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Corso di Diritto Penale a cura DI GIORGIO MARINUCCI ED EMILIO DOLCINI

GIUFFRE’ EDITORE - TERZA EDIZIONE


Avvertenza: Questo riassunto presuppone la lettura ( perlomeno ) del libro. Piu’ che altro e’
un supporto per la memoria al momento della ripetizione dei concetti fondamentali.

PARTE I – LE NORME PENALI: FONTI E LIMITI DI APPLICABILITA’


Capitolo 1- Legalità e irretroattività come limiti alla potestà punitiva dello stato.
I principi di legalità ed irretroattività delle norme penali nacquero nel periodo illuminista per
limitare, rispettivamente, la potestà punitiva dello Stato e l’efficacia temporale delle norme
penali. Nel nostro ordinamento il principio di legalità ha trovato posto negli articoli 1
( nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto dalla legge
come reato, né con pene che non siano da essa stabilite) e 199 c.p.( nessuno può essere
sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori
dai casi dalla legge stessa preveduti.) , nell’articolo 14 delle preleggi ( le leggi penali non si
applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati) e nell’articolo 25 comma 2 e 3 della
costituzione del ’48 (Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata
in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se
non nei casi previsti dalla legge).
Per quanto attiene al principio di irretroattività esso è sancito nell’articolo 2 comma 1 c.p.
(nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso,
non costituiva reato) e nell’articolo 25 comma 2 della cost.
E’ proprio con la loro inserzione in una costituzione rigida come quella del 1948 che tali
principi sono divenuti inderogabili sia per il giudice che per il legislatore; in particolare con
l’avvento dello Stato liberale di diritto e la contemporanea ripartizione dei poteri, a garanzia
dei cittadini sono stati imposti una serie di limiti alla potestà punitiva dello Stato tra i quali
ricordiamo il principio di precisione, di determinatezza, della tassatività.
Il principio di legalità stabilisce che soltanto la legge può prevedere i reati e le relative
sanzioni; nello stato liberale di diritto questo principio è molto pregnante poiché la legge è
espressione della volontà popolare;
Il principio della precisione stabilisce che solo la legge deve descrivere i reati e le sanzioni
in modo chiaro e puntuale;

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Il principio della determinatezza impone che la legge penale deve individuare i fatti che si
possono provare in concreto nel processo;
Il principio di tassatività stabilisce che le leggi penali non si applicano al di fuori dei casi
previsti dalla legge; divieto di analogia in malam partem.
I corollari penalistici al principio di legalità sono: la minaccia della pena come strumento di
prevenzione generale ed il presupposto della colpevolezza dell’agente a garanzia dei
cittadini.

Capitolo 2- Il principio di legalità: origine ed evoluzione storica.


Il principio di legalità fu elaborato dagli illuministi ma soprattutto da Montesquieu, al quale
si deve additare l’elaborazione del principio della separazione dei poteri legislativo,
esecutivo e giudiziario; e da Cesare Beccaria che sottolineò l’esigenza di emanare leggi
chiare e precise.
A Feurebach si devono invece i broccardi latini “ nullum crimen, nulla poena sine lege
scripta, stricta, certa et praevia”.

Capitolo 3- Il principio della riserva di legge nella materia penale: problemi


Si ha riserva di legge quando una norma costituzionale attribuisce la disciplina di una
materia alla sola legge formale, cioè all’atto normativo emanato dal Parlamento secondo le
procedure previste dagli artt. 70 e ss. Cost., ovvero quando l’attribuisce sia alla legge
formale che agli atti del potere esecutivo aventi valore di legge ordinaria.
Nel primo caso parliamo di riserva formale, nel secondo di riserva materiale.
Secondo parte della dottrina la riserva di legge in materia penale è da intendersi riserva
materiale; per gli autori invece si tratta di riserva formale poiché solo la legge, espressione
dell’intero popolo, può effettuare delle giuste scelte di politica criminale.
Oggetto della riserva di legge sono le norme incriminatici cioè quelle che nella parte
generale e speciale del diritto penale, individuano tutti i presupposti dai quali dipende il se,
il come ed il quanto della punizione.
Solo la legge può delineare il fatto di reato; la colpevolezza; la punibilità; i casi di tentativo;
le circostanze aggravanti o attenuanti; il contenuto e la misura delle sanzioni penali.

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Sono estranee dalla riserva di legge le cause di giustificazione che non essendo norme
penali non soggiacciono alle regole sulla produzione delle norme penali, esse possono
essere prodotte da qualsiasi fonte dell’ordinamento giuridico italiano.
La riserva di legge è solitamente definita assoluta, quando non permette l’intervento in
quella materia di nessuno strumento sublegislativo, e relativa, allorché permetta l’intervento
di strumenti sublegislativi. In materia penale si discute se la riserva sia assoluta, relativa o
tendenzialmente assoluta anche se per gli autori, l’articolo 25 comma 2 costituzione è
assoluta (al limite tendenzialmente assoluta) poiché è fatto divieto al legislatore di abdicare
il monopolio nella produzione delle norme incriminatici o di operare rinvii espliciti o
impliciti ad altre fonti.

Capitolo 4- La riserva di legge come riserva di legge formale dello Stato


Secondo una teoria del tutto minoritaria la riserva di legge nel nostro ordinamento è una
riserva formale, non può sostanzialmente permettere che altre fonti sublegislative
producano norme incriminatici poiché solo le leggi sono espressione della volontà
Parlamentare nella sua totalità.
Sono ammesse invece, secondo la stessa tesi, le leggi costituzionali poiché grazie alla
procedura prevista per la loro approvazione dall’articolo 138 Costituzione, sono
maggiormente garantistiche rispetto alle semplici leggi. Esempio di legge costituzionale
contenente norme incriminatrici è la legge cost. del 1989 n. 1 in tema di reati ministeriali.
Nella prassi parlamentare tuttavia sono ammessi il decreto legge e legislativo quali fonti di
norme penali, anche se l’abuso dello strumento del decreto legge è stato dichiarato
illegittimo dalla Corte Costituzionale che nella sentenza 360/96 ha dichiarato
costituzionalmente illegittimi i decreti legge iterati o reiterati che riproducano il contenuto
dei precedenti decreti non convertiti.
Secondo la gran parte della dottrina i decreti legge possono essere inclusi tra le fonti di
produzione delle norme penali poiché se convertiti divengono leggi primarie e se non
convertiti decadono con tutti gli effetti ex tunc; per quanto riguarda i decreti legislativi la
loro inclusione è dovuta al fatto che il Parlamento determina i criteri ed i principi direttivi
con rigore, analiticità e chiarezza.
L’unica categoria di atti del Governo che, su delega espressa del Parlamento, possono essere
fonte di norme penali, in deroga alla riserva stabilita dall’articolo 25 comma 2 cost. sono i

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decreti governativi in tempo di guerra, disciplinati dall’articolo 78 Cost. secondo cui “Le
Camere deliberano lo Stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”, tuttavia
si discute in dottrina se il conferimento di tali poteri dev’essere effettuato con legge delega e
se tra i poteri necessari ci sia anche quello di emanare norme penali esplicabile solo
attraverso un’espressa menzione di tale potere.
Per quanto riguarda la riserva di legge, intesa in senso formale, dovrebbe essere ammissibile
il ricorso alle leggi regionali in materia penale; tuttavia non è così poiché la legge regionale
non può configurare nuovi tipi di reati, non può abrogare norme incriminatrici statali, non
può sostituire le sanzioni penali con quelle amministrative. Secondo la Corte Costituzionale
la legge regionale può integrare le norme incriminatrici solo in funzione di specificazione
tecnica di elementi di reato già descritti dalla norma statale e può comminare solo sanzioni
amministrative.
Un’eccezione all’incompetenza delle regioni in materia penale è rappresentata dalla regione
Trentino alto Adige grazie ad una deroga introdotta da una legge costituzionale n.1 del 1971
che riconosce alle province di Trento e Bolzano potestà punitiva.
La legge regionale può, invece, essere fonte di cause di giustificazione ma limitatamente
alle lacune involontariamente lasciate dal legislatore nazionale e solo per soddisfare
improrogabili interessi della Regione.
Quando uno stesso fatto di reato sia punito in modo differente dallo Stato e dalla Regione si
dovrà applicare la sanzione prevista dalla legge statale.
Per ciò che riguarda il ruolo delle fonti comunitarie e la loro influenza nel sistema penale
italiano dobbiamo subito chiarire che né gli organi dell’unione europea, né quelli comunitari
sono legittimati ad emanare norme incriminatrici, proprio perché nessuno dei trattati
istitutivi prevede l’espressa attribuzione agli organi comunitari della potestà punitiva penale,
attribuzione indispensabile ai sensi dell’articolo 11 cost. italiana ( l’Italia ripudia la guerra
come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.) ; anche
se tale attribuzione fosse stata effettuata le norme comunitarie sarebbero comunque
contrastanti col principio di legalità sancito all’articolo 25 c. 2 cost; in virtù di questo stesso
principio costituzionale è fatto divieto a che le norme penali statali rinviino ad una fonte

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comunitaria per l’individuazione di tutto o parte del precetto. Il rinvio ad una fonte
comunitaria sarebbe legittimo solo se circoscritto alla specificazione di elementi tecnici da
operarsi sulla base dei criteri stabiliti dalla legge stessa, la tutela immediata degli interessi
comunitari risulta affidata, pertanto, alle sanzioni amministrative.
La tutela penale degli interessi comunitari può essere apprestata solo in via mediata cioè
attraverso norme emanate da ciascuno stato membro, nel nostro ordinamento solo dal
Parlamento, su propria iniziativa o in ottemperanza agli obblighi comunitari, attraverso la
legge formale.
Gli obblighi imposti al legislatore possono avere ad oggetto: l’assimilazione degli interessi
comunitari a quelli statali; l’armonizzazione delle normative penali dei vari stati per
conseguire integralmente gli obiettivi di lotta alla criminalità transnazionale. Questi
strumenti non si sono dimostrati idonei allo scopo e perciò è nata la proposta di unificazione
delle normative penali nazionali realizzabile attraverso convenzioni internazionali con le
quali gli stati s’impegnino ad emanare leggi penali che riproducano il contenuto delle norme
previste dalla convenzione.
Abbiamo detto che il sistema comunitario, attualmente, non ha il potere di creare nuove
norme incriminatrici, il potere che la comunità ha è del tutto opposto, nel senso che può
limitare o neutralizzare l’applicabilità della legge penale italiana che contrasti con le norme
comunitarie, sia che le norme penali siano anteriori o successive alla disciplina comunitaria.
Le norme comunitarie per prevalere su quelle interne e trovare diretta applicazione
necessitano dei requisiti della chiarezza e della precisione e la loro applicazione non
dev’essere condizionata dall’emanazione di ulteriori atti comunitari o nazionali (come ad
esempio le norme dei Trattati ed i regolamenti, nonché le direttive a contenuto dettagliato o
analitico, che sono direttamente applicabili).
Gli eventuali conflitti tra norme interne e comunitarie vanno risolti in via interpretativa dal
giudice che è tenuto a ispirare l’interpretazione della legge penale al diritto comunitario, nel
rispetto della lettera della legge; quando la norma penale non si presti ad essere armonizzata
con la disciplina comunitaria in via interpretativa si realizzano due ipotesi: l’incompatibilità
assoluta, che porta all’inapplicabilità della norma penale in tutta la sua estensione;
l’incompatibilità parziale, che comporta la limitazione del campo di applicazione della legge
penale che resta applicabile ai rapporti estranei al sistema comunitario ( ad es. con i Paesi
terzi).

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Il contrasto delle norme penali col diritto comunitario può riguardare anche le sanzioni ed il
loro contenuto, è il caso dell’espulsione dello straniero disciplinata in Italia dall’articolo 235
c.p. il quale prevede che l’espulsione sia ordinata dal giudice nei casi espressamente
previsti dalla legge e quando lo straniero sia stato condannato alla reclusione per un tempo
non inferiore ai dieci anni. Il trattato CE e la direttiva 64/221 legittimano l’adozione di
provvedimenti limitativi della libertà di soggiorno al realizzarsi di una duplice condizione:
un comportamento personale dello straniero che minacci l’ordine o la sicurezza pubblica
intesa, secondo la Corte di Giustizia delle Comunità, come una minaccia effettiva e
abbastanza grave per uno degli interessi fondamentali della collettività.
Il contrasto tra il diritto comunitario e norme penali interne può profilarsi limitatamente ai
casi in cui la sanzione penale presidi materie disciplinate dal diritto comunitario, ad esempio
norme statali che, introducendo misure di controllo alla libera circolazione delle persone,
delle merci, dei capitali, prevedano sanzioni penali per l’inosservanza di quelle misure.
La Corte di giustizia delle Comunità ha in proposito previsto che la legge statale non può
punire la violazione delle misure di controllo che limitano la libertà di circolazione delle
persone prevedendo sanzioni, il cui contenuto, neghi lo stesso diritto di libertà; inoltre il
legislatore è tenuto a rispettare il principio di proporzione , non deve superare i limiti della
stretta necessità e non dev’essere sproporzionata rispetto alla natura o alla gravità
dell’infrazione; ed infine la corte ha ritenuto che le sanzioni penali previste dalla
legislazione nazionale a carico di chi violi le norme sulla qualità dei prodotti ortofrutticoli
non possano essere diverse a seconda che si tratti di prodotti nazionali o provenienti da altri
stati membri, in ossequio al principio di non discriminazione.
Se il contrasto con la disciplina comunitaria si riferisce ad una pena principale, la norma non
sarà più applicabile e se è già sopravvenuta sentenza di condanna ne cesseranno
l’esecuzione e gli effetti penali , ai sensi dell’articolo 2 comma 2 c.p. ; se il contrasto è
relativo alle pene accessorie resterà applicabile la sola pena principale.
Tra le fonti dell’ordinamento idonee a creare norme penali non si possono certo includere le
consuetudini a causa della loro natura estremamente imprecisa; il principio della riserva di
legge si oppone alle consuetudini incriminatrici, cioè quelle che creano o ampliano norme
incriminatrici; alle consuetudini integratrici, cioè quelle alle quali il legislatore rinvii per la
determinazione di questo o quell’elemento si reato; nonché alle consuetudini abrogatici
poiché le leggi non possono essere abrogate che da altre leggi posteriori.

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In linea di principio nulla vieta che la consuetudine possa essere fonte di cause di
giustificazione, in tal caso si parla consuetudine scriminante, le cause di giustificazione non
sono infatti norme penali e pertanto non soggiacciono alle medesime prescrizioni; l’unico
limite alle consuetudini scriminanti è quello della gerarchia delle fonti nel senso che le
facoltà o i doveri di fonte consuetudinaria non possono apportare deroghe alle preesistenti
facoltà e doveri introdotti da norme di rango superiore alla consuetudine.
Per quel che riguarda le pronunce della Corte Costituzionale, il principio di legalità
esclude che la Corte possa ampliare la gamma dei comportamenti penalmente rilevanti o
inasprire la disciplina sanzionatoria dei reati; secondo la stessa Corte è inammissibile la
richiesta di colmare lacune, vere o supposte, estendendo il campo di applicazione della
norma incriminatrice a casi non contemplati.
Secondo la Corte sono inammissibili le questioni di legittimità che avendo ad oggetto norme
che aboliscono un reato o lo trasformano in un illecito amministrativo, mirano ad ottenere la
reintroduzione della figura di reato abolita dal legislatore; l’unica ipotesi in cui la Corte può
sindacare, con esiti in malam partem, norme che aboliscono un reato o lo trasformano in
illecito amministrativo può profilarsi in presenza di un obbligo costituzionale espresso di
incriminazione, come quello stabilito dall’articolo 13 comma 4 cost. il quale sancisce che “è
punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di
libertà”, se venisse depenalizzata la norma del codice penale che, in attuazione di tale
imperativo costituzionale, incrimina l’abuso di autorità contro gli arrestati, la Corte potrebbe
dichiarare l’illegittimità della norma depenalizzata, facendo rivivere quella indebitamente
abrogata; tale intervento non si andrebbe a porre in contrasto con la riserva di legge poiché
la Corte garantirebbe così solo l’osservanza dell’obbligo costituzionale espresso di
incriminazione.
Il principio di riserva di legge non si oppone al controllo di costituzionalità delle norme
incriminatrici da parte della Corte ove abbia per effetto l’eliminazione di una figura di reato,
la riduzione dell’area di fatti di reato o una mitigazione delle sanzioni previste dalla legge;
caso tipico di caducazione integrale di una norma incriminatrice è la sentenza che ha
dichiarato l’illegittimità dell’articolo 603 c.p. che puniva il plagio.
Secondo Marinucci e Dolcini, il controllo di costituzionalità delle norme penale di favore
dovrebbe essere sempre considerato inammissibile poiché il suo accoglimento condurrebbe
ad esiti incompatibili con la riserva di legge in materia penale; le sole norme di favore in

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relazione alle quali il sindacato di legittimità della Corte non incontra ostacoli nella riserva
di legge, sono quelle che prevedono cause di giustificazione.

Capitolo 5- Riserva di legge e atti del potere esecutivo


La legge può rinviare in varie forme ad atti generali ed astratti del potere esecutivo:
rinunciando a descrivere il reato ma prevedendo una sanzione per la violazione delle norme
che saranno dettate dalla fonte sublegislativa; rinunciando a descrivere il reato ma indicando
alcuni criteri a cui dovrà attenersi la fonte sublegislativa oppure prevedendo la pena e
descrivendo il reato ma lasciando alla fonte sublegislativa il compito di specificare uno o
più elementi del reato.
Spetterà alla Corte giudicare se una norma che rinvia ad un atto generale ed astratto
dell’esecutivo rispetti i limiti della riserva di legge. La Corte non esclude la possibilità di un
rinvio ad un atto normativo, specifico e preesistente della p.a. che sarebbe però legittimo
costituzionalmente solo se la p.a. non possa più mutare, sostituire o abrogare l’atto stesso.
Tuttavia la p.a. conserva il potere di modificare i propri atti pertanto il rinvio non sarà
“fisso” ma “mobile” poiché si riferirà a quell’atto e alle sue successive modificazioni.
Una particolare categoria di norme penali sono quelle dette “in bianco”, si tratta di norme il
cui precetto normativo è contenuto in tutto o in parte in una norma diversa da quella che
prevede la sanzione. A tale modello vengono ricondotte tre diverse ipotesi: quella in cui il
precetto è posto da una norma legislativa statuale; quella in cui il precetto è posto da un atto
generale ed astratto del potere esecutivo o di una fonte sublegislativa e infine quello in cui la
norma sanzioni l’inottemperanza dei provvedimenti individuali e concreti dell’autorità
amministrativa o giudiziaria.
Sarà costituzionalmente legittima la disciplina legislativa che sanzioni la violazione di
precetti posti in altre norme legislative, in cui cioè il precetto in bianco sia riempito d una
norma di fonte legislativa; sarà costituzionalmente illegittima una norma che mutui il
precetto da un atto generale e astratto del potere esecutivo, a meno che l’apporto di
quest’ultimo abbia carattere puramente tecnico; sarà costituzionalmente legittima una norma
che sanzioni l’inottemperanza di provvedimenti amministrativi o giudiziari individuali e
concreti poiché tale provvedimento non integra il precetto, ma è pur sempre necessario il
rispetto del principio di precisione.

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Capitolo 6- Riserva di legge e potere giudiziario : principio di precisione
La riserva di legge comporta l’obbligo per il legislatore di disciplinare con precisione il
reato e le sanzioni penali in modo da limitare la discrezionalità del giudice e di garantire i
diritti e le libertà dei cittadini. Il principio di precisione è uno strumento di prevenzione
generale introdotto dagli illuministi, che trova fondamento nell’articolo 25 c. 2 cost.,
necessario per far comprendere all’individuo cosa gli viene vietato o imposto sotto la
minaccia della pena, nonché indispensabile per muovere un rimprovero di colpevolezza
all’agente.
Secondo la Corte Costituzionale è necessario che esistano dei requisiti minimi di
riconoscibilità ed intelligibilità della norma penale che consentano di tutelare la libertà e la
sicurezza dei cittadini.
L’individuazione di tali requisiti minimi va operata distinguendo a seconda delle tecniche di
formulazione delle norme impiegate dal legislatore; esiste una tecnica casistica ed una per
clausole generali, una che utilizza definizioni legislative e un’altra che utilizza concetti
descrittivi e normativi.
La tecnica casistica comporta la descrizione analitica di specifici comportamenti, oggetti,
situazioni mentre quella per clausole generali che includono formule sintetiche comprensive
di un gran numero di casi che il legislatore rinuncia ad enumerare e specificare.
Sicuramente la tecnica casistica sarebbe più adatta a soddisfare il principio di precisione ma
comporterebbe l’elefantiasi della legislazione penale; la tecnica per clausole generali è meno
precisa ma più efficiente pertanto più utilizzata.
L’altra tecnica utilizzata dal legislatore per soddisfare il principio di precisione è quella di
inserire nella stessa legge delle definizioni legislative con le quali il legislatore opera delle
precisazioni sul significato di alcuni termini, vincolando così l’interpretazione
giurisprudenziale. Ad es. art. 592 c.p. definisce il termine “violenza sulle cose” stabilendo
che questa si realizza quando la cosa viene trasformata, danneggiata o la sua destinazione
economica viene mutata.
Un altro metodo utilizzato dal legislatore per rispettare il principio di precisione è quello di
inserire nella lettera della norma dei concetti descrittivi o dei concetti normativi, i primi si
riferiscono a fenomeni naturali suscettibili di essere accertati; i secondi si riferiscono a
concetti desumibili dalla conoscenza di una o più norme, ad esempio il concetto di altruità è

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conoscibile grazie alla conoscenza del concetto di proprietà. I termini descrittivi che
eludono qualsiasi incertezza sono quelli numerici.
Le eventuali imprecisioni delle norme penali, secondo la Corte in alcune sentenze del 1980,
sono insanabili attraverso il diritto vivente, criterio in precedenza adottato dalla Corte.
Proprio per quest’impossibilità di modificare norme imprecise la Corte ha stabilito che
queste debbano essere espulse dall’ordinamento.

Capitolo 7- Riserva di legge e potere giudiziario : il principio di determinatezza


Il principio di determinatezza impone alla legge di stabilire cosa possa essere accertato e
provato durante il processo mettendo il cittadino al riparo da scelte arbitrarie dei giudici.
Tipico esempio è il reato di plagio ex articolo 603 c.p. dichiarato illegittimo proprio perché
l’elemento psicologico sul quale il reato si fondava non poteva essere provato in giudizio.

Capitolo 8- Riserva di legge e potere giudiziario: il divieto di analogia a sfavore


dell’agente, il principio di tassatività
Il principio di tassatività esprime il divieto per il giudice e per il legislatore di estendere la
disciplina contenuta nelle norme incriminatrici , oltre i casi espressamente previsti, pertanto
non solo ai casi del tutto eterogenei ma anche a casi simili . Al legislatore è fatto divieto di
creare fattispecie ad analogia esplicita, mentre al giudice è vietata l’applicazione analogica
delle norme incriminatrici.
La lettera delle legge costituisce un limite invalicabile per il giudice, eventuali lacune
possono essere colmate solo dal legislatore; al giudice resta il compito di argomentare “a
contrario” come previsto dall’articolo 1 c.p. e dall’articolo 14 delle Preleggi; in latino “ ubi
lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, tutto ciò che non è previsto dalla norma, non potrà
essere regolato sulla base di quella norma. Secondo la giurisprudenza della Corte di
Cassazione si può distinguere l’interpretazione estensiva (consentita) dall’analogia (non
consentita); la prima mantiene il campo di validità della norma alla sola “area di
significanza” letterale; la seconda amplia il campo di validità all’area della similarità.
Il procedimento analogico si distacca dal significato della norma e tende a crearne una
nuova che prima non esisteva, proprio per questo in materia penale contrasta col principio di
legalità.

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Le fattispecie esplicite sono vietate al legislatore che non potrebbe includere nella legge le
diciture “ e altri simili, e altri analoghi”, talvolta però tali espressioni non denotano
fattispecie ad analogia esplicita; bisogna considerare che il legislatore, in alcune casi, elenca
una serie di ipotesi omogenee che consentono di individuare un genere che ricomprende
sia i casi espressamente menzionati nella norma, sia i casi non menzionati, ma evocati con le
formule “e casi simili, e analoghi” etc., in questi casi il principio di tassatività non risulta
violato, poiché l’interprete è tenuto a considerare i “casi simili” come casi dello stesso
genere di quelli espressamente menzionati dalla norma.

Capitolo 9- Riserva di legge e potere giudiziario: l’analogia a favore dell’agente


Il divieto di analogia in materia penale opera solo quando l’applicazione analogica andrebbe
a sfavore dell’agente, si parla in tali casi di analogia in malam partem.
Sono escluse dal divieto di analogia quelle norme dalla cui applicazione analogica
deriverebbe l’esclusione o l’attenuazione della responsabilità dell’agente, si parla così di
analogia in bonam partem.
Accanto al divieto di analogia in malam partem è stato sempre imposto il divieto di
estendere in via analogica norme che contenessero uno “ius singulare” cioè un diritto
eccezionale, infatti nel nostro ordinamento una legge eccezionale non può essere applicata
per analogia altrimenti si sovvertirebbe il rapporto regola- eccezione voluto dal legislatore
quando ha dettato la disciplina eccezionale.
L’applicazione analogica di qualsiasi norma soggiace ad una triplice condizione:
1) La norma non deve ricomprendere il caso in esame neppure se interpretata fino al
limite dei suoi possibili significati letterali;
2) La lacuna non dev’essere intenzionale cioè voluta dal legislatore;
3) La norma che esclude o attenua la responsabilità penale non deve essere eccezionale;
L’articolo 14 delle preleggi vieta all’interprete il ricorso all’analogia in relazione sia alle
leggi penali che a quelle eccezionali, è desumibile che tale divieto non opera nei confronti
delle cause di giustificazione poiché non sono leggi penali né eccezionali.
Tuttavia la possibilità di estendere per analogia le norme che contengono cause di
giustificazione è praticamente molto ristretta poiché s’inserisce nei soli spazi liberi, le
lacune intenzionali del legislatore.

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Per quanto concerne l’estendibilità per analogia di scusanti o cause di esclusione della
colpevolezza essa è negata poiché solo il legislatore può prevedere quali siano le ipotesi in
cui non si possa muovere un rimprovero all’agente che abbia agito con dolo o con colpa,
conoscendo o potendo conoscere che quel fatto avrebbe violato l’ordinamento, nelle piene
capacità di intendere e di volere ma in presenza di circostanze anormali che abbiano influito
in modo irresistibile sulla sua volontà o sulle sue capacità psicofisiche, circostanze nelle
quali sarebbe stato inesigibile un diverso comportamento.
Per quanto concerne l’imputabilità il nostro codice penale all’articolo 85 sancisce che “
nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in
cui lo ha commesso, non era imputabile” specificando al successivo comma “ E’ imputabile
che ha la capacità di intendere e di volere”; il legislatore del 1930 ha individuato un gruppo
di ipotesi la cui disciplina rappresenta la mera applicazione dell’articolo 85 c.p. , è il caso
del vizio di mente, la cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti, il sordomutismo e
gli agenti minori di anni 14 che non sono imputabili. Il legislatore ha inoltre previsto una
serie di ipotesi che apportano delle deroghe al principio di imputabilità, esse sono : gli stati
emotivi e passionali, l’ubriachezza (ma anche l’uso di stupefacenti) volontaria, colposa,
preordinata e abituale; in tutti questi casi l’agente è imputabile anche se quando ha
commesso il fatto non era capace di intendere e di volere. L’estensione analogica di questo
gruppo di ipotesi è negata poiché deporrebbe a sfavore del reo; anche il primo gruppo di
ipotesi non può essere esteso per analogia.
Per quel che riguarda le cause di esclusione della punibilità, come le immunità di diritto
internazionale , i rapporti tra autore e vittima nell’ipotesi dell’articolo 649 c.p. , la
desistenza volontaria nel tentativo si parla di inapplicabilità per analogia di tali disposizioni
poiché esse hanno carattere di norme eccezionali. Lo stesso discorso vale per le circostanze
attenuanti la cui applicazione analogica è esclusa poiché il legislatore ha descritto le
circostanze rispecchiando una precisa scelta politico – criminale; manca pertanto una lacuna
involontaria nella disciplina legislativa.

Capitolo 10- Riserva di legge e potere giudiziario: l’inottemperanza ai provvedimenti del


giudice
Come abbiamo detto nel capitolo 5 i provvedimenti amministrativi e giudiziari non si
oppongono alla riserva di legge, essi sono costituzionalmente legittimi poiché non integrano

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la fattispecie penale sempre che rispettino il principio di precisione, nel senso che siano
formulati con espressioni che consentano la certa identificazione delle classi di
provvedimenti giurisdizionali sotto le quali ricondurre il singolo provvedimento concreto.
Anche nel caso delle norme penali che sanzionino l’inottemperanza ai provvedimenti
giurisdizionali possiamo affermare che esse non integrano la norma incriminatrice , poiché
anche in questo caso le scelte politico – criminali sono effettuate dal legislatore, senza
nessun coinvolgimento dell’autorità giudiziaria. Tipico esempio è l’articolo 28 della l.
300/70 , detto Statuto dei lavoratori, che reprime l’inottemperanza del datore di lavoro ad
una serie di provvedimenti giurisdizionali. Queste norme non reclamano un’obbedienza
fine a se stessa ma tendono alla tutela di veri e propri beni giuridici, in particolare beni
intermedi o strumentali .

Capitolo 11- Il principio di legalità delle pene


La riserva di legge sancita all’articolo 25 c. 2 Cost. riguarda tanto i reati che le sanzioni,
siano esse pene o misure di sicurezza; quest’ultimo principio è ribadito inoltre negli articoli
1 e 199 c.p. ; questi principi comportano il divieto per il giudice di applicare per analogia
pene diverse da quelle espressamente stabilite dalla legge. La riserva comprende sia le pene
principali, elencate nell’articolo 17 c.p.( ergastolo, reclusione, multa, arresto e ammenda),
sia quelle accessorie, elencate nell’articolo 19 c.p. , come l’interdizione dai pubblici uffici,
l’interdizione legale etc. , ma anche pene sostitutive; alternative alla detenzione; pene
applicabili in caso di conversione della pena pecuniaria.
Secondo la Corte Costituzionale la riserva di legge ha carattere assoluto poiché soltanto la
legge può stabilire con quale misura debba essere repressa la trasgressione dei precetti che
essa vuole sanzionare penalmente; in sostanza la Corte non ammette nessuna integrazione
neanche puramente tecnica anche se per Marinucci e Dolcini è legittima l’integrazione

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tecnica sia in relazione al reato che in relazione alla sanzione, essi infatti parlano di riserva
tendenzialmente assoluta.
Il principio della legalità delle pene può essere soddisfatto solo dal legislatore il quale può
individuare una singola specie di pena principale, ovvero due pene, una principale ed una
accessoria da comminarsi cumulativamente, dette comminatorie congiunte, ovvero due pene
da comminarsi in alternanza, dette comminatorie alternative; tuttavia il principio di legalità
è in egual modo soddisfatto anche quando il legislatore utilizza clausole generali.
E’ necessario che anche il contenuto della pena sia predeterminato dal legislatore, questa
esigenza è ad esempio soddisfatta dagli articoli 18, 22, 23 e 25 c.p. che individuano nella
restrizione della libertà personale presso gli istituti penitenziari il contenuto dell’ergastolo,
della reclusione e dell’arresto.
D’altra parte anche la misura della pena dev’essere predeterminata, a tal uopo il legislatore è
tenuto a fissare delle cornici edittali, cioè un limite minimo e massimo di pena entro il
quale il giudice dovrà scegliere la pena adeguata ad ogni caso concreto. E’ fatto divieto al
legislatore di indicare cornici edittali imprecise, troppo ampie o indeterminate nel massimo.
L’indeterminatezza si porrebbe in contrasto col principio di legalità; l’unica ipotesi di pene
indeterminate nel massimo è quella disposta dall’articolo 27 c.p. circa le pene pecuniarie
proporzionali, il limite massimo non è indicato ma è facilmente identificabile grazie al
metodo di determinazione, appunto proporzionale, indicato dal legislatore.
Inoltre la norma deve indicare alcuni criteri vincolanti per il giudice idonei ad orientarlo
nella scelta della misura della pena, questi criteri sono: la gravità del reato e la capacità a
delinquere del colpevole. Il giudice, nel rispetto di questi criteri e propenso all’orientamento
che vede nella pena uno strumento di rieducazione del condannato, opererà una scelta anche
in base al proprio libero convincimento.

Capitolo 12- Il principio di legalità delle misure di sicurezza


Il principio di legalità vige anche per le misure di sicurezza, esso è sancito all’articolo 199
c.p. il quale stabilisce che “ nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non
siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti.”
Le misure di sicurezza si distinguono in :

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- PERSONALI , sono quelle che limitano la libertà individuale e tendono alla
prevenzione di nuovi reati o all’eliminazione dell’elemento psicologico della
delinquenza; a loro volta le misure personali si distinguono in :
- DETENTIVE, applicabili nei casi in cui l’indole e la pericolosità del soggetto sono
molto gravi o per necessità di cure e di riadattamento;
- NON DETENTIVE, come la libertà vigilata, divieto di frequentare osterie o pubblici
spacci, applicabili ai soggetti la cui libertà personale non dev’essere compromessa
poiché la loro pericolosità può essere altrimenti contrastata.
- PATRIMONIALI , sono quelle misure che incidono direttamente sul patrimonio e
consistono in mezzi cautelativi o nell’eliminazione di cose che provengono da fatti
illeciti.
Il principio di legalità delle misure di sicurezza è presente anche nell’articolo 25 c. 3 Cost. ,
la costituzionalizzazione di tale principio impone al legislatore il divieto di delegare a fonti
sublegislative o all’arbitrio del giudice, l’individuazione dei presupposti, della tipologia e
dei contenuti delle misure di sicurezza. Le misure di sicurezza sono applicabili solo in
presenza di due presupposti:
1) La commissione di un fatto previsto dalla legge come reato, o in via
d’eccezione, secondo la dottrina, anche in presenza di un “quasi reato” come il
reato impossibile, l’accordo per commettere un delitto che non viene
commesso, l’istigazione accolta a commettere un reato che non venga poi
commesso, l’istigazione non accolta a commettere un delitto che non venga
poi commesso, casi nei quali pur non essendo punibili, gli autori vengono
sottoposti a misure di sicurezza se ritenuti socialmente pericolosi ;
2) La pericolosità sociale dell’agente;
Questi due presupposti si formalizzano nell’articolo 202 c.p. il quale dispone che “ le
misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose
che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato. La legge predetermina i
casi nei quali a persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di sicurezza
per un fatto non preveduto dalla legge come reato”.
Per quanto riguarda la pericolosità dell’agente bisogna rifarsi all’articolo 203 c.p. , si tratta
della probabilità che una persona commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati.

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Per la tipologia delle misure applicabili dal giudice ci si rifà all’articolo 215 c.p. , colonia
agricola, casa di lavoro, casa di cura o di custodia, libertà vigilata etc. ; per quanto riguarda
il contenuto delle misure di sicurezza il legislatore non è minimamente impegnato in tale
direzione; per quanto invece riguarda la durata la riserva di legge si attenua poiché per loro
natura le misure di sicurezza sono indeterminate nel massimo, non si può stabilire a priori
quando un determinato atteggiamento o una data patologia possa venir meno e cioè quando
potrà cessare la pericolosità del soggetto.

Capitolo 13- I limiti temporali all’applicabilità della legge penale


La legge penale è sottoposta a dei limiti temporali, spaziali e personali.
I limiti temporali sono rappresentati dall’irretroattività della legge penale nel tempo, in
particolare delle norme penali sfavorevoli all’agente; il divieto di retroattività è contenuto in
più disposizioni nel nostro ordinamento, in particolare l’articolo 25 c. 2 cost. impone al
legislatore ed al giudice il divieto di attribuire efficacia retroattiva ad una legge che
contenga una nuova incriminazione; l’articolo 2 c. 1 c.p. il quale dispone che nessuno può
essere punito per un fatto che secondo la legge del tempo in cui fu commesso non costituiva
reato; l’articolo 2 c. 3 c.p. che vieta al giudice di applicare retroattivamente una legge
successiva sfavorevole al reo, poiché sancisce che se la legge del tempo in cui fu commesso
il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli
al reo.
Il principio di irretroattività al pari di quello di legalità sono indispensabili perché la
minaccia della pena da parte del legislatore svolga una funzione di prevenzione generale e
per garantire il principio di colpevolezza cioè le libere scelte d’azione del cittadino .
Si configura una nuova incriminazione quando la legge individua una figura di reato
integralmente nuova, che comprende una serie di fatti, prima irrilevanti penalmente oppure
quando si ha l’ampliamento di figure di reato preesistenti
Oltre alle nuove incriminazioni il principio di irretroattività vieta al legislatore ed al giudice
di attribuire efficacia retroattiva ad una legge che comporti un trattamento penale più severo
per un fatto già preveduto dalla legge come reato; ciò comporta l’inapplicabilità retroattiva
delle leggi che prevedano pene principali più severe nella specie o nell’ammontare oppure
nuove o più severe pene accessorie.

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Per quanto riguarda il principio di irretroattività e le misure di sicurezza dobbiamo
sottolineare che l’articolo 25 c. 3 cost. che tratta delle misure di sicurezza enuncia il solo
principio di irretroattività, mentre l’articolo 200 c.p. sancisce che “le misure di sicurezza
sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione” e nel secondo comma
specifica che “se la legge del tempo in cui deve applicarsi la misura di sicurezza è diversa, si
applica la legge in vigore al tempo dell’esecuzione”.
La parte prevalente della dottrina e della giurisprudenza ritiene che, né il legislatore né il
giudice siano vincolati al principio di irretroattività in materia di misure di sicurezza; per
Marinucci e Dolcini gli spazi di applicazione retroattiva sono invece assai ristretti, poiché,
in primo luogo non può essere applicata una misura di sicurezza a chi abbia commesso un
fatto che, al momento della sua realizzazione, non era preveduto come reato dalla legge così
come stabilito dall’art. 2 c.p. e dall’art. 25 c. 2 cost.
Un problema diverso nasce quando si voglia applicare una misura di sicurezza prevista da
una legge posteriore, pur se la legge del tempo in cui il fatto fu commesso, e che qualifica il
fatto come reato, non prevedeva l’applicabilità di alcuna misura di sicurezza ovvero non
prevedeva l’applicabilità di quella misura. La risoluzione non è difficile se parliamo di
misure di sicurezza personali poiché al cittadino dev’essere sempre assicurata la possibilità
di conoscere, al momento dell’agire, quali siano le sanzioni penali cui va incontro, ed è
proprio questo che comporta un a lettura restrittiva dell’articolo 200 c. 1 e 2 c.p. , con la
conseguenza che il giudice non potrà applicare una misura di sicurezza a chi abbia agito
prima dell’entrata in vigore della legge che ha previsto quella misura.
Questo articolo, secondo gli autori , va riferito alla sola ipotesi in cui il fatto fosse previsto
come reato già al tempo della sua commissione e la legge del tempo già prevedesse
l’applicabilità di una misura di sicurezza, ma una legge successiva abbia disciplinato
diversamente le modalità di esecuzione di quella stessa misura. L’articolo 200 c.p. impone
al giudice di cognizione di applicare la legge in vigore al momento in cui dispone la misura;
se poi la legge in vigore al momento dell’esecuzione è ancora diversa , il giudice
dell’esecuzione dovrà dare applicazione alla nuova legge. Questa disciplina comporta
l’applicabilità retroattiva della legge sopravvenuta che ridisciplini le modalità esecutive
della misura di sicurezza, anche quando le nuove modalità siano più gravose per l’agente.
Per le norme relative al processo penale vige il principio secondo il quale gli atti
processuali già compiuti conservano la loro validità anche dopo un mutamento della

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disciplina legislativa, mentre gli atti da compiere sono immediatamente disciplinati dalla
nuova legge processuale, ancorché collegati ad atti compiuti in precedenza. Sorgono però
dei problemi per quanto riguarda l’applicabilità retroattiva di una norma che modifiche il
regime di procedibilità di un reato rendendo perseguibile d’ufficio un reato che secondo la
legge del tempo era perseguibile a querela della persona offesa. Secondo la dottrina
prevalente questa ipotesi è riconducibile al principio di irretroattività nel senso che , chi
abbia commesso il fatto prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina non sarà
perseguibile d’ufficio ma solo su querela dell’offeso presentata nei termini stabiliti dalla
legge (30 gg. dalla notizia del fatto).
Un altro problema sorge quando una legge allunghi la durata del tempo necessario per la
prescrizione di un reato; in questo caso bisognerà distinguere a seconda che all’entrata in
vigore della legge sia già decorso il tempo per la prescrizione ovvero la prescrizione non sia
ancora maturata: nel primo caso non sarà applicabile la nuova disciplina poiché una volta
sopravvenuta la scadenza lo stato non può vantare più alcuna pretesa punitiva; nel secondo
caso la legge che allunga il termine trova applicazione retroattiva poiché essa è intervenuta
prima che sia maturata la prescrizione.
La stessa logica va adottata se alla commissione del fatto sopravvenga una legge che
allunghi i termini massimi di custodia cautelare.
Il principio di irretroattività non si applica quando la disciplina successiva sia più
favorevole al reo; questa ipotesi è regolata, nel nostro ordinamento, dall’articolo 2 c. 2 e 3
c.p i quali sanciscono il principio di retroattività della legge più favorevole. L’articolo 2 c.2
c.p. stabilisce che “ nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge
posteriore, non costituisce reato; e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli
effetti penali”, quindi se non è stata pronunciata ancora la sentenza, l’agente dev’essere
prosciolto, se invece è stata pronunciata la sentenza definitiva di condanna, cessa
l’esecuzione della pena e ogni effetto penale della condanna ; al comma 3, invece stabilisce
che “ se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si
applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile di condanna”, la sentenza non dev’essere passata in giudicato.
Speculare all’art. 2 c.2 c.p. è l’abolizione del reato che può essere integrale o può derivare
dalla restrizione dell’area applicativa di una incriminazione preesistente ; l’abolizione del

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reato può essere accompagnata alla previsione di sanzioni amministrative, questo è il
fenomeno della depenalizzazione.
Il principio di retroattività della legge più favorevole non opera per le leggi eccezionali e
temporanee così come stabilito dall’articolo 2 c. 4 c.p.
Per quanto riguarda i decreti legge che contengano una nuova incriminazione o un
trattamento penale più severo, non potranno avere efficacia retroattiva; un problema più
delicato nasce in ordine ai decreti legge non convertiti o decaduti che contengano
l’abolizione di un reato o una disciplina più favorevole all’agente. La disciplina sarà
differente a seconda che si tratti di fatti PREGRESSI o di fatti CONCOMITANTI ; i fatti
pregressi sono fatti commessi prima dell’emanazione del decreto legge non convertito
mentre quelli concomitanti sono i fatti commessi dopo l’emanazione del decreto ma prima
dello spirare del termine per la loro conversione.
Quanto ai fatti pregressi , l’abolizione del reato o la disciplina più favorevole prevista dal
decreto legge non convertito non avrà nessun effetto; quanto ai fatti concomitanti, il
principio di irretroattività impone di applicare la disciplina più favorevole contenuta nel d.l.
non convertito, con la conseguenza che se il d.l. non convertito prevedeva l’abolizione del
reato, l’agente non sarà punibile; se invece il d.l. prevedeva una disciplina in concreto più
favorevole, il giudice dovrà applicare tale disciplina.
Il tempus commissi delicti o tempo del commesso reato dev’essere necessariamente
individuato per stabilire la successione delle leggi penali e la retroattività; nei reati
commissivi il tempo del commesso reato è quello in cui è stata compiuta l’azione o l’ultima
azione prevista dalla norma incriminatrice; per i reati omissivi il tempo del commesso reato
è quello in cui andava compiuta quell’azione; nei reati permanenti il tempo del commesso
reato è quello in cui si è compiuto l’ultimo atto con cui si mantiene in vita la situazione
antigiuridica; nei reati abituali il tempo del commesso reato è quello in cui si realizza
l’ultima condotta che integra il fatto da ripetersi; infine nei reati continuati si dovrà
individuare il tempo del commesso reato in relazione a ciascuno dei reati uniti dal vincolo
della continuazione.

Capitolo 14- I limiti spaziali all’applicabilità della legge penale.


Nel nostro ordinamento si applica il principio della territorialità della legge penale, nel
senso che la norma penale si applica ai soli fatti commessi nel territorio dello stato, da

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chiunque e contro chiunque commessi. Sono pochi e ristretti i casi nei quali le norme penali
italiane si estendono ai cittadini e agli stranieri che si trovano all’estero, si tratta di casi
stabiliti dalla legge o dalle norme di diritto internazionale. Alcuni reati , se commessi
all’estero, non vengono sottoposti alla legge italiana a meno che non lo prevedano speciali
disposizioni di legge o speciali convenzioni internazionali. Quanto ai fatti commessi
all’estero , la legge impone talora ostacoli di natura processuale alla perseguibilità del reato ,
esigendo la presenza dell’autore nel territorio italiano dopo la commissione del reato (artt. 9
e 10 c.p.), richiesta del Ministro della giustizia (art. 8, 9 c. 2 e 3, 10 c.p.), l’istanza o la
querela della persona offesa, la mancata estradizione dell’autore del reato, la previsione del
fatto di reato sia dall’ordinamento nazionale che da quello straniero (doppia
incriminazione).In particolare se il delitto è punito con l’ergastolo o con la reclusione
inferiore nel minimo a 3 anni è necessario che l’agente, dopo la commissione del reato, sia
presente nel territorio dello stato; per i delitti puniti con la reclusione inferiore nel minimo a
3 anni, la legge penale italiana è applicabile su querela della persona offesa o su istanza di
procedimento ovvero dalla richiesta del ministro della giustizia nonché dalla presenza nel
territorio dello stato dell’agente.
Se il reato commesso all’estero dal cittadino italiano è un delitto che offende un bene della
Comunità europee, uno stato estero o uno straniero, l’applicabilità della legge penale
italiana è sottoposta a varie condizioni: presenza del cittadino nel territorio dello stato,
querela o istanza della persona offesa, richiesta del ministro della giustizia, non concessione
da parte del governo italiano dell’estradizione del cittadino. Inoltre per i reati comuni
commessi all’estero dal cittadino italiano esiste un’ulteriore condizione , la doppia
incriminazione del fatto .
La medesima disciplina si applica per i reati commessi all’estero dallo straniero a danno
dello stato o del cittadino italiano , nonché a danno delle comunità europee, di uno stato
estero o di uno straniero ( articolo 10 c. 1 e 2 c.p.).
In nessun caso la legge penale italiana si applica a contravvenzioni commesse all’estero, né
a delitti puniti con la sola multa così come sancisce inequivocabilmente l’articolo 9 c.p.
Il territorio dello stato è definito dall’art. 4 c. 2 c.p. , e comprende i territori inclusi nei
confini politici, il sottosuolo, le acque interne, il lido del mare, lo spazio aereo nazionale, il
mare territoriale, le navi e gli aeromobili italiani ovunque si trovino .

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Un reato si considera commesso nel territorio dello stato quando l’azione o l’omissione, che
lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è verificato l’evento che è la
conseguenza dell’azione o dell’omissione. Con una fictio iuris , l’applicabilità della legge
penale italiana si estende anche a quei fatti che non si sono svolti totalmente nel territorio
italiano.
La legge italiana è sempre applicabile, incondizionatamente, ai reati commessi
integralmente all’estero da un cittadino o da uno straniero quando si tratti di delitti contro la
personalità dello stato, delitti di contraffazione del sigillo dello stato ed uso dello stesso,
falsità in monete, delitti commessi dai pubblici ufficiali a servizio dello stato , abusando dei
poteri o violando doveri inerenti alle loro funzioni.
La legge penale italiana si applica ai delitti politici commessi all’estero dal cittadino o
dallo straniero quando questi arrechino danni ad un interesse dello stato o ad un diritto
politico di un cittadino italiano( art. 8 c.p.); l’applicabilità è però condizionata alla richiesta
del ministro della giustizia nonché alla scelta discrezionale della persona offesa di querelare
colui che l’ha danneggiata.
Il delitto politico è definito dall’articolo 8 c.p. “ agli effetti della legge penale, è delitto
politico ogni delitto che offende un interesse politico dello stato, ovvero un diritto politico
del cittadino. E’ altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o
in parte , da motivi politici”, dunque sia i delitti oggettivamente che soggettivamente politici
.
I delitti oggettivamente politici sono quelli che offendono le componenti essenziali dello
stato ma non quelli che offendono il funzionamento degli apparati dello stato come la p.a. e
l’amministrazione della giustizia; sono inoltre delitti oggettivamente politici quelli che
offendono un diritto politico del cittadino come i reati previsti dalle leggi elettorali che
offendono il diritto al voto.
I delitti soggettivamente politici sono quelli che hanno un motivo politico alla base,cioè quei
delitti che tendono ad incidere sulla struttura dello stato o sui rapporti tra stato e cittadini;
sono per definizione delitti soggettivamente politici anche i delitti comuni determinati solo
in parte da motivi politici, ad esempio l’omicidio di un segretario di partito che si trovi in
territorio estero, sia per provocare un colpo di stato , sia per motivi personali; la presenza di
questo ulteriore motivo non pregiudica la politicità del reato ai sensi dell’articolo 8 c.p.

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Un corollario alla tendenziale universalità della legge penale italiana è la riserva di
giurisdizione italiana che è piena ed incondizionata per i reati commessi nel territorio dello
stato, l’art. 11 c. 1 dispone che nelle ipotesi dell’art. 6 c.p. il cittadino o lo straniero è
giudicato nello stato, anche se sia stato giudicato all’estero. In alcuni casi, per i delitti
comuni o politici commessi all’estero, su richiesta del ministro della giustizia è possibile
effettuare il rinnovamento del giudizio, ciò è possibile anche se l’articolo 11 c.p. fissa il
principio del ne bis in idem, cioè il divieto di giudicare 2 volte una persona per lo stesso
fatto, in quanto tale principio non si applica nei rapporti internazionali.
Nella visione del codice Rocco la riserva di giurisdizione si manifesta anche nella
tendenziale irrilevanza delle sentenze penali straniere; l’articolo 12 c.p. stabilisce che il
riconoscimento della sentenza penale straniera può essere operato per stabilire la
recidiva o un altro effetto penale della condanna, ovvero per dichiarare l’abitualità, la
professionalità nel reato o la tendenza a delinquere, per applicare una pena accessoria, per
applicare una misura di sicurezza personale.
Il riconoscimento della sentenza ex art. 12 c.p. presuppone che la legge penale preveda il
fatto come delitto, che esista un trattato di estradizione con lo stato estero o in mancanza la
richiesta del ministro della giustizia, è inoltre necessaria la doppia incriminazione.
L’estradizione è il procedimento attraverso il quale uno stato consegna ad altro stato un
soggetto che si trova nel suo territorio affinché, lo stato richiedente, lo sottoponga a giudizio
(estradizione processuale) o all’esecuzione di una pena già inflittagli (estradizione
esecutiva).
Le fonti che regolano l’estradizione sono le convenzioni e gli usi internazionali; al diritto
interno è rimessa la disciplina della estradizione extraconvenzionale, che viene concessa
dallo stato italiano ad uno con il quale non abbia un trattato di estradizione oppure un
trattato nel quale non contempli il reato per il quale è concessa l’estradizione (art. 13 c.3
c.p.).
Limiti invalicabili, di rango costituzionale in ordine all’estradabilità del cittadino per i reati
comuni sono stabiliti dall’art. 26 c. 1 e 2cost. , l’estradizione è consentita solo ove sia
espressamente prevista da convenzioni internazionali; l’estradizione non è ammessa per i
reati politici né per i reati per i quali l’ordinamento dello stato richiedente preveda la pena di
morte.

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Una legge costituzionale n.1 del 1967 ha consentito l’estradizione per i delitti di genocidio,
in seguito anche per reati di terrorismo di particolare gravità , di cospirazione o associazione
a delinquere finalizzate alla commissione di reati di terrorismo.
Condizione espressamente annunciata dall’articolo 13 c.2 è la doppia incriminazione del
fatto; principio fondamentale dell’estradizione attiva e passiva è quello di specialità che
comporta il divieto per lo stato che ottiene l’estradizione, di sottoporre a restrizione di
libertà personale l’estradato a qualsiasi titolo, per fatti anteriori e diversi da quelli per il
quale è stato estradato, anche se questo divieto viene meno in tre casi: 1- quando lo stato
richiedente abbia domandato e ottenuto estradizione suppletiva 2- quando l’estradato si sia
volontariamente trattenuto nel territorio dello stato che ha ottenuto l’estradizione per un
periodo di 45 gg, dalla sua definitiva liberazione 3- quando l’estradato, dopo aver lasciato il
territorio dello stato al quale era stato consegnato, vi abbia fatto volontariamente ritorno;
Altro divieto è quello di consegnare l’estradato ad un altro stato .

Capitolo 15- I limiti personali all’applicabilità della legge penale


L’articolo 3 c.p. stabilisce che “la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini e
stranieri, si trovano nel territorio dello stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico
interno o dal diritto internazionale”, tali eccezioni sono le immunità.
Le immunità si distinguono in immunità di diritto pubblico e di diritto internazionale a
seconda della fonte che le prevede, le prime si riferiscono agli organi costituzionali o di
rilevanza costituzionale come il presidente della repubblica, presidente del Senato quando
sostituisca il P.d.R, mentre le seconde si riferiscono al sommo pontefice, i capi di stato
estero e il loro seguito, i consoli, i diplomatici, i giudici della corte europea dei diritti
dell’uomo ecc.; in ciascuna di queste categorie si individuano immunità di diritto
sostanziale, quando viene inibita l’applicabilità di sanzioni penali ed extrapenali e tale
inibizione permane anche quando la persona non riveste più il ruolo al quale è ricollegata
l’immunità; immunità di diritto processuale, quando l’inibizione riguarda la sottoponibilità
al processo penale ma l’ostacolo viene rimosso al cessare del ruolo coperto dall’immunità.
Si contrappongono infine le immunità funzionali, cioè relative ai soli fatti penalmente
rilevanti compiuti nell’esercizio della specifica funzione da cui deriva l’immunità, e
immunità extrafunzionali, relative a tutti i fatti penalmente rilevanti, anche di natura privata,
posti in essere dalla persona che gode dell’immunità.

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Secondo l’articolo 90 cost. il presidente della repubblica non è responsabile degli atti
compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla
costituzione.
Per attentato alla costituzione bisogna rifarsi all’articolo 283 c.p. che punisce chiunque
commetta un fatto diretto a mutare la Costituzione dello Stato o la forma di Governo, con
mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale dello stato; per quanto riguarda la
definizione di alto tradimento bisogna prendere spunto dall’articolo 77 c.p.m.p. ma anche da
ogni altro reato che rappresenti la violazione, il tradimento, dei doveri di fedeltà alla
Repubblica e di osservanza della Costituzione.
Per quanto riguarda le immunità dei membri del parlamento abbiamo immunità di diritto
sostanziale, come quelle espresse nell’art. 68 cost. per le opinioni espresse e i voti dati
nell’esercizio delle loro funzioni; nonché immunità processuali penali che operano per la
sola durata del mandato ed hanno natura di immunità extrafunzionali.
I consiglieri regionali godono d’immunità di diritto sostanziale , al pari dei parlamentari per
le opinioni e i voti dati, ma si tratta di un’immunità funzionale; essi non godono però di
alcuna immunità processuale.
I giudici della Corte Costituzionale hanno immunità funzionale di diritto sostanziale per le
opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni; tale immunità ha ancora una
volta, come le precedenti, natura di causa di giustificazione e produce l’effetto di escludere
ogni forma di responsabilità, sia penale che extrapenale; essi godono altresì di immunità
processuali penali extrafunzionali, senza autorizzazione della Corte Costituzionale non
possono essere sottoposti a procedimento penale.
Più circoscritta è l’immunità dei membri del C.S.M. , viene infatti esclusa la sola
responsabilità penale per le opinioni espresse e i voti dati. Non si tratta dunque di una causa
di giustificazione ma di una causa personale di esclusione della punibilità.
Il sommo pontefice e le persone fisiche che operano in organi centrali della Chiesa Cattolica
godono ai sensi dell’articolo 8 del trattato luterano di immunità assoluta, intesa come causa
di esclusione della punibilità.
Anche il capo di stato estero, la sua famiglia e il suo seguito, quando si trovino in tempo di
pace in territorio italiano, godono di una immunità assoluta di diritto sostanziale e
processuale, penale ed extrapenale; tale immunità ha natura di causa di esclusione della
punibilità.

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PARTE II - IL REATO
Capitolo 1- Il concetto formale di reato
La parte generale del diritto penale è racchiusa nei codici mentre la parte speciale del diritto
penale è l’insieme di legge accessorie; la parte generale mira ad identificare i reati e ad
individuare le specie di delitto e contravvenzione, con particolare riguardo per le pene
principali previste dall’articolo 17 c.p. che sono l’ergastolo, la reclusione e la multa per i
delitti , l’arresto e l’ammenda per le contravvenzioni. Per le sanzioni pecuniarie diverse
dalla multa e l’ammenda non si parlerà di reati ma di illeciti amministrativi puniti con le
sanzioni amministrative, o di illeciti civili puniti col risarcimento del danno.

Capitolo 2- La distinzione dei reati in delitti e contravvenzioni


L’articolo 39 c.p. stabilisce che i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la
diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilita dal codice.
Si ha delitto ogni qual volta la legge commini l’ergastolo, la reclusione o la multa; sono
delitti i reati militari puniti con la reclusione militare ; si ha contravvenzione allorché la
legge commini l’arresto o l’ammenda.
In Italia, come in Germania , Austria e Spagna il modello bipartito dei reati si è affermato
nella seconda metà del 1800, ed ha trovato pieno accoglimento nel codice Zanardelli del
1889; il codice Rocco accoglie e mantiene ferma la bipartizione dei reati in delitti e
contravvenzioni ma utilizza un criterio formale di identificazione della diversa specie delle
pene.
La distinzione tra delitti e contravvenzioni è imperniata sulle diverse specie di pene ad essi
ricondotti; tuttavia dal punto di vista contenutistico le pene stabilite per l’uno o per l’altro
sono largamente coincidenti come ad esempio la reclusione e l’arresto oppure la multa e
l’ammenda.
La distinzione fondamentale verte sulla diversa disciplina cui vengono assoggettate le due
classi di reato, tra i quali spiccano l’elemento soggettivo ed il tentativo.

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L’elemento soggettivo di regola richiesto per i delitti è il dolo, salvi i casi nei quali la legge
dia rilevanza alla colpa o alla preterintenzione. Le contravvenzioni possono, di regola,
essere commesse sia per dolo che per colpa.
Il tentativo è, di regola, configurabile solo per i delitti; eccezionalmente in talune leggi
speciali possono comparire contravvenzioni rilevanti anche nella forma del tentativo ad es.
art. 158 T.U.L.P.S.( ora abrogato) che prevedeva il tentativo di espatrio senza essere munito
di passaporto.
Ulteriori differenze attengono :
1) alle cause di estinzione del reato: per le contravvenzioni si parla di oblazione ; per i delitti
della remissione della querela.
2) ai reati commessi all’estero: i delitti sono punibili secondo la legge italiana nei casi
previsti dagli articoli 7-10 c.p. , mentre le contravvenzioni solo quando lo prevedano
disposizioni speciali o convenzioni internazionali.
3) al riconoscimento delle sentenze penali straniere è ammissibile solo se la sentenza è
pronunciata per un delitto.
4) alle circostanze ,attenuanti o aggravanti comuni, sono configurabili solo per i delitti.
5) ai profili processuali, le contravvenzioni sono sempre perseguibili d’ufficio; le misure
cautelari, l’arresto in flagranza e il fermo sono previsti solo per i delitti.
L’identificazione dei delitti e delle contravvenzioni può risultare problematica anche nelle
leggi speciali , occorre pertanto fare riferimento al nome della pena principale comminata
dalla legge, all’espressa qualificazione del fatto come delitto o contravvenzione, alle regole
dettate dalle disposizioni di coordinamento del codice penale ed alla similarità con le
contravvenzioni previste dal codice; ove nessuno di tali criteri sia idoneo a distinguere i
delitti dalle contravvenzioni, la norma incriminatrice risulta costituzionalmente illegittima
per violazione al principio di legalità ex articolo 25 c. 2 Cost., poiché imprecisa.

Capitolo 3- Il concetto sostanziale di reato


I concetti sostanziali di reato proposti dalla criminologia sono molto vaghi e generici,
mentre quelli elaborati in dottrina penalistici muovono dall’idea che norme penali e norme
etico-sociali coincidano. Viene pertanto proposta una distinzione dei reati in 2 categorie: i
reati che contraddicono anche norme etico-sociali (mala in se) e i reati di mera creazione
politica (mala quia prohibita) , solo i primi sarebbero reati in senso sostanziale; le nozioni

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sostanziali di reato sono fallaci poiché molti comportamenti immorali sono penalmente
irrilevanti e per converso alcuni comportamenti moralmente neutri vengono repressi dal
diritto penale.

Capitolo 4- Struttura del reato e tipo di Stato


In passato il reato era considerato come peccato , nel mondo moderno invece il reato si
configura come fatto dannoso per la società grazie agli illuministi; questa visione permea
tutto il codice penale Rocco ; l’essenza del reato è la violazione di un diritto soggettivo.
Nell’800 il reato era inteso come offesa ad un bene giuridico sia nella forma della lesione
che dell’esposizione al pericolo, pertanto il legislatore puniva solo i comportamenti umani
che modificavano situazioni di fatto permeate di valore, cioè beni giuridici.
Tra l’800 e il 900 si è affermata una diversa visione secondo la quale bisognava punire la
personalità pericolosa manifestata da qualsiasi sintomo e non l’offesa al bene giuridico;
tuttavia tale concezione non viene accolta nell’ordinamento italiano .
In Germania, dopo il nazismo, la concezione del reato non si basa più sul concetto di bene
giuridico ma sulla violazione del vincolo etico che lega l’individuo alla comunità e allo
Stato.
In Italia , dopo un breve periodo di crisi negli anni del dopoguerra, verso gli anni 70 si
ritrova il criterio del bene giuridico nella sua interezza, utile per orientare e vincolare il
legislatore nella configurazione dei reati.

Capitolo 5- Struttura del reato e costituzione: il reato come offesa colpevole a un bene
giuridico
La maggioranza della dottrina ritiene che la Costituzione ha accolto il Principio di
offensività secondo il quale non c’è reato senza offesa ad un bene giuridico. Questo
principio vincola il legislatore ed il giudice : il primo è vincolato nella produzione delle
norme incriminatrici che debbano riguardare la lesione, o almeno l’esposizione al pericolo,
di un bene giuridico; il secondo è tenuto a ricostruire i singoli tipi di reato con l’aiuto del
criterio del bene giuridico, estromettendo dal fatto di reato i comportamenti non offensivi
del bene tutelato dalla norma incriminatrice.
La dottrina tenta di dimostrare il fondamento costituzionale di tale assunto nell’articolo 27
c. 3 Cost. che attribuisce alla pena una funzione rieducativa e una funzione retributiva,

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dicendo che l’equilibrio tra le due funzioni deve avvenire radicando l’incriminazione su di
un fatto offensivo dell’interesse tutelato. Il principio di necessaria lesività dell’illecito è
fortemente supportato dall’art 27 c. 1 cost. che sancisce il carattere personale della sanzione,
nonché l’art. 25 c.2 che parlando di fatto fa capire che sarebbe incompatibile la punizione di
meri atteggiamenti interiori o di meri sintomi di pericolosità individuale.
In uno Stato come il nostro, pluralistico, laico, ispirato a valori di tolleranza, nel quale tutto
il potere statuale promana dal popolo sovrano, l’unico modello di diritto penale, compatibile
con la nostra costituzione, è quindi un diritto penale strumento di protezione dei beni
giuridici, mentre il reato è strutturato come offesa ai beni giuridici, nella forma della lesione
o almeno della messa in pericolo.
La costituzione indica ulteriori requisiti per il quale il legislatore è vincolato nella
configurazione dei reati; non basta che sia previsto un fatto, antigiuridico ma occorre che la
commissione del fatto antigiuridico possa essere personalmente rimproverata all’autore,
cioè il fatto deve essere colpevole ( commesso con dolo, colpa, in circostanze non anormali,
con capacità di intendere e di volere).
L’articolo 27 c. 1 cost. sancisce che la responsabilità penale è personale; responsabilità per
il fatto commesso si basa sul criterio di colpevolezza dell’agente, andrà riferita cioè al
singolo fato antigiuridico da lui commesso. Sarà ad esempio necessaria la rappresentazione
e la volizione per l’esistenza del dolo; la negligenza, l’imperizia e l’imprudenza per
l’esistenza della colpa e devono abbracciare l’intero fatto; la capacità di intendere e di
volere dev’essere presente al momento della commissione del fatto; le circostanze anormali
che possono escludere la colpevolezza devono aver influenzato la condotta dolosa o
colposa, l’ignoranza non colposa della legge penale deve avere ad oggetto la norma che
incrimini il fatto commesso dall’agente.
Il principio di colpevolezza ovvero di personalità della responsabilità penale si contrappone
all’arcaica idea della responsabilità per fatto altrui, alla responsabilità oggettiva , alla
responsabilità penale di chi abbia commesso il fatto volontariamente o colposamente,
ignorando senza colpa l’illiceità penale del fatto; alla responsabilità penale accollata talora
all’incapace di intendere o di volere .Tali forme di responsabilità erano dette non personali,
alcune di esse sono scomparse altre sono sopravvissute.

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La responsabilità penale per fatto altrui era largamente adoperata nel periodo fascista, si
trattava di infliggere sanzioni penali collettive alle popolazioni ritenute solidalmente
responsabili di fatti individuali commessi da colui che avesse realizzato un attentato ecc.
Questo tipo di responsabilità è stata vietata dalla convenzione di Ginevra del 1949, poiché
s’ignorava l’aperto contrasto con l’articolo 27 della cost.
La responsabilità oggettiva è oggi ancora formalmente in vigore, in alcune disposizioni di
diritto generale, come l’art. 42 c. 3 c.p. , e in altre disposizioni di diritto speciale.
La responsabilità oggettiva è la responsabilità senza dolo e senza colpa e si verifica in tre
gruppi di ipotesi: la responsabilità oggettiva in relazione all’evento; la responsabilità
oggettiva in relazione agli elementi del fatto diversi dall’evento; la responsabilità oggettiva
in relazione all’intero fatto di reato ( concorso di persone).
Responsabilità oggettiva in relazione all’evento: si configura quando l’evento è posto
altrimenti a carico dell’agente come conseguenza della sua azione o omissione a prescindere
dalla sua volontà o dalla sua colpa: la responsabilità sorge solo perché l’agente ha
materialmente causato l’evento con la sua azione o omissione.
Questa forma di responsabilità dev’essere prescritta dalla legge. E’ il caso dei delitti
aggravati dall’evento , cioè quelle ipotesi delittuose per le quali la legge prevede un
aggravamento della pana al verificarsi di un evento o di un ulteriore evento come
conseguenza naturalistica del reato .
Anche nei casi di delitto preterintenzionale, l’evento viene posto in capo all’agente sulla
base del solo rapporto di causalità; in tali casi dall’azione o dall’omissione deriva un
evento più grave di quello voluto dall’agente. L’unica figura di reato espressamente
qualificata come preterintenzionale è l’omicidio di cui risponde chi , con atti diretti a
percuotere o a cagionare una lesione personale, cagiona la morte di un uomo.
Secondo il legislatore del 1930 la preterintenzione darebbe vita ad un ipotesi di
responsabilità colpevole e non oggettiva , perché nell’art. 42 c. 3 c.p. egli precisa che la
responsabilità oggettiva è accollata altrimenti all’agente; non per dolo né per colpa, né per
preterintenzione, quest’ultima definita, da una parte della giurisprudenza, come
responsabilità per dolo misto a colpa.
L’altra parte della giurisprudenza, col supporto della dottrina dominante,ritiene che nel
delitto preterintenzionale, l’evento più grave è posto a carico dell’agente solo sulla base del

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rapporto di causalità con l’azione o l’omissione dell’agente; si tratta quindi di responsabilità
oggettiva.
La responsabilità oggettiva si configura anche quando elementi del fatto diversi
dall’evento sono posti in capo all’agente benché rispetto ad essi non vi sia né dolo né colpa,
e dunque solo perché oggettivamente esistenti.
L’art. 609 quater disciplina i reati contro la libertà sessuale in danno di un minore di anni
quattordici; secondo questo articolo, al comma 6, il colpevole non può invocare a propria
scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa; di conseguenza non avrà importanza se lo
sviluppo fisico o gli atteggiamenti di una tredicenne partner di un rapporto sessuale lascino
erroneamente credere che essa abbia più di quattordici anni, a norma dell’art. 609 sexies,
questo errore non esclude la responsabilità dell’agente .
Allo stesso schema di responsabilità oggettiva va ricondotta la disposizione dell’art. 117 c.p.
in tema di concorso di persone nei reati propri, cioè reati che possono essere commessi
solo da chi abbia una determinata qualità, rapporto o condizione con la vittima.
Di regola l’estraneo, cioè chi è sprovvisto di tale qualità, risponde in base alla disciplina
generale del concorso di persone ( art. 110 c.p.) come concorrente nel reato proprio in
quanto abbia non solo contribuito causalmente alla realizzazione del fatto, ma sia altresì
rappresentato che l’autore del fatto, l’intraneo, possedesse la qualità richiesta dalla legge.
Così se l’amico che istiga il capo dell’ufficio acquisti di un ente pubblico ad accettare
indebitamente denaro da un fornitore, non risponderà di concorso in corruzione, se avrà
erroneamente ritenuto che l’ente in questione fosse una società privata , regolata interamente
dal diritto privato,e quindi che la persona da lui istigata non rivestisse alcuna qualifica
pubblicistica ; quindi il terzo potrà concorrere nella corruzione solo se è a conoscenza della
qualifica pubblicistica dell’intraneo.
A questa disciplina, l’art. 117 c.p. deroga per i casi in cui , in assenza della qualità richiesta
dalla norma che configura reato proprio , il fatto integrerebbe un diverso reato: l’estraneo
che, ignorando la qualità dell’intraneo, voleva un reato diversi, risponde ex articolo 117 c.p.
come concorrente nel reato proprio: si tratta di responsabilità oggettiva in quanto fondata sul
contributo causale alla realizzazione del fatto e sulla rappresentazione e volizione solo di
alcuni elementi del fatto.
Ad esempio chi istiga il possessore di una somma di denaro ad appropriarsene a profitto
proprio o dell’istigatore, ignorando che l’istigato è un pubblico ufficiale, il quale possiede

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quella somma in ragione d’ufficio, risponderà non già di concorso nel reato da lui voluto,
cioè appropriazione indebita, ma per effetto dell’art. 117 c.p. di concorso nel reato proprio
di peculato.
Un ulteriori ipotesi di responsabilità oggettiva nella quale un elemento del fatto giace al di
fuori del dolo è individuata dall’articolo 82 c. 1 c.p.; si tratta dell’aberratio ictus monolesiva,
cioè dell’ipotesi in cui per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per altra causa
è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta. Si pensi ad
esempio ad un teppista il quale , da un cavalcavia che sovrasta un’autostrada , lancia un
sasso con l’intento di ferire un motociclista e per errore di mira o per un improvviso cambio
di direzione del motociclista , ferisce invece un operaio che sta facendo lavori di
manutenzione sul ciglio della carreggiata.
In presenza di una divergenza tra ciò che il soggetto ha voluto e ciò che ha realizzato , la
legge fa ricorso a una finzione, considerando realizzata dolosamente l’offesa cagionata a
danno di una persona diversa da quella presa di mira. Ed è appunto il linguaggio tipico delle
finzioni giuridiche quello che viene utilizzato dal legislatore : dispone infatti l’art. 82 c. 1
c.p. che il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno alla persona che
voleva offendere.
Il legislatore finge che rispetto alla persona offesa esiste quella volontà che invece esisteva
solo nei confronti della persona che non si è offesa e invita a trasferire il dolo dalla vittima
designata alla persona realmente offesa. Per fictio iuris si opera il trasferimento del dolo
dalla persona che si voleva offendere alla diversa persona che è stata effettivamente offesa.
Una parte della dottrina ritiene che questa ipotesi non rappresenti alcuna deviazione delle
regole sul dolo perché l’offesa realizzata divergerebbe da quella voluta sotto il profilo
dell’identità del soggetto passivo, che non rientra nell’oggetto del dolo: l’errore sull’identità
della persona offesa ( error in persona) non esclude il dolo , ed è prevista soltanto una
disciplina di favore per l’agente quando l’offesa sia arrecata nei confronti di una persona le
cui qualità o i cui rapporti con l’agente comporterebbero un aggravamento di pena.
Questa tesi non persuade perché nel caso dell’error in persona , la persona offesa è quella
contro cui materialmente si dirigeva l’azione e che si voleva offendere, e ciò che diverge tra
volizione e realizzazione attiene per l’appunto solo all’identità della persona offesa.
Nell’aberratio ictus monolesiva, invece, si voleva offendere un determinato uomo e non lo si
è offeso: si è invece offeso un altro uomo che l’agente non voleva offendere. Nel caso

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dell’error in persona si tratta di omicidio doloso, nell’aberratio si tratta di responsabilità
oggettiva che, sulla base di una finzione l’ordinamento pone a carico dell’agente a titolo di
dolo.
L’art. 82 c. 2 c.p. contempla anche l’ipotesi di aberratio ictus plurilesiva, ipotesi in cui oltre
alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l’offesa era diretta, disponendo che il
colpevole soggiace alla pena prevista per il reato più grave , aumentata fino alla metà.
Ad esempio Tizio vuole uccidere Caio, spara più colpi di pistola contro di lui e in effetti lo
uccide ma una delle pallottole ferisce Sempronio, che è improvvisamente sbucato nelle
vicinanze della vittima; Tizio sarà responsabile di omicidio doloso nei confronti di Caio e di
responsabilità oggettiva nei confronti di Sempronio per il solo fatto di aver causato le
lesioni.
Per quanto riguarda la responsabilità oggettiva per l’intero fatto di reato il codice del
1930 lo prevedeva almeno in due ipotesi : L’articolo 116 c.p. secondo il quale rispondeva di
concorso doloso chi, volendo concorrere in un determinato reato, fornisse un contributo
causale alla commissione di un reato che , per decisione di un altro compartecipe, risultasse
diverso da quello da lui voluto.
Altra ipotesi è quella dei reati a mezzo stampa , articolo 57 c.p. che originariamente
chiamava il direttore o il redattore responsabile a rispondere per ciò solo dei reati commessi
col mezzo della stampa. La formula con ciò solo dev’essere intesa come ulteriori ipotesi di
responsabilità oggettiva, per omesso impedimento del reato da parte del direttore o del
redattore responsabile .
Lo schema cella responsabilità oggettiva era adottato anche per le circostanze aggravanti ,
nel senso che queste erano computate a carico dell’agente anche se egli non ne avesse
conoscenza, bastava solo la loro oggettiva esistenza.
Il principio di colpevolezza richiede anche che l’agente sapesse o almeno potesse sapere che
quel fatto era previsto dalla legge come reato. Per molto tempo il principio di colpevolezza è
stato contraddetto; sia il codice Zanardelli che il codice Rocco contemplavano una
disposizione secondo la quale nessuno può invocare a propria scusa l’ ignoranza della legge
penale.
Ulteriore condizione perché un fatto possa essere oggetto di un rimprovero personale è che
l’autore, al momento della commissione del fatto, fosse imputabile, cioè capace di intendere
e di volere.

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Tutte le deviazione dal principio di colpevolezza sono state sanate dalla Corte costituzionale
o dal legislatore su impulso della stessa corte.
La più recente giurisprudenza della Corte costituzionale ha segnato una svolta storica; essa
ha riconosciuto espressamente che la responsabilità personale a norma dell’art. 27 c. 1 cost.
è sinonimo di responsabilità per un fatto proprio colpevole. Da tale enunciazione la Corte ha
dedotto 2 corollari:
1- la possibilità si invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale , quando sia
inevitabile, con la conseguente parziale illegittimità dell’art. 5 c.p., nella parte in cui
non prevede l’ignoranza inevitabile.
2- La necessità che il fatto, in tutti i suoi elementi, venga commesso almeno per colpa,
con la conseguente illegittimità di tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva.
Nella sentenza n. 364 dell’88 ha dichiarato illegittimo l’art. 5 c.p. nella parte in cui esclude
dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale , l’ignoranza inevitabile.
Nella sentenza n. 1085 dell’88 la Corte ha affermato che il principio ispiratore della
responsabilità oggettiva contrasta con il principio costituzionale della responsabilità penale
personale.
I principi enunciati nelle sentenze del 1988 obbligano il legislatore a eliminare le restanti
ipotesi di responsabilità oggettiva e, in attesa delle riforme legislative, impongono al giudice
di interpretare in conformità alla costituzione tutte le norme che prevedono la responsabilità
oggettiva.
Anche la disciplina sulle circostanze aggravanti è stata armonizzata col principio di
colpevolezza, infatti queste sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute
ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.
Il fatto che nelle ipotesi di responsabilità oggettiva è stato inserito il requisito della colpa
comporta ulteriori dubbi di legittimità costituzionale poiché spesso si delinea
un’irragionevole sproporzione tra misura della pena e grado della colpevolezza, ad esempio
chi compie atti sessuali con un minore di 14 anni, ignorandone l’età, si vedrà applicata la
pena della reclusione da 5 a 10 anni prevista per chi compie atti sessuali con una persona di
cui sa che non ha compiuto 14 anni.
Oppure chi concorre nel reato proprio di peculato , ignorando per colpa la qualità di
pubblico ufficiale della persona istigata, verrà punito con una pena enormemente più grave
di quella prevista per il reato che voleva commettere, cioè l’appropriazione indebita punita

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con la reclusione da 15 gg a tre anni, ed incorrerà nella sanzione prevista per il peculato ,
cioè la reclusione da 3 a 10 anni.

Capitoli 6 e 7- Omissis- vedi libro

Capitolo 8- I c.d. reati senza offesa ai beni giuridici


In base alla natura dell’offesa ai beni giuridici si distinguono i reati di danno, cioè quelli che
comportano la lesione di un bene giuridico, e i reati di pericolo che comportano
l’esposizione al pericolo del bene giuridico. Questi si distinguono a loro volta in reati di
pericolo concreto e di pericolo astratto.
Nei reati di pericolo concreto il giudice è chiamato ad accertare se nel caso concreto il bene
giuridico ha corso un effettivo pericolo.
Nei reati di pericolo astratto, la sussistenza del pericolo non viene accertata dal giudice, ma
è il legislatore, che in base all’esperienza, presume che nella generalità dei casi taluni
comportamenti risultano pericolosi, pertanto il giudice si limita a verificare se quel
comportamento si sia o meno verificato.
Il legislatore, attraverso la previsione di reati di pericolo astratto, svolge una funzione di
protezione preventiva dei beni giuridici; in sostanza anticipa la soglia di tutela di un bene ,
che per la sua importanza non può nemmeno essere esposto al pericolo.
Si dubita sulla legittimità del reato di pericolo astratto,intesa come conformità col principio
costituzionale di offensività; si è approdati alla soluzione secondo la quale, per essere
conforme alla costituzione, il reato di pericolo astratto deve rispecchiare un’effettiva regola
di esperienza.
Un’altra categoria di cui si dubita se sia o meno conforme al principio di offensività, sono i
reati a dolo specifico, essi si caratterizzano poiché nella lettera della legge vengono
utilizzate le formule
“al fine di, allo scopo di”, questi reati esigono che l’agente si rappresenti e voglia la
realizzazione di un fatto con lo scopo di provocare un ulteriore evento, il cui verificarsi non
è però necessario per la consumazione del reato.
In alcuni reati a dolo specifico l’agente deve prendere di mira un evento dannoso o
pericoloso il cui verificarsi è conseguenza naturalistica dell’azione, come esempio si può
citare l’ articolo 508 c.p, invasione di azienda agricola al solo scopo di turbare il lavoro; in

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alcuni reati a dolo specifico l’agente deve prendere di mira un evento dannoso o pericoloso
il cui verificarsi è un eventuale conseguenza naturalistica dell’azione, ad esempio si pensi
all’articolo 422 c.p., che disciplina il delitto di strage ; secondo tale articolo, l’agente deve
compiere atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità come “mezzo” per il
conseguimento di un fine, l’uccisione di una o più persone, il cui verificarsi è solo
un’eventuale conseguenza naturalistica della sua azione, non necessaria per la
consumazione del reato , infatti la morte di una o più persone costituisce un’ipotesi
aggravante del delitto di strage. ( ergastolo invece di 15 anni previsti per la sola
realizzazione della condotta).
In altri casi l’agente deve prendere di mira un evento il cui verificarsi è invece conseguenza
non dell’azione ma di un’ulteriore attività, compiuta dall’agente o da un suo complice, ad
esempio il sequestro di persona a scopo di estorsione, art. 630 c.p. , il raggiungimento dello
scopo di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto , presuppone un ulteriore attività,
cioè la richiesta del riscatto oltre al sequestro.
I reati a dolo specifico sono detti reati a consumazione anticipata e spesso in dottrina
vengono assimilati al tentativo, pertanto come nel nostro ordinamento, il tentativo è
subordinato al requisito dell’idoneità dei mezzi e degli atti, è altrettanto richiesto nei reati a
dolo specifico un duplice significato, non solo l’intenzione dell’agente di provocare un
evento lesivo, ma anche l’oggettiva idoneità dell’azione a produrre tale risultato. Proprio per
questo non si realizzerà il reato a dolo specifico quando l’agente,pur essendo animato dallo
scopo indicato dalla norma, produca un’azione in concreto inidonea al conseguimento dello
scopo stesso.
La Corte di Cassazione ha recente mente avvalorato tale concezione di reato a dolo
specifico, stabilendo che in questo tipo di reati il fine perseguito dall’agente non deve
risolversi in un dato meramente interiore, ma in un elemento che spiega la sua rilevanza
nell’economia della fattispecie ed esprime una specifica connotazione obiettiva all’offesa:
consegue che la condotta esecutiva del dolo specifico deve essere intrinsecamente idonea
alla realizzazione del risultato da perseguire.
Dall’assimilazione al tentativo dei reati a dolo specifico è nato un problema cioè se anche ai
reati a dolo specifico, sia applicabile la riduzione di pena prevista per il recesso attivo del
delitto tentato (art. 56 c.p.), la risposta è sicuramente positiva, il legislatore del 1930 aveva
ben chiaro che i reati a dolo specifico fossero dei reati che si perfezionano con gli estremi

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del tentativo, pertanto nel recesso attivo, cioè quando l’agente volontariamente impedisce
l’evento, è applicabile la riduzione di pena prevista per il recesso attivo del tentativo
dall’articolo 56 c.p. o addirittura in alcuni casi anche la non punibilità.
Altri delitti senza offesa ai beni giuridici, sono i delitti di attentato, secondo parte della
dottrina essi sono reati a carattere soggettivo, cioè nei quali il rapporto con il bene giuridico
resta confinato nella sfera psichica dell’agente. Secondo la tesi dominante in dottrina e
totalitaria in giurisprudenza, il delitto di attentato è un reato a consumazione anticipata, la
cui struttura oggettiva coincide con quella del tentativo, poiché con essi condividono 2
caratteri: l’inizio dell’esecuzione e l’idoneità degli atti.
Per integrare il delitto di attentato, secondo la Corte di cassazione a sezioni unite, è
necessario che la condotta dell’agente passi da una fase preparatoria ad una successiva
detta fase esecutiva.
E’ il caso dell’opera di proselitismo svolta dall’associazione cospirativa o la costituzione di
bande armate, fase preparatoria, e l’ordine del capo di tali bande di sovvertire l’ordine
pubblico, fase esecutiva.
L’altro carattere che associa i delitti di attentato al tentativo è l’idoneità degli atti a sfociare
in un risultato dannoso per il bene giuridico verso i quali sono diretti; in tal proposito si sono
profilate 3 diverse tesi:
1) Il giudizio di idoneità nei delitti di attentato coinciderebbe con quello
normalmente richiesto per il tentativo, sarebbero idonei gli atti che determinano
una situazione di concreto pericolo per il bene tutelato, cioè l’esistenza di una
situazione oggettiva che, con probabilità o rilevante possibilità, è suscettibile di
tramutarsi in danno:
2) Per un altro orientamento il giudizio di idoneità è concepito come mera
possibilità del verificarsi del risultato lesivo;
3) Infine un’altra tesi amplia la portata del delitto di attentato, per cui il giudizio di
idoneità si tradurrebbe nella non impossibilità del verificarsi del risultato
dannoso.
E’ condivisibile senz’altro la tesi maggiormente perseguita in dottrina secondo la quale i
delitti di attentato devono essere interpretati oggettivamente, perché solo con tale
interpretazione viene rispettato il significato della lettera della legge; bisogna poi
considerare, il principio di esecuzione e il requisito dell’idoneità degli atti, che accomunano

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il delitto di attentato al tentativo anche se, secondo la dottrina dominante, i delitti di
attentato non ammettono il tentativo, proprio perché il minimo necessario per dar vita al
tentativo è , in tali delitti, già sufficiente per la consumazione.
In alcuni delitti, come il delitto di attentato contro la personalità dello stato, è per la stessa
natura del fatto delittuoso, che il reato può sussistere solo nello stadio del tentativo, poiché il
raggiungimento del fine assicurerebbe all’agente la completa impunità.
Altre volte la configurazione di un delitto di attentato riflette l’esigenza di sanzionare il
tentativo con una pena più severa di quella applicabile in base alla disciplina ordinaria
dettata dall’art. 56 c.p. ; ad esempio l’art. 286 c.p. comminava la pena di morte per chi
avesse provocato la guerra civile, mentre prevedeva l’ergastolo in caso si guerra civile solo
tentata, applicando la disciplina dell’art. 56 a quest’ultima disposizione, la pena sarebbe
stata quella della reclusione da 24 a 30 anni.
Il legislatore ha creato altri reati per anticipare la soglia di tutela penale dei beni giuridici ad
uno stadio addirittura anteriore alla messa in pericolo, si tratta dei reati di pericolo indiretto
detti anche reati “di pericolo di pericolo” , o anche reati ostativi.
Tra i reati contro l’incolumità pubblica sono molto diffusi i reati di pericolo indiretto, ad
esempio accanto ai delitti di frana, inondazione, incendio, disastro aereo o ferroviario, la
legge incrimina anche il danneggiamento seguito dal pericolo d’incendio, di frana e valanga,
ecc.
Nelle prime ipotesi l’incolumità pubblica è protetta dal pericolo di cagionare direttamente
l’incendio, o l’inondazione, la frana ecc. nelle seconde ipotesi la tutela dell’incolumità
pubblica interviene in uno stadio ulteriormente anticipato: quello della creazione del
pericolo d’incendio, frana ecc. i comportamenti vietati sono solo indirettamente pericolosi
per il bene giuridico.
Anche tra i reati contro la personalità dello stato, nonché contro la fede pubblica compaiono
alcuni reati di pericolo indiretto, ad esempio la falsità in monete, è vietata infatti la
contraffazione di carta filigranata, ma ancor prima è vietata la fabbricazione di filigrane;
dalla contraffazione delle filigrane creerebbe il pericolo della falsificazione delle monete
che metterebbe in pericolo la fede pubblica.
Nel codice penale compaiono i cd. reati di possesso, cioè reati nei quali è punito il possesso
o la detenzione di una cosa. Nella stragrande maggioranza dei casi i reati di possesso sono
reati di pericolo necessariamente o eventualmente indiretto. Reati di pericolo

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necessariamente indiretto sono la detenzione di filigrane o di strumenti destinati alla
contraffazione o alterazione di monete, la detenzione crea infatti il pericolo che le filigrane o
gli strumenti di falsificazione vengano utilizzati per falsificare le monete, e quindi si crea il
pericolo del pericolo della messa in circolazione di tali monete che ha per effetto la lesione
della fede pubblica.
Lo stesso discorso vale per la detenzione di sostanza stupefacenti o psicotrope, poiché dalla
detenzione di tali sostanze si crea il pericolo che queste vengano cedute a terzi con il
conseguente pericolo per la salute per chi le utilizza.
Casi di reati di possesso , di pericolo solo eventualmente indiretto sono la detenzione di
monete falsificate, detenzione illegale di armi da guerra, possesso di carte di credito false o
di provenienza illecita.
Uno speciale sottogruppo di reati di possesso è costituito dai reati di sospetto, nei quali
s’incrimina il possesso di una cosa muovendo dal sospetto che possa servire a commettere
un reato; è il caso del possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli poiché si sospetta che
queste possano servire a sforzare serrature o a commettere altri reati.
I reati di sospetto hanno una peculiarità processuale poiché l’onere della prova della
destinazione illecita della cosa incombe interamente sull’imputato; secondo Marinucci e
Dolcini tali norme sono illegittime per contrasto con l’articolo 27 cost , comma 2 che
sancisce la presunzione d’innocenza, da questa stessa osservazione è partita la Corte
costituzionale quando ha dichiarato l’illegittimità di una norma di sospetto in materia di
criminalità mafiosa.
Di norma gli atti preparatori non sono oggetto di incriminazione per l’esigua pericolosità nei
confronti del bene protetto, tuttavia in alcuni casi eccezionali e a precise condizioni, può
risultare legittima l’incriminazione di atti preparatori , e di fatti pericolosi in via indiretta:
- occorre che i beni tutelati siano beni primari e indispensabili per l’integrità delle
istituzioni e per la sopravvivenza della società;
- che le condotte vietate siano generalmente pericolose per il bene giuridico e non così
remote da creare un pericolo doppiamente indiretto.
Controverso è se i reati omissivi propri o di mera omissione, cioè quei reati nei quali è
incriminato il mancato compimento di una data azione, siano conformi con il principio di
offensività.

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Questi dubbi di legittimità possono essere risolti in quanto questi reati possono essere
ricostruiti in via interpretativa anche come forme di offesa a beni giuridici; in alcuni casi,
come nell’omissione di soccorso, è la struttura della norma ad evidenziare che ciò che si
reprime è la mancata rimozione di una preesistente situazione di pericolo. In altri casi, ad
esempio nell’omessa denuncia di reato, posto che la protezione del bene giuridico si realizza
con la produzione di un risultato da parte del soggetto obbligato, l’offesa si realizzerà se ed
in quanto quel risultato non si verifichi: così l’omessa denuncia di reato non si configura,
quando l’autorità giudiziaria già era a conoscenza per altra via del reato non denunciato dal
pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio.
Diversi sono i reati omissivi impropri, cioè quei reati nei quali è incriminato il mancato
impedimento di un evento dannoso o pericoloso.

Capitolo 9- La quadripartizione del reato


Dal punto di vista formale tutti gli elementi del reato si collocano sullo stesso piano perché
dalla loro somma si può individuare la pena corrispondente.
Ciascun elemento di reato ha una funzione propria; alcuni descrivono il fatto cioè un’offesa
al bene giuridico ; altri decidono se e quando il fatto è antigiuridico cioè disapprovato
dall’ordinamento; altri ancora esprimono le condizioni in presenza delle quali il fatto
antigiuridico è colpevole ossia personalmente rimproverabile all’agente; infine altri elementi
riflettono eventuali valutazioni del legislatore in ordine alla punibilità del fatto antigiuridico
e colpevole cioè all’opportunità di applicare la pena nel caso concreto.
Il reato è quindi composto da una serie di elementi; esso è un fatto, antigiuridico,
colpevole e punibile.
Questo tuttavia non è il solo modello di analisi; la scelta del modello di analisi del reato va
compiuto partendo da un quesito preliminare.
L’interprete deve innanzitutto accertare se è stato commesso il fatto cioè l’offesa al bene
giuridico e poi domandarsi se l’autore del fatto ha agito con dolo o colpa, se era imputabile
e infine se è responsabile.
E’ importante che il modello adoperato sia oggettivo cioè muova dall’accertamento del
fatto e non soggettivo, cioè muova dall’accertamento dell’intenzioni dell’agente.
Il fatto è dunque la pietra angolare della struttura del reato, esso è l’insieme degli elementi
oggettivi che individuano e caratterizzano ogni singolo reato come specifica forma di offesa

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a uno o più beni giuridici. Compongono il fatto tutti quegli elementi oggettivi che
concorrono a descrivere tale forma di offesa specifica ad uno o più beni, ad esempio la
condotta, cioè un’azione o un’omissione; i presupposti della condotta cioè le situazioni di
fatto o di diritto che debbono preesistere o coesistere con la condotta; l’evento o gli eventi,
cioè gli accadimenti temporalmente e spazialmente separati dalla condotta e da questi
causati; il rapporto di causalità tra condotta ed evento; l’oggetto materiale cioè la persona o
la cosa sulla quale incide l’azione o l’omissione o l’evento; la qualità o le relazioni
giuridiche o di fatto richieste per il soggetto attivo del reato nei c.d. reati propri (cioè quelli
che possono essere commessi solo da soggetti qualificati); l’offesa al bene giuridico protetto
dalla norma incriminatrice nella forma del danno o del pericolo. Mentre la condotta e
l’offesa sono presenti in qualsiasi fatto penalmente rilevante, gli altri sono elementi presenti
solo in alcune figure di reato.
Il fatto si compone di elementi detti positivi quando sono necessari per la sussistenza del
fatto stesso, ed elementi negativi, quando la legge per la sussistenza del fatto richiede
l’assenza di una qualche situazione di fatto.
L’antigiurdicità è il concetto con il quale si descrive come secondo elemento di reato, il
rapporti di contraddizione tra il fatto e l’intero ordinamento giuridico.
L’antigiuridicità del fatto è solo formale nel senso che va desunta invariabilmente da norme
giuridiche e non può essere affiancata da un’antigiuridicità materiale cioè quella desunta da
criteri o principi enunciati in qualsivoglia norma dell’ordinamento.
Un fatto può essere antigiuridico o lecito: è antigiuridico quando è in contraddizione con
l’intero ordinamento ; è lecito se anche una sola norma dell’ordinamento lo facoltizza o lo
impone.
In presenza di un conflitto tra norme che reputino lecito e illecito uno stesso fatto si vedrà
prevalere la norma che facoltizza o impone la realizzazione del fatto; il fatto sarà dunque
lecito e pertanto non punibile poiché manca la sua antigiuridicità.
Quando le cause di giustificazione non siano previste , il fatto è antigiuridico e costituisce
reato se concorrono anche la colpevolezza e la punibilità; se invece il fatto è commesso in
presenza di cause di giustificazione, esso è lecito e non punibile.
Le circostanze che escludono la pena, dunque anche le cause di giustificazione, sono
valutate a favore dell’agente anche se da esso non conosciute o per errore ritenute
inesistenti.

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D’altra parte se il fatto viene commesso in assenza di qualsiasi causa di giustificazione, sarà
definitivamente antigiuridico anche se il soggetto credeva erroneamente di agire in
presenza di una causa di giustificazione ; questo erroneo convincimento rileverà sul piano
della colpevolezza e non dell’antigiuridicità.
Sono pensabili tre forme di erronea supposizione:
1) l’agente suppone l’esistenza di una causa di giustificazione non contemplata
dall’ordinamento;
2) l’agente suppone che la causa di giustificazione abbia limiti più ampi di quelli
previsti dall’ordinamento;
3) l’agente può erroneamente supporre l’esistenza nella situazione reale, che vive, degli
estremi di una causa di giustificazione riconosciuta dall’ordinamento.
Nell’ultimo caso l’erronea supposizione di aver commesso il fatto in presenza di una causa
di giustificazione escluderà il dolo, se però l’errore è stato determinato da colpa, il fatto
commesso gli sarà addebitato a titolo di colpa, se quel fatto è previsto dall’ordinamento
come reato colposo.
Questa ipotesi è espressamente prevista dall’ordinamento all’articolo 59 c. 4 c.p. il quale
stabilisce che “ se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della
pena, e cause di giustificazione, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia se si
tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto
dalla legge come delitto colposo”.
Se il fatto è commesso in presenza di una situazione che integra la previsione di una
scriminante, ma la condotta dell’agente eccede i limiti segnati da tale norma , si parla di
eccesso nelle cause di giustificazione; il codice penale disciplina espressamente l’eccesso
colposo all’articolo 55 c.p..
La colpa dell’agente può riguardare un’erronea valutazione della situazione scriminante o la
fase esecutiva della condotta, in particolare un cattivo controllo dei mezzi d’esecuzione che
comporta un risultato più grave di quello voluto dall’agente.
Si parla di eccesso doloso, pertanto non riconducibile all’art. 55 c.p., quando l’agente si sia
rappresentato esattamente la situazione scriminante, abbia pienamente controllato i mezzi
esecutivi e abbia consapevolmente e volontariamente realizzato un fatto antigiuridico che
ecceda i limiti della causa di giustificazione.

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Nessuna responsabilità penale sorge per l’eccesso incolpevole quando cioè l’errore in cui è
incorso l’agente, nella fase di rappresentazione della situazione scriminante o in quella
esecutiva, non sia dovuto a colpa perché non sarebbe stato evitato da un uomo ragionevole
che si fosse trovato ad agire nelle stesse circostanze di tempo e di luogo.
La colpevolezza. Dopo che sia stata accertata l’esistenza di un fatto antigiuridico è
necessario individuare la colpevolezza dell’agente cioè valutare se è possibile muovere
all’agente un rimprovero per aver commesso quel fatto antigiuridico. I criteri sui quali si
fonda la colpevolezza sono il dolo o la colpa, la normalità delle circostanze concomitanti
alla commissione del fatto, la conoscenza o la conoscibilità della norma penale violata, la
capacità di intendere e di volere.
Si tratta di criteri in parte stabiliti dal legislatore e in parte fissati dalla Corte costituzionale
in attuazione dell’art. 27 cost., che ha anche estromesso due ipotesi di responsabilità
oggettiva richiedendo che il fatto sia commesso almeno per colpa.
Il dolo consiste nella rappresentazione e volizione del fatto antigiuridico.
La responsabilità per colpa si configura quando si commette un fatto antigiuridico che si
verifica per la violazione di norme di fonte sociale, negligenza, imprudenza o imperizia,
ovvero di fonte giuridica, inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, che vietano
in assoluto di agire o impongono di agire con particolari modalità, per prevenire che dalla
condotta dell’agente possano derivare eventi dannosi o pericolosi prevedibili.
Per considerare colpevole l’agente non abbia commesso un fatto antigiuridico con dolo o
per colpa ma è necessario che egli abbia agito in costanza di circostanze normali, infatti se
egli avesse agito in circostanze anormali che influenzavano in modo irresistibile la sua
volontà o le sue capacità psicofisiche e rendevano perciò inesigibile un comportamento
diverso, ci troveremmo in presenza di scusanti pertanto l’agente non sarà responsabile e cioè
non sarà punibile.
Inoltre perché all’agente possa rimproverarsi la dolosa o colposa realizzazione , in
circostanze normali, di un fatto antigiuridico è necessario che egli sapesse o almeno potesse
sapere usando la dovuta diligenza, che quel fatto antigiuridico, doloso o colposo, era
represso da una norma incriminatrice, secondo quanto stabilito dall’art. 5 c.p. riformato con
la sentenza 364/88 corte cost.

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Ricordiamo che non è colpevole, e pertanto no può essere punito, chi al momento in cui ha
commesso non era imputabile ai sensi dell’art. 85 c.p. , cioè incapace di intendere e di
volere.
La punibilità: nel nostro ordinamento le minacce di pena operano con riserva cioè si
applicano ai fatti antigiuridici colpevoli solo in presenza di alcune ulteriori condizioni, ove
queste manchino la pena è inapplicabile e i fatto non costituisce reato.
L’insieme di condizioni , ulteriori ed esterne al fatto antigiuridico e colpevole, possono
fondare o eludere l’opportunità di punire l’agente , queste condizioni sono fissate dal
legislatore e sono :
1) Le condizioni obiettive o estrinseche di punibilità, che fondano la punibilità, e sono
degli accadimenti menzionati in una norma incriminatrice che non contribuiscono in
nessun modo a descrivere l’offesa, ma esprimono valutazioni di opportunità in ordine
all’inflizione di una pena. A norma dell’art. 44 c.p. ciò si realizza ad esempio
nell’articolo 688 c.p. il quale stabilisce che “ chiunque in un luogo pubblico è còlto
in stato di manifesta ubriachezza , è punito con una sanzione amministrativa
pecuniaria da 51 a 309 €.” La condizione di punibilità è quella di essere colti in un
determinato stato.
2) Le cause di esclusione della punibilità che si distinguono in cause personali di non
punibilità e cause sopravvenute di non punibilità: le prime attengono alle situazioni
concomitanti alla commissione del fatto che ineriscono alla posizione personale
dell’agente o ai suoi rapporti con la vittima; le seconde attengono ai comportamenti
dell’agente che susseguono alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole;
sono da considerarsi cause di esclusione della punibilità anche alcuni fatti naturali o
giuridici successivi alla commissione del fatto che sono del tutto indipendenti dai
comportamenti dell’agente.
Un esempio di causa personale di non punibilità è posto dall’articolo 649 c.p. delitti contro
il patrimonio a danno di un familiare, oppure dall’art. 3 c.p. le immunità di diritto
internazionale; tra le cause sopravvenute di non punibilità viene enucleata la desistenza
volontaria , che comporta la non punibilità per chi, avendo iniziato a realizzare la condotta
tipica, volontariamente non la porti a compimento , ex art. 56 c.p.; tra le cause di estinzione
si annoverano la morte del reo, o il decorso del tempo dopo la commissione del fatto

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antigiuridico e colpevole ai sensi dell’articolo 157 c.p., oppure dalla concessione
dell’amnistia.
Talvolta il legislatore rimette al giudice la valutazione dell’opportunità di un’effettiva
punizione dell’autore di un fatto antigiuridico e colpevole; è il caso dell’oblazione nelle
contravvenzioni punite con pene alternative, ex art. 162-bis c.p. , è prevista la non punibilità
del contravventore che chieda tempestivamente di pagare una somma corrispondente alla
metà del massimo dell’ammenda prevista dalla legge per la contravvenzione commessa,
sempre che il giudice a sua discrezione valuti inopportuna la punibilità dell’agente a causa
della lieve gravità del fatto.
Sia le condizioni obiettive di punibilità che le cause di esclusione di punibilità operano
obiettivamente cioè indipendentemente dal dolo o dalla colpa dell’agente. Nell’ambito del
concorso di persone le cause personali e quelle sopravvenute di non punibilità , nonché le
cause di estinzione del reato, hanno effetto soltanto per la persona alle quali si riferiscono.
La categoria della punibilità appare problematica talora sul versante dei rapporti di diritto
processuale, talora nei rapporti con gli altri elementi del reato. Nondimeno, tutti gli istituti
riconducibili a tale categoria sono accomunati da un’idea guida, che ne giustifica
l’autonomia: la valutazione dell’opportunità di applicare la pena all’autore di un fatto
antigiuridico e colpevole.

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