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DIRITTO PROCESSUALE PENALE

IL DIRITTO PROCESSUALE PENALE E IL PROCESSO PENALE:


LINEE INTRODUTTIVE

Capitolo primo
SISTEMA PENALE E DIRITTO PROCESSUALE PENALE

1.Il conoscere giudiziale: premessa.


Il conoscere giudiziale differisce da ogni altra attività umana di acquisizione di nuova conoscenza
perché implica, sempre e comunque, esercizio di potere; le norme processuali penali perimetrano
e regolamentano l’uso di tale potere, iscrivendolo in una cornice di garanzia e scongiurando, con
ciò, il rischio che il potere trascenda in arbitrio.
Sugli scenari del processo vi è:
- Un attore (actor), che propone al giudice la domanda di giudizio nei confronti della proprio
controparte, attivando così il meccanismo dell’accertamento giudiziale;
- Imputato (reus), nei cui confronti la domanda giudiziale è proposta; esso è posto in grado
di dispiegare le proprie difese in ordine all’oggetto della domanda medesima;
- Il giudice, in posizione di equidistanza dall’uno e dall’altro. È terzo rispetto alle parti e
assume la veste di in medio cognoscens. Spetta a lui coordinare le complesse attività del
conoscere giudiziale (il giudice è il cognoscens, colui il quale conosce) spendendo la propria
posizione di terzietà (il giudice si colloca in medio tra accusa e difesa).

2.Le due anime del sistema penale.


Sin da subito occorrerà brevemente tratteggiare i rapporti tra il diritto processuale penale e il
diritto penale sostanziale.
Converrà muovere da una consapevolezza elementare: spetta al diritto penale sostanziale
coagulare le norme incriminatrici, tipizzando le condotte meritevoli di sanzione penale e fissando
le regole generali per la loro applicazione; spetta al diritto processuale penale individuare i
paradigmi procedimentali idonei a consentire l’accertamento della responsabilità penale
dell’imputato e l’applicazione in concreto a questi, se ritenuto colpevole, dalla sanzione penale.
Tra le due anime del sistema penale vi è un rapporto di reciproca implicazione: la norma
processuale penale sarebbe cieca quando attraverso essa non si intendesse accertare la
commissione di un reato previsto dal diritto sostantivo; poiché ai fini dell’applicazione in concreto
della norma penale sostanziale è indefettibile dar luogo all’attivazione del meccanismo
processuale, il solo diritto sostantivo non sarebbe idoneo a realizzare gli scopi del sistema penale:
non si può applicare in concreto una sanzione penale se non attraverso i meccanismi del processo.
Non c’è nessuna “graduatoria” tra l’una e l’altra anima del sistema, essendo entrambe indefettibili
ai fini della realizzazione degli scopi del sistema nel suo complesso.

La denominazione istituzionale della disciplina era, non per caso, “procedura penale”, e tale si
sarebbe mantenuta fino alla riforma dell’esame dell’abilitazione per esercizio della professione

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(allora) di procuratore legale, varata nel 1989, che anticipò in questo la scelta terminologica
definitiva consacrata dalla riforma universitaria del 1999: solo da allora la disciplina ha stabilmente
assunto la denominazione di “diritto processuale penale”.
La “procedura” raccoglie, concettualmente l’eredità del 500-600 della pratica causarum
criminalium: proprio questo titolo recavano le esposizioni pratiche delle sequenze empiriche di
accertamenti dei fatti di reato; mere “istruzioni per l’uso”, erano ad esse solitamente estranei
intenti di tipo sistematico. Insomma, la pratica causarum criminalium era solo una meccanica,
priva di qualsiasi intento speculativo. Il “diritto processuale”, invece, ambiva a ricostruire un
sistema, ponendone in luce il ruolo di garante e custode di valori.
- Ma davvero può dirsi che la scienza del processo penale sia una mera pratica causarum,
una meccanica che gestisce sequenze di atti a scopi meramente empirici?
 Nessuno, oggi, potrebbe più sostenerlo: i valori coinvolti nel processo penale hanno spessori di
tale portata da rendere più che evidenti le complesse dimensioni sistematiche coinvolte,
peraltro ormai adeguatamente esplorate dalla scienza processualpenalistica.

Occorre, inoltre, dal conto di quanto complessa sia stata,specie nelle epoche più vicine a noi,
l’evoluzione dei rapporti tra il diritto penale e il processo. Varrà l’acuta metafora tracciata, a pochi
anni dall’entrata in vigore del codice di rito del 1988, da Tullio Padovani: da un rito processuale
“servo muto” del diritto penale (era l’epoca della procedura priva di didattica, dissolta
nell’insegnamento più antico e nobile) si era transitati all’era del servo loquace (susseguente alla
conquista dell’autonomia didattica), che, via via affrancandosi dell’antica servitù, era divento
prima “socio paritario” e, infine, proprio con il varo del codice di procedura penale del 1988, “socio
tiranno” del diritto penale sostantivo; già da adesso converrà segnalare gli squilibri che il sistema
dei procedimenti speciali ha provocato nel quadro tradizionale dei congegni della commisurazione
della pena.
Si pensi, ancora, sempre a titolo esemplificativo, ai rapporti tra struttura sostanziale della
fattispecie e dinamiche della prova penale: sarebbe artificioso considerare l’una e le altre alla
stregua di modi separati, corridoi stagni privi di interferenze reciproche; il legislatore sostanziale,
nel concepire le proprie scelte incriminatrici, dovrebbe tener conto delle potenzialità e dei limiti
dei sistemi probatori, meccanismi attraverso i quali l’accusa adempirà al proprio onere della prova,
l’imputato dispiegherà la propria difesa e l’offeso dal reato eserciterà le proprie garanzie
partecipative.
Si pensi, infine, al ruolo della “provata condotta illecita” quale eccezione al contraddittorio ex art.
111, comma 5 Cost.: il “contraddittorio inquinato”, pur radicando anzitutto un concetto di genere,
si atteggia in termini del tutto diversi in sede di accertamento di un fatto bagatellare di tipo
monosoggettivo e nei processi per fatti di criminalità organizzata. La conoscenza di questa
complessità si pone come indispensabile ai fini della comprensione non epidermica del ruolo
stesso del diritto processuale penale nella vita del diritto.

Capitolo secondo
IL SISTEMA DELLE FONTI

2.La centralità della Costituzione nel sistema delle fonti.


L’insegnamento tradizionale ha, sin dall’Ottocento, abitualmente posto al centro del sistema delle
fonti del diritto processuale penale il corpus codicistico deputato a contenere la disciplina del
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processo: al primo codice di procedura penale dell’Italia unitaria, varato nel 1865 attraverso
l’estensione all’intero territorio nazionale del codice del Regno di Sardegna del 1859, seguì
dapprima il codice del 1913, di seguito il codice del 1930. Solo nel 1988 si pervenne al primo
codice dell’età repubblicana.
Fatta eccezione per il codice del 1988, gli altri codici di rito erano stati varati ne vigore dello
Statuto Albertino: un testo costituzionale breve, concesso da Carlo Alberto di Savoia a seguito dei
moti rivoluzionari del 1848, che risentiva fortemente dei rapporti asimmetrici tra potere e libertà
tipici di una monarchia non avanzata. Si trattava, soprattutto, di una Costituzione flessibile che
occupava, nel sistema delle fonti, una rango pari a quello della legge ordinaria. Proprio questa è la
ragione per la quale si era, nel tempo, continuato a ripetere che la fonte principe del diritto
processuale penale fosse il codice di rito di volta in volta vigente.
L’affermazione va ripensata, oggi, alla luce della rivoluzione copernicana apportata all’intera tavola
dei valori della convivenza civile dalla Costituzione repubblicana del 1948: i rapporti tra autorità e
libertà sono stati interamente ripensati attraverso la valorizzazione del c.d. principio personalistico;
il baricentro del sistema si sposta sui diritti inviolabili della persona, riconosciuti e garantiti, in apici
bus, dall’art. 2 Cost.; le stesse libertà negative di origine liberale sono risultate trasfigurate nella
nuova cornice della primazia costituzionale della tutela della persona umana.

La cornice costituzionale (rigida, ormai, e non più flessibile: la Costituzione occupa, nel sistema
delle fonti, un rango apicale, sovraordinato rispetto alla legge ordinaria) ha assunto un ruolo di
importanza strategica nel sistema delle fonti. Il ruolo centrale nel sistema delle fonti del diritto
processuale penale è oggi ricoperto dalla Costituzione della Repubblica. Secondo un’impostazione
particolarmente autorevole e del tutto condivisibile, il diritto processuale penale è diritto
costituzionale applicato.
Le norme costituzionali di diretta incidenza sul quadrante processuale penale evidenziano un forte
impatto di straordinaria latitudine, ben più ampia di quanto non accada in qualsiasi altro settore
dell’esperienza giuridica.
Rilevano:
 ART. 2 COST. in tema di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo: circa le dirette ricadute
processuale si pensi, ad esempio, al divieto assoluto di adoperare, in sede di escussione della
fonte dichiarativa ma anche in sede di interrogatorio dell’imputato, metodi o tecniche idonei
ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare o valutare i
fatti, o al potere-dovere del presidente del collegio dibattimentale di curare che l’esame del
dichiarante sia condotto senza ledere il rispetto della persona.
 ART. 3 COST. riveste il vero e proprio perno del sistema. Il principio di eguaglianza, che
costituisce, nel contempo, un formante delle scelte legislative e il primo canone ermeneutico
rivolto all’interprete, rileva anche nella sua veste di canone di ragionevolezza. Questo articolo
non solo è quasi sempre evocato, dai giudici a quibus, quale parametro di scrutinio ai fini della
sollevazione della questione di costituzionalità, ma costituisce spesso uno dei fondamenti delle
declaratorie di illegittimità costituzionale concernenti nome processuali penali.
 ART. 13 COST. apre il catalogo delle libertà negative o dallo Stato. È superfluo segnalare il
ruolo di centralità che la tutela costituzionale della libertà personale ricopre nell’ambito della
disciplina processuale penale, considerato che il processo penale è l’unica esperienza
processuale statuale che ospita al suo interno regimi limitativi della libertà personale di un
soggetto che è assistito dalla presunzione di non colpevolezza.

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 ART. 14 COST. nel tutelare la libertà di domicilio mostra addentellati processuali di grande
impatto pratico: si pensi, per tutti, alla disciplina delle ispezioni e delle perquisizioni domiciliari.
 ART. 15 COST. tutela la libertà e segretezza della corrispondenza e delle altre forme di
comunicazione: i suoi raccordi con il sistema processuale penale coinvolgono la disciplina delle
intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali, la cui importanza pratica è sempre più
cospicua, ma si estendono altresì ad altri fenomeni di grande rilevanza come l’acquisizione dei
tabulati del traffico telefonico o le videoriprese.
 ART. 24 COMMA 2 COST. nel tutelare l’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del
procedimento, dispiega trasversalmente i suoi effetti lungo l’intero arco in cui si svolge il rito
penale: l’importanza della formula sta nella natura aperta della previsione, insuscettibile di
catalogazioni definite, sicché la compilazione di un elenco chiuso delle modalità di esplicazione
del diritto di difesa, prima ancora che impossibile, sarebbe erronea sotto il profilo del metodo.
L’inviolabilità del diritto di difesa trova, poi, una interfaccia operativa nell’art. 111 comma 3
Cost., che elenca, senza alcuna pretesa di completezza, alcuni tra i più importanti diritti
difensivi spettanti all’accusato.
 ART. 25 COMMA 1 COST. fissa il principio della naturalità e precostituzione del giudice e va
oggi letto unitamente alla previsione della terzietà ed imparzialità del giudice sancite dall’art.
111 comma 2 Cost. Il valore dell’imparzialità del giudice costituisce il baricentro della garanzia:
tra i molteplici riflessi codicistici rilevano le regole in tema di competenza nonché le norme in
tema di incompatibilità e gli istituti dell’astensione, della ricusazione e della rimessione dello
iudex suspectus.
 ART. 27 COMMA 2 COST. dà corpo alla presunzione di non colpevolezza dell’imputato fino alla
condanna definitiva: si tratta di una tra le più importanti garanzie costituzionali di contesto,
che rileva in chiave di regola di trattamento e in veste di regola di giudizio, a sua volta
distinguibile in:
 Regola probatoria: l’onere della prova incombe sulla pubblica accusa
 Regola decisoria sul fatto incerto: ove l’accusa non ne abbia provato la colpevolezza al di là
di ogni dubbio ragionevole, l’imputato deve essere prosciolto dall’addebito formulato a suo
carico.
 ARTT. 101 ss COST. danno corpo alle prerogative istituzionali della magistratura, scolpendone i
principi di autonomia e indipendenza che, insieme all’imparzialità, ne disegnano lo statuto
costituzionale di fondo.
 ART. 109 COST. fissa il principio della dipendenza funzionale della polizia giudiziaria
dall’autorità giudiziaria, salva la dipendenza generica degli organi di polizia dai proprio Corpi di
appartenenza.
 ART. 111 COST. modificato dalla legge costituzionale 2/1999, ospita il c.d. “giusto processo”.
Dei cinque nuovi commi introdotti dalla novella costituzionale i primi due si riferiscono ad ogni
tipologia processuale mentre i commi 3-4-5 fissano garanzie specifiche del processo penale, tra
cui campeggia la regola del contraddittorio nella formazione della prova e la previsione di un
novero chiuso di deroghe autorizzate.
 ART. 112 COST. nel consacrare l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale dal parte del
PM, struttura un principio di legalità nell’agire che plasma uno dei caratteri strutturali di fondo
del sistema processuale penale italiano: tra i numerosi, imponenti effetti del canone di
obbligatorietà dell’azione possono, tra gli altri, sin d’ora menzionarsi il principio di completezza
delle indagini e la complessa fisionomia del rito dell’archiviazione della notitia criminis
infondata, finalizzato proprio a scongiurare condotte eversive dell’obbligo di agire.
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2.Il codice di procedura penale del 1988.
Pur se la Costituzione della Repubblica costituisce il fulcro di rotazione del sistema delle fonti, la
disciplina analitica che regola il fluire dell’accertamento penale è contenuta in un apposito corpus
codicistico che assume ancor oggi la denominazione di codice di procedura penale.
Il codice vigente è stato approvato con d.P.R. 447/1988, sulla scorta della legge delega 81/1987, ed
è entrato in vigore il 24 ottobre del 1989: l’inter conclusosi con la sua approvazione è stato lungo e
tormentato, avendo visto le sue premesse nel varo stesso della Costituzione del 1948.
Si è già posto in luce come l’impostazione personalista della Carta fondamentale contrastasse con
il modello dei rapporti tra autorità e libertà sotteso alla codificazione del 1930: risultò, dunque,
subito chiaro come tra la Costituzione e il corpus codicistico allora vigente sussistesse una frattura
incolmabile, e come, dunque, un adeguamento del sistema processuale penale alla nuova tavola
dei valori consacrata nelle scelte dell’Assemblea costituente fosse possibile solo attraverso una
manovra abrogatrice del codice del 1930 e l’approvazione di un nuovo e profondamente diverso
impianto codicistico.
Si decise, dunque, di operare attraverso modifiche normative nel sistema e non del sistema, la cui
inadeguatezza si rivelò assai presto, così da rendere inevitabile, specie a partire dagli anni ’60 del
secolo scorso, il dischiudersi di un ciclo di significativi interventi ablativi e manipolativi della Corte
costituzionale. Si apriva, così, la lunga compromissoria stagione della del “garantismo inquisitorio”,
caratterizzata dal tentativo di innesto di una logica di tutela delle garanzie individuali nel corpo di
un impianto in origine concepito come refrattario a esse: gli esiti manifestamente insoddisfacenti
di tali manovre continuavano a premere verso la necessità di una ricodificazione processuale
penale.
Nel 1962 fu nominata una Commissione ministeriale per la riforma del codice di procedura penale
presieduta da Francesco Carnelutti. Dai lavori della Commissione prese forma un primo testo, la
c.d. “bozza Carnelutti”, frutto delle opinioni personali del Presidente, che tuttavia non ebbe
seguito istituzionale perché ritenuto portatore di idee troppo avanzate e originali.
Il progredire del dibattito condusse al varo della prima delega legislativa per l’emanazione del
nuovo codice di procedura penale, l.108/1974. Nel 1978 fu reso pubblico il testo di un progetto
preliminare di nuovo codice, ispirato ai caratteri del sistema accusatorio, cui tuttavia non fu dato
seguito per il deflagrare dell’emergenza terroristica, che aveva comportato lo stratificarsi di una
legislazione novellistica dalle ispirazioni diametralmente opposte.
Nel decennio successivo il Parlamenti approvò la seconda delega legislativa, la l. 81/1987, sulla cui
scorta un’apposita Commissione ministeriale, presieduta da Giandomenico Pisapia, approvava un
progetto preliminare di seguito, con talune modifiche, divenuto il testo del codice di procedura
penale del 1988.
Il codice, nella sua articolazione in undici libri, risulta idealmente distinguibile in due parti:
- Prima parte, dedicata aspetto “statico” del processo, tratta, in quattro libri, dei soggetti,
degli atti, delle prove, delle misure cautelari personali e reali;
- Seconda parte, dedicata all’aspetto “dinamico”, si occupa, dal quinti all’undicesimo libro,
delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, dei procedimenti speciali, del giudizio,
del procedimento avanti il tribunale in composizione monocratica, delle impugnazioni,
dell’esecuzione, dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere.

Al teso del codice si affianca il corpus delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie
varate con il d.lgs. 271/1989.

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Norme transitorie: hanno ormai pressoché esaurito la loro funzione.
Norme di coordinamento e di attuazione: mantengono un ruolo non trascurabile nell’economia
delle fonti del diritto processuale penale. Le norme di attuazione vanno al di là di quella che è la
specifica funzione che a tale tipo di regole viene di solito riservata, e cioè agevolare l’operatività
degli istituti previsti dalla normativa principale: esse,nell’ambito dell’apparato introdotto dal
codice del 1988, sembrano adempiere, piuttosto, al compito di colmare lacune e di risolvere
problemi cui la fretta della stretta finale, nascente dalla volontà di chiudere entro una data
determinata il lavoro di redazione del testo propriamente codicistico non aveva consentito di
dedicare l’attenzione dovuta o che, in ogni caso non aveva permesso di portare a soluzione.
Il codice del 1988 non ha avuto vita stabile: sin dai suoi primi mesi di vigore vi si sono abbattute
una miriade di declaratorie di incostituzionalità che, insieme a numerosissime modifiche
novellistiche, ne hanno gravemente destabilizzato l’impianto, accentuandone le incoerenze. Il
sistema attuale può dirsi ancora davvero lontano dal raggiungimento di un suo reale punto di
equilibrio.

3.L’irrompere della dimensione sovranazionale: l’esperienza della Convenzione europea dei


diritti dell’uomo e l’impatto sul sistema interno.
Molteplici sono le fonti sovranazionali di carattere pattizio che intersecano la materia processuale
penale.
Ad esempio:
1. Patto internazionale sui diritto civili e politici dell’Onu (adottato nel dicembre del 1966 e reso
esecutivo in Italia con la l. 881/1977), il cui art. 14 cristallizza importanti paradigmi rientranti
nell’alveo delle garanzie del giusto processo;
2. Convenzione Onu sui diritti del fanciullo (adottata nel novembre del 1989 e resa esecutiva in
Italia con la l.176/1991), nel cui quadro molteplici norme sono dedicate alle garanzie del
processo penale minorile.
3. Convenzione europea dei diritti dell’uomo (adottata nel novembre del 1950 e resa esecutiva
in Italia con la l. 848/1955): si tratta di uno strumento che, accompagnato ed integrato dai
suoi Protocolli aggiuntivi, edifica un proprio sistema dinamico, il cui baricentro è costituito
dalla Corte europeo dei diritti dell’uomo che può essere adita anche tramite ricordo
individuale.
All’epoca del suo primo varo, al sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non fu
dedicata l’attenzione istituzionale che avrebbe meritato, pur se la Corte europea con sede a
Strasburgo aveva da subito offerto contributi importanti in sede di elaborazione ermeneutica del
testo convenzionale.
La vera svolta, in termini di coscienza dell’impatto del sistema Cedu sull’ordinamento interno, fu
proporzionata, tuttavia, dalla riforma del titolo V sulla Costituzione operata con l. 3/2001: il nuovo
art. 117 comma 1 Cost. prevede, infatti, che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali.
- Che cosa si deve fare se emerge che la fonte italiana interna di rango primario si sia posto
in contrasto con i vincoli comunitari o con obblighi internazionali gravanti sull’Italia?
 La risposta a tale quesito va individuata in una celebre coppia di pronunce costituzionale del
2007, le c.d. “sentenze gemelle” (Corte cost. 348/2007 e 349/2007), le quali hanno individuato
hanno una precisa sintassi nei rapporti tra Costituzione della Repubblica, “norme interposte”
di fonte convenzionale e fonti normative interne: al giudice comune spetta il compito di

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interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, ma
naturalmente entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme; qualora ciò non sia
possibile, ovvero qualora sussistano dubbi sulla compatibilità della norma interna con la
disposizione convenzionale interposta, l’interprete dovrà promuovere lo scrutinio di
costituzionalità della norma interna elevando a parametro di controllo il nuovo art. 117
comma 1 Cost.; al giudice comune rimarrà, per contro, preclusa la diretta disapplicazione della
disposizione interna ritenuta in contrasto con la fonte convenzionale.
L’interpretazione conforme della norma interna al tessuto convenzionale è un onere del giudice e
presuppone, da parte sua, una specifica attrezzatura culturale, coinvolgente il testo della
Convenzione e la giurisprudenza di Strasburgo che vi dà concretezza nell’esperienza applicativa;
tale attrezzatura culturale si estende alle parti del processo, innestandosi l’interpretazione
conforme, a pieno titolo, negli itinerari di svolgimento del rito.

Capitolo terzo
IL PROCESSO PENALE E LE SUE CARATTERISTICHE

1.Il processo giudiziario come species del procedimento.


“Processo”, “procedere” e “procedura”, sono tutti termini che evocano l’idea di un itinerario che si
sostanzia in una sequenza di atti e che tende al conseguimento di un risultato finale.
Il procedimento può, in chiave generale, individuarsi in una sequenza di atti, legati tra loro da
criteri di logica relazione, tali per cui ogni atto sia legittimato dal precedente e legittimi, a sua
volta, il successivo, e tali per cui l’intera serie sia finalizzata al conseguimento di un risultato utile
che scaturisce dall’ultimo atto della serie medesima.
Esempio: l’iter di formazione della legge ordinaria si incanala nel solco di un tipico procedimento.
La sequenza prende l’avvio dalla formulazione di una proposta di legge che, depositata e
incardinata presso una delle due Camere, sarà qui assegnata alla Commissione parlamentare
competente, che ne avvierà l’istruttoria. In esito all’esame svolto la Commissione articolerà un
testo, che transiterà in aula per il dibattito e l’approvazione, articolo per articolo con votazione
finale; quindi il provvedimenti approvato sarà trasmesso all’altro ramo del Parlamento per l’esame
e l’approvazione, nel medesimo testo approvato dalla prima Camera; a fronte del testo che abbia
registrato l’approvazione di entrambe le Camere potrà transitarsi alla fase della promulgazione da
parte del Capo dello Stato, dell’inserimento nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti dello
Stato e della pubblicazione sulla GU della Repubblica. Trascorso il previsto periodo di vacatio, la
legge entrerà in vigore. Ciascun atto della sequenza sarà posto a base del successivo riposerà, a
sua volta, sul precedente. L’intera serie è preordinata al conseguimento di un effetto finale, la
piena efficacia della nuova legge, che scaturirà, in termini immediati, dall’ultimo atto della serie.

Il proprium del procedimento giudiziario rispetto alla nozione di genere si sostanzia nella presenza
del giudice come soggetto terzo ed imparziale, nonché nel metodo del contraddittorio che informa
di sé l’accertamento giudiziario nel suo complesso e il suo cuore pulsante, costituito dall’adozione
del metodo del contraddittorio nella formazione della prova.
Per comprendere la nozione di contraddittorio, sarà necessario soffermarsi brevemente sul dato
etimologico: vi emerge la nozione del dicere contra, il cui significato allude all’attività del dicere al
cospetto, davanti a qualcuno; e il soggetto al cui cospetto le parti svolgono la loro attività è il terzo
imparziale, il giudice, l’organo a cui le parti chiedono di ius dicere, cioè di pronunciare il diritto per
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il caso concreto, e che eserciterà il proprio potere-dovere dopo che le parti abbiano, avanti a lui,
interloquito in contraddittorio.
Il contraddittorio mira a garantire che le parti, cioè coloro nella cui sfera giuridica la decisione
esplicherà i suoi effetti, possano interloquire in vista della decisione medesima, nelle sedi
preparatorie della stessa. Il giudice potrà disattendere i risultati dei contributi dialettici delle parti
ma non potrà ignorarli, sicché si designa un legame intimo tra contraddittorio, terzo e decisione
quale atto conclusivo della serie.
Sono queste le caratteristiche di fondo che fanno del processo giudiziario una species, ad alta
specializzazione, del procedimento.

2.I modelli teorico- generali.


Pur nella diversità di fisionomie, di strutture, di significati che l’esperienza processuale penale
disvela da ordinamento a ordinamento, da periodo a periodo, è possibile cogliere linee comuni nei
tratti essenziali dei diversi sistemi via via succedutisi, sì da poter enucleare regole generali, pur se
non sempre ineccepibili, valide per i tipi di processo di volta in volta adottati.
Due successive esperienze contrassegnano nei vari periodi il fenomeno processuale penale, e si
esteriorizzano, l’una attraverso il rito accusatorio, l’altra attraverso il rito inquisitorio, secondo la
designazione che ne suggerisce la tradizionale terminologia giuridica.
Nessuno degli odierni schemi processuali concreti si modula sull’uno o sull’altro, dando luogo,
piuttosto, a sistemi misti, in ciascuno dei quali possono manifestarsi prevalenze di caratteri in
senso accusatorio o in senso inquisitorio.

3.Il processo accusatorio.


Il sistema processuale accusatorio risultato improntato ai seguenti caratteri:
a) Accertamento dell’illecito lasciato alla libera iniziativa delle parti contrapposte, e dunque,
presenza di un accusatore che opera in parità di posizione e con parità di diritti rispetto
all’accusato, sul presupposto che tesi e antitesi devono poi comporsi nella sintesi della
decisione emessa dal giudice in situazione di assoluta equidistanza rispetto all’una o all’altra;
b) Esclusione di qualsiasi potere d’iniziativa del giudice in ordine all’ammissione e all’assunzione
delle prove, con conseguente onere probatorio a carico dell’accusatore;
c) Pubblicità, come forma di controllo da parte dell’opinione pubblica e oralità del processo;
d) Presunzione di innocenza dell’accusato sino alla condanna irrevocabile e suo conseguente
stato di libertà durante il processo.
Il rito accusatorio si delinea come una contesa tra due parti, con netta contrapposizione tra
un’accusa e una difesa in una sorta di duello giudiziario regolato da un organo al di sopra dei due
contendenti. Puntualmente differenziati appaiono, così, i tre fondamentali ruoli dell’accusa, delle
difesa e del giudice.
Il processo di stampo accusatorio trova giustificazione in una valutazione esclusivamente
privatistica del comportamento illecito, essendo considerati come del tutto individuali gli interessi
da questo colpiti, tant’è che in origine era la stessa persona offesa, o erano i suoi congiunti, a
esercitare l’accusa. Solo in un secondo momento viene percepito il valore sociale degli interessi
lesi dal reati o da alcuni tipi di reato, per cui si delineano le figure dei:
- delicta privata che continuano ad essere processualmente trattati alla stregua di qualsiasi
altro rapporto di rilevanza individualistica;

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- delicta publica la cui perseguibilità viene affidata dapprima all’iniziativa di un qualsiasi
cittadino componente della societas offesa, e solo più tardi all’iniziativa di determinati
soggetti come titolari di un ufficio pubblico.

4.Il processo inquisitorio.


Le caratteristiche del sistema inquisitorio appaiono diametralmente opposte rispetto a quelle del
procedente rito accusatorio. Esse possono essere così individuate:
a) attivazione, ai fini dell’accertamento dell’illecito, affidata essenzialmente all’autorità di un
organo pubblico e, dunque, immedesimazione in un unico soggetto delle funzioni accusatorie e
di giudice con consequenziale attribuzione a quest’ultimo di poteri di intervento ex officio nella
raccolta delle prove;
b) imposizione di vincoli e di limitazioni alla difesa, come effetto della mancata contrapposizione,
e dunque dell’impossibilità di comparazione tra dialettica, tra le due parti fondamentali,
l’accusatore e l’accusato nei confronti del quale già la semplice formulazione dell’accusa
diventa giudizio anticipato di colpevolezza;
c) segretezza del processo anche per lo stesso inquisito, con eliminazione di qualsiasi sorta di
controllo pubblico e assoluta prevalenza di forma secondo le quali tutto va redatto per iscritto;
d) adozione della carcerazione preventiva, come conseguenza dell’attribuzione al magistrato dei
più ampi poteri nella ricerca delle prove anche attraverso il ricorso a mezzi di coercizione della
libertà personale del pervenuto.
Essenzialmente il processo inquisitorio riduce di molto, se non elimina, le garanzie dell’imputato,
che rimane affidato alla mercé di un soggetto, il giudice al tempo stesso accusatore, il quale,
proprio per questa sua ibrida veste, non potrà mai essere in condizione di valutare obiettivamente
e serenamente la posizione del giudicabile.

5.I due paradigmi teorici a confronto: profilo politico-sociali.


Un raffronto tra le caratteristiche dei due modelli di processo mostra che essi corrispondono a due
modi di concepire la società: uno, ispirato da un forte sentimento dell’individuo, per il quale il
processo è contesa ad armi pari; l’altro, leviatanico, noncurante degli individui, per il quale conta
soltanto fare giustizia o, comunque, raggiungere un risultato. Tali contestazioni consentono anche
qualche rapida considerazione sul significato che un sistema processuale può assumere nella
logica di un determinato regime politico.
In termini assai efficaci è stato scritto che “un regime politico assoluto” trova nel sistema
processuale inquisitorio, oltre che la sua espressione più coerente, lo strumenti di potere più
efficace, mentre in un regime di libertà politica non solo è coerente, ma è postulato un sistema
processuale accusatorio. Il venir meno di quelle fondamentali garanzie processuali che il rito
inquisitorio ignora favorisce la possibile realizzazione di ogni arbitrio e può costituire efficacissimo
strumento di persecuzione.

6.Il sistema attuale: qualche rilievo di sintesi.


Il sistema attualmente vigente scaturisce dal codice entrato in vigore il 24 ottobre 1989 ed è
strutturato sulla base dei princìpi e dei criteri direttivi dettati dalla legge- delega 81/1987.
Il sistema del 1989 segue a un’esperienza, quella del codice Rocco, durata ben oltre mezzo secolo
e caratterizzata dall’adozione di uno schema di processo di tipo misto, ispirato in parte a regole
inquisitorie, in parte a regole accusatorie. I caratteri inquisitori del sistema del 1930 si evidenziano
soprattutto nella fase della c.d. “istruzione” (articolata nei due momenti dell’istruzione sommaria

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affidata al PM e dell’istruzione formale affidata al giudice istruttore) destinata all’attività di
investigazione e di formazione delle prove attraverso la libera iniziativa del giudice nella ricerca di
esse, e condotta secondo canoni di segretezza, che relegavano l’imputato e il suo difensore in
posizione di assoluta inferiorità, escludendoli anche dalla partecipazione a fondamentali attività di
rilevanza probatoria, quali gli esami testimoniali o i confronti. I caratteri del sistema accusatorio
apparivano a tratti nella fase del dibattimento, che, se pur, imperniato sui contrapposti canoni
della pubblicità e dell’oralità, rimaneva sempre fortemente condizionato dalle risultanze
probatorie acquisite in istruzione secondo i metodi di natura inquisitoria, finendo con
l’adempimento unicamente a una funzione di mero riscontro degli elementi raccolti
precedentemente.
Di fronte ad un sistema processuale siffatto istintiva nasceva l’esigenza di una mediata e profonda
riforma alle “infelici combinazioni” del sistema misto, che finivano con il privilegiare gli schemi
inquisitori delle lunghe istruzioni e degli inconsistenti dibattimenti, sostituisse un meccanismo più
attuale e più aderente alle istanze di un ordinamento democratico ed una più ampia
considerazione per la persona.
La filosofia di fondo del nuovo impianto veniva individuata, dall’art. 2 della legge delega,
nell’attuazione dei caratteri del sistema accusatorio che per la loro maggiore aderenza agli schemi
democratici, nel contesto di una più ampia considerazione per la persona, meglio consentono di
coniugare garanzia ed efficienza. Detti caratteri emergono,proseguiva la relazione al testo
definitivo del codice, attraverso:
- la netta differenziazione di ruolo tra PM e giudice;
- l’eliminazione del segreto negli atti del giudice e nella formazione della prova;
- l’accentuazione dei poteri delle parti e la parità tra queste;
- la valorizzazione del dibattimento e dell’oralità.

I SOGGETTI

Capitolo primo
LE “PERSONE” NELLA STRUTTURA DEL PROCESSO PENALE

1.Premessa.
Sia il “processo” che il “procedimento” si presentano come fattispecie complesse a formazione
successiva.
Così come accade per qualsiasi fattispecie complessa a formazione successiva,anche il “modulo
procedimentale” e quello “processuale” si caratterizzano per essere composti di diversi elementi
tra loro collegati, di cui l’uno rappresenta la conseguenza di quello che lo precede e al tempo
stesso il presupposto di quello che lo segue, e protesi tutti alla realizzazione di un effetto finale.
Tali elementi sono costituiti in primo luogo dalle norme che regolano il procedimento, poi dalle
diverse situazioni soggettive ipotizzate da quelle norme, infine dagli atti compiuti in applicazione di
quelle norme, infine degli atti compiuti in applicazione di quelle norme e in forza di quelle
situazioni. Essenziali è, pertanto, l’individuazione dei titolari di tali situazioni.
Una distinzione occorre operare, a seconda che si tratti di persone che comunque prestano una
qualche attività in seno al processo (es: i testimoni, i periti), ovvero persone che, titolari di

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situazioni soggettive nate con il processo, entrano a far parte della struttura di esso o ne
costituiscono i termini di riferimento. Soltanto i titolari di queste ultime situazioni, che possiamo
anche chiamare “situazioni legittimanti”, possono considerarsi soggetti processuali.

2.I soggetti processuali. Soggetti necessari e soggetti eventuali.


Sono soggetti processuali:
- il giudice;
- il pubblico ministero;
- la polizia giudiziaria;
- la persona nei cui confronti si procede, che emerge nella duplice qualificazione di: persona
sottoposta alle indagini e di imputato;
- il civilmente obbligato per la pena pecuniaria;
- la persona che ha subito gli effetti del reato, che può venire in considerazione nella vesta di
semplice persona offesa, nonché di danneggiato con conseguente legittimazione ad
assumere il ruolo di parte civile;
- il responsabile civile.
Sono tutti titolari di situazioni soggettive che acquistano rilevanza con il sorgere del procedimento
e caratterizzate, principalmente:
a) per ciò che riguarda il giudice, dal dovere di pronunciare una decisione, sia essa quella
decisione finale che trasforma la regiudicanda oggetto del processo nella regiudicata
attraverso la sentenza di condanna o di proscioglimento, si essa una decisione semplicemente
strumentale che riguardi il “se” e il “come” si debba procedere per giungere alla decisione
finale;
b) per ciò che riguarda il PM e la polizia giudiziaria, dal dovere di svolgere, secondo le rispettive
attribuzioni, le attività necessarie al fine di promuovere la pronuncia di una decisione (finale o
strumentale) del giudice;
c) per ciò che riguarda l’imputato, dal diritto di intervenire e di interloquire, in via di difesa, con
istanze ed eccezioni ai fini della pronuncia della decisione giudiziale;
d) per ciò che riguarda la persona offesa dal reato, dal potere di intervenire in relazione alle
attività poste in essere dal PM allo scopo di promuovere la decisione giudiziale;
e) per ciò che riguarda la parte civile e il responsabile civile, dal diritto di avanzare e di
contrastare le pretese di natura civilistica dirette a ottenere una decisione giudiziale n materia
di obbligazioni risarcitorie nascenti dal reato.
Dei soggetti adesso indicati, alcuni sono necessari, in quanto senza di essi il processo non verrebbe
nemmeno a giuridica esistenza (si tratta del giudice, del PM e dell’imputato). Gli altri, invece, sono
eventuali, nel senso che potrebbero anche mancare e il processo non ne soffrirebbe.
Il processo senza le figure necessarie non è neppure concepibile.

3.Le parti processuali. Parti necessarie e parti eventuali.


Dal novero dei soggetti processuali una categoria si staglia, quella delle c.d. parti processuali,
categoria ufficialmente riconosciuta dal sistema normativo che di essa fa il punto di riferimento
obbligato per la costruzione del processo penale. Processo a impronta programmaticamente
accusatoria, la cui essenza può cogliersi nella contesa tra le due “parti” nettamente contrapposte,
accusatore e accusato, risolta da un organo al di sopra di entrambe. Dunque, si parla di, processo
di parti.

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Parlando di “parte” come del soggetto che richiede una decisione giurisdizionale in accoglimento
di una propria tesi il riferimento più immediato corre al pubblico ministero giacchè questi è, in
primo luogo, il soggetto che attraverso il promovimento dell’azione penale domanda al giudice
una decisone che accolga le ragioni dell’accusa.
L’altro al quale va riconosciuta la qualifica di parte è l’imputato: ciò che gli conferisce funzione di
parte del processo è unicamente la colpa che gli viene rivolta dal PM. Il modulo accusatorio
accentua la posizione di “istituzionale antagonismo” dell’imputato rispetto al PM: una posizione
che nasce non appena si delinei la formulazione dell’accusa e che conferisce all’imputato una serie
di diritti e di facoltà processuali per contrastare la tesi del PM, per fare valere le proprie ragioni
difensive,per fare accogliere la propria tesi.
Ovviamente, l’immagine della “parte”, nella sua espressione autentica , viene a delinearsi soltanto
nel contesto di una situazione contrassegnata dalla presenza attuale del soggetto avanti al quale
sia possibile formulare la richiesta di una decisione giurisdizionale, ossia del giudice, e quindi
dall’essere già in sede giurisdizionale, ossia nel’ambito del processo in senso proprio. Ciò implica
che nella fase anteriore, vale a dire nel corse del procedimento per le indagini preliminari, tanto il
PM quanto la persona sottoposta alle indagini non agiscono nella veste di “parti” nel significato
tecnico del termine. Tuttavia, poiché in tale fase essi svolgono pur sempre un’attività finalizzata
alla raccolta degli elementi necessari per suffragare le proprie domande davanti al giudice, va loro
riconosciuto un ruolo che può essere definito di parti potenziali: “parti potenziali” per il processo
in vista dell’assunzione della qualità di parti effettive nel processo.
Parti sono anche:
- la parte civile: alla quale vengono accordati mezzi giuridici processuali per sollecitare una
decisione giurisdizionale che realizzi una pretesa di restituzione o di risarcimento del danno
derivante dal reato;
- il responsabile civile: titolare di mezzi giuridici di difesa concessigli per resistere alla pretesa
della parte civile;
- il civilmente obbligato per la pena pecuniaria : che vanta di diritti di natura difensiva
collegati alla sua posizione processuale di ente giuridico chiamato a rispondere per la pena
della multa o dell’ammenda inflitta al condannato insolvibile al quale è legato da un
particolare rapporto di autorità, direzione o vigilanza.

I soggetti che sfuggono alla qualifica di “parte” sono:


 la persona offesa dal reato alla quale si consento soltanto di apportare mediante forme di
adesione all’attività del PM ovvero di controllo su di essa, una sorta di contributo all’esercizio o
al proseguimento dell’azione promossa dallo stesso PM al quale rimane, in ogni caso, affidata
la titolarità della richiesta di una decisione che recepisca le argomentazioni dell’accusa.
 La polizia giudiziaria i cui organi affiancano il PM nello svolgimento dell’attività investigativa,
secondo rapporti funzionali che saranno a suo tempo tratteggiati: al solo PM è assegnata la
titolarità dell’azione penale e la responsabilità delle determinazioni a essa inerenti, sicchè la
qualità di parte spetta soltanto all’organo dell’accusa e non si estende agli organi ausiliari.

Capitolo secondo
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IL GIUDICE

1.Le caratteristiche del giudice penale: a) indipendenza e imparzialità.


Il giudice è un organo terzo e imparziale collocato in una posizione di equidistanza rispetto alle
parti, cui spetta il compito di ius dicere e dunque di pronunciare la decisione a lui richiesta
attraverso la domanda di giudizio.
Requisiti essenziali affinché l’esercizio della giurisdizione si svolta secondo le finalità che spetta al
processo perseguire sono, in primo luogo, l’indipendenza e l’imparzialità del giudice, che possono
ben considerarsi elementi connaturati alla stessa qualità di giudice.
INDIPENDENZA. Quando si parla di indipendenza ci si intende riferire alla libertà dell’organ
giurisdizionale, nella sua delicata funzione del decidere, di agire secondo il proprio giudizio e la
propria volontà, senza vincoli né rapporti di subordinazione formale o sostanziale nei confronti di
altri organi, poteri o soggetti.
L’indipendenza è ribadita dall’art. 104 comma 1 Cost., là dove si enuncia il principio che la
magistratura, alla quale i giudici appartengono, “costituisce un ordine autonomo e indipendente
da ogni altro potere”: espressione questa con la quale si allude ai due tradizionali poteri dello
Stato diversi dal giudiziario, cioè al legislativo e all’esecutivo.
Nei confronti del potere legislativo, indipendenza del giudice significa impossibilità che il
Parlamento, i primo luogo attraverso la sua funzione di legislatore, e poi, attraverso la sua
funzione di controllo politico, interferisca, mediante inchieste o dibattiti, sull’operato di un singolo
giudice o su singole questioni decise o da decidere dal giudice o, più in generale, adotti iniziative
che possano in qualche modo risolversi in un’intromissione nell’esercizio della potestà
giurisdizionale.
Nei confronti del potere esecutivo, l’indipendenza si traduce nell’evitare che il giudice possa subire
condizionamenti nello svolgimento dei suoi delicati compiti di organo della giurisdizione, per il
fatto che amministrativamente è un impiegato statale, sotto certi aspetti legato all’esecutivo (in
particolare, al ministro della giustizia).
Per rendere effettiva questa forma di indipendenza è necessario eliminare in capo al potere
esecutivo qualsiasi facoltà di disporre degli interessi personali del giudice relativamente alla sua
stessa situazione giuridica di impiegato pubblico: ciò è stato realizzato attraverso l’istituzione, con
la l. 195/1958, di un organo a rilevanza costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura il
quale è competente a decidere sulle assunzioni, sulle assegnazioni di sedi e di funzioni, sulle
promozioni e sui trasferimenti, sulle sanzioni disciplinari a carico dei magistrati e, in genere, su
tutto ciò che riguarda il loro status. Il potere affidato al CSM incontra direttive ben precise in
alcune importanti norme- base dettate, proprio a garanzia dell’indipendenza dei giudici, dalla
stessa Costituzione.
All’art. 106 comma 1 Cost., è stabilito che le nomine dei magistrati devono aver luogo per
concorso al fine di evitare scelte discrezionali suscettibili di essere condizionate da parte di
qualsiasi organo.
All’art. 107 comma 1 Cost., viene disposto che i magistrati sono inamovibili e che qualsiasi
provvedimento di dispensa, di sospensione dal servizio, di destinazione ad altra sede o funzione
dovrà essere adottato o per i motivi e con le garanzia di difesa volute dall’ordinamento giudiziario
o con il consenso dell’interessato, e tutto ciò al fine di evitare che attraverso la pressione
psicologica della possibile rimozione o del possibile trasferimento si abbia a influire sulla libertà
decisionale del giudice.

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Il problema dell’indipendenza del giudice sussiste anche nei confronti dello stesso potere
giudiziario, nel senso che al singolo giudice deve essere consentito di operare al riparo da possibili
condizionamenti e interferenze da parte di altri soggetti appartenenti all’organizzazione della
magistratura, che possano trovarsi in posizione di supremazia. Ancora una volta è la stessa Carta
costituzionale a preoccuparsi di fissare alcuni principi basilari che assicurino questa ulteriore
garanzia di indipendenza. In particolare l’art. 107 comma 3 Cost., pone la regola secondo cui i
giudici si distinguono tra loro unicamente per diversità di funzioni e non per preminenza di grado,
di anzianità o per altro, giacché qualsiasi rapporto di natura gerarchica, da superiore a inferiore,
intaccherebbe la loro indipendenza.
IMPARZIALITA’. Il carattere dell’imparzialità si riferisce anzitutto all’assoluta estraneità e
indifferenza del giudice rispetto alle diverse situazioni che animano l’agire delle parti e alle ragioni
di cui esse sono portatrici nel processo. La decisione deve essere resa da un soggetto in posizione
di “terzietà”, e ciò in applicazione del più elementare principio di ragione obiettiva da cui ogni
decisione deve risultare sorretta.

2.(Segue): b) naturalità e precostituzione per legge.


Nel contesto dei principi diretti a presidiare la garanzia dell’indipendenza del giudice, importanza
fondamentale assume quello posto dall’art. 25 comma 1 Cost.: “nessuno può essere distolto dal
giudice naturale precostituito per legge”. Questa regola riveste in qualsiasi discorso che abbia un
punto di riferimento il tema dell’imparzialità del giudice da aver fatto dire che la “naturalità”
costituisce una qualificazione sostanziale dell’organo giurisdizionale, nel senso che essa si presenta
non tanto come attributo del giudice quanto come l’in sé di esso, al punto che la sua eventuale
assenza finirebbe con il vanificare il concetto stesso di giudice.
Abbandonata, ormai, la primitiva opinione che mostrata la formula del “giudice naturale” come
sostanzialmente corrispondente a quella di “giudice precostituito”, si è ormai concordi
nell’intendere le due espressioni su piani di significato ben differenziati, in aderenza con le
determinazioni emerse in sede di Assemblea costituente.
Da questa angolazione si è cercato di cogliere il senso preciso da dare alla regola della “naturalità”,
regola che viene ricondotta a un criterio facente capo al concetto di locus commissi delicti o al più
ampio e generale concetto di competenza del giudice, anzi, di insieme delle competenze al giudice
devolute. La “precostituzione” è stata, invece, individuata nell’istituzione del giudice operata
dall’ordinamento processuale sulla base di criteri generali fissati in anticipo, ante factum e non in
occasione di un fatto già verificatosi e in vista di determinate controversie.
Più incisive puntualizzazioni hanno colto nell’espressione costituzionale relativa alla
precostituzione del giudice un duplice significato:
- Che il giudice deve risultare istituito, e soltanto con legge (riserva di legge), prima che sia
stato commesso il fatto sul quale egli dovrà giudicare;
- Non è possibile creare dopo il verificarsi di un determinato fatto una competenza ad hoc
neppur per un giudice che sia già stato istituito.

3.L’istituzione del giudice penale.


L’art 1 c.p.p. dispone che la “giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di
ordinamento giudiziario”. In virtù proprio di queste leggi, gli uffici dei giudici penali risultano
solitamente formati di magistrati professionali, detti anche “togati”, i quali appartengono
permanentemente all’ordine giudiziario, come magistrati di carriera, in forza di una nomina che ha

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luogo in seguito a concorso (art 106 comma 1 Cost.), al fine di evitare la nomina dei giudici onorari,
detti anche “laici”, per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli.
Vi sono, poi, organi giurisdizionali costituiti da una sola persona, i c.d. giudici monocratici, e altri
costituiti da più persone, i c.d. giudici collegiali. La diversa struttura numerica degli organi della
giurisdizione si giustifica con la maggiore o minor gravità del reato da accertare, in basse alla
considerazione per cui la pluralità di persone offre il vantaggio di una più accorta filtrata attraverso
il contributo valutativo offerto da ciascuna di esse.

4.La capacità del giudice penale.


Affinché il giudice penale possa presentarsi come valido soggetto del processo, è indispensabile
che possieda alcuni requisiti di capacità in astratto, che è capacità di tipo generale o assoluta,
necessari per poter esercitare legittimamente la funzione giurisdizionale in ordine a qualsiasi
processo.
L’art. 33 comma 1 c.p.p. chiarisce che “le condizioni di capacità del giudice.. sono stabilite dalle
leggi di ordinamento giudiziario”. Se ne staglia un concetto puramente legislativo di “capacità”
dell’organo giurisdizionale, calibrato su prescrizioni rintracciabili soltanto in ambito di
ordinamento giudiziario, indifferente a precetti di altra provenienza, anche processuale.
Naturalmente, parlare di “capacità” di un soggetto significa presupporre che il soggetto esista,
sicché, quando si discute di capacità del giudice si dà per scontato che un soggetto giuridicamente
immaginabile come giudice debba esserci. Ciò vuol dire che esulano dal discorso tutte quelle
situazioni che magari ictu oculi parrebbero riconducibili al tema, ma che in realtà postulano una
valutazione che investe l’esistenza stessa dell’organo della giurisdizione, ancora prima che la sua
capacità. Ci si riferisce a situazioni caratterizzate da una “usurpazione del potere di decidere” da
parte di un soggetto che non abbia avuto mai conferita alcuna investitura della potestà
giurisdizionale o che ne sia rimasto successivamente privo; situazioni che vanno, ad esempio, dal
mancato superamento del concorso per l’ammissione in magistratura alla mancanza di nomina e
assunzione alla funzione giudicante secondo le regole stabilite dalla legge sull’ordinamento
giudiziario.
Rilevano come requisiti della capacità del giudice:
- L’attribuzione della qualifica con la conseguente immissione della persona nell’ufficio
giudiziario e il conferimento delle relative funzioni;
- La composizione dell’organo nel numero di persone conforme a quello prescritto dalla
legge, a seconda che si tratti di giudice monocratico o di giudice collegiale.
L’art. 33 comma 2 c.p.p. stabilisce che non si considerano attinenti alla capacità del giudice le
disposizioni relative alla destinazione del magistrato a un determinato ufficio giudiziario, o ad
alcuna delle sezioni di cui questo sia eventualmente composto, e quelle relative alla formazione
dee collegi e all’assegnazione dei processi a sezioni, a collegi o a singoli giudici.
Al comma 3 non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni relative alla
ripartizione delle attribuzioni tra il tribunale in composizione collegiale e il tribunale in
composizione monocratica. Per non creare equivoci, posto che anche la composizione dell’organo
nel numero di persone conforme a quello prescritto è requisito della capacità del giudice, sempre
l’art 33 comma 3 c.p.p. chiarisce che le disposizioni che regolano l’attribuzione al tribunale a
seconda che debba giudicare con una sola persona o con tre non si considerano attinenti
nemmeno al numero dei giudici richiesto per costituire l’organo giudicante.

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5.L’incompatibilità del giudice penale.
Su un piano ben distinto rispetto alla sagoma della capacità del giudice si collocano le norme che
regolano le cause di incompatibilità: si tratta di un insieme articolato, mirante a scongiurare che la
funzione giurisdizionale sia esercitata da un giudice che versi in talune situazioni tipizzate tali da
incrinarne l’imparzialità in concreto o la propria immagine concreta di soggetto imparziale.
Secondo quanto ha insegnato la Corte europea dei diritto dell’uomo, il giudice, in uno Stato
democratico, deve non solo essere ma anche apparire imparziale agli occhi dei consociati: da qui
l’esigenza che il sistema fissi una griglia di situazioni integrandosi le quali il giudice persona fisica,
pur possedendo una piena capacità in astratto, diviene incompatibile a svolgere le proprie funzioni
con riguardo alla singola regiudicanda.
Le incompatibilità del giudice possono derivare:
A) da atti da lui compiuti nello stesso processo;
B) da talune qualità concernenti le persone chiamate alla funzione di giudice;
C) dalla posizione di giudice rispetto all’oggetto del processo o alle parti che agiscono nel
processo;
D) da particolari condizioni ambientali createsi in occasione dello svolgimento di un determinato
processo.

A)Con riferimenti agli atti compiuti nello stesso processo, l’art 34 c.p.p. stabilisce che si verifica
incompatibilità:
 quando il giudice abbia già pronunciato o abbia concorso a pronunciare una qualsiasi sentenza,
non importa se giudicando sul merito o no, nello stesso processo: i questi casi egli non può
partecipare al processo come giudice negli ulteriori gradi, ivi inclusi il giudizio di rinvio
successivo all’annullamento e il giudizio per revisione, essendo già condizionato dalla decisone
emessa;
 quando il giudice abbia emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o abbia
disposto il giudizio immediato o abbia pronunciato decreto di condanna o abbia deciso
sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere: in questi casi, e sempre per il
condizionamento che gli deriva dal provvedimento precedentemente adottato, egli non può
partecipare al processo nel successivo stadio del dibattimento;
 quando il giudice abbia esercitato, nel medesimo processo, funzioni di giudice per le indagini
preliminari: in questo caso non può emettere decreto di condanna, né tenere l’udienza
preliminare, né partecipare al giudizio, concetto quest’ultimo che ricomprende non solo il
giudizio celebrato in sede dibattimentale, ma ogni giudizio che pervenga a una decisione di
merito, e dunque anche il giudizio abbreviato. Questa causa di incompatibilità è diretta a
garantire all’imputato un giudice estraneo e diverso rispetto a quello che sia eventualmente
intervenuto nel corso delle indagini preliminari, purché con decisioni che in qualche modo
abbiano richiesto valutazioni sul merito dell’imputazione.
 quando taluno nel corso di un procedimento abbia esercitato la funzione di PM; abbia svolto
attività di polizia giudiziaria; abbia prestato ufficio di difensore, di procuratore speciale, di
curatore, di perito, di una delle parti, di testimone, di consulente tecnico: in questi casi, costui
non può esercitare nello stesso procedimento l’ufficio di giudice in quanto gli fa difetto quella
necessaria posizione psicologica così libera da poter accogliere e valutare obiettivamente tutte
le varie esperienze processuali.
Parimenti inidoneo ad esercitare la funzione di giudice è chi abbia proposto denuncia, querela,
istanza, richiesta ovvero abbia deliberato, o concorso a deliberare, l’autorizzazione a procedere.

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Quelle sin qui elencate sono le ipotesi di incompatibilità delineate dall’art. 34 c.p.p., alle quali altre
se ne aggiungono, in virtù di una lunga serie di sentenze additive della Corte costituzionale fondate
sul principio generale secondo cui il regime delle incompatibilità ricorre in tutti i casi nei quali si
profila l’esigenza di evitare che la valutazione di merito del giudice possa essere condizionata dallo
svolgimento di determinate attività nelle precedenti fasi del procedimento o della previa
conoscenza dei relativi atti processuali.

B)Con riferimento alle qualità concernenti le persone chiamate a rivestire la funzione di giudice,
l’incompatibilità, prevista da norme sia del codice che dell’ordinamento giudiziario, investe:
 magistrati che siano tra loro coniugi, parenti o affini sino al secondo grado, i quali non possono
esercitare nello stesso procedimento funzioni giurisdizionali, ancorché separate o diverse (art.
35 c.p.p.);
 magistrati che abbiano tra loro vincoli di parentela o affinità sino al secondo grado, ovvero di
coniugio o convivenza, i quali non possono essere parte della stessa corte o dello stesso
tribunale o dello stesso ufficio giudiziario;
 magistrati che abbiano tra loro vincoli di parentela o affinità sino al terzo grado, ovvero di
coniugio o convivenza, i quali non possono far parte dello stesso tribunale o della stessa corte
organizzata in unica sezione,salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione
distaccata e l’altro in sede centrale;
 magistrati che abbiano tra loro vincoli di parentela o affinità sino al quarto grado incluso,
ovvero di coniugio o convivenza, i quali non possono far parte dello stesso collegio giudicante
sia nei tribunali che nelle corti;
 magistrati preposti alla direzione di un ufficio giudiziario, i quali, in linea di principio, sono
considerati sempre in situazione di incompatibilità con gli altri magistrati dell’ufficio;
 magistrati cui i parenti sino al secondo grado o affini in primo grado svolgano attività di polizia
giudiziaria presso un determinato ufficio giudiziario, i quali non possono appartenere al
medesimo ufficio;
 magistrati che abbiano vincoli di parentela fino al secondo grado o di affinità in primo grado,
ovvero di vincoli di coniugio o di convivenza con avvocati che esercitino la professione nella
stessa sede giudiziaria.
Sono tutte situazioni idonee a creare possibili influenze tra giudici e sui giudici o possibili
favoritismi secondati da vincoli di parentela o di affinità.

C)Con riferimento alla posizione del giudice rispetto all’oggetto del processo o alle parti che
agiscono nel processo, può derivare l’incompatibilità:
 dall’avere il giudice un qualche interesse nel processo, nel senso che egli possa rivolgere a
proprio vantaggio economico o semplicemente morale l’attività giurisdizionale che è
chiamato a svolgere; dall’aver dato consigli o dall’aver manifestato il proprio parere
sull’oggetto del processo fuori dall’esercizio delle funzioni giudiziarie; dall’aver manifestato
indebitamente, nell’esercizio delle funzioni e prima della pronuncia della sentenza il
proprio convincimento sui fatto oggetto dell’imputazione; dall’avere già espresso in altri
procedimenti, anche non penali, valutazioni di merito sui fatti oggetto dell’imputazione e
nei confronti dell’attuale imputato;
 dall’essere il giudice, il coniuge o i figli debitori o creditori di alcuna delle parti private o dei
loro difensori; dall’essere il giudice tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una
delle parti private;

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D)Con riferimento, infine, alle condizioni ambientali createsi in occasione dell’instaurarsi di un
determinato processo, l’incompatibilità sorge allorquando accadimenti locali di particolare
gravità, atti a mettere in pericolo la sicurezza o l’incolumità pubblica o a determinare gravi motivi
di legittimo sospetto sulla non imparzialità dell’organo giudicante, possano compromettere il
sereno svolgimento delle attività processuali.

6.L’astensione del giudice penale.


I mezzi attraverso i quali l’ordinamento processuale tende a garantirsi in via preventiva contro le
situazioni di incompatibilità sono rappresentati:
- dall’astensione del giudice;
- dalla sua ricusazione;
- dalla rimessione del processo.

L’ASTENSIONE è la rinuncia all’esercizio della funzione giurisdizionale, alla quale è obbligato il


magistrato che ritenga di trovarsi in una delle situazioni di incompatibilità previste espressamente
dalla legge, o che ravvisi “altre gravi ragioni di convenienza” tali da compromettere la sua
imparzialità o da far semplicemente dubitare di essa, per cui si rende inopportuna la sua
partecipazione al processo.
Essa è effettuata mediante dichiarazione, contenente lo specifico motivo che induce il magistrato
ad astenersi, avanzata al presidente dell’organo giudicante di cui egli fa parte, ovvero, se ad
astenersi è il giudice di pace, al presidente del tribunale, che decidono con decreto, senza alcuna
formalità. La dichiarazione di astensione del presidente del tribunale viene proposta al presidente
della corte d’appello; quella del presidente della corte d’appello al presidente della Corte di
cassazione.
Se l’astensione del magistrato viene accolta, egli non può compiere alcun ulteriore atto del
processo.
Art. 42 comma 2 c.p.p.: per quel che riguarda la sorte degli atti compiuti precedentemente dal
magistrato astenuto, stabilisce che il giudice il quale accolga la dichiarazione di astensione
dichiara, con lo stesso provvedimento, “se e in quale parte” essi “conservano efficacia”.
Il magistrato astenuto viene sostituito con un altro magistrato dello stesso ufficio designato a
norma delle leggi sull’ordinamento giudiziario. Qualora ciò non sia possibile, il processo viene
rimesso al giudice egualmente competente per materia che ha sede nel capoluogo di un diverso
distretto di corte d’appello.

7.La ricusazione del giudice penale.


La RICUSAZIONE è la dichiarazione con la quale una delle parti processuali (PM, parte civile,
imputato..) tende ad escludere un magistrato dall’esercizio delle sue funzioni di giudice in un
determinato processo, in quanto ritenuto in una delle situazioni di incompatibilità espressamente
previste dalla legge e che coincidono con quelle che determinano l’obbligo dell’astensione.
La dichiarazione di ricusazione può essere:
 fatta personalmente dall’interessato;
 proposta a mezzo del difensore;
 proposta a mezzo di un procuratore speciale (abilitato a formulare la dichiarazione in luogo
dell’interessato, a sua firma ma in nome e per conto del rappresentato).

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Redatta con atto scritto contenente l’indicazione dei motivi che l’hanno determinata e degli
elementi di prova addotti a sostegno, la dichiarazione va presentata, insieme con i documenti che
vi si riferiscono, nella cancelleria del giudice competente a decidere, mentre una copia viene
depositata nella cancelleria dell’ufficio cui è addetto il giudice ricusato.
La legge processuale pone dei termini entro i quali proporre la dichiarazione di ricusazione:
- nell’udienza preliminare, sino a quando non siano conclusi gli accertamenti relativi alla
costituzione delle parti;
- nel dibattimento, subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della
costituzione delle parti;
- in qualsiasi altro momento, prima che il giudice compia l’atto;
- qualora la causa di ricusazione si sia verificata o sia stata conosciuta dopo la scadenza dei
termini, la dichiarazione può essere proposta entro tre giorni dal verificarsi o dall’avvenuta
conoscenza di essa;
- se la causa è sorta o è divenuta nota durante l’udienza, la dichiarazione di ricusazione va
proposta prima della conclusione dell’udienza stessa.
I requisiti di tempo e di forma richiesti per la dichiarazione di ricusazione vanno rispettati a pena di
inammissibilità.

Una volta proposta la dichiarazione di ricusazione, e prima ancora che si di essa decisa l’organo
competente a valutarla, al magistrato ricusato non è consentito “pronunciare ne concorrere a
pronunciare sentenza”, e ciò al fine di evitare che nelle more della procedura incidentale per la
ricusazione possa concludersi il processo; procedura incidentale per la ricusazione di qualsiasi altra
attività processuale diversa dalla pronuncia della sentenza.
La dichiarazione di ricusazione si ha come non proposta nell’eventualità in cui il magistrato, anche
successivamente a essa, dichiari di volersi astenere e l’astensione venga accolta.
La competenza a decidere sulla ricusazione è devoluta funzionalmente alla corte d’appello, salvo
che la ricusazione investa un giudice della Corte di cassazione, nel quel caso a decidere sarà una
selezione della stessa Corte, diversa da quella di cui fa parte il magistrato ricusato. Non è
consentita dichiarazione ricusatoria nei confronti dei giudici chiamati a decidere sulla ricusazione.
Il giudice al quale la ricusazione è stata proposta può pronunciare l’inammissibilità quando la
dichiarazione provenga da chi non ne aveva il diritto o non siano stati osservati i termini e le forme
richiesti o, ancora, quando i motivi addotti siano manifestamente infondati. La relativa ordinanza,
che deve essere pronunciata, “senza ritardo” con procedura de plano, è ricorribile per cassazione,
e pertanto va comunicata al magistrato ricusato e al PM e notificata alle parti private.
Fuori dei cadi di inammissibilità, il giudice competente a decidere sulla ricusazione può disporre
che il magistrato ricusato si astenga temporaneamente dal compiere qualsiasi attività processuale
o si limiti ai soli atti urgenti. In mancanza di un esplicito provvedimento che disponga in tal senso il
giudice nei cui confronti la ricusazione è stata promossa può continuare a esercitare validamente
le proprie funzioni.
La decisione sul merito della ricusazione va adottata con il rito della camera di consiglio che
consente un adeguato contraddittorio, con eventuale presenza della parte che ha proposto la
ricusazione e dl magistrato ricusato, i quali possono anche presentare memorie.
Accolta la dichiarazione ricusatoria, il relativo provvedimento dichiarerà se e in quale parte
conserveranno efficacia gli atti già posti in essere dal giudice ricusato; questi, comunque, non
potrà più compiere alcun atto del processo.
Per la sostituzione del giudice ricusato trovano applicazione le regole che valgono per l’astensione.

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Nel caso in cui l’istanza di ricusazione sia stata dichiarata inammissibile o sia stata rigettata, il
giudice continuerà a operare nel pieno della sua capacità, mentre la parte privata che lo aveva
ricusato potrà essere condannata al pagamento di una somma a favore della cassa delle
ammende.

8.La rimessione del processo.


La RIMESSIONE, consiste nel trasferimento del processo in una sede diversa da quella del giudice
originariamente competente per territorio.
L’istituto differisce dai due precedenti per il fatto che l’astensione e la ricusazione presuppongono
delle incompatibilità direttamente e immediatamente riallacciabili a situazioni riguardanti la
persona del magistrato, anche quando si tratti di più magistrati o addirittura di tutti i magistrati
che compongono un organo collegiale; la rimessione trova, invece, fondamento in ipotesi di
incompatibilità che coinvolgono in via diretta e immediata l’organo giudicante, monocratico o
collegiale, considerato nella sua struttura complessiva.

A)Il presupposto per la rimessione è dato dal crearsi di “gravi situazioni locali tali da turbare lo
svolgimento del processo”, in quanto suscettibili di arrecare pregiudizio alla sicurezza o incolumità
pubblica ovvero alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo, o ancora
tali da determinare “ gravi motivi di legittimo sospetto” (configurabili quando la situazione locale
appaia idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del
giudice, inteso come l’ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo).
Relativamente all’ipotesi di “legittimo sospetto” non poche perplessità sono state avanzate in
dottrina, basate sulla considerazione che il concetto appare troppo vago e sfumato, tale da
rendere possibile la formulazione di istanze di rimessione fondate su situazioni, la cui
individuazione finisce col rimanere affidata a un potere discrezionale estremamente ampio e
quindi idoneo a degenerare in un soggettivismo suscettibile di sconfinare nell’arbitrio. E questo in
contraddizione con il carattere eccezionale dell’istituto della rimessione che, interferendo con la
garanzia costituzionale del giudice naturale competente per territorio, dovrebbe essere connotato
da un congruo livello di determinatezza della fattispecie che lo supportano.
Per quanto riguarda le “gravi situazioni locali”, queste devono intendersi come circostanze
ambientali- territoriali di natura extragiudiziaria, riguardanti accadimenti non riconducibili al
dinamico sviluppo dei rapporti propri della dialettica processuale.

B)Legittimati a chiedere la rimessione sono:


- il procuratore generale presso la corte d’appello;
- il PM presso il giudice che procede;
- l’imputato il quale deve, a pena d’inammissibilità, proporre la relativa richiesta o personalmente
o a mezzo di un procuratore speciale.
Rimangono esclusi:
-il difensore in quanto tale (che non sia munito di mandato ad hoc);
- le parti private diverse dall’imputato, le quali, potranno prospettare all’ufficio del PM
l’opportunità che esso si faccia promotore di una richiesta di traslazione del processo.
Soltanto durante lo svolgimento del processo di merito, in ogni stato e grado, è consentita la
proponibilità della rimessione; il giudizio avanti la Corte di cassazione ne viene sottratto, sia perché
l’esercizio dell’attività riservata alla giurisdizione di legittimità mal si presta a far nascere quelle
cause di turbamento ambientale che stanno a giustificazione dell’istituto, sia perché essendo la

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Cassazione giudice costituito in sede unica, nessun luogo diverso da quella sede potrebbe essere
destinato per la trattazione di un processo di cui essa sia chiamata a conoscere.
Il riferimento al “processo” come momento in cui è possibile la rimessione chiarisce che essa potrà
operare solo nelle fasi propriamente giurisdizionali, una volta concluse le indagini preliminari col
promovimento dell’azione penale da parte del PM. Inapplicabile, dunque è l’istituto durante lo
svolgimento delle predette indagini, mentre ammissibile è un’istanza di rimessione presentata
all’udienza preliminare.
La richiesta di rimessione va depositata insieme con i documenti che vi si inseriscono, nella
cancelleria del giudice, ed entro sette giorni notificata, a cura del richiedente, alle altre parti,
intendendo tale concetto in senso sostanziale, come comprensivo, cioè, anche della persona
offesa alla quale non può disconoscersi un eventuale interesse a opporsi alla sottrazione della
cognizione del reato al giudice naturalmente competente in forza di una richiesta di rimessione
che le appaia pretestuosa e dilatoria.

C)Il giudice, ricevuta la richiesta di rimessione, deve trasmetterla immediatamente alla Corte di
cassazione con i documenti allegati e con eventuali osservazioni proprie. Nessun potere di
valutazione gli è concesso sula fondatezza o meno di essa, sicché egli non può dichiarare
l’inammissibilità nemmeno quando palese sia la pretestuosità dei motivi addotti o manifesta
l’inosservanza delle norme dettate dal codice in materia.
La richiesta di rimessione non sospende automaticamente il processo. Tuttavia, il giudice al
momento della presentazione di essa può disporre con ordinanza la sospensione del processo sino
a quando non sia intervenuta una pronuncia della Corte di cassazione che dichiari inammissibile
che rigetti la richiesta stessa; la sospensione, inoltre, può essere sempre disposta dalla stessa
Corte. Le ragioni che possono giustificare l‘adozione di un provvedimento sospensivo sono da
ravvisare nell’esigenza di scongiurare tempestivamente il pregiudizio imminente e irreparabile che
potrebbe derivare dall’illegittima prosecuzione del processo in costanza del procedimento di
rimessione.
Obbligatoria diventa la sospensione del processo prima dello svolgimento delle conclusioni e della
discussione, con il divieto di pronunciare decreto che disponga il giudizio o sentenza, quando il
giudice abbia avuto notizia della Corte di cassazione che la richiesta di rimessione è stata
assegnata a una delle sezioni di essa, o alle sezioni unite, per la trattazione. La sospensione non
viene disposta quando la richiesta di rimessione non sia fondata su elementi nuovi rispetto a quelli
già posti a fondamento di una precedente richiesta che sia stata rigettata o dichiarata
inammissibile. Quest’ultima circostanza attenua la probabilità che la rinnovata richiesta possa
trovare accoglimento.
La sospensione del processo si protrae fino a che non sia intervenuta pronuncia della Corte di
cassazione di rigetto o di inammissibilità della richiesta; tale sospensione non impedisce il
compimento di atti urgenti.

D)La decisione sulla richiesta di rimessione viene adottata con l’osservanza delle garanzie relative
al contraddittorio previste per il procedimento in camera di consiglio, dopo essere state assunte,
se la Corte do cassazione lo ritiene necessario, le opportune informazioni.
Superato positivamente, sia in fase di preliminare valutazione da parte del presidente della Corte,
sia in fase di verifica da parte della predetta sezione, il vaglio di ammissibilità, la richiesta di
rimessione sarà assegnata a una delle sezioni della Corte o alle sezioni unite, e se ne darà

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immediata comunicazione al giudice procedente affinché adotti i necessari provvedimenti relativi
alla sospensione del processo.
Se la Corte di cassazione accoglie la richiesta, rimette il processo al altro giudice egualmente
competente per materia che abbia sede in un diverso distretto di corte d’appello determinato
secondo il criterio tabellare indicato dall’art. 111 c.p.p. . Del provvedimento viene data
comunicazione, senza ritardo, sia al giudice designato, sia a quello originariamente procedente, il
quale trasferirà tempestivamente gli atti del processo al nuovo giudice, disponendo, al contempo,
che la decisione della Cassazione sia comunicata al PM e notificata alle parti private.

E)Gli atti posti in essere anteriormente al provvedimento che ha accolto la richiesta di rimessione
sono assistiti da una presunzione, sia pur relativa, di efficacia: il legislatore ritiene che essi,
sebbene realizzati in una sede ufficialmente screditata per il riconoscimento clima di diffidenza in
cui si è operato, si siano usciti indenni; salvo che le parti non avanzino dei dubbi sulla validità di
quegli atti, in quel caso potranno chiederne la reiterazione avanti al giudice designato dalla Corte
di cassazione, il quale provvederà a rinnovarli. Sono assicurati alle parti, gli stessi diritti e le stesse
facoltà che sarebbero loro spettati avanti al giudice originariamente competente.

F)Se venga dichiarata inammissibile o rigettata nel merito la richiesta avanzata dall’imputato,
questi potrà essere condannato al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende:
palese il fine di scoraggiare l’uso pretestuoso dell’istituto.
La richiesta di rimessione rigettata o dichiarata inammissibile per manifesta infondatezza può
essere riproposta solo se suffragata da elementi nuovi, sopravvenuti alla decisione o anche
preesistenti purché ignorati; se dichiarata inammissibile per altri motivi, può essere riproposta
incondizionatamente.
Ove al provvedimento di rimessione sopravvengono fatti modificativi dell’originaria situazione che
facciano venir meno le ragioni per le quali la rimessione stessa era stata richiesta, sia il PM, sia
l’imputato possono chiederne la revoca; così come possono chiedere il trasferimento del processo
ad un altro giudice se quello designato dalla Corte di cassazione profili, a sua volta, anch’esso
suspectus.

9.La sfera di potestà del giudice penale: A) contenuti e specie della giurisdizione penale.
Accanto ai requisiti di capacità del giudice altri se ne pongono, relativi ai contenuti e alle specie
della giurisdizione a esso assegnata, e derivanti dalla mo9lteplicità degli organi giurisdizionali
previsti dall’ordinamento.
Con riferimento ai contenuti della giurisdizione è possibile individuare:
-Giudici con giurisdizione piena: sono quelli la cui potestà di accertamento e di decisione in ordine
a una determinata richiesta si esplica attraverso una completa attività che culmina nell’emissione
di qualsiasi pronuncia in conseguenza del comportamento accertato.
-Giudici con giurisdizione semipiena: sono quelli la cui potestà di accertamento e di decisone
incontra il limite dell’applicabilità della pena in conseguenza del comportamento accertato
( giudice con giurisdizione semipiena è quello dell’udienza preliminare nel procedimento ordinario,
al quale non è attribuito il potere di condannare, potendo egli pronunciare unicamente sentenza
di non luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio).
-Giudici con giurisdizione limitata o ad acta: si possono individuare in quegli organi la cui potestà
di accertamento e di decisione è circoscritta a singoli atti espressamente indicati dalla legge
(figura tipica, il giudice per le indagini preliminari il quale interviene nel corso del procedimento

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investigativo per assumere provvedimenti in materia di libertà personale e altri diritti della
persona o di assunzione anticipata di prove).
Con riferimento alle specie della giurisdizione è possibile distinguere tra:
-Giudici ordinari e giudici straordinari, i primi facenti parte dell’organizzazione giudiziaria con
carattere di normalità e di stabilità, gli altri istituiti ad hoc, per determinate regiudicande, in via di
eccezionalità e temporaneità. Dopo alcune esperienze del passato, la Costituzione, all’art. 102
comma 2, ha espressamente posto il divieto di creare giudici straordinari;
-Giudici comuni e giudici speciali, gli uni e gli altri appartenenti alla categoria dei giudici ordinari. I
giudici comuni esercitano la loro potestà in rapporto alla generalità dei reati e degli imputati, i
giudici speciali la esercitano in rapporto a particolari categorie di reati e di imputati. Anche per
quanto riguarda i giudici speciali, l’art. 102 comma 2 Cost. ne vieta l’istituzione e ciò al fine di
riaffermare il principio di “unità della giurisdizione”.
Nel sistema processuale vigente sono giudici comuni:
- Il tribunale, che opera in ambito circondariale e che giudica talora come organo monocratico,
che può essere composto anche di un magistrato onorario, talora come organo collegiale di tre
magistrati togati;
- La corte d’assise, organo collegiale composto di otto magistrati di cui due togati e sei laici: la
partecipazione dei laici al collegio misto costituisce la più importante modalità di partecipazione
diretta del popolo all’amministrazione della giustizia;
- La corte d’appello, organo collegiale che opera i ambito distrettuale, composto di tre magistrati
togati;
- La corte d’assise d’appello, organo collegiale composto, al pari della corte d’assise, di due
magistrati togati e sei laici;
- Il giudice per le indagini preliminari, organo monocratico;
- Il giudice dell’udienza preliminare, organo anch’esso monocratico;
- Il giudice di pace, organo monocratico onorario.
Giudici speciali, previsti dal nostro ordinamento processuale penale sono:
- La Corte costituzionale, organo collegiale composto di quindici membri appartenenti alla stessa
Corte e di sedici membri c.d. aggregati estratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti
per l’elegibilità a senatore, che il Parlamento compila ogni nove anni mediante elezione;
- Il tribunale militare, organo collegiale composto di due magistrati appartenenti all’ordinamento
giudiziario militare e di un militare con funzioni di giudice;
- La corte militare d’appello, organo collegiale composto di tre magistrati appartenenti
all’ordinamento giudiziario militare e di due militari con funzioni di giudici.
Vengono comunemente esclusi dal novero dei giudici speciali gli organi della giurisdizione
minorile, ossia:
- Il tribunale per i minorenni, organo collegiale composto di due magistrati togati e di due membri
laici, un uomo e una donna, scelti tra i cittadini benemeriti dell’assistenza sociale, cultori di
biologia, di psichiatria, di pedagogia, esperti il cui intervento è giustificato dall’esigenza che nel
corso del processo venga opportunamente valutata la personalità degli imputati, in considerazione
della loro giovane età;
- La sezione specializzata della Corte d’appello per i minorenni, organo collegiale composto di tre
giudici togati e di due membri laici, allo stesso modo che il tribunale.
Un ulteriore distinzione che attiene alla specie della giurisdizione individua:
- Giudici di merito, ai quali è demandato un accertamento sia relativamente alle questioni di fatto,
sia relativamente alle questioni di diritto che emergono in un processo;

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- Giudici di legittimità, ai quali è demandata una valutazione di carattere strettamente giuridico,
volta ad assicurare la corretta applicazione della legge: giudice di legittimità per il nostro
ordinamento è essenzialmente la Corte di cassazione, organo giurisdizionale supremo, regolatore
del diritto, con sede a Roma e con giurisdizione estesa a tutto il territorio dello Stato, divisa in
sezioni che giudicano ciascuna in collegio di cinque membri, ovvero, in particolari circostanze
stabilite dalla legge, a sezioni unite in collegio di nove membri.

10.(Segue): B) la competenza penale: a) competenza per gradi e stati del processo (c.d.
funzionale).
Nell’ambito di ciascuna delle specie di giurisdizione si coglie il concetto di “competenza” del
giudice come ulteriore limite che circoscrive l’area della giurisdizione entro cui egli è tenuto a
procedere in ordine a uno specifico caso; e ciò sul presupposto che una decisione su un
determinato fatto non può essere affidata a più giudici i quali, in vista di tale decisione, esercitino
simultaneamente gli stessi poteri.
In sostanza il concetto di competenza come limite della giurisdizione nasce dalla molteplicità degli
organi che esercitano attività giurisdizionale, previsti dall’ordinamento, e dalla conseguente
esigenza di ripartire tra di essi la relativa potestà.
Secondo i gradi del processo è possibile distinguere:
- giudici di primo grado: tra i giudici comuni, il giudice di pace, il tribunale e la corte d’assise; tra i
giudici speciali, il tribunale per i minorenni e il tribunale militare, mentre la Corte costituzionale si
può considerare giudice di primo e unico grado, in quanto il processo costituzionale si esaurisce in
un grado solo;
- giudici di secondo grado (o d’appello): tra i giudici comuni, il tribunale (in composizione
monocratica) sui provvedimenti del giudice di pace, la corte d’appello sui provvedimenti emessi
dal tribunale, la corte d’assise d’appello sui provvedimenti della corte d’assise; tra i giudici speciali,
la corte d’appello per i minorenni sui provvedimenti emessi dal tribunale per i minorenni, la corte
militare d’appello sui provvedimenti del tribunale militare;
- giudici del grado di legittimità: la Corte di cassazione è l’unico organo la cui potestà
giurisdizionale è limitata alla verifica, sotto il profilo giuridico, del procedimento e delle decisioni
emesse da tutti gli altri giudici, essendo suo compito istituzionale curare l’esatta osservanza della
legge.
Secondo gli stati del processo si possono distinguere:
- giudici per gli stati precedenti il giudizio: sono tra i giudici comuni, quello per le indagini
preliminari e il giudice dell’udienza preliminare; tra i giudici speciali, quello per le indagini
preliminari e il giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni e presso il
tribunale militare;
- giudici (dello stato) del giudizio: tra i giudici comuni, il giudice di pace, il tribunale e la corte
d’assise, come organi in primo grado; il tribunale e la corte d’appello nei confronti delle decisioni
rispettivamente di giudice di pace e del tribunale, la corte d’assise d’appello nei confronti delle
decisioni della corte d’assise, come organi in secondo grado; la Corte di cassazione nei confronti
dei provvedimenti di tutti i giudici, come organo del controllo di legittimità.
Tra i giudici speciali, la Corte costituzionale, il tribunale per i minorenni e il tribunale militare, in
primo grado; la corte d’appello per i minorenni e la corte militare d’appello, in secondo grado;
-giudici (dello stato) dell’esecuzione: sono il giudice (propriamente etto) dell’esecuzione, il quale
decide sulle questioni che sorgono relativamente all’esecuzione di un provvedimento
giurisdizionale; il magistrato di sorveglianza come organo di primo grado e il tribunale di

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sorveglianza come organo sia di secondo grado (nei confronti del magistrato di sorveglianza) che
di primo grado (per le materie per cui ha cognizione in via esclusiva), i quali vigilano
sull’esecuzione di pene detentive e provvedono sulle misure di sicurezza nel periodo esecutivo.
In tema di competenza per gradi e stati, va ricordata la regola secondo cui il giudice che abbia
partecipato a un determinato grado o stato del processo non può intervenire negli ulteriori gradi
o stati, e ciò a evitare possibili preconcetti che turberebbero la serenità e obiettività del giudizio.

11.(Segue): b) la competenza per ragioni di materia.


La competenza per materia costituisce il limite di esercizio della potestà giurisdizionale, posto al
giudice in primo grado, con riferimento ai reati oggetto dell’accertamento, e più precisamente, a
seconda che l’accertamento riguardi:
a) illeciti penali puniti con pena di maggiore o minore quantità  si parla di competenza per
materia sotto un aspetto quantitativo.
b) determinati tipi di illecito a prescindere dalla pena per essi prevista  si parla di competenza
per materia sotto un aspetto qualitativo.
c) illeciti commessi da determinati soggetti;
d) determinati tipi di illecito commessi da determinati soggetti.
La terza e la quarta ipotesi riflettono competenze di giudici speciali: rispettivamente, il tribunale
peri i minorenni da una parte, la Corte costituzionale e il tribunale militare dall’altra.
L’art. 4 c.p.p. stabilisce che per radicare la competenza fissata in relazione alla quantità della pena
comminata per il reato:
-si ha riguardo al massimo della pena edittale prevista per ciascun reato, ridotto di un terzo per
l’ipotesi di tentativo;
-non si tiene conto dell’aumento di pena dipendente dalla continuazione del reato, sicché viene a
rilevanza il massimo della pena edittale stabilita per la violazione più grave;
-non si tiene conto dell’aumento di pena per effetto della recidiva;
-non si tiene conto delle circostanze del reato, siano attenuanti o aggravanti, in considerazione del
fatto che esse, di solito, poco incidono sulla complessità o meno dell’accertamento giudiziale.
Fanno eccezione le circostanze aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa
da quella ordinaria del reato ( per esempio, l’ergastolo in sostituzione della reclusione) e quelle
c.d. a effetto speciale: sia le une ce le altre comportano una completa diversa valutazione della
fattispecie criminosa.

Il nostro ordinamento processuale ripartisce la competenza tra i diversi giudici, facendo


riferimento, in primo luogo, agli organi della giurisdizione comune.
A)Competenza della corte d’assise. È una competenza mista, determinata, cioè, sia con criterio
quantitativo che con criterio qualitativo. Risultano affidati alla cognizione della corte d’assise:
 i delitti per la quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel
massimo a 24 anni, esclusi i delitti, comunque aggravanti, di tentato omicidio, di rapi8na, di
estorsione e di associazione di tipo mafioso anche straniere, e i delitti, comunque aggravanti,
previsti dal testo unico delle norme sugli stupefacenti;
 i delitti consumati di omicidio del consenziente, istigazione o aiuto al suicidio, omicidio
preterintenzionale;
 ogni delitto doloso se dal fatto deriva la morte di una o più persone, escluse le ipotesi di morte
come conseguenza non voluta di altro reato, di morte verificatasi nel corso di rissa, di morte
come conseguenza di omissione di soccorso;
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 i delitti di riorganizzazione del partito fascista, i delitti di genocidio, i delitti contro la
personalità dello Stato che per tali delitti sa stabilita la pena della reclusione non inferiore nel
massimo a 10 anni;
 i delitti, consumati o tentati, di associazione per delinquere non mafiosa finalizzata a
commettere i delitti di riduzione in schiavitù, tratta di persone, acquisto o alienazione di
schiavi, favoreggiamento pluriaggravato dell’immigrazione clandestina; nonché i delitti,
consumati o tentati, di riduzione in schiavitù, di tratta di persone, di acquisto o alienazione di
schiavi;
 i delitti con finalità di terrorismo puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 10 anni.
B)Competenza del giudice di pace. Qui si è in presenza di una competenza determinata con
criterio qualitativo che tiene conto di una serie di reati di minor allarme sociale o di c.d.
microcriminalità, specificatamente individuati.
C)Competenza del tribunale. Al tribunale viene devoluta una competenza determinata con criterio
negativo, in quanto ricomprende tutti i reati per i quali non siano competenti né la corte d’assise
né il giudice di pace. Anche per il tribunale si hanno casi di competenza qualitativa riguardanti
talune particolari fattispecie espressamente demandate alla sua cognizione da varie leggi, come
reati concernenti lo stato civile, reati finanziari e valutari, reati di stampa, reato commessi a
mezzo di rappresentazione teatrale o cinematografica, reati di pubblici ufficiali contro la p.a. Alla
competenza del tribunale appartengono i reati commessi dai ministri e dal presidente del
consiglio dei ministri nell’esercizio delle loro funzioni.
In relazione agli organi delle giurisdizioni speciali, la competenza per materia viene così ripartita:
1)Competenza del tribunale per i minorenni. È determinata in forza di una valutazione di
carattere esclusivamente soggettivo e investe tutti i reati, quale che ne sia l’indole e la pena,
commessi da persone che non abbiano superato il diciottesimo anno di’età al momento del
commesso reato.
2)Competenza della Corte costituzionale. Si determina in base a una considerazione che tiene
conto sia del tipo di reato, sia dell’autore di esso, e si esaurisce nella cognizione dei reati di alto
tradimenti e di attentato alla Costituzione commessi dal Presidente della Repubblica.
3)Competenza del tribunale militare. Anche questa è una competenza che si determina sulla base
di u criterio composito fondato tanto sulla natura del reato commesso quanto sui soggetti che se
ne siano resi autori, e riguarda i militari in servizio alle armi o considerati tali che abbiano
commessi reati c.d. militari.

12. (Segue): deroghe ai principi relativi alla competenza per ragioni di materia.
Le norme processuali relative alla competenza per materia consentono che i criteri generali
subiscano delle regole, facendo sì che la competenza del giudice inferiore venga assorbita dalla
competenza del giudice superiore, in base a una sua presunta maggiore idoneità tecnico-
professionale che se lo abilita a conoscere reati più gravi, ben a ragione può consentirgli di
conoscerne di meno gravi. Questo fenomeno di verifica quando un giudice di competenza
superiore abbia giudicato erroneamente di un reato che sarebbe stato di un giudice di competenza
inferiore, e l’incompetenza non sia stata rilevata o eccepita entro il termine prescritto.

13. (Segue): c) la competenza per ragioni di territorio.


Un terzo tipo di competenza, c.d. per territorio, è fondato sul rapporto che intercorre tra il luogo
in cui è stato commesso il reato e la sede giudiziaria entro la quale quel luogo è ricompreso.
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Presupposto per l’applicazione delle regole riguardanti la competenza per territorio è l’avvenuta
individuazione della competenza per materia del giudice, perché questi, per essere
territorialmente competente a conoscere di un certo reato deve esserlo, anzitutto, sotto il profilo
materiale.
- La legge processuale stabilisce un principio secondo i quale “la competenza per territorio è
determinata dal luogo in cui il reato è consumato”: luogo in cui si è verificato l’evento, nei casi di
reati c.d. materiali; o si è realizzata la condotta, nei casi di reati c.d. formali. Si tratta di un criterio
che ispira, sia valutazioni di opportunità, sia a esigenze di natura politico- giuridica.
-Un diverso criterio si segue nell’ipotesi in cui dal “fatto” sia derivata la morte di una o più
persone, ossia, allorché la morte rilevi come elemento costitutivo del reato o come evento
aggravante: l’attribuzione della competenza va effettuata con riferimento non più al luogo della
consumazione del reato sibbene a quello in cui è avvenuta l’azione o l’omissione e, cioè si è
completata la condotta.
- Un’altra regola ancora si applica allorché si tratti di reato permanente: la competenza viene
attribuita al giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione. E ciò in quanto il reato
permanente presenta pur sempre una struttura unitaria, e la sua consumazione si verifica, in
effetti, allorché risultino integrati gli elementi della fattispecie, indipendentemente dalle vicende
relative alla permanenza, la quale potrebbe anche ridursi a un tempo trascurabile o protrarsi per
anni e in diversi luoghi, senza che vi sia una sufficiente ragione logico- giuridica per sottrarre la
competenza al giudice del luogo dove è iniziata la consumazione. Proprio in questo luogo si crea la
situazione di turbamento della collettività a causa dell’episodio criminoso e vengono compiute le
prime indagini, mentre è spesso occasionale e indifferente quello in cui cessa la permanenza.
- Se il reato si presenta anziché nella forma della consumazione in quella del tentativo, la legge
dispone che competente sia il giudice del luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a
commettere il delitto, come atto al quale, nella frazionabilità dell’iter criminis, che è presupposto
del tentativo, viene riconosciuta l’efficacia a ledere il bene giuridico protetto dalla norma penale.
Accanto a queste regole generali per la determinazione della competenza per territori, altre se ne
profilano in via suppletiva, nell’eventualità che non si riesca ad individuare i luoghi che ne
consentono l’applicazione di quelle regole. Così, la competenza viene fissata facendo riferimento,
nell’ordine:
a) all’ultimo luogo nel quale è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione costituente il
reato, ossia quella parte della condotta che si presenta come essenziale per ‘integrazione della
fattispecie criminosa;
b) al luogo della residenza, e successivamente, della dimora o del domicilio dell’imputato;
c) al luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che ha iscritto la notizia di reato nell’apposito registro.
Si tratta di criteri sussidiari, ognuno dei quali presuppone, che si sia invano tentata l’utilizzazione
del precedente.
I principi regolatori della competenza per territorio valgono sempre che il reato sia stato
commesso in Italia. Nel caso contrario, e si deve procedere nel territorio dello Stato, due situazioni
si possono profilare.
1)Anzitutto che il reato sia stato commesso interamente all’estero: ciò verificatosi, la competenza
viene attribuita, in graduale successione:
- dal luogo della residenza, della dimora, del domicilio dell’imputato, al momento dell’inizio del
procedimento. Se più sono gli imputati, aventi residenza, dimora o domicilio diversi, il
procedimento verrà affidato al giudice competente per il maggior numero di essi;
- luogo dove è avvenuto l’arresto dell’imputato;

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- dal luogo della consegna dell’imputato all’autorità nazionale da parte dell’autorità straniera.
Nell’impossibilità di determinare la competenza nei modi sopra indicati, si farà ricorso in via
sussidiaria, al luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che per primo ha iscritto la notitia criminis
nel’apposito registro.
2)La seconda situazione nasce quando il reato sia stato commesso in parte nel nostro Paese e in
parte all’estero: dovendosi esso considerare consumato interamente in Italia, la competenza verrà
determinata seconda le regole generali.

14. (Segue): deroghe ai principi relativi alla competenza per ragioni di territorio.
Al pari della competenza per materia, anche quella per territorio consente che i propri criteri
subiscano delle deroghe. Il processo viene affidato a un giudice egualmente competente per
materia, ma di diversa competenza per territorio.
-Una prima ipotesi riguarda i procedimenti in cui sono coinvolti magistrati. L’art. 11 comma 1
c.p.p. dispone che i procedimenti in cui un magistrato assuma la qualità di imputato ovvero di
persona offesa o danneggiata dal reato, vengano affidati al giudice, di pari competenza per
materia, il cui ufficio sia situato nel luogo nel quale il reato è stato commesso, ma nel capoluogo di
un diverso distretto di corte d’appello. L’individuazione di esso va fatta secondo una regola
tabellare, predeterminata dalla l. 420/1998. Se, poi, il magistrato in un momento successivo a
quello in cui si è verificato il fatto è venuto a esercitare le proprie funzioni nel distretto
determinato secondo il criterio tabellare, la competenza slitta verso il capoluogo di un altro
distretto di Corte d’appello da individuare sempre secondo quel criterio.
- Deroga alla competenza per territorio si ha anche nell’ipotesi di rimessione del processo. Istituto
volto in via diretta e immediata a garantire l’indipendenza e l’imparzialità del giudice, esso si
risolve in uno spostamento di competenza per territorio, operando un trasferimento del processo
dal giudice che dovrebbe essere territorialmente competente, a un giudice diverso.
- Altre eccezioni ai criteri di competenza per territorio sono previste da leggi regolatrici di materie
particolari; così, ad esempio:
 per i reati societari contestati a persona sottoposta con provvedimento definitivo a misure di
prevenzione in quanto indiziata di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o similari,
ovvero a persona condannata con sentenza definitiva per il delitto di associazione di tipo
mafioso previsto dall’art. 416-bis c.p., la competenza viene attribuita in ogni caso al tribunale
che ha applicato la misura di prevenzione o ha giudicato dell’associazione mafiosa;
 per quanto riguarda i reati commessi a mezzi di rappresentazione cinematografica e teatrale,
la legge 161/192 attribuisce la competenza al giudice del luogo in cui è avvenuta la prima
rappresentazione in pubblico;
 per i reati commessi da minori, l’art. 49 del r.d. 12/1941 stabilisce che in ogni sede di corte
d’appello è costituito un tribunale per i minorenni il quale ha giurisdizione su tutto il territorio
della Corte d’appello e i reati imputabili a minori sono di competenza di quel tribunale, quale
che sia il luogo in cui siano stati commessi, nell’ambito del distretto della corte d’appello;
 per i reati previsti dal codice della navigazione consumati a bordo di navi e aeromobili non
militari, all’estero, ovvero al di fuori del mare o dello spazio aereo territoriale, la competenza
appartiene al giudice del luogo in cui, dopo essere stato commesso il reato, è avvenuto il primo
approdo, nel territorio dello Stato, della nave o dell’aeromobile sul quale si trovava l’imputato
al momento del fatto, in via sussidiaria, la competenza viene attribuita al giudice del luogo di
iscrizione della nave o di abituale ricovero dell’aeromobile;

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 per i reati in materia di imposte sul reddito e sul valore aggiunto la competenza viene fissata
nel luogo di accertamento dell’illecito.
- Un’altra regola posta in deroga ai normali criteri di attribuzione di competenza per ragioni di
territorio è stata introdotta dai commi 1-bis 1-quarter dell’art. 328 c.p.p. per i procedimenti di
criminalità organizzata nel corso dei quali le funzioni di giudice per le indagini preliminari e di
giudice dell’udienza preliminare vengono esercitate da un magistrato del tribunale del capoluogo
del distretto nel cui ambito ha sede il giudice che sarebbe naturalmente competente, tranne che
specifiche norme non stabiliscano diversamente.
- Un’altra ipotesi peculiare che va a risolversi sostanzialmente in una deroga ai criteri di
ripartizione della competenza per ragioni di territorio si ha quando, non essendo state osservate in
un determinato procedimento le norme che ne assegnano al giudice considerato competente
ratione loci, tale inosservanza non sia stata rilevata nei termini stabiliti. In questo caso, la
competenza rimane radicata in capo all’organo giurisdizionale che, appunto in deroga alle normali
regole, ha conosciuto del reato in ordine al quale non avrebbe dovuto giudicare.

15. (Segue): d) competenza per ragioni di connessione: le varie ipotesi di connessione.


Un particolare tipo di ipotesi di competenza si delinea allorché tra più situazioni idonee in astratto
a dar vita ciascuna a un autonomo processo penale intercorra una relazione in virtù della quale la
regiudicanda oggetto di uno dei processi verrebbe a coincidere parzialmente o a identificarsi
parzialmente con la regiudicanda oggetto dell’altro o degli altri processi. Questa circostanza rende
conveniente il confluire delle diverse regiudicande in un unico processo, un simultanues processus
il cui scopo è di realizzare unitarietà di acquisizione e valutazione delle prove che consenta di
ottenere giudizi rapidi, di applicare pene proporzionate, di prevenire possibili giudicati
contraddittori.
Il problema è individuare a quale tra i giudici che sarebbero stati competenti a conoscere i singoli
processi astrattamente ipotizzabili, quell’unico processo dovrà essere affidato. A ciò provvedono le
regole sulla competenza per connessione.
Diverse sono le situazioni suscettibili di determinare il fenomeno della connessione di
procedimenti, ipotizzate nell’art. 12 c.p.p.:
a) che il reato per il quale si procede sia stato commesso da più persone in concorso o in
cooperazione tra di loro, ovvero che più persone con condotte indipendenti abbiano
determinato la produzione di un medesimo evento  l’univocità del fatto invoca univocità di
giudizio. Per quanto riguarda il concorso di cause indipendenti nella produzione dell’eventi, vi
è attribuita rilevanza ai fini della connessione processuale poiché diversamente il criterio di
competenza per territorio fissato avrebbe portato a far giudicare da organi differenti imputati
chiamati a rispondere dello stesso evento, ancorché per averlo cagionato autonomamente;
b) che taluno sia imputato di più reati commessi con una sola azione od omissione o di più reati
commessi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso. La
descrizione comprende il concorso formale di reati e la continuazione di reati, figure
caratterizzate la prima da una pluralità di reati legati tra di loro da un unico processo esecutivo
e la seconda da una pluralità di reati legati tra loro da un unico disegno criminoso. L’esistenza
di un nesso tra i diversi reati in concorso sia tra i diversi reati di continuazione e la peculiarità
del regime giuridico che ne scaturisce fanno sia del concorso formale che della continuazione
altrettante ipotesi di connessione sostanziale di reati. Ed è proprio questo elemento di coagulo
che suggerisce di dar vita a un simultaneus processus, la cui utilità si manifesta anche nella

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possibilità di effettuare una valutazione complessiva della personalità dell’imputato anche ai
fini dell’irrogazione della sanzione;
c) che dei reati per i quali si procede alcuni siano stati commessi allo scopo di eseguirne o
occultarne altri: sono le stesse ipotesi che configurano la circostanza aggravante di cui all’art.
61 n.2 c.p. . Il profilarsi del fenomeno della connessione trova fondamento nell’unicità del
processo volitivo, non potendosi volere il reato- fine se non volendo anche il reato- mezzo, il
che giustifica l’opportunità di un accertamento unitario anche allo scopo di verificare la
possibilità di applicazione dell’aggravante dell’art. 61 n.2 c.p. Per ciò che riguarda il riferimento
ai reati commessi per occultarne altri, il vincolo di connessione si basa su un rapporto di
subordinazione del secondo reato al primo. Ancora una volta, sono situazioni che giustificano il
simultaneus processus tendente anche a rendere applicabile la circostanza prevista dall’art. 61
n.2 c.p.

16. (Segue): i criteri di assegnazione della competenza per connessione.


La connessione di procedimenti produce particolari effetti sulla competenza per materia, dando
vita alla cognizione di un unico giudice, anche se, secondo le norme generali, più dovrebbero
essere gli organi competenti.
Oltre che sulla competenza per materia, la connessione dei procedimenti incide sulla competenza
per territorio, dando vita anche qui alla cognizione di un giudice unico rispetto a una pluralità di
giudici che sarebbero astrattamente competenti in forza delle normali regole. In particolare, l’art.
16 c.p.p., sul presupposto che i reati appartengono alla ratione materiae al medesimo organo
giurisdizionale, indica come competente il giudice del luogo nel quale è stato commesso il reato
più grave; se i reati sono di pari gravità, il giudice del luogo nel quale è stato commesso il primo. I
criteri per determinare la maggiore o minore gravità del reato sono stabiliti dall’art. 16 comma 3
c.p.p.
Nell’ipotesi in cui da più condotte poste in essere in luoghi diversi da più persone in concorso o in
cooperazione, o anche con azioni o omissioni indipendenti, sia derivata la morte di alcuno, la
competenza viene attribuita al giudice del luogo in cui si è verificato l’evento.
Se i procedimenti connessi appartengono a giudici di diversa competenza, oltre che per territorio
anche per materia, la regola secondo la quale è il giudice superiore ad attrarre comunque la
cognitio causae risolve automaticamente la questione della competenza per territorio.
Effetti particolari la connessione dei procedimenti esplica anche sulla competenza di organi
appartenenti a giurisdizioni diverse, comune e speciale. In proposito, l’art. 13 c.p.p. stabilisce che
se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla competenza di un giudice comune e altri a
quella della Corte costituzionale, competenti per tutti sarà quest’ultima: la previsione può
riguardare solo l’ipotesi, del tutto teorica, di concorso nei reati di alto tradimento e di attentato
alla Costituzione commessi dal Presidente della Repubblica.
Se i reati riguardano reati di competenza dell’autorità giudiziaria comune e reati di competenza
dell’autorità giudiziaria militare, la connessione opera soltanto quando i reati comuni siano più
gravi dei reati militari e la competenza viene attribuita, per tutti i reati, al giudice comune.
Non si crea vincolo di connessione tra i procedimenti riguardanti imputati minorenni e quelli
riguardanti imputati maggiorenni, né tra i procedimenti per i reati commessi quando l’imputato
era minorenne e quelli per reati commessi quando era maggiorenne. Prevale, in questi casi,
l’esigenza dell’assoluta insottraibilità al giudice speciale, in quanto giudice naturale, della
competenza a conoscere i reati commessi da minori d’età. Un’esigenza oggi rafforzata dal

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peculiare significato che ha assunto il regime processuale minorile, ispirato a un’accentuata
protezione del soggetto minorenne.
Si sono espressi dubbi in dottrina sulla compatibilità della disciplina della connessione dei
procedimenti con il principio del giudice naturale precostituito per legge, in considerazione della
portata derogatoria che essa ha rispetto alle ordinarie norme sulla competenza. La Corte
costituzionale ha, però, sottolineato che la nozione di giudice naturale viene integrata anche da
tutte quelle disposizioni dettate in deroga alle regole della competenza generale, in forza dei
criteri che razionalmente valutino i disparati interessi posti in gioco dal processo e che l’esigenza
della precostituzione è rispettata allorché l’organo giudicante sia istituito dalla legge in base a
parametri generali fissati in anticipo e non già in vista di singole controversie. Il principio, pertanto,
non risulta violato nei casi nei quali la legge preveda la possibilità di spostamenti di competenza
da un giudice a uno diverso, purché anche questo precostituito, ove tali spostamenti siano
necessari per assicurare il rispetto di altri principi, come quello dell’ordine e della coerenza nella
decisione di cause tra loro connesse.

17. (Segue): riunione e separazione di processi.


A)Non va confuso con quello in cui sin qui esaminato il fenomeno della riunione dei processi. La
differenza essenziale si coglie in ciò: mentre la connessione suppone una pluralità di giudici tutti
astrattamente competenti a conoscere di diversi processi legati tra loro da particolari vincoli,
requisito per la riunione è che diversi processi appartengono alla competenza dello stesso giudice
il quale, per esigenze di speditezza e di semplificazione, o quando lo ritenga necessario per
l’accertamento dei fatti, può disporne la trattazione congiunta.
Le tassative previsioni contenute nell’art. 17 c.p.p., che consentono la riunione di processi,
riguardano:
a) tutti i casi, è ovvio, in cui opera la connessione;
b) i casi di reati di competenza dello stesso giudice, dei quali alcuni sono stati commessi in
occasione di altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il
prodotto o l’impunità;
c) i casi di reati, sempre se appartenenti alla competenza dello stesso giudice, commessi da più
persone in danno reciproco le une delle altre;
d) i casi in cui la prova riguardante un reato o una circostanza di esso influisca sulla prova
riguardante un altro reato di competenza dello stesso giudice, o una sua circostanza, sì da
renderne più agevole l’accertamento.
La possibilità di far luogo alla riunione dei processi è demandata alla discrezionale valutazione del
giudice ed è subordinata al realizzarsi di due presupposti: anzitutto, che i processi siano “pendenti
nello stesso stato e grado avanti al medesimo giudice” e poi, che la loro trattazione congiunta nonj
ne “determini un ritardo nella definizione”. La riunione, impossibile, ovviamente, in fase di indagini
preliminari in quanto ha ad oggetto solo processi e non procedimenti, può esser disposta anche in
sede di giudizio avanti alla Corte di cassazione.
B)Speculare rispetto a quello della riunione è il fenomeno della separazione di processi dei quali si
era in precedenza ritenuta conveniente la trattazione unitaria. Le relative ipotesi, tassativamente
configurate nell’art. 18 c.p.p., obbediscono le esigenze di celerità processuale e riguardano:
 la possibilità di scindere posizioni soggettive o oggettive già in grado di essere decise da
posizioni per le quali sia necessario acquisire ulteriori informazioni o compiere ulteriori atti;
 la disposta sospensione, per qualsiasi causa, del procedimenti nei confronti di uno o più
imputati o per una o più imputazioni;

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 la mancata comparizione in dibattimento, per motivi legittimi, dell’imputato o del difensore;
 la necessità di trattare prioritariamente alcuno dei processi per il rischio che imputati di gravi
delitti in stato di custodia cautelare possano esser messi in libertà per scadenza di termini.
Sono tutte circostanze le quali convincono dell’esigenza di evitare che situazioni concernenti
singoli imputati possano coinvolgere le sorti degli altri ritardandone la definizione: al loro
verificarsi si determina nel giudice l’obbligo di disporre la separazione e ricondurre il processo
nella propria sede, rimettendo, ove si fossero riuniti processi di competenze diversi accomunati
per connessione, ciascuno di essi al giudice naturalmente competente; tranne che non si ritenga la
riunione “assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti”: le pretese di rapidità dell’iter
processuale cedono di fronte alle esigenze funzionali dell’accertamento giudiziario.
I provvedimenti sulla riunione e sulla separazione dei processi vengono adottati con ordinanza,
emessa anche d’ufficio, sentite le parti. Tale “audizione” è voluta a tutela dell’interessa che le parti
stesse potrebbero prospettare, ai fini di una più convincente valutazione dei fatti, l’opportunità
che questi vengano giudicati, tutti quanti, con unica sentenza; ovvero vengano ricondotti ciascuno
alla sua naturale sede. In ogni caso la delibazione di quell’interesse rimane affidata alla piena e
insindacabile discrezionalità del giudice sicché il parere espresso dalle parti non impegna sui
contenuti delle decisioni.

18.Le “attribuzioni”del tribunale in conseguenza della sua diversa composizione.


Il concetto di “attribuzione” differisce dal concetto di competenza, stando all’idea che se ne fa il
legislatore, il quale deve aver pensato che le “norme sulla competenza postulano uffici distinti; ne
esiste uno chiamato ‘tribunale’ che lavora con tre teste o una sola, secondi i casi; unico essendo
l’ufficio, non possiamo identificare due competenze”. Anche se, poi in realtà “la divisione del
lavoro fra i due tribunali costituisce altrettante competenze; ma i compilatori schivano
acrobaticamente questa parola”.
Le regole dettate per disciplinare l’attribuzione all’organo fanno capo alla maggiore o minore
gravità delle fattispecie criminose, individuata in via generale attraverso un criterio qualitativo che
tiene conto dell’entità della pena. E in via specifica attraverso un’elencazione nominativa di singole
figure di reati.
Pertanto:
- al tribunale collegiale attribuiti i delitti, consumati o anche solo tentati, puniti con la pena della
reclusione superiore nel massimo a 10 anni nonché una serie di altri reati ritenuti di particolare
gravità e di maggiore allarme sociale, quali l’omicidio semplice, la rapina, l’estorsione, il sequestro
di persona, l’associazione per delinquere di stampo mafioso, i più gravi delitti contro la p.a., i reati
ministeriali, i reati fallimentari, e altri ancora previsti da leggi speciali.
- al tribunale monocratico vengono attribuiti tutti i reati per i quali non sia prescritta l’attribuzione
al tribunale collegiale, nonché, con previsione esplicita, il delitto di spaccio di sostanze
stupefacenti non aggravato.
Per il tribunale monocratico rileva anche una regola di attribuzione ratione loci, avendo
comportato l’istituzione di esso la previsione di sezioni distaccate per la trattazione di
procedimenti in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, secondo i criteri oggettivi e
omogenei che tengano conto dell’estensione del territorio e del numero di abitanti, difficoltà di
collegamenti, indice di contenzioso.
Ogni procedimento di cognizione del tribunale monocratico viene attribuito alla sezione distaccata
nella cui circoscrizione è stato commesso il reato per l’individuazione della competenza
territoriale.

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L’art. 163-bis disp. att. c.p.p. detta regole per l’ipotesi di eventuale inosservanza delle disposizioni
relative alla ripartizione dei procedimenti tra sede principale e sezioni distaccate, o tra diverse
sezioni distaccate, stabilendo che la relativa questione può essere sollevata, d’ufficio dal giudice o
su eccezione delle parti, fino al momenti della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo
grado. Ove sia stata una delle parti a eccepirla, lo stesso giudice monocratico avanti al quale la
decisione è stata posta deve preliminarmente valutarne l’attendibilità, e ciò al fine di evitare che la
prospettazione dell’inosservanza abbia a trasformarsi in un espediente dilatorio finalizzato ad
allungare i tempi del processo. Dopo di che, se ravvisa l’effettiva violazione dei criteri di
ripartizione, o ritiene l’eccezione non manifestamente infondata, rimette gli atti al presidente del
tribunale il quale provvederà, con decreto non impugnabile, alla corretta attribuzione del
processo, potendo anche disporre che, “in considerazione di particolari esigenze una o più udienze
siano tenute nella sede principale o in altra sede distaccata”.

19.Attribuzione per connessione. Riunione e separazione di processi di diversa attribuzione.


Nell’ambito delle attribuzioni dipendenti dalla differente composizione del tribunale è possibile
che abbia a verificarsi una delle situazioni previste dall’art. 12 c.p.p., suscettibili di dar vita a un
vincolo connettivo tra procedimenti, dei quali alcuni appartengono alla cognizione del tribunale
collegiale e altri a quella del tribunale monocratico. Anche in questo caso il legislatore configura
un’ipotesi di simultaneus processus, dando vita a un fenomeno di attribuzione per connessione. Il
meccanismo trova la sua disciplina nell’art. 33- quater c.p.p. in cui è stabilito che si applicano le
disposizioni relative al procedimento davanti al giudice collegiale, al quale sono attribuiti tutti i
procedimenti connessi: la propensione è, dunque, per una vis attractiva che operi a favore del rito
maggiormente garantito, e in cui la presenza di un organo composto collegialmente dà più
affidamento.
Analoga preferenza il legislatore mostra nel caso in cui a dar vita a un processo cumulativo sia una
delle ipotesi di riunione di processi pendenti nelle stesso stato e grado avanti al tribunale., laddove
alcuni siano di cognizione del collegio e altri del giudice singolo.
L’art. 17 comma 1-bis c.p.p. prescrive, infatti, che la riunione venga disposta avanti al tribunale in
composizione collegiale. Tale composizione permane anche nel caso di una successiva separazione
dei processi, e ciò fa si che il collegio, ancorché abbia già deciso sulla res judicanda ricompresa
nella propria sfera di attribuzione, resti egualmente investito del processo attribuibile in astratto al
giudice monocratico.

20.Le vicende relative alla potestà del giudice penale: A) il difetto di giurisdizione.
Sulla potestà del giudice possono incidere determinate vicende.
A)Rileva, anzitutto, un possibile difetto di giurisdizione che si colloca nell’ambito dei rapporti tra
giurisdizione comune e giurisdizione speciale: a norma dell’art. 20 c.p.p., il difetto di giurisdizione,
nel contesto processuale penale, si caratterizza come mancanza di potestà del giudice comune di
fronte al giudice speciale o di questo di fronte a quello.
La legge processuale accomuna nella sua previsione sia il “difetto relativo”, sia il “difetto assoluto”
di giurisdizione: il primo, verificabile allorché il giudice comune proceda in ordine a un reato del
quale dovrebbe conoscere un giudice speciale, o viceversa; il secondo allorché qualsiasi organo
della giurisdizione penale, comune o speciale, risulti carente della potestà di giudicare.
Entrambe le situazioni sono rilevabili, anche d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del procedimento.

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- In particolare, se il difetto di giurisdizione viene rilevato nel corso delle indagini preliminari, il
giudice, sia esso comune o speciale, pronuncia ordinanza disponendo la restituzione degli atti al
PM dal quale era stato investito. Ciò non impedisce una possibile diversa valutazione della
situazione, che lo stesso giudice può compiere ove venga successivamente sollecitato un altro suo
intervento, dal momento che l’ordinanza è produttiva di effetti soltanto limitatamente al
provvedimento richiesto, ossia sempreché non intervena un quid novi a modificare lo stato di fatto
processuale e a determinare una diversa decisione. Ai fini del rilevamento del difetto di
giurisdizione nel corso delle indagini preliminari, il PM deve provocare l’intervento del giudice,
anche al di fuori delle ipotesi in cui questi possa esservi presente per altra causa , anche allorché la
carenza di potestà giurisdizionale appaia tanto evidente da non lasciar adito a ombra di dubbio.
- Se il difetto di giurisdizione viene rilevato dopo la chiusura delle indagini preliminari, il giudice
pronuncia sentenza che conterrà anche l’ordine di trasmissione degli atti all’autorità giudiziaria
cui spetta conoscere del reato, mentre nel caso di difetto assoluto, non essendovi alcun organo
giurisdizionale penale legittimato alla cognitio causae, si limiterà a dichiarare solo il difetto di
giurisdizione. Assolutamente preclusa quando decisione di merito, che se eventualmente adottata
dovrebbe considerarsi tamquam non esset.
L’art. 25 c.p.p. disciplina gli effetti della decisione pronunciata nel giudizio in Cassazione a seguito
di rilevazione dell’esistenza di un difetto di giurisdizione, stabilendo che essa è vincolante nel corso
del processo, tranne che, successivamente, non emergono elementi nuovi tali da comportare una
diversa definizione giuridica del fatto- reato che sia modificativa della giurisdizione.

21. (Segue): B) l’inosservanza dei criteri di ripartizione della competenza.


Anche l’inosservanza dei criteri di ripartizione della competenza, e dunque il correlativo verificarsi
di un fenomeno di incompetenza, incide, al pari del difetto di giurisdizione, sulla potestà del
giudice, in quanto il giudice incompetente travalica la sfera della potestà giurisdizionale a lui
spettante e finisce con l’esercitare funzioni che non gli appartengono.
Da tale inosservanza scaturiscono effetti diversi a seconda che si tratti di:
-COMPETENZA PER MATERIA. L’incompetenza per materia deve essere rilevata su eccezione di
parte o anche d’ufficio dal giudice, in ogni stato e grado del processo.
Questa regola è assoggettata due limitazioni. La prima si verifica nel caso di incompetenza c.d. per
eccesso, vale a dire, allorché di un reato appartenente alla cognizione di un giudice di competenza
inferiore si occupi un giudice di competenza superiore. In questo caso il difetto di competenza
può essere rilevato o eccepito soltanto in fase di atti introduttivi del dibattimento, subito dopo
compiuti per la prima volta gli accertamenti sulla costituzione delle parti. Il mancato rispetto di
questo sbarramento cronologico determina la perpetuatio jiurisdictionis del giudice indebitamente
investito. La presunta maggiore idoneità dal punto di vista tecnico- professionale dell’organo di
competenza superiore, in aggiunta a ragioni di economia processuale, consiglia l’adozione della
regola di non regressione del processo. La seconda limitazione riguarda l’ipotesi in cui
l’incompetenza derivi da connessione dei processi: la relativa eccezione o la rilevazione ex officio
vanno effettuate, pena la decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare; se
questa manchi, o se l’eccezione qui proposta sia stata respinta, vanno effettuate nella fase
introduttiva del dibattimento, subito dopo il compimento per la prima volta dell’accertamento
relativo alla costituzione delle parti. Anche qui, la mancata osservanza del termine fa si che la
competenza rimanga fissata in capo al giudice al quale erroneamente era stata affidata la cognitio
causae.

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Per ciò che riguarda l’individuazione dell’ “incompetenza che derivi da connessione”, è da ritenere
che questa si determini soltanto nel caso in cui un procedimento che avrebbe dovuto seguire per
attrazione l’iter imposto dalle regole fissate nell’art. 15 c.p.p. rimanga affidato al giudice e
originariamente competente.
Ipotesi differente appare quella in cui procedimenti connessi siano stati erroneamente attribuiti al
giudice di competenza inferiore: è da ritenere che qui l’incompetenza derivi dall’inosservanza delle
normali regole attributive della cognitio causae per ragioni di materia, sicché potrà essere rilevata
in ogni stato e grado del processo, e anche d’ufficio.
-COMPETENZA PER TERRITORIO. L’incompetenza per territorio ha carattere mono rigido di quelle
che regolano l’incompetenza per materia. L’incompetenza per territorio va eccepita dalle parti o
rilevata dal giudice, non già in ogni stato e grado come quella per materia, ma unicamente entro
rigorosi termini prescritti a pena di decadenza: prima che si concluda l’udienza preliminare
ovvero, nel caso in cui questa manchi, durante la fase introduttiva del dibattimento, subito dopo
essere stati compiuti per la prima volta gli accertamenti sulla regolare costituzione delle parti,
momento entro il quale deve essere riproposta anche l’eccezione dedotta e respinta
nell’udienza preliminare. Superati questi limiti temporali interviene la perpetuatio jiurisdicitionis,
per cui la cognizione della causa rimane al giudice originariamente incompetente, anche se i fatti
sui quali può fondarsi la deducibilità del vizio di incompetenza emergano solo in seguito
all’istruzione dibattimentale. Ancora una volta, predominano le esigenze relative all’ordine e alla
speditezza del processo.
-COMPETENZA PER CONNESSIONE. Le regole che disciplinano l’incompetenza per territorio
valgono pure per l’incompetenza derivante da connessione, riguardi essa i criteri di ripartizione
per territorio o quello per materia.
-Nel codice nono sono contenute specifiche norme sull’inosservanza dei criteri di ripartizione
della competenza per stati e gradi (c.d. funzionale), giacché l’individuazione di questo tipo di
competenza è dovuta alla sola elaborazione dottrinale. Trattandosi, comunque, di criteri che
attengono alla capacità che ha l’organo giurisdizionale di esercitare determinate funzioni e non
altre, è da ritenere che una loro eventuale inosservanza vada valutata alla stregua dei vizi
riguardanti la capacità del giudice.

22. (Segue): le decisioni relative all’inosservanza dei criteri di ripartizione della competenza.
La disciplina delle decisioni concernenti le questioni in tema di inosservanza dei criteri di
ripartizione della competenza, adottabili dai giudici nei vari gradi e stati del processo, è articolata
secondo alcune regole.

NE L PROCEDIMENTO DI PRIMO GRADO


a)durante la fase delle indagini preliminari, il giudice è chiamato a intervenire nel corso di essa, se
si riconosce di essere incompetente per una qualsiasi causa, pronuncia ordinanza dichiarativa
dell’incompetenza disponendo che gli atti vengano restituiti al PM. Tale provvedimento, che
assume la forma dell’ordinanza trattandosi di intervento a cognizione limitata e non fondato su
una conoscenza completa delle attività d’indagine, esplica efficacia rebus sic stantibus; ciò vuol
dire che esso non impedisce una nuova diversa valutazione della competenza ove venga richiesto
un successivo intervento del giudice, così come non impedisce che il PM prosegua nelle proprie
investigazioni;

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b)in sede di udienza preliminare, l’incompetenza viene dichiarata con sentenza dal giudice il quale
ordina, al contempo, la trasmissione degli atti al PM presso il giudice competente che viene
designato dalla sentenza stessa. Il provvedimento, in questo caso, trova giustificazione nel fatto
che il giudice, a conclusione delle indagini, viene investito dal PM con la richiesta finale che gli
devolve la cognizione piena e il potere decisorio in ordine all’esito di esse;
c)nel dibattimento, il giudice, ove ritenga competente un giudice diverso,emette sentenza
dichiarativa della propria incompetenza, e ordina la trasmissione degli atti al PM presso il giudice
ritenuto competente.
NEL PROCESSO D’APPELLO
Il giudice il quale accerti che in primo grado si è verificata un’ipotesi di incompetenza per difetto,
avendo conosciuto del reato un organo di competenza inferiore rispetto a quello che avrebbe
dovuto conoscerne, emette, non necessariamente su impugnazione di alcuna delle parti, ma anche
d’ufficio, sentenza di annullamento della decisione adottata da quell’organo e ordina la
trasmissione degli atti al PM presso il giudice di primo grado trattato un processo spettante a un
giudice di competenza inferiore, il giudice dell’appello pronuncia nel merito e in secondo grado:
l’incompetenza per eccesso, in questo caso, è del tutto irrilevante; prevalgono ancora esigenze di
speditezza del processo. Per quanto concerne l’incompetenza per territorio e quella derivante da
connessione, il giudice d’appello, ravvisatane l’esistenza, emanerà sentenza di annullamento e
trasmetterà gli atti al PM presso il giudice competete soltanto se nel giudizio di primo grado siano
stati rispettati i termini per dedurre l’incompetenza e se la relativa eccezione sia stata riproposta
tra i motivi dell’impugnazione; diversamente, giudicherà nel merito come giudice del secondo
grado.
IN SEDE DI GIUDIZIO PER CASSAZIONE
Può venire in considerazione per la prima volta solo l’incompetenza determinatasi allorché il
giudice di competenza inferiore abbia conosciuto di un reato riservato al giudice di competenza
superiore: è questa la valutazione suscettibile di essere rilevata anche d’ufficio, in ogni stato e
grado del processo, mentre le altre ipotesi di incompetenza sono sottoposte ai rigoroso limiti
cronologici che ne consentono la rilevabilità elusivamente non oltre l’ambito degli atti introduttivi
del dibattimento di primo grado. Pertanto, esse non possono trovare ingresso nel giudizio di
cassazione, tranne che, non vengano indicate anche come motivi di ricorso per cassazione.
Se la Corte di cassazione riconosce l’incompetenza annulla la sentenza sottoposta al suo esame
rinviando gli atti al giudice che essa riterrà competente, e la “decisione” è vincolante nel corso del
processo, nel senso che è definitivamente attributiva della competenza in capo all’organo che ne è
stato investito. Tale effetto, viene meno nel caso in cui dopo la sentenza della Cassazione risultino
elementi nuovi idonei a dar luogo a una diversa definizione giuridica del fatto- reato che sposti la
cognitio causae a un giudice di competenza superiore, e ciò in omaggio al principio che riconosce
tale giudice, privilegiandola, una più attitudine sul piano tecnico- professionale. Irrilevante, invece,
la circostanza che i nuovi elementi successivamente emersi possano produrre soltanto una
modifica della competenza per territorio o di quella per connessione, ovvero lo slittamento della
cognizione del processo verso un giudice di competenza inferiore.

23. (Segue): l’inosservanza dei criteri di ripartizione della competenza nell’acquisizione di prove
e nell’adozione di misure cautelari.

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Regole specifiche in ordine all’acquisizione delle prove e all’adozione di misure cautelari vengono
dettate dagli artt. 26 e 27 c.p.p.
In particolare, per le prove acquisite in situazione di violazione delle regole sulla competenza, è
stabilito che esse mantengono la loro piena efficacia anche se assunte da giudice dichiarato
incompetente per territorio, purché siano state osservate le disposizioni che ne disciplinano la
formazione.
Se siano state acquisite da un giudice che risulti, poi, incompetente per materia, rimangono
pienamente efficaci, a condizione che non si tratti di dichiarazioni ripetibili: in questo caso, la loro
utilizzabilità è consentita soltanto nell’udienza preliminare, al fine di stabilire se il processo debba
o no sfociare in un rinvio a giudizio, dal momento che in dibattimento il giudice competente è in
grado di acquisire personalmente le prove in questione.
Per quel che concerne i provvedimenti cautelari sia personali che reali, essi possono esser disposti
anche da un giudice che al momento della relativa richiesta erroneamente propostagli dal PM si
reputi privo, quale che ne sia il motivo, della competenza a conoscere nel merito. Ciò, però, in via
assolutamente eccezionale e d’urgenza, per garantire le esigenze, di natura cautelare, che tali
provvedimenti sono chiamati a soddisfare e che il ritardo, nell’attesa dell’intervento del giudice
competente, potrebbe frustrare. La disciplina in questo senso emerge dall’art. 27 c.p.p., in cui si
stabilisce che le misure cautelari disposte dal giudice che si dichiari incompetente per qualsiasi
causa, cessano di avere efficacia se entro 20 giorni dalla trasmissione degli atti al giudice ritenuto
competente questi non adotti nuovi provvedimenti. Lo stesso fenomeno di caducazione si verifica
anche ove la causa di incompetenza venga rilevata in un momento successivo all’emanazione del
provvedimento.

24.L’inosservanza dei criteri di attribuzione al tribunale nella sua diversa composizione.


L’art. 33-quinquies c.p.p. stabilisce che l’inosservanza delle disposizioni relative all’attribuzione
dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica è rilevata ex officio
dal giudice o eccepita dalle parti, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza
preliminare o, se questa manca, durante la fase introduttiva del dibattimento, subito dopo che
siano stati compiuti per la prima volta gli accertamenti sulla regolare costituzione delle parti.
Questo è il momento entro il quale deve essere riproposta anche l’eccezione dedotta e respinta
nel corso dell’udienza preliminare.

25. (Segue): le decisioni relative all’inosservanza dei criteri di attribuzione al tribunale.


La normativa relativa alle decisioni concernenti le questioni in tema di inosservanza dei criteri di
attribuzione al tribunale nella sua duplice composizione, adottabili nei vari gradi e stai processuali,
segue alcune regole:
A) NEL PROCESSO DI PRIMO GRADO:
- nell’udienza preliminare. Occorre chiarire che non tutti i procedimenti di competenza del
tribunale passano attraverso la fase dell’udienza preliminare. Più precisamente: mentre tale fase è
imprescindibile nei procedimenti attribuiti alla cognizione del tribunale collegiale, può invece
mancare nei procedimenti attribuiti alla cognizione del tribunale monocratico, in quanto, in alcune
ipotesi il rito può svolgersi in forma semplificata prescindendo proprio dall’udienza preliminare.
Ciò premesso, instaurato un procedimento nella forma che prevede l’udienza preliminare, il
giudice, monocratico o collegiale, può rilevare per qualsiasi causa, d’ufficio o su eccezione delle
parti, che l’udienza preliminare non deve essere celebrata poiché il procedimento andava
attribuito al tribunale in composizione monocratica seguendo le regole del rito semplificato. In

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questo caso, egli disporrà, con ordinanza, la trasmissione degli atti al PM affinché provveda alla
corretta instaurazione del rito con soppressione della fase dell’udienza preliminare.
-durante la fase dibattimentale. Occorre distingue a seconda che sia stata instaurata a seguito di
udienza preliminare oppure no.
Nel primo caso, il giudice, monocratico o collegiale, ove ritenga che a decidere debba essere il
tribunale in composizione diversa, trasmette, con ordinanza, gli atti al giudice a cui va attribuita la
cognitio causae. Essendo già celebrata l’udienza preliminare è logico che il processo passi
direttamente al giudice del dibattimento che deve conoscerne secondo i prescritti criteri di
attribuzione.
Nel caso di dibattimento instaurato a seguito di rito semplificato, il giudice dispone con ordinanza
la trasmissione al PM affinché investa del processo il giudice di quell’udienza. Se così non si
operasse, verrebbe meno una fase processuale in cui l’imputato può esercitare ogni suo diritto in
vista di una possibile conclusione del processo a lui favorevole ancor prima che esso giunga ad un
epilogo dibattimentale. Disciplina analoga a quella appena delineata si ha allorché il giudice
monocratico, sempre in corso di rito semplificato, ritenga che, pur essendo il reato di sua
cognizione, si debba procedere con udienza preliminare.
B) NEL PROCESSO DI APPELLO. Qualora il giudice di appello ritenga che il procedimento doveva
essere attribuito al tribunale in composizione collegiale mentre erroneamente ne ha conosciuto i
tribunale monocratico, pronuncia l’annullamento della sentenza impugnata, disponendo la
trasmissione degli atti al PM presso il giudice di primo grado affinché instauri correttamente il
procedimento avanti all’organo in composizione collegiale. Questa disciplina muove dalla
considerazione che tale modulo procedimentale presenta maggiori garanzie delle quali l’imputato
nel giudizio di primo grado si è visto illegittimamente privato e che è giusto ripristinare.
Se, viceversa, il giudice dell’appello ritiene che a decidere doveva essere il tribunale monocratico e
ne ha conosciuto irregolarmente il collegio, non procede all’annullamento e pronuncia nel merito.
Invero, si presume che il giudizio in primo grado, ancorché inesattamente imbastito secondo le
regole del rito collegiale, tutto sommato sia stato più affidabile, sicché irragionevole sarebbe
reiterarlo in forme meno rassicuranti.
C) IN SEDE DI GIUDIZIO PER CASSAZIONE. Si applicano le stesse norme dettate per la rilevabilità in
appello dell’inosservanza delle disposizioni in tema di composizione del tribunale, sia che si tratti
di erronea attribuzione al giudice monocratico, sia che si tratti di erronea attribuzione al giudice
collegiale. In quest’ultima ipotesi il giudizio in Cassazione deve riguardare una sentenza di primo
grado non appellata o perché impugnata direttamente con ricorso in Cassazione.
Affinché la Corte di cassazione possa pronunciarsi è necessario che le eccezioni relative
all’irregolare attribuzione siano state proposte inutilmente nel giudizio di primo grado, riproposte
altrettanto inutilmente nel processo d’appello e prospettate, infine, come motivi di ricorso per
cassazione.

26. (Segue): l’inosservanza dei criteri di attribuzione nel compimento di atti del procedimento e
nell’acquisizione di prove.
L’art. 33-nonies c.p.p. stabilisce che “l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale
o monocratica del tribunale non determina l’invalidità degli atti del procedimento, né
l’inutilizzabilità delle prove già acquisite”. A condizione, si intende, che siano state rispettate le
specifiche regole che disciplinano il compimento degli atti e l’acquisizione delle prove.
Se il legislatore ha ritenuto di adottare il principio della conservazione degli atti compiuti dal
giudice incompetente, a maggior ragione lo stesso criterio andava seguito nel caso di irregolare

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attribuzione all’organo giurisdizionale in composizione errata, dal momento che la ripartizione
delle attribuzioni viene vista come organizzazione del lavoro all’interno di un unico ufficio al quale
è demandato giudicare, anche se in diversa figurazione, su fattispecie pur sempre di propria
competenza.

27.I rapporti tra diversi organi giurisdizionali: i conflitti.


Dalla pluralità e diversità degli organi che esercitano giurisdizione penale, e quindi dal possibile
insorgere di rapporti tra essi, prende vita il fenomeno dei possibili conflitti, sia di giurisdizione, sia
di competenza. Essi si profila tra un giudice comune e un giudice speciale, nel primo caso; tra due
giudici comuni, nel secondo caso.
Conflitto di giurisdizione si ha quando appare incerto se in ordine a un determinato fatto
attribuito alla stessa persona debba giudicare un organo della giurisdizione comune o un organo
della giurisdizione speciale.
Conflitto di competenza si ha quando l’incertezza investa due organi appartenenti entrambi alla
giurisdizione comune e si configuri in relazione alla loro competenza per materia o per territorio,
sia essa originaria o determinata per connessione. Un conflitto è configurabile solo tra giudici di
merito, e giammai con la Corte di cassazione le cui decisioni sono definitive e di immediata
esecuzione.
Conflitto positivo in qualsiasi stato e grado del processo, i due giudici prendono
contemporaneamente cognizione del fatto, determinando lo scaturire di una situazione
suscettibile di portare a una patologica mo9ltiplicazione di processi per il medesimo fatto e nei
confronti della stessa persona con l’inevitabile rischio di epiloghi contraddittori.
Conflitto negativo ne l’uno né l’altro intendono prendere cognizione di quel fatto, creando in tal
modo una situazione che potrebbe condurre alla paralisi del processo.
Presupposti per un conflitto sono dunque:
a) la contemporaneità delle declaratorie con cui i due giudici manifestano la loro volontà, positiva
o negativa;
b) che tali declaratorie abbiano a oggetto il medesimo fatto, inteso come accadimento storico
identificabile attraverso le componenti della condotta, dell’evento, del nesso di casualità,
indipendentemente dal suo nomen juris, attribuito alla stessa persona.
Conflitti di competenza “per casi analoghi” possono presentarsi sia attraverso un profilo
soggettivo, sia attraverso un profilo oggettivo. Sotto il primo, essi nascono quando i contrasti
coinvolgono anche organi giurisdizionali privi di potestà giurisdizionale; sotto il secondo, quando i
contrasti vertano non sulla cognizione del medesimo fatto, ma sul compimento di un determinato
atto processuale attribuito alla sfera funzionale di uno degli organi dissidenti.
-Sfugge alla configurazione in termini di conflitto ogni eventuale contrasto tra il giudice
dell’udienza preliminare che abbia rinviato a giudizio e il giudice del dibattimento, dal momento
che prevalgono le decisioni adottate da quest’ultimo. Qui vale la regola secondo cui sulle
valutazioni operate da ciascun giudice in ordine alla propria competenza non possono intervenire
situazioni vincolanti di un altro giudice, per così dire, interessato, cede di fronte all’esigenza di una
sollecita definizione del processo; ciò in considerazione del fatto che a porre il vincolo è il giudice
del dibattimento la cui potestà giurisdizionale è più ampia che non quella del giudice dell’udienza
preliminare.
- Un altro limite al tipo di contrasto che può dar luogo a conflitto si riscontra nella disposizione
contenuta nell’art. 28 comma 3 c.p.p. che vieta la possibilità di proporre, nel corso delle indagini
preliminari, conflitto positivo fondato su ragioni di incompetenza per territorio determinata da

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connessione. L’esclusione viene giustificata con la considerazione che è opportuno evitare conflitti
tra pubblici ministeri durante le indagini preliminari, lasciando ciascun ufficio del PM libero di
svolgere le indagini per il reato commesso nel proprio territorio. La previsione però è da
considerare superata dall’art. 54-bis c.p.p. che ha fatto venir meno la possibilità di ipotizzare in
materia un ricorso a un’estensione analogica delle regole dettate per i conflitti tra organi
giurisdizionali , che attraverso l’art. 28 comma 3 c.p.p. si voleva evitare.
Al di fuori delle ipotesi appena dette, conflitti di competenza tanto positivi che negativi sono
possibili nel corso delle indagini preliminari, sia pure con cognizione necessariamente limitata allo
stato degli atti. Conflitto positivo si delinea quando più giudici emettano un provvedimento
relativo a un medesimo fatto, richiesto dai rispettivi uffici del PM. Conflitto negativo si profila
quando, dichiaratosi il giudice per le indagini preliminari incompetente a emettere un
provvedimento sollecitatogli dal PM, questi investa del procedimento il PM presso l’organo
giurisdizionale ritenuto competente e il nuovo giudice per le indagini preliminari, a sua volte,
carente di competenza, ritenendo che competente sia il primo giudice.

28. (Segue): la risoluzione dei conflitti.


Una volta instauratasi una situazione di conflitto, essa può venir meno per “composizione
spontanea”, se uno dei giudici esprime la volontà, su istanza di alcuna delle parti o anche d’ufficio,
di recedere dalla già manifestata determinazione di prendere, o non, cognizione del reato
dichiarando la propria incompetenza. Ciò può accadere sia ancora prima che inizi il procedimento
per la risoluzione del conflitto, sia nel corso di esso, fino a quando non sia stata emessa la relativa
pronuncia. La dichiarazione può essere adottata senza forme particolari, non essendo dalla legge
richiesto uno specifico provvedimento.
Ove composizione spontanea non vi sia, l’esistenza del conflitto può essere rilevata, anzitutto ex
officio dal giudice il quale, con ordinanza, provvedere a rimettere alla Corte di cassazione, organo
competente a dirimere il conflitto, copia degli atti necessari per decidere, con l’indicazione delle
parti e dei difensori , che devono essere posti in condizione di intervenire.
Possono essere anche le parti a denunciare il conflitto. La denuncia è presentata con
dichiarazione scritta e motivata, alla quale viene allegata la necessaria documentazione, ed è
depositata presso la cancelleria di uno dei giudici. Questi trasmette tutto alla Corte di cassazione,
insieme a una copia degli atti necessari per la decisione, indicando i nominativi delle parti e dei
difensori e formulando eventuali osservazioni affinché alla Corte sia prospettato un quadro più
ampio possibile.
Lo stesso giudice che ha rilevato il conflitto o ne ha ricevuto denuncia provvederà a darne
immediata comunicazione all’altro giudice configgente il quale, a sua volta, trasmetterà subito alla
Corte di cassazione copia degli atti necessari per la risoluzione del conflitto, con l’indicazione delle
parti e dei loro difensori e con eventuali osservazioni.
Il procedimento per la risoluzione del conflitto che si instaura avanti la Corte di cassazione in
quanto tradizionalmente “giudice sulla competenza”, segue le regole del rito in camera di
consiglio. Diritto di comparire e di essere sentiti è riconosciuto alle parti, ai loro difensori, alle altre
persone interessate alla risoluzione del conflitto, tra le quali anche i giudici in contrasto i quali
potrebbero voler interloquire con proprie osservazioni: a tutti costoro, pertanto, deve essere dato
avviso della data fissata per l’udienza.
La decisione è adottata con sentenza viene portata, immediatamente, a conoscenza dei giudici in
conflitto, dei pubblici ministeri presso di essi e della parti private. La soluzione dettata dalla Corte
di cassazione è definitiva, salvo che non intervengono a mutare la situazione nuovi fatti che

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comportino una diversa definizione giudica dalla quale derivi la modificazione della giurisdizione o
lo slittamento della competenza per materia, ma solo verso un giudice superiore. Intangibile
rimane, invece, la determinazione del giudice competente per territorio, anche quando, dovessero
insorgere nel corso del processo nuovi fatti modificativi della sua competenza.

29. (Segue): le questioni pregiudiziali.


Come dalla pluralità degli organi che esercitano giurisdizione in materia penale nasce il fenomeno
dei conflitti, dalla pluralità degli organi che esercitano giurisdizione in materie diverse nasce il
fenomeno delle c.d. questioni pregiudiziali, le quali vanno ricondotte entro la sfera dei rapporti tra
giurisdizione in materia penale e giurisdizione la cui attività si esplica in ambiti differenti da quello
penale.
Al giudice viene attribuito dalla legge il potere di conoscere tutte le questioni, anche di natura non
penale, la cui risoluzione rappresenti il presupposto per la decisione da pronunziare nel processo
penale: trattasi di una cognizione “in via incidentale” limitata ai fini della decisione penale,
improduttiva degli effetti tipici del giudica e, quindi, non vincolante un nessun altro processo.
In alcune ipotesi la legge ritiene opportuno, anche allo scopo di evitare possibili contrastanti
giudicati, che sia un organo della giurisdizione non penale, il che significa, l’organo della
giurisdizione civile o amministrativa naturalmente competente, a risolvere una determinata
controversia dalla quale dipenda la decisione del processo penale; con la conseguenza che
l’esercizio della giurisdizione penale potrà rimanere sospese e che il giudice penale dovrà,
successivamente, assumere a base della propria decisione la sentenza pronunciata dal giudice
civile o da quello amministrativo.
Il codice restringe le ipotesi suscettibili di dar vita a questioni pregiudiziali alle controversie
riguardanti lo status familiae e a quelle riguardanti lo status civitatis. Dispone, infatti, l’art. 3
comma 1 c.p.p. che “quando la decisione (penale) dipenda dalla risoluzione di una controversia
sullo stato di famiglia o di cittadinanza, il giudice può sospendere il processo sino al passaggio in
giudicato della sentenza che definisce la questione”.
Presupposti per la sospensione del processo penale in presenza di una controversia di stato sono:
a) che la questione sia seria, vale a dire non manifestamente infondata, temeraria o pretestuosa
sì da porsi come intralcio per la sollecita definizione del processo medesimo: sufficiente ai fini
della delibazione in ordine alla “serietà” una sommaria valutazione di fatto dalla quale emerge
l’apparente fondatezza della questione;
b) che l’azione a norma delle leggi civili o amministrative sia stata già proposta; diversamente
sarà lo stesso giudice penale a conoscerne in via incidentale. L’esigenza di celerità del processo
penale prevale ancora, e questa volta persino sulle ragioni di certezza relativa a situazioni
personali particolarmente delicate.
La sospensione del processo penale è facoltativa e la relativa decisione rimane affidata al
prudente discernimento del giudice il quale valuterà discrezionalmente anche l’opportunità che la
questione venga o no trattata dalla giurisdizione non penale. Se il giudice riterrà di sospendere il
processo, pronuncerà la relativa decisione nella forma dell’ordinanza.
La sospensione non impedisce al giudice di compiere tutti gli atti ritenuti urgenti, inclusa
l’acquisizione di prove non rinviabili, tranne quelli che dovessero coinvolgere la questione per la
quale la sospensione stessa era disposta. Il processo sospeso riprenderà il suo normale
svolgimento dopo che il giudice civile o amministrativo avrà definito la questione pregiudiziale di
stato con sentenza irrevocabile; una sentenza che esplicherà efficacia di giudicato nel processo
penale e della quale il giudice di questo processo non potrà disattendere il contenuto.

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30. (Segue): la sospensione del dibattimento in attesa di decisioni su questioni civili o
amministrative.
Una figura che, pur se formalmente il codice non cataloga tra le questioni pregiudiziali, nella
sostanza finisce col rimanervi assimilata, è quella delineata dall’art. 479 c.p.p. in cui viene stabilito
che, “fermo quanto previsto dall’art. 3, qualora la decisione sull’esistenza del reato dipenda dalla
risoluzione di una controversia civile o amministrativa di particolare complessità, per la quale sia
già in corso un procedimento presso il giudice competente, il giudice penale, se la legge non pone
limitazioni alla prova della posizione oggettiva controversa, può disporre la sospensione del
dibattimento siano a che la questione non sia stata decisa con sentenza passata in giudicato”.
Trattasi di una situazione destinata a operare soltanto in fase dibattimentale e la cu configurabilità
in termini di questione pregiudiziale dipende da ben precisi presupposti e limitazioni.
- Anzitutto, si richiede che si sia in presenza di una controversia civile o amministrativa alla cui
risoluzione sia legata la “decisione sull’esistenza del reato”;
- La controversia deve essere di “particolare complessità”, il che vuol dire tale da sconsigliare che
a conoscerne venga chiamato un organo naturalmente destinato a esercitare funzioni
giurisdizionali in materia (penale) diversa da quella (civile o amministrativa) oggetto della
controversia, essendo richiesti accertamenti tali da non potersi compiere agevolmente con i mezzi
propri del rito penale;
- In ordine a quella controversia “sia già in corso un procedimento presso il giudice
competente”: si vuole evitare che di tale procedimento si abbia ad attendere un inizio che
potrebbe anche tardare indefinitamente;
- Per l’accertamento in sede civile o amministrativa la legge non deve porre “limitazioni alla prova
della posizione soggettiva controversa”: in tale eventualità ammettere che il giudice penale
importi la soluzione accolta dal giudice civile, il quale dispone di minori strumenti probatori, o
addirittura, è vincolato da una regola di decisione inversa, implicherebbe il rischio di una sentenza
ingiusta.
Soltanto al realizzarsi di questi presupposti si determina nel giudice penale il potere, il cui esercizio
rimane pur sempre affidato alle sue valutazioni discrezionali di ordinare la sospensione del
dibattimento. Ove egli ritenga di non farlo, risolverà autonomamente le questioni di natura
extrapenale, definendo il giudizio sull’esistenza del reato. La sospensione del dibattimento durerà
sino a che la questione civile o amministrativa non sia stata decisa con sentenza passata in
giudicato. Questa sentenza non esplica effetto di giudicato nel processo penale: gli accertamenti in
essa contenuti saranno, dunque, valutati alla stregua di ogni altro materiale utile sul piano
probatorio. In definitiva, il giudice penale, anche se abbia in precedenza disposto la sospensione
del dibattimento, può disattendere tutto quel che è stato deciso in sede extrapenale; l’unico
vincolo è semmai quello derivante dalla necessità di fornire un’adeguata motivazione.
La sospensione del dibattimento penale può cessare anche prima che sia intervenuta la decisione
in sede civile o amministrativa, e precisamente se, trascorso un anno, il giudizio in questa sede non
si sia ancora concluso. In tal caso, il giudice, su sollecitazione delle parti o ex officio, può revocare
l’ordinanza di sospensione e disporre, contestualmente, la prosecuzione del dibattimento.

31. (Segue): la c.d. pregiudiziale costituzionale.


Una particolare ipotesi di pregiudiziale, c.d. costituzionale, nasce quando si eccepisce nel corso di
un processo penale l’illegittimità di una norma penale sostantiva o processuale. Al verificarsi del

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caso, l’autorità giudiziaria, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla
risoluzione della questione di legittimità costituzionale e non ritenga che la questione sollevata sia
manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale dispone la trasmissione immediata
degli atti alla Corte costituzionale, e sospende il giudizio in corso. Questa pregiudiziale si può
definire come “obbligatoriamente devolutiva”, poiché il giudice, accertata la rilevanza della
questione e ravvisata la non manifesta infondatezza della questione stessa, dovrà
necessariamente arrestarsi e demandare la decisione alla Corte costituzionale, essendo a lui
vietato il giudizio sulla costituzionalità delle leggi.

32. (Segue): la c.d. pregiudiziale comunitaria.


Un’altra particolare ipotesi è rappresentata dalla c.d. pregiudiziale comunitaria. Ove il giudice
italiano ritenga di dover prendere in considerazione una norma europea potrebbe risultare
necessario pervenire a un’inequivoca e armonizzata lettura della stessa, onde deciderne, in una
concreta fattispecie, l’applicabilità o meno. Il sistema predispone, a tal fine, un “rinvio
pregiudiziale” alla Corte di giustizia dell’Ue, affinché si pronunci sulla corretta interpretazione
delle disposizioni e dei principi sovranazionali destinati a essere attuati in un processo pendente
avanti alla giurisdizione nazionale.
Quando una questione interpretativa relativa a norme europee viene sollevata davanti a una
giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può domandare alla Corte di giustizia di
pronunciarsi sulla questione. Secondo questa previsione, la devoluzione ha carattere facoltativo,
restando affidato alla scelta del giudice nazionale se procedere direttamente all’interpretazione
della normativa comunitaria da applicare alla controversia o richiedere l’intervento della Corte di
giustizia. Tuttavia, se la questione è sollevata in un giudizio pendente avanti a una giurisdizione
nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno,
tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di giustizia. La devoluzione diventa così
obbligatoria quando la questione interpretativa venga posta a un organo giurisdizionale di vertice.
La pregiudiziale viene sollevata dal giudice su istanza di parte o ex officio, deve esporre gli
elementi di fatti e di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni prospettate e
deve indicare i motivi per i quali si ritiene indispensabile la soluzione di tali questioni ai fini della
definizione della controversia, non potendo il giudice comunitario esprimere pareri consultivi su
questioni meramente ipotetiche. In ogni caso, il ricorso pregiudiziale riguarda unicamente
l’interpretazione di norme da applicare a fattispecie concrete dedotte in giudizio e non tocca per
nulla la questione di merito, che rimane di esclusiva appartenenza del giudice nazionale, così come
non implica alcuna decisione da parte della Corte circa l’applicazione delle disposizioni
comunitarie nel caso specifico o l’interpretazione di norme interne o, ancora, la valutazione circa
la compatibilità di quest’ultime con la normativa comunitaria.
Capitolo terzo
IL PUBBLICO MINISTERO

1.Il pubblico ministero come organo statuale.


Parlando del PM si può sottolineare immediatamente che esso risalta come organo dell’apparato
statuale e come soggetto processuale.
Come organo dell’apparato statuale, il PM si presenta in veste di organo chiamato a esercitare
“sotto la vigilanza del ministro di grazia e giustizia le funzioni che la legge gli attribuisce”: in
particolare, “vegliare all’osservanza delle leggi e alla pronta e regolare amministrazione della
giustizia”.
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La collocazione del PM resta lontana dal potere giurisdizionale in senso proprio.
1)Al PM manca la potestà di jus dicere, vale a dire di emettere una decisione, impronta
indefettibile dell’attività di giurisdizione;
2)Egli non presenta i tratti tipici e ineludibili della fisionomia degli organi giurisdizionali, primo tra
tutti quello scolpito nell’art. 101 Cost. Invero, la norma contenuta in quest’articolo, mentre si
preoccupa di stabilire che i giudici sono soggetti unicamente alla legge, non altrettanto fa per i
magistrati del pm; ciò induce a pensare che essi subiscano vincoli di soggezione sia pure all’interno
dell’organizzazione gerarchica di carattere verticale da cui i vari uffici del pm sono contrassegnati.
Una conferma a tale deduzione proviene dagli artt. 53 comma 1 c.p.p. e 20 comma 4 d.P.R.
449/1988, nei quali si afferma il principio che nel corso delle udienze penali i magistrati del pm
svolgono le proprie funzioni con “piena autonomia”: autonomia nei confronti dei capi o dei titolari
degli uffici, ai quali viene attribuito un potere di sostituzione del magistrato. Quelle posizioni fanno
intendere con chiarezza come l’area di autonomia per i magistrati del pm si registra alle sole sedi
di udienza: un chiarimento normativo ad hoc che sembra suonare come eccezione rispetto a una
regola generale ovviamente orientata in direzione opposta.
Una decisa svolta verso un’accentuata gerarchizzazione dei rapporti interni all’ufficio del pm si è
avuta con il d.lgs. 106/2006 che rende vincolanti per i magistrati dell’ufficio stesso i principi e i
criteri fissati dal “capo” relativamente all’attrazione di un determinato procedimento, sicché ogni
singolo magistrato dovrà seguire una certa impostazione nelle attività di indagine, soprattutto se
iniziali, nell’impiego della polizia giudiziaria, e non gli sarà neppure permesso di sottrarsi agli
standard di valutazione normalmente adottati dall’ufficio in tema di applicazione delle misure
cautelari.

2. (Segue): il pubblico ministero come soggetto processuale.


In quanto portatore di una richiesta, in particolare, la richiesta di una decisione che accolga le
ragioni dell’accusa, avanzata a un soggetto che in situazione di imparzialità dovrà su di essa
decidere, il pm si lascia agevolmente inquadrare nel concetto di “parte” del processo penale; pur
non riuscendo a liberarsi completamente da quella “preziosa e difficile ambiguità” che ne ha
sempre caratterizzato la fisionomia, al punto da indurre, in passato, da qualcuno a coniargli
l’etichetta, certo paradossale, di “parte imparziale”. L’art. 358 c.p.p. impone al pm di compiere
ogni attività necessaria per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione svolgendo, al
contempo, “accertamenti su fatti e su circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”,
un impegno a operare in pro della controparte che non significa diversa collocazione del pm: la sua
attività rimane pur sempre attività di investigazione e il suo ruolo pur sempre ruolo di organo
dell’azione, vale a dire di “parte”.
Diversamente che per l’organo giudicante, il codice non detta norme in ordine alla capacità e alle
correlative situazioni di incompatibilità del pm. Regole in materia si possono rinvenire negli artt. 18
e 19 r.d. 12/1941, i quali prevedono ipotesi di incompatibilità per i magistrati, anche del pm, che
operino in sedi nelle quali loro parenti o affini esercitino come avvocati o facciano parte di uffici
giudiziari insieme ad altri magistrati a cui siano legati da vincoli di parentela o di affinità .

3.L’organizzazione degli uffici del pubblico ministero.


Nell’attuale ordinamento, gli uffici del pm risultano così strutturati:
A)Per ciò che riguarda la giurisdizione comune
- presso la Corte di cassazione, titolare dell’ufficio del pm è il procuratore generale, coadiuvato da
avvocati generali e da sostituti procuratori generali;

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- presso ogni corte d’appello, titolare dell’ufficio del pm è un procuratore generale, coadiuvato da
avvocati generali e da sostituti procuratori generali;
- presso ogni tribunale, titolare dell’ufficio del pm è un procuratore della Repubblica, coadiuvato,
eventualmente, da procuratori aggiunti tra i quali può scegliere il vicario che lo sostituisca in caso
di assenza, impedimento o sede vacante, e da sostituti procuratori, nonché da vice procuratori
onorari, da uditori giudiziari, da ufficiali di polizia giudiziaria o da laureati in giurisprudenza che
frequentino il secondo anno della scuola di specializzazione per le professioni legali, i quali
possono esercitare le funzioni di pm nei procedimenti avanti al tribunale monocratico e relativi
reati per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore a 4 anni;
- presso ogni giudice di pace titolare dell’ufficio del pm è il procuratore della Repubblica del
tribunale nel cui circondario ha sede il giudice di pace, coadiuvato da sostituti procuratori, da vice-
procuratori onorari e da eventuali delegati.
B)Per ciò che riguarda la giurisdizione speciale
- presso ogni tribunale per i minorenni, titolare dell’ufficio del pm è un procuratore della
Repubblica, coadiuvato da sostituti procuratori;
- presso ogni tribunale militare, titolare dell’ufficio del pm è un procuratore militare della
Repubblica, coadiuvato da sostituti procuratori militari;
- presso la corte militare d’appello, titolare dell’ufficio del pm è il procuratore generale militare,
coadiuvato da avvocati generali militari e da sostituti procuratori generali militari;
- presso la Corte costituzionale, quando sia chiamata a giudicare il Presidente della Repubblica per
i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, l’ufficio del pm è costituito da uno o più
commissari eletti dal Parlamento anche tra i propri componenti.
° Per i reati di cognizione della corte d’assise agisce l’ufficio del pm presso il tribunale individuato
secondo le normali regole attributive della competenza per territorio; avanti la corte d’assise
d’appello agisce l’ufficio del pm presso la corte d’appello.
° Regole particolari valgono per i delitti, consumati o tentati, di associazioni di tipo mafioso e di
sequestro di persona a scopo di estorsione, nonché per i delitti commessi avvalendosi delle
condizioni previste dalle norme che puniscono l’attività delle associazioni di stampo mafioso e la
loro agevolazione, per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze
stupefacenti o psicotrope … la trattazione di procedimenti relativi a questi reati è sempre affidata
al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello
nel cui ambito ha sede il giudice competente, il c.d. procuratore distrettuale, il quale, all’interno
del proprio ufficio di procura, costituisce una c.d. direzione distrettuale antimafia designando i
magistrati ne fanno parte scelti in base a specifiche attitudini ed esperienze professionali.
° Per i medesimi reati e con funzioni di coordinamento delle attività demandate ai procuratori
distrettuali è istituita la c.d. direzione nazionale antimafia, alla quale è proposto il procuratore
nazionale antimafia, coadiuvato da uno o più procuratori aggiunti e da sostituti procuratori,
magistrati scelti sulla base di specifiche attitudini ed esperienze nella trattazione di procedimenti
di criminalità organizzata.

4.La ripartizione di attribuzioni tra i diversi uffici del pubblico ministero.


La ripartizione delle attribuzioni demandate agli uffici del pm è effettuata in base a criteri collegati
dalla distribuzione delle competenza tra i vari organi giurisdizionali.

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Criterio funzionale: è possibile distinguere in relazione ai gradi e agli stati del procedimento. Nel
procedimento di primo grado, i poteri del pm sono esercitati dai magistrati della procura della
Repubblica presso il tribunale; nel procedimento in secondo grado e in quello in Cassazione,
rispettivamente dai magistrati della procura generale presso la corte d’appello e da quelli della
procura generale presso la Corte di cassazione.
Criterio territoriale: le funzioni vengono esercitate dai singoli uffici del pm in considerazione della
loro stabile organizzazione pedissequa degli uffici dei giudici e si estendono nell’ambito della
stessa area territoriale entro la quale è competente il giudice presso cui l’ufficio del pm è istituito.
Criterio materiale: rileva la devoluzione di attribuzione ai magistrati dei diversi uffici del pm non
simmetrica rispetto alla competenza per materia dei giudici, dal momento che per i reati di
cognizione del giudice di pace, per quelli di cognizione del tribunale e per quello di cognizione
della corte d’assise le funzioni vengono svolte dai magistrati di un unico ufficio, la procura della
Repubblica presso il tribunale.
Controllo sulla legittimazione di un determinato ufficio del pm a esercitare in concreto le
attribuzioni di cui è astrattamente investito: viene consentito dall’art. 54- quater c.p.p. alla
persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, nonché ai loro rispettivi difensori. Tali
soggetti, avuta conoscenza dell’instaurazione di un procedimento possono chiedergli di
trasmettere gli atti al pm presso il giudice da essi ritenuto competente, enunciando, a pena
inammissibilità, le ragioni a sostegno della pretesa. Se il pm procedente accoglie la richiesta, entro
10 giorni trasmette gli atti all’omologo ufficio presso il giudice ritenuto competente; in caso
contrario, o se comunque omette di adottare un provvedimento nei 10 giorni, il richiedente, entro
i 10 giorni successivi, può avanzare istanza al procuratore generale presso la Corte d’appello o,
qualora il giudice ritenuto competente appartenga a un diverso distretto, al procuratore generale
presso la Corte di cassazione, affinché determinino, con decreto motivato ed entro 20 giorni dal
deposito della richiesta, quale ufficio del pm dovrà procedere.
La reiterazione di una richiesta precedentemente rigettata è inammissibile, tranne che non sia
fondata su fatti nuovi e diversi.
Attraverso l’instaurazione del meccanismo di controllo appena descritto, il legislatore ha inteso
riaffermare una stretta correlazione tra attribuzioni istituzionali del magistrato del pm e
competenza del giudice, impedendo al primo di spaziare nelle sue investigazioni svincolato da
qualsiasi collegamento con il giudice che, in casi di esercizio dell’azione penale, sarà competente
per la decisione.
In ordine agli atti posti in essere dal pm al di fuori della propria sfera di attribuzioni, il codice
dispone che essi possono essere utilizzati nei casi e nei modi previsti dalla legge. Il riferimento ai
soli atti dell’indagine preliminare si giustifica per il fatto che soltanto in questo momento, in cui
agisce da dominus il pm, possono sorgere problemi di titolarità riconducibili a tale organo, mentre
nei momenti successivi ogni situazione di quel genere andrebbe a confluire in valutazioni
riguardanti la competenza dell’organo giurisdizionale. Gli atti in questione conservano validità nei
casi previsti dalla legge: la precisazione normativa fonda una regola generale di inefficacia dell’atto
posto in essere dal pm al di fuori delle proprie attribuzioni, sotto il profilo della mancanza di
legittimazione del soggetto che lo crea, tranne che la legge non ne permetta l’utilizzabilità.
Se l’atto compiuto dal pm privo di legittimazione può essere ripetuto esso dovrà considerarsi
inefficace.

5.(Segue): contrasti tra uffici del pubblico ministero.

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Anche in capo agli uffici del pm possono crearsi situazioni di contrasto riguardanti le loro
attribuzioni. Ciò si verifica, anzitutto, quando un pm, ritenendo che il reato appartenga alla
cognizione di un giudice diverso da quello presso cui egli esercita le sue funzioni, investa delle
indagini preliminari l’ufficio del pm presso il giudice considerato competente. Se quest’ufficio
aderisce, nulla quaestio: condurrà le indagini; se, invece, a sua volta, ritiene che debba procedere
il primo, entrando in contrasto negativo con esso, informa il procuratore generale presso la Corte
di cassazione, qualora appartengono a distretti diversi. Esaminati gli atti, il procuratore generale
determinerà quale ufficio dovrà svolgere le indagini. Analoga disciplina vale per qualsiasi altra
ipotesi di contrasto negativo tra i pm.
Può anche verificarsi, che un magistrato del pm il quale stia procedendo per un determinato fatto
nei confronti di una determinata persona riceva notizia che presso un diverso ufficio sono in corso
indagini preliminari a carico della stessa persona per il medesimo fatto. Se ritiene che la
competenza sia dell’organo giurisdizionale presso il quale egli esercita le proprie funzioni, richiede
senza ritardo al pm dell’altro ufficio la trasmissione degli atti. Se questi accondiscenderà,
ovviamente non sorgerà alcun problema: il procedimento verrà trasferito e proseguirà presso
l’ufficio che ha avanzato la richiesta; se riterrà di dover dissentire, dando vita per ciò stesso a un
contrasto positivo con quell’ufficio, informerà il procuratore generale presso la corte d’appello o il
procuratore generale presso la Corte di cassazione, a seconda che gli uffici in contrasto
appartengano allo stesso distretti o a distretti diversi. Assunte le necessarie informazioni, il
procuratore generale determinerà, con decreto motivato e applicando le regole sulla competenza
del giudice, quale ufficio del pm dovrà procedere, salva restando l’utilizzabilità degli atti
di’indagine compiuti da diversi uffici.
La disciplina dei contrasti tra pm riguarda uffici diversi; le divergenze che dovessero insorgere
all’interno di uno stesso ufficio verrebbero risolti dal titolare nell’ambito dei suoi normali compiti
di organizzazione delle attività dell’ufficio stesso.

6.”Vigilanza”,“avocazione”e “delegazione” nei rapporti tra i diversi uffici del pubblico ministero.
Le regole che disciplinano la sfera di attribuzioni degli uffici del pm subiscono l’incidenza dei
particolari nessi di natura interorganica che legano i predetti uffici, e che sono contrassegnati da
una struttura gerarchica in linea verticale. In quest’ottica si spiegano i rapporti tra i veri uffici del
pm, caratterizzati da un:
- potere di vigilanza: attribuito al pm di grado superiore sugli uffici del pm di grado inferiore
dall’art. 6 d.lgs. 106/2006, il quale stabilisce che “il procuratore generale presso la corte d’appello,
al fine di verificare il corretto e uniforme esercizio dell’azione penale e il rispetto delle norme sul
giusto processo, nonché il puntale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di
direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti, acquisisce dati e notizie
dalle procure della Repubblica del distretto e invia al procuratore generale presso la Corte di
cassazione una relazione almeno annuale”.
- potere di avocazione: consente al pm di grado superiore di far proprie le attribuzioni
normalmente demandate all’ufficio del pm di grado inferiore per il compimento di una
determinata attività.
° Avocazione si può avere anche quando il titolare dell’ufficio abbia omesso di provvedere alla
sostituzione, nei casi stabiliti dalla legge, di un magistrati del pm in corso di udienza: il procuratore
generale presso la corte d’appello avocherà il procedimento, designando per l’udienza un
magistrato del proprio ufficio.

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Un potere di avocare le indagini preliminare quando riguardano reati di criminalità organizzata è
riconosciuto al procuratore nazionale antimafia, che lo esercita nel caso in cui non sia stato
possibile promuovere o rendere effettivo il coordinamento tra i procuratori distrettuali interessati:
disposta l’avocazione, il procuratore nazionale procederà al compimento delle attività investigative
personalmente o tramite un magistrato della direzione nazionale antimafia da lui all’uopo
designato.
Il procuratore generale presso la corte d’appello o il procuratore nazionale antimafia dispongono
l’avocazione, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto motivato che in copia deve essere trasmesso
ai procuratori della Repubblica interessati i quali entro 10 giorni dalla ricezione, possono
presentare reclamo al procuratore generale presso la Corte di cassazione; questi, se lo accoglie,
revoca il procedimento di avocazione e ordina la restituzione degli atti.
-potere di delegazione: si configura quando un ufficio del pm trasferisce la potestà di esercitare
determinate funzioni che gli appartengono a un altro ufficio del pm, per il compimento di una
specifica attività. Tipico esempio, si riscontra quando il procuratore generale presso la corte
d’appello, qualora lo reputi opportuno, disponga che al processo in sede di impugnazione
partecipi, quale suo sostituto”, il rappresentante del pm che ha presentato le conclusioni nel
dibattimento in primo grado. Questi, nei limiti della deroga, compie l’attività come se fosse sua
propria, salvo il potere di revoca che l’organo delegante può esercitarne in qualunque momento,
solo che consideri cessata l’opportunità di mantenere il rapporto sostitutivo: la delega, infatti, non
comporta per il soggetto che l’ha concessa, perdita delle sue originarie competenze.
° Delegazione può aversi anche, al di fuori della struttura gerarchicamente organizzata, tra uffici
del pm di pari grado. Ciò si verifica quando, per singoli atti da assumere nella circoscrizione di altro
tribunale, il pm cui spetterebbe il compimento dell’atto, ove non ritenga di procedere
personalmente, deleghi il pm presso il tribunale del luogo.

7.L’unità e l’impersonalità dell’ufficio del pubblico ministero.


Unità e impersonalità contraddistinguono l’ufficio del pm. Il principio va inteso limitatamente a
ogni singolo ufficio del pm. In questa dimensione, l’unità e l’impersonalità si risolvono nel fatto che
tutti i magistrati appartenenti a un certo ufficio del pm costituiscono un ufficio unico e possono
essere investiti delle stesse attribuzioni in relazione a ciascun affare penale. Ne consegue che il
titolare dell’ufficio può esercitare personalmente i compiti di pm così come può delegare altri
magistrati addetti all’ufficio stesso. La delega può riguardare la “cura di specifici settori d’affari,
individuati con riguardo ad aree omogenee di procedimenti ovvero ad ambiti di attività dell’ufficio
che necessitano di uniforme indirizzo” e nell’attribuzione di essa il titolare può stabilire, in via
generale o con singoli atti, i criteri ai quali i magistrati dell’ufficio devono attenersi.
Il capo può delegare l’esercizio dell’azione penale a uno o può magistrati dell’ufficio, e la delega
può riguardare sia la trattazione di uno o più procedimenti, sia il compimento di singoli atti di essi.
Anche in questo caso, con l’atto di delega si possono stabilire i criteri ai quali deve attenersi il
delegato; nel caso in cui quest’ultimo non vi si adegui, o laddove non osservi i principi e i criteri
definitivi in via generale, o ancora nell’eventualità che tra il delegato e il titolare dell’ufficio insorga
un contrasto circa le modalità di esecuzione della delega, questa può essere revocata, con un
provvedimento motivato di fronte al quale il delegato può far valere, entro 10 giorni, le proprie
ragioni presentando osservazioni scritte al procuratore della Repubblica.
Al di là delle ipotesi di revoca, il titolare dell’ufficio può sostituirsi in qualsiasi momento ai
magistrati delegati così come può sostituire un magistrato dell’ufficio con un altro nel corso del
medesimo procedimento.

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° Ipotesi di sostituzione si ha quando un magistrato del pubblico ministero proponga dichiarazione
di astensione. Il pm ha la facoltà di astenersi dal procedimento quando esistano “gravi ragioni di
convenienza”, ex art. 52 comma 1 c.p.p. La norma non le specifica, ma è logico pensare che i criteri
per la valutazione di tali “ragioni” non debbano essere dissimili da quelle che danno luogo
all’estensione del giudice; in ogni caso, dovrà trattarsi di circostanze che possano incidere sulla
funzione del pm, sì da metterne in discussione la serenità, in considerazione di quel potere- dovere
che egli ha di svolgere accertamenti favorevoli alla persona sottoposta alle indagini.
Se a volersi astenere è uno dei magistrati dell’ufficio, sulla relativa dichiarazione deciderà il titolare
dell’ufficio stesso; se, invece, è proprio il titolare, a decidere sarà il titolare dell’ufficio superiore.
Accolta la dichiarazione di astensione, il magistrato astenuto viene sostituito con un altro
magistrato appartenente al medesimo ufficio.
Se l’astensione riguarda il titolare, questi può essere sostituito con un magistrato del pm
appartenente a un ufficio che sia egualmente competente per materia ma che abbia sede nel
capoluogo del distretto di corte d’appello determinato a norma dell’art. 11 c.p.p., e, dunque, con
un magistrato appartenente a un ufficio del pm costituito presso un giudice territorialmente
diverso da quello cui è affidata la cognitio causae: una necessaria deroga alla regola secondo la
quale le funzioni di pm vengono esercitate dagli uffici istituti presso i giudici competenti.
° Sostituzione può aversi anche quando, per grave impedimento personale, per rilevanti necessità
di servizio o per motivi di opportunità legati alla posizione personale del magistrato non è possibile
o non è conveniente che egli eserciti le attività di pubblico ministero nel corso dell’udienza: ossia,
nel momento più delicato del processo, laddove più intensa deve essere l’autonomia del pm. Il
relativo provvedimento, che elimina una situazione d incompatibilità del magistrato con
l’espletamento delle funzioni, viene adottato dal dirigente dell’ufficio nell’esercizio di un potere-
dovere che appare chiaramente sorretto dall’esigenza di garantire oltre, che la corretta
funzionalità e l’efficienza dell’ufficio stesso, l’obiettività del magistrato d’udienza.
° La sostituzione è prevista anche nel procedimento per le indagini preliminari, quando ricorrono
gli stessi motivi di opportunità, dipendenti dalla posizione personale del magistrato, che
impongono la sostituzione nel corso dell’udienza. Il dirigente può ravvisare la necessità di
sostituire un magistrato del pm anche indipendentemente dall’esistenza di alcuna delle cause
sopra accennate, ma la legittimità di una decisione in tal senso è condizionata da un’adesiva
volontà dell’interessato.

Capitolo quarto
LA POLIZIA GIUDIZIARIA

1.Ruolo e funzioni della polizia giudiziaria.


La polizia giudiziaria nel vigente codice di procedura penale si colloca tra i “soggetti”, assumendo,
così, una posizione istituzionale che implica una chiara differenziazione dei suoi organi dal pm e,
dall’altro, presuppone l’inequivoca attribuzione ai medesimo organi di funzioni autonome.
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Funzioni analoghe a quelle assegnate al pm e non di certo fine a sé stesse, ma preordinate a
rendere possibile l’esercizio di un potestà “principale” riconosciuta a quell’organo: il
promovimento dell’azione penale. Pertanto, la polizia giudiziaria si specifica come soggetto con
funzioni propriamente complementari rispetto a quelle che svolge il pm.
La polizia giudiziaria oggi assume importanza basilare, nel momento in cui “allunga e moltiplica le
braccia del pm”.
Un ruolo che emerge con nitidezza in due moment- chiave dell’intero sistema processuale
contraddistinti dalle attività parallele del pm e della polizia giudiziaria: quando “il pm e la polizia
giudiziaria prendono o ricevono le notizie di reato” e, immediatamente dopo, quando, in vista di
una identica finalità, “il pm e la polizia giudiziaria svolgono le indagini necessarie per le
determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale”. La polizia giudiziaria è coinvolta in modo
diretto, sebbene strumentale, nell’esercizio della funzione sancita dall’art. 112 Cost., anche se ciò
non intacca la titolarità del pm e la consequenziale attribuzione di un potere direttivo sulla polizia
giudiziaria medesima. Un potere che nulla toglie all’autonomia di cui essa gode nell’espletamento
dei propri compiti, se vero è che pur successivamente alla comunicazione della notizia di reato (al
pm) la polizia giudiziaria continua a svolgere le proprie funzioni e che pur dopo l’ intervento del
pm, la polizia giudiziaria svolge di propria iniziativa tutte le attività di indagine per accertare i reati.
- I compiti demandati alla polizia giudiziaria come “soggetto” delle indagini consistono:
° nel provvedere, anche di propria iniziativa, a prendere notizia dei reati;
° impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori;
° ricercarne gli autori;
° raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale;
° svolgere ogni indagine e attività disposta o delegata dall’autorità giudiziaria.
-Accanto a queste, che sono le attribuzioni tipiche degli organi di polizia giudiziaria, altre se ne
possono individuare a carattere genericamente coadiutorio:
° assistere agli atti del pm curandone la documentazione;
° eseguire talora le notificazioni.
Al mancato o non puntuale adempimento dei compiti connessi all’esercizio delle funzioni di polizia
giudiziaria conseguono sanzioni disciplinari.
Distinta dall’attività della polizia giudiziaria deve tenersi l’attività della polizia di sicurezza che
interviene ante delictum, e quindi in funzione preventiva, attraverso operazioni di vigilanza che
hanno lo scopo di impedire possibili violazioni dell’ordine giuridico.

2.Gli organi della polizia giudiziaria e i soggetti che svolgono funzioni di polizia giudiziaria.
L’ordinamento opera una distinzione tra:
UFFICIALI DI POLIZIA GIUDIZIARIA
- gli appartenenti ai seguenti ruoli e qualifiche del personale della polizia di Stato: ruolo dei
dirigenti, con esclusione dei primi dirigenti che assolvono alla funzione di vice questore vicario;
ruolo dei commissari; ruolo degli ispettori; ruolo dei sovraintendenti; ruolo degli assistenti,
limitatamente alla sola qualifica di assistente capo;
- gli ufficiali superiori e inferiori, gli appartenenti al ruolo dei sovraintendenti e degli ispettori dei
carabinieri e della guardi di finanza, ai quali vanno aggiunti gli appuntati dei carabinieri
limitatamente al periodo in cui assumono il comando effettivo di una stazione e gli appuntati scelti
dei carabinieri e della guardi di finanza con un anno di anzianità nel grado e che abbiano superato
un corso di qualificazione di durata non inferiore a trenta giorni;
- gli appartenenti al ruolo dei sovraintendenti e degli ispettori del corpo di polizia penitenziaria;

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-gli ufficiali e gli appartenenti al ruolo dei sovraintendenti e degli ispettori del corpo forestale dello
Stato;
- il sindaco nei comuni dove non abbia sede un ufficio della polizia di Stato ovvero un comando dei
carabinieri o della guardia di finanza.
AGENTI DI POLIZIA GIUDIZIARIA
- gli appartenenti al ruolo degli agenti e degli assistenti della polizia di Stato, eccezioni fatta per la
qualifica di assistente capo;
- gli appartenenti al ruolo di appuntati e carabinieri dell’Arma dei carabinieri;
- gli appartenenti al ruolo di appuntati e finanzieri del Corpo della guardia di finanza;
- gli appartenenti al ruolo degli agenti e degli assistenti del corpo di polizia penitenziaria;
- gli appartenenti al ruolo degli agenti e degli assistenti del Corpo forestale dello Stato;
- le guardie delle province e dei comuni, quando siano in servizio e limitatamente all’ambito
territoriale dell’ente di appartenenza.
Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria si possono distinguere in due categorie.
Nella prima rientrano i soggetti destinati a funzioni di polizia giudiziaria stabilmente, con poteri di
intervento attribuiti in via generale ed estesi a qualsiasi reato, in qualsiasi luogo e in qualsiasi
momento.
L’altra è composta di soggetti con funzioni di polizia giudiziaria limitate, forniti di poteri di
intervento, ancorché riferibili a qualsiasi reato, temporalmente o localmente circoscritti o legati
all’espletamento degli incarichi istituzionali.
Oltre alle due sopra indicate la legge configura una terza categoria di soggetti, ai quali vengono
attribuite funzioni di polizia giudiziaria unicamente nei limiti del servizio a cui sono destinati e in
relazione non già a qualsiasi reato, sebbene ad alcune determinate specie di reati. È una classe
composta di pubblici ufficiali, incaricati di pubblico servizio, impiegati in genere, i quali sotto gli
aspetti più diversi, partecipano ad assicurare la tutela di pubblici interessi. A titolo esemplificativo,
si possono ricordare: i comandanti, i funzionari, gli ufficiali, i direttori, gli agenti degli uffici di porto
e aeroporto, limitatamente a determinati reati e a determinate circostanze previsti dal codice di
navigazione; il personale direttivo, i sottoufficiali, i vigili del corpo nazionale dei vigili del fuoco
quando rilevino reati che abbiano attinenza con i loro settori di intervento.
La distinzione in ufficiali e agenti di polizia giudiziaria assume rilevanza sul piano processuale
quando il compimento, nel corso delle indagini preliminari, di determinate attività, solitamente di
particolare delicatezza, venga riservato soltanto agli ufficiali: ad esempio, la ricezione della querela
e della remissione di essa.

3.I rapporti tra polizia giudiziaria e magistratura.


Al quadro delle interconnessioni che improntano organi di polizia giudiziaria e magistratura fa da
puntuale sottofondo il principio posto dall’art. 109 Cost.: “l’autorità giudiziaria dispone
direttamente della polizia giudiziaria”.
Si può osservare che il complesso delle relazioni che si instaurano tra polizia giudiziaria e autorità
giudiziaria si presta a essere analizzata sia con riferimento alla struttura degli uffici di polizia
giudiziaria e al loro collegamento con gli organi dell’autorità giudiziaria, sia con riferimento alle
attività che essi compiono in seno al procedimento penale ( questo secondo profilo riguarda gli atti
di indagine preliminare).
Per ciò che concerne il primo aspetto, va detto subito che anche l’attuale normativa
processualpenalistica rimane fortemente condizionata da tutte quelle remore sempre manifestate
anche quando si è parlato di creare un autonomo corpo di polizia giudiziaria posto alle esclusive

51
dipendenze della magistratura. E così, preoccupazione del legislatore è stata quella di cercare di
soddisfare l’esigenza di una dipendenza funzionale la più effettiva possibile della polizia giudiziaria,
ma di escludere categoricamente qualsiasi forma di subordinazione gerarchica.
In questa logica di potenziamento del rapporto funzionale tra i due organismi si sviluppano le
scelte del codice, che configura tre strutture nelle quali sono inseriti i soggetti a cui vengono
attribuiti compiti di polizia giudiziaria:
A)Servizi di polizia giudiziaria. Comprendono “tutti gli uffici e le unità ai quali è affidato dalle
rispettive amministrazioni o dagli organismi previsti dalla legge il compito di svolgere in via
prioritaria e continuativa le funzioni” assegnate dal codice alla polizia giudiziaria. Il riferimento
attiene, in particolare, ai servizi oggi attivati presso le questure, i comandi dei carabinieri, i
comandi della guardia di finanza.
B)Sezioni di polizia giudiziaria istituite presso ogni procura della Repubblica e composte con
personale dei servizi di polizia giudiziaria. La loro struttura prevede soggetti appartenenti alla
polizia di Stato, all’arma dei carabinieri e alla guardia di finanza, che potranno essere affiancati da
personale di polizia giudiziaria appartenente ad altri enti, su richiesta dell’autorità giudiziaria, ove
si presentino particolari esigenze di specializzazione nell’attività di indagine.
C)Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria appartenenti agli altri organi cui la legge fa obbligo
di compiere indagini a seguito di una notizia di reato. Il richiamo investe tutte le persone,
dipendenti da enti pubblici o privati, incaricate di ricercare e di investigare su determinate specie
di reati.
L’ufficio del pm impartisce, di volta in volta, le opportune direttive per l’effettivo coordinamento
investigativo e operativo tra i doversi organismi di polizia.
Circa i rapporti che legano le strutture in cui si articolano gli uffici di polizia giudiziaria, l’ art. 59
c.p.p. disciplina una situazione di subordinazione variamente configurata, a seconda che si tratti
delle sezioni dei servizi di polizia.
Per le sezioni, essendo stabilite che esse dipendono dai magistrati che dirigono gli uffici presso i
quali sono istituite, il vincolo si presenta con particolare accentuazione; per i servizi appare più
attenuato, dal momento che si ipotizza non già una dipendenza del servizio nel suo complesso, ma
soltanto una responsabilità dell’ufficiale preposto ai servizi nei confronti del procuratore della
Repubblica.
Due fondamentali regole vanno tenute in questo discorso.
La prima regola fissa i criteri di disponibilità della polizia giudiziaria da parte dell’autorità
giudiziaria, stabilendo che ogni ufficio della procura della Repubblica dispone della rispettiva
sezione, mentre l’ufficio della procura generale dispone di tutte le sezioni operanti nel distretto di
corte d’appello. È prevista, inoltre, la disponibilità anche da parte dei giudici i quali avvarranno
delle sezioni di polizia giudiziaria istituite presso i corrispondenti uffici della procura.
La seconda regola sottolinea che “le funzioni di polizia sono svolte alla dipendenza e sotto la
direzione dell’autorità giudiziaria” e trova il suo logico completamento nel disposto secondo cui
“gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria sono tenuti a eseguire i compiti a essi affidati”. Una
duplice finalità intende realizzare il legislatore riaffermando che le funzioni di polizia giudiziaria
vengono svolte “alla dipendenza” e sotto “la direzione” dell’autorità giudiziaria: anzitutto, ribadire
il concetto che nell’esercizio dell’attività di investigazione gli uffici di polizia sono soggetti soltanto
ed esclusivamente al potere giudiziario, sicché le prescrizioni che a questo competono non
possono incontrare alcun ostacolo in eventuali proibizioni o imposizioni avversative provenienti
dagli organismi amministrativi ai quali gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria gerarchicamente
siano legati. Al tempo stesso, chiarisce quello che sarà un dato costante dell’attività di polizia nelle

52
sue previsioni: la necessità di operare pressoché esclusivamente seguendo le direttive dettare
dall’autorità giudiziaria.

Capitolo quinto
GLI AUSILIARI DEL GIUDICE, DEL PUBBLICO MINISTERO E DELLA POLIZIA
GIUDIZIARIA

1.Generalità
Ad affiancare il giudice e il pm nell’espletamento dei loro uffici l’ordinamento pone alcuni soggetti,
ai quali demanda l’esercizio di funzioni giudiziarie a carattere coadiutorio, che vengono
usualmente designati come “ausiliari”. Connotazione tipica dei soggetti ausiliari è il loro delinearsi
come strutture istituzionali dell’apparato giudiziario. Pertanto, impropriamente si attribuisce la
qualifica di “ausiliari” anche a quelle persone alle quali vengono talora affidate mansioni
strumentali, il più delle volte di carattere tecnico, al fine di assumere e utilizzare in processo i
risultati delle operazioni compiute nell’esplicazione di esse.

2.L’ausiliare del giudice e i suoi compiti.


Molteplici sono le attività demandate al soggetto ausiliare del giudice, tradizionalmente designato
come cancelliere: la più importante è quella di assistenza a tutti gli atti dal giudice posti in essere,
tranne che non venga dalla legge prescritto espressamente il contrario. Consequenziale al compito
di assistenza è quello di documentazione delle attività alle quali il giudice procede, attraverso la
compilazione del processo verbale. Connessa alle attribuzioni è la funzione autenticatrice dei
provvedimenti emessi dal giudice. Tra le altre attività si possono ricordare, la ricezione di atti
processuale, il rilascio di copie, la comunicazione degli atti del giudice all’ufficio del pm, la custodia
degli atti processuali e delle cose poste sotto sequestro, ecc..

3.L’ausiliare del pubblico ministero e i suoi compiti.


Funzioni analoghe a quelle affidate all’ausiliare del giudice vengono svolte dal soggetto ausiliario
istituito presso l’ufficio del pm, solitamente definito come segretario. In particolare, egli assiste il
pm e redige processo verbale degli atti da questo compiuti; autentica i provvedimenti del pm.
Rilevano anche, la comunicazione di atti del pm e la ricezione di atti a esso destinati, nonché la
custodia di documenti o di cose sequestrate.

4.Ufficiale giudiziario e i suoi compiti.


Altra figura di soggetto ausiliario è ravvisabile nell’ufficiale giudiziario. La sua funzione preminente
è quella di eseguire le notificazioni, attività tramite la quale viene portato a conoscenza di una
persona un atto del procedimenti. L’ordine di notificazione può avvenire sia dal giudice che dal
pm, l’ufficiale giudiziario si presenta come soggetto ausiliario tanto dell’uno quanto dell’altro.
L’ufficiale giudiziario agisce sempre nell’ambito di una propria sfera di autonomia nei confronti
dell’autorità per ordine della quale procede alla notificazione e che la sua attività non riveste
soltanto carattere materiale. Egli è tenuto a certificare la conformità delle copie da lui stesso

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formate all’originale dell’atto da notificare; a procedere alla scelta delle modalità prescritte dalla
legge, osservando la successione dei luoghi e delle persone a cui l’atto deve essere notificato; a
compilare avvisi come importante attività di documentazione, a redigere la c.d. relazione di
notifica, atto rilevante ai fini della prova dell’attività compiuta per eseguire la notificazione e
dell’effettivo controllo sulla regolarità di essa.
Importante anche l’attività che l’ufficiale giudiziario esplica nel servizio del’udienza. In particolare,
egli deve impedire qualsiasi comunicazione tra i testimoni esaminati e tra quelli ancora da
esaminare e tra le persone estranee e i testimoni durante il dibattimento; vigilare affinché i
testimoni non assistano al dibattimento prima di essere stati esaminati; curare l’osservanza delle
disposizioni riguardanti l’accesso del pm nella sala dell’udienza; impedire che l’ordine dell’udienza
venga turbato; eseguire gli ordine del presidente del collegio e, in sua assenza, del pm.

5.I c.d. ausiliari della polizia giudiziaria.


Art. 348 comma 4 c.p.p.: “la polizia giudiziaria, quando, di propria iniziativa o a seguito di delega
del pm, compie atti o operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, può avvalersi di
persone idonee”.
La legge processuale non detta regole per la scelta delle persone chiamate a coadiuvare la polizia
giudiziaria; pertanto, l’unico criterio cui si possa ragionevolmente far capo sembra essere quello
della riconosciuta “idoneità” in relazione alle specifiche competenze tecniche che le esigenze del
caso postulano. In quanto investito di un pubblico ufficio, chi sia stato richiesto da un organo della
polizia giudiziaria di prestare attività coadiutoria non può sottrarvisi, e un eventuale rifiuto non
sorretto da giustificati motivi sarebbe punibile a norma dell’art. 328 c.p.

Capitolo sesto
L’IMPUTATO E LA PERSONA SOTTOPOSTA ALLE INDAGINI

1.Generalità.
Quando si parla dell’imputato si vuole sottolineare, in primo luogo, la sua qualità do soggetto
fondamentale, anzi di soggetto “veramente caratterizzatore del processo penale”, dal momento
che l’emanazione di una sentenza e la realizzazione del fenomeno della cosa giudicata, che
rappresentano i momenti tipici della vicenda processuale, non possono mai prescindere dalla
figura dell’imputato. In seno al processo l’imputato si delinea come “parte”: una posizione che
compete ‘naturalmente’ a chi abbia interesse a difendersi da un’accusa, prospettando
contemporaneamente la propria rappresentazione del fatto al giudice chiamato a pronunciare una
decisione nei suoi confronti.

2.L’assunzione della qualità di imputato.


Art. 60 comma 1 c.p.p. precisa che assume la qualità di imputato la persona a cui viene attribuito il
reato in una serie di atti tipici del pm: richiesta di rinvio a giudizio, richiesta di giudizio immediato,
richiesta di decreto di condanna, richiesta di applicazione di pena ex art. 447 comma 1 (c.d.
patteggiamento), decreto di citazione a giudizio avanti al giudice monocratico, presentazione o
citazione per il giudizio direttissimo. Sono i medesimi atti per mezzo dei quali, a norma dell’art.
405 comma 1 c.p.p., il pm esercita l’azione penale. La norma precisa che “il pm esercita l’azione
penale, formulando l’imputazione”. In sostanza, si può dire che si ha assunzione della qualità di
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imputato nel momento in cui il pm promuove l’azione penale, procedendo alla formulazione di
una “imputazione”, ossia di un addebito in uno di quegli atti tipici destinati a provocare
l’intervento inevitabile dell’organo giurisdizionale in funzione decisoria. Prima di quel momento
qualsiasi attribuzione di reato a una determinata persona non basta a farle assumere la qualità di
imputato.

3.Presupposti per l’assunzione della qualità di imputato: a) l’individuazione e l’identificazione


del soggetto.
INDIVIDUAZIONE. Primo presupposto affinché un soggetto possa assumere la qualità di imputato.
Per individuazione di intende “la enucleazione della persona alla quale viene attribuito il reato
dalla moltitudine indifferenziata”. L’ipotesi normale è che o attraverso gli elementi contenuti nella
notizia di reato o in sede di indagini preliminari si giunga all’individuazione del soggetto.
È frequente che la persona alla quale dovrebbe attribuirsi il reato non si riesca a individuare: si
determina, a questo punto, la situazione del “reato commesso da ignoti”. L’art. 415 comma 1
c.p.p. dispone: “quando è ignoto l’autore del reato, il pm, entro sei mesi dalla data della
registrazione della notizia di reato, presenta al giudice richiesta di archiviazione o di
autorizzazione a proseguire le indagini”. Dunque, la legge processuale consente che nel
procedimento per un reato commesso da persone ignote, le indagini preliminari abbiano un
termine massimo di sei mesi dalla data in cui è stata iscritta la notitia criminis. Trascorso tale
termine il pm dovrà richiedere l’archiviazione, nel caso in cui ritenga che quel soggetto non sia più
individuabile, o una proroga del termine per proseguire le indagini, ove pensi che la possibilità di
individuarlo sussista ancora.
IDENTIFICAZIONE. Individuato fisicamente il soggetto nei cui confronti operare l’imputazione del
fatto costituente reato, si pone l’esigenza che lo si individui anche anagraficamente.
L’identificazione avviene attraverso le generalità che l’imputato è tenuto a dichiarare all’autorità
giudiziaria sin dal primo atto in cui egli è presente.
Può accadete che l’identificazione non sia facile a ottenersi o perché la persona stessa non sia in
grado di fornire le proprie generalità o perché si rifiuti di farlo. Il codice stabilisce al riguardo che
“l’impossibilità di attribuire all’imputato le sue esatte generalità non pregiudica il compimento di
alcun atto da parte dell’autorità procedente”. Evidentemente, si fa affidamento sulla circostanza
che all’identificazione si pervenga per una qualsiasi altra via, nel corso del procedimento. Il tutto a
condizione che la persona sia stata fisicamente individuata: in caso contrario ogni attività di
indagine va sospesa in quanto, insuscettibile di soggettivarsi nei confronti di persona ignota,
sfuggirebbe alla possibilità che sia garantito il rispetto di eventuali esigenze difensive.
Può verificarsi, ancora, che erronee generalità siano state attribuite al vero imputato: si rimedierà
col tipico rito, in camera di consiglio, della correzione degli errori meramente materiali,
effettuando la rettificazione pura e semplice della generalità.
Un’altra eventualità è che nel corso del processo sorga dubbio sull’identità fisica della persona
contro la quale si sta procedendo, cioè che la persona identificata sia diversa dalla persona
individuata. In tal caso se risulta l’errore di persona, in ogni stato e grado del processo il giudice,
sentiti il pm e il difensore, pronuncia sentenza di non luogo a procedere nei confronti
dell’imputato. Si tratta di un proscioglimento a contenuto processuale, in quanto non fondato su
un accertamento che abbia valutato un determinato comportamento in termini di liceità o illiceità
penale: un proscioglimento perché l’azione penale non può essere proseguita in quanto promossa
contro la persona.

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Art. 67 c.p.p. configura l’ipotesi disponendo che “in ogni stato e grado del procedimento, quando
vi è ragione di ritenere che l’imputato sia minorenne, l’autorità giudiziaria trasmette gli atti al
procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni”. Siamo di fronte, a una norma
che, oltre ad attribuire al tribunale per i minori la competenza esclusiva a determinare, con le
forme prescritte per il rito minorile, assolve anche la funzione di impedire che l’imputato possa
essere assoggettato a trattamenti traumatizzanti, quali, ad esempio, la custodia in carcere insieme
con detenuti maggiorenni. Naturalmente, se in seguito agli accertamenti compiuti l’imputato
risultasse maggiorenne, gli atti verrebbero trasmessi all’autorità giudiziaria comune.
Art. 69 comma 1 c.p.p. stabilisce che “se risulta la morte dell’imputato, in ogni stato e grado del
processo, il giudice, sentiti il pm e il difensore, pronuncia sentenza a norma dell’art. 129”; a sua
volta l’art. 129 c.p.p. dispone che “in ogni stato e grado del processo il giudice il quale ritiene che il
reato è estinto, lo dichiara d’ufficio con sentenza”. La morte del reo prima della condanna
estingue il reato. Il comma 2 dell’art. 129 c.p.p. aggiunge che “quando ricorre una causa di
estinzione del reato, ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non
l’ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è prevista dalla legge come reato, il
giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta”.
Istintivamente si potrebbe esser portati a ritenere che la morte dell’imputato elimina il soggetto
del rapporto giuridico contro il qual vien fatta valere la pretesa punitiva dello Stato, pertanto la
causa di improcedibilità per morte del reo deve essere applicata con la prevalenza su ogni altra
formula di proscioglimento o di assoluzione proprio per il venir meno del rapporto processuale
penale. Razionalmente, però, non si può non riconoscere che la declaratoria di non colpevolezza
dell’imputato pronunciata pur quando questi sia già deceduto, oltre che obbedire a una
fondamentale logica di giustizia, realizza non trascurabili interessi di natura civilistica facendi capo
a eventuali eredi del defunto.
L’art. 69 c.p.p. richiamando in toto l’art. 129, accoglie la soluzione razionale. Dunque, se pur
ricorrendo la causa estintiva del reato “morte dell’imputato”, dagli atti risulti evidente che il fatto
non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, che non costituisce reato, che non è previsto
dalla legge come reato, il giudice è tenuto a pronunciare sentenza assolutoria applicando la
formula opportuna.
Se, successivamente alla dichiarazione di morte, si riscontra che essa è stata pronunciata
erroneamente, essendo l’imputato ancora in vita, l’eventuale sentenza che abbia pronunciato
l’estinzione del reato è tamquam non esset e si provvederà a promuovere a nuova azione penale
per il medesimo fatto e contro la medesima persona.

4.(Segue): b) la legittimazione del soggetto.


Altro presupposto affinché un soggetto possa validamente assumere la qualità di imputato è che
ne abbia la legittimazione, vale a dire che abbia l’idoneità a essere parte del processo, idoneità
che in linea generale viene riconosciuta a tutti i soggetti.
In via eccezionale alcuni soggetti sono privi di idoneità ad assumere la veste d’imputato, in virtù di
una particolare situazione determinativa di uno stato di c.d. immunità. Tale mancanza di
legittimazione può essere assoluta o relativa, a seconda che operi con riferimento a qualsiasi
possibile imputazione nei confronti di certe persone e in funzione di un loro peculiare status,
ovvero con riferimento a specifiche imputazioni strettamente connesse a determinate ipotesi di
condotta penalmente illecita riconducibile alla situazione da cui nasce l’immunità.
Soggetti assolutamente privi della legittimazione sono il Pontefice, i capi di Stati esteri e le
persone del seguito, gli agenti diplomatici stranieri accreditati presso lo Stato italiano e presso la S.

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Sede, i diplomatici e gli inviati della S. Sede e i dignitari della Chiesa in transito verso la Città del
Vaticano, i militari della N.A.T.O di stanza in Italia.
Soggetti privi della legittimazione relativamente a specifiche imputazioni sono i membri del
Parlamento, i consiglieri regionali, i giudici della Corte costituzionale, i componenti del CSM;
costoro non possono esser perseguiti limitatamente ai reati commessi in occasione di opinioni
espresse o di voti dati nell’esercizio delle funzioni che esercitano.
Carenza di legittimità assoluta di legittimazione ad assumere la qualità di imputato si può
sen’altro ritenere che essa si risolve in una esenzione dalla giurisdizione penale, nel senso che il
giudice non potrà mai valutare alcun comportamento del soggetto non legittimato, al fine di
accertarne l’eventuale liceità o illiceità.
Carenza relativa si traduce in un’esenzione parziale della giurisdizione cioè limitata soltanto ai
reati per i quali non è possibile formulare imputazione nei confronti del soggetto. Ciò, però, non
impedisce che l’autorità giudiziaria possa o debba instaurare un regolare processo quanto meno
per verificare se il fatto di cui a quel soggetto si fa carico integri realmente il reato per il quale
viene esclusa la perseguibilità o non ne configuri, uno diverso, legittimamente perseguibile: la qual
cosa non significa vera e propria esenzione dalla giurisdizione.

5.La capacità processuale dell’imputato.


Distinta dalla legittimazione è la capacità processuale dell’imputato, vale a dire l’attitudine a
esercitare, in seno al processo, tutti i poteri connessi a questa qualità. Una volta assunta la veste
d’imputato, il soggetto deve potersi trovare in condizioni che gli consentano l’utilizzazione di tutti i
mezzi giuridici riconosciuti a chi si trovi in tale posizione.
Normalmente, la capacità processuale dell’imputato coincide con la sua legittimazione, nel senso
che l’assunzione della qualità di imputato comporta automaticamente il riconoscimento della
capacità di porre in essere tutti gli atti di rilevanza processuale il cui compimento la legge consente
all’imputato.
° Un’eccezione si ha nell’eventualità di infermità mentale dell’imputato tale da non permettergli
“di partecipare coscientemente al processo”: il giudice, in tal caso, ove sia necessario al fine di
accertare le condizioni di incapacità della persona che non risultino in maniera palese, disporrà
anche d’ufficio una perizia. Nel frattempo è ammessa, su richiesta del difensore, l’assunzione di
prove che possano condurre a una sentenza di proscioglimento, quando vi si pericolo nel ritardo,
di qualsiasi altra prova eventualmente richiesta dalle parti. Accanto a un’esigenza di favor rei, si è
voluta garantire anche l’opportunità di non far dissolvere elementi di prova difficilmente
recuperabili in prosieguo di tempo.
Se a seguito degli accertamenti eseguiti in sede di perizia l’imputato risulterà in grado di
parteciparvi coscientemente, il processo continuerà; se, invece, emergerà uno stato di mente che
non lasci presagire una cosciente partecipazione, il giudice disporrà la sospensione del processo
nominando, al contempo, all’incapace un curatore speciale. Al curatore vengono attribuiti poteri di
iniziativa e di partecipazione al processo: facoltà di richiedere l’assunzione di prove che appaiano
utili per il proscioglimento, di assistere agli atti disposti sulla persona dell’imputato, di presenziare
ad attività al cui compimento questi abbia il diritto di intervenire.
La sospensione verrà revocata e il processo riprenderà il suo corso non appena risulterà dagli
accertamenti peritali la possibilità di una cosciente partecipazione al processo. Non deve essere,
disposta sospensione, o se già disposta deve essere revocata e il processo potrà giungere al suo
regolare epilogo, nel caso in cui, contemporaneamente al verificarsi della causa determinante lo
stato d’incapacità dell’imputato, o anche successivamente, in conseguenza di quell’assunzione di

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prove consentita al giudice, si profili una situazione idonea a legittimare la pronuncia di una
sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere. Si è in presenza, ancora una volta, di una
regola di favor che crea una finzione di capacità processuale nell’esclusivo interesse dell’imputato
del cui apporto difensivo l’ordinamento ritiene si possa anche fare a meno quando si sia già
solidificata nel processo una posizione per lui pienamente vantaggiosa.

6.Cessazione e riassunzione della qualità di imputato.


La qualità di imputato permane durante tutto lo svolgimento del processo, in ogni stato e grado di
esso, sino a quando non intervenga una sentenza di non luogo a procedere non più soggetta a
impugnazione, una sentenza di proscioglimento o una sentenza di condanna divenute irrevocabili,
un decreto d condanna divenuto esecutivo.
A seconda che la decisione sia assolutoria o di condanna, alla posizione di imputato succederà
quella di prosciolto o quella di condannato.
Una reviviscenza, tuttavia, delle qualità di imputato si può avere in due casa:
A) per il prosciolto, quando, dopo essere stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere, il
giudice ne disponga la revoca a seguito dell’acquisizione di nuove fonti di prova, sopravvenute
o preesistenti ma scoperte successivamente, che da sole o insieme a quelle già acquisite
possano determinare un rinvio a giudizio;
B) per il condannato, quando in seguito va relativa domanda si sia aperto un procedimento di
revisione.
Il momento dal quale comincia a operare la riassunzione dello status di imputato, coincide con la
pronuncia dell’ordinanza attraverso la quale il giudice per le indagini preliminari dispone la
riapertura della fase investigativa o con l’ordinanza, se il pm abbia chiesto il rinvio a giudizio, con
cui fissa l’udienza preliminare. Assunta nuovamente la qualità di imputato, il soggetto riacquista
tutti i diritti e tutte le facoltà a questa connessi.

7.La persona sottoposta alle indagini.


Anteriormente al promovimento dell’azione penale attraverso la formulazione dell’imputazione da
parte del pm, e dunque nella fase delle indagini preliminari, qualsiasi eventuale attribuzione di
reato a una determinata persona non basta a farle assumere la qualità di imputato. Nel corso di
tale fase si avrà soltanto una “persona sottoposta alle indagini”; a essa vengono accordati gli
stessi diritti e le stesse garanzia riconosciuti all’imputato.
La legge (art. 61 comma 2 c.p.p.) prevede che alla persona sottoposta alle indagini preliminari si
estenda “ogni altra disposizione”, al di fuori di quelle strettamente attinenti ai diritti e alle
garanzie, “relativa all’imputato”. L’ampiezza della formulazione normativa può far pensare che il
criterio estensivo, riguardando “ogni altra disposizione relativa all’imputato”, coinvolga anche
quelle destinate a determinare effetti sfavorevoli. Ma il significato garantistico che a esso si è
voluto dare parrebbe suggerire una diversa conclusione: la ratio legis ha pieno titolo per assurgere
a canone interpretativo. L’espansione dovrebbe operare soltanto in favore del soggetto, ignorando
gli effetti pregiudizievoli che possono derivare dall’assunzione della qualità di imputato.
Il soggetto nei cui confronti è stabilita l’estensione dei diritti e delle garanzie dell’imputato viene
individuato dalle norme contenute nel codice attraverso l’espressione “persona sottoposta alle
indagini” o talora “persona nei cui confronti si svolgono le indagini”.
Nel progetto preliminare si parlava anche di “persona indiziata”; la formula è stata,
successivamente, abbandonata in sede di stesura del testo definitivo, in quanto suscettibile di
ingenerare equivoci di ordine interpretativo incidenti sull’assetto complessivo del sistema.

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Eliminando il richiamo all’”indiziato” si è inteso evitare l’attribuzione di una etichetta che potesse
assumere significati sfavorevoli.

8.La garanzia della “presunzione di non colpevolezza”.


La posizione dell’imputato nell’ambito del processo trova una particolarmente significativa tutela
del principio posto dall’art. 27 comma 2 Cost., in forza del quale “l’imputato non è considerato
colpevole sino alla condanna definitiva”. In termini ancora più espliciti ed efficaci gli artt. 6 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici
proclamano che “ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua
colpevolezza non sia stata largamente accertata”.
La regola configura le medesime garanzie di libertà individuale e di protezione della persona
umana; una regola sicuramente “politica” che assurge a dignità costituzionale per ribadire e
rafforzare i valori della persona e i suoi inviolabili diritti.
Nella presunzione di non colpevolezza due significati di rilevanza pratica per il processo penale è
possibile cogliere:
- come regola di trattamento: la presunzione di non colpevolezza è da riferire alla condizione che
va riconosciuta all’imputato nel corso del processo. In particolare, egli ha diritto di essere trattato
alla stregua di una qualsiasi altra persona, senza alcun pregiudizio di colpevolezza che possa
socialmente o moralmente sminuirlo nei confronti degli altri cittadini, sino al momento in cui non
intervenga una condanna definitiva a sancire la sua responsabilità come autore di un illecito
penale. Con specifico riferimento alla libertà personale, la presunzione di non colpevolezza impone
che eventuali misure coercitive a carico dell’imputato siano strutturate esclusivamente in funzione
processuale, a garanzia del soddisfacimento di esigenze legate allo svolgimento delle indagini,
come, ad esempio, assicurare la presenza dell’imputato nel corso dell’accertamento giudiziario o
evitare che l’imputato in stato di libertà possa alterare gli elementi di prova, compromettendone
l’acquisizione o la genuinità. Qualsiasi diversa utilizzazione delle misure coercitive sarebbe
incompatibile con la presunzione di non colpevolezza, perché opererebbe a carico di una persona
la cui responsabilità non è stata ancora definitivamente accertata.
- come regola per la valutazione degli elementi di prova e l’accertamento giudiziale: la
presunzione di non colpevolezza comporta che l‘intero svolgimento del processo penale, sino alla
sua conclusione definitiva, deve correre lungo la direttrice segnata dalla tesi iniziale, ossia
dall’imputazione, di guisa che l’imputato per il semplice fatto di essere tale non può assumere la
qualifica di colpevole: egli sarà solamente un “accusato”, nei cui confronti dovrà essere il proprio
“accusatore” a dimostrare la fondatezza degli addebiti. Insomma, la presunzione di non
colpevolezza opera anzitutto come regola probatoria: non l’imputato è tenuto a provare la sua
innocenza, ma sarà l’antagonista a doverne provare la colpevolezza.
Accanto a questa dimensione, la presunzione di non colpevolezza come regola di giudizio opera
anche in veste di regola decisoria del fatto incerto: solo ove la colpevolezza dell’imputato risulti
provata “al di là di ogni ragionevole dubbio” potrà pronunciarsi sentenza di condanna, mentre in
ogni ipotesi di prova insufficiente o contraddittoria l’imputato dovrà essere prosciolto.

Capitolo settimo
LE PARTI EVENTUALI

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1.Premessa.
Accanto a quelle che vengono usualmente definite le parti necessarie del processo pensale altre
parti si possono presentare, di volta in volta, per integrare concrete fattispecie processuali:
a) quando su un determinato comportamento si richiede un accertamento giurisdizionale che
investa non soltanto l’ambito strettamente penalistico, ma anche quello del diritto civile, con la
possibile conseguente applicazione, oltre che di una sanzione di natura penale, anche di una
sanzione di natura civilistica: ecco, allora, l’intervento della parte civile ed eventualmente del
responsabile civile;
b) quando la decisione giudiziale può investire la sfera giuridica di un soggetto diverso del
responsabile diretto del comportamento processualmente valutabile, in forza di un particolare
rapporto che lega l’uno all’altro: si ha, in questo caso, l’intervento del civilmente obbligato per
la pena pecuniaria.

2.La parte civile: legittimazione.


Art. 185 c.p. stabilisce che “ogni reato obbliga alle restituzioni e, quando abbia cagionato anche un
danno patrimoniale o non patrimoniale, al risarcimento”. Questa regola muove dalla
considerazione che un’unica condotta può presentare due diversi profili di illiceità, uno
riguardante il settore penalistico, l’altro concernente il settore civilistico. Al verificarsi di
un’eventualità del genere l’art. 74 c.p.p. dice che “ il soggetto al quale il reato ha recato un danno
ovvero i suoi successori universali” possono esercitare nel processo penale “l’azione civile per le
restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all’art. 185 c.p.”. In questa disposizione trova
legittimazione la parte civile, come soggetto che “afferma di avere ricevuto un danno dal reato e
ne invoca la riparazione nelle forme del risarcimento o della restituzione”. Un soggetto che può
essere anche diverso dal titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale, come nel caso, ad
esempio, degli eredi della persona uccisa. È un soggetto che può essere non solo una persona
fisica, ma anche un ente o un’associazione dotati di personalità giuridica o una figura soggettiva
non personificata, quale un’associazione non riconosciuta, un comitato, e simili. A costoro vanno
aggiunti i loro “successori universali”, formula comprendente le ipotesi di successione mortis
causa e di successione per causa diversa.
La pretesa risarcitoria avanzata dalla parte civile può investire sia il danno patrimoniale
consistente nella perdita, distruzione o danneggiamento di un bene facente parte del patrimonio
del soggetto (c.d. danno emergente) o nella perdita di un guadagno (c.d. lucro cessante), danno
commisurabile economicamente, sia il danno non patrimoniale (c.d. danno morale) consistente
nell’ingiusto turbamento psichico che subisce la persona in conseguenza dell’illecito patito, nella
diminuzione di prestigio, di pubblica reputazione, e simili. Il danno non patrimoniale sfugge a
qualsiasi apprezzamento in termini economici, e la sua valutazione rimane affidata unicamente
all’accortezza del giudice di merito che dovrà proporzionarla alla gravità del reato e all’entità del
disagio sofferto.
La legittimazione della parte civile non può prescindere da due presupposti:
- chi nutre un’aspirazione al risarcimento deve aver subito un danno diretto e immediato
dall’azione o omissione del soggetto attivo del reato;
- deve essere rimasta lesa una situazione personale classificabile come diritto soggettivo, con
esclusione di situazioni di mero interesse o di interesse legittimo.

3.(Segue): le possibili sedi processuali in cui avanzare le pretese civili.

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L’interventi nel processo penale del danneggiato trova spiegazione nell’unicità del fatto valutabile
sotto il duplice profilo dell’illiceità penale e dell’illiceità civile, per cui un’unica disamina da parte
dello stesso giudice non solo realizza un’esigenza di economa di giudizi, ma evita il rischio di un
possibile contrasto di decisioni tra due organi giurisdizionali diversi, penale e civile, i cui soggetti di
indagine coincidono relativamente all’accertamento sullo stesso fatto.
Comunque, il soggetto danneggiato dal reato può avanzare le proprie pretese direttamente avanti
al giudice civile, dando vita a un autonomo procedimento per la restituzione e il risarcimento dei
danni. Anzi, il nuovo sistema processualpenalistico mostra di voler accordare preferenza alla
separazione, sin dove sia possibile, dell’accertamento civile dall’accertamento penale, allo scopo di
realizzare quella “massima semplificazione” alla quale quest’ultimo tende.
Posto che i procedimento per il risarcimento o le restituzioni può ben avere vita autonoma. La
relativa azione promossa avanti al suo giudice naturale seguirà il normale iter, del tutto
indipendente rispetto al processo penale; tranne che il danneggiato non preferisca trasferirla in
seno a esso. Il che potrà accadere se sarà ancora permessa la costituzione di parte civile e sempre
che il giudice civile non abbia nel frattempo pronunciato sentenza di merito pur se non passata in
giudicato: imponendo questa limitazione si vuole impedire che su un’identica pretesa si provveda
due volte nella stessa istanza, ancorché in sedi diverse, con duplicazione di pronunce che
potrebbero anche risultare tra loro in antitesi.
Il trasferimento dell’azione civile nel processo penale comporterà l’automatica rinuncia agli atti del
giudizio civile che dovrà essere dichiarato estinto, anche d’ufficio, e l’accertamento concernente i
danni proseguirà definitivamente in sede penale.
Un rapporto di dipendenza del procedimento civile dal processo penale si instaura quando l’azione
per il risarcimento o le restituzioni venga esercitata nella sua sede naturale dopo essere già
proposta avanti al giudice penale e successivamente revocata, e dopo che sia stata pronunciata la
sentenza penale di primo grado. In questi casi. Il provo movimento dell’azione risarcitoria o
restitutoria nel processo penale si intende retrattato, la cognitio causae relativamente ai danni
cagionati dal reato rimane attribuita all’organo della giurisdizione civile, ma il giudizio civile rimane
sospeso sino alla pronuncia della sentenza penale irrevocabile che su esso avrà effetti di cosa
giudicata.
La sospensione del processo civile, e il conseguente effetto vincolante che su questo produce la
sentenza penale irrevocabile, non si hanno quando la parte civile sia stata costretta a esercitare
l’azione davanti al giudice civile per essere stata esclusa dal processo penale: un comportamento
involontario che non può determinare per la posizione del danneggiato il pregiudizio di
un’eventuale pronuncia penale assolutoria preclusiva di un epilogo favorevole per l’azione
risarcitoria. Ulteriori previsioni di esclusione della sospensione del processo civile si incontrano in
altrettante ipotesi in cui il danneggiato, non essendogli consentita una libera scelta circa la sede
nella quale far valere i propri diritti, si trovi a dover optare per quella civile. Ciò accade quando il
processo penale sia costretto a una stati a causa delle condizioni di incapacità dell’imputato;
quando sia svolto col rito abbreviato, in ordine alla cui adozione la parte civile non ha alcun potere
di interloquire; quando vi sta stata applicazione di pena a richiesta delle parti, che non consente
decisione sulla pretesa civile.

4.(Segue): la costituzione di parte civile nel processo penale.

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L’intervento nel processo penale del danneggiato dal reato che avanzi la propria pretesa
risarcitoria o restitutoria si realizza attraverso la “costituzione di parte civile”.
Art. 77 comma 1 c.p.p. stabilisce che “la capacità d’agire della parte civile deve essere riconosciuta
unicamente ai soggetti che hanno il libero esercizio dei diritti, mentre le persone che ne sono prive
possono agire soltanto se rappresentate, autorizzate o assistite nelle forme prescritte per
l’esercizio delle azioni civili”.  La legge processuale penale opera, dunque, un rinvio alla
normativa riguardante la capacità dell’attore nel processo civile.
Nel caso in cui manchi la persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza del
danneggiato privo di capacità e vi siano ragioni di urgenza, o nel caso in cui vi sia conflitto di
interessi tra l’incapace e il suo rappresentante, il giudice della fase processuale in corso, su
richiesta del pm, di colui che deve essere rappresentato o assistito, dei suoi prossimi congiunto o,
nel caso di conflitto di interessi, dello stesso rappresentante, provvede alla nomina di un curatore
speciale.
Un intervento in via provvisoria è consentito al pm per l’esercizio dell’azione civile nell’interessa
della persona incapace, in caso di assoluta urgenza e sino a quando non subentri colui al quale
spetta la rappresentanza o l’assistenza o il curatore speciale.
La costituzione di parte civile va fatta con dichiarazione, resa anche a mezzo di procuratore
speciale, che deve contenere, pena la sua inammissibilità:
1) la generalità della persona fisica o la denominazione dell’associazione o dell’ente che si
costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante;
2) le generalità dell’imputato nei confronti del quale l’azione civile viene esercitata, e qualsiasi
altra indicazione personale che valga a identificarlo;
3) il nome e il cognome del difensore con l’indicazione della procura: ciò in quanto, a norma
dell’art. 100 comma 1 c.p.p., alla parte civile è consentito stare in giudizio solo con il ministero
di un difensore munito di procura speciale, da depositare nella cancelleria del giudice
procedente o da presentare in udienza insieme con la dichiarazione di costituzione;
4) l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda, allo scopo di individuare e circoscrivere
puntualmente la c.d. causa petendi sin dal momento della proposizione dell’azione;
5) la sottoscrizione apposta dal difensore: ciò in conseguenza del fatto che la parte sta in giudizio
non personalmente, ma a mezzo del difensore che la rappresenta e che è legittimato a
compiere gli atti necessari, primo tra tutti proprio quello di costituzione.
La dichiarazione di costituzione della parte civile può farsi nell’udienza, sia preliminare che
dibattimentale, e in questo caso viene presentata all’ausiliare del giudice nell’udienza stessa;
può essere fatta al di fuori dell’udienza, e allora va depositata presso la cancelleria del giudice
competente per la fase in cui essa è destinata a operare e deve essere notificata, a cura del
soggetto che si costituisce, all’imputato e al pm, per consentire loro l’eventuale esercizio del
potere di richiederne l’esclusione.
Il codice prescrive che la costituzione di parte civile avvenga o “per l’udienza preliminare” o,
successivamente, nella fase degli atti introduttivi del dibattimento, sino a quando non siano stati
compiuti gli accertamenti relativi alla regolare costituzione delle parti; si tratta di termini imposti a
pena di decadenza. Per ciò che riguarda il primo termine, il legislatore lo individua attraverso
l’espressione “per l’udienza preliminare” e non già “nell’udienza preliminare”. Ciò vuol dire che il
danneggiato non deve attendere necessariamente l’inizio di tale udienza per costituirsi parte
civile, ma non può farlo immediatamente dopo essere venuto a conoscenza della data di
celebrazione di essa. Purché si sia già avuto il promovimento dell’azione penale, mediante la
formulazione dell’imputazione, da parte del pm: prima di quel momento non esistendo ancora un

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imputato nei cui confronti far valere la pretesa risarcitoria e restitutoria, la costituzione di parte
civile non avrebbe neppure senso.
Art.79 comma 3 c.p.p. dispone che “se la costituzione avviene dopo la scadenza del termine
prescritto per il deposito, in fase di atti preliminari al dibattimento, delle liste dei testimoni, periti e
consulenti tecnici, la parte civile non può avvalersi della facoltà di indicare testimoni, periti,
consulenti”. Il divieto intende evitare l’introduzione in dibattimento di prove a sorpresa.
Una volta avvenuta la costituzione di parte civile dispiega i propri effetti in ogni stato e grado del
processo. In forza di tale regola, che sancisce la c.d. immanenza della costituzione della parte
civile, questa ha il diritto di stare nel processo senza alcuna necessità di rinnovare la costituzione in
relazione alle singole fasi o ai singoli gradi di esso; ciò anche quando non sia più possibile la
condanna penale dell’imputato. In definitiva, fino a quando non venga pronunciata sentenza
irrevocabile, l’azione civile resta inserita nel processo penale e in capo alla parte civile permane il
diritto di continuare a parteciparvi.

5.(Segue): l’esclusione della parte civile.


Tanto l’imputato che il pm che il responsabile civile possono proporre richiesta di esclusione della
parte civile, con la quale dopo essere contestata sia dal titolare del soggetto che si è costituito, sia
la sua capacità ad agire,sia l’osservanza delle forme e dei termini prescritto. Nonostante la norma
processuale pretenda il requisito della “motivazione” a supporto della richiesta, la sua eventuale
mancanza non comporta inammissibilità della richiesta stessa; tutt’al più può risolversi in una
ragione di accoglimento della parte civile, in quanto non sorretta da apprezzabili elementi
giustificativi la pretesa di escluderla.
Sanzione di decadenza è stabilita nel caso in cui la proposizione della richiesta non rispetti i termini
imposti.
° Se la parte civile si è costituita per l’udienza preliminare, la richiesta di esclusione può esser
proposta per iscritto fuori dall’udienza, oppure oralmente nella stessa udienza preliminare, o in
quella dibattimentale purché non oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione
delle parti.
° Se si è costituita nel corso degli atti preliminari al dibattimento o introduttivi di esso, la richiesta
di esclusione va proposta oralmente subito dopo il compimento per la prima volta
dell’accertamento relativo alla costituzione delle parti. L’eventuale rigetto della richiesta in sede di
udienza preliminare non ne preclude la riproposizione tempestiva in fase di dibattimento: nessun
divieto traspare dalla legge.
Sulla richiesta di escludere la parte civile il giudice deve decidere senza ritardo; se egli ne riconosce
fondati i motivi dichiara l’esclusione, ma questa decisione, se adottata nel corso dell’udienza
preliminare, non impedisce una successiva costituzione nella fase del giudizio, purché nel termine
prescritto. In ogni caso, l’esclusione dalla sede penale non pregiudica il diritto di chi si ritenga
danneggiato dal reato a instaurare un autonomo procedimento in sede civile.
Oltre che a seguito della richiesta avanzata dalle parti interessate, l’esclusione della parte civile
può essere disposta d’ufficio dal giudice fino a quando non sia stata dichiarata l’apertura del
dibattimento di primo grado. L’adozione di questo provvedimento non è preclusa dall’essere stata
in precedenza presentata, da una delle parti, richiesta di esclusione poi rigettata durante l’udienza
preliminare. La decisione di esclusione ex officio è subordinata all’accertamento “che non esistono
i requisiti per la costituzione di parte civile”; requisiti sia di forma che di sostanza.
Ogni decisione relativa all’ammissibilità o all’esclusione della parte civile viene adottata a seguito
di una mera valutazione preventiva effettuata sulla base di un semplice fumus; ciò da un lato

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spiega perché la declaratoria di esclusione dal processo penale non impedisce un giudizio di
risarcimento o di restituzione promosso nella sua naturale sede civile, dall’altro limita la portata
della dichiarazione di ammissione, nel senso che essa non vincola successive deliberazioni, sempre
a opera del giudice penale, sul diritto della parte civile a ottenere il risarcimento o le restituzioni.
Il provvedimento con il quale il giudice decide in materia di esclusione della parte civile viene
adottato con ordinanza che, se emessa in sede di udienza preliminare, non impedisce la
riproposizione della questione nella successiva fase dibattimentale. Se emessa in dibattimento
l’ordinanza è definitiva, giacché nessuna disposizione ne prevede l’impugnabilità la quale è esclusa
in forza del principio della tassativa previsione ex lege delle impugnazioni. Nel caso in cui disponga
il rigetto della richiesta di esclusione, è impugnabile da parte dell’imputato unitamente
all’impugnazione della sentenza: è consentito il controllo da parte del giudice d’appello
relativamente ai presupposti di legittimità formale e sostanziale per l’esercizio dell’azione civile nel
processo penale.

6.(Segue): la revoca della costituzione di parte civile.


Al soggetto che si sia costituito parte civile è consentito recedere volontariamente dal processo
penale mediante una dichiarazione di revoca della costituzione, che può essere espressa o tacita.
Si vuole dare la possibilità al danneggiato, il quale si convinca che il processo penale non è la sede
più idonea per la risoluzione della controversia civile, di rivolgersi al giudice naturalmente
competente, riproponendo l’azione.
Revoca espressa può essere fatta in qualsiasi stato e grado del processo, con dichiarazione resa,
dalla parte personalmente o da un suo procuratore con mandato ad hoc, in corso di udienza
preliminare o dibattimentale; ovvero con atto scritto , da notificare alle parti, che va depositato
presso la cancelleria del giudice avanti al quale è pendente il processo, o comunque competente
per la fase in cui l’atto stesso esplicherà i propri effetti.
Revoca tacita si ha quando la parte civile nel corso della discussione finale in sede di
dibattimento di primo grado, omette di presentare le conclusioni contenenti il petitum con
l’indicazione dell’ammontare dei danni dei quali chiede il risarcimento; ovvero quando ripropone
l’azione per il risarcimento o le restituzioni avanti al giudice naturalmente competente.
La revoca della costituzione di parte civile, sia nella forma espressa che in quella tacita, vale come
semplice rinuncia al compimento di attività in seno al processo penale, quindi il soggetto conserva
il diritto di agire davanti la competente giurisdizione civile.

7.Il responsabile civile.


Art. 74 c.p.p. dispone che “l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno può
essere esercitata nel processo penale nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”.
Art.185 comma 2 c.p. stabilisce che “obbligati al risarcimento del danno derivante da un reato
sono il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbano rispondere per il fatto di lui”.
Il responsabile civile nasce da una forma di responsabilità che si può definire “per fatto altrui”.
L’individuazione delle persone che possono assumere il ruolo di responsabili civili per i danni da
reato va fatta sulla base delle disposizioni di natura civilistica che prevedono ipotesi di
responsabilità per il fatto d’altri.
Tra queste, le più importanti riguardano:
- i genitori e i tutori per i danni causati dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle
persone soggette alla tutela;

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- i precettori che insegnano un mestiere o un’arte per i danni cagionati dal fatto illecito degli allievi
o apprendisti, nel tempo in cui si trovano sotto la loro vigilanza;
- i padroni e i committenti per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e dei loro
commessi, nell’esercizio delle incombenze cui sono adibiti;
- i proprietari e gli usufruttuari di veicoli per i danni prodotti dal conducente;
- l’albergatore per la sottrazione, la perdita, il deterioramento di cose appartenenti a clienti;
- l’armatore di nave o l’esercente un aeromobile per danni commessi dall’equipaggio.
Anche l’imputato può assumere la veste di responsabile civile per il fatto dei coimputati, ma solo
nell’eventualità in cui venga prosciolto dalla responsabilità penale o venga pronunciata nei suoi
confronti sentenza di non luogo a procedere, perché sorge per lui “l’obbligo del risarcimento” dei
danni ex delicto e per fatto proprio, che assorbe quello per i danni ex culpa per fatto altrui.

8.(Segue): l’ingresso nel processo penale del responsabile civile: la citazione.


Il responsabile civile può trovare ingresso in sede penale attraverso due vie: la citazione o
l’intervento pubblico.
Art. 83 comma 1 c.p.p. stabilisce che “il responsabile civile per il fatto dell’imputato può essere
citato nel processo penale a richiesta della parte civile o del pm quando abbia esercitato l’azione di
risarcimento o di restituzione nell’interesse del danneggiato incapace”.
La richiesta di citazione del responsabile civile è consentita sia per l’udienza preliminare, sia per il
dibattimento, che rappresenta l’invalicabile termine ad quem art. 83 comma 2 c.p.p. dispone
che “la richiesta deve essere proposta al più tardi per il dibattimento”: naturalmente, nel corso
degli atti introduttivi e sino a quando il giudice non abbia provveduto a controllare la regolare
costituzione delle parti. Superato questo limite, la parte civile decade da diritto di vedere citato il
responsabile civile, e un’eventuale sentenza di condanna pronunciata nei confronti di quest’ultimo
dovrebbe considerarsi tamquam non esset, perché la decadenza verificatasi con lo spirare del
termine fissato impedisce rispetto a tale soggetto un’efficace costituzione del rapporto
processuale.
La citazione del responsabile civile è ordinata dal giudice avanti al quale il processo è pendente, e il
relativo decreto deve contenere:
- le generalità o la denominazione della persona costituitasi parte civile con l’indicazione del suo
difensore e le generalità del responsabile civile, se persona fisica, o la denominazione
dell’associazione o dell’ente chiamati a rispondere, con le generalità de rappresentante legale;
- l’indicazione del petitum, ossia della domanda di restituzione o di risarcimento del danno
avanzata nei confronti del responsabile civile;
- l’invito a costituirsi nei modi prescritti dalla legge;
- la data e la sottoscrizione del giudice ce dispone la citazione e dell’ausiliare che lo assiste.
Sebbene il codice non ne faccia oggetto di previsione esplicita, deve essere fissato un termine che
intercorra tra la data del decreto e la data fissata per il giudizio, affinché egli sia messo in
condizione di svolgere validamente ogni attività difensiva che ritenga opportuna ai fini del giudizio
stesso. Tale termine non può che essere uguale a quello previsto per la vocatio jus del’imputato.
Copia del decreto di citazione deve essere notificata oltre che all’interessato, al pm e all’imputato
al fine di consentire loro l’esercizio del potere di richiedere l’esclusione dal processo del
responsabile civile.
La citazione è nulla se il responsabile civile non viene posto in condizione di esercitare i propri
diritti nell’udienza preliminare o nel giudizio. Il regime al quale è sottoposta la nullità è quello
delineato dall’art. 180 c.p.p.: “può essere dedotta dall’interessato o rilevata anche d’ufficio dal

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giudice, ma non oltre la deliberazione della sentenza di primo grado se essa ha operato per
l’udienza preliminare; non oltre la deliberazione della sentenza del grado successivo se ha operato
per il giudizio”. In ogni caso, la nullità è sanata se il responsabile civile sia egualmente comparso o
abbia rinunciato a comparire; se compaia al solo fine di far dichiarare la nullità della citazione, egli
ha diritto a un termine non inferiore a 5 giorni, per approntare la propria difesa.
Ordinata la citazione del responsabile civile, questi può costituirsi in ogni stato e grado del
processo con dichiarazione proposta anche a mezzo di procuratore speciale. Tale costituzione, che
adempie un onere, in quanto realizza un interesse a intervenire sulla pretesa avanzata dalla parte
civile, si pone come necessario presupposto per la valida presenza del responsabile civile in sede
processuale e per la sua qualificazione come “parte”.
Il responsabile civile può costituirsi prima dell’udienza, preliminare o dibattimentale, nel qual caso
la relativa dichiarazione dovrà essere depositata presso la cancelleria del giudice competente per
la fase processuale in corso; o nell’udienza, e in questo caso la dichiarazione sarà presentata
all’ausiliare che assiste all’udienza stessa.
La dichiarazione di costituzione deve contenere:
a) le generalità della persona fisica o la denominazione dell’associazione o dell’ente che si
costituisce con le generalità del suo rappresentante legale;
b) il nome e il cognome del difensore con l’indicazione della procura, nonché la sottoscrizione del
difensore stesso, considerato che, il responsabile civile deve stare in giudizio con il ministero di
un difensore munito di procura speciale che va depositata nella cancelleria del giudice
procedente o presentata direttamente in udienza insieme con la dichiarazione di costituzione.
Anche per il responsabile civile vige la regola dell’immanenza della sua costituzione la quale
produce i propri effetti in ogni stato e grado del processo.

9.(Segue): l’intervento volontario.


oltre che su istanza della parte civile, o del pm che abbia promosso azione riparatoria
nell’interesse del soggetto incapace, il responsabile civile può trovare ingresso nel processo penale
attraverso un intervento volontario. Questa possibilità gli è concessa sia allo scopo di contrastare
l’affermazione di responsabilità dell’imputato alla quale solo legate le proprie sorti; sia allo scopo
di prevenire possibili manovre collusive, tra imputato e parte civile, ai propri danni; sia, infine, allo
scopo di escludere la responsabilità propria.
L’intervento volontario si propone nelle stesse forme prescritte per la costituzione del
responsabile civile citato ( dichiarazione contenente tutti gli elementi idonei a identificare il
soggetto che interviene e il suo difensore, nonché la sottoscrizione del difensore stesso munito di
procura rilasciata nei modi e per gli effetti di cui all’art. 100 c.p.p.), e tali forme vanno osservate a
pena di inammissibilità.
Anche i tempi di intervento volontario del responsabile civile sono fissati “per l’udienza
preliminare e sino a quando non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’art. 484” riguardanti
gli accertamenti sulla regolare costituzione delle parti nel dibattimento; l’inosservanza è
sanzionata dalla comminatoria di decadenza.
Soltanto se l’intervento avviene almeno 7 giorni prima rispetto alla data fissata per il dibattimento
il responsabile civile potrà esercitare il diritto di presentare liste di testimoni, di periti, di consulenti
tecnici. Si tratta di un termine imposto a pena di inammissibilità dell’atto eventualmente compiuto
in un arco di tempo inferiore: anche qui si vuole evitare l’introduzione in dibattimento di prove a
sorpresa.

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La dichiarazione di intervento volontario del responsabile civile può essere effettuata fuori
dall’udienza, preliminare o dibattimentale, con deposito presso la cancelleria del giudice
competente per la fase in cui è destinata a operare e va notificata, a cura dell’interessato, a tutte
le parti, le quali potrebbero chiederne l’esclusione; per ciascuna di esse la predetta dichiarazione
produrrà effetto dal giorno in cui è stata eseguita la notificazione. Se effettuata durante l’udienza,
la dichiarazione di intervento verrà presentata all’ausiliare che assiste il giudice nell’udienza
stessa. L’intervento volontario del responsabile civile perde efficacia quando la parte civile revochi
la propria costituzione o venga estromessa dal processo per un qualsiasi motivo.

10.(Segue): l’estromissione del responsabile civile.


Oltre che trovarsi automaticamente escluso dal processo nel momento in cui la sua citazione o il
suo intervento perdono efficacia a causa della revoca di costituzione della parte civile o di
esclusione di essa, il responsabile civile può esservi estromesso:
A)ESTROMISSIONE SU PROPRIA RICHIESTA
Può aver luogo quando egli sia stato citato dalla parte civile e non anche quando sia intervenuto
volontariamente.
Il responsabile civile può chiedere l’estromissione, oltre che per motivi riguardanti la legittimità
sostanziale e formale della sua chiamata in giudizio, anche qualora gli elementi di prova raccolti
prima che egli venisse citato,e sui quali non abbia avuto occasione di manifestare le proprie
opinioni, possano compromettere l’esercizio del suo diritto di difesa in relazione ai possibili effetti
di un giudicato penale di condanna sul giudizio civile per il risarcimento o restituzione.
B)ESTROMISSIONE SU RICHIESTA DI UNA DELLE PARTI (imputato, pm e la stessa parte civile,
sempre che pm e parte civile non ne abbiano sollecitato precedentemente la citazione).
La titolarità del potere di provocare l’esclusione del responsabile civile è concessa all’imputato in
considerazione della convenienza che egli può avere ed allontanare dal processo un soggetto
chiamato in causa sul presupposto della propria colpevolezza e le cui attività potrebbero essergli di
intralcio nel regolare esercizio del diritto di difesa; al pm in funzione di un generale interesse,
nascente dalla sua natura di organo cui compete, tra l’altro di vegliare sull’osservanza delle leggi, a
fare uscire dal processo penale chi vi si sia introdotto illegittimamente; alla parte civile per
garanzia del’interesse a non voler contrastare le proprie pretese da chi non abbia titolo per
contrapporle una sa attività in sede processuale.
La richiesta di estromissione, provenga essa dallo stesso responsabile civile o da alcuna delle altre
parti, deve contenere i motivi sui quali si fonda e deve essere proposta al momento degli
accertamenti relativi alla costituzione delle parti, nell’udienza preliminare o nel dibattimento:
l’osservanza di questo limite temporale è tonificata dalla sanzione della decadenza.
C)ESTROMISSIONE ADOTTATA DAL GIUDICE EX OFFICIO
Il giudice può disporre l’esclusione dal processo del responsabile civile, qualora accerti che non
sussistano i requisiti voluti per la citazione o per l’intervento di esso. Questo potere concesso al
giudice appare del tutto autonomo e indipendente rispetto a quello di richiedere che il
responsabile civile venga estromesso, in quanto è riconducibile a ragioni di pubblico interesse, e si
esercita attraverso un controllo sulla legitimatio ad causam e ad processum del soggetto, nonché
sull’osservanza delle forme e dei termini prescritti per la citazione e per l’intervento. Proprio in
quanto autonomo e indipendente, il potere del giudice di ordinare d’ufficio l’estromissione del
responsabile civile può esercitare anche quando sia stata precedentemente respinta una richiesta
tendente allo stesso fine.

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Il termine ultimo entro il quale può essere decretata l’esclusione d’ufficio coincide con l’apertura
del dibattimento di primo grado; superato questo momento, il responsabile civile non potrà essere
più estromesso, ed eventuali vizi attinenti alla citazione o all’intervento potranno essere dichiarato
soltanto nella sentenza.
Obbligatoria è l’estromissione dal processo del responsabile civile nel caso in cui si instauri giudizio
abbreviato. Di fronte a un giudizio abbreviato la cui tipizzazione in termini di celerità e di esclusivo
utilizzo dello stato degli atti sbiadisce abbondantemente nel momento in cui si consentono
integrazioni probatorie e anche assunzioni di prove ex officio dal giudice, l’intervento del
responsabile civile, a seguito dell’adesione della parte civile al procedimento speciale, potrebbe
anche apparire accettabile.
L’avvenuta estromissione del responsabile civile non impedisce che nei confronti di questo il
danneggiato possa esercitare l’azione di risarcimento o di restituzione nella competente sede
civile, e ciò per la rilevanza unicamente processuale che la legge attribuisce alla decisione con cui
essa è stata disposta, che lascia impregiudicata ogni valutazione sul merito delle pretese
risarcitorie o restitutorie.

11.Il civilmente obbligato per la pena pecuniaria.


Altra parte del processo penale è il civilmente obbligato per la pena pecuniaria. La figura nasce da
una responsabilità civile sussidiaria ed eventuale, con caratteristiche fideiussorie, che il legislatore
radica in capo a determinati soggetti ai quali incombe l’obbligo del pagamento di una somma pari
all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta al condannato. Trattasi di persone fisiche
rivestite di autorità o incaricate della direzione o vigilanza su altri, o di persone giuridiche
rappresentate o amministrate dall’imputato o con cui egli si trovi in rapporto di dipendenza.
Due sono i presupposti al cui verificarsi si determina l’obbligo di pagamento:
1- che il condannato sia insolvibile;
2- che il reato costituisca violazione dei doveri inerenti alla qualità rivestita dal colpevole o sia
stato commesso nell’interesse della persona giuridica, o che si tratti di violazioni di norme che
il civilmente obbligato era tenuto a far osservare e delle quali non debba rispondere
penalmente.
Ai fini dell’affermazione di responsabilità dell’obbligato per la pena pecuniaria è necessario che sia
intervenuta condanna dell’imputato. Il che non basta, in quanto occorre anche che
all’accertamento della responsabilità dell’imputato segua l’accertamento della sussistenza dei
requisiti che fondano la responsabilità del civilmente obbligato.

12.(Segue): l’intervento nel processo penale, e l’eventuale estromissione, del civilmente


obbligato per la pena pecuniaria.
La persona obbligata per la pena pecuniaria può intervenire nel processo su citazione richiesta dal
pm o dall’imputato. La legittimazione del pm a chiedere la citazione nasce dal fatto che
l’intervento in giudizio del civilmente obbligato, è predisposto nell’interesse dello Stato, a garanzia
del pagamento della multa o dell’ammenda; la legittimazione dell’imputato deriva dalla possibilità
che egli venga assoggettato alla conversione della pena pecuniaria in libertà controllata o in lavoro
sostitutivo, sicché essa, in definitiva, è approntata a tutela del diritto alla libertà personale
dell’imputato stesso.
La citazione può effettuarsi per l’udienza preliminare o per il dibattimento.

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La disciplina relativa alle forme e ai termini della citazione, alle modalità della costituzione,
all’eventuale estromissione per carenza di legittimazione o di requisiti formali è modellata sulle
disposizioni dettate con riferimento al responsabile civile.

Capitolo ottavo
LA PERSONA OFFESA DAL REATO E GLI ENTI RAPPRESENTATIVI DI INTERESSI LESI

1.La persona offesa dal reato.


Tra i soggetti processuali, accanto a quelli ai quali tradizionalmente è attribuita la qualifica di
“parti”, il codice colloca la persona offesa dal reato, vale a dire il titolare del bene giuridico la cui
lesione o la cui messa in pericolo costituisce l’essenza della condotta personalmente illecita.
Il concetto “persona offesa” ricomprende qualsiasi altro soggetto al quale venga attribuita la
titolarità di un interesse protetto dalla norma penale e aggredito dal comportamento criminoso in
concreto, offese possono essere anche le persone giuridiche, private o pubbliche, cui sia
riconosciuto un qualche interesse specifico leso dal reato.
Alla persona offesa viene riconosciuta la qualità di “soggetto processuale”, ma non “di parte”, dal
momento che non le si concedono i poteri e i diritti che alla parte sono attribuiti al fine di
provocare una decisione giurisdizionale sulla regiudicanda.
Una notevole differenza esiste tra la figura dell’offeso dal reato e la figura della parte civile: questa
va ricondotta nell’ambito della tutela della sfera patrimoniale e del diritto al risarcimento del
danno che dall’azione criminosa sia a essa derivato; la prima opera nel contesto del
riconoscimento ufficiale di un interesse del privato alla persecuzione penale dell’autore del reato.
Alla persona offesa viene assegnato un ruolo di accusa penale privata, sussidiaria o accessoria
rispetto a quella pubblica.
La persona offesa può essere estromessa dal processo quando, su istanza delle parti o ex officio, il
giudice accerti che essa è carente di legittimazione o di capacità processuale.

2.(Segue): i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa.


La persona offesa dal reato appare titolare di una posizione di grande rilievo, riscaldata
dall’esplicita attribuzione di una nutrita serie di diritti e di facoltà, richiamati dall’art. 90 comma 1
c.p.p. A titolo puramente esemplificativo si possono ricordare: il diritto di ricevere l’informazione
di garanzia e di nominare un difensore; il diritto di partecipare ad accertamenti tecnici non
ripetibili disposti dal pm; il diritto di sollecitare al pm il promovimento di un incidente probatorio e
di assistervi.
Catalogare un determinato comportamento processuale dell’offeso come esercizio di un “diritto”
o esercizio di una “facoltà” non è operazione di rilevanza puramente lessicale. La differenza tra le
due situazioni esiste ed è notevole: il compimento di un atto come esercizio di un diritto
determina nell’organo pubblico che ne sia destinatario, si tratti di giudice o di pm, un preciso
dovere di pronunciarsi attraverso un provvedimento, mentre il compimento di un atto che sia
espressione di una semplice facoltà non genera alcun correlativo obbligo.
Art. 90 comma 1 c.p.p. “l’offeso del reato può in ogni stato e grado del procedimento presentare
memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, indicare elementi di prova”.
Le memorie, consistenti in annotazioni più o meno sommarie e concise, possono investire
questioni sia processuali che di merito, rilevanti ai fini di decisioni interlocutorie o della decisione
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finale, e possono essere presentate, personalmente dall’offeso o dal proprio difensore, tanto nel
corso delle indagini preliminari, quanto nell’udienza preliminare e nel giudizio, in primo grado o
nei gradi di impugnazione, ivi incluso quello in cassazione.
Gli elementi di prova potranno valere per le indagini preliminari che per il giudizio, al fine di
richiedere l’acquisizione di talune prove, sollecitando il giudice ad avvalersi del potere di “indicare
alle parti temi di prova nuovi o più ampi” o di “disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi
di prova”. In ogni caso, presentare una memoria o proporre un dato probatorio, si tratta di
comportamenti degli organi giudiziari “notizie, elementi di prova, valutazioni, congetture, di cui gli
stessi organi potranno avvalersi, se lo crederanno opportuno, senza che di un eventuale ‘rigetto’ o
‘accantonamento’ dei suggerimenti della persona offesa debbano render conto”.
Nel caso in cui la persona offesa sia minore d’età i diritti e le facoltà a essa spettanti vengono
esercitati:
- personalmente dai minori ultra 14enni e dagli inabilitanti;
- dai loro genitori, tutori, curatori, in via autonoma e nonostante ogni contraria dichiarazione di
volontà, espressa o tacita, del minore o dell’inabilitato;
- dai genitori o dai tutori per i minori degli anni 14 e per gli infermi di mente interdetti;
- da curatori speciali per i minori degli anni 14 e per gli infermi di mente, quando siano privi di
rappresentanti o si trovino con questi in conflitto di interessi.
L’ Art. 101 c.p.p. autorizza, non obbliga, la persona offesa ad agire attraverso un difensore al quale
sono demandate funzioni di mera assistenza tecnica e non anche di rappresentanza processuale.
Naturalmente, non essendo obbligatoria la presenza del difensore l’interessato può validamente
operare di persona.
Gli stessi diritti e le stesse facoltà di cui è titolare l’offeso sono estesi ai prossimi congiunti della
persona deceduta in conseguenza del reato, pur se da questo non direttamente offesi. La nozione
di “prossimi congiunti” ricomprende nella categoria gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i
fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti.

3.Gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato.


I diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa possono essere esercitati, in ogni stato e grado del
procedimento, anche da enti e associazioni portatori di determinati interessi lesi dal reato, quando
non siano stati direttamente danneggiati.
Il fenomeno nasce dalla complessità che caratterizza la società moderna e che con l’aggrovigliato
sviluppo delle relazioni economiche da luogo a situazioni nelle quali determinate attività possono
portar pregiudizio agli interessi di un grande numero di persone facendo sorgere problemi ignoti
alle liti meramente individuali”. Si pensi ai reati in materia di urbanistica, di tutela dell’aria,
dell’ambiente naturale o dell’acqua: sono tutte fattispecie criminose lesive di interessi a carattere
diffuso, appartenenti alla collettività giacché coinvolgono un numero assai elevato di soggetti e
non soltanto qualche singolo individuo. Da qui la ravvisata esigenza di prendere in considerazione
gli enti c.d. “esponenziali” di situazioni meta- individuali.
Art. 91 c.p.p.: “gli enti e le associazioni ai quali sono riconosciuti, in forza di legge, finalità di tutela
degli interessi lesi dal reato” trovano legittimo ingresso tra i soggetti processuali penali; ma
possono esercitare i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato”.
E l’offeso dal reato, quando non impersoni anche il ruolo di danneggiato, non può esercitare né i
diritti né le facoltà di cui è titolare la parte civile.
Al delicato interrogativo su quali siano i requisiti necessari perché un ente o un ‘associazione
possano essere considerati adeguatamente rappresentativi di una collettività, al fine di evitare

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l’ingresso incontrollato nel processo penale di soggetti dall’incerta fisionomia che potrebbero
intralciarne l’andamento, il codice risponde investendo della legittimazione ad adottare iniziative
processuali unicamente gli enti i quali perseguano istituzionalmente finalità di tutela degli interessi
lesi dal reato. A condizione che tali finalità siano state riconosciute in forza di legge, escludendo,
così, la possibilità di individuarle attraverso auto attribuzioni operate, ad esempio, in base a
norme statutarie interne riguardanti le attività degli enti o delle associazioni, o a meri
provvedimenti di natura amministrativa.
A scongiurare il rischio di interventi inopportuni, due limitazioni la norma processuale pone:
a) che il riconoscimento ex lege della qualità di enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato
sia avvenuto anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede.
Questa limitazione è stata dettata sia per assicurare l’ingresso nel procedimento solo a enti che
non siano sospettabili di occasionale istituzione e che offrano maggiori garanzie di serietà; sia
perché di regola la tutela degli interessi collettivi lesi dal reato potrà trovare un centro di
riferimento già costituito.
b) che si tratti di organismi senza scopo di lucro.
Questa seconda limitazione è legata al fatto che la presenza nel procedimento degli enti
esponenziali viene subordinata dalla legge al consenso della persona offesa, e tende a prevenire il
benché minimo sospetto di una strumentalizzazione e di mancanza di spontaneità di tale consenso
per manovre non trasparenti tanto da parte di chi lo presta, quanto da parte di chi li richiede.
I diritti e le facoltà accordati agli enti e associazioni rappresentativi di interessi colpiti dal reato
possono essere esercitati in qualsiasi stato e grado del procedimento.

4.(Segue): l’assenso dell’offeso alla partecipazione al procedimento degli enti e delle associazioni
rappresentativi di interessi lesi dal reato.
La partecipazione al procedimento degli enti è assoggettata al previo assenso dell’offeso, e ciò per
impedire presenze che potrebbero risultare a questi non gradite: le loro strategie processuali
potrebbero non essere convergenti, disturbandosi a vicenda; e il soggetto direttamente
interessato ha il diritto di pretendere che le proprie mosse non vengano ostacolate.
Nell’eventualità in cui l’offeso sia deceduto in conseguenza del reato, la legittimazione a prestare
l’assenso apparterrà ai prossimi congiunti.
Al fine di evitare che il procedimento abbia a un certo momento, a risultare eccessivamente
ingombrato, il codice dispone che a un solo ente, o associazione, possa essere consentito, dalla
persona offesa, di intervenirvi, pena l’inoperatività del consenso eventualmente prestato a più. In
presenza di una pluralità di persone offese dal reato, ferma restando la necessità del consenso da
parte di ciascuna di esse a un ente solo, il numero degli enti che potranno accedere al processo
sarà commisurato al numero delle persone offese.
Art. 92 comma 3 c.p.p., per la prestazione del consenso dispone che “essa sarà valida soltanto se
fatta attraverso atto pubblico o scrittura privata autenticata”.
Una volta consesso, l’assenso è suscettibile di revoca che può essere effettuata in qualsiasi
momento, sin dagli stati più avanzati dell’iter processuale, e, pur attraverso atto pubblico o
scrittura privata autenticata, essendo apparsa al legislatore non sufficientemente univoca una
revoca presunta.

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5.(Segue): l’intervento nel procedimento degli enti e delle associazioni rappresentativi di
interessi lesi dal reato.
Affinché gli enti o le associazioni cui siano state riconosciute finalità di tutela degli interessi colpiti
dal reato possono trovare valido ingresso nel procedimento penale, è necessario che presentino
un “atto di intervento” nel quale devono contenersi:
- le indicazioni necessarie a identificare l’ente o l’associazione, la sede, le disposizioni legislative
che riconoscono le finalità di tutela degli interessi lesi, le generalità del legale rappresentante;
- l’indicazione del procedimento al quale si richiede d’intervenire con la sommaria esposizione
delle ragioni che giustificano l’intervento;
- le generalità del difensore con l’indicazione degli estremi della procura a esso conferita e la sua
sottoscrizione.
Tutti i requisiti sono imposti a pena di inammissibilità dell’atto.
Insieme con la richiesta di intervento vanno presentate la dichiarazione di assenso prestato dalla
persona offesa e la procura del difensore, se conferita con atto pubblico o con scrittura privata
autenticata.
Dall’indicazione degli elementi prescritti per l’atto di interventi si evince che per fare valere i diritti
e le facoltà di cui sono titolari gli enti esponenziali devono avvalersi dell’opera del difensore.
L’atto di intervento va proposto all’autorità avanti alla quale il procedimento si trova nel momento
in cui l’ente esponenziale chiede di parteciparvi. Così, nella fase delle indagini preliminari l’atto si
proporrà presso l’ufficio dello stesso pm; nella fase dell’udienza preliminare o del giudizio, presso
l’ufficio del giudice competente. Se la presentazione avviene fuori udienza e in un momento in cui
le parti non assistono alla vicenda processuale, l’atto di intervento deve essere notificato a
ciascuna di esse al fine dell’instaurazione del contraddittorio, e comincerà a essere produttivo di
efficacia dal giorno in cui è stata effettuata l’ultima delle notificazioni.
Il termine ultimo concesso agli enti e alle associazioni per intervenire nel procedimento penale
coincide con il compimento delle attività di verifica della costituzione delle parti in sede di atti
introduttivi del dibattimento.

6.(Segue): opposizione all’intervento nel procedimento degli enti e delle associazioni


rappresentativi di interessi lesi dal reato e loro eventuale estromissione.
il codice prevede che si possa proporre opposizione all’intervento nel procedimento degli enti
collettivi, quando si reputi ce siano privi dei requisiti voluti dalla legge per l’esercizio dei diritti e
delle facoltà posti a garanzia di situazioni meta individuali.
Legittimate a opporsi sono le parti, effettive o potenziali a seconda dello stadio in cui l’opposizione
è formulata; ne rimane escluso l’offeso dal reato che oltre a non poter essere ricompreso nella
nozione di parte, è in condizione di ottenere in qualsiasi momento l’estromissione dell’ente
facendo valere il proprio diritto di revocare il consenso precedentemente prestato.
Disciplinando forme e termini per l’opposizione, la normativa processuale dispone che essa va
presentata entro 3 giorni dalla notificazione dell’atto di intervento, “con dichiarazione scr5itta
notificata al legale rappresentante dell’ente o dell’associazione, il quale può presentare le sue
deduzioni nei 5 giorni successivi”.
° Se l’intervento dell’ente o dell’associazione ha avuto luogo nell’udienza preliminare,
l’opposizione deve essere formulata prima che il giudice dichiari aperta la discussione, e cioè
durante o immediatamente dopo gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti.

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° Se l’intervento si è realizzato nel corso degli atti introduttivi del dibattimento, ci si può opporre
subito dopo il compimento per la prima volta dell’accertamento relativo alla costituzione delle
parti.
Tutti i termini vanno osservati a pena di decadenza.
Il potere di decidere spetta all’organo giurisdizionale competente per la fase in cui l’opposizione è
stata proposta, e cioè al giudice per le indagini preliminari, al giudice dell’udienza preliminare o al
giudice del dibattimento, i quali devono provvedere, senza ritardo, con ordinanza ad hoc,
disponendo se ritengano fondati i motivi dell’opposizione, l’estromissione dell’ente.
Oltre che su sollecitazione di parte, la decisione di escludere dal procedimento eventuali figure
esponenziali può essere adottata dal giudice d’ufficio, non appena accerti l’inesistenza in esse dei
requisiti di legittimazione voluti per l’esercizio dei diritti e delle facoltà di cui si pretendono titolari.

Capitolo nono
IL DIFENSORE

2.Il difensore e la difesa dell’imputato.


La figura del difensore nel processo penale, e segnatamente del difensore dell’imputato, muove
dall’esigenza di vedere assicurato il contraddittorio sotto ogni profilo e di vedere rimosso qualsiasi
ostacolo a far valere le ragioni della parte. Essa si inserisce nello svolgimento del processo con
carattere di essenzialità, al punto che la sua presenza risulta intimamente connessa con il regolare
esercizio del potere giurisdizionale, e la sua attività si profila come espressione di funzione
pubblica. La partecipazione del difensore al processo penale costituisce uno degli aspetti in cui si
articola il significato della fondamentale enunciazione contenuta nella Costituzione, all’art. 24
comma 2: “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.
Il principio costituzionale investa la necessità che alla parte venga garantito il personale intervento
al contraddittorio, vale a dire il diritto all’autodifesa. Un diritto che si realizza attraverso la
possibilità di effettiva presenza alle attività processuali ; di conoscenza delle altrui opinioni,
argomentazioni, conclusioni e di manifestazione delle opinioni proprie, di indicazione degli
elementi di fatto e di diritto che stanno a fondamento delle proprie ragioni; di propulsione del
processo mediante richieste, istanze, conclusioni, opposizioni.
Ma mentre l’autodifesa è caratterizzata, in quanto attività d’interesse prevalentemente
individuale, dalla semplice facoltà di esplicazione garantita alla parte, la difesa tecnica, proprio
perché collegata a una funzione pubblica, postula la necessità che sia attuata nella maniera più
efficiente possibile attraverso l’imprescindibile presenza, anche imposta, di un difensore.

3.(Segue): il difensore dell’imputato e i suoi diritti.


Il difensore dell’imputato interviene nel processo o in funzione di assistenza o in funzione di
rappresentanza.
Assistenza consiste nella collaborazione prestata, durante l’intero iter processuale, all’imputato
presente, dal difensore in quanto soggetto fornito di particolari requisiti di idoneità tecnica.
Rappresentanza si esplica con la sostituzione del difensore all’imputato nell’esercizio di
determinati diritti o facoltà.
La legge stabilisce che al difensore competono facoltà e diritti identici a quelli riconosciuti
all’imputato. Con questa regola si intende dissipare ogni possibile dubbio sulla legittimazione del
difensore a compiere certi atti nel caso in cui la titolarità di essi venga attribuita al solo imputato; a
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meno che non si tratti di diritti o di facoltà riservati all’imputato personalmente. In questo caso, il
difensore potrà intervenire soltanto se munito ad hoc, come procuratore speciale, e sempre che
sia normativamente possibile.

4.Il difensore delle altre parti, dell’offeso del reato, degli enti rappresentativi di interessi lesi,
Una specifica disciplina detta il codice a proposito di difesa:
° DELLE PARTI PRIVATE: la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per
la pena pecuniaria devono stare in giudizio col ministero di un difensore; questi può compiere e
ricevere, nell’interesse della parte, tutti gli atti del procedimento che la legge ad essa
espressamente non riservi. La posizione soggettiva in cui opera configura il difensore delle parti
private diverse dall’imputato come non soltanto legittimato a compiere atti nell’interesse del
rappresentato, ma anche destinatario di atti che non siano espressamente riservati alla parte.
Esula dalla sfera delle attività consentite al difensore il compimento di atti strettamente personale.
La presenza del difensore delle parti private comporta automatica elezione presso di lui, per ogni
effetto processuale, del domicilio delle parti stesse.
° DELLA PERSONA OFFESA DAL REATO: il riconoscimento di diritti e di facoltà in favore della
persona offesa dal reato implica che a tale soggetto venga assicurata la possibilità di avvalersi
dell’opera di un difensore che lo assista in tutti gli atti il cui compimento costituisce esercizio di
quei diritti o di quelle facoltà. Il difensore della persona offesa potrà svolgere solo funzioni di
assistenza tecnica, dal momento che la legge non gli attribuisce poteri di rappresentanza.
° DEGLI ENTI RAPPRESENTATIVI DI INTERESSI LESI: l’estensione dei diritti e delle facoltà di cui
gode l’offeso agli enti e alle associazioni con finalità di tutela degli interessi lesi dal reato richiede
la presenza nel procedimento penale anche di difensori di tali figure soggettive.

Da sottolineare, che mentre alla persona offesa è consentito stare nel procedimento pur senza
difensore, la cui assistenza è meramente facoltativa, per ciò che riguarda gli enti esponenziali, la
presenza del difensore è necessaria, al pari che per le parti private, essendo essi autorizzati a stare
in giudizio, unicamente, col ministero di un difensore munito di procura speciale. La ratio della
diversa disciplina viene individuata quando si osserva che l’ingresso nel