione di abbandono, è opinione unanime che tale equiparazione abbia
una valenza generale. Sarebbe, infatti, irragionevole punire per infanticidio la madre che
cagioni la morte di un feto durante il parto, applicando invece le lievi sanzioni previste dalla
legge 194 in materia di aborto, in luogo della pena prevista per l’omicidio doloso comune,
quando lo stesso fatto sia stato commesso in assenza delle condizioni “privilegianti” di cui
all’art. 578 cp.

Vi è poi, in posizione isolata ma autorevole, la voce di una parte della dottrina che ritiene che
anche il feto nel grembo materno – indipendentemente dall’inizio del parto – può essere
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ritenuto soggetto passivo del delitto di omicidio, a condizione però che lo stato di avanzamento
della gestazione lo renda capace di vita autonoma.

Si è poi discusso circa la necessità che il feto (o il neonato), oltre che essere vivo, debba
essere vitale, cioè capace di sopravvivenza per un apprezzabile lasso di tempo. La tesi che
richiedeva la vitalità – sulla base di una trasposizione al diritto penale di un principio civilistico –
è da ritenersi oggi superata, essendo priva di riscontri normativi. Allo stesso modo, sono
superati i dubbi che erano stati avanzati circa la riconducibilità alla nozione di uomo di neonati
gravemente deformi o addirittura privi di sembianze umane (i c.d. “monstra”).

B) soggetto passivo del delitto di omicidio può essere qualsiasi essere umano, indipendentemente
dalle sue caratteristiche e dal suo status economico e sociale. Quando la persona offesa è il
Presidente della Repubblica o un Capo di stato straniero, in luogo delle norme
sull’omicidio, trovano applicazione le disposizioni speciali di cui agli artt. 276, 295 cp, che
sanzionano a titolo di delitto consumato già le condotte di attentato alla vita o all’incolumità
fisica di tali soggetti. Nello specifico, per quanto riguarda la persona del Presidente della
Repubblica – al quale è equiparato il Pontefice ai sensi dell’art. 8 dei Patti Lateranensi –, la
norma punisce con l’ergastolo il mero fatto di attentare alla vita, alla incolumità fisica o alla
libertà personale del Presidente, risultando irrilevante se dal fatto sia effettivamente derivata la
morte o le lesioni dello stesso.

L’evento

L’evento costitutivo del reato è rappresentato dalla morte del soggetto passivo. Ciò rende
estranee – per definizione – all’area di applicabilità delle fattispecie di omicidio le condotte che
incidono su un essere umano già morto (la tutela dei cadaveri è rappresentata dalle norme in
materia di delitti contro la pietà dei defunti ex artt. 410 ss. cp). Se all’esito dell’istruttoria dovesse
risultare ancora incerto se il soggetto passivo era ancora in vita al momento della condotta
finalizzata a cagionarne la morte, il principio dell’ in dubio pro reo impone l’assoluzione
dell’imputato dall’accusa di omicidio.

Nozione di morte: nel 1993, con la legge n. 587, ha stabilito all’ art. 1 che “la morte si identifica con
la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo” (morte cerebrale).

La condotta

Il reato di omicidio è un reato d’evento a forma libera, ciò significa che può essere realizzato con
qualsiasi condotta attiva od omissiva che rappresenti un antecedente causale dell’evento –
morte.

In applicazione del principio generale in materia di responsabilità omissiva (ex art. 40 co 2 cp),
di omicidio in forma omissiva potrà rispondere solo colui che rivestiva una posizione di garanzia
nei confronti del soggetto passivo o, in altri termini, colui su cui gravava un obbligo giuridico di
impedire eventi lesivi dell’integrità fisica in capo alla persona offesa (es: medico – paziente, datore
di lavoro – dipendente).

La giurisprudenza ha mostrato molte incertezze nel fissare il confine tra azione ed omissione.

Per quanto riguarda il settore delle malattie professionali, la giurisprudenza era solita qualificare i
termini omissivi la responsabilità del datore di lavoro sul presupposto che oggetto di rimprovero
fosse la condotta omissiva di mancata predisposizione delle misure di sicurezza idonee ad
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eliminare o a ridurre l’esposizione dei lavoratori alla sostanza tossica alla quale era riconducibile la
patologia rivelatasi letale. La dottrina, di contro, ha subito rilevato un erroneità concettuale,
affermando, infatti, che l’omissione delle cautele rileva nel momento di valutare la natura colposa
della condotta dell’imputato (nb: ricorda che nella colpa è sempre presente una componente
omissiva, nel senso che si rimprovera all’agente di non aver tenuto il comportamento doveroso),
ma la responsabilità ha natura commissiva, in quanto ciò che si contesta all’imputato è di aver
positivamente esposto i lavoratori al contatto con un agente chimico che ne ha cagionato
l’ammalarsi. Le critiche mosse dalla dottrina sembrano aver riscosso successo nella più recente
giurisprudenza. Nel caso che vedeva come imputati i dirigenti del Petrolchimico di Porto Marghera,
la Cassazione ha, infatti, affermato che “gli imputati non hanno violato un comando ma un divieto:
quello di sottoporre i lavoratori alle esposizioni nocive e questa condotta attiva è connotata anche
da condotte omissive (l’omesso apprestamento delle cautele) che non possono però mutare la
natura della condotta che rimane pur sempre attiva” (2006).

Il discorso è molto più complesso quando intendiamo demarcare tra responsabilità attiva ed
omissiva nel contesto dell’attività medica. Basti pensare al caso di un medico che non riconosce la
patologia di cui è affetta la parte offesa e le prescrive un blando analgesico, inidoneo ad influire sul
decorso patologico che condurrà alla morte. La condotta attiva (prescrizione di un farmaco non
idoneo alla patologia del paziente) è sufficiente a qualificare in termini commissivi la responsabilità
del sanitario, o il rimprovero rimane a titolo omissivo (dal momento che ciò che è giuridicamente
rilevante è l’omessa prescrizione della terapia corretta)? Secondo la dottrina prevalente, in queste
ipotesi, la responsabilità avrebbe natura omissiva, in quanto l’imputazione può essere a titolo
commissivo solo quando il comportamento attivo dell’agente abbia ricoperto un ruolo effettivo nel
decorso che ha condotto alla verificazione dell’evento, introducendovi un nuovo fattore di rischio.
Di recente delle pronunce della Cassazione hanno preso posizione a favore dell’orientamento
dottrinale nei seguenti termini: “(…) avrebbe natura commissiva la condotta del medico che ha
introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi nel
decorso causale che ha condotto all’evento; sarebbe invece omissiva la condotta del sanitario che
non abbia contrastato un rischio già presente nel quadro clinico del paziente”.

Il nesso di causalità

A) la verifica del nesso di causalità tra la condotta – attiva od omissiva – dell’imputato e la morte
della persona offesa costituisce il problema centrale nell’accertamento dell’elemento oggettivo
dei reati di omicidio.

Il problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza soprattutto in due ambiti
negli ultimi 20 anni, quelli a cui abbiamo trattato nel paragrafo precedente: quello delle malattie
professionali e della responsabilità medica. A questi si è poi affiancato il settore del contagio
da HIV.

Nel corso degli anni ’90 era prevalso in giurisprudenza un orientamento molto estensivo della
nozione di causalità che, in ambito omissivo, veniva identificata con il concetto di aumento del
rischio, ritenendo ammissibile l’attribuzione eziologica dell’evento alla condotta omissiva
dell’imputato sulla scia del mero riscontro ex ante che la condotta doverosa omessa avrebbe
diminuito le probabilità di verificazione dell’evento stesso. Quest’ orientamento fu fortemente
criticato dalla dottrina, la quale lo riteneva contrastante con i principi costituzionali di legalità (
la collocazione del giudizio di causalità in una prospettiva ex ante conduce al risultato di
trasformare l’omicidio da reato di danno in reato di pericolo) e di in dubio pro reo ( il dubbio

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circa l’efficacia impeditiva dell’azione omessa non avrebbe ritenuto ostativo della condanna
dell’imputato).

Nei primi anni 2000 le critiche mossa dalla dottrina trovarono riscontro in alcune pronunce di
legittimità, nelle quali venne affermato il principio opposto per cui, sia in ambito omissivo che
commissivo, il nesso causale poteva essere affermato solo laddove il giudice disponesse di
una legge scientifica che affermasse la sussistenza di una relazione eziologica tra condotta ed
evento con una probabilità statistica prossima al 100%.

La questione venne rimessa alle Sezioni Unite (Cass., SU, 10.07..2002, Franzese), che la
risolse con una sentenza i cui principi costituiscono ancora oggi il punto di riferimento della
giurisprudenza in materia. È raro trovare una sentenza che, dovendo affrontare il problema del
nesso causale, non richiami espressamente il dictum delle SU  la sentenza propone un
modello bifasico di accertamento causale:
1. nella prima fase il giudice deve accertare la causalità generale, cioè la disponibilità di
una legge scientifica affidabile che attesti l’idoneità di quel tipo di condotta (attiva o
commissiva) a cagionare quel tipo di evento;
2. nella seconda fare il giudice procede alla verifica della causalità individuale, a cui si
può pervenire anche in presenza di una legge scientifica dal basso coefficiente
statistico purchè sia stato possibile escludere oltre ogni ragionevole dubbio la
presenza di possibili spiegazioni alternative dell’evento indipendenti dalla condotta
dell’imputato.

Questo schema concettuale è sicuramente efficace in ambito commissivo e la giurisprudenza


in materia di contagio da HIV lo conferma. Al contrario, il modello appena riportato sembra
essere impercorribile in ambito omissivo, dove la natura prognostica del giudizio (: si tratta di
immaginare che cosa sarebbe successo se l’agente avesse tenuto la condotta doverosa;
mentre in ambito commissivo il giudizio verte sulle effettive conseguenze della condotta sul
decorso che ha portato alla morte della vittima) rende logicamente impraticabile il momento di
esclusione dei decorsi alternativi.

Esempio per chiarire: torniamo al caso sopra esposto del medico che colpevolmente omette di
praticare la terapia antitetica che aveva il 30% di possibilità di migliorare le condizioni del
paziente. Stabilita la causalità generale ( cioè: la condotta omessa era idonea a impedire
l’evento), il giudice dovrebbe a questo punto accertare la causalità individuale, escludendo le
possibili spiegazioni alternative dell’evento, diverse dalla condotta dell’imputato. Significa che
si dovrà accertare che il decesso sia effettivamente avvenuto a causa dell’infezione tetanica e
non per l’intervento di altri fattori di rischio, che la terapia non avrebbe comunque potuto
fronteggiare. MA una volta ricostruito il reale decorso eziologico che ha condotto alla morte (il
tetano), non c’è alcuno strumento logico che consenta di stabilire se quel paziente sarebbe o
meno rientrato nel novero di quelli su cui la terapia avrebbe avuto effetto: ecco che procedere
ad escludere decorsi alternativi non ha senso.

B) si deve fare un accenno alla questione della possibilità di ritenere sussistente il nesso causale
anche quando la condotta – omissiva o commissiva – abbia soltanto anticipato il decesso della
vittima, che era destinata a morire per cause indipendenti dal contegno dell’imputato. Sia le
giurisprudenza che la dottrina, in applicazione del principio generale per cui la relazione
eziologica va instaurata tra la condotta e l’evento hic et nunc, ritengono che per l’imputazione

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causale della morte sia sufficiente dimostrare che in mancanza della condotta dell’imputato il
decesso sarebbe avvenuto qualche giorno/ora più tardi.

L’omicidio doloso

Il dolo dell’omicidio e le ipotesi di dolo eventuale

A) A differenza del codice Zanardelli – che subordinava la punibilità a titolo di omicidio volontario
alla sussistenza in capo all’agente del “fine di uccidere” – l’art. 575 cp non prevede alcuna nota
particolare in relazione all’elemento soggettivo dell’omicidio doloso. Quindi, della fattispecie
potrà rispondere:
 chi ha cagionato la morte di un uomo con dolo intenzionale, avendo cioè come
precipua finalità la causazione del decesso;
 chi ha agito con dolo diretto, prevedendo cioè con un coefficiente prossimo alla
certezza la verificazione dell’evento, che pure non rappresenta lo scopo dell’azione;
 chi ha agito con dolo eventuale, cioè rappresentandosi come possibile o probabile la
causazione della morte ed accettando il rischio che questa si verifichi.

B) Una delle questioni più dibattute è quella della definizione della categoria del dolo eventuale,
rilevante sotto due aspetti. Nell’ipotesi di consumazione dell’omicidio, il dolo eventuale segna il
confine tra la responsabilità dolosa e colposa (o preterintenzionale) e, dunque, sorge il
problema di definirne le differenze rispetto alla colpa cosciente o colpa con previsione (
delimitazione “verso il basso”); nelle ipotesi di tentativo, è opinione diffusa che il dolo eventuale
non basti ad integrare l’elemento soggettivo richiesto dall’art. 56 ( delimitazione “verso l’alto”
rispetto alle forme di dolo diretto o intenzionale: decisiva per la punibilità a titolo di tentato
omicidio piuttosto che di tentate lesioni).

Uno dei settori più interessanti riguardo al tema del dolo eventuale nei delitti di omicidio è
quello del contagio da AIDS (v. capitolo dei delitti di lesioni personali). Possiamo anticipare un
caso molto noto della fine degli anni ’90: il Caso Lucini. Nel caso di specie il marito malato
aveva contagiato la moglie intrattenendo con lei per anni rapporti sessuali non protetti, senza
rivelarle mai la propria condizione patologica a lui ben nota. Viene condannato di omicidio
colposo dopo una sentenza di primo grado che lo aveva ritenuto responsabile di omicidio
volontario commesso con dolo eventuale. Il Tribunale aveva ritenuto sussistente il dolo sulla
base della provata conoscenza da parte del Signor Lucini della pericolosità del suo male e
delle alte probabilità di contagio, nonché della sua consapevole scelta di tenere all’oscuro la
moglie per non rischiare di comprometterne la vita sessuale e affettiva. La sentenza della Corte
di Appello, poi confermata in Cassazione, ha reputato – sotto il profilo rappresentativo – che il
suo “mediocre livello culturale” avesse impedito all’imputato di capire pienamente i meccanismi
e la pericolosità della sindrome di cui era affetto e nega anche la componente volitiva del dolo,
valorizzando invece il meccanismo di “rimozione mentale” del pericolo di contagio che era
stato allegato dal Signor Lucini.

Ancora. In un settore “tipico” della responsabilità colposa, quello della circolazione stradale, si
sta affacciando in giurisprudenza l’ipotesi di una qualificazione a titolo di dolo eventuale nei
casi di incidenti mortali provocati da condotte di guida particolarmente spericolate. La dottrina è
di avviso completamente differente.

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Numerosa è poi la giurisprudenza in materia di colluttazioni o scontri a fuoco. La questione del
dolo eventuale si pone soprattutto in caso di mancata causazione dell’evento – morte. Ci si
domanda se debba rispondere di tentato omicidio o di lesioni (tentate o consumate) il soggetto
che cerchi di sfuggire all’inseguimento delle forze dell’ordine sparando dei colpi di pistola nella
direzione degli agenti che lo stanno inseguendo. In ipotesi di questo tipo la giurisprudenza, più
che ravvisare un dolo eventuale, parla di dolo alternativo  forma speciale di dolo diretto che
si configurerebbe quando “il soggetto attivo prevede e vuole, con scelta sostanzialmente
equipollente, l’uno o l’altro degli eventi (nel caso di specie morte o ferimento della vittima), (…),
con la conseguenza che esso ha natura di dolo diretto ed è compatibile con il tentativo”.

La qualificazione a titolo di omicidio con dolo eventuale è stata poi presa in considerazione in
un ipotesi di infortunio sul lavoro. Si tratta del caso Thyssen, nel cui ambito è intervenuta una
decisione delle SU. La vicenda riguardava un incendio sviluppatosi nel dicembre del 2007
presso gli impianti di un acciaieria di proprietà della società tedesca Thyssenkrupp, in cui
persero la vita 7 operai. La sentenza di primo grado condannava per omicidio volontario con
dolo eventuale l’amministratore delegato della società (mentre gli altri manager coinvolti
venivano condannati per omicidio colposo). La decisione in appello, facendo applicazione della
c.d. prima formula di Frank ( sussiste il dolo eventuale quando l’agente avrebbe tenuto la
condotta anche se fosse certo il verificarsi dell’evento), riforma la sentenza di primo grado,
condannando anche l’amministratore delegato per omicidio colposo aggravato dalla previsione
dell’evento. Infine, le SU hanno confermato sul punto la decisione d’appello ritenendo, quindi,
insussistenti gli estremi del dolo eventuale.

Infine, di recente, è stata accertata la responsabilità a titolo di omicidio con dolo eventuale
anche in caso di attività medico – chirurgica. Una vicenda nota alle cronache è quella della c.d.
“clinica degli orrori”, una clinica privata in cui il responsabile dell’unità chirurgica toracica e la
sua equipe eseguivano interventi non necessari e in assenza di valido consenso dei pazienti,
al fine di far ottenere indebitamente alla casa di cura i rimborsi da parte della Regione per le
prestazioni eseguite. In relazione a 4 pazienti che erano deceduti in seguito all’operazione, la
Corte di Assise ha condannato tre membri dell’equipe per omicidio volontario con dolo
eventuale, ritenendo che le particolari modalità dell’azione consentissero di ritenere accertata
la consapevole subordinazione del bene giuridico della vita dei pazienti agli interessi economici
perseguiti dagli agenti (C. Ass. Milano, 9.04.2014).

C) per quanto riguarda i più recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di dolo eventuale nel
delitto di omicidio ci si deve soffermare su due aspetti. In primo luogo, si deve tener conto di
come si è evoluta la materia degli incidenti stradali. Più in generale, per quanto riguarda i criteri
che risultano essere risolutivi nel decidere dell’imputazione a titolo di omicidio (consumato o
tentato), la sensazione è che rivestano grande importanza il contesto lecito o illecito in cui si è
verificata la condotta e, di conseguenza, considerazioni relative al tipo di autore cui ascrivere la
persona dell’agente (es: se spara un criminale in fuga dalle forze dell’ordine, difficilmente la
sussistenza del dolo diretto – nella specie alternativo – verrà negata; se, invece, è un poliziotto
a cagionare la morte della vittima o un genitore di una figlia scomparsa, sarà più facile una
condanna a titolo di colpa o di lesioni)  dovendosi valutare se l’agente concreto abbia o
meno aderito alla prospettiva di cagionare l’evento, le conclusioni possono essere diverse a
seconda del tipo di imputato (criminale, pubblico ufficiale,…).

Nelle ipotesi di tentativo, la creazione pretoria del dolo alternativo costituisce un escamotage
concettuale per rispettare il principio secondo il quale il dolo eventuale è incompatibile con il
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tentativo. Le situazione ricondotte dalla giurisprudenza al dolo alternativo – e quindi al dolo
diretto – non sono altro che ipotesi di rappresentazione solo probabilistica della verificazione
della morte della persona offesa.

Le ipotesi di aberratio causae ed il c.d. dolus generalis

Il caso classico in materia di dolo omicidiario che ha fatto a lungo discutere è quello relativo
all’ipotesi in cui l’imputato abbia provocato volontariamente la morte della persona offesa, ma il
decesso si sia verificato per un decorso causale diverso da quello che l’agente si era
rappresentato. I casi nel repertorio giurisprudenziale sono abbondanti. In uno dei più recenti, la
vittima era stata sottoposta ad un feroce pestaggio con spranghe da parte degli imputati, fino a
quando era stata ritenuta morta dagli stessi, i quali così avevano provveduto a dar fuoco al
presunto cadavere. Tuttavia, in seguito all’esame autoptico, emerge che la vittima era ancora viva
nel momento in cui le era stato dato fuoco e che la morte era quindi avvenuta in seguito alla
combustione e non per le ferite riportate. I giudici condannavano così gli imputati a titolo di
omicidio volontario – reputando che si fossero rappresentati ed avessero voluto la morte della
vittima nel corso di tutta la vicenda – e ritenevano che l’errore sulla causa ultima del decesso fosse
irrilevante ai fini dell’accertamento del dolo di omicidio. Questa decisione di merito viene, però,
annullata con rinvio dalla Cassazione che reputava, invece, necessario scindere le diverse fasi in
cui si era articolata la vicenda (1 – pestaggio, 2 – successiva combustione), in quanto se nel
tenere la condotta che ha davvero causato la morte (fase 2) gli agenti non avevano più il dolo di
omicidio, essendo convinti che la morte fosse già avvenuta (nella fase 1), il fatto avrebbe dovuto
essere qualificato come tentato omicidio in concorso con omicidio colposo. La condanna per
omicidio volontario è ammissibile solo laddove risulti che al momento di dare fuoco al corpo gli
agenti non fossero sicuri che la vittima fosse già morta e, dunque, avessero agito con dolo
alternativo di omicidio/distruzione di cadavere.

Di questa soluzione viene apprezzato il rigore argomentativo. L’istituto del dolus generalis – a cui
appunto dottrina e giurisprudenza facevano ricorso per condannare a titolo di omicidio volontario
l’agente in casi come quello riportato – si basa su una nozione troppo diluita di dolo che tralascia di
considerare come la volontà dell’agente vada verificata in relazione alla specifica condotta ed allo
specifico decorso causale che hanno cagionato l’evento; infatti, richiede che il dolo che sorregge
la prima condotta sia ritenuto in grado di ricoprire anche la morte verificatasi in seguito alla
seconda azione. Rispetto, invece, alla aberratio causae – dove la condotta è unica e l’errore è
generalmente reputato irrilevante – qui le condotte sono considerate distinte e, dal momento che
l’azione che ha realmente cagionato la morte non era sorretta dal dolo, la soluzione adottata
prevalentemente dalla giurisprudenza è quella di condannare per omicidio colposo in concorso con
il tentativo integrato nella prima fase della vicenda.

Tuttavia, questa impostazione ad oggi non pare essere convincente. Non sembra condivisibile
distinguere le situazioni di aberratio causae, ove l’errore sul decorso causale sarebbe inidoneo ad
escludere il dolo, da quelle qui in esame, ove la pluralità di condotte renderebbe invece irrilevante
l’errore in cui versava il soggetto al momento dell’ultima azione  in entrambi i casi si tratta di
valutare se oggetto di rappresentazione e di volizione debba essere anche il concreto decorso
causale che ha condotto alla morte e non solo la morte stessa. Decisivo è verificare se sul piano
oggettivo la prima condotta possa o meno ritenersi causale rispetto al concreto evento – morte,
almeno a titolo di concasua, e se la seconda condotta che si è inserita nel decorso eziologico
abbia o meno caratteristiche di eccezionalità tali da interrompere il nesso causale. Se, come nel
caso deciso nel 2003 dalla Cassazione, la prima condotta è causale rispetto all’evento hic et nunc
considerato (cioè se la vittima non fosse stata picchiata fino a perdere conoscenza non sarebbe
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stato possibile dare fuoco al corpo con le modalità effettivamente realizzatesi) e la seconda
condotta abbia solo natura di concausa, ma sia inidonea a ad interrompere il nesso eziologico, ci si
ritrova davanti ad un’azione (la prima) dolosa e causalmente legata all’evento. L’unico
argomento per escludere l’omicidio volontario richiede di sostenere che il dolo presupponga la
precisa congruenza tra il decorso eziologico rappresentatosi dall’agente e quello effettivamente
verificatosi, ma ciò condurrebbe a ritenere sempre rilevante l’aberratio causae.

Osservazione pratica: in contesti di morte violenta, come quello di specie, lo stato psicologico che
contraddistingue l’agente non è quasi mai quello di certezza circa lo stato della vittima (è viva o
morta). È più realistico accettare l’idea che per l’agente è indifferente se la vittima è viva o morta,
in quanto il suo interesse è quello di eseguire il piano stabilito, che comprendeva l’uccisione della
vittima e lo sbarazzarsi del suo cadavere. Sarà, dunque, ammissibile una sentenza che condanni a
titolo di omicidio volontario consumato, realizzato con dolo alternativo.

La prova del dolo di omicidio

Definito in termini astratti il dolo nel delitto di omicidio, si apre la questione dei criteri alla cui
stregua il giudice possa legittimamente ritenere provato in concreto che l’agente avesse la volontà
di uccidere la vittima, e non solo di ferirla o di percuoterla. Questa questione si pone in termini
identici nell’omicidio consumato e nell’omicidio tentato. Si tratta di un problema prettamente
probatorio, ciò significa che la decisione dipenderà dalle peculiarità del caso concreto. Tuttavia, sia
in dottrina che in giurisprudenza, si è soliti fornire degli indici fattuali, ai quali il giudice può fare
ricorso per valutare la volontà dell’agente. Si tratta di circostanze la cui ricorrenza non sarà mai di
per sé decisiva, ma che possono essere d’ausilio nel compito di inferire da elementi di fatto la
sussistenza di uno stato psicologico, che non può per definizione essere oggetto di una prova
diretta.

Per quanto riguarda gli indici oggettivi, essi vengono tradizionalmente individuati nella natura e
nella micidialità del mezzo prescelto, nel numero dei colpi sparati o inferti alla vittima, nella
violenza con cui lo strumento è stato utilizzato, nella distanza tra l’imputato e la vittima al
momento dell’esplosione del colpo (nl caso di omicidio mediante arma da fuoco) e nella regione
del corpo attinta o presa di mira.

Per quanto riguarda gli indici di natura soggettiva, ricopre un ruolo di particolare rilievo la
presenza o meno di un movente in capo all’autore della condotta.

Essi rivestono un ruolo sussidiario nel giudizio riguardo alla sussistenza del dolo, che in presenza
di indici di natura oggettiva può essere accertato anche in mancanza di una chiara causale
dell’azione illecita.

Cause di giustificazione

Il delitto di omicidio, insieme a quello di lesioni personali, rappresenta le figura di reato in relazione
alla quale tipicamente si pone un problema di applicazione delle cause di giustificazione di cui agli
artt. 52 (legittima difesa) e 53 (uso legittimo delle armi) cp: vedi parte generale.

Quanto, poi, alle scriminanti del consenso dell’avente diritto o dell’ esercizio di un diritto o
adempimento di un dovere, la loro possibile applicabilità alla fattispecie di omicidio viene in
rilievo in situazioni di fine – vita (vedi paragrafo a ciò dedicato).

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In questa sede ciò che è rilevante affrontare è la questione della possibilità di una condanna a
titolo di tentato omicidio quando sia stato riconosciuto in capo all’agente un eccesso colposo in
legittima difesa. I fatti a cui fare riferimento sono molto semplici. L’imputato era stato oggetto per
futili motivi di un aggressione a mani nude e aveva reagito sferrando dei colpi di coltello
all’aggressore, il quale aveva riportato ferite guaribili in 40 giorni. La sentenza di primo grado lo
aveva condannato per tentato omicidio, non accogliendo la tesi dell’eccesso colposo in legittima
difesa; la sentenza di appello aveva invece ritenuto sussistenti gli estremi per applicare l’art. 55 cp
e aveva condannato l’imputato per omicidio colposo con pena ridotta ex art. 56 cp in quanto la
morte non si era verificata; la Cassazione ha infine censurato la decisione dei giudici precedenti,
affermando l’inapplicabilità della disciplina sul tentativo alle ipotesi di eccesso colposo e
qualificando il fatto a titolo di lesioni colpose  il principio affermato dalla Cassazione è ovvio alla
luce dei principi generali: la natura ontologicamente colposa dell’illecito delineato all’art. 55 cp
sancisce l’incompatibilità normativa tra il riconoscimento dell’eccesso e la qualificazione del
fatto eccessivo a titolo di tentativo. Se il soggetto eccede colposamente i limiti della scriminante
(es: erronea percezione della gravità del pericolo incombente), anche se la sua azione era idonea
ed univocamente diretta a cagionare la morte dell’aggressore, egli risponderà solo di lesioni
colpose, chiaramente se non si verifica il decesso dell’aggressore.

Il tentativo di omicidio: l’elemento oggettivo e la desistenza

A) la questione più dibattuta attiene all’ elemento soggettivo, sia sotto il profilo sostanziale
(quale forma di dolo è compatibile con il delitto tentato?), che sotto il profilo probatorio (come
ritenere provata la volontà di uccidere piuttosto che di ledere?): vedi paragrafi precedenti.

B) per quanto, invece, riguarda l’ elemento oggettivo la questione più controversa concerne la
soglia di prossimità alla consumazione dell’omicidio. La domanda che rimane aperta è se
anche gli atti meramente preparatori siano punibili, quando da essi si possa comunque
desumere la “non equivoca direzione” al compimento del delitto, richiesta dall’art. 56 cp, o se,
invece, la soglia di punibilità vada spostata più avanti – all’inizio dell’esecuzione – in quanto
solo condotte con natura esecutiva integrano il requisito normativo della direzione non
equivoca. Ancora, quali elementi sono rilevanti per fissare nell’iter criminis il momento di inizio
della fase esecutiva?

Il problema è stato affrontato soprattutto in ipotesi di interruzione del piano criminoso da parte
delle forze dell’ordine. L’orientamento prevalente non ritiene che il requisito dell’univocità limiti
la punibilità a titolo di tentato omicidio ai soli atti esecutivi con esclusione di quelli preparatori.
Ciò che conta, secondo questo indirizzo, è che gli atti realizzati abbiano realizzato un pericolo
per la vita della vittima e che da essi si ricavi univocamente l’intenzione criminosa degli agenti.
L’intervento delle forze dell’ordine prima che il piano omicida entri nella fase esecutiva non
costituisce, quindi, una ragione per assolvere gli autori di una condotta che, sena tale
intervento, sarebbe certamente sfociata nell’uccisione della vittima.

Si deve anche dire che, tuttavia, nella giurisprudenza più recente trova spazio anche la tesi
opposta, secondo cui sarebbe da escludere la punibilità a titolo di tentativo degli atti
preparatori.

Quest’ultima soluzione sembra essere quella maggiormente condivisibile, posto che solo
l’inizio dell’esecuzione segna il momento in cui la volontà dell’agente diviene irrevocabile,
mentre durante la fase preparatoria l’agente ha ancora la possibilità di recedere dal suo
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proposito. Il problema più delicato rimane quello di stabilire quando l’azione possa dirsi entrata
nella fase esecutiva, solo quando l’agente realizza l’ultima frazione della condotta (l’agente si
appresta ad utilizzare l’arma prescelta) o anche prima (l’agente si sta recando armato sul luogo
dell’agguato)?

C) il caso dell’intervento delle forze dell’ordine risulta problematico anche in relazione al secondo
requisito oggettivo del delitto tentato, quello dell’ idoneità degli atti alla realizzazione del reato.
Per poter affermare la sussistenza di questo elemento il giudice deve verificare se la condotta
dell’imputato avesse – in una prospettiva ex ante (c.d. giudizio di prognosi postuma) – la
concreta possibilità di condurre alla morte della vittima e non solo al suo ferimento.
Controversa, a questo punto, è la questione della base del giudizio, cioè delle circostanze di
cui il giudice deve tener in conto per formulare tale valutazione: solo le circostanze conosciute
o conoscibili all’agente al momento dell’azione (c.d. base parziale) o anche tutte le circostanze
comunque sussistenti in tale momento, anche se non conoscibili dall’agente concreto né da
una figura modello di agente che si fosse trovato nella medesima situazione (c.d. base totale)?

In un caso deciso nel 2007 dalla cassazione, gli imputati – esponenti di una associazione
criminale pericolosa – avevano pianificato l’uccisione della vittima, stabilendo il luogo, gli
uomini ed i mezzi necessari per portare a termine l’agguato. Le forze dell’ordine, avendo tenuto
sotto controllo le utenze telefoniche di questi soggetti, vengono a conoscenza del piano e
quando si rendono conto che la sua realizzazione è ormai imminente avvertono la vittima
designata, impendendo così la consumazione del reato. Sia in primo che in secondo grado i
giudici ritengono sussistenti gli estremi del tentato omicidio, così le difese ricorrono in
Cassazione, sostenendo che la persona offesa, essendo stata avvisata del pericolo dalla
polizia, non si è recata sul luogo dell’agguato dove erano appostati gli imputati e che, dunque,
il fatto sarebbe da qualificare come “reato impossibile” per inesistenza dell’oggetto. La Corte
Suprema ha respinto il ricorso, affermando il principio secondo cui “l’inesistenza dell’oggetto
del reato acquista rilevanza giuridica ed esclude la sussistenza del reato solo ove esso sia
inesistente “in rerum natura”, e non anche quando si tratti mancanza temporanea o dovuta a
causa accidentale (…)”  questa pronuncia conferma l’orientamento giurisprudenziale che
adotta per il giudizio di idoneità il criterio della base parziale.

Di contro, la dottrina ha di recente affermato di ritenere di dover aderire al criterio della base
totale in ragione di un interpretazione rigorosa del principio di offensività, il quale verrebbe leso
ove si punisse una condotta che in concreto non ha in alcun modo esposto a pericolo il bene
giuridico tutelato, non essendoci per l’agente alcuna possibilità di portare a consumazione il
reato.

A noi sembra più condivisibile la posizione espressa dalla giurisprudenza.

D) infine, per quanto riguarda la configurabilità della desistenza nel delitto di omicidio, la
giurisprudenza è concorde nell’escluderla quando l’agente abbia eseguito una parte della
condotta già dotata di potenzialità letale. In questi casi si potrà, al massimo, parlare di recesso
attivo. La desistenza presuppone che non sia stata ancora tenuta alcuna condotta
potenzialmente in grado di cagionare l’evento (c.d. tentativo incompiuto).

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Concorso di persone

A) in materia di concorso morale si deve richiamare la sentenza della CC del 1999, la quale si
pone in contrasto con i principi regolatori della materia concorsuale. Il caso riguarda due
soggetti che, nel corso di una rissa, sparano entrambi nella direzione della vittima,
cagionandone la morte. L’istruttoria non consente di accertare da chi fosse partito l’unico colpo
rivelatosi letale, ma entrambi gli imputati vengono puniti a titolo di concorso morale in omicidio
in quanto “le simultanee e coordinate condotte poste in essere avevano, se non altro,
reciprocamente rafforzato la determinazione nell’agire” e, trattandosi di contributo morale alla
realizzazione del fatto, “non è richiesta la prova positiva, oggettivamente impossibile, (…)
dovendosi considerare sufficiente la dimostrazione della obiettiva idoneità della condotta posta
in essere dal concorrente a produrre il suddetto rafforzamento”  affermazione che lascia
perplessi! Infatti, fondare la responsabilità a titolo di concorso morale sul mero riscontro ex
ante che la condotta dell’imputato era idonea a rafforzare il proposito criminoso dell’agente
significa estendere l’area della punibilità anche a condotte che ex post possono essere risultate
del tutto ininfluenti sulla commissione del reato, con violazione del principio di offensività.
Quindi, anche nelle ipotesi di concorso morale, la responsabilità del concorrente può
essere affermata solo laddove risulti che il suo contributo abbia rivestito un ruolo
effettivo nel processo determinativo dell’agente.

B) sempre in materia di concorso morale in omicidio, ed in particolare nell’ambito delle pronunce


di legittimità riguardanti la responsabilità dei vertici mafiosi per omicidi eccellenti compiuti dagli
affiliati all’associazione criminale da loro diretta, la Cassazione ha più volte affermato che
l’appartenenza dell’imputato all’organismo direttivo dell’associazione non basta di per
sé a giustificare la sua condanna per gli omicidi realizzati dai membri delle famiglie (es:
la c.d. “commissione” nella quale i capi delle famiglie mafiose appartenenti a Cosa Nostra si
riunivano per decidere le più importanti attività criminali del gruppo), essendo infatti necessario
verificare “se sussistano concreti elementi di fatto in grado di dimostrare che la regola interna
del sodalizio – secondo cui un omicidio “eccellente” non può essere commesso senza la
preventiva approvazione di tutti i capi – mandamento, sia stata effettivamente applicata al caso
concreto”. E’ necessario, quindi, che l’omicidio sia stato deciso in sede di commissione e che
l’imputato – membro della stessa – abbia fornito un contributo all’assunzione della decisione da
parte dell’organo collegiale. La conseguenza è che, anche qualora l’imputato non sia stato
fisicamente presente alla decisione oppure non abbia espresso la sua adesione all’omicidio, è
legittima la sua condanna a titolo di concorso quando sia stato in concreto accertato che,
secondo le regole interne del sodalizio criminale, la sua assenza alla riunione o il suo mancato
dissenso fossero univocamente espressivi del suo consenso tacito, necessario per
l’esecuzione dell’omicidio.

C) altro problema su cui soffermarsi è quello riguardante la responsabilità dell’imputato a titolo di


concorso nell’omicidio ex artt. 110 e 116 cp, quando l’imputato non abbia personalmente
partecipato all’omicidio che altri concorrenti hanno realizzato nello svolgimento di un attività
criminale concordata.

L’imputato risponde di concorso pieno ex art. 110, pur non avendo materialmente cagionato la
morte della vittima, quando comunque l’uso delle armi nel corso dell’azione (es: rapina) e il
conseguente rischio di omicidio fossero stati preventivati da tutti i concorrenti e, quindi, sia
possibile affermare che l’imputato aveva il dolo (eventuale o diretto) di concorso anche
nell’omicidio.
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Invece, si applica l’art. 116 e la diminuzione di pena prevista quando l’imputato non ha voluto,
nemmeno a titolo di dolo eventuale, la realizzazione dell’omicidio, anche se le modalità di
esecuzione del piano criminoso concordato con i concorrenti rendevano prevedibile l’uso di
una violenza mortale. Se, invece, l’omicidio è il frutto di una scelta autonoma di un concorrente,
imprevedibile alla stregua delle specificità del caso concreto, il concorrente rimasto estraneo
all’omicidio risponderà solo del reato da lui voluto (solo la rapina).

Rapporti con altre figure di reato

Ci sono varie ipotesi in cui la causazione (volontaria o involontaria) della morte di un uomo non
viene punita alla stregua di norme generali in materia di omicidio (doloso o colposo), in quanto
costituisce elemento costitutivo o circostanza aggravante di autonome fattispecie delittuose.

Per quanto concerne il caso di assorbimento del delitto di omicidio doloso, l’ipotesi più rilevante è
quella del delitto di strage ex art. 422 cp, dove la causazione (con dolo intenzionale: “al fine di”)
della morte di una o più persone è elemento costitutivo delle fattispecie più gravi, punite con la
pena dell’ergastolo. Come valutare se si tratti di un ipotesi di omicidio doloso plurimo o di strage?
È necessario e decisivo verificare se da un punto di vista oggettivo la condotta avesse potenzialità
lesiva tale da mettere in pericolo l’ incolumità pubblica, oltre che la vita delle persone offese, e se
tale pericolo fosse stato oggetto di rappresentazione e di volizione da parte del reo. Se sussistono
queste condizioni, allora l’imputazione sarà per strage. Esempio: l’uccisione del giudice Falcone è
stata qualificata come strage; la Cassazione ha sostenuto che uccidere una persona
costantemente protetta da una nutrita scorta armata non può che essere la realizzazione di
modalità tali da mettere in pericolo l’incolumità pubblica.

Nella normalità delle ipoteso in cui la causazione della morte di un uomo costituisce un elemento
aggravante del trattamento sanzionatorio di uno specifico delitto (c.d. delitti aggravati
dall’evento), l’assorbimento dell’omicidio è invece subordinato alla circostanza che la morte non
sia stata oggetto di volizione da parte dell’agente. Se infatti la morte è stata voluta, almeno a titolo
di dolo eventuale, l’imputato risponderà solo del reato – base in concorso con l’omicidio volontario.
Per fare un esempio, basti considerare il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 cpil cui
comma 2 prevede una aggravamento di pena quando dal fatto sia derivata la morte della vittima.
In giurisprudenza si è concordi nell’applicare questa disposizione solo quando la morte non sia
stata cagionata intenzionalmente dall’agente; al contrario, infatti, se l’agente ha intenzionalmente
cagionato la morte, oltre ai maltrattamenti, risponderà di maltrattamenti in concorso con omicidio
doloso.

Infine, si deve fare un accenno alla situazione del soggetto che, nell’opporsi al compimento di un
atto d’ufficio da parte di un pubblico ufficiale, tenga una condotta tale da configurare gli estremi di
un tentato omicidio nei confronti dello stesso. La giurisprudenza è solita qualificare questa ipotesi
come reato di tentato omicidio in concorso con il reato di resistenza a pubblico ufficiale ex art. 337
cp, in quanto (1) le due fattispecie tutelano beni giuridici diversi (il corretto funzionamento della pa
e la vita/l’integrità fisica) e (2) la violazione - in qualità di elemento costitutivo del reato di cui all’art.
337 cp – può assorbire solo quel minimun che si sostanzia nelle percosse, ma non condotte che
arrivino a porre in pericolo la vita stessa dell’ufficiale.

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Profili processuali

Per le ipotesi di omicidio doloso (omicidio volontario consumato, infanticidio salvo che per la
madre, omicidio del consenziente, istigazione o aiuto al suicidio) per le l’ omicidio
preterintenzionale la competenza è della Corte d’Assise, in cui a decidere è un collegio composto
in maggioranza da giudici popolari – salvo che l’imputato abbia optato per il rito abbreviato –.

Le circostanze aggravanti speciali dell’omicidio doloso

Premessa e classificazione

Gli artt. 576 – 577 cp contengono l’elenco delle circostanze aggravanti speciali dell’omicidio
doloso, in presenza delle quali il giudice è tenuto ad applicare la pena dell’ ergastolo in luogo della
reclusione non inferiore ad anni 21 comminata dall’art. 575 per la figura – base di omicidio.
L’applicabilità dell’ergastolo ha come diretta conseguenza – in applicazione dell’art. u.c. cp, l’
imprescrittibilità dell’omicidio a ricorrere di una delle circostanze in esame.

Tutte le circostanze previste in questi due articoli – ad esclusione di quella menzionata all’art. 577
co 2 che comporta la reclusione da 24 a 30 anni – consentono l’applicazione dell’ergastolo. Quindi,
in materia di omicidio doloso, è venuta meno ogni distinzione (invece, in materia di lesioni
volontarie e di omicidio preterintenzionale, l’art. 585 – contente la disciplina delle circostanze
aggravanti di tali delitti – prevede un diverso aumento di pena a seconda che la circostanza sia
prevista dall’art. 576 o 577, da 1/3 alla metà nel primo caso e fino ad 1/3 nel secondo).

A seconda delle ragioni che giustificano l’aggravamento della pena e l’inflizione della più severa tra
le pene, possiamo distinguere 5 tipologie di aggravanti di omicidio doloso:

1) quelle attinenti alle modalità oggettive di esecuzione del delitto


2) quelle attinenti al coefficiente soggettivo dell’autore
3) quelle attinenti ai rapporti tra il colpevole e l’offeso o alle qualità della persona
offesa
4) quelle attinenti alle caratteristiche personali dell’autore
5) quelle attinenti alla connessione dell’omicidio con il compimento di un'altra fattispecie
delittuosa.

(1)Le circostanze inerenti alle modalità oggettive dell’azione

A) l’ art. 577 co 1,2 commina la pena dell’ergastolo per l’omicidio compiuto “col mezzo di sostanze
venefiche, ovvero con altro mezzo insidioso”. La circostanza ha natura obiettiva, si attribuisce
rilievo al surplus di pericolosità insito in una condotta fraudolente volta a privare la vittima di ogni
possibilità di difesa. In giurisprudenza, il “mezzo insidioso” è quello che o per la sua natura
ingannevole o per il modo e le circostanze che ne accompagnano l’uso, reca in sé un pericolo
nascosto tale da sorprendere l’attenzione della vittima e rendere alla stessa impossibile o più
difficile la difesa.

B) ha fondamento oggettivo anche l’aggravante prevista dall’ art. 577 co 1 n. 4, che richiama l’ art.
61 n. 4, relativo all’agente che abbia “adoperato sevizie o abbia agito con crudeltà verso le
persone”. Si tratta di una circostanza comune (applicabile a qualsiasi figura di reato): vedi parte
generale.

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(2)Le circostanze attinenti al coefficiente soggettivo dell’autore

A) la più importane circostanza aggravante attinente al coefficiente soggettivo dell’autore è la


premeditazione ex art. 577 co 1 n. 3. Con essa il legislatore sanziona la particolare
riprovevolezza del coefficiente soggettivo di chi abbia commesso il fatto, non sulla scorta di una
decisione subitanea, ma all’ esito di un proposito omicida insistito e perdurante nel tempo. La
premeditazione rappresenterebbe la forma più intensa di dolo. Giurisprudenza e dottrina
riconoscono la premeditazione in presenza di 2 requisiti:

1) un requisito di natura oggettiva: apprezzabile lasso di tempo che deve trascorrere tra
l’insorgenza e l’attuazione del proposito omicida (non può essere predeterminato nella
sua consistenza minima, deve risultare in concreto sufficiente a far riflettere l’agente
sulla decisione presa e a consentire il prevalere dei motivi inibitori su quelli a
delinquere)
2) un requisito di carattere psicologico: persistere senza resipiscenza del proposito
criminoso che, perdurando nel tempo, deve essersi tradotto in un accurata
preparazione dell’omicidio (c.d. “macchinazione”).

L’accertamento di un movente (o di una causale) non è condizione necessaria per contestare la


premeditazione, in quanto la ratio dell’aggravante non si radica nella riprovevolezza dei motivi
dell’azione, ma sulla particolare intensità dell’elemento volitivo  rappresentando la forma più
intensa di adesione psicologica al reato, esclude la sua compatibilità con un imputazione a
titolo di dolo eventuale (dove, abbiamo già detto, l’evento morte essere conseguenza non
intenzionale perseguita dall’agente).

L’aggravante può sussistere anche in forma condizionata: la decisione premeditata di cagionare


la morte della vittima è subordinata al verificarsi di una determinata condizione, la cui verificazione
è estranea al dominio fattuale dell’agente. Cioè, il soggetto ha premeditato l’omicidio, anche se la
realizzazione del piano criminoso è subordinata – nel processo volitivo dell’agente – al verificarsi di
una certa situazione. Comunque sia, l’imputato aveva preparato l’uccisione ed era pronto ad agire,
quindi l’ intensità del suo coefficiente doloso non è diversa da quella di una normale ipotesi di
premeditazione. Esempio: agente programma omicidio qualora la moglie avesse rifiutato di
recedere alla volontà di separarsi.

In giurisprudenza, poi, ricorre l’affermazione per cui l’aggravante qui considerata può essere
contestata anche in ipotesi di aberratio ictus. Ora, alla luce del combinato disposto degli artt. 82 e
60 cp, infatti, le sole circostanze aggravanti non applicabili quando l’offesa sia recata a persona
diversa da quella cui era diretta sono quelle che riguardano le condizioni o qualità della persona
offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole, e non quelle relative all’intensità del dolo, fra cui rientra la
premeditazione.

Infine, per quanto riguarda il problema della compatibilità della premeditazione con il
riconoscimento in capo all’agente di un vizio parziale di mente, si ammette la possibilità di
riconoscere l’aggravante anche quando l’imputato sia risultato affetto da una parziale infermità
psichica, a condizione che il perdurante proposito criminoso non sia riconducibile ad un idea
ossessiva fissa facente parte del quadro sintomatologico tipico di quella particolare infermità.

C) una seconda aggravante di natura soggettiva si configura quando l’imputato abbia commesso
l’omicidio per motivi abietti o futili (art. 577 co 1 n. 3 che richiama l’art. 61 n. 1). Anche
questa è una circostanza comune: vedi parte generale.

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Futilità: la futilità dei motivi è stata riconosciuta in casi in cui, ad esempio, l’omicidio dell’amante
dell’ex coniuge era stata originata non da ragioni di gelosia, ma da spirito punitivo nei confronti
dell’ex coniuge stesso.
Motivi abietti: è stato, ad esempio, applicato l’aumento di pena nel caso di veri e propri sacrifici
umani compiuti da un gruppo criminale (“Bestie di Satana”).

(3)Le circostanze inerenti ai rapporti tra il colpevole e l’offeso o a particolari qualità della
persona offesa

A) il codice prevede 3 circostanze aggravanti relative all’uccisione di un soggetto legato alla vittima
da un rapporto di parentela o di coniugio, che rende socialmente più riprovevole il gesto
omicida. L’ art. 576 n 2 punisce con l’ergastolo chi abbia cagionato la morte di un ascendente o di
un discendente (parricidio) con il concorso di una delle circostanze indicate ai nn. 1 (motivi abietti
o futili) e 4 (le sevizie o la crudeltà) dell’art. 61, oppure avendo adoperato un mezzo insidioso,
ovvero avendo compiuto il fatto con premeditazione ( quest’ultima è l’ipotesi più grave di
parricidio aggravato in quanto compiuta con modalità oggettive e soggettive di particolare
riprovevolezza). Il parricidio aggravato di premeditazione in origine era punito con la sanzione
capitale; oggi risulta in qualche modo assorbita da quella dell’art. 577 n. 1 ove si punisce con
l’ergastolo l’omicidio dell’ascendente o del discendente, indipendentemente dal ricorrere di altre
circostanze aggravanti (parricidio semplice).

Detto ciò, emerge un elemento di irrazionalità nel sistema: l’ipotesi più grave di cui all’art. 576,
integrata dal concorso di più aggravanti, è punita con la stessa pena prevista per le singole
aggravanti ce la compongono!?! Si auspica un intervento legislativo. Oggi sono, quindi, punite allo
stesso modo situazioni cariche di diverso disvalore. Tuttavia, non sembra configurarsi un motivo di
incostituzionalità, in quanto un eventuale eccezione di illegittimità costituzionale non potrebbe
fondarsi su una valutazione di irragionevolezza della pena prevista per le ipotesi in origine meno
gravi, punita oggi con la medesima pena (l’ergastolo) riservata alle ipotesi più gravi.

[Un problema molto interessante è stato affrontato in materia di prova del rapporto di filiazione. L’art. 540 cp
prevede che il rapporto di filiazione fuori del matrimonio debba essere stabilito osservando i limiti di prova
della legge civile. Nel caso di specie si trattava di valutare l’applicabilità dell’aggravante del parricidio ad un
soggetto che aveva ucciso la propria figlia naturale, la quale, peraltro, aveva lo status di figlia legittima di una
coppia di soggetti coniugati. Il giudice, nell’accertare il rapporto di filiazione naturale, doveva rispettare
quanto disposto dall’art. 278 cc, il quale al comma 4 prevede che “la sola dichiarazione della madre e la sola
esistenza di rapporti fra la madre e il pretesto padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova
della paternità naturale”. Il richiamo che l’art. 540 cp fa ai limiti di prova della legge civile deve essere inteso
limitatamente all’art. 278 cc o anche3 agli artt. 253 e 269 cc che disciplinano i presupposti di ammissibilità
della dichiarazione (o del riconoscimento) della paternità? La Cassazione ha escluso che tali presupposti
avessero rilevanza in sede penale, in quanto la decisione sulla filiazione naturale ha efficacia solo incidenter
tantum e non indice sullo status delle persone.]

L’ art. 577 co 2 prevede,poi, le ipotesi di c.d. quasi parricidio o parricidio imperfetto (si tratta
dei casi in cui la vittima è coniuge, fratello o sorella, padre o madre adottivi, figlio adottivo, affine in
linea retta), che sono punite con la reclusione da 24 a 30 anni.

B) è stato introdotto all’ art. 576 il comma 5 bis, il quale prevede una nuova fattispecie
circostanziale che si applica quando l’omicidio sia stato commesso “contro un ufficiale o agente
di polizia giudiziaria, ovvero un ufficiale o agente di pubblica sicurezza, nell’atto o a causa
dell’adempimento delle funzioni o del servizio”. Questa ipotesi costituisce una circostanza speciale
rispetto a quella comune di cui all’art. 61 n. 10 cp ed è finalizzata ad apprestare una particolare
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tutela alla vita di quegli agenti che, per le caratteristiche del loro servizio, sono esposti più di altri a
gravi pericoli per la propria integrità fisica. L’elemento specializzante della fattispecie circostanziale
qui riportata è costituito dalla particolare qualità del soggetto passivo (categoria dell’ufficiale,
dell’agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza).

(4)Le circostanze relative a qualità personali dell’autore

A) l’ art. 576 n. 3 punisce con l’ergastolo l’omicidio compiuto “dal latitante, per sottrarsi all’arresto,
alla cattura o alla carcerazione ovvero per procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza”
( definizione di latitanza all’art. 576 co 2 che rinvia all’art. 61 n. 6 dove si fa riferimento al “tempo,
(…)). Non basta che il delitto sia stato compiuto durante la latitanza, è necessario dare prova di un
nesso finalistico tra l a commissione dell’omicidio e l’elusione delle ricerche di polizia o il
procacciamento dei mezzi di sussistenza.

Si discute circa l’applicabilità dell’aggravante all’evaso – che l’art. 296 equipara a tutti gli effetti al
latitante –. Secondo la giurisprudenza questa equiparazione consentirebbe l’applicazione
dell’aggravante anche all’evaso.

B) viene punito con l’ergastolo, ai sensi dell’ art. 576 n. 4, anche l’omicidio compiuto dall’
associato a delinquere, per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione. È, però,
necessario che la qualità di associato per delinquere sia stata accertata con sentenza definitiva di
condanna, anche se questa non è necessario che sia stata pronunciata prima della commissione
del reato. Infine, è pacifico che l’aggravante debba applicarsi anche ai membri delle associazioni
criminali “speciali” come l’associazione di stampo mafioso.

(5)Le circostanze relative alla connessione con altre figure di reato

A) l’ art. 576 n. 1 commina la pena dell’ergastolo per l’omicidio compiuto con il concorso della
circostanza di cui all’art. 61 n. 2, cioè quando il reato “è stato commesso per eseguirne od
occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il
prezzo ovvero l’impunità di un altro reato (il c.d. nesso teleologico). La giurisprudenza è solita
escluderne l’applicabilità quando l’omicidio sia stato compiuto dopo la sottrazione di cosa mobile
altrui per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa o per procurarsi l’impunità. In questi casi,
infatti, la finalità dell’attività violenta è già valorizzata dal legislatore quale elemento costitutivo del
reato di rapina impropria e, in virtù del principio ne bis in idem, non può assumere rilievo anche ai
fini della contestazione del reato di omicidio.

B) l’ art. 576 n. 5 punisce con la pena dell’ergastolo l’omicidio compiuto “in occasione della
commissione di taluno dei delitti previsti dagli artt. 572 (maltrattamenti contro familiari e conviventi),
600 bis (prostituzione minorile), 600 ter (pornografia minorile) e 609 octies (violenza sessuale di
gruppo). Configurandosi tale circostanza, il reato in occasione del quale è stata cagionata la morte
rimane assorbito nell’omicidio aggravato, in applicazione dei principi che regolano le ipotesi di
reato complesso. In questo caso non è richiesto un nesso finalistico tra l’omicidio e l’ulteriore reato;
è sufficiente una relazione di mera occasionalità tra la commissione del reato e la causazione
della morte. Quando il nesso finalistico dovesse comunque sussistere, si applicheranno entrambe
le aggravanti.

C) nel 2009 è stato introdotto il n. 5.1 all’ art. 576, che punisce con l’ergastolo l’omicidio
commesso “dall’autore del delitto previsto dall’art. 612 bis (stalking) nei confronti della stessa
persona offesa”. Si tratta dell’ipotesi in cui l’omicidio giunge all’esito di una condotta persecutoria
protratta nel tempo. La norma non richiede alcuna peculiare relazione di contestualità o di
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progressione tra i fatti di stalking e l’omicidio; si richiede solo che autore e vittima dei due reati
siano i medesimi.

L’estensione delle circostanze ai concorrenti nel reato

La regola generale prevista in tema di comunicabilità delle circostanze aggravanti ai concorrenti


nel reato è contenuta nell’ art. 118 cp, il quale prevede che “le circostanze che aggravano la pena
concernente i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti
la persona del colpevole (cioè quelle dell’art. 70 cp riguardanti l’imputabilità o la recidiva) sono
valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono”; le altre circostanze sono, di
conseguenza, comunicabili a ciascuno dei concorrenti, purchè da questi “conosciute ovvero
ignorate per colpa o ritenute insussistenti per errore determinato da colpa” (art. 59 co 4).

In relazione alle aggravanti speciali dell’ omicidio questi principi ci permettono di ritenere estensibili
a tutti i concorrenti – e non solo quelli a cui si riferiscono – tutte tali circostanza, ad eccezione della
premeditazione – che concerne l’intensità del dolo – e delle circostanze dei motivi abietti e futili e
della connessione teleologica – attinenti ai motivi a delinquere. Si deve aggiungere che,
comunque, la giurisprudenza ritiene che la premeditazione e i motivi abietti o futili possano
comunicarsi anche al concorrente che non abbia personalmente premeditato l’omicidio o che non
avesse tali motivi ogni qual volta egli fosse a conoscenza della sussistenza di queste circostanze
in capo ad almeno uno dei concorrenti. Invece, in relazione alla circostanza aggravante del nesso
teleologico, la giurisprudenza applica con maggior rigore l’art. 118, ritenendo l’aggravante
applicabile solo ai concorrenti cui essa sia personalmente riferibile.

Le ipotesi privilegiate di omicidio volontario e l’istigazione o l’aiuto al suicidio

Premessa

Se le ipotesi più gravi di omicidio doloso sono state individuate dal legislatore attraverso il ricorso
ad un numero elevato di circostanze aggravanti speciali, i casi, invece, normativamente meno
gravi di omicidio volontario sono stati tipizzati in 2 autonome fattispecie di reato:

1) l’ infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale


2) l’ omicidio del consenziente

Chiude il quadro delle ipotesi meno gravi di offesa volontaria alla vita altrui il reato di istigazione o
aiuto al suicidio, con cui il legislatore sanzione il contributo dell’agente al momento deliberativo o
esecutivo dell’altrui progetto suicidi ario.

L’infanticidio in condizioni di abbandono morale e materiale

A) l’ art. 578 punisce con la reclusione da 4 a 12 anni “la madre che cagiona la morte del proprio
neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato
da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto”. In mancanza di uno degli
elementi specializzanti questa fattispecie rispetto all’omicidio comune (es: il fatto non è stato
commesso immediatamente dopo il parto), il fatto sarà punibile come omicidio doloso
aggravato dal rapporto di parentela (disciplina generale).

La ratio del trattamento sanzionatorio privilegiato è soggettiva: non è che la condotta della
madre che ha ucciso il proprio neonato immediatamente dopo il parto in una situazione di
abbandono sia meno grave sotto il profilo oggettivo, ma il fatto risulta essere meno

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rimproverabile (meno colpevole) in ragione delle condizioni di turbamento psichico ed emotivo
connesse al parto e al contesto di particolare difficoltà in cui esso è avvenuto  questo
fondamento soggettivo configura detta fattispecie come reato proprio (realizzabile solo dalla
madre) e giustifica la scelta di applicare ad eventuali concorrenti nel reato – in deroga ai
principi generali in tema di concorso di persone nel reato proprio – le pene previste per
l’omicidio doloso comune (reclusione non > 21 anni), con una riduzione facoltativa della pena
da 1/3 a 2/3 quando essi abbiano agito “al solo scopo di favorire la madre”.

B) sotto il profilo oggettivo il reato si configura come reato d’evento a forma libera, quindi
l’infanticidio può essere commesso dalla madre anche in forma omissiva (es: non prestando al
neonato le cure necessarie per sopravvivere) e ciò ai sensi dell’art. 30 Cost., che considera la
madre in posizione di garanzia nei confronti dell’integrità fisica e della vita della prole.

Gli elementi specializzanti della fattispecie oggettiva sono 2:


1. il primo è di natura cronologica: il reato si configura solo se il fatto è avvenuto durante o
immediatamente dopo il parto (oltre tale momento, la madre che cagiona la morte del
proprio neonato risponderà ex art. 575). In dottrina si sostiene che non sia possibile fissare
una nozione rigida di “immediatamente dopo il parto”; ciò che conta è che, al momento
della commissione della condotta omicida, la madre si trovasse ancora in quello stato di
intenso turbamento psichico legato al parto che giustifica l’applicazione della disciplina
privilegiata. A tal proposito, in giurisprudenza si è escluso che questa condizione psichica
possa essere riscontrata oltre 2 giorni dopo la data del parto.
2. il secondo riguarda la decisione della madre di uccidere: deve esser stata determinata
dalle condizioni di abbandono morale e materiale in cui la stessa si trovava al momento del
parto. Secondo un orientamento restrittivo si configurerebbe situazione di abbandono solo
quando, da un punto di vista oggettivo, la donna al momento del parto si trovasse in una
situazione di assoluta derelizione, senza la possibilità di ottenere un aiuto fisico e
psicologico dai familiari o dalle situazioni assistenziali. Su tratta, però, di una lettura troppo
rigorosa. È, infatti, preferibile l’orientamento che legge il requisito dell’abbandono in senso
di individualizzazione ed applica la fattispecie anche quando vi era oggettivamente per la
madre la possibilità di ricevere aiuto – almeno dalle istituzioni pubbliche – ma la condizione
di solutine esistenziale in cui versava al momento del parto le ha impedito di percepire
questa possibilità.

La lettura troppo rigida del concetto di abbandono non è coerente con la ratio scusante
della fattispecie privilegiata. Quindi, la sola strada percorribile è quella di richiedere
l’accertamento di una concreta situazione di isolamento, senza pretendere che tale
condizione abbia carattere di oggettiva assolutezza, essendo appunto sufficiente ad
integrare la fattispecie la percezione da parte della madre di totale abbandono.

C) per quanto riguarda l’ elemento psicologico, è sufficiente il dolo generico, cioè la volontà di
cagionare la morte del neonato, unita alla rappresentazione di trovarsi in una situazione di
abbandono morale e materiale. Comunque, il fatto può essere compiuto anche a titolo di dolo
eventuale, come nel caso in cui la madre, accettando il rischio della morte del figlio, lo
abbandoni in un luogo in cui è possibile, ma non certo, che qualcuno intervenga in suo
soccorso, evitandone il decesso. Infine, quando invece le modalità di abbandono siano tali da
escludere che la madre possa essersi rappresentata il rischio della morte (es: neonato
abbandonato in estate in luogo ed orario molto affollati), si configura il reato di abbandono di
incapaci, e non il tentativo di infanticidio.
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D) rende ulteriormente privilegiato il trattamento sanzionatorio di cui abbiamo trattato l’ art. 578
ult. co, che dispone che non siano applicabili le circostanze aggravanti comuni di cui
all’art. 61. Inoltre, non risultano essere applicabili nemmeno le circostanze speciali di cui agli
artt. 576 e 577 essendo relative alla sola figura dell’omicidio doloso comune.

L’omicidio del consenziente

A) Figura disciplinata dall’ art. 579, il quale punisce con la reclusione da 6 a 16 anni “chiunque
cagiona la morte di un uomo, con il consenso di lui”. Il trattamento sanzionatorio è privilegiato
in quanto la condotta è meno grave da un punto di vista oggettivo (: viene si leso il bene
giuridico indisponibile della vita, ma non viene leso il bene giuridico della libertà morale della
vittima di disporre della propria esistenza) e da un punto di vista soggettivo (: il consenso rende
la causazione della morte non un gesto di aggressione alla vita altrui – espressivo di un
coefficiente di antisocialità – ma un modo estremo per assecondare fino in fondo la volontà
altrui). Questa fattispecie viene, innanzitutto, in esame in contesti eutanasistici come vedremo.

B) per quanto riguarda la struttura oggettiva del reato, l’unico elemento specializzante rispetto
all’omicidio comune è costituito dal consenso della vittima alla causazione della propria morte.

Vengono poi posti dei limiti molto stretti dal comma 3 alla rilevanza del consenso: non si
applica la fattispecie privilegiata, ma l’omicidio doloso comune, quando:
- il soggetto che ha prestato il consenso alla propria uccisione fosse una persona minore
di anni 18 (lett. a),
- una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un
atra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti (lett. b),
- una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o
suggestione ovvero carpito con l’inganno (Iett. c).

Requisiti del consenso perché sia rilevante:


- può essere espresso in qualsiasi forma e può anche non essersi estrinsecato in un
esplicita richiesta
- ma deve essere serio, senza riserve, esplicito e non equivoco, e perdurante sino al
momento in cui il colpevole commette il fatto.

C) quanto alla rilevanza della rappresentazione soggettiva del consenso da parte dell’agente,
si applicano le regole generali in materia di imputazione soggettiva degli elementi specializzanti
in senso privilegiante. Cioè:
- se il soggetto ha cagionato la morte della vittima ignorando che questa volesse essere
uccisa, risponderà comunque di omicidio del consenziente, nonostante il dolo
dell’omicidio volontario, in applicazione dell’art. 59 co 1 ( le circostanze che attenuano
o escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche seda lui non conosciute,
o da lui per errore ritenute inesistenti);
- se, al contrario, egli era convinto che la vittima fosse consenziente, ma in realtà non
aveva mai prestato o avevo revocato il consenso alla propria uccisione, si applicherà la
fattispecie privilegiata ancora una volta, in applicazione dell’art. 59 co 4 ( se l’agente
ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono
sempre valutate a favore di lui).

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D) come per l’infanticidio, anche per l’omicidio del consenziente l’ art. 579 co 2 dispone la non
applicazione delle circostanze aggravanti comuni dell’art. 61, oltre alla inapplicabilità delle
circostanze speciali dell’omicidio.

L’istigazione o aiuto al suicidio

A) sempre in ossequio al principio di indisponibilità della vita, all’ art. 580 viene sanzionato con la
reclusione da 5 a 12 anni “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di
suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”. La dottrina contesta che con
questa fattispecie si punisce il concorso in un fatto (il suicidio altrui) di per sé non punibile. La
differenza sussistente tra la fattispecie di cui all’art. 57° e questa è che nel primo caso l’agente
realizza direttamente l’azione omicida, mentre nel secondo la sua condotta figura come una
forma di concorso (morale o materiale) nella auto – causazione della morte da parte del
suicida, che mantiene il dominio sull’azione esecutiva. Il vero è problema è quello di valutare
entro quali limiti in un ordinamento laico e secolarizzato, sia ancora legittimo punire condotte di
disposizione della propria vita: vedi paragrafo sull’eutanasia.

B) la struttura oggettiva del reato delinea un ipotesi di fattispecie plurisoggettiva imperfetta, in


cui la condotta principale non è punibile (l’azione suicidiaria), mentre lo sono le condotte di
concorso morale (la “determinazione” e il “rafforzamento” dell’altrui proposito) o materiale (l’
“agevolazione” dell’esecuzione). La norma punisce con la stessa sanzione due tipologie di
condotte che sono connotate da un disvalore molto differente. Infatti, un conto è convincere
qualcuno a togliersi la vita, magari sfruttando la sue debolezza psichica, e un altro conto è
aiutare materialmente qualcuno che aveva già deciso di suicidarsi. Incongruenza ad oggi non
ancora superata.

La punibilità delle condotte di partecipazione è subordinata all’accertamento di un nesso di


causalità materiale o psicologica tra tali condotte e la realizzazione del reato: il giudice può
condannare solo qualora risulti provato che, senza la condotta dell’imputato, la vittima non si
sarebbe suicidata o che si sarebbe suicidata con modalità differenti.

Ancora. Qualora l’agente realizzi entrambe le condotte descritte dalla norma (rafforza la
decisione della vittima di togliersi la vita e materialmente la aiuta anche ad eseguire quanto
deciso) non si configura un concorso di reati, in quanto si tratta di una c.d. norma penale mista,
in cui la contemporanea realizzazione di più condotte tipiche non fa venir meno l’unicità
dell’offesa al bene giuridico.

C) l’ elemento soggettivo del reato è il dolo generico: rappresentazione + volontà di determinare


o rafforzare l’altrui proposito suicidi ario, o di agevolarne la realizzazione.

D) se nonostante l’istigazione o l’aiuto il suicidio non avviene, il colpevole è punito con una pena
diminuita (reclusione da 1 a 5 anni), a condizione che dal tentato suicidio sia derivata alla
vittima una lesione grave o gravissima. È questa una forma di incriminazione autonoma del
tentativo, da cui si desume l’inapplicabilità della disciplina contenuta nell’art. 56 e quindi la non
punibilità di atti idonei e diretti in modo non equivoco a determinare il suicidio, quando da tale
condotta non sia derivata almeno una lesione personale della vittima (grave o gravissima).

E) l’ art. 580 co 2 prevede una circostanza aggravante ad effetto comune nell’ipotesi in cui il
fatto sia stato compiuto nei confronti di un soggetto minore di anni 18, o di una persona inferma
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di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica per un'altra infermità o per l’abuso
di sostanze alcoliche o stupefacenti. Infine, si applicano le pene previste per l’omicidio doloso
comune quando la vittima sia un minore di anni 14 o, comunque, sia un soggetto privo della
capacità di intendere e volere.

Le diverse figure di eutanasia

Premessa

L’eutanasia attiva

L’eutanasia indiretta

L’eutanasia passiva di soggetto cosciente

L’eutanasia passiva di soggetto incosciente

L’omicidio colposo

Premessa

Quando la morte della vittima non è coperta da dolo – almeno eventuale – viene in considerazione
la fattispecie generale dell’omicidio colposo ex art. 589 cp, che punisce con la reclusione da 6
mesi a 5 anni “chiunque cagiona per colpa la morte di una persona” ( differenza con la norma
che tratta dell’omicidio doloso che punisce la causazione della morte di un “uomo”).

Le circostanze aggravanti e l’omicidio colposo plurimo

A) per quanto riguarda le circostanze aggravanti speciali dell’omicidio colposo, la disciplina di


riferimento è contenuta nell’ art. 589 cp – tra l’altro di recente modificato –.

Al comma 2 è stata introdotta una circostanza aggravante ad effetto speciale applicabile “se il
fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di
quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”. Oggi il trattamento sanzionatorio per
queste ipotesi prevede la reclusione da 2 a 7 anni.

Anche al comma 3 è stata introdotta una nuova circostanza aggravata ad effetto speciale, per
cui “si applica la pena della reclusione da 3 a 10 anni se il fatto è commesso con violazione
delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da: 1) un soggetto in stato di ebbrezza
alcolica (…), 2) un soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope”. Il regime
sanzionatorio è così severo a causa dell’intensità della colpa di chi si mette al volante in
condizioni di intossicazione da alcol o da stupefacenti. Nonostante la norma non richieda
espressamente l’accertamento di un nesso causale tra lo stato di alterazione e la causazione
dell’incidente mortale, sembra corretto condividere l’opinione dottrinale che richiede comunque
tale verifica. A conferma dell’importanza politico – criminale attribuita dal legislatore a questa
disposizione, il nuovo art. 590 bis dispone anche che “quando ricorre la circostanza di cui
all’art. 589 co 3, le concorrenti circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli artt. 98 e
114, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni si
operano sulla quantità di pena determinata ai sensi della predetta circostanza aggravante” 
deroga alla disciplina generale dell’art. 69 cp.

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B) l’ art. 589 co 4 discipline le ipotesi di omicidio colposo plurimo, prevedendo che “nel caso di
morte di più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle
violazioni commesse aumentata sino al triplo, ma la pena non può superare i 15 anni” 
ipotesi di concorso formale di reati in cui l’unificazione dei reati è solo “quoad poenam”, con
conseguente autonomia di ciascuna fattispecie ai fini, per esempio, del computo dei termini
prescrizionali o del regime di procedibilità.

Circolazione stradale

Sotto il profilo oggettivo, in materia di nesso causale, la giurisprudenza adotta il criterio della c.d.
“causalità umana”, cioè richiede che, oltre al nesso condizionalistico tra condotta ed evento, nel
decorso causale non siano intervenuti fattori eccezionali indipendenti dalla condotta dell’agente e
da esso non controllabili.

Nell’accertamento della colpa si accompagna spesso una valutazione assai severa dei doveri
incombenti sull’automobilista. Quando, invece, l’automobilista abbia cagionato la morte della
vittima nel contesto di una situazione di emergenza, a fronte di un pericolo improvviso non
riconducibile all’imputato, la giurisprudenza di solito esclude la sua responsabilità, anche a fronte
di una manovra errata o inadeguata.

Attività medico – chirurgica

A) I processi in ambito sanitario presentano una difficoltà tecnica che, tendenzialmente, impone al
giudice ed alle parti di ricorrere all’ausilio di periti o consulenti tecnici, il cui parere è spesso
decisivo ai fini della soluzione della controversia. E’ questo il settore nel quale maggiormente
emerge la difficoltà di individuare i criteri alla cui stregua decidere della validità di una tesi
scientifica e di definire i poteri del giudice in ambito tecnico – scientifico nella maniera meno
semplicistica possibile.

B) la questione più frequentemente analizzata dalla giurisprudenza più recente è quella relativa
alla sussistenza di un nesso di causalità tra la condotta (attiva od omissiva) del medico ed il
verificarsi del decesso del paziente. Abbiamo già accennato come proprio a questo settore
appartengano molte delle principali sentenze della Cassazione in tema di causalità, a partire
dalla sentenza Franzese delle SU del 2002. Ora è necessario fare riferimento a quanto emerso
in alcune delle più recenti sentenze in materia: la Cassazione reputa non decisivo il
coefficiente statistico della legge scientifica di copertura quando sia possibile inferire
nel caso concreto la sussistenza di un nesso di condizionamento individuale. In questo
senso, nel 2008 la Cassazione si è espressa nei seguenti termini: “la prova del nesso di
causalità tra la condotta omissiva e l’evento deve fondarsi sul criterio della probabilità logica e
non di quella statistica, sicchè è da escludere che il suo riconoscimento postuli, in ogni caso,
l’accertata operatività di leggi scientifiche universali o che esprimano un coefficiente statistico
prossimo alla certezza, dovendosi piuttosto fare riferimento al ragionamento inferenziale
evocato in tema di prova indiziaria dell’art. 192 co 2 cpp”.

Una volta accertato che la condotta del medico sia stata la “conditio sine qua non” dell’evento
lesivo, un eventuale negligenza del paziente – concorrente nel decorso infausto – non è
sufficiente ad escludere il nesso eziologico, il quale può essere interrotto solo da fattori
eccezionali ed imprevedibili.

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C) quali sono i profili di colpa peculiari dell’attività medica? È un tema che soffre di una scarsità di
regole scritte e che si presenta particolarmente complesso; per questo motivo la
giurisprudenza si è a lungo interrogata circa la possibilità di applicare anche in sede penale il
disposto dell’art. 2236 cc, che limita la responsabilità del professionista alle sole ipotesi di dolo
o colpa grave, quando “la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare
difficoltà”. Secondo un orientamento a lungo predominante tale limitazione non vale in sede
penale, dove l’unico parametro di riferimento in materia di colpa è l’art. 43 pc, che non
distingue tra interventi di normale o di particolare difficoltà. Invece, secondo un indirizzo
minoritario la limitazione alle sole ipotesi di colpa grave dovrebbe poter operare anche in sede
penale, pur non essendo idonea a fondare un risarcimento in sede civile. Infine, la più recente
giurisprudenza si espressa in termini ancora differenti, sostenendo che l’art. 2236 cc non ha
diretta applicabilità in materia penale, ma che è comunque applicabile dal giudice penale come
“criterio di razionalità” cui attenersi per valutare l’imperizia di determinate situazioni o quando il
caso presenti problemi tecnici di particolare difficoltà.

Una spinta verso la riduzione dell’intervento penale in materia di “medical malpratice” è


intervenuta nel 2012 con la c.d. legge Balduzzi, che all’art 3 dispone che “l’esercente la
professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e
buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa
lieve”. Il legislatore ha inteso limitare ai soli casi di colpa grave la responsabilità del medico
che si sia attenuto nella sua attività alle accreditate indicazioni della comunità scientifica.
Questa norma valorizza dette indicazioni accreditate e si prefigge uno scopo molto ambizioso:
una disciplina ad hoc per la responsabilità medica.

I problemi più dibattuti nelle prime decisioni applicative della legge Balduzzi riguardavano:
- la definizione di cosa dovesse intendersi per linee guida e buone pratiche cliniche
- la questione se la norma dovesse applicarsi a tutti i casi di colpa o solo a quelli di colpa
per imperizia
- cosa dovesse intendersi per colpa lieve
- quali fossero gli effetti della riforma in relazione ai fatti commessi prima della sua
approvazione
La sentenza che ha affrontato queste questioni e che è diventata un punto di riferimento è
relativa al caso Cantore (Cass. Sez. IV., 29.01.2013, n. 16237), che specificato i seguenti
punti:
- le linee guida non sono vere e proprie regole cautelari e quindi la loro presenza non è
sufficiente a qualificare la colpa come specifica, ma costituiscono un sapere scientifico
e tecnologico codificato, metabolizzato e reso disponibile appunto perché possa
costituire una guida;
- trattandosi di regole tecniche esse rilevano solo nei casi di imperizia e quindi
l’esclusione della colpa lieve non vale nei casi di colpa per negligenza o imprudenza
- la distinzione tra colpa lieve e colpa grave deve basarsi su parametri sia oggettivi (in
particolare, sulla divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da
attendersi sulla base della norma cautelari che avrebbe dovuto essere rispettata) che
soggettivi (in particolare, il quantum di esigibilità rispetto alle caratteristiche del
soggetto, lasua motivazione e la sua previsione dell’evento);
- in relazione ai fatti commessi prima della riforma, la nuova norma risulta essere un
tipico caso di “abolitio criminis parziale”.

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D) detto quanto sopra esposto, la particolarità più rilevante dell’attività medica – in sede di
valutazione della colpa – è data dalla pluralità di agenti che a vario titolo intervengono nel
processo terapeutico e dei quali il giudice deve valutare autonomamente le singole sfere di
responsabilità. Il caso più ricorrente è quello dell’ attività medica in equipe: la giurisprudenza
richiede costantemente una verifica puntuale delle concrete responsabilità di ciascun
componente del gruppo, non essendo sufficiente la mera partecipazione all’intervento
conclusosi con un esito infausto. Comunque sia, in tutte le ipotesi in cui il fatto dannoso risulti
essere frutto dell’interazione di più soggetti, vige il principio di affidamento, per cui un
soggetto non può essere condannato se l’evento sia attribuibile alla violazione delle regole
cautelare da parte di terzi. Il canone costituzionale della personalità della responsabilità
penale – su cui si fonda il principio di affidamento – impone di far rispondere ciascun operatore
solo di quanto a lui rimproverabile, ma non ostacola l’individuazione da parte della
giurisprudenza di una pluralità di soggetti responsabili. In particolar modo quando i soggetti
coinvolti sono tra loro in posizione gerarchica, la giurisprudenza delinea un sistema di
iscrizione delle responsabilità molto rigoroso, sia nei confronti dei “soggetti apicali”, che nei
confronti di coloro che si trovano più in basso nella scala gerarchica – per i quali la
collaborazione con soggetti più esperti o più qualificati non fa venir meno l’esistenza di un
autonoma sfera di responsabilità –. Invece, quando i soggetti che hanno preso parte
all’operazione agivano nell’ambito delle rispettive competenze, in posizione di parità (chirurgo
ed anestesista), la giurisprudenza è solita tener maggiormente distinte le sfere di responsabilità
di ciascun professionista.

E) una tipologia di processi che è aumentata è quella relativa alla responsabilità dei soggetti
(medici e infermieri) operanti in strutture per soggetti affetti da patologie psichiatriche, in
relazione agli atti lesivi della vita propria o altrui commessi dai pazienti affidati alle loro cure
(nel primo caso eventuale responsabilità del medico a titolo di omicidio colposo per il suicidio
del paziente; nel secondo caso responsabilità per concorso colposo nell’omicidio colposo
compiuto dal paziente). I profili problematici sono tantissimi. Tra questi emerge la difficoltà per
il giudice di vagliare la corretta applicazione da parte dello psichiatra di una disciplina giuridico
– sanitaria (quella sul TSO) – che lascia ampli margini di discrezionalità al medico. Il
legislatore, infatti, affida al sanitario il compito di bilanciare l’esigenza di tutelare la collettività e
lo stesso paziente e la necessità terapeutica di ricorrere solo quale extrema ratio a misure
privative della libertà del malato. Non è raro il caso in cui i giudici abbiamo affermato la
responsabilità penale dello psichiatra per condotte violente tenute nei confronti del paziente
sottoposto alle sue cure.

Infortuni e malattie professionali

A) gli eventi lesivi dell’integrità fisica e della vita del lavoratore sono di soliti divisi in 2 categorie,
infortuni e malattie professionali. Mancando una definizione di questi concetti, la dottrina
individua come elemento distintivo l’eziologia dell’evento stesso, qualificando come infortunio
l’evento caratterizzato da una causa violenta ed istantanea e come malattia professionale
quello che si produce all’esito di un’ esposizione prolungata nel tempo ad un fattore patogeno
presente sul luogo di lavoro. Questa distinzione dovrebbe avere un grande risvolto pratico,
essendo che l’aggravante ad effetto speciale prevista dall’art. 589 co 2 cp si applica solo
quando il fatto sia stato commesso con violazione delle “norme per gli infortuni sul lavoro”.
tuttavia, per evitare un irragionevole conseguenza, la giurisprudenza è solita ricorrere ad una
definizione lata di infortunio, fino a ricomprendervi tutti i fenomeni patologici ad eziologia
lavorativa, anche se non dovuti a causa violenta. La distinzione infortunio – malattia
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professionale sembra quindi perdere spessore, tuttavia le problematiche di queste due
categorie permangono.

B) per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro i maggiori profili problematici non riguardano tanto
il nesso causale – trattandosi di ricostruire i fatti – ma l’accertamento della colpa – essendo che
in un luogo lavorativo vi è la presenza di una pluralità di soggetti che secondo la normativa
antinfortunistica sono garanti dell’integrità fisica del lavoratore –. Ciascuno di questi soggetti è
titolare di obblighi volti a garantire la predisposizione di un efficace sistema di sicurezza sui
luoghi di lavoro e la cui violazione, di norma, viene punito a titolo di contravvenzione.

Il problema che dal punto di vista teorico risulta essere più complesso è quello della c.d.
delega di funzioni, cioè della possibilità che il soggetto apicale (il datore di lavoro in primis)
deleghi ad altri i propri adempimenti, istituendo così delle figure di garanti derivati cui in
concreto viene affidata la vigilanza ed il controllo sulla corretta implementazione del sistema di
sicurezza. Il tema viene affrontato nel TU del 2008. Basti avere in mente che anche la
presenza di apposite deleghe in materia di sicurezza non fa venir meno la sussistenza in capo
al datore di lavoro di una posizione di garanzia riguardo all’integrità fisica dei lavoratori.

Nell’individuazione delle norme cautelari proprie di ciascuna figura di garante, vengono prima
di tutto in considerazione a titolo di colpa specifica le disposizioni del TU relative agli obblighi in
materia di sicurezza di ciascun operatore nel sistema. Comunque non si esclude la possibilità
di un rimprovero a titolo di colpa generica, laddove le peculiarità della situazione concreta
rendevano prevedibile ed evitabile la verificazione dell’evento dannoso, imponendo all’agente
l’attuazione di misure ulteriori rispetto a quelle positivizzate in sede normativa.

C) le questioni analizzate per l’infortunio si pongono anche nel settore delle malattie
professionali, che poi in più presentano profili specifici. Una delle tematiche ricorrenti è quella
relativa al nesso di causalità tra l’esposizione lavorativa alla sostanza tossica e la malattia che
ha condotto alla morte della persona offesa. In questa sede risulta utile ricordare il modello
bifasico elaborato dalla Cassazione SU nel 2002, in quale rende agevole l’accertamento
causale quando si tratti di imputare patologie monocausali (le c.d. “patologie firmate dalla
sostanza tossica), mentre risulta essere più difficile l’accertamento eziologico in relazione a
patologie si epidemiologicamente correlate alla sostanza, ma diffuse in modo significativo
anche tra i non esposti. Ciò che rende particolarmente complessi questi processi è la necessità
per il giudice di confrontarsi con un panorama scientifico tutt’altro che univoco.

Soffermandoci sulla giurisprudenza in materia di danni da esposizione ad amianto, la sentenza


di riferimento è quella relativa al caso Macola (Cass. Sez IV, 11.07.2002). In esso le questioni
scientificamente più controverse erano due:
- la prima riguardava la possibilità di ritenere integrato il nesso causale quando il
lavoratore fosse stato esposto ad amianto per un lasso temporale molto lungo, iniziato
prima che l’imputato assumesse la direzione dell’impianto nel quale la vittima prestava
la sua attività. La conclusione fu che la determinazione del momento di inizio del
processo patologico non era rilevante, in quanto era possibile affermare la
responsabilità dell’imputato anche se la malattia aveva già iniziato a svilupparsi,
laddove risultasse provato che le esposizioni riconducibili al periodo in cui l’imputato
dirigeva l’azienda avessero aggravato il processo patologico o ne avesse ridotto il
periodo di latenza;

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- la seconda questione concerneva la possibilità di ritenere integrato il nesso causale non
solo nei confronti del mesotelioma, ma del tumore polmonare che, si sa, ha larga
incidenza anche tra i non esposti ad amianto, specie se fumatori. La Corte affermò che
anche per coloro che avevano l’abitudine di fumare tabacco, l’esposizione ad amianto
aveva avuto quantomeno efficacia di concausa con effetto sinergico.

Un aspetto particolarmente complesso, poi, riguarda sempre il profilo della colpa. È


possibile imputare a titolo di colpa la causazione di una patologia di cui all’epoca della
condotta non si conosceva la correlazione con la sostanza, anche se era già nota la
capacità di detta sostanza di provocare altre forme patologiche? La soluzione adottata è
nel senso affermativo, in quanto il requisito della prevedibilità non deve essere inteso con
riferimento alla specifica forma patologica effettivamente insorta nel lavoratore, essendo
sufficiente per la condanna che al momento della condotta fosse conoscibile la generica
capacità della sostanza di provocare gravi danne alla salute.

Tutto ciò ha portato alla formazione della fattispecie del c.d. disastro doloso (pensa al
caso dell’Ilva di Taranto).

D) concentriamoci sull’ art. 25 septies del d.lgs. 231/2001 (relativa alla responsabilità
amministrativa da reato delle persone giuridiche): in virtù di esso anche gli omicidi colposi
e le lesioni colpose gravi e gravissime commessi con violazione della normativa in materia di
salute e di sicurezza sul lavoro rientrano nel novero delle fattispecie suscettibili di comportare
la responsabilità da reato delle persone giuridiche (c.d. “reati - presupposto”). La questione più
controversa riguarda la compatibilità del requisito richiesto dall’art. 5 dello stesso decreto, cioè
che il reato sia stato commesso “nell’interesse o a vantaggio” dell’ente. Come leggere questa
disposizione? È stato affermato che “se l’evento delittuoso è il risultato della mancata adozione
delle misure di prevenzione, è agevole sostenere che la mancata adozione di tali misure abbia
garantito un vantaggio alla società o all’ente, ad esempio nella forma di un risparmio di costi”.
La giurisprudenza di merito ha confermato che “l’interesse o il vantaggio può essere correlato
anche ai reati colposi, rapportando i due criteri non all’evento delittuoso, bensì alla condotta
violativa di regole cautelari che ha reso possibile la consumazione del delitto”.

Attività sportiva: rinvio

Per quanto riguarda la casistica degli incidenti verificatisi nello svolgimento di attività sportivene
ricreative, il problema più complesso riguarda la configurabilità del reato di omicidio colposo per
danni cagionati ad altri nel corso di attività sportive (in realtà, nella maggior parte delle ipotesi si
tratta di lesioni). Per rispondere deve farsi Una serie di differenziazioni:

- attività agonistica o dilettantistica


- tipo di sport in questione
- conformità o meno della condotta dell’imputato alle regole del gioco

Vedi capitolo relativo alla materia delle lesioni.

Le ipotesi speciali di omicidio colposo: l’omicidio preterintenzionale e l’art. 586 cp

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Premessa

Nel sistema codicistico rinveniamo una disciplina ad hoc per le ipotesi in cui l’ evento – morte
(non voluto dall’agente nemmeno a titolo di dolo eventuale) è etiologicamente riconducibile ad
una condotta di per sé penalmente illecita dell’imputato. Le ipotesi che vengono prese in
considerazione in questa tipologia di situazione sono tre:

 l’ omicidio preterintenzionale  ex art. 584 cp si configura quando la morte derivi da atti


diretti a percuotere o a provocare lesioni personali;
 i delitti aggravati dall’evento  comprendo le ipotesi in cui la causazione (non voluta)
della morte della vittima configuri una circostanza aggravante speciale di determinate figure
di delitto doloso (es: abuso dei mezzi di correzione);
 la morte o le lesioni come conseguenza di altro delitto  ex art. 586 cp ove si prevede
un aumento della pena prevista dall’art. 589 per l’omicidio colposo quando la morte, non
voluta dal colpevole, sia conseguenza di un fatto integrante gli estremi di un delitto doloso.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale meno recente la caratteristica comune a queste ipotesi


risiedeva nei criteri di attribuzione soggettiva della morte dell’agente. Dal momento che l’evento
dannoso si era verificato in un contesto illecito si riteneva legittimo imputare all’agente la morte
della vittima sulla scorta del nesso di causalità materiale, anche in mancanza di una qualsiasi
coefficiente soggettivo (doloso o colposo) rispetto al decesso. Questo è lo schema di c.d.
responsabilità oggettiva, nel quale l’evento costitutivo del reato o di una circostanza aggravante
dello stesso viene attribuita all’imputato senza necessità di accertare alcuna forma di
rimproverabilità soggettiva in ordine alla sua causazione.

In merito a ciò, però, si devono richiamare le note sentenze della CC del 1988, la n. 364 e la n.
1085, con le quali è stata sancita l’ illegittimità costituzionale della responsabilità oggettiva per
contrasto con il principio di colpevolezza, stabilendo che, affinchè l’art. 27 co 1 Cost, sia rispettato
e la responsabilità penale sia personale, “è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che
concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati
all’agente, siano cioè investiti dal dolo o dalla colpa”. Sulla scia di questa affermazione, la CC ha
poi proceduto a dichiarare la parziale illegittimità costituzionale della norma che in quell’occasione
fu sottoposta al suo vagli (si trattava dell’art. 626 co 1 n. 1 relativo al c.d. furto d’uso), ma non potè
sindacare tutte le numerose ipotesi che presentano dei profili di responsabilità oggettiva  il
compito di adeguare l’ordinamento penale al principio di colpevolezza spetta al giudice ordinario, il
quale deve fornire delle interpretazioni costituzionalmente orientate di tali fattispecie rimaste
inalterate ed emettere delle sentenze di condanna solo quando all’agente possa in concreto
muoversi un rimprovero almeno a titolo di colpa per la causazione dell’evento costitutivo del reato.

Nonostante la chiarezza del dictum della CC, la giurisprudenza anche degli ultimi anni ha fatto
talvolta fatica ad adeguarvisi. Tutt’oggi non mancano delle pronunce in cui di addebita la colpa
dell’evento – morte richiamando lo schema della responsabilità oggettiva. La situazione parse poi
giunta ad una svolta definitiva con una sentenza delle SU della Cassazione (2009) nella quale si
afferma che il principio costituzionale di colpevolezza impone l’individuazione di un coefficiente
di colpa in relazione all’evento e che la natura penalmente illecita dell’azione cui è causalmente
riconducibile la morte non incide sulla struttura del giudizio di colpa.

La portata di queste pronunce non può limitarsi ai casi di fattispecie, ma deve essere estesa anche
alle ipotesi di omicidio preterintenzionale. La scelta effettuata dagli autori di qualificare l’omicidio

28
preterintenzionale, oltre che la figura di cui all’art. 586 cp, come ipotesi speciale di omicidio
colposo rappresenta un auspicio circa i prossimi orientamenti giurisprudenziali.

Segue la trattazione degli elementi costitutivi dell’omicidio preterintenzionale e della fattispecie di


cui all’art. 586.

L’omicidio preterintenzionale

A) L’ art. 584 cp punisce con la reclusione da 10 a 18 anni “chiunque, con atti diretti a
commettere uno dei delitti preveduti dagli articoli 581 (percosse) e 582 (lesione personale),
cagiona la morte di un uomo”. Questa fattispecie costituisce la più importante tra le poche
figure di reato in cui trova applicazione il criterio di imputazione soggettiva della
preterintenzione che, ex art. 43 cp, si configura quando “dall’azione od omissione deriva un
evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”. La preterintezione trova
applicazione in soli due casi (a differenza dei criteri del dolo e della colpa):
1) omicidio di cui all’art. 584 (è l’unica figura di reato espressamente qualificata dal legislatore
come preterinezionale);
2) aborto di cui all’art. 18 co 2 l. n. 174/1998.

È discutibile se si tratti di un autonomo criterio di imputazione soggettivo, o se, invece, esso


non costituisca altro che la combinazione di un coefficiente doloso rispetto all’evento meno
grave (percosse o lesioni) con un coefficiente colposo rispetto all’evento più grave (morte).
Però, prima di prendere in considerazione gli elementi soggettivi, è necessario analizzare gli
elementi costitutivi della fattispecie oggettiva di tale delitto (vedi punto B).

B) fermo restando i requisiti oggettivi tipici di ogni figura legale di omicidio (verificazione
dell’evento – morte + sussistenza di un nesso causale tra l’evento e la condotta dell’imputato),
l’ elemento specializzante l’omicidio preterintenzionale rispetto alla fattispecie generale
dell’omicidio colposo è rappresentato dalla particolare natura della condotta, che deve
consistere in “atti diretti” a percuotere o ledere la vittima. La locuzione utilizzata dalla
norma pone un problema interpretativo: ai fini dell’integrazione dell’elemento oggettivo
dell’omicidio preterintenzionale è necessario il compimento di un tentativo punibile di percosse
o di lesioni, o è sufficiente il compimento di atti diretti al compimento di tali delitti, anche in
mancanza – ad esempio – del requisito dell’idoneità? Sia la dottrina che la giurisprudenza
optano per la prima opzione ermeneutica.

C) ritorniamo alla questione più dibattuta: l’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale.


Innazitutto, perché si configuri tale reato è necessario che l’agente non abbia voluto, nemmeno
a titolo di dolo eventuale, la morte della vittima (altrimenti si tratterebbe di omicidio volontario).
Come ricostruire la preterintezione? Le ipotesi principali sono 3:

1) preterintenzione come combinazione di dolo (rispetto all’evento meno grave, cioè le


percosse o le lesioni) e di responsabilità oggettiva (rispetto all’evento più grave, cioè la
morte)
2) indipendentemente dalla prevedibilità dell’evento più grave, esso sarebbe coperto da
un coefficiente di colpa specifica, consistente nella violazione delle norme penali che
puniscono le percosse o le lesioni: è un tentativo di mascherare un imputazione a titolo
oggettivo, posto che le norme in questione non sono dotate di alcuna valenza cautelare
in relazione all’evento morte

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3) preterintezione come forma di dolo misto a colpa generica, richiedendo un coefficiente
di colpa in concreto rispetto alla causazione dell’evento morte (posizione di coloro che
reputano incostituzionale ogni forma di responsabilità oggettiva).

Se nella dottrina più recente è dominante la tesi che esclude la legittimità di imputare l’evento
più grave quando questo non sia concretamente prevedibile al momento della condotta, in
giurisprudenza ancora ci sono orientamenti contrastanti. Non rimane che augurarsi una svolta
delle SU relativa all’art. 586, nel senso di ritenere sussistente la responsabilità per omicidio
preterintenzionale solo quando la verificazione della morte fosse concretamente prevedibile
dall’agente al momento in cui ha compiuti gli atti diretti a ledere o a percuotere la persona
offesa.

Aspetti controversi e problematici si pongono in relazione anche al coefficiente soggettivo


relativo all’evento meno grave: per rispondere di omicidio preterintenzionale è necessario che
l’agente abbia gito con dolo intenzionale o diretto di percosse o lesioni, o è sufficiente anche il
dolo eventuale in ordine a tali reati? Due recenti sentenze della Cassazione hanno sostenuto
che sia sufficiente anche il dolo eventuale di percosse o lesioni (2009). Quindi, anche in
relazione all’imputazione dell’evento meno grave si registra in giurisprudenza un contrasto
interpretativo e si auspica un intervento delle SU.

Sempre in tema di elemento soggettivo è interessante una decisione che applica anche in
materia di omicidio preterintenzionale i principi in tema di aberratio causae: quando il soggetto
che ha causato volontariamente lesioni alla vittima si sia erroneamente convinto che questa sia
morta, e ne provochi realmente il decesso con una condotta distinta da quella coperta dal dolo
di ledere, la responsabilità non sarà per omicidio preterintenzionale, ma per lesioni dolose (o
tentato omicidio) in concorso con omicidio colposo. Infine, è costante anche l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui può configurarsi l’omicidio preterintenzionale anche nelle ipotesi
di aberratio ictus, quando cioè per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione sia stata cagionata
la morte di una persona diversa da quella che l’agente intendeva percuotere o ferire. Infatti, ai
sensi dell’art. 82, l’offesa cagionata alla persona estranea deve essere considerata come
commessa nei confronti del soggetto che si intendeva colpire e, quindi, responsabilità per
omicidio preterintenzionale.

D) dal momento che l’evento – morte deve risultare necessariamente non coperto dal dolo,
perché si possa parlare di omicidio preterintenzionale, è chiaro che dello stesso non possa
rispondersi a titolo di tentativo ( ricorda che il tentativo è compatibile solo con fattispecie –
base a struttura dolosa).

E) l’art. 585 co prevede alcune circostanze aggravanti dell’omicidio preterintenzionale. In


realtà la norma non disciplina autonomamente le fattispecie circostanziali, ma opera un rinvio
alle aggravanti speciali dell’omicidio doloso. La pena è aumentata da 1/3 alla metà quando
concorre una delle circostanze di cui all’art. 576 ed è aumentata fino ad 1/3 quando concorre
una delle circostanze di cui all’art. 577 oppure quando il fatto è commesso con armi o sostanze
corrosive ovvero da persona travisata o da più persone riunite.

La morte come conseguenza di altro delitto doloso


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A) l’art. 586, a chiusura del sistema, prevede che “quando da un fatto preveduto come delitto
doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una
persona, si applicano le disposizioni dell’art. 83, ma le pene stabilite negli artt. 589 e 590 sono
aumentate”. Questa norma presenta delle affinità strutturali con l’omicidio preterintenzionale. In
entrambi i casi, infatti, si punisce per aver provocato la morte di un uomo – non voluta
dall’agente – ma che è causalmente riconducibile ad una sua condotta costituente autonomo
delitto doloso. Quando tale condotta integra gli estremi delle percosse o delle lesioni volontarie
si configura l’omicidio preterintenzionale; in tutti gli altri casi assume rilievo l’art. 586.

D’altra parte, l’art. 586 rappresenta anche un ipotesi speciale di aberratio delicti plurilesiva,
caratterizzata dalla qualifica della condotta illecita di base (qualsiasi reato per l’art. 83, un
delitto doloso per l’art. 586) e dalla natura dell’offesa non voluta (qualsiasi delitto previsto dalla
legge come colposo per nl’art. 83, l’omicidio o le lesioni colpose per l’art. 586)  la norma è
priva di autonoma funzione incriminatrice, in quanto la causazione non voluta della morte
sarebbe comunque punibile a titolo di omicidio colposo ex art. 83; l’unica funzione è quella di
aggravare il trattamento sanzionatorio.

Anche per l’art. 586 il problema maggiore riguarda la definizione del coefficiente soggettivo:
responsabilità oggettiva (come ritiene un orientamento diffuso in giurisprudenza) o
responsabilità per colpa (in conformità al principio di colpevolezza)? Trattiamo prima
dell’elemento oggettivo della fattispecie.

B) sotto il profilo oggettivo l’art. 586 presenta gli elementi di ogni specie omicidiaria (evento –
morte + nesso causale), con la peculiarità che la condotta etiologicamente legata all’evento
deve di per se garantire gli estremi di un delitto doloso che sia diverso dalle percosse o
dalle lesioni.

La norma è stata presa in considerazione dalla giurisprudenza più recente nel caso di morte
come conseguenza del delitto di cessione di sostanza stupefacente. Quando il soggetto che ha
acquistato la sostanza muore in seguito alla sua assunzione, lo spacciatore risponde ex art.
586 della morte, in concorso con il reato in materia di stupefacenti. Allo stesso modo la
responsabilità ex art. 586 è stata affermata in relazione ad altri delitti – base.

C) quanto all’elemento soggettivo valgono le considerazioni fatte per l’omicidio preterintenzionale.


Il problema principale riguarda la possibilità di imputare la morte a titolo di responsabilità
oggettiva, sulla base del solo nesso di causalità materiale. La questione è stata risolta dalle
SU, secondo cui è legittima la sentenza di condanna solo quando la morte della vittima fosse
un evento concretamente prevedibile ed evitabile dall’agente.

D) per quanto riguarda i rapporti tra la fattispecie in esame e il delitto doloso da cui è derivata la
morte, si configura un concorso formale eterogeneo, come in tutte le ipotesi di aberratio
delicti plurioffensiva (art. 83 co 2 cp).

Capitolo II – Delitti contro l’integrità fisica


31
Introduzione

Il bene giuridico dell’integrità fisica trova tutela in molte figure delittuose che puniscono sia la
sua lesione, che la sua messa in pericolo. Tutte le fattispecie che prenderemo in considerazione
sono punibili solo a titolo di dolo, con l’eccezione delle lesioni per cui si prevede l’incriminazione
anche delle ipotesi colpose.

Le percosse

Generalità

L’ art. 581 cp punisce con la reclusione fino a 6 mesi o con la multa fino a 309 euro “chi percuote
taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente”. Poi, il comma 2 dispone che
“tale disposizione non si applica quando la legge considera la violenza come elemento costitutivo
o come circostanza aggravante di un altro reato”. E’ una fattispecie residuale che tutela il bene
giuridico dell’ integrità fisica dalle offese di minor rilievo, tali da non procurare alla vittima alcuna
“malattia”. Inoltre, l’ambito applicativo del reato è ulteriormente limitato dalla amplia clausola di
riserva che ne dispone l’assorbimento al ricorrere di qualsiasi fattispecie in cui il requisito della
violenza ricorra come elemento costitutivo o circostanza aggravante (comma 2).

Elemento oggettivo

La norma descrive una fattispecie di mera condotta, la cui consumazione si realizza con l’azione
di “percuotere” taluno. Ciò che punisce è la condotta violenta che abbia comportato un intrusione
nella sfera di inviolabilità dell’altrui persona e non importano le modalità con cui è stato attinto il
corpo della vittima e nemmeno è necessario che vi sia stato un contatto fisico tra l’aggressore e la
vittima.

Di solito, le percosse cagionano alla vittima una sensazione di dolore. Si discute se questo sia un
elemento costitutivo del delitto, o se sia configurabile la fattispecie anche quando la vittima non
abbia avvertito alcun dolore. Nella più recente giurisprudenza – al contrario di quanto sostenuto
dalla dottrina – si fa prevalere la soluzione più rigorosa, ritenendosi la causazione del dolore
elemento costitutivo del delitto. Questa scelta non è condivisibile per una ragione di natura
testuale: l’art. 581 delinea un reato di condotta, che non è possibile trasformare in un reato di
evento richiedendo la causazione di una sensazione dolorosa. Se l’esigenza perseguita dal
legislatore è quella di limitare la punibilità a condotte che siano offensive del bene giuridico
dell’integrità fisica, è preferibile sostenere la tesi diffusa in dottrina che richiede che la condotta sia
idonea a cagionare dolore.

Elemento soggettivo

Le percosse sono punibili solo se commesse con dolo (generico), consistente nella coscienza e
nella volontà di colpire il corpo della vittima. A differenza dell’omicidio e delle lesioni, non si
prevede la punibilità a titolo di colpa.

Lo “ius corrigendi”

Tradizionalmente il reato in esame era ritenuto non punibile ex art. 51 cp, cioè quando l’agente
avesse agito nell’esercizio del proprio “ius corrigendi” nei confronti della vittima. Oggi, è assai
dubbio che tale diritto possa giustificare le percosse inferte dal genitore o dall’insegnante ad un
minore, specie se in tenera età.

32
Tentativo

Si ritiene configurabile il tentativo, almeno nella forma del tentativo incompiuto (es: soggetto
intende colpire la vittima con uno schiaffo, ma non colpisce il bersaglio). Trattandosi di un reato di
condotta non è configurabile il tentativo compiuto che, invece, presuppone il completamento della
condotta punibile non seguita dalla verificazione dell’evento.

Rapporti con altre figure di reato

Essendo una norma a carattere residuale le questioni più affrontate riguardano l’ assorbimento
del reato in più gravi fattispecie delittuose.

A) rapporto con il reato di lesioni volontarie: l’elemento che pone le due figure in rapporto di
esclusione logica è quello della malattia. Quest’ultimo costituisce elemento costitutivo del reato
di lesioni ed elemento negativo (espresso) della fattispecie di percosse. Come vedremo meglio
in seguito, la giurisprudenza adotta un concetto di malattia molto ampio, fino a ricomprendervi
anche le più modeste alterazioni dello stato di salute della vittima, con il risultato di escludere
l’applicazione del reato di percosse ogni volta che la vittima abbia riportato anche danni
lievissimi alla propria integrità fisica. Per quanto, invece, riguarda le ipotesi in cui la malattia sia
stata cagionata nonostante l’agente avesse solo l’intenzione di percuotere la vittima, senza
appunto la volontà di cagionarne la malattia, la qualificazione dipende da come si ricostruisce il
dolo nel delitto di lesioni. Se si ritiene che i reati di percosse e di lesioni abbiano lo stesso
elemento soggettivo (uso della violenza nei confronti della vittima) la mancata volontà di
provocare una malattia non escluderà il dolo delle lesioni e la conseguente punibilità ex art.
582. Invece, se si ritiene che il dolo di lesioni richiede la volontaria causazione di una malattia,
la condanna sarà per il reato di percosse e la malattia resterà eventualmente imputabile solo a
titolo di lesioni colpose. Stando all’affermazione che i reati di percosse e di lesioni personali
volontarie hanno in comune l’elemento soggettivo (:volontà di colpire taluno con violenza
fisica), l’unica differenza tra i due reati consiste nelle conseguenze che la violenza produce.

B) il capoverso dell’art. 581 contiene una clausola di sussidiarietà espressa che ne dispone
l’inapplicabilità quando il reato concorra con una fattispecie contenente il requisito della
violenza. Le percosse, al che, rappresentano la soglia minima di violenza fisica punibile, il cui
disvalore deve ritenersi assorbito dalla condanna per un reato di cui la violenza costituisca
elemento costitutivo o circostanza aggravante. Invece, quando la violenza ha superato la
soglia delle percosse, procurando una malattia alla vittima, l’agente risponderà del reato
commesso con violenza in concorso con il delitto di lesioni (esempi in cui le percosse sono
state ritenute assorbite: violenza privata, maltrattamenti in famiglia).

C) infine, quando l’azione violenta (es: schiaffo) è diretta solo ad offendere l’onore della persona
colpita, e non ne cagiona alcuna sofferenza fisica, si ritiene applicabile il delitto di ingiuria in
luogo di quello di percosse.

Profili processuali e sanzionatori

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Si tratta di un reato punibile a querela della persona offesa e rientra nella competenza del
Giudice di Pace che, in luogo delle sanzioni previste dall’art. 581, applica solo la pena pecuniaria
della multa da euro 258 a 2582.

Le lesioni personali e volontarie

Generalità ed elemento oggettivo

A) l’ art. 582 cp punisce con la reclusione tra 3 mesi a 3 anni “chiunque cagiona ad alcuno una
lesione personale, dalla quale derivi una malattia del corpo o della mente”. Si tratta di una
fattispecie d’evento a forma libera, che tutela il bene giuridico dell’integrità fisica da ogni
forma di offesa che possa esservi arrecata, sia in forma commissiva che omissiva.

B) la formulazione letterale della norma sembrerebbe strutturare il reato intorno alla causazione di
di due eventi tra loro distinti: la lesione, cui deve seguire la malattia. In realtà, questa duplicità è
solo apparente. Infatti, il termine “lesione” parrebbe evocare la necessità di una condotta
violenta, la quale, invece, non è richiesta per la configurazione del reato, che può essere
tranquillamente realizzato anche con contegni non violenti (es: rapporto sessuale consenziente
laddove l’agente sia portatore di una patologia venerea).

C) è centrale la nozione di malattia, la cui causazione costituisce il discrimine rispetto alla meno
grave fattispecie di percosse. La nozione ad oggi condivisa di malattia è quella c.d.
“funzionalistica”, cioè che la identifica in un “processo patologico evolutivo necessariamente
accompagnato da una più o meno grave compromissione dell’assetto funzionale
dell’organismo”. La sentenza da cui è estrapolata questa definizione la analizzeremo meglio a
breve.

D) ancora, la nozione di malattia – oltre che per le questioni sopra richiamate di “delimitazione
verso il basso” – risulta problematica sotto altri due profili:

1) il primo riguarda la responsabilità del sanitario: un operazione chirurgica comportante


almeno un incisione della cute provoca di per sé una malattia (indipendentemente
dall’esito operatorio) – consistente nel fisiologico decorso post – operatorio, che
potrebbe risultare anche molto gravoso per il paziente; oppure non si può parlare di
malattia quando il risultato dell’intervento è comunque quello di migliorare lo stato di
salute complessiva del paziente?
2) il secondo riguarda la punibilità dei meri danni estetici: secondo l’indirizzo
maggioritario rilevano solo se riguardano il viso e tali da configurare la circostanza
aggravante di cui all’art. 583 (“deformazione”: sfregio permanente del viso).

E) essendo un reato di evento, la responsabilità dell’imputato è subordinata all’accertamento di un


nesso causale tra la sua condotta (attiva od omissiva) e il verificarsi dell’evento – malattia.

Elemento soggettivo

Si tratta di un reato punibile a titolo di dolo generico, anche nella forma di dolo eventuale.

Ad esempio, in materia di contagio da HIV è costante l’imputazione a titolo di dolo eventuale e non
di colpa cosciente per il soggetto che, consapevole del proprio stato di sieropositività, intrattenga
rapporti sessuali non protetti, contagiando il proprio partner  la giurisprudenza ha effettuato una
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qualificazione dolosa dei fatti di contagio, anche alla luce della circostanza che i processi più
recenti sono per lesioni e non per omicidio, e di conseguenza né più agevole la prova
dell’accettazione psicologica da parte dell’agente dell’evento – malattia e non dell’evento – morte.

Cause di giustificazione

La scriminante più frequente in materia è quella del consenso dell’avente diritto, questione che
ha sollevato i maggiori problemi in materia di responsabilità medica e di attività sportiva: vedi
trattazione specifica più avanti.

Momento consumativo e tentativo

Essendo un reato di evento, le lesioni si consumano nel momento di insorgenza della patologia e
non al momento della condotta che, in alcuni casi, può essere anche di molto antecedente la
consumazione del reato (es: le malattie oncologiche si sviluppano di norma anni dopo
l’esposizione cui sono etiologicamente riconducibili). Il tentativo è configurabile.

Lesioni lievissime e lesioni gravi e gravissime

A seconda della gravità del danno cagionato all’integrità fisica della vittima, gli artt. 582 e 583
distinguono diverse figure di lesioni.

A) lesioni lievissime (capoverso dell’art. 582): si configurano quando la malattia ha una durata
non superiore ai 20 giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti ex artt. 583 e
585, ad eccezione di quelle indicate al n. 1 e nell’ultima parte dell’art. 577 (ipotesi di c.d.
“parricidio” o “quasi – parricidio”). La pena è la stessa prevista la fattispecie base. La sola
peculiarità è che il delitto è punibile a querela della persona offesa, dunque è di competenza
del giudice di pace che potrà applicare solo la pena della permanenza domiciliare (15/45
giorni) o del lavoro di pubblica utilità (20 g/6 m).

B) lesione grave (art. 583 co 1): si applica la reclusione da 3 a 7 anni. Si configura quando:

- dal fatto deriva una malattia che mette in pericolo di vita la persona offesa, o una
malattia o un incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore
ai 40 giorni;
- se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo (ps: nel caso
di “organi doppi” come gli occhi, la perdita di un solo occhio non configura l’aggravante
della perdita di un senso o di un organo, punibile a titolo di lesione gravissima, ma va
qualificata come indebolimento permanente);

C) lesione gravissima (capoverso dell’art. 583): punite con la reclusione da 6 a 12 anni. Si


configura quando dal fatto deriva:
- una malattia certamente o probabilmente insanabile;
- la perdita di un senso;
- la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita
dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanete e grave
difficoltà della favella;
- la deformazione, cioè lo sfregio permanente del viso.

35
D) nonostante l’art. 583 qualifichi espressamente le lesioni gravi e gravissime come circostanze
aggravanti del reato di cui all’art. 582, in dottrina autorevoli autori ritengono che le ipotesi in
questioni configurino delle autonome fattispecie delittuose. La finalità di questi autori è di
evitare alcune conseguenze della qualificazione a titolo circostanziale delle lesioni gravi o
gravissime e, in particolare: evitare la possibilità che esse vengano elise da eventuali
circostanze attenuanti nel giudizio di bilanciamento ex art. 69 cp con la conseguenza
(irragionevole) che, pur essendo stato cagionato un gravissimo danno all’integrità fisica, risulti
in concreto applicabile la modesta sanzione di cui all’art. 582 cp. Purtroppo, questa
qualificazione non ha ottenuto riconoscimento da parte della giurisprudenza che continua a
qualificare le lesioni gravi e gravissime quali elementi circostanziali del reato – base di cui
all’art. 582 cp  dalla qualificazione a titolo circostanziale derivano le conseguenze che la
dottrina voleva evitare:
- le lesioni gravi o gravissime possono risultare soccombenti nel giudizio di bilanciamento
con eventuali attenuanti (con conseguente applicabilità dell’art. 582)
- in applicazione del criterio generale di imputazione soggettiva delle aggravanti di cui
all’art. 59 co 2, l’agente risponde ex art. 583 anche quando non ha voluto l’evento,
purchè questo gli sia imputabile a titolo di colpa
- non p configurabile il tentativo di lesioni gravi o gravissime, ma solo il tentativo di lesioni
semplici.

Le circostanze aggravanti di cui all’art. 585 cp

Ai sensi dell’art. 585 co 1, le pene di cui agli artt. 582 e 583 sono aumentate da 1/3 alla metà se
concorre alcuna delle circostanze di cui all’art. 576, mentre l’aumento è fino ad 1/3 quando
concorre una delle circostanze previste dall’art. 577 oppure se il fatto è commesso con armi o
sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone.

Soffermiamoci sulla circostanza prevista dall’ art. 585 co 2. Agli affetti della legge per “armi” si
intendono:

1) quelle sa sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa della persona (c.d.
“armi proprie”);
2) tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto o
senza giustificato motivo (c.d. “armi improprie”).

Il comma 3 assimila alle armi le materie esplodenti e i gas asfissianti o accecanti.

Le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili

Lesioni personali gravi o gravissime a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in


occasione di manifestazioni sportive

Rapporto con altre figure di reato

Abbiamo già accennato al fatto che i delitti di lesioni volontarie (semplici o aggravate) concorrono
con i reati che prevedono come elemento costitutivo la violenza. Poi, secondo un costate
orientamento giurisprudenziale, il reato di lesioni aggravato ex art. 61 n. 9 (fatto commesso con
abuso di poteri, o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad pubblico
servizio) assorbe il reato d’abuso di ufficio.

Profili processuali
36
La competenza è del Tribunale in composizione monocratica (lesioni semplici o gravi, pratiche di
lesioni degli organi genitali femminili ex art. 583 bis co 3) o collegiale (lesioni gravissime,
mutilazioni genitali femminili) e la procedibilità è d’ufficio. Invece, la competenza è del giudice di
Pace e si procede a querela di parte per le fattispecie di lesioni lievissime di cui all’art. 582 co 2.

Le lesioni personali colpose

Generalità e disciplina

A) come per l’omicidio, anche per le lesioni personali è prevista la punibilità del fatto anche a
titolo di colpa.

B) l’ art. 590 co 1 punisce con la reclusione fino a 3 mesi o con la multa fino a euro 309
“chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale”; al co 2 viene specificato che “se
la lesione è grave, la pena è della reclusione da 1 a 6 mesi o della multa da euro 123 a 619; se
è gravissima, della reclusione da 3 mesi a 2 anni o della multa da euro 309 a 1239”. Poi, il co 3
dispone che “se i fatti di cui al secondo comma sono commessi con violazione delle norme
sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle della prevenzione degli infortuni sul lavoro
la pena per le lesioni gravi è della reclusione da 3 mesi ad 1 anno o della multa da euro 500 a
2000 e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da 1 a 3 anni”. Infine, il co 4
disciplina l’ ipotesi di lesioni colpose plurime, sancendo che nell’ipotesi di lesioni di più
persone debba applicarsi la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni
commesse, aumentata sino al triplo, ma che la pena della reclusione non può superare i 5
anni.

Elemento oggettivo e soggettivo: rinvio

Vedi omicidio colposo.

Lesioni come conseguenza di altro delitto doloso

L’art. 596 prevede che quando la lesione personale derivi, come conseguenza non voluta, da un
fatto preveduto dalla legge come delitto doloso, si applichino le disposizioni dell’art. 83 cp in
materia di aberratio delicti, ma le pene previste dall’art. 590 cp aumentante fino ad 1/3.

Profili processuali

L’ art. 590 co 5 prevede che il delitto è punibile a querela della persona, salvo che nei casi previsti
dai commi 1 e 2 (lesioni gravi e gravissime), limitatamente ai fatti commessi con violazione delle
norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene o che abbiano cagionato una
malattia professionale.

Le lesioni personali in materia di trattamento medico arbitrario e di attività sportiva

Premessa

La rilevanza penale del trattamento medico arbitrario

La rilevanza scriminante del consenso per le lesioni cagionate nello svolgimento delle
attività sportive

La rissa
37
Bene giuridico ed elementi costitutivi

A) L’ art. 588 cp punisce con la multa fino a euro 309 “chiunque partecipa ad una rissa”. La
norma configura un reato di pericolo rispetto al bene giuridico dell’ incolumità individuale; la
tutela dell’ordine pubblico è una conseguenza indiretta della protezione accordata ai beni
giuridici individuali.

B) la nozione di rissa che viene comunemente adottata è quella di una contesa violenta tra più
soggetti ( quindi si configura un c.d. “reato necessariamente plurisoggettivo”) animati dalla
finalità di ledersi reciprocamente (se un gruppo si limita a difendersi viene meno il reato
anche nei confronti degli aggressori che risponderanno dei reati di percosse o di lesioni se ne
ricorrono gli estremi). Inoltre, secondo l’interpretazione prevalente non è richiesto un contatto
fisico tra i corissanti, in quanto lo scontro si può realizzare anche a distanza (es: sparatoria,
reciproco lancio di oggetti) ed il numero minimo di partecipanti è 3, in quanto non rientra nella
accezione comune di rissa lo scontro limitato a due soggetti.

C) quanto all’elemento soggettivo, la fattispecie è punibile a titolo di dolo generico, consistente


nella volontà di partecipare ad uno scontro violento con più soggetti. Il dolo non sussiste
quando il soggetto è privo di intento aggressivo dell’altrui incolumità.

Legittima difesa

In giurisprudenza è comune l’opinione che al delitto di rissa non sia applicabile la scriminante della
legittima difesa, in quanto nel momento in cuoi uno dei due gruppi si limita a difendersi
dall’aggressione viene meno lo stesso fatto tipico di reato. Significa che la legittima difesa risulterà
applicabile solo in situazioni eccezionali, cioè quando alcuni dei corissanti si trovino a dover
respingere un offesa del tutto imprevedibile e sproporzionata rispetto a quella inizialmente
accettata (es: è il caso di una rissa iniziata come colluttazione a mani nude durante la quale,
improvvisamente, alcuni debbano difendersi da aggressione con coltelli o armi da fuoco).

Rissa aggravata e concorso con i reati di omicidio e lesioni

A) ai sensi dell’ art. 588 co 2 “se nella rissa taluno rimane ucciso, o riporta lesione personale, la
pena, per il solo fatto della partecipazione alla rissa, è della reclusione da 3 mesi a 5 anni”. La
stessa pena non si applica se la uccisione, o la lesione personale, avviene immediatamente
dopo la rissa e in conseguenza di questa”. Secondo questo disposto normativo l’aggravante è
applicabile a tutti coloro che hanno preso parte alla rissa, anche se non hanno materialmente
concorso a cagionare l’evento aggravante (circostanza aggravante ad effetto speciale) e
nemmeno è necessario che tale evento fosse in concreto prevedibile da parte dei corissanti. In
questo modo, a detta della dottrina, si configura, non solo un ipotesi di responsabilità oggettiva,
ma anche di vera e propria responsabilità per fatto altrui, dal momento che l’aggravamento
della pena non è nemmeno subordinato all’accertamento di un nesso di causalità materiale tra
la condotta del singolo corrissante e la morte o le lesioni. Addirittura, secondo la
giurisprudenza, la circostanza aggravante si applicherebbe anche al corrissante che abbia
subito le lesioni (al limite dell’assurdo!?!). L’argomento con cui la giurisprudenza cerca di
spiegare la sua posizione è quella secondo cui, in realtà, non si tratterebbe di responsabilità
per fatto altrui, in quanto il corrissante non risponderebbe della morte o delle lesioni, bensì solo
della rissa cui ha personalmente partecipato e che risulta più grave proprio in ragione della
verificazione dell’evento lesivo. Comuqne sia la dottrina non è convinta, in quanto la maggior
gravità della rissa non è riconducibile all’azione del reo rimasto estraneo al fatto lesivo.
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B) secondo la giurisprudenza prevalente, i corrisanti che abbiano personalmente concorso a
cagionare la morte o le lesioni risponderanno di rissa (aggravata) in concorso con i reati
di lesioni personali e di omicidio. Infatti, da un lato, tali reati non possono ritenersi assorbiti
dall’aggravante – pena l’illogica conseguenza dell’inflizione di una pena molto meno grave
rispetto al trattamento sanzionatorio per essi previsto –; dall’altro lato, l’omicidio o le lesioni non
assorbirebbero l’aggravante – che sanzione una particolare pericolosità del fatto – base della
rissa – in quanto il reato di omicidio o quello di lesioni non è un “reato progressivo” rispetto alla
rissa e, allo stesso modo, il reato di rissa non un “reato complesso” rispetto all’omicidio o alle
lesioni.

In relazione ai corrisanti che non abbiano fornito un contributo né materiale né morale alla
commissione dell’omicidio o delle lesioni il rimprovero sarà solo per rissa aggravata.

Circostanze attenuanti

Analogamente a quanto detto sopra in merito alla legittima difesa, si ritiene normalmente
incompatibile con il delitto di rissa l’attenuante comune della provocazione (art. 62 n. 2 cp). Fermo
questo principio, è stata tuttavia ritenuta applicabile l’attenuante nel caso in cui l’azione offensiva di
uno dei due gruppi sia stata preceduta e determinata da una “pretesta tracotante e illecita e da
una gravissima offesa proveniente esclusivamente dall’altro gruppo” oppure quando “taluno dei
corrisanti abbia ecceduto i limiti ragionevolmente prevedibili, realizzando con la propria eccessiva
reazione un nuovo ed autonomo fatto ingiusto”.

Profili processuali

Il reato è di competenza del Tribunale monocratico, sia nelle ipotesi di rissa semplice che di rissa
aggravata ex art. 588 co 2. C’è stato un caso (rissa aggravata con morte del corrisante) in cui la
Cassazione ha riconosciuto la legittimazione dei congiunti della vittima a costituirsi parte civile
anche nei confronti del corrisante rimasto estraneo alla condotta omicida (reputato “autore
mediato” dell’evento – morte).

L’abbandono di persone minori o incapaci

Nozione ed elemento oggettivo

A) ai sensi dell’ art. 591 cp “chiunque abbandona una persona minore degli anni 14, ovvero una
persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, di
provvedere a se stessa, e della quale si abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la
reclusione da 6 mesi a 5 anni”. Poi, il co 2 dispone che “alla stessa pena soggiace chi
abbandona all’estero un cittadino italiano minore di anni 18 a lui affidato nel territorio dello
Stato per ragioni di lavoro”.

B) questa norma presta una tutela giuridica rafforzata al bene giuridico dell’integrità fisica di
soggetti che non sono in grado, per diverse ragioni, di badare a se stessi: in queste ipotesi la
risposta punitiva non interviene solo quando il danno alla vita o alla salute si sia effettivamente
verificato, ma viene anticipata al momento in cui il soggetto debole venga abbandonato a chi
doveva averne cura, con la conseguenza di esporre a pericolo la sua integrità fisica.

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C) la lettura complessiva della norma ci fa ritenere questa fattispecie di reato come reato proprio,
in quanto il soggetto attivo del reato può essere solo colui che abbia nei confronti della persona
offesa uno specifico dovere giuridico di custodia o di cura.

D) ancora, la fattispecie rientra nella categoria dei reati di mera condotta, in quanto le eventuali
conseguenze lesive che possono derivare dall’abbandono rilevano ai fini dell’integrazione della
circostanza aggravante di cui al comma 3, ma il reato è integrato dal mero fatto di aver
abbandonato la persona offesa, a prescindere da qualsiasi effetto riconducibile a tale condotta.

La condotta consiste in un non facere, cioè nel non adempiere ai propri doveri di cura e di
custodia, in modo da cagionare un pericolo per l’integrità fisica del soggetto passivo  quindi
la fattispecie ha natura di reato omissivo proprio.

E) il soggetto passivo del reato è il minore di anni 14 e gli altri soggetti che la norma indica.
Precisazione: se per il minore di anni 14 la mera constatazione dell’età è sufficiente per
ritenere integrato il reato in caso di abbandono, per le altre categorie di soggetti è necessario
verificare che la situazione (malattia o vecchiaia) presa in considerazione dalla norma avesse
concretamente provocato nel soggetto passivo l’impossibilità di provvedere autonomamente ai
propri bisogni.

F) nella casistica giurisprudenziale sono ricorrenti casi di imputazioni a carico dei dirigenti o degli
operatori di strutture di ricovero per soggetti anziani o affetti da deficienza psichica, che
vengono meno ai doveri di assistenza contrattualmente assunti nei confronti dei degenti (oltre
che casi relativi all’abbandono di minori o di anziani).

G) in tutti i contesti richiamati la questione più problematica riguarda la natura del pericolo cui il
soggetto passivo deve esser stato esposto perché possa essere integrato il reato: è necessario
che la vittima abbia corso – a causa dell’abbandono – un concreto ed effettivo pericolo per la
propria integrità fisica, o è sufficiente provare un pericolo anche solo potenziale –
configurandosi il reato come fattispecie di pericolo in astratto – in cui l’esposizione a pericolo
del bene giuridico è presunta dal legislatore ogni qual volta si realizzi la condotta di abbandono
descritta dalla norma? Al di la della qualificazione formale, la giurisprudenza è arrivata ad
escludere la sussistenza del reato quando il soggetto passivo, nonostante l’abbandono da
parte di colui su cui gravava l’onere di assistenza, si trovasse comunque in una situazione tale
da scongiurare rischi per la sua incolumità fisica.

Elemento soggettivo

Il delitto è punibile a titolo di dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di abbandonare
il soggetto di cui si ha la cura o la custodia in modo da esporlo consapevolmente ad una situazione
pericolosa per la sua integrità fisica.

Momento consumativo e tentativo

La fattispecie in esame ha natura di reato permanente, in quanto la condotta penalmente


rilevante perdura sino a che non viene a cessazione la situazione di pericolo per l’incolumità del
soggetto passivo. In tentativo in astratto è configurabile, anche se la punibilità a titolo di tentativo di
un reato di pericolo desta perplessità sotto il profilo del rispetto del principio di offensività (sembra
essere un eccessiva anticipazione della soglia di punibilità).

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Circostanze aggravanti

A) il co 3 introduce una circostanza aggravante ad effetto speciale, comportante la pena della


reclusione da 1 a 6 anni se dal fatto deriva una lesione personale, e la pena della reclusione da
3 a 8 anni se ne deriva la morte. L’aggravante si applica solo quando l’evento lesivo non sia
stato voluto dall’agente, nemmeno a titolo di dolo eventuale (in questa ipotesi, infatti, si
applicherebbe la fattispecie di omicidio o di lesioni volontarie in forma omissiva).

Si pone il problema di stabilire se l’evento sia da imputare all’agente a titolo di responsabilità


oggettiva, o se invece sia necessario un coefficiente di colpa in concreto rispetto a tale evento.
La giurisprudenza più recente si orienta nel senso di richiedere la concreta prevedibilità
dell’evento – morte o lesioni. Questa soluzione sembra essere condivisibile.

B) il co 4 prevede, infine, una circostanza aggravante ad effetto comune quando il fatto è


commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato.

Profili processuali

Il reato è di competenza del Tribunale monocratico, salvo nelle ipotesi aggravate dalla
verificazione della morte del soggetto passivo, per cui è competente la Corte d’Assise.

L’omissione di soccorso

Generalità

A) l’ art. 593 co 1 cp dispone che “chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo


minore di anni 10, o un'altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente
o di corpo, per vecchiaia o altra causa, omette di darne immediato avviso all’Autorità, è punito
con la reclusione sino ad un anno o con la multa sino ad euro 2500”; al co 2 è poi previsto che
soggiace alla stessa pena chi “trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero
una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne
immediato avviso all’Autorità”.

B) Il reato presenta molti aspetti in comune con la fattispecie di cui all’art. 591: in entrambi i casi si
tratta di reati di pericolo rispetto al bene giuridico dell’integrità fisica e di reati di condotta
che si configurano anche qualora dal contegno dell’agente non sia derivata alcuna
conseguenza lesiva, nonché di reati omissivi propri in quanto si punisce l’agente per non
aver tenuto una determinata condotta imposta dalla legge. La differenza tra le due riguarda il
soggetto attivo. Il delitto di omissione di soccorso configura un ipotesi di reato comune, in
quanto può essere realizzato da chiunque si imbatta in un soggetto che necessiti di assistenza.

Elemento oggettivo e soggettivo

A) il comma 1 descrive l’ipotesi di omissione di soccorso di minore o di incapace. Come tutte


le ipotesi di reato omissivo proprio, la fattispecie si struttura in due momenti: la situazione tipica
da cui deriva l’obbligo di attivazione (essersi imbattuti in un minore abbandonato o in un
incapace) + l’ omissione della condotta imposta dalla norma (avvisare l’Autorità). A differenza
che per la fattispecie di cui al comma 2 – dove si fa espresso riferimento al “pericolo” – l’ipotesi
descritta nel comma 1 non contempla il pericolo, dovendosi esso ritenere presunto al ricorrere
delle situazioni descritte.

41
B) quasi la totalità della casistica giurisprudenziale ha ad oggetto la fattispecie di omissione di
persona in pericolo descritta dal comma 2: secondo l’orientamento costante si tratta di un
reato di pericolo concreto, per la cui integrazione è necessario verificare che il mancato
intervento dell’agente fosse idoneo a cagionare un pericolo per l’integrità fisica del soggetto
passivo (mediante un giudizio ex ante), con la conseguenza che non esclude il reato la
contestazione ex post che la pericolo si sia potuto fare fronte nonostante l’inerzia dell’imputato
oppure che l’intervento dell’agente non avrebbe cmq potuto salvare la vita del soggetto
passivo.

Per quanto riguarda i requisiti della situazione tipica:


- in primo luogo ci si deve accertare che il soggetto passivo versasse in una effettiva
condizione di pericolo alla quale non fosse in grado di far fronte autonomamente
(incapacità presunta quando il soggetto è trovato inanimato, da accertare quando ferito)
- in secondo luogo l’agente deve aver trovato la persona in stato di pericolo: in ossequio
al divieto di analogia in malam partem, questa formula non può essere intesa in modo
da ricomprendere le situazioni in cui il soggetto attivo sia stato solo informato della
presenza di persona in pericolo, essendo necessario un contatto materiale diretto tra
l’agente e il corpo del soggetto passivo.

Quanto alla condotta doverosa, la norma prevede 2 modalità alternative di adempimento


all’obbligo di soccorso:
1. la prestazione diretta di assistenza
2. l’immediato avviso all’autorità  a tal proposito, si è ritenuto sussistente il reato anche nel
caso in cui l’agente ha si contattato la polizia, ad esempio, ma sia allontanato lasciando il
corpo privo di sensi e disteso al cento della carreggiata.

Il dovere di intervento viene meno qualora la persona offesa dichiari espressamente la propria
contrarietà ad essere assistita.

C) l’elemento soggettivo è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza l’agente deve
essersi rappresentato la situazione di pericolo in cui versava la persona offesa e deve aver
volontariamente omesso l’intervento salvifico prescritto dalla norma.

Circostanza aggravante

Il co 3 prevede un aumento di pena fino ad 1/3 quando dalla condotta del colpevole sia derivata
una lesione personale, e il raddoppio quando si sia verificata la morte della vittima. A differenza di
tutte le altre ipotesi in cui la causazione della morte o delle lesioni costituisce circostanza
aggravante di un reato doloso, in questo caso l’aggravante si configura anche se l’agente ha
voluto la causazione dell’evento. La conseguenza è che il decesso può essere rimproverato solo a
titolo di circostanza aggravante del reato di cui stiamo trattando (il motivo è che manca uno
specifico dovere di tutela della vittima).

Inoltre, in applicazione del principio di colpevolezza, l’aggravante potrà essere contestata solo
quando la morte o le lesioni fossero in concreto prevedibili da parte dell’agente.

Rapporto con altre figure di reato

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A) una questione dibattuta riguarda la possibilità che del reato risponda anche chi abbia
volontariamente cagionato alla vittima le ferite da cui deriva l’obbligo di soccorso. Sembra
preferibile escludere la possibilità del concorso, sia perché la norma fa riferimento alle ipotesi
in cui il soggetto attivo trovi casualmente il ferito (mentre in questo caso è lo stesso agente ad
aver provocato la situazione di pericolo), sia perché il disvalore delle lesioni assorbe quello
dell’omissione di soccorso (che costituisce una fattispecie di pericolo rispetto al medesimo
bene giuridico).

B) quando la situazione da cui scaturisce l’obbligo di attivazione è un incidente stradale, si applica


la norma speciale di cui all’art. 189 d.lgs 285/1992 in luogo di quella codicistica. Al comma 7
prevede la reclusione da 1 a 3 anni per chi, in caso di incidente ricollegabile la suo
comportamento, non ottemperi all’obbligo di prestare l’assistenza occorrente alle persone
ferite.

Profili processuali

Per tutte le fattispecie – semplici ed aggravate – disciplinate dall’art. 593 la competenza è del
Tribunale.

Capitolo III – Delitti contro l’onore

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Cenni introduttivi

Il sistema di tutela penale dell’onore prefigurato dal nostro ordinamento è estremamente


complesso. Le fattispecie cardine sono quelle di “diffamazione” e di “ingiuria”. Ad esse, poi, si
affianca un sistema di circostanze aggravanti speciali, nonché alcune previsioni contenute nella
legislazione speciale. A completare questo quadro intervengono anche una serie di cause speciali
di non punibilità. Assumono, infine, un ruolo centrale le cause di giustificazioni comuni.

Il bene giuridico protetto

Il bene giuridico di categoria è rappresentato dall’ onore. L’ampiezza di spettro del bene in
questione sembra essere alla base di una tendenza sviluppatasi in dottrina a ricostruire – al di la
delle varianti terminologiche riportate dalle norme codicistiche – in termini essenzialmente unitari
l’oggettività giuridica delle figure di ingiuria e di diffamazione.

La concezione tradizionale dell’onore è quella “fattuale”: in questa prospettiva l’onore è lo


strumento teso ad assicurare al singolo il rispetto della sua personalità sociale, quindi denota il
complesso delle condizioni da cui dipende il valore sociale della persona. Al suo interno
confluiscono sia la componente soggettiva – interna (sentimento proprio del valore sociale), che il
suo riflesso esterno (considerazione in cui l’individuo è tenuto dal pubblico).

Alla concezione “fattuale” è stata contrapposta la concezione “normativa”: l’onore sarebbe da


ricollegare direttamente alla persona umana e andrebbe connotare il valore del singolo come
membro di una comunità sociale, oppure, secondo un'altra linea ricostruttiva, nell’accezione
morale si tratterebbe di un attributo che spetta ad ogni individuo in quanto tale.

L’ultima concezione è quella “normativo – fattuale”: quale sintesi delle due prospettive sopra
riportate, si propone l’obiettivo di assicurare la coesistenza del concetto di onore delle diverse
componenti “di fatto” e “di valore”. Quindi, l’onore si presenterebbe come un bene giuridico
complesso. È su queste basi che si è sviluppato un approccio volto a proiettare quest’ultima
formulazione nel quadro di una ricostruzione dell’onore come concetto interpersonale; l’onore
sarebbe il risultato del rapporto di riconoscimento che attribuisce al singolo la sua autonomia, ma
al contempo anche lo strumento attraverso il quale l’individuo può esplicare la propria personalità
all’interno di una comunità in cui tutti gli uomini sono uguali.

Il recupero di una dimensione “personalistica” del concetto di onore richiama il tema del suo
“ancoraggio” costituzionale che, solitamente viene ravvisato nell’art. 3 Cost. laddove si
sancisce la “pari dignità sociale” dei cittadini, o nell’art. 2 Cost. facendosi rientrare l’onore tra i diritti
inviolabili della persona. I problemi di fondo legati all’adesione all’uno o all’altra ricostruzione
risiedono nelle capacità di offrire tutela ai soggetti marginali (incapaci, immaturi) o disistimati in
capo ai quali risulta difficile ravvisare la titolarità dell’onore – sentimento secondo la concezione
fattuale, ma che, invece, risultano senza problemi destinatari della tutela penale nell’ambito di una
lettura in chiave personalistica del concetto di onore.

Quale è stato l’apporto della giurisprudenza?

Un primo dato che emerge è la frequenza con cui, nella prassi applicativa, è stato fatto richiamo
agli artt. 2 e 3 Cost., così da fare rifluire il concetto di onore in quello di dignità personale. È questo
un approccio che si muove verso una tutela oggettiva dell’onore, quale attributo delle personalità di
ciascun individuo. Ne discende una limitazione dell’istituto dell’exceptio veritatis, così come una
sedimentazione dell’indirizzo volto ad assicurare tutela anche ai soggetti il cui onore abbia già
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subito “compromissioni”. Questo esito è stato raggiunto facendo leva sull’esistenza di un onore, di
un rispetto minimo che spetterebbe anche ai soggetti “disistimati”. Il richiamo al concetto di “onore
minimo” è utilizzato poi dalla giurisprudenza come “limite invalicabile a tutela della dignità umana”
rispetto ad espressioni che per oggettive modalità risultino essere lesive, indipendentemente dal
contesto in cui sono pronunciate.

Il soggetto passivo

Il tema del soggetto passivo interferisce su diversi piani rispetto alla configurabilità dei delitti di
ingiuria e di diffamazione.

Anzitutto, la particolare qualifica del soggetto passivo può determinare il mutamento del titolo di
reato in una delle figure di oltraggio previste dal codice. Il secondo aspetto attiene alla possibilità
di annoverare tra i soggetto passivi minori, incapaci, ecc.

Il problema riguarda in particolar modo l’ipotesi di ingiuria rispetto a soggetti che non siano
nemmeno in grado di percezione materiale dell’offesa (dormiente, soggetto molto ubriaco,…):
è stato sottolineato che, pur essendo portatori di onore – personalisticamente intesi, de jure
condito non possono ritenersi soggetti passivi.

La giurisprudenza si è occupata della questione. Il caso riguardava la vicenda di un soggetto in


coma a cui erano state rivolte, dalle due infermiere che lo assistevano, delle espressioni offensive
che erano state impresse in un registratore che per errore avevano attivato. Il giudice di primo
grado ha escluso la configurabilità dell’ingiuria sul presupposto che fosse necessaria la percezione
o, per lo meno, la possibilità di percepire l’espressione offensiva da parte del soggetto. Invece, la
Cassazione è giunta ad una conclusione di segno opposto, sostenendo che per la configurabilità
del reato di ingiuria, non fosse necessario che il soggetto al quale erano rivolte le espressioni
offensive fosse in grado di percepirle e che in effetti le percepisca. Il presupposto preso in
considerazione dalla Cassazione è che l’oggetto della tutela apprestata dall’art. 594 cp non deve
essere individuato nel “sentimento” che ciascuno ha della propria dignità morale, fisica, sociale ed
intellettuale, ma deve essere ricollegato al valore della dignità umana in quanto tale.

L’opzione prospettata dalla Cassazione finisce per condizionare l’interpretazione di determinati


requisiti di fattispecie, la presenza dell’offeso. Si tratta di una soluzione sicuramente in linea con i
più recenti contributi diretti a valorizzare l’incardinamento del bene onore negli artt. 2 e 3 Cost.

L’ultimo piano di incidenza riguarda la determinatezza del soggetto passivo. Si tratta di una
questione preliminare alle altre, ma che risulta preferibile analizzare in conclusione, data la sua
contiguità con il tema dell’offesa a collettività di persone. Sotto il primo profilo si richiede che il
soggetto offeso sia identificabile. Più delicata è la questione allorchè l’offesa sia rivolta ad un
ambito esteso di soggetti: in questi casi sarà necessario distinguere le offese autenticamente rese
in forma collettiva da quelle rispetto alle quali è possibile risalire ai soggetti effettivamente
destinatari dell’offesa.

Ancora diverso è il caso di offesa rivolta ad un ente collettivo. La dottrina si è orientata verso
una soluzione positiva, facendo leva – per quanto riguarda le persone giuridiche – sul dispositivo
dell’ultimo comma dell’art. 595. Si è anche fatto riferimento – limitatamente all’ipotesi di
diffamazione – all’art. 2 Cost., laddove tutela i diritti inviolabili dell’uomo anche quale partecipe di
determinate formazioni sociali. Per gli enti di fatto viene fornita la medesima soluzione. La
giurisprudenza è ancorata alla proposta della dottrina. Nella casistica giurisprudenziale una lesione
all’onore collettivo si ritiene esistente in presenza di affermazioni lesive dell’onore a carattere
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diffusivo che, per le modalità con cui sono rese, finiscano con l’attingere l’ente. In questi casi il
carattere indeterminato dell’offesa, se impedisce la ravvisabilità del reato rispetto alla persona
fisica, non è di ostacolo, ma anzi è la base della sussistenza dello stesso nei confronti dell’ente.

Il criterio di distinzione tra ingiuria e diffamazione

I delitti di ingiuria e diffamazione incidono sul medesimo bene giuridico. Il tratto distintivo risiede nel
binomio presenza/assenza dell’offeso: la fattispecie dell’ingiuria presuppone la presenza del
soggetto offeso; la fattispecie di diffamazione, invece, presuppone l’assenza del soggetto offeso,
oltre che la “comunicazione con più persone”. NB: la presenza non deve essere intesa come
contiguità spaziale – materiale tra soggetto attivo e persona offesa dall’ingiuria, ma come
“percezione diretta” da parte del soggetto passivo dell’espressione offensiva. Il dato legislativo si
muove in questo senso, equiparando l’ingiuria resa in presenza dell’offeso a quella recata
mediante una comunicazione telegrafica, telefonica o con scritti e disegni diretti alla persona offesa
(art. 594 co 1 e 2).

Gli estremi oggettivi dell’ingiuria

La presenza dell’offeso

La presenza dell’offeso è il primo tratto caratterizzante l’ingiuria. Ricorda “presenza come


“percezione diretta dell’addebito lesivo dell’onore”. Tuttavia, vi sono anche altre linee interpretative.
Per taluno sembra essere necessaria anche la comprensione da parte del soggetto del significato
dell’espressione offensiva; mentre, per altri sarebbe sufficiente la vicinanza spaziale del soggetto
insieme alla percepibilità dell’offesa. La logica, comunque, è quella di ravvisare l’ingiuria ogni volta
che sussista un rapporto comunicativo diretto tra offensore e offeso.

L’offesa all’altrui onore o decoro

La condotta del delitto di ingiuria è identificata dall’art. 594 nell’offesa all’altrui onore o decoro.
L’ingiuria ha natura di forma libera, quindi le modalità d’integrazione della fattispecie sono
multiple. Una prima distinzione è quella tra ingiuria verbale e ingiuria reale.

Quanto all’ingiuria verbale, diverse sono le sue forme di manifestazione. La forma classica è quella
dell’ingiuria diretta. Tuttavia, possono aversi anche ingiurie indirette (offesa colpisce persona
diversa rispetto a quello a cui in apparenza è rivolta), riflesse (toccata la persona a cui è diretta, poi
l’offesa rimbalza su un'altra), oblique (quando si ricorre a negazioni o domande allusive),
simboliche (espressione che, a prima vista innocente, contiene allusioni offensive).

Ad assumere rilevanza decisiva, per definire l’ambito di protezione penale dell’onore, è il contesto
in cui l’affermazione di inserisce. Pur nella variabilità degli esiti interpretativi, si è delineato un
atteggiamento volto ad utilizzare parametri più elastici nei rapporti tra privati o, comunque, tra
soggetti in posizione di parità, anche in considerazione della “desensibilizzazione” cui sono andate
incontro alcune espressioni nel linguaggio comune (es: “non rompere le palle”).

L’ultimo profilo rilevante riguarda la possibilità di realizzare l’ ingiuria mediante omissione. Coloro
che ne ammettono la configurabilità, la subordinano all’esistenza di un obbligo giuridico di tenere il
comportamento omesso e alla concorrenza di manifestazioni positive espressive di dispregio.
Esempio di scuola: ostentata omissione del saluto militare. Si capisce bene come, in conclusione,
si preferisce optare per una soluzione negativa.

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Il comma 2 dell’art. 594 cp

Questa disposizione equipara l’ingiuria ad una persona presente a quella attuata “mediante, o con
scritti i disegni, diretti alla persona offesa”. si discute se all’interno della dizione “comunicazione
telegrafica o telefonica” possa includersi quella attuata mediante radio o televisione. Alla tesi
positiva si obietta di interpretare la norma mediante analogia in malam partem.

Nella nozione di “comunicazione telefonica” potrebbero, ad esempio, farsi rientrare offese rivolte
nell’ambito di una video conferenza. Le nozioni di “scritto o disegno” si prestano a ricomprendere
le più moderne forme di comunicazione, come ad es. l’invio di un sms.

Gli scritti ecc. devono essere diretti alla persona offesa nel senso di consegna materiale ed
individuale al destinatario. Potrà aversi concorso tra ingiuria e diffamazione nel caso in cui, oltre a
rivolgere l’offesa direttamente alla persona destinataria, se ne comunichi anche il contenuto a terzi.

Gli estremi oggettivi della diffamazione

La struttura oggettiva della diffamazione si articola su tre componenti:

 l’ assenza dell’offeso
 la lesione dell’altrui reputazione
 la comunicazione con più persone

L’assenza dell’offeso

Come risulta dall’ art. 595 “fuori dai casi indicati nell’articolo precedente”, la prima caratteristica del
delitto di diffamazione è data dall’assenza dell’offeso. Questo requisito, abbiamo già detto, deve
essere letto in chiave di impossibilità di percezione diretta da parte di costui (offeso) dell’addebito
lesivo.

L’offesa all’altrui reputazione

Il secondo requisito è l’offesa dell’altrui reputazione e qui si apre un ampio ventaglio di ipotesi.
Come l’ingiuria, anche la diffamazione può integrarsi in forma “indiretta” (espressioni dubitative,
allusioni subdole), e non solo “diretta”.

La comunicazione con più persone

Questo requisito consente di escludere dal raggio di azione dell’art. 595 le comunicazioni a
soggetto determinato. In particolare, la giurisprudenza ha ritenuto non ricorrente la diffamazione in
caso di addebito lesivo contenuto in un reclamo diretto personalmente al titolare di un ufficio o di
un organo. Tuttavia, nelle medesime pronunce, si è precisato essere sussistente il delitto in esame
qualora la comunicazione, seppur rispondente ai requisiti sopra indicati, è “destinata
oggettivamente e nelle intenzioni dei proponenti” ad essere comunicata ad altri. Ai fini della
configurabilità della diffamazione è sufficiente che la comunicazione giunga ad almeno due
persone. Nel caso di mezzi quali la stampa e la televisione, ad esempio, si presume la
sussistenza del requisito della comunicazione con più persone. Nel novero dei soggetti destinatari
non deve computarsi la persona offesa, mentre possono rientrarvi, ad esempio, i prossimi
congiunti del diffamatore o del diffamato nonché persona già informate del fatto offensivo. La
comunicazione può anche avvenire non contemporaneamente e l’addebito si ritiene che possa
essere anche non identico nelle diverse comunicazioni. Si ritiene che l’integrazione del reato

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presupponga un’effettiva e concreta percezione delle espressioni offensive da parte di
(almeno) due persone.

L’elemento soggettivo nei delitti contro l’onore

Nella recente prassi applicativa si è uniformi nel ribadire la natura generica del dolo di ingiuria e
diffamazione. È stata poi sottolineata come sia necessario che il dolo sia oggetto di accertamento.
Accanto a questo carattere comune – consapevolezza del carattere offensivo di date espressioni –
il dolo si arricchisce di ulteriori contenuti a seconda delle specificità dei delitti di ingiuria e di
diffamazione. Nel caso dell’ingiuria, ad esempio, sarà necessario che il soggetto sia consapevole
della presenza dell’offeso, mentre nella diffamazione ci si dovrà accertare che l’agente sia
consapevole di comunicare con più persone.

Consumazione e tentativo

Un altro tratto unitario è quello relativo alle problematiche relative alla configurabilità del tentativo;
invece, ai fini della consumazione rilevano le loro differenze strutturali.

L’ingiuria si consuma nel momento della percezione dell’offesa da parte del destinatario e
non rileva che questi si sia o meno sentito offeso. La diffamazione si consuma all’atto
dell’effettiva percezione dell’addebito offensivo da parte di almeno due soggetti e,
nell’ipotesi di comunicazione non contemporanea, quando raggiunga il secondo. Il reato rimane
unico, indipendentemente dal numero di soggetti con cui si comunica, mentre se l’agente ripete le
offese a persone diverse (a gruppi almeno di due ad ogni ripresa), si avranno più reati di
diffamazione in concorso eventualmente legati dal vincolo della continuazione.

Per quanto riguarda il tentativo, in astratto se ne ammette la configurabilità. Di solito, la si fa


dipendere dalle modalità di esecuzione del fatto (es: addebiti offensivi non giunti al destinatario). Si
tratta di ipotesi residuali. Si deve anche tenere conto che la perseguibilità a querela richiede la
percezione da parte dell’offeso e, quindi, la consumazione del reato.

Il sistema delle circostanze aggravanti speciali

Per quanto riguarda il sistema delle circostanze aggravanti speciali, è opportuno, innanzitutto,
mettere in luce l’elemento comune dell’attribuzione di un fatto determinato e poi passare all’analisi
delle specifiche ipotesi riguardanti rispettivamente ingiuria e diffamazione.

L’attribuzione di un fatto determinato

La nozione di “fatto determinato” assume rilievo in diversi contesti nell’ambito dei delitti contro
l’onore. La ratio dell’aggravamento di pena è ravvisato nella maggior carica lesiva che riveste
l’espressione offensiva. L’attribuzione di uno specifico fatto non può che presentare un maggior
disvalore. Il problema vero è quello di isolare i caratteri in grado di distinguere un “fatto
determinato” dall’attribuzione, ad esempio, di una mera qualifica. Dare una nozione unitaria di
“fatto determinato” risulta difficile alla dottrina.

Secondo un tradizionale orientamento il fatto sarebbe determinato allorchè venga descritto


seguendo le indicazioni delle categorie aristoteliche del modo, del tempo, del luogo, della persona,
ecc. C’è poi un altro orientamento, meno rigido, incline a ravvisare l’aggravante qualora il fatto
risulti individuabile e presenti una certa concretezza e credibilità, tali da giustificare il più grave
trattamento sanzionatorio. Infine, ci sono coloro che , pur ammettendo l’impossibilità di esigere una
descrizione minuta del fatto, fanno leva sulla ricorrenza dei caratteri della storicità ed irripetibilità
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del fatto per ricostruire una nozione unitaria del fatto determinato  separazione tra il concetto di
“qualifica” – che rimanda a giudizi di valore – e la base fenomenica dell’aggravante – che allude a
dati della realtà e presuppone il ricorso a modelli descrittivi idonei ad aiutare l’interprete ai fini
dell’individuazione del fatto medesimo –.

Si esclude la ricorrenza dell’aggravante in presenza di accadimenti, ancorchè specifici, paradossali


e oggettivamente impossibili (cioè che appaiono privi di qualsiasi elemento di concretezza).

L’ingiuria commessa in presenza di più persone

Commettere l’ offesa in presenza di più persone è l’altra aggravante dell’ingiuria. La ratio


dell’inasprimento sanzionatorio è da ravvisarsi nella “maggior lesività quantitativa”.

Un’ipotesi particolare legata alle modalità di realizzazione dell’ingiuria consentite dallo sviluppo
tecnologico riguarda la comunicazione offensiva inserita in una chat o in un area di discussione cui
partecipi anche la persona offesa. Problema: si tratta di ingiuria aggravata da più persone o
sussiste reato di diffamazione? Chi sostiene che sussiste l’ingiuria aggravata ha sentito obiettarsi
che il riferimento contenuto nell’art. 594 co 2 deve essere letto nel senso di “presenza fisica” di più
persone. Sembra preferibile la soluzione positiva: ricorre la stessa logica seguita dal legislatore nel
classificare come ingiuria (aggravata) un “fatto di diffamazione”, legata alla possibilità di intervento
immediato dell’offeso.

Per l’integrazione della circostanza è necessario che l’agente conoscesse o potesse rendersi
conto della presenza di più persone.

La diffamazione a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario

Quest’aggravante ricorre quando la condotta riguarda, ai sensi dell’ art. 595 co 4, un “Corpo
politico, amministrativo o giudiziario, o una Autorità costituita in collegio”. La ratio dell’inasprimento
di pena risiede nell’esigenza di assicurare tutela all’esercizio delle funzioni pubbliche svolte in
forma collegiale. Oltre a quest’ultimo elemento (condizione essenziale per l’operatività
dell’aggravante), è necessario anche che l’offesa sia diretta all’organo nel suo complesso. l’offesa
non deve essere stata comunicata in presenza delle indicate autorità e nemmeno essere ad esse
direttamente comunicate: in questi casi ricorre l’ipotesi prevista dall’art. 342.

“Corpi politici”: uffici elettorali politici. “Corpi amministrativi”: tutte le autorità collegiali che svolgono
attività amministrative. “Corpi giudiziari”: tutti i collegi investiti di giurisdizione – permanete o
temporanea, comune o speciale –. “Rappresentanze di corpi”: strutture interne collegiali dei corpi
appena richiamati, esercitanti le funzioni ad essi spettanti. “Autorità costituite in collegio”: tutti gli
altri uffici che svolgono una pubblica funzione collettivamente (es: senato accademico di un
ateneo).

La diffamazione a mezzo di stampa, altro mezzo di pubblicità o atto pubblico

L’ipotesi aggravata di cui all’ art. 595 co 3 trova il suo fondamento giustificativo nella particolare
attitudine lesiva del mezzo adoperato in considerazione della sua capacità diffusiva sotto il profilo
spaziale e temporale e, con specifico riferimento alla stampa, in virtù del potere di persuasione.

Per quanto riguarda l’ inquadramento giuridico del mezzo di stampa, è prevalente in dottrina la
qualificazione in termini di circostanza aggravante. E questa aggravante si applica alla stampa
periodica, a quella non periodica e anche a quella clandestina.

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Il primo problema interpretativo ruota intorno alla nozione di “stampa” o “stampato”. La l. n.
47/1948 definisce “stampato” “tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi
meccanici o fisico – chimici, in qualsiasi modo destinati alla pubblicazione”. l’operatività
dell’aggravante è, quindi, subordinata ad una duplice condizione: una oggettiva (modalità e
formazione dello scritto) e un'altra soggettiva (destinazione dello stampato alla pubblicazione). Si
deve dire che la giurisprudenza ha subito fatto uso di una nozione di “stampato” molto ampia
rispetto al dato letterale. Nella stessa legge viene poi contemplato un trattamento sanzionatorio più
grave nel caso di diffamazione a mezzo stampa consistente nell’ attribuzione di un fatto
determinato.

La diffamazione a mezzo di stampa ha natura di reato istantaneo, come l’ipotesi semplice, e le


condotte successive alla prima potranno eventualmente rilevare sul piano della commisurazione
della pena. Un nodo problematico attiene all’individuazione del momento consumativo della
diffamazione a mezzo stampa (rilevante per determinare la competenza territoriale). Secondo un
primo indirizzo, la consumazione coinciderebbe con la diffusione dello stampato; secondo un altro
orientamento, prevalente, in reato si consumerebbe nel luogo della semplice stampa dello scritto;
infine, per un altro orientamento il momento consumativo andrebbe ravvisato nella reale
distribuzione dello stampato (dal momento che in assenza di questo presupposto mancherebbe
proprio la pubblicità). La giurisprudenza ha confermato il secondo orientamento, adottando il
criterio della prima diffusione dello stampato, intesa in senso potenziale, cioè nella ragionevole
presunzione che, una volta uscito lo stampato dalla tipografia, si verifichi l’immediata possibilità
che esso venga letto da terzi. Nell’ipotesi in cui non dovesse essere possibile determinare la
competenza sulla base di questo criterio (che di fatto altro non è che il criterio generale del locus
commissi delicti ex art. 8 cpp), si è sottolineato in giurisprudenza e in dottrina la necessità di fare
riferimento al primo criterio suppletivo dettato dall’art. 9 cpp (cioè il luogo in cui è avvenuta una
parte dell’azione o dell’omissione).

Nell’ambito dell’aggravante in esame rientra anche la diffamazione commessa “con qualsiasi


altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico”. La categoria “altri mezzi di pubblicità” si
connota in negativo rispetto al mezzo della stampa quanto a modalità di formazione. Analogo
dovrà essere il carattere di diffusività. In quest’ambito si fanno solitamente rientrare la televisione,
le comunicazioni via internet, i canti e i discorsi in pubblico, le circolari dirette ad un numero
indiretto di persone, ecc. Quanto al secondo gruppo, “atto pubblico”, si intende quello che sia tale
ai sensi della legge ma anche destinato alla pubblicità.

La diffamazione a mezzo di internet

Tenuto contro delle potenzialità comunicative di internet (invio di una e – mail, partecipazione a
forum di discussione, newsgroup, chat line, immisione di contenuti sul web), è possibile che si
configurino fatti di diffamazione. A tal proposito si è subito posta la questione della possibilità di
estendere la disciplina in tema di stampa. La dottrina sul punto si è subito schierata in senso
contrario, argomentando sulla base della nozione di stampa o di stampato della legge sopra
richiamata. Infatti, si è rilevato come, nel caso di internet, manchi una riproduzione con mezzi
meccanici o fisico – chimici. Estendere la disciplina civilistica ed amministrativa, nonché penale, in
tema di stampa costituirebbe un interpretazione analogica in malam partem.

Invece, è ricorrente il carattere di diffusività della comunicazione, che comporta l’applicabilità


dell’aggravante di cui all’art. 595 co 3. L’aggravante ricorrerà, quindi, nel caso di immissione in
pagine web, blog, new group. Un problema particolare si è posto in relazione alle offese arrecate
tramite il social network face book. L’argomento di fondo utilizzato dalla giurisprudenza per
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qualificarlo come mezzo di pubblicità (era il nodo problematico maggiore) è quello secondo cui, in
caso di scritti postati nel proprio profilo “aperto”, l’accesso è consentito ad una platea indeterminata
di utenti tramite la sola registrazione al social network; mentre in presenza di notizie riservate ai
soli “amici” queste sono, comunque, rivolte ad una cerchia ampia di soggetti. Inoltre, attraverso
determinate attività in rete, è possibile mettere in atto il c.d. “tagging”, cioè copiare foto o messaggi
pubblicati in bacheca o nel proprio profilo (diffusione incontrollata).

A modificare il panorama è intervenuta la l. n. 61/2002, in materia di editoria e prodotti editoriali,


che ha dato una definizione di “prodotto editoriale” ricomprendente quello realizzato “su supporto
cartaceo, ivi compreso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o,
comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o
attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o
cinematografici”. Alla luce di questo intervento normativo si è creato un contrasto giurisprudenziale
e dottrinale. C’è stato chi ha ritenuto applicabile ad internet la disciplina sulla stampa, anche in
relazione al versante penalistico, e chi, invece, ha sostenuto che la definizione data di “prodotto
editoriale” assumesse rilievo solo ai fini dell’accesso alle provvidenze pubbliche previste dalla
normativa in oggetto  sul punto è intervenuta una norma di interpretazione autentica (art. 7
d.lgs. n. 70/2003) secondo cui la “registrazione della testata editoriale telematica è obbligatoria
esclusivamente per le attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle
provvidenze previste dalla l. n. 62/2001”. L’orientamento applicativo oggi è quello di escludere
l’assimilazione di internet ai mezzi di stampa.

Un altro profilo problematico affrontato sia in dottrina che in giurisprudenza attiene alla
responsabilità del provider rispetto ai darti immessi. Il problema di fondo è verificare sde e a quali
condizioni possa rispondere il provider per i materiali immessi sul server da lui gestito ed
eventualmente a quale titolo. Le alternative percorse sono quelle del (i) ricorso all’art. 57 co in
tema di omesso controllo da parte del direttore di stampa periodica oppure l’utilizzo (ii) del
meccanismo concorsuale o, infine, (iii) della clausola generale di incriminazione di cui all’art. 40
cpv cp. La possibilità che il provider possa rispondere secondo lo schema dell’autoria o della
partecipazione non è posta in dubbio. Si tratta, comunque, di ipotesi marginali in cui è possibile, in
conclusione, ricondurre il messaggio diffamatorio al provider o, comunque, dimostrare che costui
abbia consapevolmente fornito l’accesso a dati illeciti da altri immessi in rete.

Più problematica risulta essere l’applicazione dell’art. 57 cp ad internet. La questione si è posta a


seguito di una pronuncia di merito in cui la posizione del gestore di un blog veniva ritenuta del tutto
equiparabile a quella di un direttore responsabile di una testata giornalistica sul presupposto che
esso ha il totale controllo di quanto viene postato e ha il dovere di eliminare ciò che è offensivo.

Per quanto, invece, riguarda la possibilità di un eventuale responsabilità del provider ex art. 40 cpv
per non aver impedito la commissione di reati – nella specie diffamazione – da parte di un utente,
si deve subito rilevare la difficoltà di individuare la fonte dell’obbligo di impedimento del provider.
La dottrina, quindi, ha subito escluso un generalizzato obbligo del provider di controllo preventivo
delle comunicazioni. È da sottolineare che attualmente non esiste nella legislazione vigente una
disposizione che fondi la posizione di garanzia del provider. Rafforza questa lettura lo stesso d.lgs.
n. 70/2003, il quale prevede unicamente obblighi di informazione e comunicazione all’autorità
giudiziaria.

Un ultima questione problematica è quella relativa al momento consumativo della diffamazione


a mezzo di internet. Secondo un primo orientamento, il momento consumativo coinciderebbe non
con quello di immissione in rete del materiale offensivo, ma con quello successivo di effettiva
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percezione di esso da parte di terzi. Secondo un orientamento di segno opposto, si colloca, invece,
l’indirizzo di coloro che intendono anticipare il momento consumativo all’atto di immissione sul sito
web del materiale offensivo. In dottrina taluno ha affermato che non occorre l’effettiva lesione o
messa in pericolo della reputazione altrui e che, quindi, la soglia della rilevanza penale sarebbe
oltrepassata quando il fatto – immissione dei dati in internet si espanda in quella specifica
relazione comunicativa con soggetti esterni non appena il contenuto dei dati sia tecnicamente
disponibile all’accesso di un pubblico indeterminato di utenti su uno o più servers collegati.

La diffamazione a mezzo radiotelevisione

L’ art. 30 co 4 l. 223/1990 ha previsto che “nel caso di reati di diffamazione commessi attraverso
trasmissioni consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato, si applicano ai soggetti di cui al
comma 1 le sanzioni previste dall’art. 13 della l. 47/1948”. Rimane comunque una differenza di
tutela, a seconda delle modalità di realizzazione della condotta diffamatoria. Per un verso,
l’art. 30 circoscrive espressamente il suo campo di incidenza alle ipotesi di attribuzione di un fatto
determinato (trovando applicazione, per il resto, l’art. 593 co 3); per altro verso, si assiste ad una
limitazione della cerchia dei possibili soggetti attivi.

I soggetti richiamati dall’art. 30 nel co 4 mediante il rinvio al primo comma, sono solo il
concessionario privato o la concessionaria pubblica o, infine, la persona delegata al
controllo della trasmissione e non anche l’autore immediato della diffamazione (sottoposto al più
immediato art. 595 co 3).

Altro problema che si è posto è quello della estensione della responsabilità per omesso controllo
del direttore della testata giornalistica televisiva, tenuto conto che l’art. 10 della legge 223 ha
esteso ai telegiornali e giornali radio l’obbligo di registrazione della testata, considerando i direttori
di essi come direttori responsabili. A fronte di alcune voci favorevoli ad una estensione della
disciplina di cui all’art. 57 cp, era stato segnalato l’ostacolo rappresentato dal rispetto del principio
di legalità. Se si analizza, poi, la casistica giurisprudenziale in punto di responsabilità del
conduttore, dell’editore o della persona delegata al controllo rispetto a fatti di diffamazione
commessi nel corso di una trasmissione televisiva, emerge una distinzione di fondo tra
trasmissioni in diretta e in differita.

Per quanto attiene le trasmissioni in diretta è condivisibile l’orientamento applicativo che tende ad
escludere profili di responsabilità in capo ai soggetti che abbiamo menzionato sopra data
l’impossibilità di impedire il comportamento diffamatorio o, comunque, di intervenire a porre
rimedio/circoscrivere gli effetti lesivi. Invece, per quanto riguarda le trasmissioni in differita non
sembrano sussistere ostacoli a che si configuri una responsabilità nei confronti di chi, consapevole
del contenuto lesivo, proceda a mandarle in onda (a condizione, però, che sia data prova del dolo
di costui).

Il legislatore ha fissato la competenza a conoscere dei reati di cui al comma 4 in capo al giudice
del luogo della residenza della persona offesa.

Le cause di giustificazione comuni

Profili generali
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Le figure di cause di giustificazione che più spesso ricorrono sono: la legittima difesa, il
consenso dell’avente diritto e l’ adempimento ad un dovere.

L’esercizio di un diritto

La scriminante dell’esercizio di un diritto riveste un ruolo centrale nell’ambito dei delitti contro
l’onore. Al suo interno rientrano la raccolta e la diffusione di informazioni commerciali da parte di
agenzie di collocamento ad esempio, l’esercizio del diritto di difesa nelle sue varie manifestazioni,
l’esercizio dello jus corrigendi nell’ambito del rapporto genitore – figlio, la facoltà di censura
derivante dall’appartenere ad un associazione e molti altri. Ciò che conferisce una posizione di
particolare rilievo a questa scriminante è il suo porsi come punto di riferimento sistematico –
codicistico dei diritti di cronaca e critica. Tali diritti sono a loro volta espressione della libertà di
stampa, ricondotta all’art. 21 Cost. che garantisce il diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione. Quindi, è il diritto di libera
manifestazione del pensiero che rende leciti comportamenti conformi al tipo legale della
diffamazione. Il problema di fondo è quello di individuare criteri in grado di indirizzare l’interprete
nella risoluzione di possibili conflitti tra libertà di manifestazione del pensiero ed onore (entrambi
beni radicati in Costituzione). I canoni regolatori del diritto di cronaca e critica sono stati individuati
nella verità dei fatti, nell’ interesse pubblico – sociale alla loro diffusione e nella continenza
delle modalità espressive.

Diritto di cronaca e limiti

Il diritto di cronaca è stato definito come il “il diritto di raccontare accadimenti reali per mezzo della
stampa in considerazione del loro interesse per la generalità dei consociati”. Per quanto riguarda la
titolarità di questo diritto sembra preferibile la tesi che la attribuisce a ciascun individuo. La stessa
giurisprudenza ha avuto modo di ribadire che il diritto di cronaca e critica spetta ex art. 21 Cost.
“ad ogni individuo “uti civis” e non solo ai giornalisti o chi svolge professionalmente attività di
informazione”. Il tema centrale relativo a questo diritto è quello sui suoi limiti che, come vedremo,
hanno ricevuto una prima cristallizzazione nella sentenza della Cassazione civile sul c.d.
“Decalogo del giornalista”.

1. Il limite della verità


Uno dei nodi maggiormente più problematici all’esercizio del diritto di cronaca attiene alla
nozione di verità. La contrapposizione di fondo è tra un accezione di verità in senso
oggettivo e una, invece, più ampia in grado di ricomprendere la semplice verosimiglianza
della notizia. A quest’ultima impostazione – per la quale sarebbe sufficiente accertare la
verosomiglianza della notizia diffusa per rispondere alle esigenze di rapidità
dell’informazione – si obietta di attenuare il controllo, proprio in relazione a notizie che, per
la particolare provenienza, risultano dotate di maggiore credibilità. Si opta così per la prima
impostazione: corrispondenza tra il narrato e l’oggettivamente accaduto. È stata quindi
negata l’esistenza di fonti privilegiate.

L’attenzione si è poi spostata sulle modalità di utilizzo delle fonti informative e, quindi, sul
terreno delle verifiche cui sottoporre la notizia. Il momento di sintesi viene ricercato in un
accordo sulla discriminazione tra fonti attendibili e fonti inattendibili. Da qui il rifluire del
concetto di verità verso la sua dimensione “putativa”. Muovendosi dall’art. 51 cp si
procede alla conseguente estensione della disciplina generale in materia di cause di
giustificazione. In virtù dell’art. 59 ult. co si esclude la rilevanza penale della condotta del
giornalista che, pur avendo eseguito ogni opportuno accertamento sulla verità della notizia
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e reputato vero quanto appreso, abbia riportato informazioni non coincidenti con il reale
andamento dei fatti. È su queste basi che si è sviluppato il filone applicativo secondo cui il
giornalista potrà invocare l’esimente putativa del diritto di cronaca quando abbia assolto
l’onere di scegliere le fonti con grande oculatezza, esaminandone l’attendibilità e
controllandone i fatti appresi.

Alla luce di ciò devono essere fatte delle considerazioni di fondo.

In primis si deve evitare una sovrapposizione dei piani di verifica: il requisito della verità
quale componente ineliminabile di una legittima manifestazione di pensiero non può che
presentare una componente oggettiva e su questo terreno ne andrebbe verificata la
sussistenza.

Quanto al meccanismo di accertamento della scriminante nella sua dimensione


putativa, il condizionare la scusabilità della condotta del giornalista ad una verifica
scrupolosa delle fonti, si scontra con la natura dolosa del delitto di diffamazione. Il processo
di accertamento dell’elemento soggettivo è qui compiuti mediante lo strumento concettuale
tipico della colpa: il giornalista che nell’accertare la verità della notizia non si sia attenuto al
grado di diligenza richiesto dovrà rispondere a titolo di diffamazione (reato doloso)  il
risultato è quello di rendere la diffamazione una fattispecie mista dal punto di vista
dell’elemento soggettivo. A dispetto dell’indirizzo prevalente in sede applicativa, il dettato
dell’art. 59 ult. co, in virtù del quale il “convincimento” dell’agente circa la sussistenza della
situazione scriminante esclude sempre la responsabilità a titolo di dolo, potendo residuare
una responsabilità a titolo di colpa – sempre che il fatto sia previsto dalla legge come delitto
colposo –, dovrebbe condurre ad un riconoscimento della scriminante putativa giù sul
presupposto della prova dell’errore in cui è incorso l’agente, senza indugiare sul problema
della sua evitabilità/rimproverabilità. Si tratta di spostare il ragionamento sul terreno della
“scusabilità” della condotta del giornalista sul campo (più proficuo) dei presupposti di
esistenza della scriminante putativa. L’idea alla base dell’art. 59 ult. co è infatti quella di
subordinare la non punibilità del giornalista all’esistenza di un positivo convincimento
circa la sussistenza di una causa di giustificazione. In questa prospettiva viene meno il
timore di accordare rilievo scusante al mero stato di dubbio. In sede processuale, si pone
però il problema del riscontro della sussistenza di una situazione di errore in cui il
giornalista sia incorso. Si tratterà di verificare se quell’agente concreto, nelle circostanze
concrete nelle quali si è trovato ad agire, si fosse davvero persuaso della situazione
scriminante.

Abbiamo una recente pronuncia della Cassazione che segna un momento di rottura nel
panorama applicativo. In una vicenda riguardante la pubblicazione si un quotidiano a
diffusione nazionale della notizia della condanna di un primario ospedaliero per i delitti di
abuso di ufficio e falso in atto pubblico. Il primario, in realtà, era stato prosciolto per
amnistia nella maggior parte delle accuse ed era stato condannato in relazione ad un unico
episodio di abuso e falsificazione delle cartelle cliniche, commessi per coprire degli errori
professionali attribuibili a due suoi aiuti ospedalieri. Il giornalista, nel dare conto di questa
vicenda, aveva posto la sentenza di condanna in relazione ad un episodio di dirottamento
di un paziente, dal quale il medico era stato prosciolto. Quindi il medico lo aveva querelato.
La Corte prendendo spunto dalla qualificazione in termini colposi dell’errore del giornalista
sulla “veridicità della notizia” operata dai giudici di merito perviene ad una sentenza di

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assoluzione sul presupposto che “l’errore colposo sulla causa di giustificazione esclude la
colpevolezza quando il reato contestato non è punibile a titolo di colpa”.

Infine, alcuni punti di contatto con il tema dei margini “tollerabili” di discostamento della
notizia dai fatti li presenta il tema della “verità putativa”. Il problema riguarda i casi di notizie
incomplete, di mezze di verità o di accostamenti di fatti di per sé veri ma in grado di
generare nel lettore una visione non corretta di una data vicenda. In questi casi il criterio
direttivo elaborato dalla giurisprudenza è di considerare irrilevanti e, quindi, non capaci di
incidere sulla verità della notizia, le modeste e marginali inesattezze che concernono
semplici modalità del fatto e che non ne modificano la struttura.

2. Il limite della pertinenza


Si tratta del secondo limite posto all’esercizio del diritto di cronaca: interesse pubblico alla
conoscenza del fatto. Questo requisito pone in evidenza la dimensione pubblicistica della
cronaca, quale “dovere sociale della stampa di informare il pubblico”. Viene in rilievo la
funzione di orientamento e di formazione dell’opinione pubblica tipica della cronaca, così
che i cittadini possano fare delle scelte consapevoli in campo politico, culturale, scientifico,
religioso, ecc.

Il presupposto di questo limite è l’attitudine della notizia a soddisfare una oggettiva


esigenza di informazione pubblica (concetto diverso dal mero interesse pubblico). Questo
requisito dell’interesse pubblico deve essere valutato con particolare rigore in presenza di
vicende private tenendo conto che, in caso di personaggi che rivestono ruoli pubblici,
anche fatti privati possono assumere interesse sociale nella misura in cui siano idonei a
valere come indici di valutazione rispetto all’esercizio delle funzioni.

3. Il limite della continenza


È l’ultimo limite e riguarda la modalità di esposizione dei fatti. Più precisamente, indica “il
necessario rapporto di proposizione tra i fatti narrati e le modalità espressive adoperate,
nonché la serenità e obiettività di queste ultime”. Lo spazio proprio della continenza è
quello della garanzia di un equilibrio nell’esposizione dei fatti, nel senso di evitare l’uso di
termini che siano sovrabbondanti rispetto al concetto da esprimersi e di evitare affermazioni
o toni inutilmente offensivi. Infine, in ambito applicativo si è sottolineata la necessità che
l’accertamento del requisito della continenza sia compiuto avuto riguardo non solo del testo
letterale dell’articolo, ma anche dell’informazione complessiva rappresentata dal titolo, dalla
veste grafica e dal modo di presentazione.

4. L’intervista giornalistica
È una particolare forma di comunicazione in relazione alla quale si è posto il problema
della delineazione di un proprio statuto. Dopo visioni contrastanti tra loro, la Cassazione
enunciò che la scriminante della cronaca non ricoresse qualora le affermazioni fossero
palesemente false o comunque il giornalista no le avesse in alcun modo controllate.

Il quadro si complicò nuovamente a seguito di due pronunce di segno diametralmente


opposto tra loro emesse a distanza di pochi mesi l’una dall’altra. Nella prima fu sancito il
principio secondo cui nell’intervista i tradizionali limiti della verità, della pertinenza e della
continenza assumerebbero connotazioni peculiari, ad iniziare dal loro punto di incidenza,
rappresentato dal “fatto in sé” dell’intervista e non dagli accadimenti riferiti dall’intervistato.

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Nella seconda, invece, la Cassazione tornò sui suoi passi, affermando che non può
assolutamente ritenersi rispettato il limite della verità solo perché vi sia una corrispondenza
tra il fatto riferito dall’intervistato e quello pubblicato dal giornalista. Inoltre, aggiunse anche
che l’intervista giornalistica non serve per riprodurre in modo asettico il pensiero
dell’intervistato, ma costituisce proprio un occasione di conferma delle opinioni del
giornalista. In questo modo giunse alla conclusione che nel caso dell’intervista non ricorre il
diritto – dovere dell’informazione essendo che è lo stesso giornalista a creare l’evento.

Intervennero così le Sezioni Unite. Esse aderirono alla preoccupazione di essere in


presenza di un delicato bilanciamento tra interesse della collettività alla conoscenza delle
informazioni di interesse pubblico e diritto dei soggetti menzionati nell’intervista alla tutela
del loro onore e della loro reputazione. Ecco che, da un lato, viene rifiutata la possibilità che
il giornalista, una volta accertato il “peso pubblico” di un personaggio, sia esente da
responsabilità; dall’altro lato, precisa che l’opposto orientamento non può essere
pienamente condivisibile perché istituirebbe un legame indissolubile tra intervista e diritto di
cronaca. I giudici, quindi, hanno preferito una soluzione intermedia, fissando una griglia di
principi. Le direttrici di fondo sono 3:
- rilievo pubblico del personaggio che deve essere desunto dalla sua notorietà (si
parla di “posizione di altro rilievo dell’intervistato”)
- imparzialità del giornalista
- argomento oggetto dell’intervista e contesto generale in cui viene rilasciata.

Questi indici, da valutarsi in relazione al caso concreto e nel loro complesso, devono
evidenziare la sussistenza di profili di interesse pubblico all’informazione, tali da prevalere
sulla posizione soggettiva del singolo, così che l’intervista assuma il carattere di un evento
di pubblico interesse.

Uno “statuto” in parte ancora diverso è invece stato delineato di recente in materia in
intervista televisiva. I criteri sopra esposti in relazione all’intervista giornalistica sono
chiaramente utilizzabili solo laddove l’intervista (televisiva) sia in differita, mentre nel caso
di intervista diretta la Corte ha ritenuto di doversi escludere la responsabilità del giornalista
per l’inesigibilità di un qualunque controllo da parte della sua notizia. Tuttavia, individua
comunque due “obblighi” in capo all’intervistatore:

- attenzione in eligendo nel senso di adottare una qualche cautela nei limiti del diritto –
dovere di informare ed evitare di dare la parola a persone che prevedibilmente – magari
sulla base di qualche precedente performance diffamatoria – non rispettino i limiti del
diritto di cronaca o critica
- dovere di intervenire nel corso dell’intervista se si rende conto che l’intervistato sta
eccedendo i limiti della continenza o sconfinando in settori di nessuna rilevanza
sociale.

Diritto di critica e limiti

Il diritto di critica consiste nell’espressione di un giudizio motivato e argomentato su vicende


relative ai vari settori della vita. Anch’esso trova copertura nell’art. 51 cp, ma ancor prima e come il

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diritto di cronaca, è considerato una diretta emanazione della libertà di manifestazione del
pensiero. Infatti, la funzione del diritto di critica è quella di informare e, allo stesso tempo, formare
l’opinione pubblica. Il problema maggiore riguarda la possibilità di sottoporre il diritto di critica ai
medesimi limiti della cronaca. La questione investe principalmente il requisito della verità dei fatti:
sembra mal conciliarsi con la natura essenzialmente valutativa dall’attività di cronaca. A questo
proposito si distingue una critica “teoretica” da una critica “fattuale”. La prima, basandosi su
idee prive di riferimenti a vicende e a persone, non incontrerebbe limiti; la seconda, fondandosi su
fatti, sarebbe sottoposta alle stesse condizioni del diritto di cronaca. Non si deve, quindi, escludere
a priori l’operare dei limiti posti all’esercizio del diritto di cronaca. Altra cosa è prendere atto del
diverso modo di atteggiarsi dei vari requisiti, data la diversa natura della cronaca e della critica.

1. Il limite della verità


Il canone della verità è quello che presenta caratteristiche più peculiari, non potendosi
infatti pretendere che la critica – espressione di un giudizio – sia riducibile in termini di
verità o di falsità. È chiaro che la verità della vicenda commentata debba costituire un
necessario presupposto anche della critica laddove sia “fattuale”; se prescindesse da
questo requisito, si ricadrebbe nella pura invenzione. Non si devono confondere i termini
della questione: la critica, in quanto tale, non può che essere soggettiva, ma deve
prendere spunto da fatti realmente accaduti.

2. Il limite della pertinenza


Il limite dell’interesse pubblico non presenta differenze sostanziale tra esercizio del diritto di
cronaca e di critica. In particolare, si richiede la ricorrenza dell’estremo della rilevanza
sociale del fatto e/o della persona oggetto del giudizio. Il giornalista, attraverso
l’elaborazione di valutazioni critiche, esprime l’aspetto più significativo del proprio lavoro.
Questo aspetto assume particolare rilievo in ambiti come quelli politico e giuridico.

3. Il limite della continenza


Il requisito della continenza nel diritto di critica può essere definito come necessario
rapporto di proporzione che deve instaurarsi tra il fatto oggetto di critica e il tenore della
stessa. In questo contesto la continenza assume maggiore rilevanza ed è il limite che
presenta i tratti di più marcata differenziazione rispetto al diritto di cronaca, in quanto la
critica – essendo fondata su una componente valutativa – gode di una maggiore libertà
dialettica. Quindi, si ammette anche l’uso di un linguaggio vivace, ironico, polemico, aspro
e pungente.

Il settore più delicato è quello della critica politica. Si è identificata la vera soglia da non
oltrepassare nell’attacco personale diretto a colpire, su un piano individuale, prescindendo
da ragioni di interesse pubblico, la figura morale del soggetto criticato. Vedi punto seguente
(4).

4. In particolare: critica politica


Nell’ambito politico si registra la tendenza ad una estensione dei tradizionali confini della
critica, data l’importante funzione di orientamento e di sensibilizzazione dell’opinione
pubblica. Il requisito in maggiore tensione è quello della continenza, considerando anche
che con riferimento al settore politico si tiene sussistente l’estremo dell’interesse pubblico
mentre la verità non viene in rilievo. Il riconoscimento o meno della scriminante spesso si
gioca sul terreno delle modalità espressive. Si consente quindi, come già detto, l’uso di un

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tono aspro, pungente, ironico, che può diventare polemico e violento (pensa alle elezioni
elettorali). In confine estremo è identificato dalla giurisprudenza in una formula:
“espressioni gratuite”, “utilizzo di argumenta ad hominem” che sono intese a screditare
l’avversario mediante l’evocazione di una sua presunta indegnità o inadeguatezza
personale. La linea seguita dalla giurisprudenza è quella di un maggior tasso di
controllabilità, nel senso di escludere la critica ogni qual volta il fatto non sia vero.

Le difficoltà riemergono laddove la prassi applicativa è chiamata a confrontarsi con giudizi


critici. Un primo indicatore che anche in questo caso può risultare utile è valutare se i
giudizi critici poggino su una specifica base fattuale, nel complesso vera.

Una volta verificata la base fattuale dell’apprezzamento, il problema si sposta interamente


sulla continenza e, quindi, sui contenuti da dare alla chiave interpretativa forgiata dalla
giurisprudenza. Alla luce della “desensibilizzazione” del linguaggio le difficoltà risiedono nel
ruolo decisivo svolto da un requisito – quale appunto quello della continenza – che ha dei
confini estremamente mobili e in continuo allargamento. A questo riguardo sono di
particolare interesse i richiami operati dalla Cassazione alla giurisprudenza della CEDU: i
due termini del giudizio di bilanciamento sono stati identificati nella tutela della reputazione
dell’uomo politico, da un lato, e nell’utilità della libera discussione delle questioni politiche ,
dall’altro.

5. Critica giudiziaria
Le tendenze illustrate in tema di critica politica sono presenti anche nella materia
giudiziaria, seppur con alcuni aggiustamenti. In linea di massima si registra qui un indirizzo
interpretativo improntato a maggior rigore in quanto si è in presenza dell’esercizio di
funzioni pubbliche, ma caratterizzate da un dovere di riservatezza in capo a chi le esercita.

Le direttrici di fondo in cui ci si imbatte sono le medesime sopra richiamate. Così, in


particolare, per quanto attiene, in presenza di specifici addebiti, l’esigenza che i fatti a base
della critica siano veri, nonché, in relazione ai confini della continenza, il richiamo costante
al gratuito insulto, quali indicatori della non ricorrenza della scriminante.

Il primo aspetto assume un ruolo centrale nei casi in cui si contesti al magistrato (pm)
l’utilizzo per fini politici delle proprie indagini. Questa accusa richiede la sussistenza di una
puntuale base fattuale o comunque la necessità che il nucleo essenziale dei fatto non sia
strutturalmente travisato o manipolato. Qualora questa verifica dia esito negativo, la
giurisprudenza tende a qualificare la contestazione come un “attacco alla sfera personale
della persona”, facendo rifluire sul piano della continenza rilievi più attinenti al requisito
della verità del fatto oggetto di critica. La prospettiva seguita dalla Cassazione è quella di
distinguere tra comportamenti degli organi giudiziari che possono essere oggetto di critiche
(anche aspre) e casi in cui, invece, siano qualificati come il risultato di complotti o strategie
politiche. Il parametro è, quindi, quello dell’ attacco gratuito alla persona.

Si deve, però, anche riportare l’indirizzo volto a riconoscere alla critica su provvedimenti e
comportamenti dei magistrati ampi margini di legittimità, in quanto strumento di controllo
democratico del funzionamento delle istituzioni giudiziarie. L’idea della stampa come “cane
da guardia” della democrazia e delle istituzioni – argomento di fondo della giurisprudenza
della Corte europea sull’art. 10 della Convenzione – inizia a far breccia anche sul terreno

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della critica giudiziaria, trovando una compiuta espressione in una nota pronuncia della
Cassazione in cui si sottolineano il ruolo, l’importanza e il particolar modo di atteggiarsi
della critica laddove si incentri sulle modalità di esercizio del potere da parte di istituzioni
pubbliche, anche giudiziarie.

La satira

È una particolare forma di espressione consistente in un messaggio umoristico volto a suscitare


ilarità ed avente ad oggetto di solito personaggi pubblici, spesso realizzata con mezzi grafici, quali
la caricatura, le vignette, i filmati, ecc. Per quanto riguarda il suo fondamento normativo, la
giurisprudenza richiama spesso l’ art. 21 Cost., ma spesso anche gli artt. 9 e 33 Cost., in quanto,
oltre che libera manifestazione del pensiero, è anche espressione culturale e artistica. Tuttavia, si
deve dire che non tutte la manifestazioni satiriche sono riconducibili alla nozione di “arte” di cui
all’art. 33 Cost. e come il richiamo a questa norma possa comportare il rischio di “riconoscere
cittadinanza… alla sola satira erudita e colta”.

Quanto alla “collocazione” della satura nell’ambito delle scriminanti prese in considerazioni fino ad
ora, si registrano pronunce giurisprudenziali incline a fare della satira un diritto distinto da
cronaca e critica, sebbene l’accostamento della satira al diritto di critica sia frequente.

Il punto centrale rimane sempre quello dei limiti al suo esercizio. La giurisprudenza segue dei
percorsi accostabili a quelli in tema di critica, seppure con alcuni adattamenti.

Il requisito che tende ad evaporare è quello della verità, atteso che la satira facendo uso del
paradosso e della metafora surreale si sottrae a questo parametro. Tuttavia, non mancano delle
pronunce in cui si tenta un recupero ella rilevanza del canone della verità laddove la satira si faccia
essa stessa “veicolo di informazione”. Tuttavia, in questi casi, la verifica della legittimità della satira
è operata dalla giurisprudenza più sul piano della continenza che non su quello della verità (come
accade per la critica politica). Il confine da non superare è ancora una volta quello
dell’argumentum ad hominem, del ricorso cioè ad espressioni che non si indirizzino nei confronti
delle idee o delle condotte del soggetto ma che tendano a colpire la persona in quanto tale. Vi
sono poi casi in cui la satira, sotto forma di vignetta o di scritto, assume di per se o per il
collegamento con il “pezzo” giornalistico valenza lesiva, in quanto impiegato per denigrare l’attività
posta in essere da taluno soggetti. In questo caso la giurisprudenza ha istituito una differenza tra
fatti espressi in forma satirica palesemente inverosimili (quelli privi di portata lesiva) e fatti dotati di
apparente credibilità, dovendo la satira in questo caso essere sottoposta ad una più puntuale
verifica del metro della continenza.

Infine, l’altro requisito che caratterizza la satira è quello della pertinenza o rilevanza sociale della
satira. Spesso è proprio questo ad essere considerato come unico vero limite. La giurisprudenza
identifica la pertinenza nella notorietà, nella dimensione pubblica del personaggio oggetto di satira.
Tuttavia, si tratta di un requisito che può esporre al rischio di circoscrivere di fatto la non punibilità
ai soli soggetti che professionalmente svolgono attività di satira, così come di escludere dal suo
campo di incidenza tutta quella gamma di strumenti espressivi diretti a stigmatizzare atteggiamenti
sociali diffusi o rivolti nei confronti di persone che, pur non godendo di particolare notorietà,
possono però assumere un significato emblematico per la collettività.

L’insindacabilità parlamentare ex art. 68 Cost.

Un altro ambito di interferenza con l’operatività dei delitti contro l’onore è rappresentato dall’
insindacabilità parlamentare. Da prendere in considerazione è l’ art. 68 co 1 Cost. che sancisce
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l’irresponsabilità del parlamentare per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni.
Questa disposizione è andata incontro a due interventi di modifica. Prima la legge cost. n. 3/1993,
nell’abolire l’istituto dell’autorizzazione a procedere, ha riformulato il comma 1 sostituendo
l’espressione “non possono essere perseguiti” con la più ampia “non possono essere chiamati a
rispondere”. Poi la legge ordinaria n. 140/2003 ha precisato lo schema processuale di
accertamento dell’immunità. A fronte di questo quadro normativo, si sono registrati una serie di
interventi della CC volti a definire i limiti dell’effettiva vigenza della prerogative di cui all’art. 68
comma 1 Cost.

Nella sent. 1150/1988 CC è stato delineato un meccanismo di accertamento processuale


dell’insindacabilità accostabile a quello che poi è stato codificato. In questa occasione la CC ha
affermato che spetta alla Camera di appartenenza deliberare l’insindacabilità, indicando mediante
delibera le dichiarazioni coperte dalla guarentigia di cui al comma 1 dell’art. 68 Cost. La CC a
questo punto deve, in una prima fase, effettuare una verifica “esterna” della correttezza dell’uso del
potere valutativo delle Camere. Poi prende avvio un secondo momento e a tal riguardo sono
fondamentali le sent. nn. 10 e 11/2000 CC. Con esse è stato definitivamente abbandonata la
logica della verifica “esterna” a favore di un sindacato che si indirizza direttamente al giudizio
valutativo delle Camere. Qui la CC ha precisato che il nesso funzionale tra dichiarazione e attività
parlamentare deve essere inteso non “come semplice collegamento di argomento o di contesto tra
attività parlamentare e dichiarazione, ma come identificabilità della dichiarazione stessa quale
espressione di attività parlamentare  cioè: si deve riscontrare una identità sostanziale di
contenuto tra l’opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata nella sede “esterna”.
In questa logica la CC ha, in particolare, escluso il nesso funzionale tra dichiarazioni extra moenia
di un parlamentare e atti posti in essere da altro membro delle camere e ha anche richiesto che
non intercorra un eccessivo lasso di tempo tra atto parlamentare tipico e dichiarazione extra
moenia.

Ancora più significativi sono gli obiter dicta contenuti in alcune pronunce con cui la Corte ha
iniziato a fissare paletti che riguardano le stesse dichiarazioni rese intra moenia rese dai
parlamentari. Così, ad esempio, quando precisa che la prerogativa parlamentare non può essere
estesa fino a ricomprendere gli insulti o le minacce.

L’ultimo importante momento è rappresentato dalla decisione resa dalla CC di fronte alle norme
attuative dell’art. 68 Cost. ad opera della legge n. 140/2003. Sul versante processuale detta
legge prevede che il giudice ordinario, dinanzi al quale penda un processo penale/civile/ecc, ove
sia stata eccepita o rilevata l’applicabilità dell’art. 68 co 1 Cost., proceda alla definizione del
giudizio. nel caso in cui, invece, ritenga di non accogliere l’eccezione di applicabilità dell’art. 68
Cost. deve senza ritardo emettere un ordinanza non impugnabile con cui trasmettere copia degli
atti alla Camera di appartenenza del parlamentare in modo che si esprima sull’ insindacabilità,
rimanendo il procedimento sospeso per 90 giorni, termine entro cui la camera è chiamata a
pronunciarsi. A fronte di questa modifica la CC si è trovata molto presto a dover sindacare la
legittimità della nuova formulazione dell’art. 68 Cost., alla luce di una serie di parametri, giungendo
così alla sent. n. 120/2004: pronuncia interpretativa di rigetto in quanto la nuova formulazione
dell’art. 68 co 1 Cost. non faceva altro che codificare la logica del nesso funzionale. A questo
punto si avvia un importante canale di comunicazione tra la CC e la Corte europea dei diritti
dell’uomo nella prospettiva di un avanzamento della frontiera di tutela in via giurisdizionale del
diritto fondamentale del singolo alla reputazione rispetto a dichiarazioni parlamentari. Ne risulta
chiaramente che alla base dell’applicazione dell’art. 68 Cost. risiede un problema di

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bilanciamento tra interessi configgenti da contemperare di volta in volta ed in relazione ad
un caso concreto.

Ora, è necessario circoscrivere il problema alle due opzioni che hanno finito per contendersi il
campo. Da una lato abbiamo la qualificazione dell’immunità come causa di giustificazione e
dall’altro come causa di non punibilità in senso stretto. Se siamo in presenza di una causa di
giustificazione, i suoi effetti di regola si comunicano ai concorrenti (art. 119 cp) e non potrà
configurarsi responsabilità per omesso controllo in capo al direttore della testata, atteso che viene
meno il reato – presupposto, difettando l’elemento dell’antigiuridicità. Se, invece, siamo di fronte ad
una causa di non punibilità in senso stretto si arriva all’esito contrario.

Le cause speciali di non punibilità

Il sistema codicistico a tutela dell’onore, infine, si caratterizza per una serie di cause speciali di non
punibilità previste dagli artt. 596, 598 e 599 cp che concorrono a definire l’ambito di operatività dei
delitti di ingiuria e diffamazione

L’exceptio veritatis

L’ art. 596 fissa il principio generale dell’inammissibilità della prova della verità o notorietà del fatto
attribuito alla persona offesa. L’exceptio veritas è stata estesa a 3 casi:

1) se la persona offesa è un pubblico ufficiale ad il fatto ad esso attribuito si riferisce


all’esercizio delle sue funzioni
2) se per il fatto attribuito alla persona offesa è tuttora aperto i si inizia contro di essa un
procedimento penale
3) se il querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o
la falsità del fatto ad esso attribuito.

Un profilo da sottolineare riguarda i rapporti tra le ipotesi di prova liberatoria ex art. 596 cp e i
casi di esercizio di un diritto in base agli artt. 21 Cost. e 51 cp. La giurisprudenza ha ribadito
che, pur non comportando l’entrata in vigore dell’art. 21 Cost. il venir meno di uno spazio di
operatività dell’art. 596, l’ambito di applicazione della disposizione in esame è residuale rispetto
all’esercizio dei diritti di cronaca e critica che, come già visto, si estendono oltre i confini segnati
dall’art. 596.

Premesso che l’addebito offensivo deve consistere nell’attribuzione di un fatto determinato,


vediamo le specificità delle singole figure (secondo l’ordine del codice).

La prima è il deferimento ad un giurì d’onore del giudizio sulla verità del fatto. I presupposti,
oltre al fatto determinato, sono l’accordo delle parti e la circostanza che non sia ancora intervenuta
una sentenza irrevocabile nell’ambito del procedimento avviato a seguito dell’offesa. si tratta di
organo di censura privata. La natura di questa ipotesi emerge dall’art. 597 co 2, secondo cui
l’esercizio di tale facoltà comporta la rinuncia o la rimessione della querela; al comma 3 poi viene
specificato che, nel caso in cui la persona muoia prima del decorso del termine per proporre
querela o dopo la proposizione della stessa o si tratti di offesa alla memoria di un defunto,
l’esercizio di tale facoltà spetta ai prossimi congiunti, all’adottante e all’adottato.

Passando invece ad esaminare le ipotesi in cui è stata ammessa la prova liberatoria, la prima
ricorre allorchè l’addebito riguardi un pubblico ufficiale ed il fatto si riferisca all’esercizio delle sue
funzioni. Non deve trattarsi di incaricato di pubblico servizio e di esercente un servizio di pubblica

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utilità. È ammissibile la prova liberatoria anche se il pubblico ufficiale è nel frattempo cessato della
sue funzioni. Una questione discussa è quella relativa alla possibilità di applicare la previsione di
cui all’art. 596 n. 1 ad entrambi i delitti contro l’onore; problema interpretativo risolto dallo stesso
legislatore che, con il “Pacchetto sicurezza 2009”, ha reintrodotto il delitto di oltraggio a pubblico
ufficiale prevedendo espressamente la prova liberatoria.

La seconda ipotesi si ha allorchè nei confronti della persona offesa sia pendente, in relazione al
medesimo fatto addebitatogli, un procedimento penale. Non è requisito indefettibile che il
procedimento sia già iniziato nel momento in cui il delitto contro l’onore; per contro, è necessario
che il procedimento non si sia già concluso al momento della formulazione dell’addebito offensivo
con una sentenza irrevocabile di condanna o proscioglimento.

La terza ed ultima ipotesi ricorre allorchè il querelante domandi formalmente che il giudizio si
estenda ad accertare la verità del fatto attribuito. La ratio della previsione è da ricercare nella tutela
dell’onore sostanziale della persona offesa. La domanda deve provenire dal querelante e nel caso
di più querelanti è necessario l’accordo di tutti. Inoltre deve essere fatta in modo non equivoco,
senza termini o condizioni, ed è irretrattabile. Si ritiene che possa essere proposta in ogni stato e
grado del processo, prima della sentenza definitiva. Infine, quanto agli effetti dell’accertamento
della verità del fatto, l’art. 596 co 4 stabilisce la non punibilità dell’offensore, sempre che i modi
adoperati non siano di per sé tali da costituire ingiuria o diffamazione. Per il resto è necessario che
vi sia piena corrispondenza tra il fatto accertato e quello attribuito all’offeso.

È controversa la natura giuridica delle ipotesi di exceptio veritas qui richiamate. C’è chi le
qualifica tutte come cause di giustificazione e chi come cause di non punibilità in senso stretto.
Non mancano soluzione ulteriormente differenziate. C’è, infatti, chi esclude una ricostruzione
unitaria delle tre ipotesi, ritenendo le prime due cause di giustificazione e l’ultima causa di non
punibilità.

Le offese in scritti o discorsi pronunciati dinanzi all’Autorità giudiziaria o amministrativa

L’ art. 598 co 1 stabilisce la non punibilità per “le offese contenute negli scritti presentati o nei
discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità
giudiziaria, ovvero dinanzi a un’ Autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto
della causa o del ricorso amministrativo”. Il fondamento di questa disposizione viene ravvisato
nella libertà di discussione e difesa attribuita alle parti e ai patrocinatori nei dibattiti giudiziari per
la tutela dei propri interessi. La configurabilità dell’ipotesi di cui all’art. 598 cp è subordinata alla
sussistenza di una serie di limiti che sono stati letti dalla giurisprudenza nella prospettiva di un
estensione di applicazione della disposizione in esame.

Limiti soggettivi: è necessario che gli scritti o i discorsi provengano dalle parti o dai loro
patrocinatori. Nella nozione di parte rientra il pm, ma non il giudice e si ritiene debba includersi
anche l’indagato (nel corso delle indagini preliminari). Nella nozione di patrocinatore la
giurisprudenza preferisce un interpretazione restrittiva, escludendo i consulenti tecnici (la CC
ritiene questa esclusione assolutamente ragionevole).

Un primo problema interpretativo riguarda l’ipotesi in cui il soggetto non riveste ancora la qualità di
parte in quanto il rapporto processuale non si è ancora costituito. Il caso classico è quello del’atto
di citazione: rispetto ad esso la giurisprudenza ha tradizionalmente escluso l’applicabilità dell’art.
598. La CC ha ritenuto ragionevole la limitazione della disposizione alla sola fase della trattazione
della causa. Tuttavia, questo indirizzo ha subito una prima incrinatura a causa di una pronuncia del
2001 della Cassazione, la quale ha preso le distanze dalla sua precedente giurisprudenza,
62
sottolineando come l’art. 598 “costituisca un applicazione estensiva del più generale principio
fissato all’art. 51 cp, in quanto riconducibile all’art. 24 Cost (…) e si fondi sul rapporto di
strumentalità tra le frasi offensive e le tesi prospettate nell’ambito di una controversia giudiziaria”.
Su queste basi, allora tutti gli atti, anche quelli della fase precedente il dibattimento, devono potersi
ricondurre all’ambito applicativo dell’art. 598. Questo percorso argomentativo è stato confermato e
seguito in successive decisioni. In linea con questo orientamento si pongono varie pronunce che,
ad esempio, hanno ritenuto “coperte” dall’art. 598 cp le affermazioni contenute in un atto di diffida
stragiudiziale.

Si deve sottolineare che, se è necessaria la provenienza della condotta dalle parti o dai
patrocinatori, è possibile che le frasi contenute negli scritti o nei discorsi possano essere dirette
anche a soggetti terzi, purchè sia rispettato il criterio della pertinenza delle espressioni all’oggetto
della controversia.

Limiti oggettivi: è richiesto che le frasi siano contenute negli scritti presentati o nei discorsi
pronunciati nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria o amministrativa. La nozione di scritti
(memorie, comparse, note d’udienza,…) e di discorsi (arringhe, requisitorie,…) non pongono
problemi interpretativi. Invece, maggiori difficoltà esegetiche si pongono in riferimento al fatto che
scritti e documenti debbano “inserirsi” in un procedimento dinanzi all’ Autorità giudiziaria o
amministrativa. Ad esempio, si esclusa la possibilità di invocare l’art. 598 cp nel caso di
affermazioni rese dinanzi ad un consulente tecnico in sede di ispezioni suoi luoghi o di ricorsi
amministrativi proposti in via gerarchica.

Fermo restando quanto detto, i più recenti trend giurisprudenziali si muovono nella direzione di
estendere la portata dell’art. 598 cp.

L’ultimo requisito oggettivo è rappresentato dall’inerenza delle frasi all’oggetto della causa o del
ricorso amministrativo. La c.d. pertinenza delle informazioni comporta che esse devono
riguardare l’oggetto della causa “in modo diretto e non mediato o opinabile”. Questo criterio è stato
interpretato dalla giurisprudenza in modo amplio, nel senso di non richiedere che le affermazioni
siano necessarie o anche solo utili all’esercizio del diritto di difesa o comunque esplichino un
apprezzabile funzione difensiva. Comunque, ci sono anche delle pronunce in cui si recupera la
necessità che le frasi contenute negli scritti o discorsi abbiano una qualche rilevanza funzionale
con le argomentazioni prospettate. Possiamo dire che i limiti dell’art. 598 emergono dalla
giurisprudenza. La cassazione ha evidenziato come il requisito della “pertinenza delle informazioni”
non abbia nulla a che vedere con la veridicità delle stesse, con limite tuttavia dell’attribuzione
consapevole di fatti falsi che comporterebbe la configurazione dell’espressione non più in termini
diffamatori ma calunnosi.

Al comma 2 dello stesso articolo si prevede, infine, che il giudice della causa, nel caso di non
punibilità, sia comunque titolare di poteri sanzionatori e ordinatori. In particolare, può applicare le
sanzioni disciplinari previste dalla legge e dai regolamenti, oppure assegnare una somma di
denaro a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale alla persona offesa, o ordinare la
soppressione o cancellazione di scritture offensive negli atti processuali o, infine, laddove non
risultasse possibile far annotare nella sentenza l’ordine di soppressione o cancellazione.

L’ultimo profilo problematico è rappresentato dalla natura giuridica. In dottrina sono state
avanzate diverse ricostruzioni, inquadrando l’esimente in oggetto come causa di giustificazione o
di esclusione della sola antigiuridicità penale. Attualmente l’indirizzo teorico prevalente è nel senso
della causa di non punibilità in senso stretto. In questa prospettiva si avrebbe un doppio binario di

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tutela. Da un lato, l’esercizio del diritto di difesa ex artt. 24 Cost. e 51 cp che riguarderebbe frasi
vere, necessarie o utili alla difesa e continenti; dall’altro lato, l’art. 598 cp che “coprirebbe”
affermazioni utili alla difesa ma non vere, espressioni vere ma non utili alla difesa ma pur sempre
pertinenti o infine frasi di per sé offensive. Ci sono opinioni differenti tra loro in giurisprudenza.

La ritorsione

L’istituto della ritorsione è previsto dall’ art. 599 co 1 che afferma che nel caso di offese
reciproche, e limitatamente all’ingiuria, “il giudice può dichiarare non punibili uno o entrambi gli
offensori”.

Il presupposto oggettivo è la reciprocità delle offese. Questo requisito, di solito, è inteso nel
senso della necessità di un nesso di dipendenza tra l’una e l’altra ma non anche della
contemporaneità o contestualità delle offese, né della proporzione tra le stesse. La giurisprudenza
sembra essere dello stesso avviso. Tuttavia, al contempo si è anche sottolineata la necessità che,
pur non ricorrendo un rapporto di immediatezza tra le offese, sussista tra le stesse un nesso di
dipendenza tale per cui la seconda offesa sia stata determinata dalla prima. Così si è esclusa
l’esimente nel caso di offesa non legata ad uno specifico ed attuale episodio.

Le offese, poi, devono essere anche ingiuste, così che l’esimente non si applicherà anche nel
caso di chi offende l’autore di un ingiuria scriminata.

Quanto, invece, alla necessità che l’ingiuria sia completa in tutti i suoi elementi costitutivi, si
registra una divisione tra chi opta per una soluzione positiva e chi, invece, ritiene che la
disposizione debba applicarsi anche all’offensore che non abbia proposto querela per le offese
ricevute.

Per quanto riguarda il potere discrezionale affidato al giudice nell’applicazione dell’esimente, in


dottrina si ritiene che debba riservarsi un ruolo centrale alla valutazione della personalità dei
soggetti offensori sulla base dei criteri di cui all’art. 133 cp in punto di capacità a delinquere e
gravità comparativa delle offese.

Infine, per quanto concerne la natura giuridica, vi è molta convergenza di opinioni nel qualificare
questa ipotesi come un caso eccezionale di rinuncia alla potestà punitiva da parte dello Stato,
venendo così meno la volontà punitiva e la necessità di applicare una pena.

La provocazione

L’istituto della provocazione è disciplinato dall’ art. 599 co 2; riguarda le ipotesi di fatti di ingiuria o
diffamazione commessi “nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di
esso” , prevedendosi in questi casi la non punibilità dell’autore. Il tratto di differenziazione
rispetto alla circostanza attenuante della provocazione di cui all’art. 62 n. 2 cp, oltre agli affetti,
è rappresentato dalla “subitaneità” della reazione.

Il primo requisito di questa esimente è l’esistenza di un fatto ingiusto altrui. Per “fatto ingiusto” si
intende non solo quello integrante un illecito civile o penale, ma anche il fatto in genere lesivo di
regole comunemente accettate nella civile convivenza. Il fatto ingiusti altrui deve aver
determinato uno stato d’ira, cioè “un impulso emotivo incontenibile che provoca nell’agente la
perdita dei poteri di auto controllo”.

Infine, è necessario un nesso di derivazione causale tra il fatto ingiusto altrui e la reazione
offensiva dell’agente che deve intervenire “subito dopo di esso”. Quest’ultimo requisito non è
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do facile determinazione. In dottrina e in giurisprudenza si è concordi nel ritenere che
l’immediatezza della reazione debba essere intesa in senso relativo – tenuto conto della situazione
concreta e delle modalità di reazione – richiedendosi il persistere durante il compimento della
condotta dell’accecamento dello stato d’ira e la sussistenza di una reale contiguità temporale tra
quest’ultimo e il fatto ingiusto.

In relazione poi all’ ambito soggettivo di operatività dell’esimente, si ammette la possibilità tanto
che la condotta reattiva provenga da altro soggetto rispetto al destinatario del fatto ingiusto,
quanto che essa si indirizzi a persona diversa dal provocatore. Il primo caso ricorre ogni volta
che, in virtù di particolari vincoli (amicizia, di lavoro, di parentela,…), possa ritenersi l’offesa recata
al soggetto in questione come provocazione nei confronti anche dell’autore della reazione; il
secondo caso, invece, si ha quando il soggetto terzo è legato al provocatore da rapporti tali da
farlo apparire come un suo “nuncius” o comunque da giustificare la reazione offensiva.

Infine, quanto alla natura giuridica della provocazione, ci sono opinioni contrastanti: causa di
giustificazione o causa di non punibilità in senso stretto? O ancora, potrebbe forse trattarsi di una
causa di esclusione della colpevolezza? La qualificazione non sembra porre ostacoli
all’applicazione dell’art. 59 ult. comma in tema di rilevanza del putativo.

I rapporti tra delitti contro l’onore e altre fattispecie criminose

I delitti contro l’onore pongono molti problemi di interferenza con altre figure di reato.

Iniziamo dall’ ingiuria: i problemi principali si pongono con la figura di oltraggio a Pubblico
ufficiale (oggi art. 341 bis cp). Rispetto ai consueti tratti di differenziazione – rappresentati dalla
qualità del soggetto passivo e dal legame con le funzioni svolte dal pubblico ufficiale – il legislatore
del 2009 (che ha reintrodotto il delitto di oltraggio, in precedenza abrogato) ne ha aggiunti di nuovi.
Innanzitutto è richiesto che l’offesa rivesta tanto l’onore che il prestigio del pubblico ufficiale,
quindi si dovrebbe escludere l’applicabilità dell’oltraggio nei casi di offese di taglio esclusivamente
privatistico (ciò in favore dell’ingiuria aggravata ex art. 61 n. 10 cp). Poi, sul piano della struttura
soggettiva, sono stati inseriti una serie di elementi tali da circoscrivere l’ambito di operatività del
redivivo oltraggio. L’offesa deve essere recata in luogo pubblico o aperto e in presenza di più
persone. Sono questi requisiti estranei all’ingiuria. Si precisa poi che l’offesa deve intervenire a
causa o nell’esercizio delle funzioni, che la condotta sia realizzata mentre il pubblico ufficiale
compia un atto di ufficio. Non viene, invece, fatta espressa menzione della presenza del pubblico
ufficiale (tuttavia, sembra essere questo un requisito implicito).

Altri problemi si pongono in relazione alle percosse. A tale riguardo la giurisprudenza ha chiarito
come una percossa o uno schiaffo possano qualificarsi come ingiuria esclusivamente nei casi di
violenza meramente formale tale da non arrecare alcuna violenza fisica, ma esclusivamente
morale.

Ancora, il discrime con il reato di atti osceni è ravvisato nel fatto che il comportamento (nel caso
di specie esibizione di organi sessuali) sia o meno accompagnato da frasi, gesti o atteggiamenti
tali da considerare la condotta espressione di libidine sessuale e tale da offendere il comune
sentimento del pudore. In termini speculari si sono ritenuti sussistenti gli estremi della violenza
sessuale ex art. 609 bis cp (seppur nella forma attenuata di cui all’ultimo comma) in luogo
dell’ingiuria, in caso di toccamenti o sfregamenti sul corpo della vittima.

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Infine, è stato affrontato il tema dei rapporti tra il reato di ingiuria e quello di molestia o disturbo
alle persone, risolvendolo nel senso di concorso tra le due figure, in quanto tra di esse manca un
rapporto di specialità e i beni giuridici protetti sono diversi.

Per quanto, invece, riguarda il delitto di diffamazione, esso può concorrere con il delitto di
calunnia nei casi in cui l’imputato di diffamazione, varcando i limiti imposti all’esercizio del diritto di
difesa, assuma davanti all’autorità giudiziaria iniziative dirette a far condannare il diffamato per un
reato di cui sa essere innocente.

Trattamento sanzionatorio e profili processuali

Il trattamento sanzionatorio dei delitti contro l’onore ha risentito delle novità apportate dal d.lgs. n.
275/2000 in materia di competenza penale del giudice di pace. L’ingiuria, sia semplice che
aggravata, e la diffamazione, anch’essa sia semplice che aggravata, sono state devolute alla
competenza del giudice di pace e, quindi, sono assoggettate al meccanismo di sostituzione
delle pene previsto dall’art. 52 del decreto.

L’ingiuria semplice o aggravata dalla presenza di più persone è punita con la multa da 258 a 2582
euro, mentre per l’ingiuria aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato e per le ipotesi di
diffamazione volute alla competenza del giudice di pace è prevista, in alternativa alla multa, la
pena della permanenza domiciliare da 6 a 30 giorni o del lavoro di pubblica utilità per un periodo
da 10 giorni a 3 mesi.

È al centro del dibattito pubblico il tema del trattamento sanzionatorio previsto per la diffamazione
a mezzo stampa. Rispetto a questa ipotesi permane l’assetto prefigurato dal legislatore del 1930:
nei casi di diffamazione a mezzo stampa consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato
prevede la reclusione da 1 a 6 anni congiuntamente alla multa. Quindi, in assenza di attenuanti o
in ipotesi di prevalenza delle aggravanti, la scelta del giudice è vincolata nel senso di applicare la
reclusione. Il problema si è posto in relazione al Caso Sallusti in cui, a seguito della condanna del
giornalista a 14 mesi di reclusione e alla decisione della Cassazione di non concedere la
sospensione condizionale della pena in virtù dei precedenti del giornalista e della sua capacità a
delinquere, la possibilità che la pena detentiva trovasse esecuzione si è manifestata. In questo
caso, la soluzione è giunta da un provvedimento di clemenza del PdR che ha concesso la grazia,
commutando la reclusione in pena pecuniaria.

Questa vicenda ha rappresentato l’occasione per un primo confronto con la giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo in punto di proporzione del trattamento sanzionatorio per fatti di
diffamazione. I giudici della Cassazione si impegnano nella ricerca e nell’analisi di una serie di
precedenti della Corte di Strasburgo per dimostrare la legittimità dell’inflizione della sanzione
detentiva al giornalista. Tra questi spicca il precedente Cumpana e Mazare c. Romania. Si tratta
di un leading – case, principalmente perché si è avuto un ribaltamento della decisione assunta
precedentemente (nello specifico, la sezione semplice aveva condannato a 7 mesi di reclusione
dei giornalisti nonostante la concessione della sospensione della pena e l’intervento della grazia
presidenziale). La Corte nell’accertare la violazione dell’art. 10 della Convenzione – ritenendo
sproporzionata la sanziona inflitta ai giornalisti, ha modo di ripercorrere la ratio sottostanza alla
scelta compiuta e di prendere posizione sui casi in cui sarebbe legittimo il ricorso alla reclusione.
Sul primo versante, il ragionamento della corte prende le mosse dal riconoscimento della centralità
della libertà di espressione in una società democratica. A venire in rilievo sono i principi che la
Corte di Strasburgo ha avuto modo di sviluppare in particolar modo in tema di diritto di cronaca (e
ancora più in tema di diritto di critica politica e giudiziaria), secondo cui la libertà di manifestazione

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del pensiero deve coprire anche le opinioni che disturbano. In questo contesto ad assumere una
posizione centrale sono proprio i giornalisti, veicoli di trasmissione di informazioni di interesse per i
consociati a strumento attraverso il quale i cittadini possono formare le loro opinioni. Proprio per
salvaguardare il ruolo che la stampa svolge di “cane da guardia” della democrazia la Corte
europea tende a censurare il ricorso a sanzioni, come la reclusione in primis, che potrebbero avere
una funzione di dissuasione nei confronti dei giornalisti dall’esercizio della loro attività. Sul secondo
fronte, la Corte si impegna a precisare come la reclusione rispetto a press offences sia da
ammettere in casi eccezionali, cioè quando altri diritti possono essere seriamente lesi.

Sono molti i casi che inducono la Corte a riflettere sulla portata generalpreventiva che la stessa
previsione e di sanzioni tipo la reclusione può avere sulla libertà di stampa

Merita menzione la recente decisione del 2013 resa sul Caso Belpietro, in quanto, a fronte di un
fatto sicuramente illecito, la condanna del giornalista (in questo caso ex art. 57 cp per omesso
controllo sul contenuto dell’articolo pubblicato) a 4 mesi di reclusione con pena sospesa non
proporzionata, ravvisando una violazione dell’art. 10 della Convenzione. La Corte in questa
occasione si è rifatta completamente all’impianto argomentativo sviluppato nel caso Cumpana
sopra menzionato.

La Cassazione sembra avvicinarsi molto al pensiero della Corte europea.

Un ultimo profilo da prendere in considerazione riguarda il rapporto tra il diritto vivente e le


prospettive di riforma in materia di ingiuria. Per quanto riguarda la diffamazione abbiamo appena
visto come si sia operato nel senso di eliminazione della pena detentiva. Nel caso dell’ingiuria gli
scenari futuri potrebbero essere più radicali. Con la l. n. 67/2014 è stata conferita al governo la
delega per l’abrogazione di una serie di figure di reato contenute nel codice (tra cui l’ingiuria) e la
loro trasformazione in illeciti civili, sanzionati con una sanzione pecuniaria civile aggiuntiva rispetto
al risarcimento del danno. Questa delega sembrerebbe configurare un nuovo binario punitivo.

Passiamo ai profili processuali. I delitti contro l’onore sono procedibili a querela della persona
offesa. Se quest’ultima dovesse morire in pendenza del termine per la proposizione della querela o
si dovesse trattare di offesa alla memoria di un defunto possono proporre querela i prossimi
congiunti, l’adottato e l’adottante.

Riguardo alla competenza per materia, abbiamo già detto della competenza del Giudice di Pace.
Spetta la cognizione della causa al Tribunale in composizione monocratica solo nell’ipotesi di
diffamazione a mezzo stampa (con il filtro dell’udienza preliminare nel caso di diffamazione a
mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato). La sola deroga a questo
assetto è prevista nel caso di ingiuria o diffamazione aggravate (nello specifico aggravate dal fatto
di esser state commesse con finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o
religioso): la competenza in questi casi sarà del Tribunale in composizione collegiale.

Rispetto alle ipotesi di competenza del giudice di pace permane la facoltà per la persona offesa, a
condizione che abbia proposto ricorso diretto al giudice per la citazione a giudizio dell’imputato, di
impugnare anche agli effetti penali le sole sentenze di proscioglimento del giudice di pace negli
stessi casi in cui è ammessa l’impugnazione del pm.

Capitolo IV – L’incriminazione delle moderne forme di schiavitù

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Premessa

Con le tre norme che andremo ad analizzare il legislatore ha incriminato 5 diverse fattispecie:

a) riduzione o mantenimento in schiavitù


b) riduzione o mantenimento in servitù
c) “tratta” di persone in schiavitù o servitù
d) “tratta” di persone libere al fine di ridurle in schiavitù o servitù
e) acquisto o alienazione, al di fuori dei casi di vera e propria “tratta”, di persona che si
trovi in stato di schiavitù o servitù

Poi, con il “Pacchetto sicurezza 2009”, il legislatore ha anche introdotto un nuovo delitto, l’
impiego di minori nell’accattonaggio, che sanziona una forma più lieve di asservimento della
vittima minore di età (salvo che il fatto non costituisca più grave reato). Infine, a completare il
quadro, interviene la norma che incrimina l’ intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro,
volta a reprimere più duramente il fenomeno del “caporalato” e trova applicazione salvo che il fatto
non sia sussumibile all’interno di fattispecie più gravi (es: art. 600).

Le fattispecie criminali in materia di schiavitù e servitù

La nozione di schiavitù e servitù

Per molto tempo la nozione di “schiavitù” è stata dettata dal diritto internazionale, dalla
Convenzione di Ginevra del 1926, ratificata dallo stato italiano nel 1928. Questa disciplina di
contrasto al fenomeno della schiavitù, estendeva, inoltre, la propria portata applicativa anche alle
“condizioni analoghe alla schiavitù” (e anche questa locuzione trova una sua definizione nella
Convenzione di Ginevra). Oggi, dopo le modifiche intervenute con la legge del 2003, attuativa del
GAI (“relativa alla lotta contro la tratta degli essere umani”), il termine “schiavitù o “schiavo” non
compare più nel testo delle norme del codice, ma solo nella rubrica dell’art. 600 e dell’art. 602 cp.
Per definire la fattispecie, il legislatore ha fatto ricorso ad una perifrasi che ricalca la definizione
contenuta nella Convenzione di Ginevra.

Nell’attuale formulazione, la riduzione (o il mantenimento) il schiavitù è definita come “l’esercizio


su una persona dei poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà”  fattispecie criminale di
mera condotta, di natura permanente. Invece, è stata del tutto abbandonata la categoria delle
“condizioni analoghe alla schiavitù”; al suo posto è stata introdotta la fattispecie di riduzione (o
mantenimento) in servitù. Questa fattispecie (art. 600 co 1 seconda parte) consiste nella riduzione
o mantenimento di una persona “in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a
prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività
illecite che ne comportino lo sfruttamento, ovvero a sottoporsi al prelievo di organi”. Si tratta,
quindi, di un evento che deve essere realizzato mediante la condotta descritta dall’art. 600 co 2 ,
cioè “mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfitta mento di una situazione
di vulnerabilità, di inferiorità fisica e psichica o di una situazione di necessità, o mediante la
promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona” 
fattispecie criminale d’evento, a realizzazione istantanea, eventualmente abituabile.

Il legislatore ha previsto espressamente il requisito dello “sfruttamento economico o sessuale”


della vittima solo per la fattispecie di riduzione o mantenimento in “servitù”. Esso, dalla
giurisprudenza della Corte Suprema, è ritenuto un elemento indefettibile, almeno come finalità
perseguita dal reo, anche della fattispecie di riduzione o mantenimento in “schiavitù”.

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La dottrina ha più volte evidenziato come il tentativo di definire i due concetti – al fine di ricostruire
le fattispecie criminali – non soddisfa fino in fondo il requisito della precisione.

Definizione di schiavitù: “reificazione della persona che vede la vittima come una “cosa” da
utilizzare a proprio vantaggio”. È invariata rispetto a quella contenuta della Convenzione di Ginevra
ed è esplicitata solo nel nuovo testo dell’art. 600; è così tanto elastica da rendere difficile la
differenziazione tra la condizione di “schiavitù” e quella di “servitù”.

Definizione di servitù: è una nozione più articolata (art. 600) che si compone di due elementi:

1) riduzione o mantenimento della vittima in uno stato di soggezione continuativa, mediante i)


violenza (610), ii) minaccia, iii) inganno, iv) abuso di autorità, v) approfitta mento di una
situazione di vulnerabilità, vi) di inferiorità fisica o psichica, vii) o di una situazione di
necessità (stato di grave indigenza, assimilabile allo stato di bisogno);
2) costrizione a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al
compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento, ovvero a sottoporsi al
prelievo di organi ( a) la Cassazione ha specificato che questo secondo elemento non
costituisce una ulteriore condotta che l’autore deve porre in essere con violenza o
minaccia, ma costituisce l’effetto della situazione di assoggettamento che è l’evento
dell’azione punita dalla norma; b) quanto alle prestazioni a cui la vittima deve essere
costretta, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che debba trattarsi di
sfruttamento della vittima, cioè utilizzazione della vittima alternativamente a scopo di lucro
ovvero a scopo di libidine; c) “prestazioni sessuali”: non si tratta di attività necessariamente
comprensiva di prestazioni prostituzionali, altrimenti perderebbe di significato l’aggravante
ex art. 602 ter co 1 l. b).

Il bene giuridico oggetto di tutela

Le norme che prenderemo in considerazione tutelano lo status libertatis, quindi “non questa o
quella forma di manifestazione della libertà individuale, bensì il complesso delle manifestazioni che
si riassumono in tale stato”  l’ordinamento vuole garantire tutela al presupposto stesso delle
diverse forme di estrinsecazione della libertà personale. La persona che si trova in stato di
schiavitù o di servitù è sottoposta al potere di un terzo e non è padrona del proprio destino, anche
laddove dovesse continuare a godere di una residuale libertà di movimento. Inoltre, dalla
definizione di “servitù” si deduce che oggetto di protezione da parte delle norme incriminatrici
possono essere anche il patrimonio del soggetto passivo (es: agente che sfrutta il lavoro della
vittima ridotta in stato di soggezione senza corrispondere alcun compenso), la libertà sessuale (es:
costrizione al compimento di prestazioni sessuali), la generica libertà di agire (come effetto del
costringi mento alle prestazioni lavorative/sessuali/di altra natura.

Cinque diversi delitti ma un medesimo quadro edittale

Agli artt. 600, 601, 602 sono incriminate 5 diverse fattispecie, riformulate nel 2003 per dare
attuazione alla decisione quadro del GAI del 2002 e poi nuovamente modificate nel 2014 per dare
attuazione alla direttiva 2011/629/UE.

L’ art. 600 prevede i delitti di:

a) riduzione o mantenimento in schiavitù


b) riduzione o mantenimento in servitù

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Si tratta di fattispecie strutturalmente diverse. Il delitto di “schiavitù” si consuma già con l’esercizio
sulla vittima dei “poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà” e appartiene ai reati
permanenti; il delitto di “servitù”, invece, è un reato di evento (duplice) ed è a forma vincolata.
Quest’ultimo, per essere realizzato, richiede, infatti, che l’agente riduca o mantenga la vittima in
uno stato di soggezione continuativa nei modi descritti dal comma 2, quindi costringerla a una delle
prestazioni indicate. Se la condotta si ripete (es: vittima ripetutamente costretta a compiere
determinate prestazioni) vengono fornite due diverse soluzioni: un primo orientamento ritiene che
si tratti di un delitto permanente, come la riduzione o il mantenimento in schiavitù; un secondo
orientamento, invece, parla di reato eventualmente abituale. Sembra essere preferibile questa
seconda posizione.

L’art. 601 tratta delle fattispecie maggiormente interessate dalla riforma introdotta con d.lgs.
24/2012. La locuzione “tratta di persone” compare solo nella rubrica della norma; nel testo
vengono esplicitate quali sono le condotte di “tratta” rilevanti, cioè:

a) il fatto che chi “recluta, introduce nel territorio dello Stato, trasferisce anche al di fuori di
esso, trasporta, cede l’autorità sulla persona, ospita una o più persone che si trovano nelle
condizioni di cui all’art. 600” (art. 601 co 1 prima parte)  il presupposto è che la vittima si
trovi già nelle condizioni di cui all’art. 600 e che, in quanto tale, venga fatta oggetto di tratta.
La dottrina ha specificato che il rinvio alle condizioni dell’art. 600 implica che sia sufficiente
che la vittima sia uno stato di soggezione continuativa, senza che sia necessario anche
l’avvenuto costringi mento della persona al compimento di determinate prestazioni;
b) il fatto che chi “realizza le stesse condotte su una o più persone, mediante inganno,
violenza, minaccia, abuso di autorità o approfitta mento di una situazione di vulnerabilità, di
inferiorità fisica, psichica o di necessità, o mediante promessa o dazione di denaro o di altri
vantaggi alla persona che su di esse ha autorità, al fine di indurle o costringerle a
prestazioni lavorative, sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di
attività illecite che ne comportano lo sfruttamento o a sottoporsi al prelievo di organi” (art.
601 co 1 seconda parte)  il presupposto del fatto tipico è la condizione di libertà del
soggetto passivo, anticipandosi in questo modo la tutela penale, in quanto l’asservimento
del soggetto è oggetto solo del dolo specifico. A questo riguardo, infatti, la fattispecie in
esame richiede, tra le altre cose, lo specifico fine di commettere i delitti di cui all’art. 600 co
1. Posto che l’asservimento del soggetto è oggetto del dolo specifico, l’eventuale
commissione da parte dello stesso soggetto anche dei delitti di cui all’art. 600 integra un
post factum non punibile.

Se laq vittima è minore degli anni 18 (comma 2), il reato è integrato anche se le condotte descritte
nella prima parte del comma 1 sono realizzate con modalità diverse da quelle descritte nella prima
parte del comma 1 (ciò ai sensi del nuovo art. 602 quater: il colpevole non può invocare a propria
scusa l’ignoranza della minore età della persona offesa, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile).

In dottrina è stato evidenziato come le condotte, per poter integrare le fattispecie di reato dell’art.
601, debbano essere realizzate in forma imprenditoriale, anche se hanno ad oggetto una sola
persona. Solo in questo modo sarebbe possibile individuare una linea di demarcazione fra la
fattispecie di tratta e la fattispecie punita nel successivo articolo (art. 602). L’osservazione della
dottrina si basa su una riflessione: nella formulazione previgente la riforma del 2014, la norma di
cui all’art. 601 incriminava a) la tratta di persone che si trova nelle condizioni dell’art. 600 e b)
l’induzione (mediante …) della persone a entrare, soggiornare, uscire o trasferirsi nel territorio
dello Stato, al fine di commettere i delitti di cui all’art. 600 co 1. La differenza più rilevante tra la
vecchia e la nuova formulazione risiede nell’ esplicitazione della nozione di “tratta”.
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Infine, l’ art. 602 (non interessata dalla riforma del 2014) ha una funzione di chiusura del sistema,
stante la clausola di sussidiarietà espressa con la quale si apre, che punisce “chiunque, fuori dai
casi indicati nell’articolo 601q, acquista o aliena o cede una persona che si trova in una delle
condizioni di cui al’art. 600”.

Presupposto della fattispecie è lo stesso del delitto di tratta. Per quanto, invece, riguarda la
condotta, si è posto un problema interpretativo sui concetti di “alienazione” e “cessione”. Le
soluzioni possibili sono due: 1) l’alienazione sarebbe a titolo oneroso e la cessione a titolo gratuito,
2) l’alienazione comporterebbe il trasferimento al terzo del poteri corrispondenti ai diritti reali
esercitati sul soggetto passivo e la cessione il trasferimento dei poteri corrispondenti ai diritti di
credito (es: cessione in affitto della vittima). Quanto al rapporto con i delitti di cui all’art. 601, la
norma sembrerebbe essere priva di un autonomo spazio applicativo a causa della interpretazione
omnicomprensiva del termine “tratta”. L’individuazione del momento consumativo del reato è
determinata dalla disciplina civilistica in materia di conclusione del contratto.

Sotto il profilo dell’ elemento psicologico tutte le fattispecie richiamate sono a dolo generico, ad
eccezione della seconda fattispecie incriminata nell’art. 601 che richiede il dolo specifico.

Il quadro sanzionatorio è identico per tutte 5 le fattispecie e ciò ha posto dei dubbi di
compatibilità con il principio di ragionevolezza essendo che vengono puniti allo stesso modo fatti
che offendono diversamente uno stesso bene giuridico.

Disposizioni comuni

È identica per tutte le fattispecie analizzate l’ aggravante ad effetto speciale (pena aumentata da
1/3 alla metà) di cui all’ art. 602 ter, per il caso in cui il fatto:

a) sia stato commesso su vittima di età inferiore agli anni 18


b) sia diretto allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona
offesa al prelievo di organi
c) per il caso in cui dal fatto derivi un grave pericolo per la vita o per l’integrità fisica o
psichica della persona offesa.

Questa norma si sostituisce agli abrogati comma 3 dell’art. 600, comma 2 dell’art. 601 e comma 2
dell’art. 602.

Poi, a seguito della Convenzione di Lanzarote del 2007 sulla protezione dei minori dallo
sfruttamento e dagli abusi sessuali, sono state introdotte ulteriori circostanze aggravanti per il caso
di vittima minorenne. Il comma 5 prevede l’aumento della pena dalla metà ai 2/3 se il fatto è
commesso in danno di un minore di anni 16. Lo stesso aumento di pena è previsto al comma 6 se
il fatto è commesso a danno di minore di anni 18 da un ascendente, dal genitore adottivo, o dal
loro coniuge o convivente, dal coniuge o da affini entro il secondo grado, da parenti fino al quarto
grado collaterale, dal tutore o da persona a cui il minore è stato affidato per ragioni di cura,
educazione, istruzione, vigilanza, custodia, lavoro, ovvero da pubblici ufficiali i incaricati di servizio
pubblico nell’esercizio delle loro funzioni ovvero se è stato commesso in danno di un minore in
stato di infermità o minoranza psichica, naturale o provocata. Ancora, ai sensi del comma 7 la
pena è aumentata dalla metà ai 2/3 se il fatto è commesso mediante somministrazione di sostanze
alcoliche/narcotiche/stupefacenti/pregiudizievoli per la salute fisica o psichica del minore o se è
commesso nei confronti di tre i più persone. Infine, al comma 10 è stata inserita nel 2012 una
disposizione ad hoc per il caso di concorso di circostanze attenuanti con le circostanze aggravanti
previste nella sezione I, dedicata ai delitti contro la personalità individuale. In base a questa nuova
71
previsione, le circostanze attenuanti – diverse da quelle previste dagli artt. 98 e 114 – non possono
essere ritenute equivalenti o prevalenti e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della
stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti.

Sempre a seguito dell’attuazione della Convenzione di Lanzarote è stata introdotta al nuovo art.
600 septies 1 una circostanza attenuante sulla base della quale la pena è diminuita da 1/3 alla
metà nei confronti del concorrente che si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a
conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella
raccoltadi prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti.

La pena è aumentata sempre da 1/3 alla metà, ai sensi del c.d. “Codice Anti mafia”, se il fatto è
commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione
personale durante il periodo previsto di applicazione e fino a 3 anni dal momento in cui ne è
cessata l’esecuzione.

Ai delitti citati si applica anche la disciplina della confisca di cui all’ art. 600 septies e di cui all’ art.
12 sexies d.l. 306/92, nonché le pene accessorie di cui all’ art. 600 septies 2. Inoltre, ai delitti di
cui all’art. 600 – limitatamente ai casi in cui lo sfruttamento ha ad oggetto le prestazioni lavorative –
si applicano anche le pene accessorie di cui all’art. 603 ter.

Infine, ci sono altre due disposizioni comuni ai delitti presi in considerazione: l’ art. 602 quater
(vedi sopra) e l’ art. 157 co 6 per cui i termini di prescrizione di questi reati sono raddoppiati.

Impiego di minori nell’ accattonaggio

La nuova fattispecie

Delitto previsto dall’ art. 600 octies che, rispetto alla norma abrogata in cui la fattispecie aveva
natura contravvenzionale, ha modificato il fatto tipico: “salvo che il fatto costituisca più grave reato,
chiunque si avvale per mendicare di una persona minore degli anni 14 o, comunque, non
imputabile, ovvero permette che tale persona, ove sottoposta alla sua autorità o affidata alla sua
custodia o vigilanza, mendichi, o che altri se ne avvalga per mendicare, è punito con la reclusione
fino a 3 anni”. La novità sta nella diversa collocazione dell’inciso “la quale sia sottoposto alla sua
autorità o affidata alla sua custodia o vigilanza”: prima della riforma era previsto prima di “ovvero”,
riferendosi così a tutti i fatti tipizzati dalla norma; oggi, invece, la nuova collocazione fa si che si
riferisca solo alla seconda tipologie di condotte (permettere alla persona di mendicare o permettere
a terzi di…). Ciò dovrebbe garantire una portata applicativa della norma maggiore, facendo si che
possa abbracciare il fatto di chi per mendicare si avvalga di una persona infraquattordicenne o
comunque non imputabile, indipendentemente dal fatto che sia o meno sottoposta alla sua autorità
o affidata alla sua custodia o vigilanza. Si deve, tuttavia, segnalare che la giurisprudenza interpreta
il requisito “dell’autorità, custodia o vigilanza” non come rapporto di diritto fra soggetto attivo e
soggetto passivo, ma come rapporto di mero fatto.

La disciplina sanzionatoria è completata dall’attenuante prevista dall’art. 600 septies 1, in base alla
quale la pena è diminuita da 1/3 alla metà nei confronti del concorrente che si adopera per evitare
che l’attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze, o aiuti concretamente l’autorità di
polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei
concorrenti. Si applicano anche le pene accessorie previste dall’art. 600 septies 2; tuttavia non
troverà applicazione la pena della perdita della responsabilità genitoriale in quanto il legislatore ha
previsto che trovi applicazione “quando la qualità di genitore è prevista quale circostanza

72
aggravante del reato”, circostanza aggravante che ai sensi dell’art. 602 ter co 6 non trova
applicazione al delitto di impiego di minori nell’accattonaggio.

Infine, si applica anche la confisca ex art. 600 septies e l’art. 157 co 6.

Il bene giuridico tutelato

Viene tutelato l’individuo da una forma di asservimento che – senza chiaramente eguagliare la
gravità della schiavitù o della servitù – comprime pesantemente la libertà della vittima minore di
età.

Rapporti con il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù

La norma incriminatrice trova applicazione “salvo che il fatto costituisca più grave reato”. E’, quindi,
una norma sussidiaria che può rimanere assorbita, in particolar modo, dalla norma che incrimina il
più grave reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù.

Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro

La nuova fattispecie

È una fattispecie prevista e punita dal nuovo art. 603 bis, introdotta per tutelare i soggetti deboli
dal fenomeno del c.d. “caporalato”. Punisce con la pena della reclusione da 5 a 8 anni e della
multa da 1000 a 2000 euro per ciascun lavoratore reclutato “chiunque svolga un attività
organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa
caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello
stato di bisogno o di necessità del lavoratori”. Si tratta di una fattispecie a forma vincolata 
l’attività di intermediazione fra domanda e offerta di lavoro deve essere realizzata in forma
organizzata, concretizzarsi nel reclutamento di manodopera o nell’ organizzazione dell’attività
lavorativa di soggetti che prestano attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento ed essere
attuata mediante violenza, minaccia o intimidazione e con l’ approfittamento dello stato di bisogno
o di necessità dei lavoratori.

Il fatto che l’intermediazione debba essere organizzata presuppone che l’agente operi, anche se
da solo, in maniera strutturata e non occasionale, utilizzando mezzi e risorse come un
imprenditore. Il legislatore ha espressamente previsto che l’intermediazione rilevante ai fini della
fattispecie non si realizza solo con il reclutamento dei lavoratori, ma anche con l’organizzazione
dell’attività lavorativa stessa di lavoratori già impiegati. In questo secondo caso, però, l’attività
lavorativa delle vittime deve essere “caratterizzata da sfruttamento” come definito dal comma 2:

- sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti


collettivi nazionali o comunque sproporzionata rispetto alla quantità e qualità del lavoro
prestato
- sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale,
all’aspettativa obbligatoria e alle ferie
- sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di
lavoro, tale da esporre i lavoratori a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità
personale
- sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o a
situazioni alloggiative particolarmente degradanti.

73
La condotta di intermediazione deve essere attuata mediante violenza, minaccia e intimidazione.
Nello specifico, per quanto riguarda la nozione di “intimidazione”, si deve richiamare la tesi della
dottrina secondo cui le condotte intimidatorie sarebbero comunque ricomprese nel concetto di
“minaccia” (minaccia e intimidazione sarebbero un endiadi).

L’ultimo requisito che caratterizza la condotta penalmente rilevante è l’approfittamento dello stato
di bisogno o di necessità dei lavoratori. Anche in questo caso la dottrina ha rilevato la scarsa
autonomia dei concetti di “bisogno” e di “necessità”, i quali andrebbero quindi letti come un unico
requisito.

La fattispecie richiede il dolo generico, che dovrà abbracciare tutti gli elementi di fatto. Esempio:
nell’ipotesi di intermediazione mediante organizzazione di lavoratori già impiegati, l’intermediario –
organizzatore deve essere consapevole delle condizioni di sfruttamento in cui si trovano i
lavoratori, cioè del fatto che l’attività lavorativa è caratterizzata da almeno uno dei requisiti del
comma 2.

La pena è aumentata da 1/3 alla metà al ricorrere di una delle circostanze aggravanti previste dal
comma 3:

1) il numero di lavoratori reclusi è superiore a 3


2) uno o più soggetti reclutati è minore in età lavorativa
3) aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave
pericolo avuto riguardo delle caratteristiche delle prestazioni lavorative e delle
condizioni di lavoro.

Si applicano altresì:

- l’art. 602 ter comma 10


- l’art. 600 septies 1
- le pene accessorie di cui agli artt. 603 ter e 600 septies 2
- la confisca ai sensi dell’art. 600 septies
- il raddoppio dei termini prescrizionali ex art. 157.

Il bene giuridico tutelato e i rapporti con il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o


servitù e con altre fattispecie in materia di intermediazione illecita

La fattispecie appena commentata arricchisce il novero delle disposizioni poste a tutela della
personalità individuale. In particolare, operando espressamente in via sussidiaria rispetto ad
incriminazioni più gravi, la fattispecie in esame dovrà ritenersi configurata nei casi in cui lo
sfruttamento del lavoratore attenti alla sua dignità di uomo, senza tuttavia assurgere alle forme
massime rappresentate dalla riduzione in schiavitù o in servitù.

Fatto commesso all’estero

A tutti i delitti analizzati si applica l’ art. 604: vedi capitolo VI.

Responsabilità amministrativa degli enti

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L’ art. 25 quinques lett. a) d.lgs. 231/2001 estende l’applicabilità della disciplina della
responsabilità amministrativa da reato degli enti alla commissione dei delitti di cui agli artt. 600,
601, 602 cp.

Profili processuali

Sono numerose le disposizioni che derogano alla disciplina comune per i delitti di cui agli artt. 600,
601 e 602 in materia di:

- competenza della Corte di Assise a giudicare tali delitti


- competenza per le indagini del pm presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui
ambito ha sede il giudice competente
- in materia di termine massimo per le indagini preliminari

Inoltre, per questi delitti è stata prevista anche l’applicazione della misura cautelare dell’
allontanamento dalla casa familiare anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280 cpp e
dell’ allontanamento urgente dalla casa familiare.

Infine, per il delitto di cui all’art. 600 è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.

Capitolo V – Delitti contro la libertà fisica e psichica dell’individuo

75
Premessa

Delitti contro la libertà individuale: artt. da 605 a 609  tutela della libertà cinetica della persona,
cioè della libertà dell’individuo di potersi muovere nello spazio.

Delitti contro la libertà morale: artt. da 610 a 613  tutela della libertà psichica dell’individuo
nelle sue diverse “declinazioni” (tranquillità individuale, libera autodeterminazione, capacità di
formazione della propria volontà).

Quanto alla struttura delle diverse fattispecie (che analizziamo sotto), si deve rilevare come esse
riflettano il diverso rango dei beni in gioco: da un lato si trova il sequestro di persona (norma
cardine che delinea un reato a forma libera per assicurare massima tutela alla forma di
manifestazione della libertà in assoluto più importante, quella fisica); dall’altro lato, invece,
troviamo norme che incriminano non un qualsiasi fatto produttivo dell’evento lesivo del bene
oggetto di tutela, ma solo quelli commessi con violenza o con minacciano molestia (prevalenza di
fattispecie a forma vincolata).

I delitti contro la libertà fisica. In particolare, il sequestro di persona

Il delitto di sequestro di persona lede la libertà fisica dell’individuo, la quale deve essere intesa
come diritto di muoversi volontariamente nello spazio.

Da ciò consegue che non può ravvisarsi integrazione della fattispecie in esame qualora soggetto
passivo sia una persona totalmente priva della capacità di muoversi autonomamente e di
esprimere la volontà di muoversi con l’ausilio di altre persone, come un neonato o un soggetto in
stato vegetativo permanente. Al contrario, un bambino, anche di pochi anni di vita, o un
tetraplegico potranno essere soggetti passivi del delitto di sequestro di persona. Una conferma di
questo orientamento si rinviene nella decisione della Suprema Corte di conferma la condanna per
tentato sequestro di persona nei confronti di un uomo che aveva sollevato da terra una bambina di
tre anni, sottraendola alla madre per un tempo di appena 2/3 minuti: la Corte ha ritenuto esserci
stata privazione della libertà fisica del minore che era stato posto nella condizione di non potersi
muovere secondo una libera scelta.

Questa interpretazione della norma non determina, d’altra parte, alcuna lacuna nella tutela penale
delle persone totalmente prive di “volontà cinetica”. Quindi, chi “rapisca” un neonato o un soggetto
comatoso sarà chiamato a rispondere del delitto di cui all’art. 574 (“sottrazione di persone
incapaci”) per aver leso non il diritto alla libertà fisica – di cui l’incapace non può disporre e dunque
non può essergli sottratto in alcun modo – ma l’interesse di chi abbia per legge la cura della sua
persona. È chiaro come, in questi casi, il soggetto passivo non deve essere identificati nella
persona che viene sottratta – la quale, tuttalpiù, potrà essere identificata nell’oggetto materiale del
reato – ma il terzo (tutore, genitore, affidatario dell’incapace).

Il timore che si crei una lacuna nella tutela di determinati soggetti non ha ragion d’essere anche
grazie alla previsione normativa contenuta nell’art. 3 l. 718/1985 che punisce “chiunque, fuori dai
casi indicati negli artt. 289 bis e 630 cp, sequestra una persona o la tiene in suo potere (…)”. La
condotta di “chi tiene in suo potere” la persona sembra indicare una condizione cui è
assoggettabile chiunque, anche un soggetto che non può disporre della propria libertà fisica.

La centralità del bene giuridico “libertà fisica” ha indotto il legislatore a prevedere una tutela piena,
attraverso la previsione di un reato a forma libera (“chiunque priva (…)”).

76
Ai fini della commissione del delitto è indifferente il mezzo con cui l’agente cagiona l’evento.
Poiché l’ evento tipico possa verificarsi non è necessaria la privazione totale della libertà (es: si ha
sequestro consumato anche nell’ipotesi in cui la vittima possa muoversi all’interno di uno spazio
circoscritto, come una stanza). Ancora, chiaramente il reato è ritenuto consumato anche quando la
vittima sia nella condizioni di potersi liberare con mezzi straordinari o pericolosi per la propria
incolumità fisica, nonché quando la vittima possa recuperare la libertà chiamando aiuto.

Perché possa parlarsi di sequestro di persona, la giurisprudenza esige che la privazione di libertà
sia protratta per un certo lasso di tempo “giuridicamente apprezzabile”. La relatività di questo
concetto è resa evidente nella stessa elaborazione giurisprudenziale che, talvolta, lo individua in
pochi minuti (vedi caso riportato sopra). Si deve anche dire, però, che di recente i casi di
sottrazione di persona durati pochi minuti sono stati per lo più qualificati come tentativo di
sequestro di persona.

Inoltre, non sorge un autonoma responsabilità per il delitto di sequestro di persona nell’ipotesi in
cui la limitazione della libertà fisica sia strettamente funzionale alla commissione di un altro
delitto a condotta violenta. Quindi, ad esempio, è stata esclusa la consumazione del sequestro
di persona in un caso in cui un uomo aveva trattenuto una donna nel proprio veicolo contro la
volontà della stessa solo per il tempo necessario a consumare una violenza sessuale. Invece, la
Corte, ha ravvisato un concorso tra il sequestro di persona e la violenza sessuale in un caso in cui
la privazione della libertà di circolazione nella fase antecedente e successiva l’atto sessuale –
attuato mediante costrizione – era del tutto disancorata da quest’ultimo.

Il sequestro di persona è un reato permanente.

Quanto all’elemento psicologico, è richiesto il dolo generico. Il movente è irrilevante. Se l’agente


intende perseguire, mediante il sequestro di persona, un fine estorsivo, terroristico o eversivo, il
fatto dovrà essere sussunto nelle fattispecie di cui agli artt. 630 o 289 bis, speciali rispetto al delitto
di cui all’art. 605.

L’operare di una causa di giustificazione rende lecita la limitazione della libertà personale.
Vediamo alcune ipotesi:

 la giurisprudenza ha riconosciuto efficacia scriminante al consenso, purchè attuale,


immune da vizi, prestato in funzione di una finalità meritevole di tutela e alla condizione
che la segregazione consentita non sia attuata mediante modalità tali da ledere le dignità
della persona umana e non abbia una durata eccessiva. La dottrina ha, però, messo in
evidenza come l’orientamento giurisprudenziale non possa essere condiviso fino in fondo.
Il fatto tipico del delitto di sequestro di persona, infatti, presuppone che il soggetto passivo
sia dissenziente o che abbia prestato consenso viziato: solo in questi casi si verifica una
lesione del diritto di muoversi volontariamente nello spazio. Al contrario, in presenza di un
consenso immune da vizi, non può configurarsi alcuna responsabilità penale in capo
all’agente
 efficacia scriminante è riconosciuta anche nell’ipotesi di esercizio del diritto – dovere da
parte del genitore, del tutore o della persona alle cui cure il minore/l’interdetto sia affidato
 è da ritenersi lecito, per effetto dell’operare dello stato di necessità, il fatto del personale
sanitario del pronto soccorso che adotti mezzi di contenzione per trattare un paziente che
si dimeni a causa di un forte dolore

77
Invece, convince il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte secondo cui il reato di
sequestro di persona richiede, sotto il profilo soggettivo, la consapevolezza di infliggere alla vittima
una illegittima privazione della libertà personale.

Il delitto di sequestro di persona è aggravato, ai sensi del comma 2, se il fatto è commesso:

1. in danno di un ascendente, di un discendente o del coniuge


2. da un pubblico ufficiale con abuso di poteri inerenti alle sue funzioni
3. se commesso da persona sottoposta a misura di prevenzione o in danno di personale
internazionalmente protetta.

Nuovi commi introdotti nel 2009:

- comma 3: è prevista la pena da 3 a 15 anni di reclusione se il fatto è commesso in


danno di un minore o se è commesso ai danni di un minore ed in presenza delle
aggravanti previste ai nn. 1 e 2 del comma 2 o se è commesso ai danni di un minore
infraquattordicenne, o se il minore sequestrato è condotto o trattenuto all’estero
- comma 4: è prevista la pena dell’ergastolo se il colpevole cagiona la morte del minore
sequestrato  reato complesso in cui a) è essenziale il dolo dell’agente anche rispetto
all’evento morte della vittima del sequestro (in deroga alla disciplina generale ex art. 59
co 2) e b) si tratta (secondo le SU) di una fattispecie avente natura autonoma
- comma 5: prevede che le pene del comma 3 vengano diminuite fino alla metà se
l’imputato si adopera concretamente: (1) affinchè ilo minore riacquisti la propria libertà,
(2) per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, aiutando
concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi di
prova decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura di uno o più
autori, (3) per evitare la commissione di ulteriori fatti d sequestro di minori.

Il sequestro di persona concorre con:

- il delitto di sottrazione di incapaci (art. 574) in tutti i casi in cui la sottrazione


dell’incapace comporti anche una limitazione della sua libertà personale
- il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero (art. 574 bis, quando si
tratta di sequestro in danno di minore condotto o trattenuto all’estero) si tratta di
fattispecie che tutelano beni giuridici diversi – libertà fisica da un lato e potestà
genitoriale o del tutore dall’altro – che fanno anche capo a soggetti diversi
- la violenza privata quando la vittima del sequestro, oltre ad essere limitata nella libertà
fisica, sia costretta a subire ulteriori limitazioni della libertà di autodeterminazione

a coloro che, operanti in gruppi o isolamente, pongano in essere atti preparatori obiettivamente
rilevanti diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione del reato di sequestro di
persona, si applicano le misure di sicurezza previste dal c.d. “Codice Anti – mafia”.

I delitti del pubblico ufficiale contro la libertà fisica

Le fattispecie di cui agli artt. 606, 607, 608, 609 hanno in comune la natura di reati propri, in
quanto richiedono la qualità di pubblico ufficiale in capo all’agente, è l’oggetto giuridico, che non
è limitato alla tutela della libertà fisica ma si estende alla tutela della legalità dell’operato dei
pubblici ufficiali.

L’ arresto illegale ex art. 606 si ha in tutti i casi in cui un pubblico ufficiale, abusando dei poteri
inerenti alle sue funzioni (quindi agendo in assenza dei presupposti di legge o delle prescritte
78
formalità), pone il soggetto passivo in stato di arresto o di fermo o in una generica condizione di
limitazione della libertà personale espressamente finalizzata a mettere il soggetto a disposizione
dell’autorità giudiziaria. Il requisito inespresso della fattispecie è il dolo specifico dell’agente,
consistente nel fine di porre l’arrestato a disposizione della giustizia. NB: la Suprema Corte ha
specificato che l’arresto illegale si differenzia dal sequestro di persona aggravato dalla qualità di
pubblico ufficiale (art. 605 co 2 n. 2) per il fatto che, nel primo, l’abuso di poteri inerenti la funzione
è qualificazione essenziale della condotta, mentre, nel secondo, l’abuso dei poteri è solo un
aspetto circostanziale/occasionale della condotta criminosa.

L’ indebita limitazione della libertà personale ex art. 607 è un reato che può essere commesso
solo dal pubblico ufficiale preposto o addetto ad un carcere giudiziario o ad uno stabilimento
destinato all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza. “Preposto” è colui che ha la
competenza di ammettere nell’istituto la persona sottoposta a legittima privazione della libertà
personale; “addetto” è colui che esegue gli ordini di ammissione o di liberazione provenienti dal
superiore. La condotta consiste nel:

- ricevere taluno nell’istituto senza l’ordine dell’autorità competente


- non eseguire l’ordine di liberazione dato dall’autorità
- protrarre indebitamente l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza

L’ abuso di autorità contro arrestati o detenuti ex art. 608 consiste nel fatto del pubblico
ufficiale che sottopone a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata o
detenuta di cui abbia la custodia temporanea, o che gli sia affidata in esecuzione di un
provvedimento dell’autorità competente. Per “misure di rigore” si intendono modifiche in peggio
delle condizioni del soggetto che determinano un ulteriore limitazione della libertà residua e che
non siano consentite dalla legge. La Suprema Corte ha specificato che è necessario che l’agente
abbia adottato misure di rigore abusive, che si siano estrinsecate in vere e proprie vessazioni,
funzionali a rendere ancora più rigide le modalità di custodia. Invece, non rientrano nella
definizione della norma fatti lesivi di beni giuridici del soggetto passivo diversi dalla libertà fisica
(come percosse, maltrattamenti, violenze sessuali… ci sono fattispecie specifiche). Molti hanno
denunciato l’insufficienza di questa norma a contrastare quegli abusi più correttamene qualificabili
come fatti di vera e propria tortura (l’Italia ha appena ricevuto dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo una sentenza di condanna a tal proposito: CEDU, 1.07.2014).

La perquisizione e ispezioni personali arbitrarie ex art. 609 punisce il fatto del pubblico ufficiale
che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, esegue una perquisizione o un ispezione
personale. Sebbene questa norma sia ricompresa tra i delitti contro la libertà fisica, forse sarebbe
più corretto identificare il bene oggetto di tutela nella libertà psichica. Per “perquisizione personale”
si intende la ricerca, sul corpo o nella sfera di custodia del corpo di una persona, di oggetti che vi si
ritengono nascosti; per “ispezione personale” si intende l’esame del corpo stesso (ad es. per
verificare la sussistenza o meno di cicatrici). Il reato è ravvisabile anche quando sussistono le
condizioni che legittimano la perquisizione, a questa venga effettuata con modalità illegali.

I reati contro la libertà psichica: le nozioni di violenza, di minaccia e di molestia

Abbiamo detto nella premessa che gli unici reati di evento a forma libera sono lo “stato di
incapacità procurato mediante violenza – in cui l’evento può essere cagionato dall’agente nei modi
indicati a titolo esemplificativo dalla norma o anche con “qualsiasi altro mezzo” – e la
contravvenzione di “molestia o disturbo alle persone”.

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I mezzi a cui il legislatore ha ritenuto di subordinare la sussumibilità del fatto nelle fattispecie in
esame sono:

a) la minaccia
b) la violenza
c) la molestia

La nozione di “minaccia” non pone particolari problemi. Dottrina e giurisprudenza la definiscono


come la prospettazione di un male ingiusto la cui verificazione viene presentata come dipendente
dall’agente. La minaccia può essere formulata sia a parole che mediante un comportamento
concludente (sono stati ritenuti tali, ad esempio, atti – di per sé non minacciosi – quali espressioni
ingiuriose, l’andare in escandescenza,…).

Più controversa è la nozione di “violenza”. Sia la giurisprudenza che la dottrina accolgono una
nozione lata, per cui la violenza sarebbe:

(i) l’impiego di energia fisica sulle cose o sulle persone (c.d. violenza propria), come ad es.
le percosse, l’aizzamento di animali
(ii) l’uso di qualsiasi mezzo, diverso dalla minaccia, idoneo a coartare la volontà del
soggetto passivo (c.d. violenza impropria), come ad es. l’ipnotizzazione, la
narcotizzazione

A sostegno dell’estensione della nozione di violenza a questa seconda categoria di ipotesi devono
ricordarsi la descrizione (a) del fatto tipico del delitto di “stato di incapacità procurato mediante
violenza” (art. 613) – dove mezzo di realizzazione del reato può essere la suggestione ipnotica o in
veglia, la somministrazione di sostanze alcoliche o di stupefacenti o qualsiasi altro mezzo che
ponga la persona in stato di incapacità di intendere e volere – e (b) l’aggravante della rapina di cui
al n. 2 comma 3 dell’art. 628 – per il caso in cui la violenza consista nel porre taluno in stati di
incapacità di intendere e volere –.

Si deve, però, segnalare anche un orientamento dottrinale più restrittivo, secondo il quale la
“violenza sulle persone” debba consistere in una aggressione fisica, quindi un offesa attuale (nella
forma della lesione effettiva o della creazione di un imminente pericolo di lesione) della vita,
dell’integrità fisica o della libertà di movimento del soggetto passivo (si tratta dei beni più
direttamente attinenti alla dimensione fisica del soggetto passivo)

Per “aggressione fisica” non deve necessariamente intendersi l’impiego di energia fisica; infatti,
può prodursi un offesa alla dimensione fisica della persona anche ponendo il soggetto passivo in
stato di incapacità con qualsiasi altro mezzo, anche insidioso, come previsto dall’art. 613. Il non
identificare la violenza con la coazione della volontà della vittima – al contrario dell’identificazione
che invece sta alla base della più diffusa nozione di violenza – permette di formulare una nozione
di violenza unitaria per l’intero sistema penale, compatibile sia con le fattispecie in cui la violenza è
mezzo per la causazione di un evento (es: violenza privativa), sia con le fattispecie in cui la
violenza è essa stessa un fine (es: omicidio, lesioni personali). Inoltre, definire il concetto di
violenza evita di trasformare il reato di violenza privativa in un reato a forma libera e consente così
di rispettare la scelta del legislatore di attribuire rilevanza penale ai sensi dell’art. 610 non a
qualsiasi fatto di coercizione di volontà della vittima, ma solo a quelli in cui la coercizione è
determinata con la minaccia o la violenza.

La nozione di “molestia” è oggi in primo piano, in quanto la molestia è elemento costitutivo del
nuovo delitto di “atti persecutori” di cui all’art. 612 bis. La definizione è da ritenersi unica; secondo
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l’interpretazione consolidata della contravvenzione di cui all’art. 660, “molesto” è quel
comportamento che si concretizza in un intrusione nella sfera psichica altrui con conseguente
compromissione della tranquillità personale e della libertà morale della vittima, senza però
concretizzarsi in vere e proprie violenze sulla persona. Possiamo dire che la nozione di molestia si
identifica in un particolare effetto che la condotta dell’agente ha prodotto nella psiche della vittima.
La molestia non può che essere considerata il risultato (cioè il turbamento della tranquillità della
persona) di un comportamento qualsiasi, purchè non violento (es: telefonate notturne o mute,
corteggiamento non gradito e volgare,…).

I reati che ledono la tranquillità individuale: i delitti di minaccia e di atti persecutori e


la contravvenzione di molestia o di disturbo alle persone

La libertà psichica della persona può essere lesa innanzitutto dal pregiudizio della tranquillità
individuale. Quest’ultimo bene trova tutela delle norme che incriminano i seguenti fatti.

Minaccia

Previsto dall’ art. 612, costituisce la forma più lieve di pregiudizio per la tranquillità della persona
ed è punito con una sanzione particolarmente tenue (multa fino a 51 euro). Per una giurisprudenza
costante il delitto è commesso già in presenza di un mero pericolo di lesione del bene protetto. La
prospettazione di un male ingiusto, al cui verificazione dipende dall’agente, costituisce un fatto di
minaccia di per sé idonea a turbare la tranquillità della persona. Il danno oggetto della
prospettazione non deve essere necessariamente determinato, ma nemmeno del tutto generico.
Quanto all’ingiustizia del danno, la giurisprudenza la ravvisa anche nel caso in cui l’agente
prospetti alla vittima l’esercizio di un diritto per scopi diversi da quelli per cui il diritto stesso gli è
attribuito dall’ordinamento; se, però, il soggetto aziona effettivamente il proprio diritto allora il fatto
non integra minaccia. Non si ha minaccia, invece, nel caso in cui venga prospettato un male futuro
ad un soggetto al solo fine di prevenire un azione illecita del soggetto stesso (in questo caso opera
la scriminante della legittima difesa).

Il dolo è generico.

Il delitto è aggravato e si procede di ufficio, ai sensi del comma 2, se la minaccia:

- è grave la gravità della minaccia è la gravità del danno ingiusto prospettato, alla luce
di tutte le circostanze del caso concreto
- è fatta in uno dei modi indicati dall’art. 339  cioè: con uso di armi, da persona
travisata, da più persone riunite, con scritto anonimo. In modo simbolico, valendosi
della forza intimidatrice di segrete associazioni – esistenti o supposte –.

La pena è aumentata anche nell’ipotesi in cui il fatto sia commesso da una persona sottoposta a
misura di prevenzione o in danno di una persona internazionalmente protetta.

Quanto ai rapporti con altri reati, laddove la minaccia sia elemento costitutivo o circostanza
aggravante di un'altra fattispecie non si avrà concorso di reati, salvo che la minaccia sia “fine a se
stessa”, cioè non strettamente funzionale alla commissione dell’altro reato.

Circa il rapporto con la violenza privata, abbiamo già detto che la giurisprudenza individua il criterio
discretivo nell’elemento intenzionale; rispetto, invece, alla fattispecie di molestia o disturbo alle
persone la Cassazione ha escluso il concorso, ritenendo che il più grave delitto di minaccia
assorba la contravvenzione.

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Atti persecutori

Il nuovo delitto di cui all’ art. 612 bis – c.d. “stalking” – punisce, “salvo che il fatto costituisca
reato”, chiunque:

a) minaccia o molesta
b) reiteramente la vittima, in tal modo
c) cagionando nella stessa un perdurante e grave stato di ansia e di paura, ovvero
d) ingenerando un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una
persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero
e) costringendo la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.

Si tratta, quindi, di un reato di evento a forma vincolata e abituale.

Si devono fare delle precisazioni. In virtù delle considerazioni già svolte circa le nozioni di
“minaccia” e di “molestia” (vedi sopra), si deve dire che il delitto di atti persecutori è un reato solo
parzialmente a forma vincolata. È vero che l’evento deve essere cagionato necessariamente o
minacciando o molestando la vittima, ma è anche vero che la molestia è a sua volta un evento che
può essere cagionato in qualsiasi modo. Quindi, al di fuori dei casi in cui è attuata con minaccia,la
persecuzione potrà essere attuata con qualsiasi mezzo che provochi una molestia. Sempre dalla
nozione di “molestia” – che esclude le condotte violente – ricaviamo che i fatti violenti daranno
esclusi dal tipo normativo della fattispecie di atti persecutori.

La reiterazione della condotta è requisito essenziale della fattispecie: ciò fa del reato di stalking un
reato abituale. Quando la condotta può dirsi reiterata? La Cassazione ha statuito che è necessario
he l’interpreti accerti, nel caso di specie, se i singoli atti hanno tratto origine da situazioni
contingenti e particolari, o se rientrano in una cornice unitaria, cioè se sono collegati sul piano
oggettivo da un nesso di causalità e da un'unica intenzione criminosa.

Per quanto riguarda l’evento tipico i legislatore ha previsto 3 diversi eventi con una formulazione
che induce a ritenere sufficiente la realizzazione anche solo di uno di essi perché il delitto possa
dirsi consumato. Secondo una parte della dottrina, il primo evento (“perdurante e grave stato di
ansia o di paura”) deve essere inteso come vero e proprio stato patologico, quindi accertabile nel
processo per mezzo di consulenze tecniche. Al contrario, La Suprema Corte, nel rigettare una qlc,
ha affermato che sia il primo evento che il secondo (“fondato timore per l’incolumità”) riguardano la
sfera emotiva e psicologica dell’individuo e, quindi, devono essere accertato attraverso un’
accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione
pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente.

Infine, per quanto riguarda il terzo evento (“alterazioni delle abitudini di vita”), un interpretazione
teleologica della norma dovrebbe indurre ad escludere tutti quei piccoli mutamenti nelle
consuetudini di vita dettati dal fastidio anziché da un vero e proprio timore ingenerato dal
persecutore. Questa lettura restrittiva è imposta dalla gravità della sanzione comminata dal
legislatore, dalla ratio complessiva della disciplina e dai rapporti sistematici con la contravvenzione
di molestia e disturbo alle persone ex art. 600.

Il dolo è generico.

La definizione del rapporto con altri reati avrebbe dovuto essere facilitata con la clausola di
sussidiarietà espressa (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”).

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Al contrario, stando alla diversità del bene giuridico tutelato, deve essere ravvisato un concorso di
reati tra la fattispecie in esame (che tutela la tranquillità individuale quale manifestazione della
libertà della persona) e i più gravi delitti di lesioni e di violenza sessuale (che tutelano i diversi beni
dell’integrità fisica e della libertà sessuale). Non è così, invece, con l’omicidio aggravati che
assorbe il delitto di atti persecutori, in quanto il delitto in esame costituisce aggravante speciale
dell’omicidio allorchè commessi dal medesimo soggetto passivo.

Maggiori problemi pone il rapporto con il delitto di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli. Si
potrebbe aderire ad entrambe le posizioni: un sostiene che possa esserci concorso
(giurisprudenza dominante); l’altra, invece, ritiene che ci sia un assorbimento degli atti persecutori
nel delitto di maltrattamenti in famiglia (parte della dottrina). La Suprema Corte al riguardo ha
statuito che deve farsi applicazione della sola norma incriminatrice dei maltrattamenti nel caso in
cui il fatto sia commesso ai danni del coniuge, finchè la relazione non possa dirsi definitivamente
cessata, non bastando la separazione (alla quale non consegue il venir meno dei doveri di
reciproco rispetto e assistenza morale dei coniugi). Tuttavia, questo principio di diritto oggi non
sembra essere applicabile anche all’ipotesi che il fatto sia commesso dal coniuge non divorziato ne
separato.

Nei rapporti con i reati meno gravi è determinante la peculiarità della condotta del delitto di atti
persecutori, ossia l’assenza dell’elemento della violenza.

Infine, i delitti di minaccia e molestia o di disturbo alle persone non concorrono con gli atti
persecutori.

Il legislatore ha previsto anche una serie di aggravanti speciali:

- la pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o


da persona che è o è stata legata da relazione alla persona offesa ovvero se il fatto è
commesso attraverso strumenti informatici o telematici
- la pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una
donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità, ovvero con armi o da
persona travisata
- la pena è aumentata se il fatto è commesso da soggetto già ammonito  fa riferimento
all’ istituto dell’ammonimento del questore: fino a quando non è proposta querela per il
reato di atti persecutori, la persona offesa può esporre i fatti all’autorità di pubblica
sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore
della condotta. Il questore, assunte le informazioni investigative che risultino essere
necessarie e se ritiene fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui
confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo così a tenere una condotta
conforme alla legge. È un istituto di carattere amministrativo; non è compito del
questore verificare se ricorrano tutti i requisiti del reato di stalking.

Sul piano processuale, il delitto di atti persecutori è procedibile a querela di parte, tranne che nei
casi in cui il fatto sia commesso contro un minore o una persona con disabilità, nonché quando il
fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere di ufficio e quando è commesso da
un soggetto già ammonito. Il termine per proporre la querela è di sei mesi. La remissione della
querela può essere solo processuale; inoltre la remissione è irrevocabile se il fatto è stato
commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’art. 612 co 2.

Il legislatore è intervenuto anche sulla disciplina delle misure cautelari: è stato arricchito il catalogo
delle misure cautelari personali prevedendo la nuova misura del “divieto di avvicinamento ai luoghi
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frequentati dalla persona offesa” ed è stata prolungata fino ad un anno la durata massima dell’
“ordine di protezione” del giudice civile.

È applicabile anche la custodia cautelare in carcere, così come l’allontanamento dalla casa
familiare, ma non l’allontanamento d’urgenza. È consentita l’intercettazione di conversazioni o di
comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione.

Il delitto di atti persecutori è uno di quei delitti la cui proroga delle indagini preliminari può essere
chiesta non più di una volta. Inoltre, quando deve essere notificato l’avviso di conclusione delle
indagini preliminari è necessaria la notifica anche al difensore; quando si tratta di persone di
minore età, la polizia giudiziaria deve avvalersi dell’aiuto di un esperto in psichiatria o psicologia
infantile nominato dal pm.

Molestia o disturbo alle persone

La norma di cui all’ art. 660 punisce “chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero
col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o
disturbo”. Le determinazione dell’oggetto giuridico è stata oggetto di analisi della dottrina, la quale,
è giunta alla conclusione che la norma ha la funzione di tutelate la tranquillità individuale. Sul
piano della tipicità, sebbene la formulazione sembri descrivere un reato causale puro, in realtà la
fattispecie non ammette qualsiasi modalità commissiva. Infatti (e vedi sopra), la nozione di
“molestia” (evento del fatto tipico della contravvenzione) presuppone esclusivamente condotte
accomunate dal requisito negativo dell’assenza di violenza. L’evento alternativo alla molestia, cioè
il “disturbo alla persona”, se inizialmente era letto come turbamento della persona ulteriore rispetto
alla “molestia”, ora è solo descrittivo e fa parte di un unico evento (l’espressione “molestia o
disturbo” è un endiadi).

Il reato si consuma solo se commesso in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con il
mezzo del telefono. La Suprema Corte ha stabilito che il requisito “luogo pubblico o aperto al
pubblico” debba essere valutato volta per volta, in quanto dipende dalle condizioni di accesso
poste dal titolare dello ius excludendi (es: integra il reato il comportamento di colui che si trovi in
luogo privato, ma che sia diretto a molestare una persona che si trova in un luogo pubblico). È
qualificabile come tale anche un social network (come face book).

Quanto all’elemento psicologico, si tratta di un reato esclusivamente doloso. Secondo un


orientamento giurisprudenziale sarebbe, addirittura, necessario un dolo specifico (orientamento
discutibile).

I delitti che ledono la libera autodeterminazione della persona: violenza privata;


violenza o minaccia per costringere a commettere un reato

Una delle forme più intense di compromissione della libertà psichica della persona è costituita dalla
lesione della libertà di autodeterminazione, cioè del diritto della persona di formare liberamente
la propria volontà e di attuarla liberamente. Seguono le fattispecie principali.

Violenza privata

La violenza privata è prevista dall’ art. 610 e consiste nel fatto di chi, con violenza o minaccia,
costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa. Si tratta di un reato di evento a forma

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vincolata che può essere commesso sia intervenendo sul processo formativo della volontà della
vittima (c.d. coazione relativa o vis compulsiva), sia impendendo alla vittima di agire come
vorrebbe mediante la frapposizione di ostacoli esterni insuperabili (c.d. vis absoluta). La condotta
può attuarsi nelle forme sia della minaccia che della violenza. L’evento consiste nel costringere
altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa.

Come già messo in luce prima, la giurisprudenza prevalente – con l’eccezione della posizione
assunta dalle SU che abbiamo riportato – tende a sovrapporre la definizione della condotta
violenta con l’evento costrittivo. Invece, appare più corretta un interpretazione della norma che
tenga distinti questi due momenti: 1. quello della condotta (minaccia o violenza) e 2. quello
dell’evento cagionato dalla condotta.

Il dolo è generico.

Il delitto è aggravato:

- ai sensi del comma 2 se concorrono le condizioni di cui all’art. 339


- se il fatto è commesso da una persona sottoposta a misura di prevenzione
- se il fatto è commesso in danno di persona internazionalmente protetta.

Quanto ai rapporti con altri reati, si deve dire che, essendo la violenza elemento costitutivo della
fattispecie, la violenza privata assorbe le percosse; invece, c’è concorso con il delitto di lesioni
personali data la differenza del bene giuridico tutelato. Infine, quando l’agente costringe la vittima a
fare o ad omettere qualche cosa e procura volontariamente a sé od ad altri un ingiusto profitto con
altrui danno, si applica la sola norma incriminatrice del delitto di estrosione (speciale rispetto a
quella della violenza privata); tuttavia, si avrà concorso tra le due norme qualora l’agente costringa
con violenza o minaccia la vittima dell’estorsione a non denunciare il torto patito.

Violenza o minaccia per costringere a commettere un reato

All’ art. 611 è punito il fatto di chi usa violenza o minaccia per costringere o determinare la vittima
a commettere un fatto costituente reato. La funzione di questa norma è principalmente quella di
tutelare l’interesse dell’ordinamento alla prevenzione dei reati, oltre che affiancare la
fattispecie di violenza privata.

Sul piano della tipicità, c’è una coincidenza tra i delitti di violenza privata e di violenza o minaccia
per costringere a commettere un reato quanto alla condotta: entrambi i delitti devono essere
commessi con violenza o con minaccia. Per il resto, invece, la struttura del fatto tipico differisce: il
delitto in esame è un reato di mera condotta (non di evento come la violenza privata), in quanto
non è necessario che, per la sua consumazione, la volontà della vittima sia coartata. La
“costrizione” e la “determinazione” a commettere il reato, infatti, sono oggetto di dolo specifico
dell’agente. Per aversi il reato è sufficiente chela violenza o la minaccia risultino idonee – secondo
una valutazione prognostica – a costringere o a determinare la vittima a commettere il reato.

Il delitto è aggravato, ai sensi del comma 2, se concorrono le condizioni previste dall’art. 399 e se
il fatto è commesso da persona sottoposta a misura di prevenzione

Lo stato di incapacità procurato mediante violenza

L’elenco delle norme incriminatrici poste a tutela della libertà psichica dell’individuo si chiude con l’
art. 613, che incrimina il fatto di chi, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante
somministrazione di sostanze alcoliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una
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persona, senza il consenso di lei, in stato di incapacità di intendere e di volere. Il bene giuridico
protetto è il presupposto stesso della libertà psichica, cioè la capacità di formazione della
propria volontà.

Si tratta di un reato di evento a forma libera.

L’ assenza del consenso della vittima compare espressamente tra i requisiti di fattispecie, a
differenza delle altre norme.

Il dolo è generico.

Il delitto è aggravato, ai sensi del comma 3, se:

- il colpevole ha agito con il fine di far commettere un reato


- la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come
delitto.

La differenza fondamentale tra il delitto in esame e la contravvenzione di cui all’art. 728


(“trattamento idoneo a sopprimere la coscienza o volontà altrui”) è che quest’ultima richiede il
consenso della vittima, essendo una norma posta a tutela non della libertà psichica, ma
dell’integrità fisica. Invece, resta assorbita nel delitto in esame, in quanto ne è elemento costitutivo,
la contravvenzione di cui all’art. 690 (“determinazione di altri dello stato di ubriachezza”) in tutti i
casi in cui lo stato di ubriachezza, volontariamente indotto dall’agente, produca l’effetto, anch’esso
voluto, di privare la vittima della capacitò di intendere e volere.

Capitolo VI – Delitti contro l’inviolabilità e la libertà sessuale: prostituzione e


pornografia minorile, violenza sessuale

Centralità della nozione di “atti sessuali” nel sistema dei delitti a sfondo sessuale

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Premessa

Nel capo dedicato ai “Delitti contro la persona” troviamo due corpi normativi, introdotti di recente,
con i quali il legislatore ha previsto l’incriminazione di fattispecie che hanno come elemento in
comune l’interessamento alla “sfera sessuale” della vittima. Proviamo a fare una trattazione
coordinata di queste norme.

I concetti “chiave” di atto sessuale, di pornografia e di prostituzione

Le fattispecie cardine dei due corpi normativi sono il delitto di violenza sessuale ex art. 609 bis e i
delitti di prostituzione minorile e di pornografia minorile ex artt. 600 bis e ter. Per capire come
coordinare queste norme è necessario dare una corretta nozione, rispettivamente, di “atto
sessuale”, “pornografia minorile” e “prostituzione minorile”.

Atto sessuale: la giurisprudenza oggi ritiene necessaria la presenza di due elementi perché si
possa parlare di atto sessuale:

1. il contatto con una parte considerata erogena del corpo della vittima  la
giurisprudenza ritiene integrato questo primo requisito anche al compimento di atti
diversi dal coito, purchè coinvolgenti una parte ritenuta erogena del corpo (bocca,
glutei, seno).
2. la finalità e l’idoneità dell’atto a pregiudicare il diritto della vittima alla libera
autodeterminazione della propria sfera sessuale  requisito che assume indubbia
rilevanza pratica nei soli “casi limite”, cioè in quei casi in cui l’atto posto in essere
dal soggetto attivo – pur essendo senza dubbio una parte erogena del corpo della
vittima – se astrattamente considerato può anche non avere un significato sessuale.
È il caso, molte volte affrontato dalla giurisprudenza, del bacio (può avere diversa
natura) o della pacca sul sedere (anch’essa può avere varia natura). In questi casi i
giudici discriminano tra natura sessuale e non sessuale dell’atto prendendo in
considerazione la situazione concreta e il contesto socio – culturale in cui l’atto si
inserisce. Solo gli atti che oggettivamente assumono significato sessuale (vale a
dire quelli che anche un osservatore esterno giudicherebbe come “sessuali”) sono
idonei a ledere il diritto del soggetto passivo ad una libera autodeterminazione della
propria sfera sessuale. Poi, il riferimento alla “finalità” perseguita dall’agente di
soddisfare il proprio impulso sessuale introduce nella nozione di “atto sessuale” un
requisito soggettivo solo in apparenza. Anche i giudici che spesso vi fanno
riferimento, allo stesso tempo sterilizzano lo stesso requisito precisando che
comunque gli atti devono essere idonei a porre in pericolo il bene giuridico protetto
e che, quindi, il mero fine libidinoso dell’agente, in assenza di un oggettiva valenza
sessuale dell’atto posto in essere, non è sufficiente per qualificarlo come sessuale.
Detto ciò la giurisprudenza ancora si spacca su un quesito: per qualificare un atto
come “atto sessuale” è sufficiente la mera idoneità dell’atto posto in essere a ledere
la libertà di autodeterminazione della sfera sessuale della vittima, oppure è
necessario ravvisare una lesione attuale della stessa? Sembra consolidarsi sempre
di più il primo orientamento.

Il fatto che la definizione di “atto sessuale” sia frutto dell’elaborazione giurisprudenziale in materia
di violenza sessuale ne ostacola l’applicazione al di fuori della specifica sedes materiae.
Innanzitutto, il requisito di cui al n. 1 rende questa definizione inadatta alla fattispecie di corruzione
di minorenne: infatti, la norma, punendo “chiunque compie atti sessuali in presenza di un minore di

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ani 14” presuppone che si possano avere atti sessuali anche senza il “toccamento” del corpo della
vittima (es: autoerotismo dell’agente davanti ad un minore). Allo stesso modo, il requisito di cui al
n. 2 non sembra potersi coordinare con la struttura e l’oggetto giuridico della fattispecie in materia
di pornografia e di prostituzione minorile. Al contrario, il fatto che l’elemento “atto sessuale” sia
requisito, anche se inespresso, di tutte le fattispecie dovrebbe indurre l’interprete ad individuare
un'unica nozione e questo per coerenza sistematica. A questo fine, una nozione comune di “atto
sessuale” dovrebbe prevedere:

- l’interessamento di parti del corpo del soggetto attivo o del soggetto passivo qualificabili
come erogene
- la valenza oggettivamente sessuale dell’atto (potrebbe essere esclusa in determinati
contesti socio – culturali).

Pornografia minorile: è stata introdotta una definizione all’ art. 607 ter co 7 a seguito della ratifica
della Convenzione di Lanzarote del 2007, in base alla quale si intende “ogni rappresentazione, con
qualunque mezzo, di un minore degli anni 18 coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate,
o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni 18 per scopi sessuali”.
Anche il diritto dell’Unione Europea si è allineato alla definizione contenuta nella Convenzione di
Lanzarote con una direttiva del 2012 relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei
minori e della pornografia minorile. Invece, si registra un disallineamento fra la nozione di
“pornografia minorile” della Convenzione di Lanzarote e quella accolta dal nostro ordinamento, da
una parte, e la nozione della direttiva europea, dall’altra, per l’ipotesi di rappresentazione di una
persona che sembra un minore in atteggiamenti sessuali espliciti, o degli organi sessuali di una
persona che sembra un minore. Questa ipotesi – espressamente qualificata come “pornografia
minorile” nella direttiva europea – non rientra, invece, nella nozione di cui all’art. 20 della
Convenzione e nemmeno di cui all’art. 602 ter co 7 cp. Infine, si è d’accordo nel qualificare un atto
come pornografia minorile, indipendentemente dal fatto che siano utilizzate con la consapevolezza
del minore, laddove si tratti di “immagini di minori coinvolti in atteggiamenti sessuali espliciti o
immagini dei loro organi sessuali”.

Prostituzione minorile: si tratta di “ogni prestazione sessuale a pagamento”. L’elemento


caratterizzante della prostituzione non è il contatto fisico tra i soggetti della prestazione, ma il fatto
che un qualsiasi atto sessuale venga compiuto dietro un corrispettivo e risulti essere finalizzato, in
via diretta ed immediata, a soddisfare la libidine di colui che ha chiesto o è destinatario della
prestazione. Questo vuol dire che l’attività di chi si prostituisce può consistere anche
nell’esecuzione di atti sessuali eseguiti su se stesso in presenza di chi ha chiesto la prestazione,
senza che tra i due soggetti intervenga un contatto fisico. La Corte Suprema ha poi tratto un
ulteriore conseguenza, statuendo che è irrilevante il fatto che chi si prostituisce e chi fruisce della
prestazione si trovino in luoghi diversi, risultando collegati, ad esempio, tramite internet in video
conferenza. Ciò che conta, e che pone il confine con la pornografia, è che tra i due soggetti vi sia
interazione. Nel caso della prostituzione minorile, il corrispettivo della prestazione sessuale può
essere anche solo promesso e non avere natura economica: questo grazie alla nuova
formulazione dell’art. 600 bis comma 2, dove il legislatore ha aggiunto l’ipotesi della mera
promessa del pagamento del corrispettivo e ha eliminato l’aggettivo “economica” che, accanto al
denaro, costituisce il corrispettivo della prestazione sessuale del minore. Non è nemmeno
necessario che sia il minore stesso a percepire il corrispettivo o la promessa del corrispettivo.
Infine, si deve segnalare una pronuncia delle SU della Cassazione, con la quale si è stabilito che si
configura l’ipotesi di reato di cui al comma 2 dell’art. 600 bis anche nel caso di n singolo ed

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estemporaneo rapporto a pagamento, in quanto è comunque idoneo ad alimentare il circuito della
prostituzione.

L’oggetto giuridico dei reati a sfondo sessuale

Per quanto riguarda il bene giuridico tutelato, le norme incriminatrici in esame possono essere
suddivise in 2 categorie:

 norme che tutelano il diritto della persona a gestire liberamente la propria sfera
sessuale: diritto alla “libertà sessuale”
 norme che tutelano il sano “sviluppo psico – sessuale” della vittima e la sua stessa
integrità fisica attraverso la totale esclusione di ogni forma di coinvolgimento nel
compimento di atti sessuali.

Appartengono alla prima categoria le fattispecie che presentano tra gli elementi costitutivi del fatto
tipico l’ assenza del consenso della vittima: il disvalore in questi casi si concentra sull’annullamento
nella vittima della libera autodeterminazione in ordine alla propria sfera sessuale. Si tratta degli
artt. 609 bis e octies. Invece, sembrano essere più parte della seconda categoria tutte le fattispecie
che sotto il profilo della tipicità presentano il requisito della minore età della vittima, da un lato, e
che prescindono dall’accertamento dell’assenza di consenso della vittima all’atto sessuale,
dall’altro lato. Si tratta degli artt. 609 quater e quinquies, 600 bis, ter, quater e quater.1. Infine, in
una posizione “trasversale” rispetto a tutte le fattispecie appena inquadrate si pongono i nuovi
delitti di “adescamento di minori” ex art. 609 undecies e di “istigazione a pratiche di pedofilia e di
pedopornografia” inserite dal legislatore per assicurare una tutela anticipata nei confornti degli
infrasedicenni dei beni giuridici oggetto delle fattispecie di cui agli artt. da 600 a 600 quinquies,
609 bis, quater, quinquies, octies e nei confronti degli infradici ottenni dei beni giuridici oggetto
delle fattispecie di cui agli artt. da 600 bis a quinquies, 609 bis, quater e quinquies.

Ad eccezione delle norme che incriminano la violenza sessuale consumata (artt. 609 bis e 609
octies), tutte le altre forme sanzionano ipotesi di semplice messa in pericolo del bene. Per
garantire ciò, talvolta, viene arretrata di molto la soglia di rilevanza penale della condotta (accade
nel caso del reato di “iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile”) e,
altre volte, punendo condotte che solo indirettamente possono mettere in pericolo il bene giuridico
(caso emblematico è rappresentato dalla “pornografia virtuale”).

Le singole fattispecie criminali

La violenza sessuale e la violenza sessuale di gruppo

L’ art. 609 bis incrimina la violenza sessuale. È tale il fatto di chi:

d) con violenza, minaccia o abuso di autorità costringe ovvero,


e) con abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al
momento del fatto o con inganno, consistito nell’essersi il colpevole sostituito ad
altra persone,
f) induce taluno a compiere o a subire atti sessuali.

Per quanto riguarda la nozione di violenza e minaccia vedi capitolo V. Invece, la condotta di
costrizione mediante “abuso di autorità” pone diversi problemi interpretativi, tanto da essere
stigmatizzata come di indubbia utilità. Sono due i punti maggiormente problematici: a) se il
concetto di “autorità” a cui fa riferimento la norma debba avere un fondamento giuridico (di natura

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pubblica o di natura privatistica) o se sia sufficiente un rapporto di “subordinazione psicologica” fra
agente e vittima; b) come individuare il confine tra costrizione della vittima ottenuta mediate
minaccia e costrizione ottenuta, appunto, mediante autorità. Il primo quesito sembra essere risolto
dalla giurisprudenza in favore di una lettura molto ampia della formula codicistica. Il secondo
quesito registra posizioni differenti tra giurisprudenza e dottrina.

L’ipotesi di induzione mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona
offesa al momento del fatto (art. 609 bis co 2 n. 1) trova molta applicazione in giurisprudenza,
soprattutto nei casi in cui l’agente riesca a convincere il soggetto passivo a compiere l’atto
sessuale approfittando di un particolare stato di minoranza fisica o psichica della vittima. La
principale differenza rispetto all’ipotesi di cui al comma 1 risiede, quindi, nel fatto che la vittima in
questo caso presta il suo consenso – ancorchè viziato –. Poi, serve che l’agente abusi, cioè
strumentalizzi dolosamente le condizioni di minorazione in cui versa la vittima.

Molto più rara è l’ipotesi di induzione a compiere o a subire atti sessuali traendo in inganno la
persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Anche in questo caso la vittima
presta il proprio consenso all’atto sessuale, ma la volontà è viziata dall’inganno.

Per come è formulata la norma sembra descrivere un reato d’evento a forma vincolata, nel quale la
condotta può essere alternativamente una delle 5 elencate e l’evento è duplice (costrizione o
induzione + compimento o “sopportazione” dell’atto sessuale da parte del soggetto passivo). In
realtà, la prassi applicativa vede questa fattispecie come un reato d’evento a forma libera, per la
cui consumazione è sufficiente che il soggetto passivo sia in qualunque modo costretto senza il
suo consenso a compiere o a subire atti sessuali. Emerge, quindi, che i requisiti che i giudici
ricercano per stabilire se un fatto sia sussumibile nella fattispecie di violenza sessuale sono in
realtà due, risultando invece ininfluenti gli altri elementi pure previsti dal legislatore (cioè la
condotta e la costrizione):

1. il compimento di “atti sessuali” sul soggetto passivo


2. l’ assenza del consenso del soggetto passivo

La disciplina sanzionatoria della violenza sessuale è poi completata dalla fattispecie di violenza
sessuale di gruppo ex art. 609 octies. Ricorre quando un fatto di violenza sessuale vede la
partecipazione di più persone riunite (almeno due). La locuzione “più persone riunite” sembra fare
riferimento all’ipotesi in cui la materiale esecuzione della violenza sessuale sia portata a
compimento da più persone; tuttavia, al comma 3 si prevede un attenuante per il fatto che
partecipante “la cui opera abbia avuto minima importanza nella preparazione o nella esecuzione
del fatto”. Ciò impone all’interprete di interpretare detta locuzione come comprensiva anche dei
casi in cui la violenza sessuale sia consumata da un solo individuo, con (solo) l’aiuto di un terzo. In
ogni caso è necessaria la presenza sul luogo e al momento del fatto dei compartecipi.

Per quanto riguarda l’ elemento psicologico, entrambe le fattispecie ammettono qualsiasi tipo di
dolo, anche quello eventuale (es: l’agente, pur avendo previsto il probabile rifiuto da parte della
vittima, agisca in ogni caso, accettando il rischio di compiere un atto contrario alla volontà del
soggetto passivo).

Circostanze aggravanti. La pena per questi due delitti è aggravata ai sensi dell’art. 609 ter se:

- il fatto è commesso con l’uso di armi o di sostanze alcoliche/narcotiche/stupefacenti o


con altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa

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- il fatto è commesso da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di
incaricato di servizio pubblico
- il fatto è commesso su persona comunque sottoposta a limitazione della libertà
personale.

Sempre ai fini della tutela dei “soggetti deboli” vittime di violenza sessuale, semplice o di gruppo,
l’elenco delle circostanze aggravanti è stato aggiornato:

- art. 609 ter comma 1, nn. 5 ter e 5 quater: l’aggravante di pena si applica anche ai fatti
commessi “nei confronti di una donna in stato di gravidanza” e ai fatti commessi “nei
confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato,
o colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza
convivenza”
- art. 609 duodecies: le pene per i delitti in esame, oltre che per quelli di cui agli artt. 609
quater, quinquies e undecies, sono aumentate in misura non eccedente la metà nei
casi in cui gli stessi siano compiuti con l’utilizzo di mezzi atti ad impedire
l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche

Circostanze attenuanti. Il legislatore ne ha prevista una all’ultimo comma dell’art. 609 bis per i
“casi di minore gravità”.

Per il delitto di violenza sessuale di gruppo ne sono previste due:

- per il partecipante la cui opera abbia avuto minima importanza nella preparazione o
nella esecuzione del reato
- per chi sia stato determinato a commettere il reato quando concorrono le condizioni
stabilite dall’art. 112 comma 1 nn. 3 e 4 e comma 3

Quanto alle pene accessorie e alle misure di sicurezza previste dall’art. 609 nonies: vedi più
avanti. Iniziamo ad anticipare che l’elenco delle sanzioni interdittive e sospensive è stato arricchito
con l’introduzione dell’interdizione temporanea da pubblici uffici, dalla sospensione dall’esercizio di
una professione o di un arte e da misure di sicurezza personali.

Il delitto di violenza sessuale è procedibile a querela di parte, ma il termine per la proposizione è


di 6 mesi e la querela è irrevocabile. È procedibile d’ufficio nelle ipotesi previste dal comma 4
dell’art. 609 septies.

La tutela dei minori di età nel sistema dei reati sessuali:

a) i delitti di violenza sessuale, atti sessuale con un minorenne e corruzione di minorenne

Partiamo dall’analisi delle norme contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali dei minori e dalla
pedopornografia. Si tratta di disposizioni che puniscono le varie forme di sfruttamento e di fruizione
della prostituzione minorile e della pedopornografia minorile, nonché la consumazione di atti
sessuali con un minore o in presenza di un minore. Partendo proprio da quest’ultima categoria di
reati, è necessario distinguere sul piano passivo due tipologie di minori di età.

I minori che appartengono alla prima tipologia (gli infraquattordicenni) sono quelli che
godono di una tutela molto forte. Per essi il legislatore ha previsto un aggravante per il reato di
violenza sessuale (art. 609 ter co 1 n. 1), la quale, a sua volta può ulteriormente aggravarsi (vedi
artt. 609 ter co 2 e 609 octies co 3), e ha incriminato il compimento tout court (cioè in assenza di
alcuna forma di coercizione della volontà) di atti sessuali con il minore che non ha compiuti 14 anni
91
(art. 609 quater), punendo tale fatto come il reato di violenza sessuale (aggravata laddove la
vittima non abbia compiuto gli anni 10).

Ancora, il legislatore ha previsto come reato la “corruzione di minorenni”, cioè il semplice


compimento di atti sessuali “in presenza di persona minore di anni 14, al fine di farla assistere”
(art. 609 quinquies). A questa ipotesi di reato è stata aggiunta la nuova fattispecie di chi, salvo
che il fatto costituisca più grave reato, “fa assistere una persona minore degli anni 14 al
compimento di atti sessuali, ovvero mostra alla medesima materiale pornografico, al fine di indurla
a compiere o subire atti sessuali” (art. 609 quinquies co 2). Si tratta in entrambi i casi di reati che
incidono su un piano psichico del minore: il minore è spettatore e non è coinvolto nell’atto
sessuale. Però, nella nuova fattispecie di cui al comma 2, la partecipazione del minore all’atto
sessuale è oggetto di dolo specifico, in quanto la norma sembra esser stata introdotta per
assicurare una tutela anticipata alla sfera sessuale del minore intesa sul piano fisico (anticipata
rispetto a quella assicurata dalle altre norme).

La pena è aumentata se il fatto è commesso:

- da più persone riunite


- da persona che fa parte di un associazione per delinquere e al fine di agevolarne
l’attività
- con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle
condotte, un pregiudizio grave
- dall’ascendente, dal genitore – anche adottivo o il di lui convivente –, dal tutore o da
altra persona cui – per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di
custodia – il minore è affidato o che abbia con quest’ultimo una relazione di stabile
convivenza.

Per quanto riguarda i minori che abbiano compiuto il quattordicesimo anno di età, invece, la
tutela prevista coincide sostanzialmente con quella prevista per i soggetti passivi adulti dalle norme
che incriminano la violenza sessuale e la violenza sessuale di gruppo.

Ulteriori misure per rafforzare la tutela dei minorenni sono previste agli artt. 609 septies, nonies e
decies.

Con l’art. 609 septies il legislatore ha stabilito che alla normale procedibilità a querela fissata per i
delitti di violenza sessuale e di atti sessuali con minorenne si faccia eccezione nei casi:

- di violenza sessuale commessa nei confronti di persona che al momento del fatto non
abbia ancora compiuti gli anni 18
- in cui il reato sia commesso dall’ascendente, dal genitore – anche adottivo o il di lui
convivente –, dal tutore o da altra persona cui – per ragioni di cura, di educazione, di
istruzione, di vigilanza o di custodia – il minore è affidato o che abbia con quest’ultimo
una relazione di stabile convivenza
- di compimento di atti sessuali con minorenne che non abbia compiuto gli anni 10.

All’ art. 609 nonies sono previste come pene accessorie per chi abbia commesso i delitti di cui agli
artt. 609 bis, ter, quater, quinquies, octies e undecies:

- la perdita della potestà genitoriale, quando la qualità di genitore è elemento costitutivo


o circostanza aggravante del reato

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- L’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado
nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o in altre strutture pubbliche o private
frequentate prevalentemente da minori.

Per i reati più gravi sono anche previste le misure di sicurezza di avvicinarsi ai luoghi abitualmente
frequentati da minori e di svolgere lavori che prevedano un contatto abituale con i minori (la
violazione è sanzionata con la reclusione fino a 3 anni).

Infine, l’ art. 609 decies dispone che quando si procede per i delitti ora esaminati commessi ai
danni di minorenni, il procuratore della repubblica ne deve dare notizia al tribunale per i minorenni.
Sono anche previste forme di supporto psicologico e di assistenza al minore vittima del reato.

Per quanto attiene all’ elemento psicologico: il delitto di atti sessuali con minorenne è a dolo
generico, così come i delitti di violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo; il delitto di
corruzione di minorenne è a dolo specifico (chi compie atti sessuali in presenza di persona
minore di anni 14 deve farlo al fine di far assistere il minore al compimento dell’atto sessuale;
invece, chi fa assistere la persona minore di anni 14 al compimento degli atti sessuali ovvero
mostra alla medesima materiale pornografico deve farlo al fine di indurla a compiere o subire atti
sessuali). Quando i delitti previsti dagli artt. 609 bis, ter, quater, octies e undecies sono commessi
in danno di un minore di anni 18, e quando è commesso il delitto di cui all’art. 609 quinquies, il
colpevole non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa, salvo che si
tratti di ignoranza inevitabile.

Sul piano processuale si deve aver presente che i reati di cui agli artt. 609 bis, ter e quater sono
punibile a querela della persona offesa. La querela può essere proposta entro il termine di 6 mesi
dal fatto e non è revocabile. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi elencati dal comma 4 dell’art. 609
septies.

segue: la tutela dei minori di età nel sistema dei reati sessuali

b) la prostituzione minorile

Le norme incriminatrici contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia e del turismo
sessuale in danno di minori sono state introdotte per dare attuazione alla Convenzione di New
York sui diritti del fanciullo del 1991.

Il nostro ordinamento prevede una disciplina generale per il contrasto del fenomeno della
prostituzione (“legge Merlin” del 1958), che punisce le condotte di “proprietà ed esercizio di casa
di prostituzione”, “locazione di locale per esercizio di casa di prostituzione”, “tolleranza abituale
dell’esercizio della prostituzione”, “reclutamento ed agevolazione della prostituzione al fine del
reclutamento” e altre fattispecie. A questa disciplina generale è poi stata affiancata una disciplina
ad hoc per contrastare lo sfruttamento della prostituzione minorile e così sono stati introdotti i
nuovi artt. 600 bis (prostituzione minorile) e 600 quinquies (iniziative turistiche volte allo
sfruttamento della prostituzione minorile).

La norma “base” (art. 600 bis) punisce:

- al comma 1: le condotte di chi (1) recluta o induce, (2) favorisce, sfrutta, gestisce,
organizza, controlla o altrimenti trae profitto
- al comma 2: le condotte di chi compie atti sessuali con un minore in cambio di denaro o
di altra utilità, anche solo promessi.

93
Osservazioni sul comma 1: fra le varie condotte, l’unica a sollevare dubbi interpretativi è quella di
induzione. Le SU della Cassazione hanno ritenuto applicabile anche al caso della prostituzione
minorile l’elaborazione giurisprudenziale in materia di prostituzione dell’adulto; di conseguenza è
stato escluso che il fatto che il fatto del cliente che paghi il prezzo della prestazione possa essere
qualificato ai sensi dell’art. 600 bis co 1 come “induzione alla prostituzione”, dovendo essere
ricondotto all’ipotesi meno grave di cui al secondo comma della stessa norma. Si ha, quindi,
induzione solo quando la vittima sia indotta a prostituirsi nei confronti di terzi, dove per terzi può
intendersi anche una sola persona, purchè diversa dal soggetto agente – induttore.

Osservazioni sul comma 2: si tratta di un ipotesi la cui portata applicativa è molto estesa dal
momento che, a seguito della modifica apportata nel 2012, il fatto è ritenuto consumato anche se il
corrispettivo è solo promesso e anche se consiste in una utilità di natura non economica. Con
questa ipotesi di reato, il legislatore ha previsto l’ incriminazione del fatto del cliente, cioè chi, in
cambio di denaro o di altra utilità o della promessa, compie atti sessuali con un minorenne di età
compresa fra i 14 e i 18 anni.

Infine, per quanto concerne l’aspetto relativo al concorso fra le diverse condotte contemplate dalla
norma, la giurisprudenza si muove nel senso di ammettere il concorso di reati.

Con l’ art. 600 quinques si incrimina il fatto di chi “organizza o propaganda viaggi finalizzati alla
fruizione di attività di prostituzione a danno di minori o comunque comprendenti tale attività”. Si
tratta di un reato ostativo: non comporta la lesione diretta del bene giuridico, ma determina la
creazione di una situazione prodromica alla realizzazione della condotta lesiva. In questo modo il
legislatore ha anticipato notevolmente la soglia di tutela.

Per aversi “organizzazione” o “propaganda” la giurisprudenza ritiene che il soggetto debba aver
creato una struttura organizzativa, seppur minima e anche se limitata ad una sola trasferta e per
un numero limitato di partecipanti. Perché la fattispecie si realizzi è necessario che la fruizione
della prostituzione non sia una “conseguenza occasionale” del viaggio, ma che ne costituisca
l’elemento qualificante. Invece, non è necessario che l’obiettivo di fruire della prostituzione di
minorenni si realizzi. Il cliente dell’organizzatore del viaggio non risponde del reato in questione,
ma potrà essere chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 600 bis, anche nella forma di tentativo.

Le fattispecie in esame sono a dolo generico. Fra gli elementi del fatto tipico che devono essere
coperti dal dolo dell’agente, anche solo eventuale, vi è anche la minore età della vittima.

segue: la tutela dei minori di età nel sistema dei reati sessuali

c) la pornografia minorile

Gli artt. 600 ter e 600 quater incriminano una lunga serie di fattispecie:

a) realizzazione di esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produzione di


materiale pornografico con l’utilizzo di minori di anni 18, nonché il
reclutamento o l’induzione di minori di anni 18 a partecipare a esibizioni o
spettacoli pornografici, ovvero il trarre altrimenti profitto da detti spettacoli
b) il commercio di materiale pornografico realizzato usando minori di anni 18
c) la distribuzione, la divulgazione, la diffusione o la pubblicizzazione con
qualsiasi mezzo – anche telematico – di materiale pornografico realizzato
utilizzando minori di anni 18

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d) la distribuzione o la divulgazione di notizie o informazioni finalizzate
all’adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori degli anni 18
e) l’offerta o la cessione a terzi – anche a titolo gratuito – di materiale
pornografico realizzato utilizzando minori di anni 18
f) l’assistere a esibizioni o spettacoli pornografici in cui siano coinvolti minori di
anni 18
g) il procurarsi o il detenere consapevolmente, fuori dalle ipotesi previste
dall’art. 600 ter, cioè condotte di cui alle lettere a, f, materiale pornografico
realizzato usando minori di anni 18.

Vengono, quindi, incriminate una serie di fattispecie secondo un criterio di gravità scalare.

Interviene poi l’ art. 600 quater.1 ad estendere tutte le incriminazioni formulate negli artt. 600 ter e
quater al caso in cui il materiale pornografico oggetto di tali condotte rappresenti “immagini virtuali
realizzate utilizzando immagini di minori degli anni 18 o parti di esse”, comminando però una pena
più bassa (diminuzione di 1/3). Non è chiaro se si tratti di una fattispecie autonoma di reato oppure
se sia una circostanza attenuante delle ipotesi di reato previste dalle norme precedenti. A tal
proposito è stato rilevato come manchi un rapporto strutturale di genere a specie fra le fattispecie
di cui agli artt. 600 ter e quater, da un lato, e la norma in commento, dall’altro lato; quindi si
tratterebbe di una fattispecie autonoma di reato. L’altro dubbio riguarda il significato di “immagini
virtuali”. Da una attenta lettura non sembra che questa fattispecie copra anche i fatti di pornografia
realizzati con l’uso di maggiorenni che sembrano minorenni né, tantomeno, i fatti di pornografia
totalmente virtuali, cioè realizzati senza l’impiego di persone vere.

L’ elemento psicologico è da riconoscersi nel dolo generico e accomuna tutte le fattispecie


analizzate. L’unica differenza risiede nel tipo di dolo:

- per i delitti di cui all’art. 600 ter può bastare il dolo eventuale
- per il delitto di cui all’art. 600 quater è necessario il dolo intenzionale o il dolo diretto
(“consapevolmente”)
- la fattispecie di cui all’art. 600 quater.1, essendo costruita per relationem, mutua
l’elemento psicologico delle fattispecie qui sopra riportate.

segue: la tutela dei minori di età nel sistema dei reati sessuali (e contro la riduzione in
schiavitù)

d) i nuovi delitti di “adescamento di minorenni” e di “istigazione a pratiche di pedofilia e


pedopornografia”

L’ art. 609 undecies incrimina un nuovo delitto, quello di adescamento di minorenni. “Chiunque,
allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 600 bis, ter e quater, anche se relativi al materiale
pornografico di cui all’art. 600 quater.1, quinquies, 609 bis, quater, quinquies e octies, adesca un
minore di anni 16, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione da 1 a 3
anni”. Al secondo periodo dell’articolo è specificato cosa debba intendersi per “adescamento”:
“qualsiasi atto volto a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce posti in
essere anche mediante l’utilizzo della rete internet o di altri reti o mezzi di comunicazione”. Si
tratta, quindi, di una fattispecie di mera condotta, a forma vincolata, a dolo specifico (: la
condotta dell’agente deve essere volta a carpire la fiducia del minore). Rispetto a quest’ultimo
aspetto, si ha adescamento consumato già prima che l’agente sia riuscito ad ottenre la fiducia
della vittima, purchè la condotta realizzata sia voluta e idonea al raggiungimento dell’obiettivo di

95
ottenere la fiducia del minore per poi commettere uno dei reati indicati dalla norma. L’obiettivo è
anticipare l’intervento dell’ordinamento penale nei casi in cui la vittima abbia meno di 16 anni.

Si applica la norma di cui all’art. 609 sexies, che esclude che il colpevole possa invocare a propria
scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile.

Il quadro sanzionatorio è poi integrato dalle circostanze aggravanti di cui all’ art. 609 duodecies
per i caso in cui il reato sia compiuto con l’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati
di accesso alle reti telematiche.

Per quanto riguarda il rapporto tra il reato di adescamento e reati fine successivamente consumati,
è condivisibile la tesi di chi esclude il concorso, dato l’assorbimento del reato meno grave nel reato
consumato.

Si applicano le disposizioni in materia di pene accessorie e di effetti penali di cui all’art. 609 nonies
e in materia di comunicazione al tribunale per i minorenni di cui all’art. 609 decies.

Il legislatore ha poi introdotto anche il delitto di istigazione a pratiche di pedofilia e di


pedopornografia. La norma punisce con la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 5 anni, salvo che il
fatto costituisca più grave reato, chiunque, con qualsiasi messo e son qualsiasi forma di
espressione, pubblicamente istiga a commettere, in danno di un minore, uno o più delitti previsti
dagli artt. 600 bis, ter, quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui agli artt. 600
quater.1, quinquies, 609 bis, quater e quinquies. Non possono essere incvocate, a propria scusa,
ragioni o finalità a carattere artistico, letterario, storico o di costume.

Si tratta di fattispecie dolosa, il cui quadro sanzionatorio è integrato dalle pene accessorie di cui
all’art. 600 septies.2.

Circostanze e pene accessorie applicabili ai delitti di prostituzione minorile e


pedopornografia (artt. 602 ter, 600 septies.1, 600 septies.2)

L’ art. 602 ter prevede delle circostanze aggravanti applicabili ad alcuni reati in materia di
prostituzione minorile e pedopornografia, oltre che di schiavitù.  leggi articolo.

L’ art. 600 septies.1 prevede una circostanza attenunate applicabile a tutti i delitti della sezione
I, per il concorrente che si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze
ulteriori, ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di
prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti.

L’ art. 600 septies.2 prevede, come pene accessorie, in caso di condanna o di patteggiamento:

1) la perdita della responsabilità genitoriale, quando la qualità di genitore è prevista quale


circostanza aggravante del reato
2) l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela o
all’amministrazione di sostegno
3) la perdita del diritto agli alimenti e l’esclusione dalla successione della persona offesa
4) l’interdizione temporanea dai pubblici uffici; l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di 5
anni in seguito alla condanna alla reclusione da 3 a 5 anni, fermo restando, comunque,
l’applicazione dell’art. 29 co 1 quanto all’interdizione perpetua.
5) Al secondo comma è poi prevista, per il casi di delitto commesso in danno di un minore,
l’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché

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da ogni ufficio o servizio in istituzioni o strutture pubbliche o private frequentate
abitualmente da minori.
6) Infine al terzo comma è prevista, in ogni caso, la chiusura degli esercizi la cui attività risulti
essere finalizzata alla consumazione dei delitti, nonché la revoca della licenza di esercizio
o della concessione o dell’autorizzazione per le emittenti radiotelevisive.

Responsabilità amministrativa degli enti

L’ art. 25 quinquies d.lgs. 231/2001 estende l’applicabilità della disciplina della responsabilità
amministrativa da reato degli enti alla commissione dei delitti di cui agli artt. da 600 bis a 600
quinquies e di cui all’atrt. 600 undecies.

Confisca

Ai sensi dell’ art. 600 septies è sempre disposta – salvi i diritti della persona offesa alle restituzioni
e al risarcimento dei danni – la confisca, anche per equivalente, del prodotto, del profitto o del
prezzo del reato in caso di condanna o di patteggiamento per uno dei delitti in materia di
prostituzione minorile o pedopornografia, o per uno dei delitti contro la libertà sessuale dei minori
di età, o per il delitto di cui all’art. 609 undecies.

Laddove non sia possibile, il giudice disporrà la confisca dei beni di valore equivalente a quelli che
costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato e di cui il condannato abbia, anche
indirettamente o per interposta persona, la disponibilità.

NB: con la riforma del 2012 l’ obbligatorietà della confisca è stata circoscritta ai soli prodotto,
profitto o prezzo del reato; invece, per quanti riguarda le “cose che servirono o furono destinate a
commettere reato” opera la norma generale sulla confisca (facoltativa) di cui all’art. 240.

Infine, sempre nel 2012 il legislatore ha esteso l’art. 12 sexies l. 356/1992 ai delitti di cui agli artt.
600 bis co 1, 600 ter co 1 e 2, 600 quater.1, relativamente alla condotta di produzione o
commercio di materiale pornografico, e 600 quinquies, il quale prevede la confisca del denaro, dei
beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per
interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo
in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle interposte sul reddito, o alla
propria attività economica.

Fatto commesso all’estero

Il legislatore, conscio di come il fenomeno degli “abusi sessuali” tenda sempre più a spostarsi
all’estero, ha modificato la norma di cui all’ art. 604 (“Fatto commesso all’estero”), estendendo
l’efficacia della legge penale italiana a fatti qualificabili come reato ai sensi delle norme
incriminatrici analizzate in questo capitolo, oltre che ai sensi delle norme in materia di “schiavitù”),
con la sola eccezione della violenza sessuale di gruppo, commessi all’estero da cittadino italiano,
o in danno di cittadino italiano, o da straniero in concorso con cittadino italiano.

Prescrizione

I termini di prescrizione sono raddoppiati per tutti i delitti presi in considerazione, con la sola
eccezione del delitto di “adescamento di minori” e del delitto di “istigazione a pratiche di pedofilia
e pedoprornografia”, e salvo il ricorrere – per i delitti di violenza sessuale e di atti sessuali con
minore – della circostanza del “fatto di minore gravità” prevista dall’art. 609 bis co 3 e dall’art. 609
quater co 4.
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Profili processuali

È previsto l’arresto obbligatorio in flagranza (art. 380 cpp) per i delitti di cui agli artt. 600 bis co
1, 600 ter co 1 e 2 (anche se relativo a materiale pornografico di cui all’art. 600 quater.1), 600
quinquies, 609 bis (escluso il caso previsto dal comma 3), 609 octies.

Ai sensi dell’art. 275 cpp deve sempre essere disposta la custodia cautelare in carcere in ordine
ai delitti di cui agli artt. 600 bis co 1, 600 ter escluso comma 4, 600 quinquies, 609 bis, 609 quater,
609 quinquies (salvo che non siano acquisiti elementi dai quali risulti l’insussistenza di esigenze
cautelari o che ricorrano le circostanze attenuanti di cui agli arttt. 609 bis, quater e octies). Si deve,
però, aggiungere e ricordare che con la sentenza n. 265 del 2010 la CC ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 275 comma 3 secondo e terzo peridodo, nella parte in cui,
relativamente ai reati du cui agli artt 600 bis comma 1, 609 bis e 609 quater, non fa slava l’ipotesi
in cui siano stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le
esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Capitolo VII – Delitti contro l’ inviolabilità del domicilio

L’oggetto della tutela penale: il domicilio come proiezione spaziale della persona
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La libertà domiciliare come espressione della libertà personale

La collocazione sistematica dei “delitti contro la inviolabilità del domicilio” nel titolo XII del cp
(quello relativo ai delitti contro la persona) e, in particolare modo, nel capo III (quello relativo ai
delitti contro la libertà individuale) si spiega in ragione dello stretto legame tra libertà personale e
libertà domiciliare  il legame tra queste due libertà, come ha riconosciuto la CC nella sent.
135/2002, emerge dalla stessa contiguità dei precetti costituzionali che sanciscono l’una e l’altra
(artt. 13 e 14 Cost.), proclamandone l’inviolabilità. In particolare, poi, la CC ha precisato che il
“domicilio viene in rilievo, nel panorama dei diritti fondamentali di libertà, come proiezione
spaziale della persona, nella prospettiva di preservare da interferenze esterne comportamenti
tenuti in un determinato ambiente”: il domicilio non viene in rilievo in quanto bene patrimoniale,
bensì in quanto luogo in cui si svolge la vita privata della persona (riposo, alimentazioni, relazioni
familiari, occupazioni dilettevoli o professionali) in condizioni di pace, tranquillità e sicurezza.

Tutela penale della libertà domiciliare e progressivo ampliamento del catalogo dei delitti
contro l’inviolabilità del domicilio

L’ art. 14 Cost. tutela il domicilio sotto 2 aspetti:

 come “diritto di ammettere o escludere altre persone da determinati luoghi, in cui si


svolge la vita intima di ciascun individuo”
 come “diritto alla riservatezza su quanto si compie nei medesimi luoghi”.

Il codice del 1930 contemplava solo due figure delittuose (“violazione di domicilio” e
“violazione di domicilio commessa da un pubblico ufficiale”) che avevano lo scopo di
reprimere fatti di intrusione materiale nel domicilio altrui. Oggi, per apprestare una tutela più
completa alla libertà di domicilio e, in particolare, alla riservatezza domiciliare – intesa come
“esclusività di conoscenza di ciò che attiene alla sfera privata domiciliare –, è stato incluso tra i
delitti contro l’inviolabilità del domicilio anche quello di “interferenze illecite nella vita privata” ex
art. 615 bis  quindi la riservatezza della vita privata all’interno del domicilio è stata resa oggetto
di tutela penale configurando come reato il fatto di chi si procura indebitamente, mediante l’ uso di
strumenti di ripresa visiva o sonora, notizie o immagini attinenti alla vita privata che si svolge nel
domicilio altrui, nonché il fatto di chi rivela o diffonde al pubblico le notizie o le immagini ottenute
nei modi indicati. Si tratta di un ampliamento che intende rispondere al progresso tecnologico che
ha reso possibile forme di offesa alla riservatezza (o privacy) domiciliare senza la necessità di un’
intrusione materiale o fisica e che, quindi, non sono riconducibili alle tradizionali fattispecie di
violazione domiciliare.

Un ulteriore ampliamento del catalogo dei “delitti contro l’inviolabilità del domicilio” è stato operato
con una legge del 1993, che ha introdotto i delitti di “accesso abusivo ad un sistema
informatico o telematico”, “detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi
informatici o telematici”, “diffusione di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici
diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico o telematico”  i sistemi
informatici e telematici sono ritenuti un espansione ideale dell’area di rispetto pertinente al
soggetto interessato, garantito dall’art. 14 Cost. e penalmente tutelata nei suoi aspetti essenziali
dagli artt. 614 e 615 cp. Oggetto di tutela di queste fattispecie è il c.d. domicilio informatico.

In dottrina si è affermato che:

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- i “reati informatici” sopra citati formano una categoria autonoma, distinta dai “reati
domiciliari”; la loro collocazione materiale nella sfera spaziale domiciliare e indifferente
per la legge
- non è corretta la collocazione tra i delitti contro l’inviolabilità del domicilio del delitto di
cui all’art. 615 quinquies cp, in quanto la sua naturale collocazione sarebbe tra i delitti
contro il patrimonio.

L’ambito di estensione della tutela penale: i diversi luoghi riconducibili alla nozione
di “domicilio”

Rispetto di “delitti contro l’inviolabilità del domicilio” vengono in rilievo due concetti di “domicilio”:

a) il domicilio in senso vero e proprio: nozione alla quale si riferiscono le norme


incriminatrici della violazione di domicilio e delle interferenze illecite nella vita privata
b) i c.d. domicilio informatico: nozione che si identifica con il “sistema informatico o
telematico” a cui si riferiscono i reati che abbiamo indicato sopra.

Dalla delimitazione ci ciascuna di queste due nozioni di “domicilio” dipende l’individuazione delle
tipologie di luoghi in relazione ai quali opera la tutela apprestata e, quindi, lo stesso ambito di
estensione di quella tutela.

Il domicilio in senso vero e proprio: “abitazione”, “altro luogo di privata dimora” e loro
appartenenze (artt. 614 – 615 bis cp)

Per espressa previsione dell’ art. 614 cp al concetto di “domicilio” sono riconducibili 3 diverse
tipologie di luoghi:

1. abitazione
2. altro luogo di privata dimora
3. loro appartenenze

A questi luoghi fanno riferimento:

- le norme incriminatrici della violazione di domicilio commessa da un pubblico ufficiale


(art. 615)O e delle interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis)
- la norma (art. 52 co 2) che disciplina la legittima difesa nel privato domicilio
- la norma del codice di rito (art. 266 co 2 cpp) che disciplina le intercettazioni di
comunicazioni tra presenti (c.d. “intercettazioni ambientali”)  in particolare, l’art. 266
co 2 statuisce che, qualora le intercettazioni avvengano nei luoghi indicati dall’art. 614,
debbano essere consentite solo se vi è un fondato timore di ritenere che in quei luoghi
si stia svolgendo l’attività criminosa. Negare che un certo luogo costituisca privata
dimora ha come conseguenza che non sarà necessaria l’autorizzazione del giudice
perché in quel luogo la pg possa effettuare riprese visive o sonore volte
all’accertamento della commissione di reati.

Premesse:

1) la lettera della legge, nel riferirsi alle tre tipologie di luoghi (abitazione, altro luogo di dimora
privata e appartenenze), sancisce l’ autonomia e la maggiore ampiezza del concetto
penalmente rilevante di “domicilio” rispetto a quello civilistico (art. 43 cc)
2) in dottrina e giurisprudenza è controverso il concetto di “luogo di privata dimora” e, in
particolar modo, la possibilità che quel concetto ricomprenda luoghi in cui si svolgano delle
100
attività (professionali, imprenditoriali, commerciali) diverse da quelle di tipo domestico;
invece, per quanto riguarda il concetto di “appartenenze” il contrasto è molto recente ed è
sorto a seguito dell’emersione di un contrasto giurisprudenziale relativo alla qualifica delle
parti condominiali comune.

Abitazione: si intende il luogo isolato dall’ambiente esterno in cui la persona, in base ad un


titolo legittimo, conduce liberamente, da sola o con altri, la propria vita domestica o intime.
La Cassazione ha precisato che il carattere di “abitazione” non viene meno qualora in un certo
luogo la persona svolga, oltre alla propria vita domestica, anche quella professionale. Requisito
essenziale dell’abitazione è l’ attualità dell’uso. Di conseguenza, l’illecita intrusione in luoghi non
ancora abitati o non più abitati non offende la libertà individuale, in quanto si tratta di luoghi che
non possono essere considerati “proiezione spaziale della persona”, ma solo luoghi di natura
meramente patrimoniale. l’attualità dell’uso non implica necessariamente una sua continuità e,
dunque, risulta compatibile sia con un assenza più o meno prolungata, che con un uso saltuario
(casi di villeggiatura).

Altro luogo di privata dimora: si intende ogni luogo che serve attualmente, in modo permanente o
transitorio, all’esplicazione della vita privata. È controverso cosa debba intendersi per “vita privata”:
è un concetto che abbraccia solo le attività di tipo domestico o, comunque, intime, oppure può
essere esteso agli ambienti in cui si svolgono attività lavorative di natura
professionale/commerciale/imprenditoriale? La tesi a favore della soluzione che esclude dalla
nozione in esame gli ambienti di lavoro sembrerebbe oggi scontrarsi con un argomento
sistematico: la riforma della legittima difesa ha, infatti, esteso la nuova disposizione sulla legittima
difesa nel privato domicilio – operante nei casi previsti dall’art. 614 cp – alle ipotesi in cui il fatto sia
avvenuto “all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale
o imprenditoriale” (art. 52 col 3 cp). Tuttavia, a favore della soluzione opposta sembrerebbe
deporre un’ interpretazione conforme a Costituzione che fa coincidere le nozioni di “domicilio”
accolte dalla legge penale e dalla Costituzione nell’art. 14. Infatti, il significato costituzionale di
“domicilio” abbraccia anche luoghi in cui non si conduce una vita domestica e nei quali l’uomo
svolge la sua personalità. L’ampia garanzia accordata alla libertà di domicilio dall’art. 14 Cost. è
strumentale alla tutela di altri diritti di libertà di rango costituzionale – libertà di iniziativa economica,
di riunione, di associazione, di insegnamento, di organizzazione politica e sindacale –. Quindi, un
interpretazione conforme a costituzione del concetto penalmente rilevante di “domicilio” e in
particolar modo di “luogo di privata dimora” sembra richiedere la soluzione di ricomprendere nella
nozione ogni luogo nel quale, al riparo da interferenze esterne, si estrinseca nei modi più
diversi la personalità dell’individuo. L’orientamento prevalente della giurisprudenza si è
espressa negli stessi termini e ciò ha fatto che si che fossero ricomprese nella nozione anche:

- ambienti diversi dalle abitazioni nei quali si svolgono, più o meno occasionalmente,
attività di tipo domestico (es: camere di albergo)
- ambienti privati in cui la persona compie, in via permanente o transitoria, attività diverse
da quelle legate alla vita domestica, quali, in particolare, attività di lavoro, di
commercio, di studio, di svago, politiche ecc.

La progressiva estensione del concetto di “luogo di privata dimora” agli ambienti di lavoro è stata
operata in giurisprudenza, affermando che il delitto di violazione del domicilio è configurabile non
solo in relazione all’ufficio o allo studio privato non aperto al pubblico, ma anche in relazione a
luoghi aperti al pubblico (pensa ad un qualsiasi esercizio commerciale).

101
Così, la giurisprudenza è arrivata a valorizzare un fondamentale criterio di identificazione del
“luogo di privata dimora”  è tale il luogo dal quale taluno abbia il diritto di escludere altri
(“criterio dello ius excludendi”). In applicazione del “criterio dello ius excludendi” sono stati così
qualificati come “luogo di privata dimora”:

 lo studio del libero professionista e, in particolare, del notaio e della guardia medica: il
titolare dello studio notarile ha uno ius excludendi nei confronti delle persone estranee,
nonostante si tratti di uno studio aperto al pubblico in determinate fasce orarie;
l’accesso all’ambulatorio, nelle ore notturne, è consentito solo a coloro che hanno
necessità di assistenza sanitaria.
 l’ ufficio privato: l’ammissione di terzi avviene in funzione dell’attività che vi si svolge e
nulla vieta all’avente diritto di interdire l’accesso o la permanenza nell’ufficio e nelle
pertinenze di esso a coloro con i quali non abbia, o non intenda instaurare, rapporti di
sorta.
 gli stabilimenti industriali: benché aperti alla frequentazione di altre persone – lavoratori
in primis – gli stabilimenti industriali sono per l’imprenditore luoghi di privata dimora;
egli, infatti, nello svolgimento della sua attività di direzione e controllo è titolare del
diritto di escludere l’ingresso o la permanenza di persone non accette (è un diritto
funzionale all’esercizio della libertà di iniziativa economica).
 gli esercizi commerciali: il titolare ha il diritto di impedire l’accesso e di allontanare
coloro che si introducono per azioni illecite (diritto che trova un fondamento normativo
nel c.d. “regolamento di pubblica sicurezza”). La giurisprudenza ha poi precisato che gli
esercizi commerciali sono luoghi di privata dimora non solo quando sono aperti al
pubblico, ma anche e a maggior ragione nell’orario di chiusura (es: quando il titolare vi
si intrattenga per le pulizie).
 il salone e gli uffici di una banca: la banca è una persona giuridica privata e gli uffici con
i quali esercita la sua attività, anche se aperti al pubblico, sono da assimilarsi a luoghi
di privata dimora.
 il casinò: la sala da gioco, gestita in regime privatistico, è si un locale aperto al pubblico,
ma come nel caso degli esercizi commerciali, sussiste lo ius excludendi del titolare
dell’esercizio.
 la casa utilizzata da una persona per prostituirsi
 i locali di istituti scolastici
 la sede di un partito politico
 un canile
 la stanza di degenza di un ospedale: si deve specificare, però, che al degente non
compete un indifferenziato ius excludendi, dal momento che la stanza di degenza è
sotto diretto controllo del personale ospedaliero.
 la cella, la sala colloqui e, in generale, gli ambienti penitenziari: si tratta di ambienti che
sono sotto diretto ed immediato controllo dell’Amministrazione penitenziaria, quindi i
detenuti non hanno alcun ius excludendi alios.

Un orientamento più restrittivo, sulla base di criteri diversi da quello dello ius exclidendi, propone
una nozione meno ampia di “luogo di privata dimora” che si è formato nella giurisprudenza in tema
di interferenze illecite nella vita privata e di intercettazioni ambientali. Nella violazione di
domicilio la libertà domiciliare viene in primo luogo in rilievo come diritto di escludere altre persone
da determinati luoghi in cui si esplica la vita privata dell’individuo; si comprende quindi perché la
giurisprudenza accolga una nozione di “luogo di privata dimora” estesa a tutti i luoghi in cui, in via

102
di principio, un individuo può vantare uno ius excludendi. Invece, rispetto al delitto di “interferenze
illecite nella vita privata” e alla disciplina in tema di “intercettazioni ambientali”, la libertà domiciliare
viene in rilievo come diritto alla riservatezza su quanto si compie in certi luoghi. Da qui emerge la
proposta di una nozione più ristretta di “luogo di privata dimora” in relazione agli artt. 615 bis cp e
266 co 2 cpp; nozione dalla quale sono estromessi gli ambienti in cui taluno possa vantare si uno
ius excludendi, ma non anche un diritto alla riservatezza. A questo fine sono stati proposti due
criteri, talvolta impiegati congiuntamente:

1. il criterio dell’apertura del luogo al pubblico: non si può invocare la riservatezza in


relazione a luoghi a cui possono accedere un numero indiscriminato di persone
2. il criterio della stabilità della presenza nel luogo: non si può invocare la riservatezza in
relazione a luoghi nei quali ci si trovi occasionalmente o transitoriamente.

Applicando il “criterio dell’apertura del luogo al pubblico”, la giurisprudenza ha escluso, in tema di


intercettazioni ambientali, che possano essere qualificati come “luoghi di privata dimora” quelli
aperti al pubblico in cui si svolgano attività lavorative e ha affermato, di conseguenza, la non
necessarietà dell’autorizzazione del giudice per eseguire un intercettazione ambientale. Nello
specifico, si è pronunciata in questo senso in relazione a:

- un ufficio commerciale ubicato all’interno dei locali di un impresa individuale, un


agenzia di pompe funebri, il deposito di una società che esercita il commercio di carni
nell’orario di apertura al pubblico, il piazzale di un impresa
- un esercizio commerciale nelle ore di apertura al pubblico
- l’ ufficio del sindaco e gli uffici tecnici dei comuni

Applicando congiuntamente entrambi i criteri, oltre a quello dello ius excludendi, la giurisprudenza
è giunta a negare, in tema di interferenze illecite nella vita privata, che si possa qualificare come
“luogo di privata dimora” l’esercizio commerciale aperto al pubblico in cui una persona (es: cliente
del bar) si trovi solo transitoriamente ed occasionalmente. Si tratta di una persona che non può
vantare ne un diritto alla riservatezza, ne uno ius excludendi.

Applicando, invece, i criteri dello “ius excludendi” e della “stabilità della presenza nel luogo”, la
giurisprudenza ha anche d’altra parte riconosciuto, sempre in tema di interferenze illecite nella vita
privata, che il luogo di lavoro aperto al pubblico (esercizio commerciale) è, invece, luogo di privata
dimora rispetto alle persone che – a differenza dei clienti – vi si trovino stabilmente per ragioni di
lavoro. La facoltà di accesso da parte del pubblico non fa venir meno nel titolare il diritto di
escludere singoli individui non autorizzarti ad entrare o a rimanere.

Ancora, applicando il criterio della “stabilità della presenza nel luogo”, sempre in tema di
interferenze illecite nella vita privata, la giurisprudenza ha escluso che possa qualificarsi come
“luogo di privata dimora” lo stabilimento industriale in cui l’imprenditore si reca solo saltuariamente
per svolgere le proprie funzioni di direzione e di controllo. Il criterio della “stabilità della presenza
nel luogo” – come mostra quest’ultimo caso citato – sembra contrastare con i principi affermatisi in
tema di violazione del domicilio, a proposito dell’attualità dell’uso dell’abitazione. Ora, se
l’intrusione materiale in un abitazione che è solo saltuariamente frequentata rileva come
violazione di domicilio, allora anche l’intrusione in un luogo di privata dimora saltuariamente
frequentato dovrebbe esserlo.

Sempre al criterio della “stabilità della presenza nel luogo” la giurisprudenza ha fatto ricorso per
escludere la qualifica di luogo di privata dimora in relazione ai bagni dei locali pubblici e agli
abitacoli delle autovetture. Per quanto riguarda i bagni dei locali pubblici, quindi, introdurre una
103
telecamera sotto la porta della toilette non costituisce interferenza illecita nella vita privata. I motivi
fondamentalmente sono due: 1. i bagni dei locali pubblici sono spesso il luogo dove si consumano
attività criminose (spaccio di stupefacenti), 2. la frequentazione del bagno di un locale pubblico è
assolutamente temporanea e condizionata unicamente alla soddisfazione di un bisogno personale.
Comunque non mancano posizioni di diverso avviso: la CEDU impone, al contrario, di considerarlo
un luogo di privata dimora, in quanto, seppur temporaneamente, è luogo in cui deve essere
garantita intimità e riservatezza. Allo stesso modo dei bagni dei locali pubblici, la Cassazione si è
pronunciata in merito al camerino (c.d. prive) di un locale notturno. Invece, per quanto riguarda
l’abitacolo di un autovettura, la qualificazione di luogo di privata dimora è stata esclusa essendo
che si tratta di un luogo in cui normalmente non si compiono atti caratteristici della vita domestica.

Appartenenze di un abitazione o di un altro luogo di privata dimora: sono quei luoghi, ancorchè
non materialmente uniti, caratterizzati da un rapporto di funzionalità, servizio o
accessorietà. In tema di violazione di domicilio, la giurisprudenza ha qualificato come
“appartenenze”:

 i cortili, i giardini e gli orti: anche se si tratta di parti di uso comune perché, ad esempio,
parti comuni di un condominio
 il box: si fa riferimento al box che sia situato nell’ambito di un giardino recintato e che
appartenga alla privata dimora della persona offesa
 l’ androne di uno stabile, il pianerottolo condominiale, la soglia di un abitazione

La giurisprudenza, in relazione al delitto di interferenze illecite nella vita privata, ha qualificato


come “appartenenze” anche l’ ingresso di un autorimessa, nonché il parco di una villa privata.

Invece, come anticipato, in materia di interferenze illecite, la giurisprudenza si discosta dalla


posizione assunta in tema di violazione di domicilio per quel che riguarda le parti condominiali
comuni. La riconducibilità alla nozione di “appartenenze” e, quindi, di “domicilio” è stata esclusa
da un recente orientamento formatosi in relazione a fatti di installazione di impianti di
videosorveglianza di parti comuni ad opera di singoli condomini. È stato sostenuto che la tutela
della riservatezza domiciliare ex art. 615 bis si riferisca alla vita privata che si svolge nei luoghi non
visibili a terzi, se non con l’impiego di particolari strumenti di ripresa visiva e/o sonora. Quindi,
sarebbero irrilevanti rispetto alla norma incriminatrice le videoriprese aventi ad oggetto
“comportamenti tenuti in spazi di pertinenza dell’abitazione di taluno, ma di fatto non protetti dalla
vista degli estranei, giacchè per questa ragione tali spazi sono assimilabili a luoghi esposti al
pubblico” . Un altro orientamento, in linea con quello appena riportato, ha aggiunto che nel
concetto di “domicilio” non debbano esser fatti rientrare i luoghi – come il pianerottolo, l’ingresso, il
cortile – che sono destinati alla frequentazione di un numero indeterminato di soggetti. Ecco che
l’installazione di una telecamera nell’androne di accesso ai garages condominiali integra la
fattispecie di cui all’art. 615 bis perché si tratta di una appartenenza ai sensi dell’art. 614 ed è
irrilevante che sia di uso comune a più abitazioni, spettando un diritto di esclusione dell’intruso da
quel luogo a ciascuno dei titolari delle singole abitazioni.

Il c.d. domicilio informatico: concetto di “sistema informatico o telematico (artt. 615 ter –
615 quinquies cp)

La legge non definisce i concetti di “sistema informatico” e di “sistema telematico”. Essi hanno
chiaramente natura tecnica, richiamando delle scienze alle quali il giudice, comunque, deve riferirsi
per definire se un dato complesso di beni costituisca – detto in altri termini – un “domicilio
informatico”.
104
Potremmo definire il “sistema informatico” come il complesso delle apparecchiature di raccolta e
di elaborazione di dati, composto sia da elemento hardware (es: il pc e il suo hard disk), che da
elementi software (es: i programmi installati nel pc). Invece, potremmo definire il “sistema
telematico” come il complesso degli elemento (hardware e software) che costituiscono un
apparecchiatura per la trasmissione a distanza di dati (es: un pc connesso ad internet o ad altri
pc, così da formare una rete). La giurisprudenza prevalente accoglie una nozione ampia di
sistema informatico e telematico, che è comprensiva anche dei sistemi destinati alla raccolta ed
elaborazione di dati, alla prestazione di servizi,… . Nello specifico ha qualificato come sistema
informatico o telematico:

- il pc connesso ad interne
- gli archivi informatici di imprese e di studi professionali
- il sistema di prenotazione on – line dei voli di una compagnia aerea
- i registri informatici dell’Amministrazione della giustizia
- la banca dati interforze degli organi della polizia
- la banca dati informatica dell’Agenzia delle entrate
- i sistemi di video sorveglianza
- una centrale telefonica Telecom – gestita in via informatica – e il centralino telefonico di
un azienda
- la rete di telefonia mobile alla quale è possibile connettersi con apparecchi che
utilizzano codici di acceso
- il terminale POS per la gestione dei pagamenti con carta di credito
- il decoder che, unitamente ad una scheda elettronica (pic – card o smart – card)
consente la visione di programmi televisivi criptati.

Le figure di reato a tutela della “inviolabilità del domicilio”

Violazione di domicilio

L’art. 614 sanziona come violazione di domicilio:

a) l’ introduzione di taluno nell’abitazione altrui, o in altro luogo di privata dimora o nelle


appartenenze di esse, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo (ius
excludendi)
b) l’ introduzione clandestina o con l’inganno in quei medesimi luoghi
c) il trattenimento clandestino o con l’inganno nei medesimi luoghi.

La pena comminata dalla legge è la reclusione da 6 mesi a 3 anni.

“Introdursi”, secondo la prevalente dottrina, significherebbe fare in qualunque modo ingresso nel
domicilio altrui con l’intera persona e non già con una parte soltanto (es: gamba o capo), potendosi
in quest’ultima ipotesi figurarsi un tentativo di introduzione. Poi è stato specificato che
l’equiparazione dell’introduzione clandestina o con l’inganno a quella contraria alla volontà del
titolare dello ius excludendi si giustifica in ragione del fatto che un introduzione clandestina implica
il dissenso, mentre un introduzione con l’inganno priva di valore il consenso eventualmente
prestato. Esempio di introduzione clandestina: l’adultero che di notte, in assenza del marito
dell’amante, penetra nella casa di lei.

“Trattenersi” nel domicilio altrui, contro la volontà del titolare dello ius excludendi, o
clandestinamente o con l’inganno, presuppone che l’ingresso sia avvenuto in precedenza in modo
legittimo. A tal proposito, la giurisprudenza ha precisato che il trattenersi nell’abitazione dopo
105
esservi illegittimamente entrato non rende configurabile un ipotesi autonoma di reato; il fatto è già
rilevante come violazione di domicilio in ragione dell’introduzione illegittima.

Titolare dello ius excludendi (cioè soggetto passivo del reato) è chi attualmente e legittimamente
abita o dimora in un certo luogo, o chi lo rappresenta in caso di impedimento. In giurisprudenza si
è affermato che è irrilevante il titolo (proprietà, usufrutto, abitazione) che legittima ad abitare o
dimorare in un certo luogo; è sufficiente che il soggetto passivo sia in possesso dell’immobile in
base ad un titolo legittimo, senza che sia necessario risolvere la questione della sua proprietà.
Infatti, lo ius excludendi può essere esercitato anche contro il proprietario che risponde di
violazione di domicilio (es: proprietario che, contro la volontà del conduttore si introduce
nell’abitazione data in locazione).

Nell’ipotesi di domicilio comune a più persone, per stabilire chi sia titolare dello ius excludendi, è
necessario considerare il regime della comunione di cui si tratta. Nelle comunioni organizzate in
via gerarchica (es: ambiente di lavoro) il diritto di esclusione spetta al superiore; nelle comunioni
organizzate su criteri di uguaglianza ciascun componente è titolare del diritto di esclusione nei
confronti di terzi (caso emblematico è quello della famiglia: dopo la riforma del 1975 l’orientamento
giurisprudenziale muta sensibilmente, affermando che lo ius excludendi appartiene
individisibilmente ad entrambi i coniugi).

In caso di contrasto tra più titolari del diritto di esclusione, la giurisprudenza, in materia di relazioni
tra i coniugi, ritiene che il dissenso di un contitolare è sufficiente ad integrare la volontà contraria
all’introduzione o al trattenimento nel domicilio, pur in presenza del consenso di un altro.

Nell’ipotesi di introduzione palese nel domicilio altrui, cioè non clandestina o con inganno, la legge
richiede che essa avvenga “contro la volontà espressa o tacita” di chi ha il diritto di vietare
l’ingresso. Quindi, è necessaria da parte del titolare dello ius excludendi, la manifestazione di una
volontà contraria all’ingresso, espressa o tacita:

- la manifestazione espressa del dissenso può consistere in dichiarazioni verbali o


scritte, oppure ancora in gesti che inequivocabilmente significhino una volontà contraria
all’ingresso nel proprio domicilio
- per dissenso tacito si intende quello desumibile dalla condotta attraverso i fatti
concludenti, cioè quei fatti/atti che dimostrino e rendano esteriormente riconoscibile
l’esistenza di una volontà contraria all’ingresso nel domicilio.

È da sempre controverso se attribuire rilievo al “dissenso presunto”, ravvisabile nell’ipotesi in cui il


titolare dello ius excludendi non manifesti il proprio dissenso, nemmeno in forma tacita, perché
ignora il fatto dell’introduzione nel proprio domicilio e/o il fine perseguito dall’estraneo, illecito o
comunque incompatibile con i propri desiderata. La giurisprudenza maggioritaria attribuisce rilievo
al dissenso presunto. C’è comunque un filone minoritario che lo nega e, benché minoritario,
sembra essere conforme all’intenzione del legislatore manifestata nei lavoratori preparatori.

L’ elemento psicologico del delitto di violazione di domicilio consiste nel dolo generico, cioè
nella coscienza e volontà dell’agente di introdursi o di trattenersi nell’altrui abitazione contro la
volontà del titolare del diritto di esclusione, o clandestinamente o con l’inganno. Il fine o il motivo
che sorregge la condotta dell’agente è irrilevante. L’errore sul consenso dello ius excludendi
determina un errore sul fatto che costituisce il reato, quindi esclude la punibilità dell’agente (art. 47
co 1 cp.

106
L’antigiuridicità del fatto è esclusa in presenza di cause di giustificazione. Esempio: è il caso del
pubblico ufficiale che entra nell’altrui abitazione forzandone la porta di ingresso per eseguire una
perquisizione domiciliare che sia stata legittimamente disposta dall’autorità giudiziaria. Si tratta di
circostanze oggettive che si comunicano ai concorrenti nel reato.

L’ art. 614 co 4 prevede quali circostanze aggravanti speciali del delitto di violazione di domicilio:

- la commissione del fatto con violenza sulle cose o alle persone  la nozione di
“violenza sulle cose” richiede che la cosa sia danneggiata, trasformata o la cui
destinazione venga mutata (es: danneggio la porta di ingresso di un abitazione) e la
giurisprudenza ritiene configurabile il tentativo di violazione di domicilio aggravato dalla
violenza sulla cosa quando sia stata superata la soglia del danneggiamento della res
(porta) ma non si sia ancora verificata l’introduzione nell’abitazione altrui; per “violenza
alle persone” si intende solo la violenza fisica e non anche quella morale (cioè la
minaccia). Per consolidata giurisprudenza l’ aggravante della violenza ricorre solo se la
violenza è impiegata per entrare nel domicilio o per trattenervisi (questo è il fine della
violenza  nesso teleologico tra violenza e ingresso/trattenimento).
- l’essere il colpevole palesemente armato  non è richiesto alcun uso dell’arma. Si
discute se la persona offesa debba rendersi conto che l’agente è armato perché possa
operare l’aggravante. La giurisprudenza è per la soluzione negativa, ritenendo
irrilevante che la persona offesa percepisca il porto dell’arma da parte dell’agente. la
dottrina ha, però, fatto osservare che questa posizione è in contrasto con la lettera della
legge, dove si usa l’avverbio “palesemente”: sembra suggerire che l’arma debba essere
effettivamente veduta dal soggetto passivo. L’aggravante, concludendo, è configurabile
sia se l’agente si è mostrato armato fin dall’inizio – per entrare nel domicilio – sia se ha
mostrato l’arma solo successivamente – per trattenersi nel domicilio –.

Passiamo all’analisi dei rapporti tra la violazione di domicilio e altre figure di reato. in
giurisprudenza si è affermato che:

 per il furto di abitazione (figura autonoma di reato ex art. 624 bis): la violazione di
domicilio resta assorbita, quindi si esclude un concorso tra i due reati, quando l’agente
si introduce o si trattiene nell’altrui abitazione al fine esclusivo di commettere un furto;
invece, si avrebbe un concorso tra le due fattispecie nel caso in cui l’agente, introdottosi
nell’altrui abitazione contro l’espressa volontà di chi aveva il diritto di escluderlo, per fini
diversi (es: congiungersi carnalmente con una donna), vi si sia poi trattenuto allo scopo
di sottrarre delle cose dall’abitazione
 per quanto riguarda la rapina: oggi, in considerazione della modifica apportata con
legge 94/09, che ha configurato quale nuova circostanza aggravante della rapina (art.
628 co 3 n. 3 bis) la commissione del fatto in un edificio o in altro luogo destinato, in
tutto o in parte, a privata dimora o nelle pertinenze di essa, si ritiene essere la rapina –
rispetto alla violazione di domicilio – un reato complesso al pari del furto di abitazione.
Quindi, le due fattispecie possono essere in concorso tra loro
 i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose e alle
persone: possono concorrere con il delitto di violazione di domicilio, aggravato dall’uso
di violenza sulle cose o alle persone. Tuttavia, secondo la giurisprudenza si
verificherebbe l’assorbimento del reato di violazione di domicilio in quello in esame, con
conseguente esclusione del concorso, solo quando l’esercizio del preteso diritto si
concreta o consiste nel solo ingresso o nella sola permanenza nell’altrui casa invito
domino.
107
Inoltre, la giurisprudenza ritiene ammissibile il concorso anche tra il delitto di violazione di domicilio
e:

- il danneggiamento: solo se la violenza non costituisce il mezzo per conseguire


l’evento del delitto di violazione di domicilio e sia la conseguenza di un azione del tutto
avulsa da quel fine
- la truffa: tutela un bene giuridico differente (profitto con danni altrui) rispetto alla
violazione di domicilio
- la violenza sessuale: la violazione di domicilio non è rispetto a questa fattispecie né un
elemento costitutivo né una circostanza aggravante
- i maltrattamenti in famiglia
- gli atti osceni in luogo aperto al pubblico

Il delitto di violazione di domicilio è procedibile a querela, salvo che ricorrano le aggravanti di cui
all’art. 614 co 4, nel qual caso la procedibilità è d’ufficio. Il diritto di querela spetta al titolare del
diritto di esclusione. Comunque, nei nuclei familiari o di persone conviventi spetta a ciascuno.
Nell’ipotesi in cui la querela sia stata proposta da più di un familiare, la remissione della stessa da
parte di uno solo non può dare luogo a una declaratoria di estinzione del reato. Nel caso di
persone giuridiche, il diritto di querela spetta al rappresentante legale. Infine, nel caso di enti di
mero fatto, che non abbiano ne statuto ne rappresentanza, il diritto di querela spetta a ciascun
componente.

Ancora, si deve dire che è stata introdotta una nuova lettera all’art. 381 co 2 cpp, la lett. f), che
include la violazione del domicilio tra i delitti tra quelli per i quali è previsto l’ arresto in flagranza.
Per effetto di questa normativa, l’arresto facoltativo in flagranza è oggi previsto in relazione a tutte
le ipotesi di violazione di domicilio.

Per concludere, si deve segnalare l’autonomia che è propria di una particolare violazione di
domicilio: la “violazione di domicilio commessa da un pubblico ufficiale” ex art. 615 cp.
Questa disposizione punisce con la più grave pena della reclusione da 1 a 5 anni il pubblico
ufficiale che “abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, s’introduce o si intrattiene nei luoghi
indicati nell’articolo precedente”. Soggetto attivo è solo il pubblico ufficiale e non anche, ad
esempio, l’incaricato di servizio. L’elemento che caratterizza la fattispecie è rappresentato
dall’abuso dei poteri e delle funzioni del pubblico ufficiale. La tutela pena accordata dall’art. 615 è
integrata dalla facoltà di legittima resistenza agli atti arbitrari dei pubblici ufficiali (vedi l’art. 393 bis
cp: ritiene non punibile una persona chiamata a rispondere di resistenza a pubblico ufficiale per
essersi opposta ad aprire la porta di casa – poi sfondata – a carabinieri, dopo che questi ne
avevano arbitrariamente intimato l’apertura.

Interferenze illecite nella vita privata

L’ art. 615 bis contempla, rispettivamente nel primo e nel secondo comma, 2 diverse figure di
reato, punite con la stessa pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni:

 comma 1 – delitto di indiscrezione: consiste nel fatto di “chiunque, mediante


strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini
attinenti alla vita privata di una persona, svolgentesi nei luoghi indicati dall’art. 614” (es:
paparazzo che fotografa un attrice in topless mentre fa il bagno nella piscina della sua
villa)

108
 comma 2 – delitto di rivelazione: consiste nel fatto di “chi rivela o diffonde, mediante
qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute” attraverso
la commissione del delitto di indiscrezione (es: giornalista che pubblica le foto del
paparazzo di cui sopra).

In entrambi i casi si tratta di reati comuni, cioè possono essere ammessi da chiunque.

I principali problemi interpretativi affrontati dalla giurisprudenza riguardano la fattispecie di


indiscrezione, la cui realizzazione costituisce anche il presupposto di quella di divulgazione. Per
quanto riguarda l’indebito procacciamento di notizie/immagini attinenti alla vita privata altrui, questo
deve avvenire utilizzando strumenti di ripresa visiva o sonora (macchine fotogr., video camere,
registratori). È controverso se la legge faccia riferimento solo agli strumenti capaci di fissare
l’immagine o il suono. Secondo l’orientamento prevalente, la ratio dell’incriminazione dovrebbe
indurre a ritenere applicabile la norma a tutti i fatti commessi con strumenti idonei alla mera
captazione di immagini o suoni, senza però consentirne la fissazione (binocolo, radiospie). Oggetto
del procacciamento devono essere notizie o immagini attinenti alla vita privata che si svolge
nell’abitazione / nel luogo di privata dimora / nelle loro appartenenze. Questa attività di
procacciamento deve realizzarsi indebitamente: non può dirsi che ciò avvenga nell’ipotesi di chi,
ammesso seppur temporaneamente a far parte della vita privata di una persona,a sua insaputa si
procuri notizie o immagini.

L’antigiuridicità della condotta – sia di indiscrezione che di rivelazione – è esclusa se sussistono


cause di giustificazione. Ad esempio, possono venire in rilievo il consenso dell’avente diritto e
l’adempimento di un dovere.

L’ elemento psicologico è costituito, per entrambi i delitti, dal dolo generico, consistente, nella
volontà cosciente dell’agente di procurarsi indebitamente immagini inerenti la privacy altrui (delitto
comma 1) e nella coscienza e volontà di rivelare o diffondere notizie o immagini attinenti alla vita
privata svolgentesi nell’altrui domicilio (delitto di cui al comma 2) con la consapevolezza che
l’acquisizione di quelle notizie o immagini è avvenuta indebitamente con l’uso di strumenti di
ripresa visiva o sonora.

Infine, al comma 3, sono configurate due circostanze aggravanti speciali che comportano la
procedibilità d’ufficio qualora il fatto sia commesso:

- da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio con abuso dei poteri e


violazione dei doveri inerenti la funzione o il servizio
- da chi esercita la professione di investigatore privato.

Quanto ai rapporti con altre figure di reato, si è affermata in giurisprudenza l’opinione per cui
l’installazione di un radiotelefono contenente una microspia realizza il delitto di cui all’ art. 617 bis
(installazione di apparecchiature atte ad intercettare o impedire comunicazioni telegrafiche
o telefoniche) e non quello di cui all’art. 615 bis. La clausola di sussidiarietà espressa contenuta
nel comma 2 dell’art. 615 bis impedisce d’altra parte il concorso tra il delitto di rivelazione e l’altro
più grave reato al quale il fatto sia riconducibile.

Infine, per quanto riguarda i profili processuali, la giurisprudenza afferma che il titolare del diritto di
querela non è solo il soggetto direttamente attinto dall’abusiva captazione delle immagini o notizie,
ovvero immediatamente coinvolto nella loro diffusione, ma anche chiunque faccia parte, nel luogo
violato, di un nucleo provato con diritto alla riservatezza.

109
Nello specifico, per quanto riguarda più da vicino il delitto di rivelazione:

- il giudice competente è quello del luogo di pubblicazione del periodico (in cui, ad
esempio, vengono pubblicate le foto) e non quello del luogo in cui le immagini vengono
captate
- è legittimo il sequestro preventivo di fotografie costituenti il corpo di reato.

Accesso abusivo a sistemi informatici o telematici

La figura delittuosa centrale nel sistema penale in materia di tutela del c.d. domicilio informatico è
quella di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico prevista dall’ art. 615 ter. Si
tratta di un reato comune, che può essere commesso con due modalità alternative che la legge
considera equivalenti:

1) l’ introduzione abusiva in un sistema informatico o telematico protetto da misure di


sicurezza
2) la permanenza in un sistema informatico o telematico, protetto da misure di sicurezza,
contro la volontà espressa o tacita del titolare dello ius excludendi alios.

La tutela penale è accordata solo a sistemi informatici o telematici “protetti da misure di


sicurezza” che manifestano – in modo analogo alla perimetrazione muraria rispetto al domicilio
tradizionale – la volontà di fare del sistema informatico/telematico un luogo chiuso e riservato
(“sicuro”), accessibile solo a chi, in base ad un titolo legittimo, ne può liberamente disporre per
l’esplicazione di qualsivoglia genere di attività (lavorativa, creativa,…). Le “misure di sicurezza”
possono essere varie. La giurisprudenza, per assicurare massima riservatezza informatica o
telematica, ha accolto una nozione estesa di tale nozione che abbraccia sia meccanismi di tipo
informatico (non necessariamente sofisticati come, ad es., una password), che misure di carattere
organizzativo esterne al sistema (come, ad es., quelle delle strutture aziendali che regolano
l’ingresso nei locali alle sole persone autorizzate).

Quindi, si ha “introduzione” in un sistema informatico/telematico protetto quando siano superate le


barriere (logiche e/o fisiche) che presiedono l’accesso alla memoria interna del sistema e ci si trovi
in condizioni di poter richiamare i dati e i programmi che vi sono contenuti. L’introduzione nel
sistema può avvenire anche da persona che non sia fisicamente a contatto con l’elaboratore
(come un hacker che sfrutti la connessione dell’altrui computer alla rete internet per introdurvi un
virus dopo aver disabilitato le impostazioni di protezione internet explorer).

La permanenza invito domino, invece, è quella posta in essere da chi, dopo esservi entrato
lecitamente, perché autorizzato, vi si trattenga illecitamente, perché non più autorizzato (es:
condotta di chi è stato autorizzato all’accesso al sistema per determinate finalità e poi utilizzi il
titolo di legittimazione per finalità diverse, non rispettando le condizioni alle quali il titolare del diritto
di esclusione ha subordinato l’accesso; dipendente dell’Agenzia delle Entrate che interroga la
banca dati dell’anagrafe tributaria per consultare la dichiarazione dei redditi di un contribuente ma
al di fuori delle proprie mansioni e di un accertamento in corso). Sono tutte queste ipotesi di abuso
del titolo di legittimazione all’accesso a un sistema informatico o telematico.

I è detto che, talvolta, chi è autorizzato all’accesso è anche autorizzato a prendere cognizione dei
dati del sistema informatico (es: appartenente alla Polizia), ciò significa che l’acquisizione dei dati è
di per se legittima, mentre è illegittimo, ad esempio, la comunicazione di essi ad un investigatore
privato. È stato anche precisato che non assumono rilievo le violazioni commesse dal soggetto
autorizzato in ordine alle indicazioni relative all’orario nel quale gli acces possono essere effettuati
110
essendo prescrizioni che attengono solo al profilo organizzativo. Ad analoghe conclusioni è giunta
anche la Cassazione, sulla base di un interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia:
per l’integrazione del reato è, quindi, necessario un accesso al sistema informatico/telematico non
autorizzato, il che non avviene qualora un soggetto autorizzato vi entri per avvalersene per finalità
diverse.

Le SU della Cassazione hanno poi ribadito quanto affermato dalla giurisprudenza: integra il delitto
previsto dall’art. 615 ter colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema
informatico/telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle
prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo
invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano
soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema.

Il reato è punito a titolo di dolo generico, consistente nella volontà di introdursi o di mantenersi
nella memoria interna di un elaboratore, in assenza del consenso del titolare dello ius excludendi,
con la consapevolezza che quest’ultimo ha predisposto delle misure di protezione per i dati che vi
sono memorizzati. Lo scopo perseguito dall’agente è irrilevante.

L’introduzione deve avvenire abusivamente, in assenza del consenso o di cause di


giustificazione.

La “permanenza” deve avvenire contro la volontà espressa o tacita del titolare dello ius
excludendi, che può essere manifestata prima dell’introduzione nel sistema o in un momento
successivo.

Sempre l’art. 615 ter prevede, ai commi 2 e 3, alcune circostanze aggravanti speciali che
rendono il reato procedibile d’ufficio:

1. se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con


abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, o se il fatto è
commesso con abuso della qualità di “operatore di sistema”
2. se il colpevole commette il fatto usando violenza sulle cose o alle persone, oppure è
palesemente armato
3. se dal fatto deriva la distruzione o il danneggiamento del sistema o l’interruzione totale o
parziale del suo funzionamento, o la distruzione o il danneggiamento dei dati, delle
informazioni o dei programmi.

Quanto ai rapporti con altre figure di reato, la giurisprudenza ha ammesso il concorso tra il
delitto in esame e quello di frode informatica (art. 640 ter). La Cassazione, invece, ha escluso il
concorso con il delitto di appropriazione indebita affermando che “la duplicazione dei dati contenuti
in un sistema informatico/telematico costituisce condotta tipica del reato previsto dall’art. 615 ter,
restando in esso assorbito il reato di appropriazione indebita”.

Disciplina sanzionatoria:

- confisca obbligatoria dei beni e degli strumenti informatici o telematici che risultino
esser stati in tutto o in parte usati per la commissione del reato di cui all’art. 615 ter
- il reato di cui all’art. 615 bis costituisce reato – presupposto della responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche

111
Un profilo processuale rilevante è relativo al locus commissi delicti: non è il luogo di
consumazione di accesso abusivo ad un sistema, ma quello in cui è collocato il server che elabora
e controlla le credenziali di autenticazione al cliente.

Detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici

L’ art. 615 quater punisce il fatto di chiunque, al fine di procurare a se o ad altri un profitto, ovvero
di arrecare ad altri un danno, abusivamente si procura (cioè, acquista in qualsiasi modo la
disponibilità), riproduce (effettua la copia), diffonde (divulga), comunica o consegna codici, parole
chiave o altri mezzi idonei all’accesso ad un sistema informatico l telematico, protetto da misure di
sicurezza, o comunque fornisce indicazioni o istruzioni idonee al predetto scopo. Si tratta di un
reato di pericolo che punisce condotte prodromi che alla possibile realizzazione del delitto di
accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico. Quindi, la norma in esame rafforza
ala tutela alla riservatezza dei dati e dei programmi contenuti nei sistemi.

Oggetto materiale della condotta sono i codici di accesso a sistemi informatici o telematici
protetti da misure di sicurezza.

L’elemento psicologico del reato è costituito dal dolo generico, consistente nel fine – alternativo –
di procurare a sé o ad altri un profitto, o di arrecare ad altri un danno.

La condotta deve essere posta in essere abusivamente, cioè in assenza di cause di


giustificazione e, in particolar modo, al di fuori dell’ipotesi dell’esercizio di un diritto o di un
adempimento ad un dovere, e in assenza del consenso dell’avente diritto.

Le circostanze aggravanti speciali sono:

1. fatto commesso a danno di un sistema informatico o telematico utilizzato dallo stato o da


altro ente pubblico o da impresa esercente servizi pubblici o di pubblica necessità
2. fatto commesso da pubblico ufficiale o da incaricato di pubblico servizio con abuso dei
poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, ovvero con abuso della
qualità di “operatore di sistema”.

Infine, quanto ai rapporti con altre figure di reato la giurisprudenza riconosce la possibilità di
concorso tra il delitto in esame e quello di accesso abusivo ad un sistema informatico o
telematico, mentre esclude il concorso con il delitto di ricettazione.

Diffusione di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici diretti a danneggiare o


interrompere un sistema informatico o telematico

L’ art. 615 quinquies punisce “chiunque, allo scopo di danneggiare illecitamente un sistema
informatico o telematico, le informazioni, i dati o i programmi in esso contenuti o ad esso pertinenti
ovvero di favorire l’interruzione, totale o parziale, o l’alterazione del suo funzionamento, si procura,
produce, riproduce, importa, diffonde, comunica, mette a disposizione di altri apparecchiature,
dispositivi o programmi”. La dottrina ha sottolineato come questa norma incriminatrice reprima una
pluralità di condotte prodromiche alla realizzazione di reati di danneggiamento ex artt. 635
bis e quater.

Oggetto materiale delle condotte sono le apparecchiature, i dispositivi o i programmi informatici


idonei a danneggiare i sistemi informatici o telematici, nonché idonei ad interromperne o ad
alterarne il funzionamento.

112
È necessario il dolo specifico perché sia integrato il delitto. La condotta deve avere lo scopo
alternativo di:

a) danneggiare illecitamente il sistema informatico/telematico o le informazione, i dati e i


programmi in esso contenuti
b) favorire l’interruzione, totale o parziale, o l’alterazione del funzionamento del sistema
informatico/telematico.

Capitolo VIII – Delitti contro l’ inviolabilità della corrispondenza, delle comunicazioni


e dei segreti

L’oggetto della tutela


113
Il capo dedicato ai delitti contro la libertà individuale si chiude con la Sezione dedicata ai delitti
contro la inviolabilità dei segreti (14 norme incriminatrici). Tutelare il segreto significa assicurare
la facoltà di tenere celati un fatto o una cosa, quindi tutelare un modo di esercizio di un diritto di cui
il soggetto passivo è titolare. In questo modo la tutela delle manifestazioni della personalità umana
passa anche attraverso la tutela della segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni. Allo
stesso modo, la tutela del diritto di proprietà esige anche che l’ordinamento tuteli la segretezza
delle scoperte, delle invenzioni scientifiche o delle applicazioni industriali  con questo complesso
di norme il legislatore ha inteso proteggere dei “beni strumentali”. Si tratta di tutti beni di rango
costituzionale (vedi artt. 2, 15 e 42 Cost.)

I delitti a tutela della segretezza della corrispondenza

Il legislatore differenzia la tutela della segretezza della corrispondenza dalla tutela della segretezza
delle comunicazioni. Il confine tra i due concetti non è agevole.

Per quanto riguarda la nozione di “corrispondenza”, la Cassazione ha statuito che debbano


essere intese tali le stampe, inviate per posta al destinatario, non in busta chiusa. Questa
definizione viene, poi, estesa dal legislatore ai sensi dell’art. 616 co 4 cp, il quale prevede che “(…)
per “corrispondenza” si intende quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica
ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza”. È proprio questa definizione
che rende difficile definire il confine tra corrispondenza e comunicazione, termine quest’ultimo che,
di fatto, compare nella definizione stessa di corrispondenza, qualificandosi tale “ogni altra forma di
comunicazione a distanza”.

Nemmeno la definizione di “comunicazione” aiuta a definire i due concetti. Nonostante manchi una
definizione di “comunicazione”, le norme a tutela della stessa (artt. da 617 a 617 sexies) coprono
qualsiasi forma di comunicazione o di conversazione telegrafica, telefonica, telematica e
informatica, nonché “qualunque altra trasmissione a distanza di suoni, immagini o altri dati” (art.
623 bis).

Ebbene, a questo punto qual è la differenza tra “corrispondenza telefonica” e “comunicazione


telefonica”, ad esempio? Il fatto di classificare correttamente – come corrispondenza o come
comunicazione – un fatto non deve essere considerato un mero esercizio accademico,
considerando che per la violazione della comunicazione è prevista la reclusione fino ad un anno,
mentre per la violazione della comunicazione la reclusione da 6 mesi a 4 anni.

La dottrina ha tentato di individuare un possibile criterio discretivo nella natura “statica” della
corrispondenza a fronte della natura, invece, “dinamica” delle comunicazioni  la corrispondenza
sarebbe una comunicazione fissata su un supporto fisico (foglio di carta) o inserita in un
contenitore materiale (busta)  la stessa dottrina solleva dei dubbi circa l’utilità di questa
distinzione e propone di eliminarla, in favore dell’omnicomprensivo concetto di “comunicazione”.

La tutela della segretezza della corrispondenza (artt. 616, 618, 619, 620) è assicurata, in primis,
dall’incriminazione dei fatti di chi ex art. 616:

a) prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta: per
“chiusura” della corrispondenza deve intendersi un sistema che occulta il contenuto
integralmente, saldamente e direttamente, tale da poter essere superato solo con violenza
(es: strappo la busta perché incollata; apro casella di posta elettronica protetta da una
password personale)

114
b) sottrae o distrae una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta: per “sottrazione” si
intende togliere la corrispondenza da dove si trova; per “distrazione, invece, deviare il corso
normale della corrispondenza
c) distrugge o sopprime una corrispondenza chiusa o aperta a lui non diretta: la nozione di
“distruzione” equivale a quella di danneggiamento; quella di “soppressione” si riferisce a
qualsiasi fatto che comporti la perdita definitiva della corrispondenza
d) nonché il fatto di chi, essendo colpevole di uno dei fatto di cui al comma 1, quindi i fatti
indicati dalla lett. a alla lett. c), rivela senza giusta causa, in tutto o in parte, il contenuto
della corrispondenza, se dal fatto deriva un nocumento
 la fattispecie presuppone che l’agente sia anche responsabile dell’indebita
apprensione/sottrazione/distrazione della corrispondenza incriminate dal comma 1; in
mancanza di questo presupposto potrebbe configurarsi la fattispecie prevista dall’art. 618.
Si applicherà la sola pena prevista per questa fattispecie, restando il disvalore dell’antefatto
assorbito dal più grave disvalore del fatto di rivelazione.
La locuzione “senza giusta causa” costituisce un elemento del fatto tipico della fattispecie di
rivelazione e introduce un autonoma esimente, per l’operare della quale, però è necessario
che non sussistano alternative lecite alla rivelazione del contenuto della corrispondenza.
Per quanto, invece, riguarda l’evento della fattispecie in esame, cioè il “nocumento”
conseguenza della rivelazione, si configura a fronte di qualsiasi pregiudizio rilevante di
natura patrimoniale o anche solo morale.
Infine, questa fattispecie si configura anche quando la corrispondenza venga abusivamente
prodotta in giudizio

L’ art. 618, poi, prevede l’incriminazione dei fatti – fuori dai casi di cui all’art. 616 – di chi, essendo
venuto abusivamente a cognizione del contenuto di una corrispondenza a lui non diretta, che
doveva rimanere segreta, senza giusta causa lo rivela, in tutto o in parte, se dal fatto deriva un
nocumeto  si tratta di una fattispecie sussidiaria come è chiaro dalla lettera della disposizione
che recita “fuori dai casi preveduti dall’art. 616”, vale a dire quando chi rivela non ha previamente
commesso uno dei delitti di cui al comma 1 dell’art. 616.

Dov’è la linea di confine tra l’art. 616 comma 2 e l’art. 618? La dottrina ha indicato un possibile
spazio applicativo dell’art. 618 nel caso in cui l’agente prenda abusivamente cognizione di una
corrispondenza in origine chiusa (altrimenti mancherebbe il requisito della “destinazione alla
segretezza”), ma che in seguito è stata aperta dal destinatario, ovvero prenda cognizione di una
corrispondenza prima della sua chiusura. La fattispecie, comunque, è integrata solo quando la
corrispondenza era destinata a rimanere segreta, requisito che non compare nell’art. 616 
nell’art. 618 la segretezza non riguarda solo la corrispondenza, ma anche il contenuto, la cui
effettiva riservatezza dovrà essere oggetto di accertamento da parte del giudice.

Per quanto riguarda il requisito soggettivo, è richiesto il dolo generico, ad eccezione dell’ipotesi di
sottrazione o distrazione una corrispondenza chiusa o aperta (deve esserci il fine di prendere o far
prendere ad altri cognizione della corrispondenza).

Poi, il legislatore ha previsto come autonome e più gravi fattispecie i fatti della persona addetta al
servizio delle poste, dei telegrafi o dei telefoni che ex art. 619:

a) prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta
b) sottrae o distrae una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta
c) distrugge o sopprime una corrispondenza chiusa o aperta a lui non diretta

115
d) colpevole di uno dei delitti di cui al comma 1 dell’art. 619 (fatti indicati dalla lett. a alla lett.
c), rivela senza giusta causa, in tutto o in parte, il contenuto della corrispondenza

Infine, all’ art. 620 incrimina i fatti di chi, avendo notizia, nella sua qualità, del contenuto di una
corrispondenza aperta (o di una comunicazione telegrafica o di una conversazione telefonica), lo
rivela senza giusta causa ad altri che non sia il destinatario, ovvero ad una persona diversa da
quella tra le quali la comunicazione o la conversazione è interceduta.

La qualità del soggetto passivo – che fa delle fattispecie in esame dei reati propri – è definita dal
d.P.R. n. 655 del 1982, il quale all’art. 9 statuisce che “(…) sono considerati addetti ai servizi
postali, di bancoposta e di telecomunicazioni, oltre gli impiegati dell’Amministrazione e
dell’Azienda, i concessionari dei servizi stessi e gli obbligati al trasporto postale nonché i loro
dipendenti addetti a questo servizio”.

Il delitto di cui all’art. 620 ricorre solo quando il contenuto della corrispondenza sia stato appreso in
modo lecito, altrimenti si configura la condotta di cui all’art. 619.

È richiesto dolo generico, ad eccezione dell’ipotesi di sottrazione o distrazione una


corrispondenza chiusa o aperta per la quale è necessario il dolo specifico.

Le fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 619 corrispondono a quelle incriminate come reati comuni
dall’art. 161 comma 1, ma qui (art. 619) sono punite con la pena più grave della reclusione da 6
mesi a 3 anni, così come per la fattispecie di cui all’art. 620. Invece, la fattispecie di cui al comma 2
dell’art. 619 corrisponde solo in parte a quella punita a titolo di reato comune dall’art. 616 comma
2: la differenza risiede nel fatto che l’art. 619 non prevede, come elemento costitutivo la
fattispecie, il “nocumento per la vittima” come conseguenza della rivelazione e, inoltre, sanziona
più gravemente la condotta.

Tutti i delitti sono procedibili d’ufficio e non a querela di parte, come, invece, per i corrispondenti
reati comuni.

I delitti a tutela delle segretezza delle comunicazioni

La disciplina prevista a tutela delle comunicazioni e delle conversazioni telegrafiche e


telefoniche e delle comunicazioni informatiche e telematiche è simile a quella appena vista
per la tutela delle corrispondenza. La disciplina di quest’ultima, infatti, viene estesa per effetto della
disposizione di cui all’ art. 623 bis “a qualunque altra trasmissione a distanza di suoni, immagini o
altri dati”.

Nello specifico, la tutela della segretezza delle comunicazioni è assicurata dall’incriminazione della
condotta di chi:

a) fraudolentemente prende cognizione di una comunicazione o di una conversazione,


telefonica o telegrafica, tra altre persone o comunque a lui non diretta (art. 617) e di chi
fraudolentemente intercetta comunicazioni relative ad un sistema informatico o telematico o
intercorrenti tra più sistemi (art. 617 quater)
 si discute circa la differenza tra “prendere cognizione” e “intercettare”: una parte della
dottrina ritiene che si ha intercettazione quando la presa di cognizione avviene al momento
della trasmissione della comunicazione; secondo un altro orientamento la differenza tra le
due fattispecie (art. 617 e art. 617 quater) deve essere ravvisata solo nell’oggetto
materiale.

116
Perché sia integrata la fattispecie è necessario che l’agente prenda cognizione del
contenuto delle comunicazioni di entrambi gli interlocutori.
L’avverbio “fraudolentemente” circoscrive l’operare della fattispecie alle sole ipotesi di
presa di cognizione o intercettazione avvenuta non certo per puro caso, ma con l’impiego
volontario di apparecchiature idonee alla captazione di esse.
Il reato non sussiste se la comunicazione viene intercettata con il consenso di uno degli
interlocutori e nemmeno se la comunicazione viene registrata dalla persona a cui è diretta.
Il fatto non è scriminato dall’esercizio del diritto di cronaca.
Infine, la cassazione SU ha anche ravvisato la responsabilità ex art. 617 quater in capo ad
un “amministratore di sistema” che, mediante un programma appositamente inserito nel
sistema, ha intercettato le comunicazioni di posta elettronica indirizzate ad amministratori e
a dipendenti dell’ente.
b) interrompe o impedisce una comunicazione o una conversazione, telefonica o telegrafica,
tra le altre persone o comunque a lui non dirette (art. 617 co 1), o relative ad un sistema
informatico o telematico o intercorrenti tra più sistemi (art. 617 quater co 1)
c) salvo che il fatto costituisca più grave reato, rivela, mediante qualsiasi mezzo di
informazione al pubblico, in tutto o in parte, il contenuto delle comunicazioni o
conversazioni, telefoniche o telegrafiche (art. 617 co 2), o delle comunicazioni informatiche
o telematiche (art. 617 quater co 2) NB: a differenza delle corrispondi fattispecie di
rivelazione di corrispondenza (artt. 616 co 2 e 619 co 2), qui non si richiede che l’autore
della rivelazione sia anche responsabile dell’intercettazione.
d) installa, fuori dai casi consentiti dalla legge, apparati, strumenti, parti di apparati o di
strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telefoniche o
telegrafiche tra altre persone (art. 617 bis), o apparecchiature atte ad intercettare, impedire
o interrompere comunicazioni relative ad un sistema informatico o telematico ovvero
intercorrenti tra più sistemi (art. 617 quinquies)
 l’art. 617 bis anticipa la tutela della riservatezza e della libertà delle comunicazioni
mediante l’incriminazione di fatti prodromici all’effettiva lesione del bene; per questa
ragione la giurisprudenza ritiene già configurata la fattispecie con la sola installazione delle
apparecchiature, senza che sia necessaria l’intercettazione o l’impedimento delle altrui
comunicazioni
 la fattispecie di cui all’art. 617 quinquies ricorre anche nel caso di utilizzazione di
apparecchiature capaci di copiare i dati di accesso degli utenti di un sistema informatico
e) al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di arrecare ad altri un danno, forma
falsamente, in tutto o in parte, il testo di una comunicazione o di una conversazione
telefonica o telegrafica (art. 617 ter), o il contenuto di taluna delle comunicazioni relative ad
un sistema informatico o telematico o intercorrenti fra più sistemi (art. 617 sexies), qualora
ne faccia uso o lasci che altri ne facciano uso  la mera falsificazione non è sufficiente ad
integrare la fattispecie; la condotta deve essere completata dall’uso o dal permettere che
altri faccia uso del prodotto della falsificazione
f) al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di arrecare ad altri un danno, altera o
sopprime, in tutto o in parte, il testo di una comunicazione o di una conversazione
telegrafica o telefonica vera, anche solo occasionalmente intercettato, di taluna delle
comunicazioni relative ad un sistema informatico o telematico o intercorrenti fra più sistemi
(art. 617 sexies), qualora ne faccia uso o lasci che altri ne facciano uso.

È richiesto dolo specifico per la fattispecie di cui all’art. 617 bis e per quelle analizzate nelle
lettere e) ed f); invece, per tutte le altre è sufficiente dolo generico.

117
Le fattispecie di cui alle lettere a), b) e c) sono punite con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e sono
procedibili a querela di parte; le fattispecie di cui alle lettere d), e) ed f), invece, sono punite con la
reclusione da 1 a 4 anni e sono procedibili d’ufficio.

È configurabile il tentativo. Poi, a tutte le fattispecie si applica la stessa aggravante speciale (art.
617 co 3, art. 617 ter co 2, art. 617 quater co 4, art. 617 quinques co 2, art. 617 sexies co 2), che
comporta la pena della reclusione da 1 a 5 anni e la procedibilità d’ufficio

Il sistema dei delitti contro la segretezza delle comunicazioni si chiude con il reato proprio di cui
all’art. 620  il confine tra questa fattispecie e quella più grave di cui all’art. 617 (aggravata ai
sensi del comma 3) è dato dalle modalità con cui avviene la rivelazione: la fattispecie più grave è
integrata solo se la rivelazione avviene “mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico”.

I delitti a tutela degli altri segreti

La sezione si chiude con la disciplina della tutela di 3 tipologie di segreti (artt. 621, 622, 623: vedi
paragrafi sottostanti).

Rivelazione del contenuto di documenti segreti

L’oggetto materiale del delitto di cui all’ art. 621 è il contenuto, che debba rimanere segreto, di
qualsiasi atto o documento altrui, pubblico o privato, non costituente corrispondenza. Al comma 2 il
legislatore precisa che è considerato documento “anche qualsiasi supporto informatico contenente
dati, informazioni o programmi”.

La condotta è duplice e consiste:

- o nella rivelazione, senza giusta causa, del documento


- o nell’impiego a proprio o altrui profitto.

È necessario, quale presupposto della condotta, che l’agente sia venuto abusivamente a
conoscenza del contenuto del documento (cognizione illegittima come ad es. il mancato consenso
dell’avente diritto).

Il reato si consuma con la realizzazione dell’evento (verificazione in capo alla vittima, quale
conseguenza del fatto dell’agente, di un nocumento). Però, la fattispecie non si realizza quando la
notizia, ancorchè segreta, sia divenuta di dominio pubblico (es: dichiarazioni dei redditi già diffuse
mediante la pubblicazione degli elenchi dei contribuenti).

Il dolo è generico. Si procede a querela di parte.

Rivelazione di segreto professionale

Si tratta della fattispecie di cui all’ art. 622. È “segreto professionale” il segreto che il soggetto
conosce in ragione del proprio stato, ufficio, professione o arte. Quindi, a dispetto della rubrica,
l’oggetto materiale non è solo il segreto conosciuto dall’esercente una professione liberale (es:
avvocagtom, medico), ma anche il segreto appreso in ragione della particolare condizione sociale
dell’agente (es: ministro di culto), o in ragione dell’esercizio di attività pubbliche o private a titolo
oneroso o gratuito (es: impiegato), o in ragione dell’esercizio di una qualsiasi attività intellettuale o
manuale (es: artigiani). Anche il segreto bancario e quello giornalistico sono coperti dalla norma.

Si tratta di un reato proprio, la cui condotta è duplice:

118
- o rivelazione senza giusta causa
- o impiego a proprio o altrui profitto del segreto.

È un reato di pericolo concreto e non di evento: non è necessario che si verifichi un nocumento per
la vittima, ma che possa derivarle un nocumento come conseguenza della condotta dell’agente.

Il dolo è generico e si procede a querela di parte.

La caratteristica della fattispecie in esame – che permette di differenziarla da altre che potrebbero
sembrare simili – risiede nel fatto che il segreto di cui all’artr. 622 deve essere riferito a notizie
apprese per “ragioni di ufficio”.

Rivelazione di segreti scientifici o industriali

Si tratta dell’ art. 623. Anche in questo caso oggetto materiale è un segreto appreso in ragione del
proprio stato, ufficio, professione o arte; quindi, anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad un
reato proprio, con la differenza, però, che in questa fattispecie il segreto consiste in notizie,
destinate a rimanere segrete, invenzioni scientifiche o applicazioni industriali.

Perché possa operare la norma non è necessario che il segreto sia coperto da brevetto, nè che sia
caratterizzato dai requisiti della novità e della originalità e nemmeno che si tratti di
invenzioni/scoperte necessariamente suscettibili di ricevere applicazione industriale.

La condotta è duplice:

- rivelazione del segreto


- o impiego a proprio o altrui profitto.

Si tratta di un reato di mera condotta, non essendo menzionato il nocumento per la vittima fra gli
elementi della fattispecie (come è per il delitto di cui all’art. 621) e non essendo previsto come
evento (come è per il delitto di cui all’art. 622). Il dolo è generico e il reato è procedibile a querela
di parte.

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