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DIRITTO PROCESSUALE PENALE

IL DIRITTO PROCESSUALE PENALE E IL PROCESSO PENALE:


LINEE INTRODUTTIVE

Capitolo primo
SISTEMA PENALE E DIRITTO PROCESSUALE PENALE

1.Il conoscere giudiziale: premessa.


Il conoscere giudiziale differisce da ogni altra attività umana di acquisizione di nuova conoscenza
perché implica, sempre e comunque, esercizio di potere; le norme processuali penali perimetrano
e regolamentano l’uso di tale potere, iscrivendolo in una cornice di garanzia e scongiurando, con
ciò, il rischio che il potere trascenda in arbitrio.
Sugli scenari del processo vi è:
- Un attore (actor), che propone al giudice la domanda di giudizio nei confronti della proprio
controparte, attivando così il meccanismo dell’accertamento giudiziale;
- Imputato (reus), nei cui confronti la domanda giudiziale è proposta; esso è posto in grado
di dispiegare le proprie difese in ordine all’oggetto della domanda medesima;
- Il giudice, in posizione di equidistanza dall’uno e dall’altro. È terzo rispetto alle parti e
assume la veste di in medio cognoscens. Spetta a lui coordinare le complesse attività del
conoscere giudiziale (il giudice è il cognoscens, colui il quale conosce) spendendo la propria
posizione di terzietà (il giudice si colloca in medio tra accusa e difesa).

2.Le due anime del sistema penale.


Sin da subito occorrerà brevemente tratteggiare i rapporti tra il diritto processuale penale e il
diritto penale sostanziale.
Converrà muovere da una consapevolezza elementare: spetta al diritto penale sostanziale
coagulare le norme incriminatrici, tipizzando le condotte meritevoli di sanzione penale e fissando
le regole generali per la loro applicazione; spetta al diritto processuale penale individuare i
paradigmi procedimentali idonei a consentire l’accertamento della responsabilità penale
dell’imputato e l’applicazione in concreto a questi, se ritenuto colpevole, dalla sanzione penale.
Tra le due anime del sistema penale vi è un rapporto di reciproca implicazione: la norma
processuale penale sarebbe cieca quando attraverso essa non si intendesse accertare la
commissione di un reato previsto dal diritto sostantivo; poiché ai fini dell’applicazione in concreto
della norma penale sostanziale è indefettibile dar luogo all’attivazione del meccanismo
processuale, il solo diritto sostantivo non sarebbe idoneo a realizzare gli scopi del sistema penale:
non si può applicare in concreto una sanzione penale se non attraverso i meccanismi del processo.
Non c’è nessuna “graduatoria” tra l’una e l’altra anima del sistema, essendo entrambe indefettibili
ai fini della realizzazione degli scopi del sistema nel suo complesso.

La denominazione istituzionale della disciplina era, non per caso, “procedura penale”, e tale si
sarebbe mantenuta fino alla riforma dell’esame dell’abilitazione per esercizio della professione

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(allora) di procuratore legale, varata nel 1989, che anticipò in questo la scelta terminologica
definitiva consacrata dalla riforma universitaria del 1999: solo da allora la disciplina ha stabilmente
assunto la denominazione di “diritto processuale penale”.
La “procedura” raccoglie, concettualmente l’eredità del 500-600 della pratica causarum
criminalium: proprio questo titolo recavano le esposizioni pratiche delle sequenze empiriche di
accertamenti dei fatti di reato; mere “istruzioni per l’uso”, erano ad esse solitamente estranei
intenti di tipo sistematico. Insomma, la pratica causarum criminalium era solo una meccanica,
priva di qualsiasi intento speculativo. Il “diritto processuale”, invece, ambiva a ricostruire un
sistema, ponendone in luce il ruolo di garante e custode di valori.
- Ma davvero può dirsi che la scienza del processo penale sia una mera pratica causarum,
una meccanica che gestisce sequenze di atti a scopi meramente empirici?
 Nessuno, oggi, potrebbe più sostenerlo: i valori coinvolti nel processo penale hanno spessori di
tale portata da rendere più che evidenti le complesse dimensioni sistematiche coinvolte,
peraltro ormai adeguatamente esplorate dalla scienza processualpenalistica.

Occorre, inoltre, dal conto di quanto complessa sia stata,specie nelle epoche più vicine a noi,
l’evoluzione dei rapporti tra il diritto penale e il processo. Varrà l’acuta metafora tracciata, a pochi
anni dall’entrata in vigore del codice di rito del 1988, da Tullio Padovani: da un rito processuale
“servo muto” del diritto penale (era l’epoca della procedura priva di didattica, dissolta
nell’insegnamento più antico e nobile) si era transitati all’era del servo loquace (susseguente alla
conquista dell’autonomia didattica), che, via via affrancandosi dell’antica servitù, era divento
prima “socio paritario” e, infine, proprio con il varo del codice di procedura penale del 1988, “socio
tiranno” del diritto penale sostantivo; già da adesso converrà segnalare gli squilibri che il sistema
dei procedimenti speciali ha provocato nel quadro tradizionale dei congegni della commisurazione
della pena.
Si pensi, ancora, sempre a titolo esemplificativo, ai rapporti tra struttura sostanziale della
fattispecie e dinamiche della prova penale: sarebbe artificioso considerare l’una e le altre alla
stregua di modi separati, corridoi stagni privi di interferenze reciproche; il legislatore sostanziale,
nel concepire le proprie scelte incriminatrici, dovrebbe tener conto delle potenzialità e dei limiti
dei sistemi probatori, meccanismi attraverso i quali l’accusa adempirà al proprio onere della prova,
l’imputato dispiegherà la propria difesa e l’offeso dal reato eserciterà le proprie garanzie
partecipative.
Si pensi, infine, al ruolo della “provata condotta illecita” quale eccezione al contraddittorio ex art.
111, comma 5 Cost.: il “contraddittorio inquinato”, pur radicando anzitutto un concetto di genere,
si atteggia in termini del tutto diversi in sede di accertamento di un fatto bagatellare di tipo
monosoggettivo e nei processi per fatti di criminalità organizzata. La conoscenza di questa
complessità si pone come indispensabile ai fini della comprensione non epidermica del ruolo
stesso del diritto processuale penale nella vita del diritto.

Capitolo secondo
IL SISTEMA DELLE FONTI

2.La centralità della Costituzione nel sistema delle fonti.


L’insegnamento tradizionale ha, sin dall’Ottocento, abitualmente posto al centro del sistema delle
fonti del diritto processuale penale il corpus codicistico deputato a contenere la disciplina del
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processo: al primo codice di procedura penale dell’Italia unitaria, varato nel 1865 attraverso
l’estensione all’intero territorio nazionale del codice del Regno di Sardegna del 1859, seguì
dapprima il codice del 1913, di seguito il codice del 1930. Solo nel 1988 si pervenne al primo
codice dell’età repubblicana.
Fatta eccezione per il codice del 1988, gli altri codici di rito erano stati varati ne vigore dello
Statuto Albertino: un testo costituzionale breve, concesso da Carlo Alberto di Savoia a seguito dei
moti rivoluzionari del 1848, che risentiva fortemente dei rapporti asimmetrici tra potere e libertà
tipici di una monarchia non avanzata. Si trattava, soprattutto, di una Costituzione flessibile che
occupava, nel sistema delle fonti, una rango pari a quello della legge ordinaria. Proprio questa è la
ragione per la quale si era, nel tempo, continuato a ripetere che la fonte principe del diritto
processuale penale fosse il codice di rito di volta in volta vigente.
L’affermazione va ripensata, oggi, alla luce della rivoluzione copernicana apportata all’intera tavola
dei valori della convivenza civile dalla Costituzione repubblicana del 1948: i rapporti tra autorità e
libertà sono stati interamente ripensati attraverso la valorizzazione del c.d. principio personalistico;
il baricentro del sistema si sposta sui diritti inviolabili della persona, riconosciuti e garantiti, in apici
bus, dall’art. 2 Cost.; le stesse libertà negative di origine liberale sono risultate trasfigurate nella
nuova cornice della primazia costituzionale della tutela della persona umana.

La cornice costituzionale (rigida, ormai, e non più flessibile: la Costituzione occupa, nel sistema
delle fonti, un rango apicale, sovraordinato rispetto alla legge ordinaria) ha assunto un ruolo di
importanza strategica nel sistema delle fonti. Il ruolo centrale nel sistema delle fonti del diritto
processuale penale è oggi ricoperto dalla Costituzione della Repubblica. Secondo un’impostazione
particolarmente autorevole e del tutto condivisibile, il diritto processuale penale è diritto
costituzionale applicato.
Le norme costituzionali di diretta incidenza sul quadrante processuale penale evidenziano un forte
impatto di straordinaria latitudine, ben più ampia di quanto non accada in qualsiasi altro settore
dell’esperienza giuridica.
Rilevano:
 ART. 2 COST. in tema di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo: circa le dirette ricadute
processuale si pensi, ad esempio, al divieto assoluto di adoperare, in sede di escussione della
fonte dichiarativa ma anche in sede di interrogatorio dell’imputato, metodi o tecniche idonei
ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare o valutare i
fatti, o al potere-dovere del presidente del collegio dibattimentale di curare che l’esame del
dichiarante sia condotto senza ledere il rispetto della persona.
 ART. 3 COST. riveste il vero e proprio perno del sistema. Il principio di eguaglianza, che
costituisce, nel contempo, un formante delle scelte legislative e il primo canone ermeneutico
rivolto all’interprete, rileva anche nella sua veste di canone di ragionevolezza. Questo articolo
non solo è quasi sempre evocato, dai giudici a quibus, quale parametro di scrutinio ai fini della
sollevazione della questione di costituzionalità, ma costituisce spesso uno dei fondamenti delle
declaratorie di illegittimità costituzionale concernenti nome processuali penali.
 ART. 13 COST. apre il catalogo delle libertà negative o dallo Stato. È superfluo segnalare il
ruolo di centralità che la tutela costituzionale della libertà personale ricopre nell’ambito della
disciplina processuale penale, considerato che il processo penale è l’unica esperienza
processuale statuale che ospita al suo interno regimi limitativi della libertà personale di un
soggetto che è assistito dalla presunzione di non colpevolezza.

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 ART. 14 COST. nel tutelare la libertà di domicilio mostra addentellati processuali di grande
impatto pratico: si pensi, per tutti, alla disciplina delle ispezioni e delle perquisizioni domiciliari.
 ART. 15 COST. tutela la libertà e segretezza della corrispondenza e delle altre forme di
comunicazione: i suoi raccordi con il sistema processuale penale coinvolgono la disciplina delle
intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali, la cui importanza pratica è sempre più
cospicua, ma si estendono altresì ad altri fenomeni di grande rilevanza come l’acquisizione dei
tabulati del traffico telefonico o le videoriprese.
 ART. 24 COMMA 2 COST. nel tutelare l’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del
procedimento, dispiega trasversalmente i suoi effetti lungo l’intero arco in cui si svolge il rito
penale: l’importanza della formula sta nella natura aperta della previsione, insuscettibile di
catalogazioni definite, sicché la compilazione di un elenco chiuso delle modalità di esplicazione
del diritto di difesa, prima ancora che impossibile, sarebbe erronea sotto il profilo del metodo.
L’inviolabilità del diritto di difesa trova, poi, una interfaccia operativa nell’art. 111 comma 3
Cost., che elenca, senza alcuna pretesa di completezza, alcuni tra i più importanti diritti
difensivi spettanti all’accusato.
 ART. 25 COMMA 1 COST. fissa il principio della naturalità e precostituzione del giudice e va
oggi letto unitamente alla previsione della terzietà ed imparzialità del giudice sancite dall’art.
111 comma 2 Cost. Il valore dell’imparzialità del giudice costituisce il baricentro della garanzia:
tra i molteplici riflessi codicistici rilevano le regole in tema di competenza nonché le norme in
tema di incompatibilità e gli istituti dell’astensione, della ricusazione e della rimessione dello
iudex suspectus.
 ART. 27 COMMA 2 COST. dà corpo alla presunzione di non colpevolezza dell’imputato fino alla
condanna definitiva: si tratta di una tra le più importanti garanzie costituzionali di contesto,
che rileva in chiave di regola di trattamento e in veste di regola di giudizio, a sua volta
distinguibile in:
 Regola probatoria: l’onere della prova incombe sulla pubblica accusa
 Regola decisoria sul fatto incerto: ove l’accusa non ne abbia provato la colpevolezza al di là
di ogni dubbio ragionevole, l’imputato deve essere prosciolto dall’addebito formulato a suo
carico.
 ARTT. 101 ss COST. danno corpo alle prerogative istituzionali della magistratura, scolpendone i
principi di autonomia e indipendenza che, insieme all’imparzialità, ne disegnano lo statuto
costituzionale di fondo.
 ART. 109 COST. fissa il principio della dipendenza funzionale della polizia giudiziaria
dall’autorità giudiziaria, salva la dipendenza generica degli organi di polizia dai proprio Corpi di
appartenenza.
 ART. 111 COST. modificato dalla legge costituzionale 2/1999, ospita il c.d. “giusto processo”.
Dei cinque nuovi commi introdotti dalla novella costituzionale i primi due si riferiscono ad ogni
tipologia processuale mentre i commi 3-4-5 fissano garanzie specifiche del processo penale, tra
cui campeggia la regola del contraddittorio nella formazione della prova e la previsione di un
novero chiuso di deroghe autorizzate.
 ART. 112 COST. nel consacrare l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale dal parte del
PM, struttura un principio di legalità nell’agire che plasma uno dei caratteri strutturali di fondo
del sistema processuale penale italiano: tra i numerosi, imponenti effetti del canone di
obbligatorietà dell’azione possono, tra gli altri, sin d’ora menzionarsi il principio di completezza
delle indagini e la complessa fisionomia del rito dell’archiviazione della notitia criminis
infondata, finalizzato proprio a scongiurare condotte eversive dell’obbligo di agire.
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2.Il codice di procedura penale del 1988.
Pur se la Costituzione della Repubblica costituisce il fulcro di rotazione del sistema delle fonti, la
disciplina analitica che regola il fluire dell’accertamento penale è contenuta in un apposito corpus
codicistico che assume ancor oggi la denominazione di codice di procedura penale.
Il codice vigente è stato approvato con d.P.R. 447/1988, sulla scorta della legge delega 81/1987, ed
è entrato in vigore il 24 ottobre del 1989: l’inter conclusosi con la sua approvazione è stato lungo e
tormentato, avendo visto le sue premesse nel varo stesso della Costituzione del 1948.
Si è già posto in luce come l’impostazione personalista della Carta fondamentale contrastasse con
il modello dei rapporti tra autorità e libertà sotteso alla codificazione del 1930: risultò, dunque,
subito chiaro come tra la Costituzione e il corpus codicistico allora vigente sussistesse una frattura
incolmabile, e come, dunque, un adeguamento del sistema processuale penale alla nuova tavola
dei valori consacrata nelle scelte dell’Assemblea costituente fosse possibile solo attraverso una
manovra abrogatrice del codice del 1930 e l’approvazione di un nuovo e profondamente diverso
impianto codicistico.
Si decise, dunque, di operare attraverso modifiche normative nel sistema e non del sistema, la cui
inadeguatezza si rivelò assai presto, così da rendere inevitabile, specie a partire dagli anni ’60 del
secolo scorso, il dischiudersi di un ciclo di significativi interventi ablativi e manipolativi della Corte
costituzionale. Si apriva, così, la lunga compromissoria stagione della del “garantismo inquisitorio”,
caratterizzata dal tentativo di innesto di una logica di tutela delle garanzie individuali nel corpo di
un impianto in origine concepito come refrattario a esse: gli esiti manifestamente insoddisfacenti
di tali manovre continuavano a premere verso la necessità di una ricodificazione processuale
penale.
Nel 1962 fu nominata una Commissione ministeriale per la riforma del codice di procedura penale
presieduta da Francesco Carnelutti. Dai lavori della Commissione prese forma un primo testo, la
c.d. “bozza Carnelutti”, frutto delle opinioni personali del Presidente, che tuttavia non ebbe
seguito istituzionale perché ritenuto portatore di idee troppo avanzate e originali.
Il progredire del dibattito condusse al varo della prima delega legislativa per l’emanazione del
nuovo codice di procedura penale, l.108/1974. Nel 1978 fu reso pubblico il testo di un progetto
preliminare di nuovo codice, ispirato ai caratteri del sistema accusatorio, cui tuttavia non fu dato
seguito per il deflagrare dell’emergenza terroristica, che aveva comportato lo stratificarsi di una
legislazione novellistica dalle ispirazioni diametralmente opposte.
Nel decennio successivo il Parlamenti approvò la seconda delega legislativa, la l. 81/1987, sulla cui
scorta un’apposita Commissione ministeriale, presieduta da Giandomenico Pisapia, approvava un
progetto preliminare di seguito, con talune modifiche, divenuto il testo del codice di procedura
penale del 1988.
Il codice, nella sua articolazione in undici libri, risulta idealmente distinguibile in due parti:
- Prima parte, dedicata aspetto “statico” del processo, tratta, in quattro libri, dei soggetti,
degli atti, delle prove, delle misure cautelari personali e reali;
- Seconda parte, dedicata all’aspetto “dinamico”, si occupa, dal quinti all’undicesimo libro,
delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, dei procedimenti speciali, del giudizio,
del procedimento avanti il tribunale in composizione monocratica, delle impugnazioni,
dell’esecuzione, dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere.

Al teso del codice si affianca il corpus delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie
varate con il d.lgs. 271/1989.

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Norme transitorie: hanno ormai pressoché esaurito la loro funzione.
Norme di coordinamento e di attuazione: mantengono un ruolo non trascurabile nell’economia
delle fonti del diritto processuale penale. Le norme di attuazione vanno al di là di quella che è la
specifica funzione che a tale tipo di regole viene di solito riservata, e cioè agevolare l’operatività
degli istituti previsti dalla normativa principale: esse,nell’ambito dell’apparato introdotto dal
codice del 1988, sembrano adempiere, piuttosto, al compito di colmare lacune e di risolvere
problemi cui la fretta della stretta finale, nascente dalla volontà di chiudere entro una data
determinata il lavoro di redazione del testo propriamente codicistico non aveva consentito di
dedicare l’attenzione dovuta o che, in ogni caso non aveva permesso di portare a soluzione.
Il codice del 1988 non ha avuto vita stabile: sin dai suoi primi mesi di vigore vi si sono abbattute
una miriade di declaratorie di incostituzionalità che, insieme a numerosissime modifiche
novellistiche, ne hanno gravemente destabilizzato l’impianto, accentuandone le incoerenze. Il
sistema attuale può dirsi ancora davvero lontano dal raggiungimento di un suo reale punto di
equilibrio.

3.L’irrompere della dimensione sovranazionale: l’esperienza della Convenzione europea dei


diritti dell’uomo e l’impatto sul sistema interno.
Molteplici sono le fonti sovranazionali di carattere pattizio che intersecano la materia processuale
penale.
Ad esempio:
1. Patto internazionale sui diritto civili e politici dell’Onu (adottato nel dicembre del 1966 e reso
esecutivo in Italia con la l. 881/1977), il cui art. 14 cristallizza importanti paradigmi rientranti
nell’alveo delle garanzie del giusto processo;
2. Convenzione Onu sui diritti del fanciullo (adottata nel novembre del 1989 e resa esecutiva in
Italia con la l.176/1991), nel cui quadro molteplici norme sono dedicate alle garanzie del
processo penale minorile.
3. Convenzione europea dei diritti dell’uomo (adottata nel novembre del 1950 e resa esecutiva
in Italia con la l. 848/1955): si tratta di uno strumento che, accompagnato ed integrato dai
suoi Protocolli aggiuntivi, edifica un proprio sistema dinamico, il cui baricentro è costituito
dalla Corte europeo dei diritti dell’uomo che può essere adita anche tramite ricordo
individuale.
All’epoca del suo primo varo, al sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non fu
dedicata l’attenzione istituzionale che avrebbe meritato, pur se la Corte europea con sede a
Strasburgo aveva da subito offerto contributi importanti in sede di elaborazione ermeneutica del
testo convenzionale.
La vera svolta, in termini di coscienza dell’impatto del sistema Cedu sull’ordinamento interno, fu
proporzionata, tuttavia, dalla riforma del titolo V sulla Costituzione operata con l. 3/2001: il nuovo
art. 117 comma 1 Cost. prevede, infatti, che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali.
- Che cosa si deve fare se emerge che la fonte italiana interna di rango primario si sia posto
in contrasto con i vincoli comunitari o con obblighi internazionali gravanti sull’Italia?
 La risposta a tale quesito va individuata in una celebre coppia di pronunce costituzionale del
2007, le c.d. “sentenze gemelle” (Corte cost. 348/2007 e 349/2007), le quali hanno individuato
hanno una precisa sintassi nei rapporti tra Costituzione della Repubblica, “norme interposte”
di fonte convenzionale e fonti normative interne: al giudice comune spetta il compito di

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interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, ma
naturalmente entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme; qualora ciò non sia
possibile, ovvero qualora sussistano dubbi sulla compatibilità della norma interna con la
disposizione convenzionale interposta, l’interprete dovrà promuovere lo scrutinio di
costituzionalità della norma interna elevando a parametro di controllo il nuovo art. 117
comma 1 Cost.; al giudice comune rimarrà, per contro, preclusa la diretta disapplicazione della
disposizione interna ritenuta in contrasto con la fonte convenzionale.
L’interpretazione conforme della norma interna al tessuto convenzionale è un onere del giudice e
presuppone, da parte sua, una specifica attrezzatura culturale, coinvolgente il testo della
Convenzione e la giurisprudenza di Strasburgo che vi dà concretezza nell’esperienza applicativa;
tale attrezzatura culturale si estende alle parti del processo, innestandosi l’interpretazione
conforme, a pieno titolo, negli itinerari di svolgimento del rito.

Capitolo terzo
IL PROCESSO PENALE E LE SUE CARATTERISTICHE

1.Il processo giudiziario come species del procedimento.


“Processo”, “procedere” e “procedura”, sono tutti termini che evocano l’idea di un itinerario che si
sostanzia in una sequenza di atti e che tende al conseguimento di un risultato finale.
Il procedimento può, in chiave generale, individuarsi in una sequenza di atti, legati tra loro da
criteri di logica relazione, tali per cui ogni atto sia legittimato dal precedente e legittimi, a sua
volta, il successivo, e tali per cui l’intera serie sia finalizzata al conseguimento di un risultato utile
che scaturisce dall’ultimo atto della serie medesima.
Esempio: l’iter di formazione della legge ordinaria si incanala nel solco di un tipico procedimento.
La sequenza prende l’avvio dalla formulazione di una proposta di legge che, depositata e
incardinata presso una delle due Camere, sarà qui assegnata alla Commissione parlamentare
competente, che ne avvierà l’istruttoria. In esito all’esame svolto la Commissione articolerà un
testo, che transiterà in aula per il dibattito e l’approvazione, articolo per articolo con votazione
finale; quindi il provvedimenti approvato sarà trasmesso all’altro ramo del Parlamento per l’esame
e l’approvazione, nel medesimo testo approvato dalla prima Camera; a fronte del testo che abbia
registrato l’approvazione di entrambe le Camere potrà transitarsi alla fase della promulgazione da
parte del Capo dello Stato, dell’inserimento nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti dello
Stato e della pubblicazione sulla GU della Repubblica. Trascorso il previsto periodo di vacatio, la
legge entrerà in vigore. Ciascun atto della sequenza sarà posto a base del successivo riposerà, a
sua volta, sul precedente. L’intera serie è preordinata al conseguimento di un effetto finale, la
piena efficacia della nuova legge, che scaturirà, in termini immediati, dall’ultimo atto della serie.

Il proprium del procedimento giudiziario rispetto alla nozione di genere si sostanzia nella presenza
del giudice come soggetto terzo ed imparziale, nonché nel metodo del contraddittorio che informa
di sé l’accertamento giudiziario nel suo complesso e il suo cuore pulsante, costituito dall’adozione
del metodo del contraddittorio nella formazione della prova.
Per comprendere la nozione di contraddittorio, sarà necessario soffermarsi brevemente sul dato
etimologico: vi emerge la nozione del dicere contra, il cui significato allude all’attività del dicere al
cospetto, davanti a qualcuno; e il soggetto al cui cospetto le parti svolgono la loro attività è il terzo
imparziale, il giudice, l’organo a cui le parti chiedono di ius dicere, cioè di pronunciare il diritto per
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il caso concreto, e che eserciterà il proprio potere-dovere dopo che le parti abbiano, avanti a lui,
interloquito in contraddittorio.
Il contraddittorio mira a garantire che le parti, cioè coloro nella cui sfera giuridica la decisione
esplicherà i suoi effetti, possano interloquire in vista della decisione medesima, nelle sedi
preparatorie della stessa. Il giudice potrà disattendere i risultati dei contributi dialettici delle parti
ma non potrà ignorarli, sicché si designa un legame intimo tra contraddittorio, terzo e decisione
quale atto conclusivo della serie.
Sono queste le caratteristiche di fondo che fanno del processo giudiziario una species, ad alta
specializzazione, del procedimento.

2.I modelli teorico- generali.


Pur nella diversità di fisionomie, di strutture, di significati che l’esperienza processuale penale
disvela da ordinamento a ordinamento, da periodo a periodo, è possibile cogliere linee comuni nei
tratti essenziali dei diversi sistemi via via succedutisi, sì da poter enucleare regole generali, pur se
non sempre ineccepibili, valide per i tipi di processo di volta in volta adottati.
Due successive esperienze contrassegnano nei vari periodi il fenomeno processuale penale, e si
esteriorizzano, l’una attraverso il rito accusatorio, l’altra attraverso il rito inquisitorio, secondo la
designazione che ne suggerisce la tradizionale terminologia giuridica.
Nessuno degli odierni schemi processuali concreti si modula sull’uno o sull’altro, dando luogo,
piuttosto, a sistemi misti, in ciascuno dei quali possono manifestarsi prevalenze di caratteri in
senso accusatorio o in senso inquisitorio.

3.Il processo accusatorio.


Il sistema processuale accusatorio risultato improntato ai seguenti caratteri:
a) Accertamento dell’illecito lasciato alla libera iniziativa delle parti contrapposte, e dunque,
presenza di un accusatore che opera in parità di posizione e con parità di diritti rispetto
all’accusato, sul presupposto che tesi e antitesi devono poi comporsi nella sintesi della
decisione emessa dal giudice in situazione di assoluta equidistanza rispetto all’una o all’altra;
b) Esclusione di qualsiasi potere d’iniziativa del giudice in ordine all’ammissione e all’assunzione
delle prove, con conseguente onere probatorio a carico dell’accusatore;
c) Pubblicità, come forma di controllo da parte dell’opinione pubblica e oralità del processo;
d) Presunzione di innocenza dell’accusato sino alla condanna irrevocabile e suo conseguente
stato di libertà durante il processo.
Il rito accusatorio si delinea come una contesa tra due parti, con netta contrapposizione tra
un’accusa e una difesa in una sorta di duello giudiziario regolato da un organo al di sopra dei due
contendenti. Puntualmente differenziati appaiono, così, i tre fondamentali ruoli dell’accusa, delle
difesa e del giudice.
Il processo di stampo accusatorio trova giustificazione in una valutazione esclusivamente
privatistica del comportamento illecito, essendo considerati come del tutto individuali gli interessi
da questo colpiti, tant’è che in origine era la stessa persona offesa, o erano i suoi congiunti, a
esercitare l’accusa. Solo in un secondo momento viene percepito il valore sociale degli interessi
lesi dal reati o da alcuni tipi di reato, per cui si delineano le figure dei:
- delicta privata che continuano ad essere processualmente trattati alla stregua di qualsiasi
altro rapporto di rilevanza individualistica;

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- delicta publica la cui perseguibilità viene affidata dapprima all’iniziativa di un qualsiasi
cittadino componente della societas offesa, e solo più tardi all’iniziativa di determinati
soggetti come titolari di un ufficio pubblico.

4.Il processo inquisitorio.


Le caratteristiche del sistema inquisitorio appaiono diametralmente opposte rispetto a quelle del
procedente rito accusatorio. Esse possono essere così individuate:
a) attivazione, ai fini dell’accertamento dell’illecito, affidata essenzialmente all’autorità di un
organo pubblico e, dunque, immedesimazione in un unico soggetto delle funzioni accusatorie e
di giudice con consequenziale attribuzione a quest’ultimo di poteri di intervento ex officio nella
raccolta delle prove;
b) imposizione di vincoli e di limitazioni alla difesa, come effetto della mancata contrapposizione,
e dunque dell’impossibilità di comparazione tra dialettica, tra le due parti fondamentali,
l’accusatore e l’accusato nei confronti del quale già la semplice formulazione dell’accusa
diventa giudizio anticipato di colpevolezza;
c) segretezza del processo anche per lo stesso inquisito, con eliminazione di qualsiasi sorta di
controllo pubblico e assoluta prevalenza di forma secondo le quali tutto va redatto per iscritto;
d) adozione della carcerazione preventiva, come conseguenza dell’attribuzione al magistrato dei
più ampi poteri nella ricerca delle prove anche attraverso il ricorso a mezzi di coercizione della
libertà personale del pervenuto.
Essenzialmente il processo inquisitorio riduce di molto, se non elimina, le garanzie dell’imputato,
che rimane affidato alla mercé di un soggetto, il giudice al tempo stesso accusatore, il quale,
proprio per questa sua ibrida veste, non potrà mai essere in condizione di valutare obiettivamente
e serenamente la posizione del giudicabile.

5.I due paradigmi teorici a confronto: profilo politico-sociali.


Un raffronto tra le caratteristiche dei due modelli di processo mostra che essi corrispondono a due
modi di concepire la società: uno, ispirato da un forte sentimento dell’individuo, per il quale il
processo è contesa ad armi pari; l’altro, leviatanico, noncurante degli individui, per il quale conta
soltanto fare giustizia o, comunque, raggiungere un risultato. Tali contestazioni consentono anche
qualche rapida considerazione sul significato che un sistema processuale può assumere nella
logica di un determinato regime politico.
In termini assai efficaci è stato scritto che “un regime politico assoluto” trova nel sistema
processuale inquisitorio, oltre che la sua espressione più coerente, lo strumenti di potere più
efficace, mentre in un regime di libertà politica non solo è coerente, ma è postulato un sistema
processuale accusatorio. Il venir meno di quelle fondamentali garanzie processuali che il rito
inquisitorio ignora favorisce la possibile realizzazione di ogni arbitrio e può costituire efficacissimo
strumento di persecuzione.

6.Il sistema attuale: qualche rilievo di sintesi.


Il sistema attualmente vigente scaturisce dal codice entrato in vigore il 24 ottobre 1989 ed è
strutturato sulla base dei princìpi e dei criteri direttivi dettati dalla legge- delega 81/1987.
Il sistema del 1989 segue a un’esperienza, quella del codice Rocco, durata ben oltre mezzo secolo
e caratterizzata dall’adozione di uno schema di processo di tipo misto, ispirato in parte a regole
inquisitorie, in parte a regole accusatorie. I caratteri inquisitori del sistema del 1930 si evidenziano
soprattutto nella fase della c.d. “istruzione” (articolata nei due momenti dell’istruzione sommaria

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affidata al PM e dell’istruzione formale affidata al giudice istruttore) destinata all’attività di
investigazione e di formazione delle prove attraverso la libera iniziativa del giudice nella ricerca di
esse, e condotta secondo canoni di segretezza, che relegavano l’imputato e il suo difensore in
posizione di assoluta inferiorità, escludendoli anche dalla partecipazione a fondamentali attività di
rilevanza probatoria, quali gli esami testimoniali o i confronti. I caratteri del sistema accusatorio
apparivano a tratti nella fase del dibattimento, che, se pur, imperniato sui contrapposti canoni
della pubblicità e dell’oralità, rimaneva sempre fortemente condizionato dalle risultanze
probatorie acquisite in istruzione secondo i metodi di natura inquisitoria, finendo con
l’adempimento unicamente a una funzione di mero riscontro degli elementi raccolti
precedentemente.
Di fronte ad un sistema processuale siffatto istintiva nasceva l’esigenza di una mediata e profonda
riforma alle “infelici combinazioni” del sistema misto, che finivano con il privilegiare gli schemi
inquisitori delle lunghe istruzioni e degli inconsistenti dibattimenti, sostituisse un meccanismo più
attuale e più aderente alle istanze di un ordinamento democratico ed una più ampia
considerazione per la persona.
La filosofia di fondo del nuovo impianto veniva individuata, dall’art. 2 della legge delega,
nell’attuazione dei caratteri del sistema accusatorio che per la loro maggiore aderenza agli schemi
democratici, nel contesto di una più ampia considerazione per la persona, meglio consentono di
coniugare garanzia ed efficienza. Detti caratteri emergono,proseguiva la relazione al testo
definitivo del codice, attraverso:
- la netta differenziazione di ruolo tra PM e giudice;
- l’eliminazione del segreto negli atti del giudice e nella formazione della prova;
- l’accentuazione dei poteri delle parti e la parità tra queste;
- la valorizzazione del dibattimento e dell’oralità.

I SOGGETTI

Capitolo primo
LE “PERSONE” NELLA STRUTTURA DEL PROCESSO PENALE

1.Premessa.
Sia il “processo” che il “procedimento” si presentano come fattispecie complesse a formazione
successiva.
Così come accade per qualsiasi fattispecie complessa a formazione successiva,anche il “modulo
procedimentale” e quello “processuale” si caratterizzano per essere composti di diversi elementi
tra loro collegati, di cui l’uno rappresenta la conseguenza di quello che lo precede e al tempo
stesso il presupposto di quello che lo segue, e protesi tutti alla realizzazione di un effetto finale.
Tali elementi sono costituiti in primo luogo dalle norme che regolano il procedimento, poi dalle
diverse situazioni soggettive ipotizzate da quelle norme, infine dagli atti compiuti in applicazione di
quelle norme, infine degli atti compiuti in applicazione di quelle norme e in forza di quelle
situazioni. Essenziali è, pertanto, l’individuazione dei titolari di tali situazioni.
Una distinzione occorre operare, a seconda che si tratti di persone che comunque prestano una
qualche attività in seno al processo (es: i testimoni, i periti), ovvero persone che, titolari di

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situazioni soggettive nate con il processo, entrano a far parte della struttura di esso o ne
costituiscono i termini di riferimento. Soltanto i titolari di queste ultime situazioni, che possiamo
anche chiamare “situazioni legittimanti”, possono considerarsi soggetti processuali.

2.I soggetti processuali. Soggetti necessari e soggetti eventuali.


Sono soggetti processuali:
- il giudice;
- il pubblico ministero;
- la polizia giudiziaria;
- la persona nei cui confronti si procede, che emerge nella duplice qualificazione di: persona
sottoposta alle indagini e di imputato;
- il civilmente obbligato per la pena pecuniaria;
- la persona che ha subito gli effetti del reato, che può venire in considerazione nella vesta di
semplice persona offesa, nonché di danneggiato con conseguente legittimazione ad
assumere il ruolo di parte civile;
- il responsabile civile.
Sono tutti titolari di situazioni soggettive che acquistano rilevanza con il sorgere del procedimento
e caratterizzate, principalmente:
a) per ciò che riguarda il giudice, dal dovere di pronunciare una decisione, sia essa quella
decisione finale che trasforma la regiudicanda oggetto del processo nella regiudicata
attraverso la sentenza di condanna o di proscioglimento, si essa una decisione semplicemente
strumentale che riguardi il “se” e il “come” si debba procedere per giungere alla decisione
finale;
b) per ciò che riguarda il PM e la polizia giudiziaria, dal dovere di svolgere, secondo le rispettive
attribuzioni, le attività necessarie al fine di promuovere la pronuncia di una decisione (finale o
strumentale) del giudice;
c) per ciò che riguarda l’imputato, dal diritto di intervenire e di interloquire, in via di difesa, con
istanze ed eccezioni ai fini della pronuncia della decisione giudiziale;
d) per ciò che riguarda la persona offesa dal reato, dal potere di intervenire in relazione alle
attività poste in essere dal PM allo scopo di promuovere la decisione giudiziale;
e) per ciò che riguarda la parte civile e il responsabile civile, dal diritto di avanzare e di
contrastare le pretese di natura civilistica dirette a ottenere una decisione giudiziale n materia
di obbligazioni risarcitorie nascenti dal reato.
Dei soggetti adesso indicati, alcuni sono necessari, in quanto senza di essi il processo non verrebbe
nemmeno a giuridica esistenza (si tratta del giudice, del PM e dell’imputato). Gli altri, invece, sono
eventuali, nel senso che potrebbero anche mancare e il processo non ne soffrirebbe.
Il processo senza le figure necessarie non è neppure concepibile.

3.Le parti processuali. Parti necessarie e parti eventuali.


Dal novero dei soggetti processuali una categoria si staglia, quella delle c.d. parti processuali,
categoria ufficialmente riconosciuta dal sistema normativo che di essa fa il punto di riferimento
obbligato per la costruzione del processo penale. Processo a impronta programmaticamente
accusatoria, la cui essenza può cogliersi nella contesa tra le due “parti” nettamente contrapposte,
accusatore e accusato, risolta da un organo al di sopra di entrambe. Dunque, si parla di, processo
di parti.

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Parlando di “parte” come del soggetto che richiede una decisione giurisdizionale in accoglimento
di una propria tesi il riferimento più immediato corre al pubblico ministero giacchè questi è, in
primo luogo, il soggetto che attraverso il promovimento dell’azione penale domanda al giudice
una decisone che accolga le ragioni dell’accusa.
L’altro al quale va riconosciuta la qualifica di parte è l’imputato: ciò che gli conferisce funzione di
parte del processo è unicamente la colpa che gli viene rivolta dal PM. Il modulo accusatorio
accentua la posizione di “istituzionale antagonismo” dell’imputato rispetto al PM: una posizione
che nasce non appena si delinei la formulazione dell’accusa e che conferisce all’imputato una serie
di diritti e di facoltà processuali per contrastare la tesi del PM, per fare valere le proprie ragioni
difensive,per fare accogliere la propria tesi.
Ovviamente, l’immagine della “parte”, nella sua espressione autentica , viene a delinearsi soltanto
nel contesto di una situazione contrassegnata dalla presenza attuale del soggetto avanti al quale
sia possibile formulare la richiesta di una decisione giurisdizionale, ossia del giudice, e quindi
dall’essere già in sede giurisdizionale, ossia nel’ambito del processo in senso proprio. Ciò implica
che nella fase anteriore, vale a dire nel corse del procedimento per le indagini preliminari, tanto il
PM quanto la persona sottoposta alle indagini non agiscono nella veste di “parti” nel significato
tecnico del termine. Tuttavia, poiché in tale fase essi svolgono pur sempre un’attività finalizzata
alla raccolta degli elementi necessari per suffragare le proprie domande davanti al giudice, va loro
riconosciuto un ruolo che può essere definito di parti potenziali: “parti potenziali” per il processo
in vista dell’assunzione della qualità di parti effettive nel processo.
Parti sono anche:
- la parte civile: alla quale vengono accordati mezzi giuridici processuali per sollecitare una
decisione giurisdizionale che realizzi una pretesa di restituzione o di risarcimento del danno
derivante dal reato;
- il responsabile civile: titolare di mezzi giuridici di difesa concessigli per resistere alla pretesa
della parte civile;
- il civilmente obbligato per la pena pecuniaria : che vanta di diritti di natura difensiva
collegati alla sua posizione processuale di ente giuridico chiamato a rispondere per la pena
della multa o dell’ammenda inflitta al condannato insolvibile al quale è legato da un
particolare rapporto di autorità, direzione o vigilanza.

I soggetti che sfuggono alla qualifica di “parte” sono:


 la persona offesa dal reato alla quale si consento soltanto di apportare mediante forme di
adesione all’attività del PM ovvero di controllo su di essa, una sorta di contributo all’esercizio o
al proseguimento dell’azione promossa dallo stesso PM al quale rimane, in ogni caso, affidata
la titolarità della richiesta di una decisione che recepisca le argomentazioni dell’accusa.
 La polizia giudiziaria i cui organi affiancano il PM nello svolgimento dell’attività investigativa,
secondo rapporti funzionali che saranno a suo tempo tratteggiati: al solo PM è assegnata la
titolarità dell’azione penale e la responsabilità delle determinazioni a essa inerenti, sicchè la
qualità di parte spetta soltanto all’organo dell’accusa e non si estende agli organi ausiliari.

Capitolo secondo
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IL GIUDICE

1.Le caratteristiche del giudice penale: a) indipendenza e imparzialità.


Il giudice è un organo terzo e imparziale collocato in una posizione di equidistanza rispetto alle
parti, cui spetta il compito di ius dicere e dunque di pronunciare la decisione a lui richiesta
attraverso la domanda di giudizio.
Requisiti essenziali affinché l’esercizio della giurisdizione si svolta secondo le finalità che spetta al
processo perseguire sono, in primo luogo, l’indipendenza e l’imparzialità del giudice, che possono
ben considerarsi elementi connaturati alla stessa qualità di giudice.
INDIPENDENZA. Quando si parla di indipendenza ci si intende riferire alla libertà dell’organ
giurisdizionale, nella sua delicata funzione del decidere, di agire secondo il proprio giudizio e la
propria volontà, senza vincoli né rapporti di subordinazione formale o sostanziale nei confronti di
altri organi, poteri o soggetti.
L’indipendenza è ribadita dall’art. 104 comma 1 Cost., là dove si enuncia il principio che la
magistratura, alla quale i giudici appartengono, “costituisce un ordine autonomo e indipendente
da ogni altro potere”: espressione questa con la quale si allude ai due tradizionali poteri dello
Stato diversi dal giudiziario, cioè al legislativo e all’esecutivo.
Nei confronti del potere legislativo, indipendenza del giudice significa impossibilità che il
Parlamento, i primo luogo attraverso la sua funzione di legislatore, e poi, attraverso la sua
funzione di controllo politico, interferisca, mediante inchieste o dibattiti, sull’operato di un singolo
giudice o su singole questioni decise o da decidere dal giudice o, più in generale, adotti iniziative
che possano in qualche modo risolversi in un’intromissione nell’esercizio della potestà
giurisdizionale.
Nei confronti del potere esecutivo, l’indipendenza si traduce nell’evitare che il giudice possa subire
condizionamenti nello svolgimento dei suoi delicati compiti di organo della giurisdizione, per il
fatto che amministrativamente è un impiegato statale, sotto certi aspetti legato all’esecutivo (in
particolare, al ministro della giustizia).
Per rendere effettiva questa forma di indipendenza è necessario eliminare in capo al potere
esecutivo qualsiasi facoltà di disporre degli interessi personali del giudice relativamente alla sua
stessa situazione giuridica di impiegato pubblico: ciò è stato realizzato attraverso l’istituzione, con
la l. 195/1958, di un organo a rilevanza costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura il
quale è competente a decidere sulle assunzioni, sulle assegnazioni di sedi e di funzioni, sulle
promozioni e sui trasferimenti, sulle sanzioni disciplinari a carico dei magistrati e, in genere, su
tutto ciò che riguarda il loro status. Il potere affidato al CSM incontra direttive ben precise in
alcune importanti norme- base dettate, proprio a garanzia dell’indipendenza dei giudici, dalla
stessa Costituzione.
All’art. 106 comma 1 Cost., è stabilito che le nomine dei magistrati devono aver luogo per
concorso al fine di evitare scelte discrezionali suscettibili di essere condizionate da parte di
qualsiasi organo.
All’art. 107 comma 1 Cost., viene disposto che i magistrati sono inamovibili e che qualsiasi
provvedimento di dispensa, di sospensione dal servizio, di destinazione ad altra sede o funzione
dovrà essere adottato o per i motivi e con le garanzia di difesa volute dall’ordinamento giudiziario
o con il consenso dell’interessato, e tutto ciò al fine di evitare che attraverso la pressione
psicologica della possibile rimozione o del possibile trasferimento si abbia a influire sulla libertà
decisionale del giudice.

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Il problema dell’indipendenza del giudice sussiste anche nei confronti dello stesso potere
giudiziario, nel senso che al singolo giudice deve essere consentito di operare al riparo da possibili
condizionamenti e interferenze da parte di altri soggetti appartenenti all’organizzazione della
magistratura, che possano trovarsi in posizione di supremazia. Ancora una volta è la stessa Carta
costituzionale a preoccuparsi di fissare alcuni principi basilari che assicurino questa ulteriore
garanzia di indipendenza. In particolare l’art. 107 comma 3 Cost., pone la regola secondo cui i
giudici si distinguono tra loro unicamente per diversità di funzioni e non per preminenza di grado,
di anzianità o per altro, giacché qualsiasi rapporto di natura gerarchica, da superiore a inferiore,
intaccherebbe la loro indipendenza.
IMPARZIALITA’. Il carattere dell’imparzialità si riferisce anzitutto all’assoluta estraneità e
indifferenza del giudice rispetto alle diverse situazioni che animano l’agire delle parti e alle ragioni
di cui esse sono portatrici nel processo. La decisione deve essere resa da un soggetto in posizione
di “terzietà”, e ciò in applicazione del più elementare principio di ragione obiettiva da cui ogni
decisione deve risultare sorretta.

2.(Segue): b) naturalità e precostituzione per legge.


Nel contesto dei principi diretti a presidiare la garanzia dell’indipendenza del giudice, importanza
fondamentale assume quello posto dall’art. 25 comma 1 Cost.: “nessuno può essere distolto dal
giudice naturale precostituito per legge”. Questa regola riveste in qualsiasi discorso che abbia un
punto di riferimento il tema dell’imparzialità del giudice da aver fatto dire che la “naturalità”
costituisce una qualificazione sostanziale dell’organo giurisdizionale, nel senso che essa si presenta
non tanto come attributo del giudice quanto come l’in sé di esso, al punto che la sua eventuale
assenza finirebbe con il vanificare il concetto stesso di giudice.
Abbandonata, ormai, la primitiva opinione che mostrata la formula del “giudice naturale” come
sostanzialmente corrispondente a quella di “giudice precostituito”, si è ormai concordi
nell’intendere le due espressioni su piani di significato ben differenziati, in aderenza con le
determinazioni emerse in sede di Assemblea costituente.
Da questa angolazione si è cercato di cogliere il senso preciso da dare alla regola della “naturalità”,
regola che viene ricondotta a un criterio facente capo al concetto di locus commissi delicti o al più
ampio e generale concetto di competenza del giudice, anzi, di insieme delle competenze al giudice
devolute. La “precostituzione” è stata, invece, individuata nell’istituzione del giudice operata
dall’ordinamento processuale sulla base di criteri generali fissati in anticipo, ante factum e non in
occasione di un fatto già verificatosi e in vista di determinate controversie.
Più incisive puntualizzazioni hanno colto nell’espressione costituzionale relativa alla
precostituzione del giudice un duplice significato:
- Che il giudice deve risultare istituito, e soltanto con legge (riserva di legge), prima che sia
stato commesso il fatto sul quale egli dovrà giudicare;
- Non è possibile creare dopo il verificarsi di un determinato fatto una competenza ad hoc
neppur per un giudice che sia già stato istituito.

3.L’istituzione del giudice penale.


L’art 1 c.p.p. dispone che la “giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di
ordinamento giudiziario”. In virtù proprio di queste leggi, gli uffici dei giudici penali risultano
solitamente formati di magistrati professionali, detti anche “togati”, i quali appartengono
permanentemente all’ordine giudiziario, come magistrati di carriera, in forza di una nomina che ha

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luogo in seguito a concorso (art 106 comma 1 Cost.), al fine di evitare la nomina dei giudici onorari,
detti anche “laici”, per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli.
Vi sono, poi, organi giurisdizionali costituiti da una sola persona, i c.d. giudici monocratici, e altri
costituiti da più persone, i c.d. giudici collegiali. La diversa struttura numerica degli organi della
giurisdizione si giustifica con la maggiore o minor gravità del reato da accertare, in basse alla
considerazione per cui la pluralità di persone offre il vantaggio di una più accorta filtrata attraverso
il contributo valutativo offerto da ciascuna di esse.

4.La capacità del giudice penale.


Affinché il giudice penale possa presentarsi come valido soggetto del processo, è indispensabile
che possieda alcuni requisiti di capacità in astratto, che è capacità di tipo generale o assoluta,
necessari per poter esercitare legittimamente la funzione giurisdizionale in ordine a qualsiasi
processo.
L’art. 33 comma 1 c.p.p. chiarisce che “le condizioni di capacità del giudice.. sono stabilite dalle
leggi di ordinamento giudiziario”. Se ne staglia un concetto puramente legislativo di “capacità”
dell’organo giurisdizionale, calibrato su prescrizioni rintracciabili soltanto in ambito di
ordinamento giudiziario, indifferente a precetti di altra provenienza, anche processuale.
Naturalmente, parlare di “capacità” di un soggetto significa presupporre che il soggetto esista,
sicché, quando si discute di capacità del giudice si dà per scontato che un soggetto giuridicamente
immaginabile come giudice debba esserci. Ciò vuol dire che esulano dal discorso tutte quelle
situazioni che magari ictu oculi parrebbero riconducibili al tema, ma che in realtà postulano una
valutazione che investe l’esistenza stessa dell’organo della giurisdizione, ancora prima che la sua
capacità. Ci si riferisce a situazioni caratterizzate da una “usurpazione del potere di decidere” da
parte di un soggetto che non abbia avuto mai conferita alcuna investitura della potestà
giurisdizionale o che ne sia rimasto successivamente privo; situazioni che vanno, ad esempio, dal
mancato superamento del concorso per l’ammissione in magistratura alla mancanza di nomina e
assunzione alla funzione giudicante secondo le regole stabilite dalla legge sull’ordinamento
giudiziario.
Rilevano come requisiti della capacità del giudice:
- L’attribuzione della qualifica con la conseguente immissione della persona nell’ufficio
giudiziario e il conferimento delle relative funzioni;
- La composizione dell’organo nel numero di persone conforme a quello prescritto dalla
legge, a seconda che si tratti di giudice monocratico o di giudice collegiale.
L’art. 33 comma 2 c.p.p. stabilisce che non si considerano attinenti alla capacità del giudice le
disposizioni relative alla destinazione del magistrato a un determinato ufficio giudiziario, o ad
alcuna delle sezioni di cui questo sia eventualmente composto, e quelle relative alla formazione
dee collegi e all’assegnazione dei processi a sezioni, a collegi o a singoli giudici.
Al comma 3 non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni relative alla
ripartizione delle attribuzioni tra il tribunale in composizione collegiale e il tribunale in
composizione monocratica. Per non creare equivoci, posto che anche la composizione dell’organo
nel numero di persone conforme a quello prescritto è requisito della capacità del giudice, sempre
l’art 33 comma 3 c.p.p. chiarisce che le disposizioni che regolano l’attribuzione al tribunale a
seconda che debba giudicare con una sola persona o con tre non si considerano attinenti
nemmeno al numero dei giudici richiesto per costituire l’organo giudicante.

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5.L’incompatibilità del giudice penale.
Su un piano ben distinto rispetto alla sagoma della capacità del giudice si collocano le norme che
regolano le cause di incompatibilità: si tratta di un insieme articolato, mirante a scongiurare che la
funzione giurisdizionale sia esercitata da un giudice che versi in talune situazioni tipizzate tali da
incrinarne l’imparzialità in concreto o la propria immagine concreta di soggetto imparziale.
Secondo quanto ha insegnato la Corte europea dei diritto dell’uomo, il giudice, in uno Stato
democratico, deve non solo essere ma anche apparire imparziale agli occhi dei consociati: da qui
l’esigenza che il sistema fissi una griglia di situazioni integrandosi le quali il giudice persona fisica,
pur possedendo una piena capacità in astratto, diviene incompatibile a svolgere le proprie funzioni
con riguardo alla singola regiudicanda.
Le incompatibilità del giudice possono derivare:
A) da atti da lui compiuti nello stesso processo;
B) da talune qualità concernenti le persone chiamate alla funzione di giudice;
C) dalla posizione di giudice rispetto all’oggetto del processo o alle parti che agiscono nel
processo;
D) da particolari condizioni ambientali createsi in occasione dello svolgimento di un determinato
processo.

A)Con riferimenti agli atti compiuti nello stesso processo, l’art 34 c.p.p. stabilisce che si verifica
incompatibilità:
 quando il giudice abbia già pronunciato o abbia concorso a pronunciare una qualsiasi sentenza,
non importa se giudicando sul merito o no, nello stesso processo: i questi casi egli non può
partecipare al processo come giudice negli ulteriori gradi, ivi inclusi il giudizio di rinvio
successivo all’annullamento e il giudizio per revisione, essendo già condizionato dalla decisone
emessa;
 quando il giudice abbia emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o abbia
disposto il giudizio immediato o abbia pronunciato decreto di condanna o abbia deciso
sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere: in questi casi, e sempre per il
condizionamento che gli deriva dal provvedimento precedentemente adottato, egli non può
partecipare al processo nel successivo stadio del dibattimento;
 quando il giudice abbia esercitato, nel medesimo processo, funzioni di giudice per le indagini
preliminari: in questo caso non può emettere decreto di condanna, né tenere l’udienza
preliminare, né partecipare al giudizio, concetto quest’ultimo che ricomprende non solo il
giudizio celebrato in sede dibattimentale, ma ogni giudizio che pervenga a una decisione di
merito, e dunque anche il giudizio abbreviato. Questa causa di incompatibilità è diretta a
garantire all’imputato un giudice estraneo e diverso rispetto a quello che sia eventualmente
intervenuto nel corso delle indagini preliminari, purché con decisioni che in qualche modo
abbiano richiesto valutazioni sul merito dell’imputazione.
 quando taluno nel corso di un procedimento abbia esercitato la funzione di PM; abbia svolto
attività di polizia giudiziaria; abbia prestato ufficio di difensore, di procuratore speciale, di
curatore, di perito, di una delle parti, di testimone, di consulente tecnico: in questi casi, costui
non può esercitare nello stesso procedimento l’ufficio di giudice in quanto gli fa difetto quella
necessaria posizione psicologica così libera da poter accogliere e valutare obiettivamente tutte
le varie esperienze processuali.
Parimenti inidoneo ad esercitare la funzione di giudice è chi abbia proposto denuncia, querela,
istanza, richiesta ovvero abbia deliberato, o concorso a deliberare, l’autorizzazione a procedere.

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Quelle sin qui elencate sono le ipotesi di incompatibilità delineate dall’art. 34 c.p.p., alle quali altre
se ne aggiungono, in virtù di una lunga serie di sentenze additive della Corte costituzionale fondate
sul principio generale secondo cui il regime delle incompatibilità ricorre in tutti i casi nei quali si
profila l’esigenza di evitare che la valutazione di merito del giudice possa essere condizionata dallo
svolgimento di determinate attività nelle precedenti fasi del procedimento o della previa
conoscenza dei relativi atti processuali.

B)Con riferimento alle qualità concernenti le persone chiamate a rivestire la funzione di giudice,
l’incompatibilità, prevista da norme sia del codice che dell’ordinamento giudiziario, investe:
 magistrati che siano tra loro coniugi, parenti o affini sino al secondo grado, i quali non possono
esercitare nello stesso procedimento funzioni giurisdizionali, ancorché separate o diverse (art.
35 c.p.p.);
 magistrati che abbiano tra loro vincoli di parentela o affinità sino al secondo grado, ovvero di
coniugio o convivenza, i quali non possono essere parte della stessa corte o dello stesso
tribunale o dello stesso ufficio giudiziario;
 magistrati che abbiano tra loro vincoli di parentela o affinità sino al terzo grado, ovvero di
coniugio o convivenza, i quali non possono far parte dello stesso tribunale o della stessa corte
organizzata in unica sezione,salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione
distaccata e l’altro in sede centrale;
 magistrati che abbiano tra loro vincoli di parentela o affinità sino al quarto grado incluso,
ovvero di coniugio o convivenza, i quali non possono far parte dello stesso collegio giudicante
sia nei tribunali che nelle corti;
 magistrati preposti alla direzione di un ufficio giudiziario, i quali, in linea di principio, sono
considerati sempre in situazione di incompatibilità con gli altri magistrati dell’ufficio;
 magistrati cui i parenti sino al secondo grado o affini in primo grado svolgano attività di polizia
giudiziaria presso un determinato ufficio giudiziario, i quali non possono appartenere al
medesimo ufficio;
 magistrati che abbiano vincoli di parentela fino al secondo grado o di affinità in primo grado,
ovvero di vincoli di coniugio o di convivenza con avvocati che esercitino la professione nella
stessa sede giudiziaria.
Sono tutte situazioni idonee a creare possibili influenze tra giudici e sui giudici o possibili
favoritismi secondati da vincoli di parentela o di affinità.

C)Con riferimento alla posizione del giudice rispetto all’oggetto del processo o alle parti che
agiscono nel processo, può derivare l’incompatibilità:
 dall’avere il giudice un qualche interesse nel processo, nel senso che egli possa rivolgere a
proprio vantaggio economico o semplicemente morale l’attività giurisdizionale che è
chiamato a svolgere; dall’aver dato consigli o dall’aver manifestato il proprio parere
sull’oggetto del processo fuori dall’esercizio delle funzioni giudiziarie; dall’aver manifestato
indebitamente, nell’esercizio delle funzioni e prima della pronuncia della sentenza il
proprio convincimento sui fatto oggetto dell’imputazione; dall’avere già espresso in altri
procedimenti, anche non penali, valutazioni di merito sui fatti oggetto dell’imputazione e
nei confronti dell’attuale imputato;
 dall’essere il giudice, il coniuge o i figli debitori o creditori di alcuna delle parti private o dei
loro difensori; dall’essere il giudice tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una
delle parti private;

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D)Con riferimento, infine, alle condizioni ambientali createsi in occasione dell’instaurarsi di un
determinato processo, l’incompatibilità sorge allorquando accadimenti locali di particolare
gravità, atti a mettere in pericolo la sicurezza o l’incolumità pubblica o a determinare gravi motivi
di legittimo sospetto sulla non imparzialità dell’organo giudicante, possano compromettere il
sereno svolgimento delle attività processuali.

6.L’astensione del giudice penale.


I mezzi attraverso i quali l’ordinamento processuale tende a garantirsi in via preventiva contro le
situazioni di incompatibilità sono rappresentati:
- dall’astensione del giudice;
- dalla sua ricusazione;
- dalla rimessione del processo.

L’ASTENSIONE è la rinuncia all’esercizio della funzione giurisdizionale, alla quale è obbligato il


magistrato che ritenga di trovarsi in una delle situazioni di incompatibilità previste espressamente
dalla legge, o che ravvisi “altre gravi ragioni di convenienza” tali da compromettere la sua
imparzialità o da far semplicemente dubitare di essa, per cui si rende inopportuna la sua
partecipazione al processo.
Essa è effettuata mediante dichiarazione, contenente lo specifico motivo che induce il magistrato
ad astenersi, avanzata al presidente dell’organo giudicante di cui egli fa parte, ovvero, se ad
astenersi è il giudice di pace, al presidente del tribunale, che decidono con decreto, senza alcuna
formalità. La dichiarazione di astensione del presidente del tribunale viene proposta al presidente
della corte d’appello; quella del presidente della corte d’appello al presidente della Corte di
cassazione.
Se l’astensione del magistrato viene accolta, egli non può compiere alcun ulteriore atto del
processo.
Art. 42 comma 2 c.p.p.: per quel che riguarda la sorte degli atti compiuti precedentemente dal
magistrato astenuto, stabilisce che il giudice il quale accolga la dichiarazione di astensione
dichiara, con lo stesso provvedimento, “se e in quale parte” essi “conservano efficacia”.
Il magistrato astenuto viene sostituito con un altro magistrato dello stesso ufficio designato a
norma delle leggi sull’ordinamento giudiziario. Qualora ciò non sia possibile, il processo viene
rimesso al giudice egualmente competente per materia che ha sede nel capoluogo di un diverso
distretto di corte d’appello.

7.La ricusazione del giudice penale.


La RICUSAZIONE è la dichiarazione con la quale una delle parti processuali (PM, parte civile,
imputato..) tende ad escludere un magistrato dall’esercizio delle sue funzioni di giudice in un
determinato processo, in quanto ritenuto in una delle situazioni di incompatibilità espressamente
previste dalla legge e che coincidono con quelle che determinano l’obbligo dell’astensione.
La dichiarazione di ricusazione può essere:
 fatta personalmente dall’interessato;
 proposta a mezzo del difensore;
 proposta a mezzo di un procuratore speciale (abilitato a formulare la dichiarazione in luogo
dell’interessato, a sua firma ma in nome e per conto del rappresentato).

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Redatta con atto scritto contenente l’indicazione dei motivi che l’hanno determinata e degli
elementi di prova addotti a sostegno, la dichiarazione va presentata, insieme con i documenti che
vi si riferiscono, nella cancelleria del giudice competente a decidere, mentre una copia viene
depositata nella cancelleria dell’ufficio cui è addetto il giudice ricusato.
La legge processuale pone dei termini entro i quali proporre la dichiarazione di ricusazione:
- nell’udienza preliminare, sino a quando non siano conclusi gli accertamenti relativi alla
costituzione delle parti;
- nel dibattimento, subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della
costituzione delle parti;
- in qualsiasi altro momento, prima che il giudice compia l’atto;
- qualora la causa di ricusazione si sia verificata o sia stata conosciuta dopo la scadenza dei
termini, la dichiarazione può essere proposta entro tre giorni dal verificarsi o dall’avvenuta
conoscenza di essa;
- se la causa è sorta o è divenuta nota durante l’udienza, la dichiarazione di ricusazione va
proposta prima della conclusione dell’udienza stessa.
I requisiti di tempo e di forma richiesti per la dichiarazione di ricusazione vanno rispettati a pena di
inammissibilità.

Una volta proposta la dichiarazione di ricusazione, e prima ancora che si di essa decisa l’organo
competente a valutarla, al magistrato ricusato non è consentito “pronunciare ne concorrere a
pronunciare sentenza”, e ciò al fine di evitare che nelle more della procedura incidentale per la
ricusazione possa concludersi il processo; procedura incidentale per la ricusazione di qualsiasi altra
attività processuale diversa dalla pronuncia della sentenza.
La dichiarazione di ricusazione si ha come non proposta nell’eventualità in cui il magistrato, anche
successivamente a essa, dichiari di volersi astenere e l’astensione venga accolta.
La competenza a decidere sulla ricusazione è devoluta funzionalmente alla corte d’appello, salvo
che la ricusazione investa un giudice della Corte di cassazione, nel quel caso a decidere sarà una
selezione della stessa Corte, diversa da quella di cui fa parte il magistrato ricusato. Non è
consentita dichiarazione ricusatoria nei confronti dei giudici chiamati a decidere sulla ricusazione.
Il giudice al quale la ricusazione è stata proposta può pronunciare l’inammissibilità quando la
dichiarazione provenga da chi non ne aveva il diritto o non siano stati osservati i termini e le forme
richiesti o, ancora, quando i motivi addotti siano manifestamente infondati. La relativa ordinanza,
che deve essere pronunciata, “senza ritardo” con procedura de plano, è ricorribile per cassazione,
e pertanto va comunicata al magistrato ricusato e al PM e notificata alle parti private.
Fuori dei cadi di inammissibilità, il giudice competente a decidere sulla ricusazione può disporre
che il magistrato ricusato si astenga temporaneamente dal compiere qualsiasi attività processuale
o si limiti ai soli atti urgenti. In mancanza di un esplicito provvedimento che disponga in tal senso il
giudice nei cui confronti la ricusazione è stata promossa può continuare a esercitare validamente
le proprie funzioni.
La decisione sul merito della ricusazione va adottata con il rito della camera di consiglio che
consente un adeguato contraddittorio, con eventuale presenza della parte che ha proposto la
ricusazione e dl magistrato ricusato, i quali possono anche presentare memorie.
Accolta la dichiarazione ricusatoria, il relativo provvedimento dichiarerà se e in quale parte
conserveranno efficacia gli atti già posti in essere dal giudice ricusato; questi, comunque, non
potrà più compiere alcun atto del processo.
Per la sostituzione del giudice ricusato trovano applicazione le regole che valgono per l’astensione.

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Nel caso in cui l’istanza di ricusazione sia stata dichiarata inammissibile o sia stata rigettata, il
giudice continuerà a operare nel pieno della sua capacità, mentre la parte privata che lo aveva
ricusato potrà essere condannata al pagamento di una somma a favore della cassa delle
ammende.

8.La rimessione del processo.


La RIMESSIONE, consiste nel trasferimento del processo in una sede diversa da quella del giudice
originariamente competente per territorio.
L’istituto differisce dai due precedenti per il fatto che l’astensione e la ricusazione presuppongono
delle incompatibilità direttamente e immediatamente riallacciabili a situazioni riguardanti la
persona del magistrato, anche quando si tratti di più magistrati o addirittura di tutti i magistrati
che compongono un organo collegiale; la rimessione trova, invece, fondamento in ipotesi di
incompatibilità che coinvolgono in via diretta e immediata l’organo giudicante, monocratico o
collegiale, considerato nella sua struttura complessiva.

A)Il presupposto per la rimessione è dato dal crearsi di “gravi situazioni locali tali da turbare lo
svolgimento del processo”, in quanto suscettibili di arrecare pregiudizio alla sicurezza o incolumità
pubblica ovvero alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo, o ancora
tali da determinare “ gravi motivi di legittimo sospetto” (configurabili quando la situazione locale
appaia idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del
giudice, inteso come l’ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo).
Relativamente all’ipotesi di “legittimo sospetto” non poche perplessità sono state avanzate in
dottrina, basate sulla considerazione che il concetto appare troppo vago e sfumato, tale da
rendere possibile la formulazione di istanze di rimessione fondate su situazioni, la cui
individuazione finisce col rimanere affidata a un potere discrezionale estremamente ampio e
quindi idoneo a degenerare in un soggettivismo suscettibile di sconfinare nell’arbitrio. E questo in
contraddizione con il carattere eccezionale dell’istituto della rimessione che, interferendo con la
garanzia costituzionale del giudice naturale competente per territorio, dovrebbe essere connotato
da un congruo livello di determinatezza della fattispecie che lo supportano.
Per quanto riguarda le “gravi situazioni locali”, queste devono intendersi come circostanze
ambientali- territoriali di natura extragiudiziaria, riguardanti accadimenti non riconducibili al
dinamico sviluppo dei rapporti propri della dialettica processuale.

B)Legittimati a chiedere la rimessione sono:


- il procuratore generale presso la corte d’appello;
- il PM presso il giudice che procede;
- l’imputato il quale deve, a pena d’inammissibilità, proporre la relativa richiesta o personalmente
o a mezzo di un procuratore speciale.
Rimangono esclusi:
-il difensore in quanto tale (che non sia munito di mandato ad hoc);
- le parti private diverse dall’imputato, le quali, potranno prospettare all’ufficio del PM
l’opportunità che esso si faccia promotore di una richiesta di traslazione del processo.
Soltanto durante lo svolgimento del processo di merito, in ogni stato e grado, è consentita la
proponibilità della rimessione; il giudizio avanti la Corte di cassazione ne viene sottratto, sia perché
l’esercizio dell’attività riservata alla giurisdizione di legittimità mal si presta a far nascere quelle
cause di turbamento ambientale che stanno a giustificazione dell’istituto, sia perché essendo la

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Cassazione giudice costituito in sede unica, nessun luogo diverso da quella sede potrebbe essere
destinato per la trattazione di un processo di cui essa sia chiamata a conoscere.
Il riferimento al “processo” come momento in cui è possibile la rimessione chiarisce che essa potrà
operare solo nelle fasi propriamente giurisdizionali, una volta concluse le indagini preliminari col
promovimento dell’azione penale da parte del PM. Inapplicabile, dunque è l’istituto durante lo
svolgimento delle predette indagini, mentre ammissibile è un’istanza di rimessione presentata
all’udienza preliminare.
La richiesta di rimessione va depositata insieme con i documenti che vi si inseriscono, nella
cancelleria del giudice, ed entro sette giorni notificata, a cura del richiedente, alle altre parti,
intendendo tale concetto in senso sostanziale, come comprensivo, cioè, anche della persona
offesa alla quale non può disconoscersi un eventuale interesse a opporsi alla sottrazione della
cognizione del reato al giudice naturalmente competente in forza di una richiesta di rimessione
che le appaia pretestuosa e dilatoria.

C)Il giudice, ricevuta la richiesta di rimessione, deve trasmetterla immediatamente alla Corte di
cassazione con i documenti allegati e con eventuali osservazioni proprie. Nessun potere di
valutazione gli è concesso sula fondatezza o meno di essa, sicché egli non può dichiarare
l’inammissibilità nemmeno quando palese sia la pretestuosità dei motivi addotti o manifesta
l’inosservanza delle norme dettate dal codice in materia.
La richiesta di rimessione non sospende automaticamente il processo. Tuttavia, il giudice al
momento della presentazione di essa può disporre con ordinanza la sospensione del processo sino
a quando non sia intervenuta una pronuncia della Corte di cassazione che dichiari inammissibile
che rigetti la richiesta stessa; la sospensione, inoltre, può essere sempre disposta dalla stessa
Corte. Le ragioni che possono giustificare l‘adozione di un provvedimento sospensivo sono da
ravvisare nell’esigenza di scongiurare tempestivamente il pregiudizio imminente e irreparabile che
potrebbe derivare dall’illegittima prosecuzione del processo in costanza del procedimento di
rimessione.
Obbligatoria diventa la sospensione del processo prima dello svolgimento delle conclusioni e della
discussione, con il divieto di pronunciare decreto che disponga il giudizio o sentenza, quando il
giudice abbia avuto notizia della Corte di cassazione che la richiesta di rimessione è stata
assegnata a una delle sezioni di essa, o alle sezioni unite, per la trattazione. La sospensione non
viene disposta quando la richiesta di rimessione non sia fondata su elementi nuovi rispetto a quelli
già posti a fondamento di una precedente richiesta che sia stata rigettata o dichiarata
inammissibile. Quest’ultima circostanza attenua la probabilità che la rinnovata richiesta possa
trovare accoglimento.
La sospensione del processo si protrae fino a che non sia intervenuta pronuncia della Corte di
cassazione di rigetto o di inammissibilità della richiesta; tale sospensione non impedisce il
compimento di atti urgenti.

D)La decisione sulla richiesta di rimessione viene adottata con l’osservanza delle garanzie relative
al contraddittorio previste per il procedimento in camera di consiglio, dopo essere state assunte,
se la Corte do cassazione lo ritiene necessario, le opportune informazioni.
Superato positivamente, sia in fase di preliminare valutazione da parte del presidente della Corte,
sia in fase di verifica da parte della predetta sezione, il vaglio di ammissibilità, la richiesta di
rimessione sarà assegnata a una delle sezioni della Corte o alle sezioni unite, e se ne darà

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immediata comunicazione al giudice procedente affinché adotti i necessari provvedimenti relativi
alla sospensione del processo.
Se la Corte di cassazione accoglie la richiesta, rimette il processo al altro giudice egualmente
competente per materia che abbia sede in un diverso distretto di corte d’appello determinato
secondo il criterio tabellare indicato dall’art. 111 c.p.p. . Del provvedimento viene data
comunicazione, senza ritardo, sia al giudice designato, sia a quello originariamente procedente, il
quale trasferirà tempestivamente gli atti del processo al nuovo giudice, disponendo, al contempo,
che la decisione della Cassazione sia comunicata al PM e notificata alle parti private.

E)Gli atti posti in essere anteriormente al provvedimento che ha accolto la richiesta di rimessione
sono assistiti da una presunzione, sia pur relativa, di efficacia: il legislatore ritiene che essi,
sebbene realizzati in una sede ufficialmente screditata per il riconoscimento clima di diffidenza in
cui si è operato, si siano usciti indenni; salvo che le parti non avanzino dei dubbi sulla validità di
quegli atti, in quel caso potranno chiederne la reiterazione avanti al giudice designato dalla Corte
di cassazione, il quale provvederà a rinnovarli. Sono assicurati alle parti, gli stessi diritti e le stesse
facoltà che sarebbero loro spettati avanti al giudice originariamente competente.

F)Se venga dichiarata inammissibile o rigettata nel merito la richiesta avanzata dall’imputato,
questi potrà essere condannato al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende:
palese il fine di scoraggiare l’uso pretestuoso dell’istituto.
La richiesta di rimessione rigettata o dichiarata inammissibile per manifesta infondatezza può
essere riproposta solo se suffragata da elementi nuovi, sopravvenuti alla decisione o anche
preesistenti purché ignorati; se dichiarata inammissibile per altri motivi, può essere riproposta
incondizionatamente.
Ove al provvedimento di rimessione sopravvengono fatti modificativi dell’originaria situazione che
facciano venir meno le ragioni per le quali la rimessione stessa era stata richiesta, sia il PM, sia
l’imputato possono chiederne la revoca; così come possono chiedere il trasferimento del processo
ad un altro giudice se quello designato dalla Corte di cassazione profili, a sua volta, anch’esso
suspectus.

9.La sfera di potestà del giudice penale: A) contenuti e specie della giurisdizione penale.
Accanto ai requisiti di capacità del giudice altri se ne pongono, relativi ai contenuti e alle specie
della giurisdizione a esso assegnata, e derivanti dalla mo9lteplicità degli organi giurisdizionali
previsti dall’ordinamento.
Con riferimento ai contenuti della giurisdizione è possibile individuare:
-Giudici con giurisdizione piena: sono quelli la cui potestà di accertamento e di decisione in ordine
a una determinata richiesta si esplica attraverso una completa attività che culmina nell’emissione
di qualsiasi pronuncia in conseguenza del comportamento accertato.
-Giudici con giurisdizione semipiena: sono quelli la cui potestà di accertamento e di decisone
incontra il limite dell’applicabilità della pena in conseguenza del comportamento accertato
( giudice con giurisdizione semipiena è quello dell’udienza preliminare nel procedimento ordinario,
al quale non è attribuito il potere di condannare, potendo egli pronunciare unicamente sentenza
di non luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio).
-Giudici con giurisdizione limitata o ad acta: si possono individuare in quegli organi la cui potestà
di accertamento e di decisione è circoscritta a singoli atti espressamente indicati dalla legge
(figura tipica, il giudice per le indagini preliminari il quale interviene nel corso del procedimento

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investigativo per assumere provvedimenti in materia di libertà personale e altri diritti della
persona o di assunzione anticipata di prove).
Con riferimento alle specie della giurisdizione è possibile distinguere tra:
-Giudici ordinari e giudici straordinari, i primi facenti parte dell’organizzazione giudiziaria con
carattere di normalità e di stabilità, gli altri istituiti ad hoc, per determinate regiudicande, in via di
eccezionalità e temporaneità. Dopo alcune esperienze del passato, la Costituzione, all’art. 102
comma 2, ha espressamente posto il divieto di creare giudici straordinari;
-Giudici comuni e giudici speciali, gli uni e gli altri appartenenti alla categoria dei giudici ordinari. I
giudici comuni esercitano la loro potestà in rapporto alla generalità dei reati e degli imputati, i
giudici speciali la esercitano in rapporto a particolari categorie di reati e di imputati. Anche per
quanto riguarda i giudici speciali, l’art. 102 comma 2 Cost. ne vieta l’istituzione e ciò al fine di
riaffermare il principio di “unità della giurisdizione”.
Nel sistema processuale vigente sono giudici comuni:
- Il tribunale, che opera in ambito circondariale e che giudica talora come organo monocratico,
che può essere composto anche di un magistrato onorario, talora come organo collegiale di tre
magistrati togati;
- La corte d’assise, organo collegiale composto di otto magistrati di cui due togati e sei laici: la
partecipazione dei laici al collegio misto costituisce la più importante modalità di partecipazione
diretta del popolo all’amministrazione della giustizia;
- La corte d’appello, organo collegiale che opera i ambito distrettuale, composto di tre magistrati
togati;
- La corte d’assise d’appello, organo collegiale composto, al pari della corte d’assise, di due
magistrati togati e sei laici;
- Il giudice per le indagini preliminari, organo monocratico;
- Il giudice dell’udienza preliminare, organo anch’esso monocratico;
- Il giudice di pace, organo monocratico onorario.
Giudici speciali, previsti dal nostro ordinamento processuale penale sono:
- La Corte costituzionale, organo collegiale composto di quindici membri appartenenti alla stessa
Corte e di sedici membri c.d. aggregati estratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti
per l’elegibilità a senatore, che il Parlamento compila ogni nove anni mediante elezione;
- Il tribunale militare, organo collegiale composto di due magistrati appartenenti all’ordinamento
giudiziario militare e di un militare con funzioni di giudice;
- La corte militare d’appello, organo collegiale composto di tre magistrati appartenenti
all’ordinamento giudiziario militare e di due militari con funzioni di giudici.
Vengono comunemente esclusi dal novero dei giudici speciali gli organi della giurisdizione
minorile, ossia:
- Il tribunale per i minorenni, organo collegiale composto di due magistrati togati e di due membri
laici, un uomo e una donna, scelti tra i cittadini benemeriti dell’assistenza sociale, cultori di
biologia, di psichiatria, di pedagogia, esperti il cui intervento è giustificato dall’esigenza che nel
corso del processo venga opportunamente valutata la personalità degli imputati, in considerazione
della loro giovane età;
- La sezione specializzata della Corte d’appello per i minorenni, organo collegiale composto di tre
giudici togati e di due membri laici, allo stesso modo che il tribunale.
Un ulteriore distinzione che attiene alla specie della giurisdizione individua:
- Giudici di merito, ai quali è demandato un accertamento sia relativamente alle questioni di fatto,
sia relativamente alle questioni di diritto che emergono in un processo;

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- Giudici di legittimità, ai quali è demandata una valutazione di carattere strettamente giuridico,
volta ad assicurare la corretta applicazione della legge: giudice di legittimità per il nostro
ordinamento è essenzialmente la Corte di cassazione, organo giurisdizionale supremo, regolatore
del diritto, con sede a Roma e con giurisdizione estesa a tutto il territorio dello Stato, divisa in
sezioni che giudicano ciascuna in collegio di cinque membri, ovvero, in particolari circostanze
stabilite dalla legge, a sezioni unite in collegio di nove membri.

10.(Segue): B) la competenza penale: a) competenza per gradi e stati del processo (c.d.
funzionale).
Nell’ambito di ciascuna delle specie di giurisdizione si coglie il concetto di “competenza” del
giudice come ulteriore limite che circoscrive l’area della giurisdizione entro cui egli è tenuto a
procedere in ordine a uno specifico caso; e ciò sul presupposto che una decisione su un
determinato fatto non può essere affidata a più giudici i quali, in vista di tale decisione, esercitino
simultaneamente gli stessi poteri.
In sostanza il concetto di competenza come limite della giurisdizione nasce dalla molteplicità degli
organi che esercitano attività giurisdizionale, previsti dall’ordinamento, e dalla conseguente
esigenza di ripartire tra di essi la relativa potestà.
Secondo i gradi del processo è possibile distinguere:
- giudici di primo grado: tra i giudici comuni, il giudice di pace, il tribunale e la corte d’assise; tra i
giudici speciali, il tribunale per i minorenni e il tribunale militare, mentre la Corte costituzionale si
può considerare giudice di primo e unico grado, in quanto il processo costituzionale si esaurisce in
un grado solo;
- giudici di secondo grado (o d’appello): tra i giudici comuni, il tribunale (in composizione
monocratica) sui provvedimenti del giudice di pace, la corte d’appello sui provvedimenti emessi
dal tribunale, la corte d’assise d’appello sui provvedimenti della corte d’assise; tra i giudici speciali,
la corte d’appello per i minorenni sui provvedimenti emessi dal tribunale per i minorenni, la corte
militare d’appello sui provvedimenti del tribunale militare;
- giudici del grado di legittimità: la Corte di cassazione è l’unico organo la cui potestà
giurisdizionale è limitata alla verifica, sotto il profilo giuridico, del procedimento e delle decisioni
emesse da tutti gli altri giudici, essendo suo compito istituzionale curare l’esatta osservanza della
legge.
Secondo gli stati del processo si possono distinguere:
- giudici per gli stati precedenti il giudizio: sono tra i giudici comuni, quello per le indagini
preliminari e il giudice dell’udienza preliminare; tra i giudici speciali, quello per le indagini
preliminari e il giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale per i minorenni e presso il
tribunale militare;
- giudici (dello stato) del giudizio: tra i giudici comuni, il giudice di pace, il tribunale e la corte
d’assise, come organi in primo grado; il tribunale e la corte d’appello nei confronti delle decisioni
rispettivamente di giudice di pace e del tribunale, la corte d’assise d’appello nei confronti delle
decisioni della corte d’assise, come organi in secondo grado; la Corte di cassazione nei confronti
dei provvedimenti di tutti i giudici, come organo del controllo di legittimità.
Tra i giudici speciali, la Corte costituzionale, il tribunale per i minorenni e il tribunale militare, in
primo grado; la corte d’appello per i minorenni e la corte militare d’appello, in secondo grado;
-giudici (dello stato) dell’esecuzione: sono il giudice (propriamente etto) dell’esecuzione, il quale
decide sulle questioni che sorgono relativamente all’esecuzione di un provvedimento
giurisdizionale; il magistrato di sorveglianza come organo di primo grado e il tribunale di

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sorveglianza come organo sia di secondo grado (nei confronti del magistrato di sorveglianza) che
di primo grado (per le materie per cui ha cognizione in via esclusiva), i quali vigilano
sull’esecuzione di pene detentive e provvedono sulle misure di sicurezza nel periodo esecutivo.
In tema di competenza per gradi e stati, va ricordata la regola secondo cui il giudice che abbia
partecipato a un determinato grado o stato del processo non può intervenire negli ulteriori gradi
o stati, e ciò a evitare possibili preconcetti che turberebbero la serenità e obiettività del giudizio.

11.(Segue): b) la competenza per ragioni di materia.


La competenza per materia costituisce il limite di esercizio della potestà giurisdizionale, posto al
giudice in primo grado, con riferimento ai reati oggetto dell’accertamento, e più precisamente, a
seconda che l’accertamento riguardi:
a) illeciti penali puniti con pena di maggiore o minore quantità  si parla di competenza per
materia sotto un aspetto quantitativo.
b) determinati tipi di illecito a prescindere dalla pena per essi prevista  si parla di competenza
per materia sotto un aspetto qualitativo.
c) illeciti commessi da determinati soggetti;
d) determinati tipi di illecito commessi da determinati soggetti.
La terza e la quarta ipotesi riflettono competenze di giudici speciali: rispettivamente, il tribunale
peri i minorenni da una parte, la Corte costituzionale e il tribunale militare dall’altra.
L’art. 4 c.p.p. stabilisce che per radicare la competenza fissata in relazione alla quantità della pena
comminata per il reato:
-si ha riguardo al massimo della pena edittale prevista per ciascun reato, ridotto di un terzo per
l’ipotesi di tentativo;
-non si tiene conto dell’aumento di pena dipendente dalla continuazione del reato, sicché viene a
rilevanza il massimo della pena edittale stabilita per la violazione più grave;
-non si tiene conto dell’aumento di pena per effetto della recidiva;
-non si tiene conto delle circostanze del reato, siano attenuanti o aggravanti, in considerazione del
fatto che esse, di solito, poco incidono sulla complessità o meno dell’accertamento giudiziale.
Fanno eccezione le circostanze aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa
da quella ordinaria del reato ( per esempio, l’ergastolo in sostituzione della reclusione) e quelle
c.d. a effetto speciale: sia le une ce le altre comportano una completa diversa valutazione della
fattispecie criminosa.

Il nostro ordinamento processuale ripartisce la competenza tra i diversi giudici, facendo


riferimento, in primo luogo, agli organi della giurisdizione comune.
A)Competenza della corte d’assise. È una competenza mista, determinata, cioè, sia con criterio
quantitativo che con criterio qualitativo. Risultano affidati alla cognizione della corte d’assise:
 i delitti per la quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel
massimo a 24 anni, esclusi i delitti, comunque aggravanti, di tentato omicidio, di rapi8na, di
estorsione e di associazione di tipo mafioso anche straniere, e i delitti, comunque aggravanti,
previsti dal testo unico delle norme sugli stupefacenti;
 i delitti consumati di omicidio del consenziente, istigazione o aiuto al suicidio, omicidio
preterintenzionale;
 ogni delitto doloso se dal fatto deriva la morte di una o più persone, escluse le ipotesi di morte
come conseguenza non voluta di altro reato, di morte verificatasi nel corso di rissa, di morte
come conseguenza di omissione di soccorso;
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 i delitti di riorganizzazione del partito fascista, i delitti di genocidio, i delitti contro la
personalità dello Stato che per tali delitti sa stabilita la pena della reclusione non inferiore nel
massimo a 10 anni;
 i delitti, consumati o tentati, di associazione per delinquere non mafiosa finalizzata a
commettere i delitti di riduzione in schiavitù, tratta di persone, acquisto o alienazione di
schiavi, favoreggiamento pluriaggravato dell’immigrazione clandestina; nonché i delitti,
consumati o tentati, di riduzione in schiavitù, di tratta di persone, di acquisto o alienazione di
schiavi;
 i delitti con finalità di terrorismo puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 10 anni.
B)Competenza del giudice di pace. Qui si è in presenza di una competenza determinata con
criterio qualitativo che tiene conto di una serie di reati di minor allarme sociale o di c.d.
microcriminalità, specificatamente individuati.
C)Competenza del tribunale. Al tribunale viene devoluta una competenza determinata con criterio
negativo, in quanto ricomprende tutti i reati per i quali non siano competenti né la corte d’assise
né il giudice di pace. Anche per il tribunale si hanno casi di competenza qualitativa riguardanti
talune particolari fattispecie espressamente demandate alla sua cognizione da varie leggi, come
reati concernenti lo stato civile, reati finanziari e valutari, reati di stampa, reato commessi a
mezzo di rappresentazione teatrale o cinematografica, reati di pubblici ufficiali contro la p.a. Alla
competenza del tribunale appartengono i reati commessi dai ministri e dal presidente del
consiglio dei ministri nell’esercizio delle loro funzioni.
In relazione agli organi delle giurisdizioni speciali, la competenza per materia viene così ripartita:
1)Competenza del tribunale per i minorenni. È determinata in forza di una valutazione di
carattere esclusivamente soggettivo e investe tutti i reati, quale che ne sia l’indole e la pena,
commessi da persone che non abbiano superato il diciottesimo anno di’età al momento del
commesso reato.
2)Competenza della Corte costituzionale. Si determina in base a una considerazione che tiene
conto sia del tipo di reato, sia dell’autore di esso, e si esaurisce nella cognizione dei reati di alto
tradimenti e di attentato alla Costituzione commessi dal Presidente della Repubblica.
3)Competenza del tribunale militare. Anche questa è una competenza che si determina sulla base
di u criterio composito fondato tanto sulla natura del reato commesso quanto sui soggetti che se
ne siano resi autori, e riguarda i militari in servizio alle armi o considerati tali che abbiano
commessi reati c.d. militari.

12. (Segue): deroghe ai principi relativi alla competenza per ragioni di materia.
Le norme processuali relative alla competenza per materia consentono che i criteri generali
subiscano delle regole, facendo sì che la competenza del giudice inferiore venga assorbita dalla
competenza del giudice superiore, in base a una sua presunta maggiore idoneità tecnico-
professionale che se lo abilita a conoscere reati più gravi, ben a ragione può consentirgli di
conoscerne di meno gravi. Questo fenomeno di verifica quando un giudice di competenza
superiore abbia giudicato erroneamente di un reato che sarebbe stato di un giudice di competenza
inferiore, e l’incompetenza non sia stata rilevata o eccepita entro il termine prescritto.

13. (Segue): c) la competenza per ragioni di territorio.


Un terzo tipo di competenza, c.d. per territorio, è fondato sul rapporto che intercorre tra il luogo
in cui è stato commesso il reato e la sede giudiziaria entro la quale quel luogo è ricompreso.
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Presupposto per l’applicazione delle regole riguardanti la competenza per territorio è l’avvenuta
individuazione della competenza per materia del giudice, perché questi, per essere
territorialmente competente a conoscere di un certo reato deve esserlo, anzitutto, sotto il profilo
materiale.
- La legge processuale stabilisce un principio secondo i quale “la competenza per territorio è
determinata dal luogo in cui il reato è consumato”: luogo in cui si è verificato l’evento, nei casi di
reati c.d. materiali; o si è realizzata la condotta, nei casi di reati c.d. formali. Si tratta di un criterio
che ispira, sia valutazioni di opportunità, sia a esigenze di natura politico- giuridica.
-Un diverso criterio si segue nell’ipotesi in cui dal “fatto” sia derivata la morte di una o più
persone, ossia, allorché la morte rilevi come elemento costitutivo del reato o come evento
aggravante: l’attribuzione della competenza va effettuata con riferimento non più al luogo della
consumazione del reato sibbene a quello in cui è avvenuta l’azione o l’omissione e, cioè si è
completata la condotta.
- Un’altra regola ancora si applica allorché si tratti di reato permanente: la competenza viene
attribuita al giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione. E ciò in quanto il reato
permanente presenta pur sempre una struttura unitaria, e la sua consumazione si verifica, in
effetti, allorché risultino integrati gli elementi della fattispecie, indipendentemente dalle vicende
relative alla permanenza, la quale potrebbe anche ridursi a un tempo trascurabile o protrarsi per
anni e in diversi luoghi, senza che vi sia una sufficiente ragione logico- giuridica per sottrarre la
competenza al giudice del luogo dove è iniziata la consumazione. Proprio in questo luogo si crea la
situazione di turbamento della collettività a causa dell’episodio criminoso e vengono compiute le
prime indagini, mentre è spesso occasionale e indifferente quello in cui cessa la permanenza.
- Se il reato si presenta anziché nella forma della consumazione in quella del tentativo, la legge
dispone che competente sia il giudice del luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a
commettere il delitto, come atto al quale, nella frazionabilità dell’iter criminis, che è presupposto
del tentativo, viene riconosciuta l’efficacia a ledere il bene giuridico protetto dalla norma penale.
Accanto a queste regole generali per la determinazione della competenza per territori, altre se ne
profilano in via suppletiva, nell’eventualità che non si riesca ad individuare i luoghi che ne
consentono l’applicazione di quelle regole. Così, la competenza viene fissata facendo riferimento,
nell’ordine:
a) all’ultimo luogo nel quale è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione costituente il
reato, ossia quella parte della condotta che si presenta come essenziale per ‘integrazione della
fattispecie criminosa;
b) al luogo della residenza, e successivamente, della dimora o del domicilio dell’imputato;
c) al luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che ha iscritto la notizia di reato nell’apposito registro.
Si tratta di criteri sussidiari, ognuno dei quali presuppone, che si sia invano tentata l’utilizzazione
del precedente.
I principi regolatori della competenza per territorio valgono sempre che il reato sia stato
commesso in Italia. Nel caso contrario, e si deve procedere nel territorio dello Stato, due situazioni
si possono profilare.
1)Anzitutto che il reato sia stato commesso interamente all’estero: ciò verificatosi, la competenza
viene attribuita, in graduale successione:
- dal luogo della residenza, della dimora, del domicilio dell’imputato, al momento dell’inizio del
procedimento. Se più sono gli imputati, aventi residenza, dimora o domicilio diversi, il
procedimento verrà affidato al giudice competente per il maggior numero di essi;
- luogo dove è avvenuto l’arresto dell’imputato;

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- dal luogo della consegna dell’imputato all’autorità nazionale da parte dell’autorità straniera.
Nell’impossibilità di determinare la competenza nei modi sopra indicati, si farà ricorso in via
sussidiaria, al luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che per primo ha iscritto la notitia criminis
nel’apposito registro.
2)La seconda situazione nasce quando il reato sia stato commesso in parte nel nostro Paese e in
parte all’estero: dovendosi esso considerare consumato interamente in Italia, la competenza verrà
determinata seconda le regole generali.

14. (Segue): deroghe ai principi relativi alla competenza per ragioni di territorio.
Al pari della competenza per materia, anche quella per territorio consente che i propri criteri
subiscano delle deroghe. Il processo viene affidato a un giudice egualmente competente per
materia, ma di diversa competenza per territorio.
-Una prima ipotesi riguarda i procedimenti in cui sono coinvolti magistrati. L’art. 11 comma 1
c.p.p. dispone che i procedimenti in cui un magistrato assuma la qualità di imputato ovvero di
persona offesa o danneggiata dal reato, vengano affidati al giudice, di pari competenza per
materia, il cui ufficio sia situato nel luogo nel quale il reato è stato commesso, ma nel capoluogo di
un diverso distretto di corte d’appello. L’individuazione di esso va fatta secondo una regola
tabellare, predeterminata dalla l. 420/1998. Se, poi, il magistrato in un momento successivo a
quello in cui si è verificato il fatto è venuto a esercitare le proprie funzioni nel distretto
determinato secondo il criterio tabellare, la competenza slitta verso il capoluogo di un altro
distretto di Corte d’appello da individuare sempre secondo quel criterio.
- Deroga alla competenza per territorio si ha anche nell’ipotesi di rimessione del processo. Istituto
volto in via diretta e immediata a garantire l’indipendenza e l’imparzialità del giudice, esso si
risolve in uno spostamento di competenza per territorio, operando un trasferimento del processo
dal giudice che dovrebbe essere territorialmente competente, a un giudice diverso.
- Altre eccezioni ai criteri di competenza per territorio sono previste da leggi regolatrici di materie
particolari; così, ad esempio:
 per i reati societari contestati a persona sottoposta con provvedimento definitivo a misure di
prevenzione in quanto indiziata di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o similari,
ovvero a persona condannata con sentenza definitiva per il delitto di associazione di tipo
mafioso previsto dall’art. 416-bis c.p., la competenza viene attribuita in ogni caso al tribunale
che ha applicato la misura di prevenzione o ha giudicato dell’associazione mafiosa;
 per quanto riguarda i reati commessi a mezzi di rappresentazione cinematografica e teatrale,
la legge 161/192 attribuisce la competenza al giudice del luogo in cui è avvenuta la prima
rappresentazione in pubblico;
 per i reati commessi da minori, l’art. 49 del r.d. 12/1941 stabilisce che in ogni sede di corte
d’appello è costituito un tribunale per i minorenni il quale ha giurisdizione su tutto il territorio
della Corte d’appello e i reati imputabili a minori sono di competenza di quel tribunale, quale
che sia il luogo in cui siano stati commessi, nell’ambito del distretto della corte d’appello;
 per i reati previsti dal codice della navigazione consumati a bordo di navi e aeromobili non
militari, all’estero, ovvero al di fuori del mare o dello spazio aereo territoriale, la competenza
appartiene al giudice del luogo in cui, dopo essere stato commesso il reato, è avvenuto il primo
approdo, nel territorio dello Stato, della nave o dell’aeromobile sul quale si trovava l’imputato
al momento del fatto, in via sussidiaria, la competenza viene attribuita al giudice del luogo di
iscrizione della nave o di abituale ricovero dell’aeromobile;

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 per i reati in materia di imposte sul reddito e sul valore aggiunto la competenza viene fissata
nel luogo di accertamento dell’illecito.
- Un’altra regola posta in deroga ai normali criteri di attribuzione di competenza per ragioni di
territorio è stata introdotta dai commi 1-bis 1-quarter dell’art. 328 c.p.p. per i procedimenti di
criminalità organizzata nel corso dei quali le funzioni di giudice per le indagini preliminari e di
giudice dell’udienza preliminare vengono esercitate da un magistrato del tribunale del capoluogo
del distretto nel cui ambito ha sede il giudice che sarebbe naturalmente competente, tranne che
specifiche norme non stabiliscano diversamente.
- Un’altra ipotesi peculiare che va a risolversi sostanzialmente in una deroga ai criteri di
ripartizione della competenza per ragioni di territorio si ha quando, non essendo state osservate in
un determinato procedimento le norme che ne assegnano al giudice considerato competente
ratione loci, tale inosservanza non sia stata rilevata nei termini stabiliti. In questo caso, la
competenza rimane radicata in capo all’organo giurisdizionale che, appunto in deroga alle normali
regole, ha conosciuto del reato in ordine al quale non avrebbe dovuto giudicare.

15. (Segue): d) competenza per ragioni di connessione: le varie ipotesi di connessione.


Un particolare tipo di ipotesi di competenza si delinea allorché tra più situazioni idonee in astratto
a dar vita ciascuna a un autonomo processo penale intercorra una relazione in virtù della quale la
regiudicanda oggetto di uno dei processi verrebbe a coincidere parzialmente o a identificarsi
parzialmente con la regiudicanda oggetto dell’altro o degli altri processi. Questa circostanza rende
conveniente il confluire delle diverse regiudicande in un unico processo, un simultanues processus
il cui scopo è di realizzare unitarietà di acquisizione e valutazione delle prove che consenta di
ottenere giudizi rapidi, di applicare pene proporzionate, di prevenire possibili giudicati
contraddittori.
Il problema è individuare a quale tra i giudici che sarebbero stati competenti a conoscere i singoli
processi astrattamente ipotizzabili, quell’unico processo dovrà essere affidato. A ciò provvedono le
regole sulla competenza per connessione.
Diverse sono le situazioni suscettibili di determinare il fenomeno della connessione di
procedimenti, ipotizzate nell’art. 12 c.p.p.:
a) che il reato per il quale si procede sia stato commesso da più persone in concorso o in
cooperazione tra di loro, ovvero che più persone con condotte indipendenti abbiano
determinato la produzione di un medesimo evento  l’univocità del fatto invoca univocità di
giudizio. Per quanto riguarda il concorso di cause indipendenti nella produzione dell’eventi, vi
è attribuita rilevanza ai fini della connessione processuale poiché diversamente il criterio di
competenza per territorio fissato avrebbe portato a far giudicare da organi differenti imputati
chiamati a rispondere dello stesso evento, ancorché per averlo cagionato autonomamente;
b) che taluno sia imputato di più reati commessi con una sola azione od omissione o di più reati
commessi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso. La
descrizione comprende il concorso formale di reati e la continuazione di reati, figure
caratterizzate la prima da una pluralità di reati legati tra di loro da un unico processo esecutivo
e la seconda da una pluralità di reati legati tra loro da un unico disegno criminoso. L’esistenza
di un nesso tra i diversi reati in concorso sia tra i diversi reati di continuazione e la peculiarità
del regime giuridico che ne scaturisce fanno sia del concorso formale che della continuazione
altrettante ipotesi di connessione sostanziale di reati. Ed è proprio questo elemento di coagulo
che suggerisce di dar vita a un simultaneus processus, la cui utilità si manifesta anche nella

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possibilità di effettuare una valutazione complessiva della personalità dell’imputato anche ai
fini dell’irrogazione della sanzione;
c) che dei reati per i quali si procede alcuni siano stati commessi allo scopo di eseguirne o
occultarne altri: sono le stesse ipotesi che configurano la circostanza aggravante di cui all’art.
61 n.2 c.p. . Il profilarsi del fenomeno della connessione trova fondamento nell’unicità del
processo volitivo, non potendosi volere il reato- fine se non volendo anche il reato- mezzo, il
che giustifica l’opportunità di un accertamento unitario anche allo scopo di verificare la
possibilità di applicazione dell’aggravante dell’art. 61 n.2 c.p. Per ciò che riguarda il riferimento
ai reati commessi per occultarne altri, il vincolo di connessione si basa su un rapporto di
subordinazione del secondo reato al primo. Ancora una volta, sono situazioni che giustificano il
simultaneus processus tendente anche a rendere applicabile la circostanza prevista dall’art. 61
n.2 c.p.

16. (Segue): i criteri di assegnazione della competenza per connessione.


La connessione di procedimenti produce particolari effetti sulla competenza per materia, dando
vita alla cognizione di un unico giudice, anche se, secondo le norme generali, più dovrebbero
essere gli organi competenti.
Oltre che sulla competenza per materia, la connessione dei procedimenti incide sulla competenza
per territorio, dando vita anche qui alla cognizione di un giudice unico rispetto a una pluralità di
giudici che sarebbero astrattamente competenti in forza delle normali regole. In particolare, l’art.
16 c.p.p., sul presupposto che i reati appartengono alla ratione materiae al medesimo organo
giurisdizionale, indica come competente il giudice del luogo nel quale è stato commesso il reato
più grave; se i reati sono di pari gravità, il giudice del luogo nel quale è stato commesso il primo. I
criteri per determinare la maggiore o minore gravità del reato sono stabiliti dall’art. 16 comma 3
c.p.p.
Nell’ipotesi in cui da più condotte poste in essere in luoghi diversi da più persone in concorso o in
cooperazione, o anche con azioni o omissioni indipendenti, sia derivata la morte di alcuno, la
competenza viene attribuita al giudice del luogo in cui si è verificato l’evento.
Se i procedimenti connessi appartengono a giudici di diversa competenza, oltre che per territorio
anche per materia, la regola secondo la quale è il giudice superiore ad attrarre comunque la
cognitio causae risolve automaticamente la questione della competenza per territorio.
Effetti particolari la connessione dei procedimenti esplica anche sulla competenza di organi
appartenenti a giurisdizioni diverse, comune e speciale. In proposito, l’art. 13 c.p.p. stabilisce che
se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla competenza di un giudice comune e altri a
quella della Corte costituzionale, competenti per tutti sarà quest’ultima: la previsione può
riguardare solo l’ipotesi, del tutto teorica, di concorso nei reati di alto tradimento e di attentato
alla Costituzione commessi dal Presidente della Repubblica.
Se i reati riguardano reati di competenza dell’autorità giudiziaria comune e reati di competenza
dell’autorità giudiziaria militare, la connessione opera soltanto quando i reati comuni siano più
gravi dei reati militari e la competenza viene attribuita, per tutti i reati, al giudice comune.
Non si crea vincolo di connessione tra i procedimenti riguardanti imputati minorenni e quelli
riguardanti imputati maggiorenni, né tra i procedimenti per i reati commessi quando l’imputato
era minorenne e quelli per reati commessi quando era maggiorenne. Prevale, in questi casi,
l’esigenza dell’assoluta insottraibilità al giudice speciale, in quanto giudice naturale, della
competenza a conoscere i reati commessi da minori d’età. Un’esigenza oggi rafforzata dal

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peculiare significato che ha assunto il regime processuale minorile, ispirato a un’accentuata
protezione del soggetto minorenne.
Si sono espressi dubbi in dottrina sulla compatibilità della disciplina della connessione dei
procedimenti con il principio del giudice naturale precostituito per legge, in considerazione della
portata derogatoria che essa ha rispetto alle ordinarie norme sulla competenza. La Corte
costituzionale ha, però, sottolineato che la nozione di giudice naturale viene integrata anche da
tutte quelle disposizioni dettate in deroga alle regole della competenza generale, in forza dei
criteri che razionalmente valutino i disparati interessi posti in gioco dal processo e che l’esigenza
della precostituzione è rispettata allorché l’organo giudicante sia istituito dalla legge in base a
parametri generali fissati in anticipo e non già in vista di singole controversie. Il principio, pertanto,
non risulta violato nei casi nei quali la legge preveda la possibilità di spostamenti di competenza
da un giudice a uno diverso, purché anche questo precostituito, ove tali spostamenti siano
necessari per assicurare il rispetto di altri principi, come quello dell’ordine e della coerenza nella
decisione di cause tra loro connesse.

17. (Segue): riunione e separazione di processi.


A)Non va confuso con quello in cui sin qui esaminato il fenomeno della riunione dei processi. La
differenza essenziale si coglie in ciò: mentre la connessione suppone una pluralità di giudici tutti
astrattamente competenti a conoscere di diversi processi legati tra loro da particolari vincoli,
requisito per la riunione è che diversi processi appartengono alla competenza dello stesso giudice
il quale, per esigenze di speditezza e di semplificazione, o quando lo ritenga necessario per
l’accertamento dei fatti, può disporne la trattazione congiunta.
Le tassative previsioni contenute nell’art. 17 c.p.p., che consentono la riunione di processi,
riguardano:
a) tutti i casi, è ovvio, in cui opera la connessione;
b) i casi di reati di competenza dello stesso giudice, dei quali alcuni sono stati commessi in
occasione di altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il
prodotto o l’impunità;
c) i casi di reati, sempre se appartenenti alla competenza dello stesso giudice, commessi da più
persone in danno reciproco le une delle altre;
d) i casi in cui la prova riguardante un reato o una circostanza di esso influisca sulla prova
riguardante un altro reato di competenza dello stesso giudice, o una sua circostanza, sì da
renderne più agevole l’accertamento.
La possibilità di far luogo alla riunione dei processi è demandata alla discrezionale valutazione del
giudice ed è subordinata al realizzarsi di due presupposti: anzitutto, che i processi siano “pendenti
nello stesso stato e grado avanti al medesimo giudice” e poi, che la loro trattazione congiunta nonj
ne “determini un ritardo nella definizione”. La riunione, impossibile, ovviamente, in fase di indagini
preliminari in quanto ha ad oggetto solo processi e non procedimenti, può esser disposta anche in
sede di giudizio avanti alla Corte di cassazione.
B)Speculare rispetto a quello della riunione è il fenomeno della separazione di processi dei quali si
era in precedenza ritenuta conveniente la trattazione unitaria. Le relative ipotesi, tassativamente
configurate nell’art. 18 c.p.p., obbediscono le esigenze di celerità processuale e riguardano:
 la possibilità di scindere posizioni soggettive o oggettive già in grado di essere decise da
posizioni per le quali sia necessario acquisire ulteriori informazioni o compiere ulteriori atti;
 la disposta sospensione, per qualsiasi causa, del procedimenti nei confronti di uno o più
imputati o per una o più imputazioni;

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 la mancata comparizione in dibattimento, per motivi legittimi, dell’imputato o del difensore;
 la necessità di trattare prioritariamente alcuno dei processi per il rischio che imputati di gravi
delitti in stato di custodia cautelare possano esser messi in libertà per scadenza di termini.
Sono tutte circostanze le quali convincono dell’esigenza di evitare che situazioni concernenti
singoli imputati possano coinvolgere le sorti degli altri ritardandone la definizione: al loro
verificarsi si determina nel giudice l’obbligo di disporre la separazione e ricondurre il processo
nella propria sede, rimettendo, ove si fossero riuniti processi di competenze diversi accomunati
per connessione, ciascuno di essi al giudice naturalmente competente; tranne che non si ritenga la
riunione “assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti”: le pretese di rapidità dell’iter
processuale cedono di fronte alle esigenze funzionali dell’accertamento giudiziario.
I provvedimenti sulla riunione e sulla separazione dei processi vengono adottati con ordinanza,
emessa anche d’ufficio, sentite le parti. Tale “audizione” è voluta a tutela dell’interessa che le parti
stesse potrebbero prospettare, ai fini di una più convincente valutazione dei fatti, l’opportunità
che questi vengano giudicati, tutti quanti, con unica sentenza; ovvero vengano ricondotti ciascuno
alla sua naturale sede. In ogni caso la delibazione di quell’interesse rimane affidata alla piena e
insindacabile discrezionalità del giudice sicché il parere espresso dalle parti non impegna sui
contenuti delle decisioni.

18.Le “attribuzioni”del tribunale in conseguenza della sua diversa composizione.


Il concetto di “attribuzione” differisce dal concetto di competenza, stando all’idea che se ne fa il
legislatore, il quale deve aver pensato che le “norme sulla competenza postulano uffici distinti; ne
esiste uno chiamato ‘tribunale’ che lavora con tre teste o una sola, secondi i casi; unico essendo
l’ufficio, non possiamo identificare due competenze”. Anche se, poi in realtà “la divisione del
lavoro fra i due tribunali costituisce altrettante competenze; ma i compilatori schivano
acrobaticamente questa parola”.
Le regole dettate per disciplinare l’attribuzione all’organo fanno capo alla maggiore o minore
gravità delle fattispecie criminose, individuata in via generale attraverso un criterio qualitativo che
tiene conto dell’entità della pena. E in via specifica attraverso un’elencazione nominativa di singole
figure di reati.
Pertanto:
- al tribunale collegiale attribuiti i delitti, consumati o anche solo tentati, puniti con la pena della
reclusione superiore nel massimo a 10 anni nonché una serie di altri reati ritenuti di particolare
gravità e di maggiore allarme sociale, quali l’omicidio semplice, la rapina, l’estorsione, il sequestro
di persona, l’associazione per delinquere di stampo mafioso, i più gravi delitti contro la p.a., i reati
ministeriali, i reati fallimentari, e altri ancora previsti da leggi speciali.
- al tribunale monocratico vengono attribuiti tutti i reati per i quali non sia prescritta l’attribuzione
al tribunale collegiale, nonché, con previsione esplicita, il delitto di spaccio di sostanze
stupefacenti non aggravato.
Per il tribunale monocratico rileva anche una regola di attribuzione ratione loci, avendo
comportato l’istituzione di esso la previsione di sezioni distaccate per la trattazione di
procedimenti in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, secondo i criteri oggettivi e
omogenei che tengano conto dell’estensione del territorio e del numero di abitanti, difficoltà di
collegamenti, indice di contenzioso.
Ogni procedimento di cognizione del tribunale monocratico viene attribuito alla sezione distaccata
nella cui circoscrizione è stato commesso il reato per l’individuazione della competenza
territoriale.

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L’art. 163-bis disp. att. c.p.p. detta regole per l’ipotesi di eventuale inosservanza delle disposizioni
relative alla ripartizione dei procedimenti tra sede principale e sezioni distaccate, o tra diverse
sezioni distaccate, stabilendo che la relativa questione può essere sollevata, d’ufficio dal giudice o
su eccezione delle parti, fino al momenti della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo
grado. Ove sia stata una delle parti a eccepirla, lo stesso giudice monocratico avanti al quale la
decisione è stata posta deve preliminarmente valutarne l’attendibilità, e ciò al fine di evitare che la
prospettazione dell’inosservanza abbia a trasformarsi in un espediente dilatorio finalizzato ad
allungare i tempi del processo. Dopo di che, se ravvisa l’effettiva violazione dei criteri di
ripartizione, o ritiene l’eccezione non manifestamente infondata, rimette gli atti al presidente del
tribunale il quale provvederà, con decreto non impugnabile, alla corretta attribuzione del
processo, potendo anche disporre che, “in considerazione di particolari esigenze una o più udienze
siano tenute nella sede principale o in altra sede distaccata”.

19.Attribuzione per connessione. Riunione e separazione di processi di diversa attribuzione.


Nell’ambito delle attribuzioni dipendenti dalla differente composizione del tribunale è possibile
che abbia a verificarsi una delle situazioni previste dall’art. 12 c.p.p., suscettibili di dar vita a un
vincolo connettivo tra procedimenti, dei quali alcuni appartengono alla cognizione del tribunale
collegiale e altri a quella del tribunale monocratico. Anche in questo caso il legislatore configura
un’ipotesi di simultaneus processus, dando vita a un fenomeno di attribuzione per connessione. Il
meccanismo trova la sua disciplina nell’art. 33- quater c.p.p. in cui è stabilito che si applicano le
disposizioni relative al procedimento davanti al giudice collegiale, al quale sono attribuiti tutti i
procedimenti connessi: la propensione è, dunque, per una vis attractiva che operi a favore del rito
maggiormente garantito, e in cui la presenza di un organo composto collegialmente dà più
affidamento.
Analoga preferenza il legislatore mostra nel caso in cui a dar vita a un processo cumulativo sia una
delle ipotesi di riunione di processi pendenti nelle stesso stato e grado avanti al tribunale., laddove
alcuni siano di cognizione del collegio e altri del giudice singolo.
L’art. 17 comma 1-bis c.p.p. prescrive, infatti, che la riunione venga disposta avanti al tribunale in
composizione collegiale. Tale composizione permane anche nel caso di una successiva separazione
dei processi, e ciò fa si che il collegio, ancorché abbia già deciso sulla res judicanda ricompresa
nella propria sfera di attribuzione, resti egualmente investito del processo attribuibile in astratto al
giudice monocratico.

20.Le vicende relative alla potestà del giudice penale: A) il difetto di giurisdizione.
Sulla potestà del giudice possono incidere determinate vicende.
A)Rileva, anzitutto, un possibile difetto di giurisdizione che si colloca nell’ambito dei rapporti tra
giurisdizione comune e giurisdizione speciale: a norma dell’art. 20 c.p.p., il difetto di giurisdizione,
nel contesto processuale penale, si caratterizza come mancanza di potestà del giudice comune di
fronte al giudice speciale o di questo di fronte a quello.
La legge processuale accomuna nella sua previsione sia il “difetto relativo”, sia il “difetto assoluto”
di giurisdizione: il primo, verificabile allorché il giudice comune proceda in ordine a un reato del
quale dovrebbe conoscere un giudice speciale, o viceversa; il secondo allorché qualsiasi organo
della giurisdizione penale, comune o speciale, risulti carente della potestà di giudicare.
Entrambe le situazioni sono rilevabili, anche d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del procedimento.

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- In particolare, se il difetto di giurisdizione viene rilevato nel corso delle indagini preliminari, il
giudice, sia esso comune o speciale, pronuncia ordinanza disponendo la restituzione degli atti al
PM dal quale era stato investito. Ciò non impedisce una possibile diversa valutazione della
situazione, che lo stesso giudice può compiere ove venga successivamente sollecitato un altro suo
intervento, dal momento che l’ordinanza è produttiva di effetti soltanto limitatamente al
provvedimento richiesto, ossia sempreché non intervena un quid novi a modificare lo stato di fatto
processuale e a determinare una diversa decisione. Ai fini del rilevamento del difetto di
giurisdizione nel corso delle indagini preliminari, il PM deve provocare l’intervento del giudice,
anche al di fuori delle ipotesi in cui questi possa esservi presente per altra causa , anche allorché la
carenza di potestà giurisdizionale appaia tanto evidente da non lasciar adito a ombra di dubbio.
- Se il difetto di giurisdizione viene rilevato dopo la chiusura delle indagini preliminari, il giudice
pronuncia sentenza che conterrà anche l’ordine di trasmissione degli atti all’autorità giudiziaria
cui spetta conoscere del reato, mentre nel caso di difetto assoluto, non essendovi alcun organo
giurisdizionale penale legittimato alla cognitio causae, si limiterà a dichiarare solo il difetto di
giurisdizione. Assolutamente preclusa quando decisione di merito, che se eventualmente adottata
dovrebbe considerarsi tamquam non esset.
L’art. 25 c.p.p. disciplina gli effetti della decisione pronunciata nel giudizio in Cassazione a seguito
di rilevazione dell’esistenza di un difetto di giurisdizione, stabilendo che essa è vincolante nel corso
del processo, tranne che, successivamente, non emergono elementi nuovi tali da comportare una
diversa definizione giuridica del fatto- reato che sia modificativa della giurisdizione.

21. (Segue): B) l’inosservanza dei criteri di ripartizione della competenza.


Anche l’inosservanza dei criteri di ripartizione della competenza, e dunque il correlativo verificarsi
di un fenomeno di incompetenza, incide, al pari del difetto di giurisdizione, sulla potestà del
giudice, in quanto il giudice incompetente travalica la sfera della potestà giurisdizionale a lui
spettante e finisce con l’esercitare funzioni che non gli appartengono.
Da tale inosservanza scaturiscono effetti diversi a seconda che si tratti di:
-COMPETENZA PER MATERIA. L’incompetenza per materia deve essere rilevata su eccezione di
parte o anche d’ufficio dal giudice, in ogni stato e grado del processo.
Questa regola è assoggettata due limitazioni. La prima si verifica nel caso di incompetenza c.d. per
eccesso, vale a dire, allorché di un reato appartenente alla cognizione di un giudice di competenza
inferiore si occupi un giudice di competenza superiore. In questo caso il difetto di competenza
può essere rilevato o eccepito soltanto in fase di atti introduttivi del dibattimento, subito dopo
compiuti per la prima volta gli accertamenti sulla costituzione delle parti. Il mancato rispetto di
questo sbarramento cronologico determina la perpetuatio jiurisdictionis del giudice indebitamente
investito. La presunta maggiore idoneità dal punto di vista tecnico- professionale dell’organo di
competenza superiore, in aggiunta a ragioni di economia processuale, consiglia l’adozione della
regola di non regressione del processo. La seconda limitazione riguarda l’ipotesi in cui
l’incompetenza derivi da connessione dei processi: la relativa eccezione o la rilevazione ex officio
vanno effettuate, pena la decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare; se
questa manchi, o se l’eccezione qui proposta sia stata respinta, vanno effettuate nella fase
introduttiva del dibattimento, subito dopo il compimento per la prima volta dell’accertamento
relativo alla costituzione delle parti. Anche qui, la mancata osservanza del termine fa si che la
competenza rimanga fissata in capo al giudice al quale erroneamente era stata affidata la cognitio
causae.

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Per ciò che riguarda l’individuazione dell’ “incompetenza che derivi da connessione”, è da ritenere
che questa si determini soltanto nel caso in cui un procedimento che avrebbe dovuto seguire per
attrazione l’iter imposto dalle regole fissate nell’art. 15 c.p.p. rimanga affidato al giudice e
originariamente competente.
Ipotesi differente appare quella in cui procedimenti connessi siano stati erroneamente attribuiti al
giudice di competenza inferiore: è da ritenere che qui l’incompetenza derivi dall’inosservanza delle
normali regole attributive della cognitio causae per ragioni di materia, sicché potrà essere rilevata
in ogni stato e grado del processo, e anche d’ufficio.
-COMPETENZA PER TERRITORIO. L’incompetenza per territorio ha carattere mono rigido di quelle
che regolano l’incompetenza per materia. L’incompetenza per territorio va eccepita dalle parti o
rilevata dal giudice, non già in ogni stato e grado come quella per materia, ma unicamente entro
rigorosi termini prescritti a pena di decadenza: prima che si concluda l’udienza preliminare
ovvero, nel caso in cui questa manchi, durante la fase introduttiva del dibattimento, subito dopo
essere stati compiuti per la prima volta gli accertamenti sulla regolare costituzione delle parti,
momento entro il quale deve essere riproposta anche l’eccezione dedotta e respinta
nell’udienza preliminare. Superati questi limiti temporali interviene la perpetuatio jiurisdicitionis,
per cui la cognizione della causa rimane al giudice originariamente incompetente, anche se i fatti
sui quali può fondarsi la deducibilità del vizio di incompetenza emergano solo in seguito
all’istruzione dibattimentale. Ancora una volta, predominano le esigenze relative all’ordine e alla
speditezza del processo.
-COMPETENZA PER CONNESSIONE. Le regole che disciplinano l’incompetenza per territorio
valgono pure per l’incompetenza derivante da connessione, riguardi essa i criteri di ripartizione
per territorio o quello per materia.
-Nel codice nono sono contenute specifiche norme sull’inosservanza dei criteri di ripartizione
della competenza per stati e gradi (c.d. funzionale), giacché l’individuazione di questo tipo di
competenza è dovuta alla sola elaborazione dottrinale. Trattandosi, comunque, di criteri che
attengono alla capacità che ha l’organo giurisdizionale di esercitare determinate funzioni e non
altre, è da ritenere che una loro eventuale inosservanza vada valutata alla stregua dei vizi
riguardanti la capacità del giudice.

22. (Segue): le decisioni relative all’inosservanza dei criteri di ripartizione della competenza.
La disciplina delle decisioni concernenti le questioni in tema di inosservanza dei criteri di
ripartizione della competenza, adottabili dai giudici nei vari gradi e stati del processo, è articolata
secondo alcune regole.

NE L PROCEDIMENTO DI PRIMO GRADO


a)durante la fase delle indagini preliminari, il giudice è chiamato a intervenire nel corso di essa, se
si riconosce di essere incompetente per una qualsiasi causa, pronuncia ordinanza dichiarativa
dell’incompetenza disponendo che gli atti vengano restituiti al PM. Tale provvedimento, che
assume la forma dell’ordinanza trattandosi di intervento a cognizione limitata e non fondato su
una conoscenza completa delle attività d’indagine, esplica efficacia rebus sic stantibus; ciò vuol
dire che esso non impedisce una nuova diversa valutazione della competenza ove venga richiesto
un successivo intervento del giudice, così come non impedisce che il PM prosegua nelle proprie
investigazioni;

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b)in sede di udienza preliminare, l’incompetenza viene dichiarata con sentenza dal giudice il quale
ordina, al contempo, la trasmissione degli atti al PM presso il giudice competente che viene
designato dalla sentenza stessa. Il provvedimento, in questo caso, trova giustificazione nel fatto
che il giudice, a conclusione delle indagini, viene investito dal PM con la richiesta finale che gli
devolve la cognizione piena e il potere decisorio in ordine all’esito di esse;
c)nel dibattimento, il giudice, ove ritenga competente un giudice diverso,emette sentenza
dichiarativa della propria incompetenza, e ordina la trasmissione degli atti al PM presso il giudice
ritenuto competente.
NEL PROCESSO D’APPELLO
Il giudice il quale accerti che in primo grado si è verificata un’ipotesi di incompetenza per difetto,
avendo conosciuto del reato un organo di competenza inferiore rispetto a quello che avrebbe
dovuto conoscerne, emette, non necessariamente su impugnazione di alcuna delle parti, ma anche
d’ufficio, sentenza di annullamento della decisione adottata da quell’organo e ordina la
trasmissione degli atti al PM presso il giudice di primo grado trattato un processo spettante a un
giudice di competenza inferiore, il giudice dell’appello pronuncia nel merito e in secondo grado:
l’incompetenza per eccesso, in questo caso, è del tutto irrilevante; prevalgono ancora esigenze di
speditezza del processo. Per quanto concerne l’incompetenza per territorio e quella derivante da
connessione, il giudice d’appello, ravvisatane l’esistenza, emanerà sentenza di annullamento e
trasmetterà gli atti al PM presso il giudice competete soltanto se nel giudizio di primo grado siano
stati rispettati i termini per dedurre l’incompetenza e se la relativa eccezione sia stata riproposta
tra i motivi dell’impugnazione; diversamente, giudicherà nel merito come giudice del secondo
grado.
IN SEDE DI GIUDIZIO PER CASSAZIONE
Può venire in considerazione per la prima volta solo l’incompetenza determinatasi allorché il
giudice di competenza inferiore abbia conosciuto di un reato riservato al giudice di competenza
superiore: è questa la valutazione suscettibile di essere rilevata anche d’ufficio, in ogni stato e
grado del processo, mentre le altre ipotesi di incompetenza sono sottoposte ai rigoroso limiti
cronologici che ne consentono la rilevabilità elusivamente non oltre l’ambito degli atti introduttivi
del dibattimento di primo grado. Pertanto, esse non possono trovare ingresso nel giudizio di
cassazione, tranne che, non vengano indicate anche come motivi di ricorso per cassazione.
Se la Corte di cassazione riconosce l’incompetenza annulla la sentenza sottoposta al suo esame
rinviando gli atti al giudice che essa riterrà competente, e la “decisione” è vincolante nel corso del
processo, nel senso che è definitivamente attributiva della competenza in capo all’organo che ne è
stato investito. Tale effetto, viene meno nel caso in cui dopo la sentenza della Cassazione risultino
elementi nuovi idonei a dar luogo a una diversa definizione giuridica del fatto- reato che sposti la
cognitio causae a un giudice di competenza superiore, e ciò in omaggio al principio che riconosce
tale giudice, privilegiandola, una più attitudine sul piano tecnico- professionale. Irrilevante, invece,
la circostanza che i nuovi elementi successivamente emersi possano produrre soltanto una
modifica della competenza per territorio o di quella per connessione, ovvero lo slittamento della
cognizione del processo verso un giudice di competenza inferiore.

23. (Segue): l’inosservanza dei criteri di ripartizione della competenza nell’acquisizione di prove
e nell’adozione di misure cautelari.

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Regole specifiche in ordine all’acquisizione delle prove e all’adozione di misure cautelari vengono
dettate dagli artt. 26 e 27 c.p.p.
In particolare, per le prove acquisite in situazione di violazione delle regole sulla competenza, è
stabilito che esse mantengono la loro piena efficacia anche se assunte da giudice dichiarato
incompetente per territorio, purché siano state osservate le disposizioni che ne disciplinano la
formazione.
Se siano state acquisite da un giudice che risulti, poi, incompetente per materia, rimangono
pienamente efficaci, a condizione che non si tratti di dichiarazioni ripetibili: in questo caso, la loro
utilizzabilità è consentita soltanto nell’udienza preliminare, al fine di stabilire se il processo debba
o no sfociare in un rinvio a giudizio, dal momento che in dibattimento il giudice competente è in
grado di acquisire personalmente le prove in questione.
Per quel che concerne i provvedimenti cautelari sia personali che reali, essi possono esser disposti
anche da un giudice che al momento della relativa richiesta erroneamente propostagli dal PM si
reputi privo, quale che ne sia il motivo, della competenza a conoscere nel merito. Ciò, però, in via
assolutamente eccezionale e d’urgenza, per garantire le esigenze, di natura cautelare, che tali
provvedimenti sono chiamati a soddisfare e che il ritardo, nell’attesa dell’intervento del giudice
competente, potrebbe frustrare. La disciplina in questo senso emerge dall’art. 27 c.p.p., in cui si
stabilisce che le misure cautelari disposte dal giudice che si dichiari incompetente per qualsiasi
causa, cessano di avere efficacia se entro 20 giorni dalla trasmissione degli atti al giudice ritenuto
competente questi non adotti nuovi provvedimenti. Lo stesso fenomeno di caducazione si verifica
anche ove la causa di incompetenza venga rilevata in un momento successivo all’emanazione del
provvedimento.

24.L’inosservanza dei criteri di attribuzione al tribunale nella sua diversa composizione.


L’art. 33-quinquies c.p.p. stabilisce che l’inosservanza delle disposizioni relative all’attribuzione
dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica è rilevata ex officio
dal giudice o eccepita dalle parti, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza
preliminare o, se questa manca, durante la fase introduttiva del dibattimento, subito dopo che
siano stati compiuti per la prima volta gli accertamenti sulla regolare costituzione delle parti.
Questo è il momento entro il quale deve essere riproposta anche l’eccezione dedotta e respinta
nel corso dell’udienza preliminare.

25. (Segue): le decisioni relative all’inosservanza dei criteri di attribuzione al tribunale.


La normativa relativa alle decisioni concernenti le questioni in tema di inosservanza dei criteri di
attribuzione al tribunale nella sua duplice composizione, adottabili nei vari gradi e stai processuali,
segue alcune regole:
A) NEL PROCESSO DI PRIMO GRADO:
- nell’udienza preliminare. Occorre chiarire che non tutti i procedimenti di competenza del
tribunale passano attraverso la fase dell’udienza preliminare. Più precisamente: mentre tale fase è
imprescindibile nei procedimenti attribuiti alla cognizione del tribunale collegiale, può invece
mancare nei procedimenti attribuiti alla cognizione del tribunale monocratico, in quanto, in alcune
ipotesi il rito può svolgersi in forma semplificata prescindendo proprio dall’udienza preliminare.
Ciò premesso, instaurato un procedimento nella forma che prevede l’udienza preliminare, il
giudice, monocratico o collegiale, può rilevare per qualsiasi causa, d’ufficio o su eccezione delle
parti, che l’udienza preliminare non deve essere celebrata poiché il procedimento andava
attribuito al tribunale in composizione monocratica seguendo le regole del rito semplificato. In

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questo caso, egli disporrà, con ordinanza, la trasmissione degli atti al PM affinché provveda alla
corretta instaurazione del rito con soppressione della fase dell’udienza preliminare.
-durante la fase dibattimentale. Occorre distingue a seconda che sia stata instaurata a seguito di
udienza preliminare oppure no.
Nel primo caso, il giudice, monocratico o collegiale, ove ritenga che a decidere debba essere il
tribunale in composizione diversa, trasmette, con ordinanza, gli atti al giudice a cui va attribuita la
cognitio causae. Essendo già celebrata l’udienza preliminare è logico che il processo passi
direttamente al giudice del dibattimento che deve conoscerne secondo i prescritti criteri di
attribuzione.
Nel caso di dibattimento instaurato a seguito di rito semplificato, il giudice dispone con ordinanza
la trasmissione al PM affinché investa del processo il giudice di quell’udienza. Se così non si
operasse, verrebbe meno una fase processuale in cui l’imputato può esercitare ogni suo diritto in
vista di una possibile conclusione del processo a lui favorevole ancor prima che esso giunga ad un
epilogo dibattimentale. Disciplina analoga a quella appena delineata si ha allorché il giudice
monocratico, sempre in corso di rito semplificato, ritenga che, pur essendo il reato di sua
cognizione, si debba procedere con udienza preliminare.
B) NEL PROCESSO DI APPELLO. Qualora il giudice di appello ritenga che il procedimento doveva
essere attribuito al tribunale in composizione collegiale mentre erroneamente ne ha conosciuto i
tribunale monocratico, pronuncia l’annullamento della sentenza impugnata, disponendo la
trasmissione degli atti al PM presso il giudice di primo grado affinché instauri correttamente il
procedimento avanti all’organo in composizione collegiale. Questa disciplina muove dalla
considerazione che tale modulo procedimentale presenta maggiori garanzie delle quali l’imputato
nel giudizio di primo grado si è visto illegittimamente privato e che è giusto ripristinare.
Se, viceversa, il giudice dell’appello ritiene che a decidere doveva essere il tribunale monocratico e
ne ha conosciuto irregolarmente il collegio, non procede all’annullamento e pronuncia nel merito.
Invero, si presume che il giudizio in primo grado, ancorché inesattamente imbastito secondo le
regole del rito collegiale, tutto sommato sia stato più affidabile, sicché irragionevole sarebbe
reiterarlo in forme meno rassicuranti.
C) IN SEDE DI GIUDIZIO PER CASSAZIONE. Si applicano le stesse norme dettate per la rilevabilità in
appello dell’inosservanza delle disposizioni in tema di composizione del tribunale, sia che si tratti
di erronea attribuzione al giudice monocratico, sia che si tratti di erronea attribuzione al giudice
collegiale. In quest’ultima ipotesi il giudizio in Cassazione deve riguardare una sentenza di primo
grado non appellata o perché impugnata direttamente con ricorso in Cassazione.
Affinché la Corte di cassazione possa pronunciarsi è necessario che le eccezioni relative
all’irregolare attribuzione siano state proposte inutilmente nel giudizio di primo grado, riproposte
altrettanto inutilmente nel processo d’appello e prospettate, infine, come motivi di ricorso per
cassazione.

26. (Segue): l’inosservanza dei criteri di attribuzione nel compimento di atti del procedimento e
nell’acquisizione di prove.
L’art. 33-nonies c.p.p. stabilisce che “l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale
o monocratica del tribunale non determina l’invalidità degli atti del procedimento, né
l’inutilizzabilità delle prove già acquisite”. A condizione, si intende, che siano state rispettate le
specifiche regole che disciplinano il compimento degli atti e l’acquisizione delle prove.
Se il legislatore ha ritenuto di adottare il principio della conservazione degli atti compiuti dal
giudice incompetente, a maggior ragione lo stesso criterio andava seguito nel caso di irregolare

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attribuzione all’organo giurisdizionale in composizione errata, dal momento che la ripartizione
delle attribuzioni viene vista come organizzazione del lavoro all’interno di un unico ufficio al quale
è demandato giudicare, anche se in diversa figurazione, su fattispecie pur sempre di propria
competenza.

27.I rapporti tra diversi organi giurisdizionali: i conflitti.


Dalla pluralità e diversità degli organi che esercitano giurisdizione penale, e quindi dal possibile
insorgere di rapporti tra essi, prende vita il fenomeno dei possibili conflitti, sia di giurisdizione, sia
di competenza. Essi si profila tra un giudice comune e un giudice speciale, nel primo caso; tra due
giudici comuni, nel secondo caso.
Conflitto di giurisdizione si ha quando appare incerto se in ordine a un determinato fatto
attribuito alla stessa persona debba giudicare un organo della giurisdizione comune o un organo
della giurisdizione speciale.
Conflitto di competenza si ha quando l’incertezza investa due organi appartenenti entrambi alla
giurisdizione comune e si configuri in relazione alla loro competenza per materia o per territorio,
sia essa originaria o determinata per connessione. Un conflitto è configurabile solo tra giudici di
merito, e giammai con la Corte di cassazione le cui decisioni sono definitive e di immediata
esecuzione.
Conflitto positivo in qualsiasi stato e grado del processo, i due giudici prendono
contemporaneamente cognizione del fatto, determinando lo scaturire di una situazione
suscettibile di portare a una patologica mo9ltiplicazione di processi per il medesimo fatto e nei
confronti della stessa persona con l’inevitabile rischio di epiloghi contraddittori.
Conflitto negativo ne l’uno né l’altro intendono prendere cognizione di quel fatto, creando in tal
modo una situazione che potrebbe condurre alla paralisi del processo.
Presupposti per un conflitto sono dunque:
a) la contemporaneità delle declaratorie con cui i due giudici manifestano la loro volontà, positiva
o negativa;
b) che tali declaratorie abbiano a oggetto il medesimo fatto, inteso come accadimento storico
identificabile attraverso le componenti della condotta, dell’evento, del nesso di casualità,
indipendentemente dal suo nomen juris, attribuito alla stessa persona.
Conflitti di competenza “per casi analoghi” possono presentarsi sia attraverso un profilo
soggettivo, sia attraverso un profilo oggettivo. Sotto il primo, essi nascono quando i contrasti
coinvolgono anche organi giurisdizionali privi di potestà giurisdizionale; sotto il secondo, quando i
contrasti vertano non sulla cognizione del medesimo fatto, ma sul compimento di un determinato
atto processuale attribuito alla sfera funzionale di uno degli organi dissidenti.
-Sfugge alla configurazione in termini di conflitto ogni eventuale contrasto tra il giudice
dell’udienza preliminare che abbia rinviato a giudizio e il giudice del dibattimento, dal momento
che prevalgono le decisioni adottate da quest’ultimo. Qui vale la regola secondo cui sulle
valutazioni operate da ciascun giudice in ordine alla propria competenza non possono intervenire
situazioni vincolanti di un altro giudice, per così dire, interessato, cede di fronte all’esigenza di una
sollecita definizione del processo; ciò in considerazione del fatto che a porre il vincolo è il giudice
del dibattimento la cui potestà giurisdizionale è più ampia che non quella del giudice dell’udienza
preliminare.
- Un altro limite al tipo di contrasto che può dar luogo a conflitto si riscontra nella disposizione
contenuta nell’art. 28 comma 3 c.p.p. che vieta la possibilità di proporre, nel corso delle indagini
preliminari, conflitto positivo fondato su ragioni di incompetenza per territorio determinata da

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connessione. L’esclusione viene giustificata con la considerazione che è opportuno evitare conflitti
tra pubblici ministeri durante le indagini preliminari, lasciando ciascun ufficio del PM libero di
svolgere le indagini per il reato commesso nel proprio territorio. La previsione però è da
considerare superata dall’art. 54-bis c.p.p. che ha fatto venir meno la possibilità di ipotizzare in
materia un ricorso a un’estensione analogica delle regole dettate per i conflitti tra organi
giurisdizionali , che attraverso l’art. 28 comma 3 c.p.p. si voleva evitare.
Al di fuori delle ipotesi appena dette, conflitti di competenza tanto positivi che negativi sono
possibili nel corso delle indagini preliminari, sia pure con cognizione necessariamente limitata allo
stato degli atti. Conflitto positivo si delinea quando più giudici emettano un provvedimento
relativo a un medesimo fatto, richiesto dai rispettivi uffici del PM. Conflitto negativo si profila
quando, dichiaratosi il giudice per le indagini preliminari incompetente a emettere un
provvedimento sollecitatogli dal PM, questi investa del procedimento il PM presso l’organo
giurisdizionale ritenuto competente e il nuovo giudice per le indagini preliminari, a sua volte,
carente di competenza, ritenendo che competente sia il primo giudice.

28. (Segue): la risoluzione dei conflitti.


Una volta instauratasi una situazione di conflitto, essa può venir meno per “composizione
spontanea”, se uno dei giudici esprime la volontà, su istanza di alcuna delle parti o anche d’ufficio,
di recedere dalla già manifestata determinazione di prendere, o non, cognizione del reato
dichiarando la propria incompetenza. Ciò può accadere sia ancora prima che inizi il procedimento
per la risoluzione del conflitto, sia nel corso di esso, fino a quando non sia stata emessa la relativa
pronuncia. La dichiarazione può essere adottata senza forme particolari, non essendo dalla legge
richiesto uno specifico provvedimento.
Ove composizione spontanea non vi sia, l’esistenza del conflitto può essere rilevata, anzitutto ex
officio dal giudice il quale, con ordinanza, provvedere a rimettere alla Corte di cassazione, organo
competente a dirimere il conflitto, copia degli atti necessari per decidere, con l’indicazione delle
parti e dei difensori , che devono essere posti in condizione di intervenire.
Possono essere anche le parti a denunciare il conflitto. La denuncia è presentata con
dichiarazione scritta e motivata, alla quale viene allegata la necessaria documentazione, ed è
depositata presso la cancelleria di uno dei giudici. Questi trasmette tutto alla Corte di cassazione,
insieme a una copia degli atti necessari per la decisione, indicando i nominativi delle parti e dei
difensori e formulando eventuali osservazioni affinché alla Corte sia prospettato un quadro più
ampio possibile.
Lo stesso giudice che ha rilevato il conflitto o ne ha ricevuto denuncia provvederà a darne
immediata comunicazione all’altro giudice configgente il quale, a sua volta, trasmetterà subito alla
Corte di cassazione copia degli atti necessari per la risoluzione del conflitto, con l’indicazione delle
parti e dei loro difensori e con eventuali osservazioni.
Il procedimento per la risoluzione del conflitto che si instaura avanti la Corte di cassazione in
quanto tradizionalmente “giudice sulla competenza”, segue le regole del rito in camera di
consiglio. Diritto di comparire e di essere sentiti è riconosciuto alle parti, ai loro difensori, alle altre
persone interessate alla risoluzione del conflitto, tra le quali anche i giudici in contrasto i quali
potrebbero voler interloquire con proprie osservazioni: a tutti costoro, pertanto, deve essere dato
avviso della data fissata per l’udienza.
La decisione è adottata con sentenza viene portata, immediatamente, a conoscenza dei giudici in
conflitto, dei pubblici ministeri presso di essi e della parti private. La soluzione dettata dalla Corte
di cassazione è definitiva, salvo che non intervengono a mutare la situazione nuovi fatti che

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comportino una diversa definizione giudica dalla quale derivi la modificazione della giurisdizione o
lo slittamento della competenza per materia, ma solo verso un giudice superiore. Intangibile
rimane, invece, la determinazione del giudice competente per territorio, anche quando, dovessero
insorgere nel corso del processo nuovi fatti modificativi della sua competenza.

29. (Segue): le questioni pregiudiziali.


Come dalla pluralità degli organi che esercitano giurisdizione in materia penale nasce il fenomeno
dei conflitti, dalla pluralità degli organi che esercitano giurisdizione in materie diverse nasce il
fenomeno delle c.d. questioni pregiudiziali, le quali vanno ricondotte entro la sfera dei rapporti tra
giurisdizione in materia penale e giurisdizione la cui attività si esplica in ambiti differenti da quello
penale.
Al giudice viene attribuito dalla legge il potere di conoscere tutte le questioni, anche di natura non
penale, la cui risoluzione rappresenti il presupposto per la decisione da pronunziare nel processo
penale: trattasi di una cognizione “in via incidentale” limitata ai fini della decisione penale,
improduttiva degli effetti tipici del giudica e, quindi, non vincolante un nessun altro processo.
In alcune ipotesi la legge ritiene opportuno, anche allo scopo di evitare possibili contrastanti
giudicati, che sia un organo della giurisdizione non penale, il che significa, l’organo della
giurisdizione civile o amministrativa naturalmente competente, a risolvere una determinata
controversia dalla quale dipenda la decisione del processo penale; con la conseguenza che
l’esercizio della giurisdizione penale potrà rimanere sospese e che il giudice penale dovrà,
successivamente, assumere a base della propria decisione la sentenza pronunciata dal giudice
civile o da quello amministrativo.
Il codice restringe le ipotesi suscettibili di dar vita a questioni pregiudiziali alle controversie
riguardanti lo status familiae e a quelle riguardanti lo status civitatis. Dispone, infatti, l’art. 3
comma 1 c.p.p. che “quando la decisione (penale) dipenda dalla risoluzione di una controversia
sullo stato di famiglia o di cittadinanza, il giudice può sospendere il processo sino al passaggio in
giudicato della sentenza che definisce la questione”.
Presupposti per la sospensione del processo penale in presenza di una controversia di stato sono:
a) che la questione sia seria, vale a dire non manifestamente infondata, temeraria o pretestuosa
sì da porsi come intralcio per la sollecita definizione del processo medesimo: sufficiente ai fini
della delibazione in ordine alla “serietà” una sommaria valutazione di fatto dalla quale emerge
l’apparente fondatezza della questione;
b) che l’azione a norma delle leggi civili o amministrative sia stata già proposta; diversamente
sarà lo stesso giudice penale a conoscerne in via incidentale. L’esigenza di celerità del processo
penale prevale ancora, e questa volta persino sulle ragioni di certezza relativa a situazioni
personali particolarmente delicate.
La sospensione del processo penale è facoltativa e la relativa decisione rimane affidata al
prudente discernimento del giudice il quale valuterà discrezionalmente anche l’opportunità che la
questione venga o no trattata dalla giurisdizione non penale. Se il giudice riterrà di sospendere il
processo, pronuncerà la relativa decisione nella forma dell’ordinanza.
La sospensione non impedisce al giudice di compiere tutti gli atti ritenuti urgenti, inclusa
l’acquisizione di prove non rinviabili, tranne quelli che dovessero coinvolgere la questione per la
quale la sospensione stessa era disposta. Il processo sospeso riprenderà il suo normale
svolgimento dopo che il giudice civile o amministrativo avrà definito la questione pregiudiziale di
stato con sentenza irrevocabile; una sentenza che esplicherà efficacia di giudicato nel processo
penale e della quale il giudice di questo processo non potrà disattendere il contenuto.

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30. (Segue): la sospensione del dibattimento in attesa di decisioni su questioni civili o
amministrative.
Una figura che, pur se formalmente il codice non cataloga tra le questioni pregiudiziali, nella
sostanza finisce col rimanervi assimilata, è quella delineata dall’art. 479 c.p.p. in cui viene stabilito
che, “fermo quanto previsto dall’art. 3, qualora la decisione sull’esistenza del reato dipenda dalla
risoluzione di una controversia civile o amministrativa di particolare complessità, per la quale sia
già in corso un procedimento presso il giudice competente, il giudice penale, se la legge non pone
limitazioni alla prova della posizione oggettiva controversa, può disporre la sospensione del
dibattimento siano a che la questione non sia stata decisa con sentenza passata in giudicato”.
Trattasi di una situazione destinata a operare soltanto in fase dibattimentale e la cu configurabilità
in termini di questione pregiudiziale dipende da ben precisi presupposti e limitazioni.
- Anzitutto, si richiede che si sia in presenza di una controversia civile o amministrativa alla cui
risoluzione sia legata la “decisione sull’esistenza del reato”;
- La controversia deve essere di “particolare complessità”, il che vuol dire tale da sconsigliare che
a conoscerne venga chiamato un organo naturalmente destinato a esercitare funzioni
giurisdizionali in materia (penale) diversa da quella (civile o amministrativa) oggetto della
controversia, essendo richiesti accertamenti tali da non potersi compiere agevolmente con i mezzi
propri del rito penale;
- In ordine a quella controversia “sia già in corso un procedimento presso il giudice
competente”: si vuole evitare che di tale procedimento si abbia ad attendere un inizio che
potrebbe anche tardare indefinitamente;
- Per l’accertamento in sede civile o amministrativa la legge non deve porre “limitazioni alla prova
della posizione soggettiva controversa”: in tale eventualità ammettere che il giudice penale
importi la soluzione accolta dal giudice civile, il quale dispone di minori strumenti probatori, o
addirittura, è vincolato da una regola di decisione inversa, implicherebbe il rischio di una sentenza
ingiusta.
Soltanto al realizzarsi di questi presupposti si determina nel giudice penale il potere, il cui esercizio
rimane pur sempre affidato alle sue valutazioni discrezionali di ordinare la sospensione del
dibattimento. Ove egli ritenga di non farlo, risolverà autonomamente le questioni di natura
extrapenale, definendo il giudizio sull’esistenza del reato. La sospensione del dibattimento durerà
sino a che la questione civile o amministrativa non sia stata decisa con sentenza passata in
giudicato. Questa sentenza non esplica effetto di giudicato nel processo penale: gli accertamenti in
essa contenuti saranno, dunque, valutati alla stregua di ogni altro materiale utile sul piano
probatorio. In definitiva, il giudice penale, anche se abbia in precedenza disposto la sospensione
del dibattimento, può disattendere tutto quel che è stato deciso in sede extrapenale; l’unico
vincolo è semmai quello derivante dalla necessità di fornire un’adeguata motivazione.
La sospensione del dibattimento penale può cessare anche prima che sia intervenuta la decisione
in sede civile o amministrativa, e precisamente se, trascorso un anno, il giudizio in questa sede non
si sia ancora concluso. In tal caso, il giudice, su sollecitazione delle parti o ex officio, può revocare
l’ordinanza di sospensione e disporre, contestualmente, la prosecuzione del dibattimento.

31. (Segue): la c.d. pregiudiziale costituzionale.


Una particolare ipotesi di pregiudiziale, c.d. costituzionale, nasce quando si eccepisce nel corso di
un processo penale l’illegittimità di una norma penale sostantiva o processuale. Al verificarsi del

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caso, l’autorità giudiziaria, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla
risoluzione della questione di legittimità costituzionale e non ritenga che la questione sollevata sia
manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale dispone la trasmissione immediata
degli atti alla Corte costituzionale, e sospende il giudizio in corso. Questa pregiudiziale si può
definire come “obbligatoriamente devolutiva”, poiché il giudice, accertata la rilevanza della
questione e ravvisata la non manifesta infondatezza della questione stessa, dovrà
necessariamente arrestarsi e demandare la decisione alla Corte costituzionale, essendo a lui
vietato il giudizio sulla costituzionalità delle leggi.

32. (Segue): la c.d. pregiudiziale comunitaria.


Un’altra particolare ipotesi è rappresentata dalla c.d. pregiudiziale comunitaria. Ove il giudice
italiano ritenga di dover prendere in considerazione una norma europea potrebbe risultare
necessario pervenire a un’inequivoca e armonizzata lettura della stessa, onde deciderne, in una
concreta fattispecie, l’applicabilità o meno. Il sistema predispone, a tal fine, un “rinvio
pregiudiziale” alla Corte di giustizia dell’Ue, affinché si pronunci sulla corretta interpretazione
delle disposizioni e dei principi sovranazionali destinati a essere attuati in un processo pendente
avanti alla giurisdizione nazionale.
Quando una questione interpretativa relativa a norme europee viene sollevata davanti a una
giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può domandare alla Corte di giustizia di
pronunciarsi sulla questione. Secondo questa previsione, la devoluzione ha carattere facoltativo,
restando affidato alla scelta del giudice nazionale se procedere direttamente all’interpretazione
della normativa comunitaria da applicare alla controversia o richiedere l’intervento della Corte di
giustizia. Tuttavia, se la questione è sollevata in un giudizio pendente avanti a una giurisdizione
nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno,
tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di giustizia. La devoluzione diventa così
obbligatoria quando la questione interpretativa venga posta a un organo giurisdizionale di vertice.
La pregiudiziale viene sollevata dal giudice su istanza di parte o ex officio, deve esporre gli
elementi di fatti e di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni prospettate e
deve indicare i motivi per i quali si ritiene indispensabile la soluzione di tali questioni ai fini della
definizione della controversia, non potendo il giudice comunitario esprimere pareri consultivi su
questioni meramente ipotetiche. In ogni caso, il ricorso pregiudiziale riguarda unicamente
l’interpretazione di norme da applicare a fattispecie concrete dedotte in giudizio e non tocca per
nulla la questione di merito, che rimane di esclusiva appartenenza del giudice nazionale, così come
non implica alcuna decisione da parte della Corte circa l’applicazione delle disposizioni
comunitarie nel caso specifico o l’interpretazione di norme interne o, ancora, la valutazione circa
la compatibilità di quest’ultime con la normativa comunitaria.
Capitolo terzo
IL PUBBLICO MINISTERO

1.Il pubblico ministero come organo statuale.


Parlando del PM si può sottolineare immediatamente che esso risalta come organo dell’apparato
statuale e come soggetto processuale.
Come organo dell’apparato statuale, il PM si presenta in veste di organo chiamato a esercitare
“sotto la vigilanza del ministro di grazia e giustizia le funzioni che la legge gli attribuisce”: in
particolare, “vegliare all’osservanza delle leggi e alla pronta e regolare amministrazione della
giustizia”.
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La collocazione del PM resta lontana dal potere giurisdizionale in senso proprio.
1)Al PM manca la potestà di jus dicere, vale a dire di emettere una decisione, impronta
indefettibile dell’attività di giurisdizione;
2)Egli non presenta i tratti tipici e ineludibili della fisionomia degli organi giurisdizionali, primo tra
tutti quello scolpito nell’art. 101 Cost. Invero, la norma contenuta in quest’articolo, mentre si
preoccupa di stabilire che i giudici sono soggetti unicamente alla legge, non altrettanto fa per i
magistrati del pm; ciò induce a pensare che essi subiscano vincoli di soggezione sia pure all’interno
dell’organizzazione gerarchica di carattere verticale da cui i vari uffici del pm sono contrassegnati.
Una conferma a tale deduzione proviene dagli artt. 53 comma 1 c.p.p. e 20 comma 4 d.P.R.
449/1988, nei quali si afferma il principio che nel corso delle udienze penali i magistrati del pm
svolgono le proprie funzioni con “piena autonomia”: autonomia nei confronti dei capi o dei titolari
degli uffici, ai quali viene attribuito un potere di sostituzione del magistrato. Quelle posizioni fanno
intendere con chiarezza come l’area di autonomia per i magistrati del pm si registra alle sole sedi
di udienza: un chiarimento normativo ad hoc che sembra suonare come eccezione rispetto a una
regola generale ovviamente orientata in direzione opposta.
Una decisa svolta verso un’accentuata gerarchizzazione dei rapporti interni all’ufficio del pm si è
avuta con il d.lgs. 106/2006 che rende vincolanti per i magistrati dell’ufficio stesso i principi e i
criteri fissati dal “capo” relativamente all’attrazione di un determinato procedimento, sicché ogni
singolo magistrato dovrà seguire una certa impostazione nelle attività di indagine, soprattutto se
iniziali, nell’impiego della polizia giudiziaria, e non gli sarà neppure permesso di sottrarsi agli
standard di valutazione normalmente adottati dall’ufficio in tema di applicazione delle misure
cautelari.

2. (Segue): il pubblico ministero come soggetto processuale.


In quanto portatore di una richiesta, in particolare, la richiesta di una decisione che accolga le
ragioni dell’accusa, avanzata a un soggetto che in situazione di imparzialità dovrà su di essa
decidere, il pm si lascia agevolmente inquadrare nel concetto di “parte” del processo penale; pur
non riuscendo a liberarsi completamente da quella “preziosa e difficile ambiguità” che ne ha
sempre caratterizzato la fisionomia, al punto da indurre, in passato, da qualcuno a coniargli
l’etichetta, certo paradossale, di “parte imparziale”. L’art. 358 c.p.p. impone al pm di compiere
ogni attività necessaria per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione svolgendo, al
contempo, “accertamenti su fatti e su circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”,
un impegno a operare in pro della controparte che non significa diversa collocazione del pm: la sua
attività rimane pur sempre attività di investigazione e il suo ruolo pur sempre ruolo di organo
dell’azione, vale a dire di “parte”.
Diversamente che per l’organo giudicante, il codice non detta norme in ordine alla capacità e alle
correlative situazioni di incompatibilità del pm. Regole in materia si possono rinvenire negli artt. 18
e 19 r.d. 12/1941, i quali prevedono ipotesi di incompatibilità per i magistrati, anche del pm, che
operino in sedi nelle quali loro parenti o affini esercitino come avvocati o facciano parte di uffici
giudiziari insieme ad altri magistrati a cui siano legati da vincoli di parentela o di affinità .

3.L’organizzazione degli uffici del pubblico ministero.


Nell’attuale ordinamento, gli uffici del pm risultano così strutturati:
A)Per ciò che riguarda la giurisdizione comune
- presso la Corte di cassazione, titolare dell’ufficio del pm è il procuratore generale, coadiuvato da
avvocati generali e da sostituti procuratori generali;

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- presso ogni corte d’appello, titolare dell’ufficio del pm è un procuratore generale, coadiuvato da
avvocati generali e da sostituti procuratori generali;
- presso ogni tribunale, titolare dell’ufficio del pm è un procuratore della Repubblica, coadiuvato,
eventualmente, da procuratori aggiunti tra i quali può scegliere il vicario che lo sostituisca in caso
di assenza, impedimento o sede vacante, e da sostituti procuratori, nonché da vice procuratori
onorari, da uditori giudiziari, da ufficiali di polizia giudiziaria o da laureati in giurisprudenza che
frequentino il secondo anno della scuola di specializzazione per le professioni legali, i quali
possono esercitare le funzioni di pm nei procedimenti avanti al tribunale monocratico e relativi
reati per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore a 4 anni;
- presso ogni giudice di pace titolare dell’ufficio del pm è il procuratore della Repubblica del
tribunale nel cui circondario ha sede il giudice di pace, coadiuvato da sostituti procuratori, da vice-
procuratori onorari e da eventuali delegati.
B)Per ciò che riguarda la giurisdizione speciale
- presso ogni tribunale per i minorenni, titolare dell’ufficio del pm è un procuratore della
Repubblica, coadiuvato da sostituti procuratori;
- presso ogni tribunale militare, titolare dell’ufficio del pm è un procuratore militare della
Repubblica, coadiuvato da sostituti procuratori militari;
- presso la corte militare d’appello, titolare dell’ufficio del pm è il procuratore generale militare,
coadiuvato da avvocati generali militari e da sostituti procuratori generali militari;
- presso la Corte costituzionale, quando sia chiamata a giudicare il Presidente della Repubblica per
i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, l’ufficio del pm è costituito da uno o più
commissari eletti dal Parlamento anche tra i propri componenti.
° Per i reati di cognizione della corte d’assise agisce l’ufficio del pm presso il tribunale individuato
secondo le normali regole attributive della competenza per territorio; avanti la corte d’assise
d’appello agisce l’ufficio del pm presso la corte d’appello.
° Regole particolari valgono per i delitti, consumati o tentati, di associazioni di tipo mafioso e di
sequestro di persona a scopo di estorsione, nonché per i delitti commessi avvalendosi delle
condizioni previste dalle norme che puniscono l’attività delle associazioni di stampo mafioso e la
loro agevolazione, per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze
stupefacenti o psicotrope … la trattazione di procedimenti relativi a questi reati è sempre affidata
al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello
nel cui ambito ha sede il giudice competente, il c.d. procuratore distrettuale, il quale, all’interno
del proprio ufficio di procura, costituisce una c.d. direzione distrettuale antimafia designando i
magistrati ne fanno parte scelti in base a specifiche attitudini ed esperienze professionali.
° Per i medesimi reati e con funzioni di coordinamento delle attività demandate ai procuratori
distrettuali è istituita la c.d. direzione nazionale antimafia, alla quale è proposto il procuratore
nazionale antimafia, coadiuvato da uno o più procuratori aggiunti e da sostituti procuratori,
magistrati scelti sulla base di specifiche attitudini ed esperienze nella trattazione di procedimenti
di criminalità organizzata.

4.La ripartizione di attribuzioni tra i diversi uffici del pubblico ministero.


La ripartizione delle attribuzioni demandate agli uffici del pm è effettuata in base a criteri collegati
dalla distribuzione delle competenza tra i vari organi giurisdizionali.

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Criterio funzionale: è possibile distinguere in relazione ai gradi e agli stati del procedimento. Nel
procedimento di primo grado, i poteri del pm sono esercitati dai magistrati della procura della
Repubblica presso il tribunale; nel procedimento in secondo grado e in quello in Cassazione,
rispettivamente dai magistrati della procura generale presso la corte d’appello e da quelli della
procura generale presso la Corte di cassazione.
Criterio territoriale: le funzioni vengono esercitate dai singoli uffici del pm in considerazione della
loro stabile organizzazione pedissequa degli uffici dei giudici e si estendono nell’ambito della
stessa area territoriale entro la quale è competente il giudice presso cui l’ufficio del pm è istituito.
Criterio materiale: rileva la devoluzione di attribuzione ai magistrati dei diversi uffici del pm non
simmetrica rispetto alla competenza per materia dei giudici, dal momento che per i reati di
cognizione del giudice di pace, per quelli di cognizione del tribunale e per quello di cognizione
della corte d’assise le funzioni vengono svolte dai magistrati di un unico ufficio, la procura della
Repubblica presso il tribunale.
Controllo sulla legittimazione di un determinato ufficio del pm a esercitare in concreto le
attribuzioni di cui è astrattamente investito: viene consentito dall’art. 54- quater c.p.p. alla
persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, nonché ai loro rispettivi difensori. Tali
soggetti, avuta conoscenza dell’instaurazione di un procedimento possono chiedergli di
trasmettere gli atti al pm presso il giudice da essi ritenuto competente, enunciando, a pena
inammissibilità, le ragioni a sostegno della pretesa. Se il pm procedente accoglie la richiesta, entro
10 giorni trasmette gli atti all’omologo ufficio presso il giudice ritenuto competente; in caso
contrario, o se comunque omette di adottare un provvedimento nei 10 giorni, il richiedente, entro
i 10 giorni successivi, può avanzare istanza al procuratore generale presso la Corte d’appello o,
qualora il giudice ritenuto competente appartenga a un diverso distretto, al procuratore generale
presso la Corte di cassazione, affinché determinino, con decreto motivato ed entro 20 giorni dal
deposito della richiesta, quale ufficio del pm dovrà procedere.
La reiterazione di una richiesta precedentemente rigettata è inammissibile, tranne che non sia
fondata su fatti nuovi e diversi.
Attraverso l’instaurazione del meccanismo di controllo appena descritto, il legislatore ha inteso
riaffermare una stretta correlazione tra attribuzioni istituzionali del magistrato del pm e
competenza del giudice, impedendo al primo di spaziare nelle sue investigazioni svincolato da
qualsiasi collegamento con il giudice che, in casi di esercizio dell’azione penale, sarà competente
per la decisione.
In ordine agli atti posti in essere dal pm al di fuori della propria sfera di attribuzioni, il codice
dispone che essi possono essere utilizzati nei casi e nei modi previsti dalla legge. Il riferimento ai
soli atti dell’indagine preliminare si giustifica per il fatto che soltanto in questo momento, in cui
agisce da dominus il pm, possono sorgere problemi di titolarità riconducibili a tale organo, mentre
nei momenti successivi ogni situazione di quel genere andrebbe a confluire in valutazioni
riguardanti la competenza dell’organo giurisdizionale. Gli atti in questione conservano validità nei
casi previsti dalla legge: la precisazione normativa fonda una regola generale di inefficacia dell’atto
posto in essere dal pm al di fuori delle proprie attribuzioni, sotto il profilo della mancanza di
legittimazione del soggetto che lo crea, tranne che la legge non ne permetta l’utilizzabilità.
Se l’atto compiuto dal pm privo di legittimazione può essere ripetuto esso dovrà considerarsi
inefficace.

5.(Segue): contrasti tra uffici del pubblico ministero.

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Anche in capo agli uffici del pm possono crearsi situazioni di contrasto riguardanti le loro
attribuzioni. Ciò si verifica, anzitutto, quando un pm, ritenendo che il reato appartenga alla
cognizione di un giudice diverso da quello presso cui egli esercita le sue funzioni, investa delle
indagini preliminari l’ufficio del pm presso il giudice considerato competente. Se quest’ufficio
aderisce, nulla quaestio: condurrà le indagini; se, invece, a sua volta, ritiene che debba procedere
il primo, entrando in contrasto negativo con esso, informa il procuratore generale presso la Corte
di cassazione, qualora appartengono a distretti diversi. Esaminati gli atti, il procuratore generale
determinerà quale ufficio dovrà svolgere le indagini. Analoga disciplina vale per qualsiasi altra
ipotesi di contrasto negativo tra i pm.
Può anche verificarsi, che un magistrato del pm il quale stia procedendo per un determinato fatto
nei confronti di una determinata persona riceva notizia che presso un diverso ufficio sono in corso
indagini preliminari a carico della stessa persona per il medesimo fatto. Se ritiene che la
competenza sia dell’organo giurisdizionale presso il quale egli esercita le proprie funzioni, richiede
senza ritardo al pm dell’altro ufficio la trasmissione degli atti. Se questi accondiscenderà,
ovviamente non sorgerà alcun problema: il procedimento verrà trasferito e proseguirà presso
l’ufficio che ha avanzato la richiesta; se riterrà di dover dissentire, dando vita per ciò stesso a un
contrasto positivo con quell’ufficio, informerà il procuratore generale presso la corte d’appello o il
procuratore generale presso la Corte di cassazione, a seconda che gli uffici in contrasto
appartengano allo stesso distretti o a distretti diversi. Assunte le necessarie informazioni, il
procuratore generale determinerà, con decreto motivato e applicando le regole sulla competenza
del giudice, quale ufficio del pm dovrà procedere, salva restando l’utilizzabilità degli atti
di’indagine compiuti da diversi uffici.
La disciplina dei contrasti tra pm riguarda uffici diversi; le divergenze che dovessero insorgere
all’interno di uno stesso ufficio verrebbero risolti dal titolare nell’ambito dei suoi normali compiti
di organizzazione delle attività dell’ufficio stesso.

6.”Vigilanza”,“avocazione”e “delegazione” nei rapporti tra i diversi uffici del pubblico ministero.
Le regole che disciplinano la sfera di attribuzioni degli uffici del pm subiscono l’incidenza dei
particolari nessi di natura interorganica che legano i predetti uffici, e che sono contrassegnati da
una struttura gerarchica in linea verticale. In quest’ottica si spiegano i rapporti tra i veri uffici del
pm, caratterizzati da un:
- potere di vigilanza: attribuito al pm di grado superiore sugli uffici del pm di grado inferiore
dall’art. 6 d.lgs. 106/2006, il quale stabilisce che “il procuratore generale presso la corte d’appello,
al fine di verificare il corretto e uniforme esercizio dell’azione penale e il rispetto delle norme sul
giusto processo, nonché il puntale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di
direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti, acquisisce dati e notizie
dalle procure della Repubblica del distretto e invia al procuratore generale presso la Corte di
cassazione una relazione almeno annuale”.
- potere di avocazione: consente al pm di grado superiore di far proprie le attribuzioni
normalmente demandate all’ufficio del pm di grado inferiore per il compimento di una
determinata attività.
° Avocazione si può avere anche quando il titolare dell’ufficio abbia omesso di provvedere alla
sostituzione, nei casi stabiliti dalla legge, di un magistrati del pm in corso di udienza: il procuratore
generale presso la corte d’appello avocherà il procedimento, designando per l’udienza un
magistrato del proprio ufficio.

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Un potere di avocare le indagini preliminare quando riguardano reati di criminalità organizzata è
riconosciuto al procuratore nazionale antimafia, che lo esercita nel caso in cui non sia stato
possibile promuovere o rendere effettivo il coordinamento tra i procuratori distrettuali interessati:
disposta l’avocazione, il procuratore nazionale procederà al compimento delle attività investigative
personalmente o tramite un magistrato della direzione nazionale antimafia da lui all’uopo
designato.
Il procuratore generale presso la corte d’appello o il procuratore nazionale antimafia dispongono
l’avocazione, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto motivato che in copia deve essere trasmesso
ai procuratori della Repubblica interessati i quali entro 10 giorni dalla ricezione, possono
presentare reclamo al procuratore generale presso la Corte di cassazione; questi, se lo accoglie,
revoca il procedimento di avocazione e ordina la restituzione degli atti.
-potere di delegazione: si configura quando un ufficio del pm trasferisce la potestà di esercitare
determinate funzioni che gli appartengono a un altro ufficio del pm, per il compimento di una
specifica attività. Tipico esempio, si riscontra quando il procuratore generale presso la corte
d’appello, qualora lo reputi opportuno, disponga che al processo in sede di impugnazione
partecipi, quale suo sostituto”, il rappresentante del pm che ha presentato le conclusioni nel
dibattimento in primo grado. Questi, nei limiti della deroga, compie l’attività come se fosse sua
propria, salvo il potere di revoca che l’organo delegante può esercitarne in qualunque momento,
solo che consideri cessata l’opportunità di mantenere il rapporto sostitutivo: la delega, infatti, non
comporta per il soggetto che l’ha concessa, perdita delle sue originarie competenze.
° Delegazione può aversi anche, al di fuori della struttura gerarchicamente organizzata, tra uffici
del pm di pari grado. Ciò si verifica quando, per singoli atti da assumere nella circoscrizione di altro
tribunale, il pm cui spetterebbe il compimento dell’atto, ove non ritenga di procedere
personalmente, deleghi il pm presso il tribunale del luogo.

7.L’unità e l’impersonalità dell’ufficio del pubblico ministero.


Unità e impersonalità contraddistinguono l’ufficio del pm. Il principio va inteso limitatamente a
ogni singolo ufficio del pm. In questa dimensione, l’unità e l’impersonalità si risolvono nel fatto che
tutti i magistrati appartenenti a un certo ufficio del pm costituiscono un ufficio unico e possono
essere investiti delle stesse attribuzioni in relazione a ciascun affare penale. Ne consegue che il
titolare dell’ufficio può esercitare personalmente i compiti di pm così come può delegare altri
magistrati addetti all’ufficio stesso. La delega può riguardare la “cura di specifici settori d’affari,
individuati con riguardo ad aree omogenee di procedimenti ovvero ad ambiti di attività dell’ufficio
che necessitano di uniforme indirizzo” e nell’attribuzione di essa il titolare può stabilire, in via
generale o con singoli atti, i criteri ai quali i magistrati dell’ufficio devono attenersi.
Il capo può delegare l’esercizio dell’azione penale a uno o può magistrati dell’ufficio, e la delega
può riguardare sia la trattazione di uno o più procedimenti, sia il compimento di singoli atti di essi.
Anche in questo caso, con l’atto di delega si possono stabilire i criteri ai quali deve attenersi il
delegato; nel caso in cui quest’ultimo non vi si adegui, o laddove non osservi i principi e i criteri
definitivi in via generale, o ancora nell’eventualità che tra il delegato e il titolare dell’ufficio insorga
un contrasto circa le modalità di esecuzione della delega, questa può essere revocata, con un
provvedimento motivato di fronte al quale il delegato può far valere, entro 10 giorni, le proprie
ragioni presentando osservazioni scritte al procuratore della Repubblica.
Al di là delle ipotesi di revoca, il titolare dell’ufficio può sostituirsi in qualsiasi momento ai
magistrati delegati così come può sostituire un magistrato dell’ufficio con un altro nel corso del
medesimo procedimento.

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° Ipotesi di sostituzione si ha quando un magistrato del pubblico ministero proponga dichiarazione
di astensione. Il pm ha la facoltà di astenersi dal procedimento quando esistano “gravi ragioni di
convenienza”, ex art. 52 comma 1 c.p.p. La norma non le specifica, ma è logico pensare che i criteri
per la valutazione di tali “ragioni” non debbano essere dissimili da quelle che danno luogo
all’estensione del giudice; in ogni caso, dovrà trattarsi di circostanze che possano incidere sulla
funzione del pm, sì da metterne in discussione la serenità, in considerazione di quel potere- dovere
che egli ha di svolgere accertamenti favorevoli alla persona sottoposta alle indagini.
Se a volersi astenere è uno dei magistrati dell’ufficio, sulla relativa dichiarazione deciderà il titolare
dell’ufficio stesso; se, invece, è proprio il titolare, a decidere sarà il titolare dell’ufficio superiore.
Accolta la dichiarazione di astensione, il magistrato astenuto viene sostituito con un altro
magistrato appartenente al medesimo ufficio.
Se l’astensione riguarda il titolare, questi può essere sostituito con un magistrato del pm
appartenente a un ufficio che sia egualmente competente per materia ma che abbia sede nel
capoluogo del distretto di corte d’appello determinato a norma dell’art. 11 c.p.p., e, dunque, con
un magistrato appartenente a un ufficio del pm costituito presso un giudice territorialmente
diverso da quello cui è affidata la cognitio causae: una necessaria deroga alla regola secondo la
quale le funzioni di pm vengono esercitate dagli uffici istituti presso i giudici competenti.
° Sostituzione può aversi anche quando, per grave impedimento personale, per rilevanti necessità
di servizio o per motivi di opportunità legati alla posizione personale del magistrato non è possibile
o non è conveniente che egli eserciti le attività di pubblico ministero nel corso dell’udienza: ossia,
nel momento più delicato del processo, laddove più intensa deve essere l’autonomia del pm. Il
relativo provvedimento, che elimina una situazione d incompatibilità del magistrato con
l’espletamento delle funzioni, viene adottato dal dirigente dell’ufficio nell’esercizio di un potere-
dovere che appare chiaramente sorretto dall’esigenza di garantire oltre, che la corretta
funzionalità e l’efficienza dell’ufficio stesso, l’obiettività del magistrato d’udienza.
° La sostituzione è prevista anche nel procedimento per le indagini preliminari, quando ricorrono
gli stessi motivi di opportunità, dipendenti dalla posizione personale del magistrato, che
impongono la sostituzione nel corso dell’udienza. Il dirigente può ravvisare la necessità di
sostituire un magistrato del pm anche indipendentemente dall’esistenza di alcuna delle cause
sopra accennate, ma la legittimità di una decisione in tal senso è condizionata da un’adesiva
volontà dell’interessato.

Capitolo quarto
LA POLIZIA GIUDIZIARIA

1.Ruolo e funzioni della polizia giudiziaria.


La polizia giudiziaria nel vigente codice di procedura penale si colloca tra i “soggetti”, assumendo,
così, una posizione istituzionale che implica una chiara differenziazione dei suoi organi dal pm e,
dall’altro, presuppone l’inequivoca attribuzione ai medesimo organi di funzioni autonome.
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Funzioni analoghe a quelle assegnate al pm e non di certo fine a sé stesse, ma preordinate a
rendere possibile l’esercizio di un potestà “principale” riconosciuta a quell’organo: il
promovimento dell’azione penale. Pertanto, la polizia giudiziaria si specifica come soggetto con
funzioni propriamente complementari rispetto a quelle che svolge il pm.
La polizia giudiziaria oggi assume importanza basilare, nel momento in cui “allunga e moltiplica le
braccia del pm”.
Un ruolo che emerge con nitidezza in due moment- chiave dell’intero sistema processuale
contraddistinti dalle attività parallele del pm e della polizia giudiziaria: quando “il pm e la polizia
giudiziaria prendono o ricevono le notizie di reato” e, immediatamente dopo, quando, in vista di
una identica finalità, “il pm e la polizia giudiziaria svolgono le indagini necessarie per le
determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale”. La polizia giudiziaria è coinvolta in modo
diretto, sebbene strumentale, nell’esercizio della funzione sancita dall’art. 112 Cost., anche se ciò
non intacca la titolarità del pm e la consequenziale attribuzione di un potere direttivo sulla polizia
giudiziaria medesima. Un potere che nulla toglie all’autonomia di cui essa gode nell’espletamento
dei propri compiti, se vero è che pur successivamente alla comunicazione della notizia di reato (al
pm) la polizia giudiziaria continua a svolgere le proprie funzioni e che pur dopo l’ intervento del
pm, la polizia giudiziaria svolge di propria iniziativa tutte le attività di indagine per accertare i reati.
- I compiti demandati alla polizia giudiziaria come “soggetto” delle indagini consistono:
° nel provvedere, anche di propria iniziativa, a prendere notizia dei reati;
° impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori;
° ricercarne gli autori;
° raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale;
° svolgere ogni indagine e attività disposta o delegata dall’autorità giudiziaria.
-Accanto a queste, che sono le attribuzioni tipiche degli organi di polizia giudiziaria, altre se ne
possono individuare a carattere genericamente coadiutorio:
° assistere agli atti del pm curandone la documentazione;
° eseguire talora le notificazioni.
Al mancato o non puntuale adempimento dei compiti connessi all’esercizio delle funzioni di polizia
giudiziaria conseguono sanzioni disciplinari.
Distinta dall’attività della polizia giudiziaria deve tenersi l’attività della polizia di sicurezza che
interviene ante delictum, e quindi in funzione preventiva, attraverso operazioni di vigilanza che
hanno lo scopo di impedire possibili violazioni dell’ordine giuridico.

2.Gli organi della polizia giudiziaria e i soggetti che svolgono funzioni di polizia giudiziaria.
L’ordinamento opera una distinzione tra:
UFFICIALI DI POLIZIA GIUDIZIARIA
- gli appartenenti ai seguenti ruoli e qualifiche del personale della polizia di Stato: ruolo dei
dirigenti, con esclusione dei primi dirigenti che assolvono alla funzione di vice questore vicario;
ruolo dei commissari; ruolo degli ispettori; ruolo dei sovraintendenti; ruolo degli assistenti,
limitatamente alla sola qualifica di assistente capo;
- gli ufficiali superiori e inferiori, gli appartenenti al ruolo dei sovraintendenti e degli ispettori dei
carabinieri e della guardi di finanza, ai quali vanno aggiunti gli appuntati dei carabinieri
limitatamente al periodo in cui assumono il comando effettivo di una stazione e gli appuntati scelti
dei carabinieri e della guardi di finanza con un anno di anzianità nel grado e che abbiano superato
un corso di qualificazione di durata non inferiore a trenta giorni;
- gli appartenenti al ruolo dei sovraintendenti e degli ispettori del corpo di polizia penitenziaria;

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-gli ufficiali e gli appartenenti al ruolo dei sovraintendenti e degli ispettori del corpo forestale dello
Stato;
- il sindaco nei comuni dove non abbia sede un ufficio della polizia di Stato ovvero un comando dei
carabinieri o della guardia di finanza.
AGENTI DI POLIZIA GIUDIZIARIA
- gli appartenenti al ruolo degli agenti e degli assistenti della polizia di Stato, eccezioni fatta per la
qualifica di assistente capo;
- gli appartenenti al ruolo di appuntati e carabinieri dell’Arma dei carabinieri;
- gli appartenenti al ruolo di appuntati e finanzieri del Corpo della guardia di finanza;
- gli appartenenti al ruolo degli agenti e degli assistenti del corpo di polizia penitenziaria;
- gli appartenenti al ruolo degli agenti e degli assistenti del Corpo forestale dello Stato;
- le guardie delle province e dei comuni, quando siano in servizio e limitatamente all’ambito
territoriale dell’ente di appartenenza.
Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria si possono distinguere in due categorie.
Nella prima rientrano i soggetti destinati a funzioni di polizia giudiziaria stabilmente, con poteri di
intervento attribuiti in via generale ed estesi a qualsiasi reato, in qualsiasi luogo e in qualsiasi
momento.
L’altra è composta di soggetti con funzioni di polizia giudiziaria limitate, forniti di poteri di
intervento, ancorché riferibili a qualsiasi reato, temporalmente o localmente circoscritti o legati
all’espletamento degli incarichi istituzionali.
Oltre alle due sopra indicate la legge configura una terza categoria di soggetti, ai quali vengono
attribuite funzioni di polizia giudiziaria unicamente nei limiti del servizio a cui sono destinati e in
relazione non già a qualsiasi reato, sebbene ad alcune determinate specie di reati. È una classe
composta di pubblici ufficiali, incaricati di pubblico servizio, impiegati in genere, i quali sotto gli
aspetti più diversi, partecipano ad assicurare la tutela di pubblici interessi. A titolo esemplificativo,
si possono ricordare: i comandanti, i funzionari, gli ufficiali, i direttori, gli agenti degli uffici di porto
e aeroporto, limitatamente a determinati reati e a determinate circostanze previsti dal codice di
navigazione; il personale direttivo, i sottoufficiali, i vigili del corpo nazionale dei vigili del fuoco
quando rilevino reati che abbiano attinenza con i loro settori di intervento.
La distinzione in ufficiali e agenti di polizia giudiziaria assume rilevanza sul piano processuale
quando il compimento, nel corso delle indagini preliminari, di determinate attività, solitamente di
particolare delicatezza, venga riservato soltanto agli ufficiali: ad esempio, la ricezione della querela
e della remissione di essa.

3.I rapporti tra polizia giudiziaria e magistratura.


Al quadro delle interconnessioni che improntano organi di polizia giudiziaria e magistratura fa da
puntuale sottofondo il principio posto dall’art. 109 Cost.: “l’autorità giudiziaria dispone
direttamente della polizia giudiziaria”.
Si può osservare che il complesso delle relazioni che si instaurano tra polizia giudiziaria e autorità
giudiziaria si presta a essere analizzata sia con riferimento alla struttura degli uffici di polizia
giudiziaria e al loro collegamento con gli organi dell’autorità giudiziaria, sia con riferimento alle
attività che essi compiono in seno al procedimento penale ( questo secondo profilo riguarda gli atti
di indagine preliminare).
Per ciò che concerne il primo aspetto, va detto subito che anche l’attuale normativa
processualpenalistica rimane fortemente condizionata da tutte quelle remore sempre manifestate
anche quando si è parlato di creare un autonomo corpo di polizia giudiziaria posto alle esclusive

51
dipendenze della magistratura. E così, preoccupazione del legislatore è stata quella di cercare di
soddisfare l’esigenza di una dipendenza funzionale la più effettiva possibile della polizia giudiziaria,
ma di escludere categoricamente qualsiasi forma di subordinazione gerarchica.
In questa logica di potenziamento del rapporto funzionale tra i due organismi si sviluppano le
scelte del codice, che configura tre strutture nelle quali sono inseriti i soggetti a cui vengono
attribuiti compiti di polizia giudiziaria:
A)Servizi di polizia giudiziaria. Comprendono “tutti gli uffici e le unità ai quali è affidato dalle
rispettive amministrazioni o dagli organismi previsti dalla legge il compito di svolgere in via
prioritaria e continuativa le funzioni” assegnate dal codice alla polizia giudiziaria. Il riferimento
attiene, in particolare, ai servizi oggi attivati presso le questure, i comandi dei carabinieri, i
comandi della guardia di finanza.
B)Sezioni di polizia giudiziaria istituite presso ogni procura della Repubblica e composte con
personale dei servizi di polizia giudiziaria. La loro struttura prevede soggetti appartenenti alla
polizia di Stato, all’arma dei carabinieri e alla guardia di finanza, che potranno essere affiancati da
personale di polizia giudiziaria appartenente ad altri enti, su richiesta dell’autorità giudiziaria, ove
si presentino particolari esigenze di specializzazione nell’attività di indagine.
C)Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria appartenenti agli altri organi cui la legge fa obbligo
di compiere indagini a seguito di una notizia di reato. Il richiamo investe tutte le persone,
dipendenti da enti pubblici o privati, incaricate di ricercare e di investigare su determinate specie
di reati.
L’ufficio del pm impartisce, di volta in volta, le opportune direttive per l’effettivo coordinamento
investigativo e operativo tra i doversi organismi di polizia.
Circa i rapporti che legano le strutture in cui si articolano gli uffici di polizia giudiziaria, l’ art. 59
c.p.p. disciplina una situazione di subordinazione variamente configurata, a seconda che si tratti
delle sezioni dei servizi di polizia.
Per le sezioni, essendo stabilite che esse dipendono dai magistrati che dirigono gli uffici presso i
quali sono istituite, il vincolo si presenta con particolare accentuazione; per i servizi appare più
attenuato, dal momento che si ipotizza non già una dipendenza del servizio nel suo complesso, ma
soltanto una responsabilità dell’ufficiale preposto ai servizi nei confronti del procuratore della
Repubblica.
Due fondamentali regole vanno tenute in questo discorso.
La prima regola fissa i criteri di disponibilità della polizia giudiziaria da parte dell’autorità
giudiziaria, stabilendo che ogni ufficio della procura della Repubblica dispone della rispettiva
sezione, mentre l’ufficio della procura generale dispone di tutte le sezioni operanti nel distretto di
corte d’appello. È prevista, inoltre, la disponibilità anche da parte dei giudici i quali avvarranno
delle sezioni di polizia giudiziaria istituite presso i corrispondenti uffici della procura.
La seconda regola sottolinea che “le funzioni di polizia sono svolte alla dipendenza e sotto la
direzione dell’autorità giudiziaria” e trova il suo logico completamento nel disposto secondo cui
“gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria sono tenuti a eseguire i compiti a essi affidati”. Una
duplice finalità intende realizzare il legislatore riaffermando che le funzioni di polizia giudiziaria
vengono svolte “alla dipendenza” e sotto “la direzione” dell’autorità giudiziaria: anzitutto, ribadire
il concetto che nell’esercizio dell’attività di investigazione gli uffici di polizia sono soggetti soltanto
ed esclusivamente al potere giudiziario, sicché le prescrizioni che a questo competono non
possono incontrare alcun ostacolo in eventuali proibizioni o imposizioni avversative provenienti
dagli organismi amministrativi ai quali gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria gerarchicamente
siano legati. Al tempo stesso, chiarisce quello che sarà un dato costante dell’attività di polizia nelle

52
sue previsioni: la necessità di operare pressoché esclusivamente seguendo le direttive dettare
dall’autorità giudiziaria.

Capitolo quinto
GLI AUSILIARI DEL GIUDICE, DEL PUBBLICO MINISTERO E DELLA POLIZIA
GIUDIZIARIA

1.Generalità
Ad affiancare il giudice e il pm nell’espletamento dei loro uffici l’ordinamento pone alcuni soggetti,
ai quali demanda l’esercizio di funzioni giudiziarie a carattere coadiutorio, che vengono
usualmente designati come “ausiliari”. Connotazione tipica dei soggetti ausiliari è il loro delinearsi
come strutture istituzionali dell’apparato giudiziario. Pertanto, impropriamente si attribuisce la
qualifica di “ausiliari” anche a quelle persone alle quali vengono talora affidate mansioni
strumentali, il più delle volte di carattere tecnico, al fine di assumere e utilizzare in processo i
risultati delle operazioni compiute nell’esplicazione di esse.

2.L’ausiliare del giudice e i suoi compiti.


Molteplici sono le attività demandate al soggetto ausiliare del giudice, tradizionalmente designato
come cancelliere: la più importante è quella di assistenza a tutti gli atti dal giudice posti in essere,
tranne che non venga dalla legge prescritto espressamente il contrario. Consequenziale al compito
di assistenza è quello di documentazione delle attività alle quali il giudice procede, attraverso la
compilazione del processo verbale. Connessa alle attribuzioni è la funzione autenticatrice dei
provvedimenti emessi dal giudice. Tra le altre attività si possono ricordare, la ricezione di atti
processuale, il rilascio di copie, la comunicazione degli atti del giudice all’ufficio del pm, la custodia
degli atti processuali e delle cose poste sotto sequestro, ecc..

3.L’ausiliare del pubblico ministero e i suoi compiti.


Funzioni analoghe a quelle affidate all’ausiliare del giudice vengono svolte dal soggetto ausiliario
istituito presso l’ufficio del pm, solitamente definito come segretario. In particolare, egli assiste il
pm e redige processo verbale degli atti da questo compiuti; autentica i provvedimenti del pm.
Rilevano anche, la comunicazione di atti del pm e la ricezione di atti a esso destinati, nonché la
custodia di documenti o di cose sequestrate.

4.Ufficiale giudiziario e i suoi compiti.


Altra figura di soggetto ausiliario è ravvisabile nell’ufficiale giudiziario. La sua funzione preminente
è quella di eseguire le notificazioni, attività tramite la quale viene portato a conoscenza di una
persona un atto del procedimenti. L’ordine di notificazione può avvenire sia dal giudice che dal
pm, l’ufficiale giudiziario si presenta come soggetto ausiliario tanto dell’uno quanto dell’altro.
L’ufficiale giudiziario agisce sempre nell’ambito di una propria sfera di autonomia nei confronti
dell’autorità per ordine della quale procede alla notificazione e che la sua attività non riveste
soltanto carattere materiale. Egli è tenuto a certificare la conformità delle copie da lui stesso

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formate all’originale dell’atto da notificare; a procedere alla scelta delle modalità prescritte dalla
legge, osservando la successione dei luoghi e delle persone a cui l’atto deve essere notificato; a
compilare avvisi come importante attività di documentazione, a redigere la c.d. relazione di
notifica, atto rilevante ai fini della prova dell’attività compiuta per eseguire la notificazione e
dell’effettivo controllo sulla regolarità di essa.
Importante anche l’attività che l’ufficiale giudiziario esplica nel servizio del’udienza. In particolare,
egli deve impedire qualsiasi comunicazione tra i testimoni esaminati e tra quelli ancora da
esaminare e tra le persone estranee e i testimoni durante il dibattimento; vigilare affinché i
testimoni non assistano al dibattimento prima di essere stati esaminati; curare l’osservanza delle
disposizioni riguardanti l’accesso del pm nella sala dell’udienza; impedire che l’ordine dell’udienza
venga turbato; eseguire gli ordine del presidente del collegio e, in sua assenza, del pm.

5.I c.d. ausiliari della polizia giudiziaria.


Art. 348 comma 4 c.p.p.: “la polizia giudiziaria, quando, di propria iniziativa o a seguito di delega
del pm, compie atti o operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, può avvalersi di
persone idonee”.
La legge processuale non detta regole per la scelta delle persone chiamate a coadiuvare la polizia
giudiziaria; pertanto, l’unico criterio cui si possa ragionevolmente far capo sembra essere quello
della riconosciuta “idoneità” in relazione alle specifiche competenze tecniche che le esigenze del
caso postulano. In quanto investito di un pubblico ufficio, chi sia stato richiesto da un organo della
polizia giudiziaria di prestare attività coadiutoria non può sottrarvisi, e un eventuale rifiuto non
sorretto da giustificati motivi sarebbe punibile a norma dell’art. 328 c.p.

Capitolo sesto
L’IMPUTATO E LA PERSONA SOTTOPOSTA ALLE INDAGINI

1.Generalità.
Quando si parla dell’imputato si vuole sottolineare, in primo luogo, la sua qualità do soggetto
fondamentale, anzi di soggetto “veramente caratterizzatore del processo penale”, dal momento
che l’emanazione di una sentenza e la realizzazione del fenomeno della cosa giudicata, che
rappresentano i momenti tipici della vicenda processuale, non possono mai prescindere dalla
figura dell’imputato. In seno al processo l’imputato si delinea come “parte”: una posizione che
compete ‘naturalmente’ a chi abbia interesse a difendersi da un’accusa, prospettando
contemporaneamente la propria rappresentazione del fatto al giudice chiamato a pronunciare una
decisione nei suoi confronti.

2.L’assunzione della qualità di imputato.


Art. 60 comma 1 c.p.p. precisa che assume la qualità di imputato la persona a cui viene attribuito il
reato in una serie di atti tipici del pm: richiesta di rinvio a giudizio, richiesta di giudizio immediato,
richiesta di decreto di condanna, richiesta di applicazione di pena ex art. 447 comma 1 (c.d.
patteggiamento), decreto di citazione a giudizio avanti al giudice monocratico, presentazione o
citazione per il giudizio direttissimo. Sono i medesimi atti per mezzo dei quali, a norma dell’art.
405 comma 1 c.p.p., il pm esercita l’azione penale. La norma precisa che “il pm esercita l’azione
penale, formulando l’imputazione”. In sostanza, si può dire che si ha assunzione della qualità di
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imputato nel momento in cui il pm promuove l’azione penale, procedendo alla formulazione di
una “imputazione”, ossia di un addebito in uno di quegli atti tipici destinati a provocare
l’intervento inevitabile dell’organo giurisdizionale in funzione decisoria. Prima di quel momento
qualsiasi attribuzione di reato a una determinata persona non basta a farle assumere la qualità di
imputato.

3.Presupposti per l’assunzione della qualità di imputato: a) l’individuazione e l’identificazione


del soggetto.
INDIVIDUAZIONE. Primo presupposto affinché un soggetto possa assumere la qualità di imputato.
Per individuazione di intende “la enucleazione della persona alla quale viene attribuito il reato
dalla moltitudine indifferenziata”. L’ipotesi normale è che o attraverso gli elementi contenuti nella
notizia di reato o in sede di indagini preliminari si giunga all’individuazione del soggetto.
È frequente che la persona alla quale dovrebbe attribuirsi il reato non si riesca a individuare: si
determina, a questo punto, la situazione del “reato commesso da ignoti”. L’art. 415 comma 1
c.p.p. dispone: “quando è ignoto l’autore del reato, il pm, entro sei mesi dalla data della
registrazione della notizia di reato, presenta al giudice richiesta di archiviazione o di
autorizzazione a proseguire le indagini”. Dunque, la legge processuale consente che nel
procedimento per un reato commesso da persone ignote, le indagini preliminari abbiano un
termine massimo di sei mesi dalla data in cui è stata iscritta la notitia criminis. Trascorso tale
termine il pm dovrà richiedere l’archiviazione, nel caso in cui ritenga che quel soggetto non sia più
individuabile, o una proroga del termine per proseguire le indagini, ove pensi che la possibilità di
individuarlo sussista ancora.
IDENTIFICAZIONE. Individuato fisicamente il soggetto nei cui confronti operare l’imputazione del
fatto costituente reato, si pone l’esigenza che lo si individui anche anagraficamente.
L’identificazione avviene attraverso le generalità che l’imputato è tenuto a dichiarare all’autorità
giudiziaria sin dal primo atto in cui egli è presente.
Può accadete che l’identificazione non sia facile a ottenersi o perché la persona stessa non sia in
grado di fornire le proprie generalità o perché si rifiuti di farlo. Il codice stabilisce al riguardo che
“l’impossibilità di attribuire all’imputato le sue esatte generalità non pregiudica il compimento di
alcun atto da parte dell’autorità procedente”. Evidentemente, si fa affidamento sulla circostanza
che all’identificazione si pervenga per una qualsiasi altra via, nel corso del procedimento. Il tutto a
condizione che la persona sia stata fisicamente individuata: in caso contrario ogni attività di
indagine va sospesa in quanto, insuscettibile di soggettivarsi nei confronti di persona ignota,
sfuggirebbe alla possibilità che sia garantito il rispetto di eventuali esigenze difensive.
Può verificarsi, ancora, che erronee generalità siano state attribuite al vero imputato: si rimedierà
col tipico rito, in camera di consiglio, della correzione degli errori meramente materiali,
effettuando la rettificazione pura e semplice della generalità.
Un’altra eventualità è che nel corso del processo sorga dubbio sull’identità fisica della persona
contro la quale si sta procedendo, cioè che la persona identificata sia diversa dalla persona
individuata. In tal caso se risulta l’errore di persona, in ogni stato e grado del processo il giudice,
sentiti il pm e il difensore, pronuncia sentenza di non luogo a procedere nei confronti
dell’imputato. Si tratta di un proscioglimento a contenuto processuale, in quanto non fondato su
un accertamento che abbia valutato un determinato comportamento in termini di liceità o illiceità
penale: un proscioglimento perché l’azione penale non può essere proseguita in quanto promossa
contro la persona.

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Art. 67 c.p.p. configura l’ipotesi disponendo che “in ogni stato e grado del procedimento, quando
vi è ragione di ritenere che l’imputato sia minorenne, l’autorità giudiziaria trasmette gli atti al
procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni”. Siamo di fronte, a una norma
che, oltre ad attribuire al tribunale per i minori la competenza esclusiva a determinare, con le
forme prescritte per il rito minorile, assolve anche la funzione di impedire che l’imputato possa
essere assoggettato a trattamenti traumatizzanti, quali, ad esempio, la custodia in carcere insieme
con detenuti maggiorenni. Naturalmente, se in seguito agli accertamenti compiuti l’imputato
risultasse maggiorenne, gli atti verrebbero trasmessi all’autorità giudiziaria comune.
Art. 69 comma 1 c.p.p. stabilisce che “se risulta la morte dell’imputato, in ogni stato e grado del
processo, il giudice, sentiti il pm e il difensore, pronuncia sentenza a norma dell’art. 129”; a sua
volta l’art. 129 c.p.p. dispone che “in ogni stato e grado del processo il giudice il quale ritiene che il
reato è estinto, lo dichiara d’ufficio con sentenza”. La morte del reo prima della condanna
estingue il reato. Il comma 2 dell’art. 129 c.p.p. aggiunge che “quando ricorre una causa di
estinzione del reato, ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non
l’ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è prevista dalla legge come reato, il
giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta”.
Istintivamente si potrebbe esser portati a ritenere che la morte dell’imputato elimina il soggetto
del rapporto giuridico contro il qual vien fatta valere la pretesa punitiva dello Stato, pertanto la
causa di improcedibilità per morte del reo deve essere applicata con la prevalenza su ogni altra
formula di proscioglimento o di assoluzione proprio per il venir meno del rapporto processuale
penale. Razionalmente, però, non si può non riconoscere che la declaratoria di non colpevolezza
dell’imputato pronunciata pur quando questi sia già deceduto, oltre che obbedire a una
fondamentale logica di giustizia, realizza non trascurabili interessi di natura civilistica facendi capo
a eventuali eredi del defunto.
L’art. 69 c.p.p. richiamando in toto l’art. 129, accoglie la soluzione razionale. Dunque, se pur
ricorrendo la causa estintiva del reato “morte dell’imputato”, dagli atti risulti evidente che il fatto
non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, che non costituisce reato, che non è previsto
dalla legge come reato, il giudice è tenuto a pronunciare sentenza assolutoria applicando la
formula opportuna.
Se, successivamente alla dichiarazione di morte, si riscontra che essa è stata pronunciata
erroneamente, essendo l’imputato ancora in vita, l’eventuale sentenza che abbia pronunciato
l’estinzione del reato è tamquam non esset e si provvederà a promuovere a nuova azione penale
per il medesimo fatto e contro la medesima persona.

4.(Segue): b) la legittimazione del soggetto.


Altro presupposto affinché un soggetto possa validamente assumere la qualità di imputato è che
ne abbia la legittimazione, vale a dire che abbia l’idoneità a essere parte del processo, idoneità
che in linea generale viene riconosciuta a tutti i soggetti.
In via eccezionale alcuni soggetti sono privi di idoneità ad assumere la veste d’imputato, in virtù di
una particolare situazione determinativa di uno stato di c.d. immunità. Tale mancanza di
legittimazione può essere assoluta o relativa, a seconda che operi con riferimento a qualsiasi
possibile imputazione nei confronti di certe persone e in funzione di un loro peculiare status,
ovvero con riferimento a specifiche imputazioni strettamente connesse a determinate ipotesi di
condotta penalmente illecita riconducibile alla situazione da cui nasce l’immunità.
Soggetti assolutamente privi della legittimazione sono il Pontefice, i capi di Stati esteri e le
persone del seguito, gli agenti diplomatici stranieri accreditati presso lo Stato italiano e presso la S.

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Sede, i diplomatici e gli inviati della S. Sede e i dignitari della Chiesa in transito verso la Città del
Vaticano, i militari della N.A.T.O di stanza in Italia.
Soggetti privi della legittimazione relativamente a specifiche imputazioni sono i membri del
Parlamento, i consiglieri regionali, i giudici della Corte costituzionale, i componenti del CSM;
costoro non possono esser perseguiti limitatamente ai reati commessi in occasione di opinioni
espresse o di voti dati nell’esercizio delle funzioni che esercitano.
Carenza di legittimità assoluta di legittimazione ad assumere la qualità di imputato si può
sen’altro ritenere che essa si risolve in una esenzione dalla giurisdizione penale, nel senso che il
giudice non potrà mai valutare alcun comportamento del soggetto non legittimato, al fine di
accertarne l’eventuale liceità o illiceità.
Carenza relativa si traduce in un’esenzione parziale della giurisdizione cioè limitata soltanto ai
reati per i quali non è possibile formulare imputazione nei confronti del soggetto. Ciò, però, non
impedisce che l’autorità giudiziaria possa o debba instaurare un regolare processo quanto meno
per verificare se il fatto di cui a quel soggetto si fa carico integri realmente il reato per il quale
viene esclusa la perseguibilità o non ne configuri, uno diverso, legittimamente perseguibile: la qual
cosa non significa vera e propria esenzione dalla giurisdizione.

5.La capacità processuale dell’imputato.


Distinta dalla legittimazione è la capacità processuale dell’imputato, vale a dire l’attitudine a
esercitare, in seno al processo, tutti i poteri connessi a questa qualità. Una volta assunta la veste
d’imputato, il soggetto deve potersi trovare in condizioni che gli consentano l’utilizzazione di tutti i
mezzi giuridici riconosciuti a chi si trovi in tale posizione.
Normalmente, la capacità processuale dell’imputato coincide con la sua legittimazione, nel senso
che l’assunzione della qualità di imputato comporta automaticamente il riconoscimento della
capacità di porre in essere tutti gli atti di rilevanza processuale il cui compimento la legge consente
all’imputato.
° Un’eccezione si ha nell’eventualità di infermità mentale dell’imputato tale da non permettergli
“di partecipare coscientemente al processo”: il giudice, in tal caso, ove sia necessario al fine di
accertare le condizioni di incapacità della persona che non risultino in maniera palese, disporrà
anche d’ufficio una perizia. Nel frattempo è ammessa, su richiesta del difensore, l’assunzione di
prove che possano condurre a una sentenza di proscioglimento, quando vi si pericolo nel ritardo,
di qualsiasi altra prova eventualmente richiesta dalle parti. Accanto a un’esigenza di favor rei, si è
voluta garantire anche l’opportunità di non far dissolvere elementi di prova difficilmente
recuperabili in prosieguo di tempo.
Se a seguito degli accertamenti eseguiti in sede di perizia l’imputato risulterà in grado di
parteciparvi coscientemente, il processo continuerà; se, invece, emergerà uno stato di mente che
non lasci presagire una cosciente partecipazione, il giudice disporrà la sospensione del processo
nominando, al contempo, all’incapace un curatore speciale. Al curatore vengono attribuiti poteri di
iniziativa e di partecipazione al processo: facoltà di richiedere l’assunzione di prove che appaiano
utili per il proscioglimento, di assistere agli atti disposti sulla persona dell’imputato, di presenziare
ad attività al cui compimento questi abbia il diritto di intervenire.
La sospensione verrà revocata e il processo riprenderà il suo corso non appena risulterà dagli
accertamenti peritali la possibilità di una cosciente partecipazione al processo. Non deve essere,
disposta sospensione, o se già disposta deve essere revocata e il processo potrà giungere al suo
regolare epilogo, nel caso in cui, contemporaneamente al verificarsi della causa determinante lo
stato d’incapacità dell’imputato, o anche successivamente, in conseguenza di quell’assunzione di

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prove consentita al giudice, si profili una situazione idonea a legittimare la pronuncia di una
sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere. Si è in presenza, ancora una volta, di una
regola di favor che crea una finzione di capacità processuale nell’esclusivo interesse dell’imputato
del cui apporto difensivo l’ordinamento ritiene si possa anche fare a meno quando si sia già
solidificata nel processo una posizione per lui pienamente vantaggiosa.

6.Cessazione e riassunzione della qualità di imputato.


La qualità di imputato permane durante tutto lo svolgimento del processo, in ogni stato e grado di
esso, sino a quando non intervenga una sentenza di non luogo a procedere non più soggetta a
impugnazione, una sentenza di proscioglimento o una sentenza di condanna divenute irrevocabili,
un decreto d condanna divenuto esecutivo.
A seconda che la decisione sia assolutoria o di condanna, alla posizione di imputato succederà
quella di prosciolto o quella di condannato.
Una reviviscenza, tuttavia, delle qualità di imputato si può avere in due casa:
A) per il prosciolto, quando, dopo essere stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere, il
giudice ne disponga la revoca a seguito dell’acquisizione di nuove fonti di prova, sopravvenute
o preesistenti ma scoperte successivamente, che da sole o insieme a quelle già acquisite
possano determinare un rinvio a giudizio;
B) per il condannato, quando in seguito va relativa domanda si sia aperto un procedimento di
revisione.
Il momento dal quale comincia a operare la riassunzione dello status di imputato, coincide con la
pronuncia dell’ordinanza attraverso la quale il giudice per le indagini preliminari dispone la
riapertura della fase investigativa o con l’ordinanza, se il pm abbia chiesto il rinvio a giudizio, con
cui fissa l’udienza preliminare. Assunta nuovamente la qualità di imputato, il soggetto riacquista
tutti i diritti e tutte le facoltà a questa connessi.

7.La persona sottoposta alle indagini.


Anteriormente al promovimento dell’azione penale attraverso la formulazione dell’imputazione da
parte del pm, e dunque nella fase delle indagini preliminari, qualsiasi eventuale attribuzione di
reato a una determinata persona non basta a farle assumere la qualità di imputato. Nel corso di
tale fase si avrà soltanto una “persona sottoposta alle indagini”; a essa vengono accordati gli
stessi diritti e le stesse garanzia riconosciuti all’imputato.
La legge (art. 61 comma 2 c.p.p.) prevede che alla persona sottoposta alle indagini preliminari si
estenda “ogni altra disposizione”, al di fuori di quelle strettamente attinenti ai diritti e alle
garanzie, “relativa all’imputato”. L’ampiezza della formulazione normativa può far pensare che il
criterio estensivo, riguardando “ogni altra disposizione relativa all’imputato”, coinvolga anche
quelle destinate a determinare effetti sfavorevoli. Ma il significato garantistico che a esso si è
voluto dare parrebbe suggerire una diversa conclusione: la ratio legis ha pieno titolo per assurgere
a canone interpretativo. L’espansione dovrebbe operare soltanto in favore del soggetto, ignorando
gli effetti pregiudizievoli che possono derivare dall’assunzione della qualità di imputato.
Il soggetto nei cui confronti è stabilita l’estensione dei diritti e delle garanzie dell’imputato viene
individuato dalle norme contenute nel codice attraverso l’espressione “persona sottoposta alle
indagini” o talora “persona nei cui confronti si svolgono le indagini”.
Nel progetto preliminare si parlava anche di “persona indiziata”; la formula è stata,
successivamente, abbandonata in sede di stesura del testo definitivo, in quanto suscettibile di
ingenerare equivoci di ordine interpretativo incidenti sull’assetto complessivo del sistema.

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Eliminando il richiamo all’”indiziato” si è inteso evitare l’attribuzione di una etichetta che potesse
assumere significati sfavorevoli.

8.La garanzia della “presunzione di non colpevolezza”.


La posizione dell’imputato nell’ambito del processo trova una particolarmente significativa tutela
del principio posto dall’art. 27 comma 2 Cost., in forza del quale “l’imputato non è considerato
colpevole sino alla condanna definitiva”. In termini ancora più espliciti ed efficaci gli artt. 6 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici
proclamano che “ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua
colpevolezza non sia stata largamente accertata”.
La regola configura le medesime garanzie di libertà individuale e di protezione della persona
umana; una regola sicuramente “politica” che assurge a dignità costituzionale per ribadire e
rafforzare i valori della persona e i suoi inviolabili diritti.
Nella presunzione di non colpevolezza due significati di rilevanza pratica per il processo penale è
possibile cogliere:
- come regola di trattamento: la presunzione di non colpevolezza è da riferire alla condizione che
va riconosciuta all’imputato nel corso del processo. In particolare, egli ha diritto di essere trattato
alla stregua di una qualsiasi altra persona, senza alcun pregiudizio di colpevolezza che possa
socialmente o moralmente sminuirlo nei confronti degli altri cittadini, sino al momento in cui non
intervenga una condanna definitiva a sancire la sua responsabilità come autore di un illecito
penale. Con specifico riferimento alla libertà personale, la presunzione di non colpevolezza impone
che eventuali misure coercitive a carico dell’imputato siano strutturate esclusivamente in funzione
processuale, a garanzia del soddisfacimento di esigenze legate allo svolgimento delle indagini,
come, ad esempio, assicurare la presenza dell’imputato nel corso dell’accertamento giudiziario o
evitare che l’imputato in stato di libertà possa alterare gli elementi di prova, compromettendone
l’acquisizione o la genuinità. Qualsiasi diversa utilizzazione delle misure coercitive sarebbe
incompatibile con la presunzione di non colpevolezza, perché opererebbe a carico di una persona
la cui responsabilità non è stata ancora definitivamente accertata.
- come regola per la valutazione degli elementi di prova e l’accertamento giudiziale: la
presunzione di non colpevolezza comporta che l‘intero svolgimento del processo penale, sino alla
sua conclusione definitiva, deve correre lungo la direttrice segnata dalla tesi iniziale, ossia
dall’imputazione, di guisa che l’imputato per il semplice fatto di essere tale non può assumere la
qualifica di colpevole: egli sarà solamente un “accusato”, nei cui confronti dovrà essere il proprio
“accusatore” a dimostrare la fondatezza degli addebiti. Insomma, la presunzione di non
colpevolezza opera anzitutto come regola probatoria: non l’imputato è tenuto a provare la sua
innocenza, ma sarà l’antagonista a doverne provare la colpevolezza.
Accanto a questa dimensione, la presunzione di non colpevolezza come regola di giudizio opera
anche in veste di regola decisoria del fatto incerto: solo ove la colpevolezza dell’imputato risulti
provata “al di là di ogni ragionevole dubbio” potrà pronunciarsi sentenza di condanna, mentre in
ogni ipotesi di prova insufficiente o contraddittoria l’imputato dovrà essere prosciolto.

Capitolo settimo
LE PARTI EVENTUALI

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1.Premessa.
Accanto a quelle che vengono usualmente definite le parti necessarie del processo pensale altre
parti si possono presentare, di volta in volta, per integrare concrete fattispecie processuali:
a) quando su un determinato comportamento si richiede un accertamento giurisdizionale che
investa non soltanto l’ambito strettamente penalistico, ma anche quello del diritto civile, con la
possibile conseguente applicazione, oltre che di una sanzione di natura penale, anche di una
sanzione di natura civilistica: ecco, allora, l’intervento della parte civile ed eventualmente del
responsabile civile;
b) quando la decisione giudiziale può investire la sfera giuridica di un soggetto diverso del
responsabile diretto del comportamento processualmente valutabile, in forza di un particolare
rapporto che lega l’uno all’altro: si ha, in questo caso, l’intervento del civilmente obbligato per
la pena pecuniaria.

2.La parte civile: legittimazione.


Art. 185 c.p. stabilisce che “ogni reato obbliga alle restituzioni e, quando abbia cagionato anche un
danno patrimoniale o non patrimoniale, al risarcimento”. Questa regola muove dalla
considerazione che un’unica condotta può presentare due diversi profili di illiceità, uno
riguardante il settore penalistico, l’altro concernente il settore civilistico. Al verificarsi di
un’eventualità del genere l’art. 74 c.p.p. dice che “ il soggetto al quale il reato ha recato un danno
ovvero i suoi successori universali” possono esercitare nel processo penale “l’azione civile per le
restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all’art. 185 c.p.”. In questa disposizione trova
legittimazione la parte civile, come soggetto che “afferma di avere ricevuto un danno dal reato e
ne invoca la riparazione nelle forme del risarcimento o della restituzione”. Un soggetto che può
essere anche diverso dal titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale, come nel caso, ad
esempio, degli eredi della persona uccisa. È un soggetto che può essere non solo una persona
fisica, ma anche un ente o un’associazione dotati di personalità giuridica o una figura soggettiva
non personificata, quale un’associazione non riconosciuta, un comitato, e simili. A costoro vanno
aggiunti i loro “successori universali”, formula comprendente le ipotesi di successione mortis
causa e di successione per causa diversa.
La pretesa risarcitoria avanzata dalla parte civile può investire sia il danno patrimoniale
consistente nella perdita, distruzione o danneggiamento di un bene facente parte del patrimonio
del soggetto (c.d. danno emergente) o nella perdita di un guadagno (c.d. lucro cessante), danno
commisurabile economicamente, sia il danno non patrimoniale (c.d. danno morale) consistente
nell’ingiusto turbamento psichico che subisce la persona in conseguenza dell’illecito patito, nella
diminuzione di prestigio, di pubblica reputazione, e simili. Il danno non patrimoniale sfugge a
qualsiasi apprezzamento in termini economici, e la sua valutazione rimane affidata unicamente
all’accortezza del giudice di merito che dovrà proporzionarla alla gravità del reato e all’entità del
disagio sofferto.
La legittimazione della parte civile non può prescindere da due presupposti:
- chi nutre un’aspirazione al risarcimento deve aver subito un danno diretto e immediato
dall’azione o omissione del soggetto attivo del reato;
- deve essere rimasta lesa una situazione personale classificabile come diritto soggettivo, con
esclusione di situazioni di mero interesse o di interesse legittimo.

3.(Segue): le possibili sedi processuali in cui avanzare le pretese civili.

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L’interventi nel processo penale del danneggiato trova spiegazione nell’unicità del fatto valutabile
sotto il duplice profilo dell’illiceità penale e dell’illiceità civile, per cui un’unica disamina da parte
dello stesso giudice non solo realizza un’esigenza di economa di giudizi, ma evita il rischio di un
possibile contrasto di decisioni tra due organi giurisdizionali diversi, penale e civile, i cui soggetti di
indagine coincidono relativamente all’accertamento sullo stesso fatto.
Comunque, il soggetto danneggiato dal reato può avanzare le proprie pretese direttamente avanti
al giudice civile, dando vita a un autonomo procedimento per la restituzione e il risarcimento dei
danni. Anzi, il nuovo sistema processualpenalistico mostra di voler accordare preferenza alla
separazione, sin dove sia possibile, dell’accertamento civile dall’accertamento penale, allo scopo di
realizzare quella “massima semplificazione” alla quale quest’ultimo tende.
Posto che i procedimento per il risarcimento o le restituzioni può ben avere vita autonoma. La
relativa azione promossa avanti al suo giudice naturale seguirà il normale iter, del tutto
indipendente rispetto al processo penale; tranne che il danneggiato non preferisca trasferirla in
seno a esso. Il che potrà accadere se sarà ancora permessa la costituzione di parte civile e sempre
che il giudice civile non abbia nel frattempo pronunciato sentenza di merito pur se non passata in
giudicato: imponendo questa limitazione si vuole impedire che su un’identica pretesa si provveda
due volte nella stessa istanza, ancorché in sedi diverse, con duplicazione di pronunce che
potrebbero anche risultare tra loro in antitesi.
Il trasferimento dell’azione civile nel processo penale comporterà l’automatica rinuncia agli atti del
giudizio civile che dovrà essere dichiarato estinto, anche d’ufficio, e l’accertamento concernente i
danni proseguirà definitivamente in sede penale.
Un rapporto di dipendenza del procedimento civile dal processo penale si instaura quando l’azione
per il risarcimento o le restituzioni venga esercitata nella sua sede naturale dopo essere già
proposta avanti al giudice penale e successivamente revocata, e dopo che sia stata pronunciata la
sentenza penale di primo grado. In questi casi. Il provo movimento dell’azione risarcitoria o
restitutoria nel processo penale si intende retrattato, la cognitio causae relativamente ai danni
cagionati dal reato rimane attribuita all’organo della giurisdizione civile, ma il giudizio civile rimane
sospeso sino alla pronuncia della sentenza penale irrevocabile che su esso avrà effetti di cosa
giudicata.
La sospensione del processo civile, e il conseguente effetto vincolante che su questo produce la
sentenza penale irrevocabile, non si hanno quando la parte civile sia stata costretta a esercitare
l’azione davanti al giudice civile per essere stata esclusa dal processo penale: un comportamento
involontario che non può determinare per la posizione del danneggiato il pregiudizio di
un’eventuale pronuncia penale assolutoria preclusiva di un epilogo favorevole per l’azione
risarcitoria. Ulteriori previsioni di esclusione della sospensione del processo civile si incontrano in
altrettante ipotesi in cui il danneggiato, non essendogli consentita una libera scelta circa la sede
nella quale far valere i propri diritti, si trovi a dover optare per quella civile. Ciò accade quando il
processo penale sia costretto a una stati a causa delle condizioni di incapacità dell’imputato;
quando sia svolto col rito abbreviato, in ordine alla cui adozione la parte civile non ha alcun potere
di interloquire; quando vi sta stata applicazione di pena a richiesta delle parti, che non consente
decisione sulla pretesa civile.

4.(Segue): la costituzione di parte civile nel processo penale.

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L’intervento nel processo penale del danneggiato dal reato che avanzi la propria pretesa
risarcitoria o restitutoria si realizza attraverso la “costituzione di parte civile”.
Art. 77 comma 1 c.p.p. stabilisce che “la capacità d’agire della parte civile deve essere riconosciuta
unicamente ai soggetti che hanno il libero esercizio dei diritti, mentre le persone che ne sono prive
possono agire soltanto se rappresentate, autorizzate o assistite nelle forme prescritte per
l’esercizio delle azioni civili”.  La legge processuale penale opera, dunque, un rinvio alla
normativa riguardante la capacità dell’attore nel processo civile.
Nel caso in cui manchi la persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza del
danneggiato privo di capacità e vi siano ragioni di urgenza, o nel caso in cui vi sia conflitto di
interessi tra l’incapace e il suo rappresentante, il giudice della fase processuale in corso, su
richiesta del pm, di colui che deve essere rappresentato o assistito, dei suoi prossimi congiunto o,
nel caso di conflitto di interessi, dello stesso rappresentante, provvede alla nomina di un curatore
speciale.
Un intervento in via provvisoria è consentito al pm per l’esercizio dell’azione civile nell’interessa
della persona incapace, in caso di assoluta urgenza e sino a quando non subentri colui al quale
spetta la rappresentanza o l’assistenza o il curatore speciale.
La costituzione di parte civile va fatta con dichiarazione, resa anche a mezzo di procuratore
speciale, che deve contenere, pena la sua inammissibilità:
1) la generalità della persona fisica o la denominazione dell’associazione o dell’ente che si
costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante;
2) le generalità dell’imputato nei confronti del quale l’azione civile viene esercitata, e qualsiasi
altra indicazione personale che valga a identificarlo;
3) il nome e il cognome del difensore con l’indicazione della procura: ciò in quanto, a norma
dell’art. 100 comma 1 c.p.p., alla parte civile è consentito stare in giudizio solo con il ministero
di un difensore munito di procura speciale, da depositare nella cancelleria del giudice
procedente o da presentare in udienza insieme con la dichiarazione di costituzione;
4) l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda, allo scopo di individuare e circoscrivere
puntualmente la c.d. causa petendi sin dal momento della proposizione dell’azione;
5) la sottoscrizione apposta dal difensore: ciò in conseguenza del fatto che la parte sta in giudizio
non personalmente, ma a mezzo del difensore che la rappresenta e che è legittimato a
compiere gli atti necessari, primo tra tutti proprio quello di costituzione.
La dichiarazione di costituzione della parte civile può farsi nell’udienza, sia preliminare che
dibattimentale, e in questo caso viene presentata all’ausiliare del giudice nell’udienza stessa;
può essere fatta al di fuori dell’udienza, e allora va depositata presso la cancelleria del giudice
competente per la fase in cui essa è destinata a operare e deve essere notificata, a cura del
soggetto che si costituisce, all’imputato e al pm, per consentire loro l’eventuale esercizio del
potere di richiederne l’esclusione.
Il codice prescrive che la costituzione di parte civile avvenga o “per l’udienza preliminare” o,
successivamente, nella fase degli atti introduttivi del dibattimento, sino a quando non siano stati
compiuti gli accertamenti relativi alla regolare costituzione delle parti; si tratta di termini imposti a
pena di decadenza. Per ciò che riguarda il primo termine, il legislatore lo individua attraverso
l’espressione “per l’udienza preliminare” e non già “nell’udienza preliminare”. Ciò vuol dire che il
danneggiato non deve attendere necessariamente l’inizio di tale udienza per costituirsi parte
civile, ma non può farlo immediatamente dopo essere venuto a conoscenza della data di
celebrazione di essa. Purché si sia già avuto il promovimento dell’azione penale, mediante la
formulazione dell’imputazione, da parte del pm: prima di quel momento non esistendo ancora un

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imputato nei cui confronti far valere la pretesa risarcitoria e restitutoria, la costituzione di parte
civile non avrebbe neppure senso.
Art.79 comma 3 c.p.p. dispone che “se la costituzione avviene dopo la scadenza del termine
prescritto per il deposito, in fase di atti preliminari al dibattimento, delle liste dei testimoni, periti e
consulenti tecnici, la parte civile non può avvalersi della facoltà di indicare testimoni, periti,
consulenti”. Il divieto intende evitare l’introduzione in dibattimento di prove a sorpresa.
Una volta avvenuta la costituzione di parte civile dispiega i propri effetti in ogni stato e grado del
processo. In forza di tale regola, che sancisce la c.d. immanenza della costituzione della parte
civile, questa ha il diritto di stare nel processo senza alcuna necessità di rinnovare la costituzione in
relazione alle singole fasi o ai singoli gradi di esso; ciò anche quando non sia più possibile la
condanna penale dell’imputato. In definitiva, fino a quando non venga pronunciata sentenza
irrevocabile, l’azione civile resta inserita nel processo penale e in capo alla parte civile permane il
diritto di continuare a parteciparvi.

5.(Segue): l’esclusione della parte civile.


Tanto l’imputato che il pm che il responsabile civile possono proporre richiesta di esclusione della
parte civile, con la quale dopo essere contestata sia dal titolare del soggetto che si è costituito, sia
la sua capacità ad agire,sia l’osservanza delle forme e dei termini prescritto. Nonostante la norma
processuale pretenda il requisito della “motivazione” a supporto della richiesta, la sua eventuale
mancanza non comporta inammissibilità della richiesta stessa; tutt’al più può risolversi in una
ragione di accoglimento della parte civile, in quanto non sorretta da apprezzabili elementi
giustificativi la pretesa di escluderla.
Sanzione di decadenza è stabilita nel caso in cui la proposizione della richiesta non rispetti i termini
imposti.
° Se la parte civile si è costituita per l’udienza preliminare, la richiesta di esclusione può esser
proposta per iscritto fuori dall’udienza, oppure oralmente nella stessa udienza preliminare, o in
quella dibattimentale purché non oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione
delle parti.
° Se si è costituita nel corso degli atti preliminari al dibattimento o introduttivi di esso, la richiesta
di esclusione va proposta oralmente subito dopo il compimento per la prima volta
dell’accertamento relativo alla costituzione delle parti. L’eventuale rigetto della richiesta in sede di
udienza preliminare non ne preclude la riproposizione tempestiva in fase di dibattimento: nessun
divieto traspare dalla legge.
Sulla richiesta di escludere la parte civile il giudice deve decidere senza ritardo; se egli ne riconosce
fondati i motivi dichiara l’esclusione, ma questa decisione, se adottata nel corso dell’udienza
preliminare, non impedisce una successiva costituzione nella fase del giudizio, purché nel termine
prescritto. In ogni caso, l’esclusione dalla sede penale non pregiudica il diritto di chi si ritenga
danneggiato dal reato a instaurare un autonomo procedimento in sede civile.
Oltre che a seguito della richiesta avanzata dalle parti interessate, l’esclusione della parte civile
può essere disposta d’ufficio dal giudice fino a quando non sia stata dichiarata l’apertura del
dibattimento di primo grado. L’adozione di questo provvedimento non è preclusa dall’essere stata
in precedenza presentata, da una delle parti, richiesta di esclusione poi rigettata durante l’udienza
preliminare. La decisione di esclusione ex officio è subordinata all’accertamento “che non esistono
i requisiti per la costituzione di parte civile”; requisiti sia di forma che di sostanza.
Ogni decisione relativa all’ammissibilità o all’esclusione della parte civile viene adottata a seguito
di una mera valutazione preventiva effettuata sulla base di un semplice fumus; ciò da un lato

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spiega perché la declaratoria di esclusione dal processo penale non impedisce un giudizio di
risarcimento o di restituzione promosso nella sua naturale sede civile, dall’altro limita la portata
della dichiarazione di ammissione, nel senso che essa non vincola successive deliberazioni, sempre
a opera del giudice penale, sul diritto della parte civile a ottenere il risarcimento o le restituzioni.
Il provvedimento con il quale il giudice decide in materia di esclusione della parte civile viene
adottato con ordinanza che, se emessa in sede di udienza preliminare, non impedisce la
riproposizione della questione nella successiva fase dibattimentale. Se emessa in dibattimento
l’ordinanza è definitiva, giacché nessuna disposizione ne prevede l’impugnabilità la quale è esclusa
in forza del principio della tassativa previsione ex lege delle impugnazioni. Nel caso in cui disponga
il rigetto della richiesta di esclusione, è impugnabile da parte dell’imputato unitamente
all’impugnazione della sentenza: è consentito il controllo da parte del giudice d’appello
relativamente ai presupposti di legittimità formale e sostanziale per l’esercizio dell’azione civile nel
processo penale.

6.(Segue): la revoca della costituzione di parte civile.


Al soggetto che si sia costituito parte civile è consentito recedere volontariamente dal processo
penale mediante una dichiarazione di revoca della costituzione, che può essere espressa o tacita.
Si vuole dare la possibilità al danneggiato, il quale si convinca che il processo penale non è la sede
più idonea per la risoluzione della controversia civile, di rivolgersi al giudice naturalmente
competente, riproponendo l’azione.
Revoca espressa può essere fatta in qualsiasi stato e grado del processo, con dichiarazione resa,
dalla parte personalmente o da un suo procuratore con mandato ad hoc, in corso di udienza
preliminare o dibattimentale; ovvero con atto scritto , da notificare alle parti, che va depositato
presso la cancelleria del giudice avanti al quale è pendente il processo, o comunque competente
per la fase in cui l’atto stesso esplicherà i propri effetti.
Revoca tacita si ha quando la parte civile nel corso della discussione finale in sede di
dibattimento di primo grado, omette di presentare le conclusioni contenenti il petitum con
l’indicazione dell’ammontare dei danni dei quali chiede il risarcimento; ovvero quando ripropone
l’azione per il risarcimento o le restituzioni avanti al giudice naturalmente competente.
La revoca della costituzione di parte civile, sia nella forma espressa che in quella tacita, vale come
semplice rinuncia al compimento di attività in seno al processo penale, quindi il soggetto conserva
il diritto di agire davanti la competente giurisdizione civile.

7.Il responsabile civile.


Art. 74 c.p.p. dispone che “l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno può
essere esercitata nel processo penale nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”.
Art.185 comma 2 c.p. stabilisce che “obbligati al risarcimento del danno derivante da un reato
sono il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbano rispondere per il fatto di lui”.
Il responsabile civile nasce da una forma di responsabilità che si può definire “per fatto altrui”.
L’individuazione delle persone che possono assumere il ruolo di responsabili civili per i danni da
reato va fatta sulla base delle disposizioni di natura civilistica che prevedono ipotesi di
responsabilità per il fatto d’altri.
Tra queste, le più importanti riguardano:
- i genitori e i tutori per i danni causati dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle
persone soggette alla tutela;

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- i precettori che insegnano un mestiere o un’arte per i danni cagionati dal fatto illecito degli allievi
o apprendisti, nel tempo in cui si trovano sotto la loro vigilanza;
- i padroni e i committenti per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e dei loro
commessi, nell’esercizio delle incombenze cui sono adibiti;
- i proprietari e gli usufruttuari di veicoli per i danni prodotti dal conducente;
- l’albergatore per la sottrazione, la perdita, il deterioramento di cose appartenenti a clienti;
- l’armatore di nave o l’esercente un aeromobile per danni commessi dall’equipaggio.
Anche l’imputato può assumere la veste di responsabile civile per il fatto dei coimputati, ma solo
nell’eventualità in cui venga prosciolto dalla responsabilità penale o venga pronunciata nei suoi
confronti sentenza di non luogo a procedere, perché sorge per lui “l’obbligo del risarcimento” dei
danni ex delicto e per fatto proprio, che assorbe quello per i danni ex culpa per fatto altrui.

8.(Segue): l’ingresso nel processo penale del responsabile civile: la citazione.


Il responsabile civile può trovare ingresso in sede penale attraverso due vie: la citazione o
l’intervento pubblico.
Art. 83 comma 1 c.p.p. stabilisce che “il responsabile civile per il fatto dell’imputato può essere
citato nel processo penale a richiesta della parte civile o del pm quando abbia esercitato l’azione di
risarcimento o di restituzione nell’interesse del danneggiato incapace”.
La richiesta di citazione del responsabile civile è consentita sia per l’udienza preliminare, sia per il
dibattimento, che rappresenta l’invalicabile termine ad quem art. 83 comma 2 c.p.p. dispone
che “la richiesta deve essere proposta al più tardi per il dibattimento”: naturalmente, nel corso
degli atti introduttivi e sino a quando il giudice non abbia provveduto a controllare la regolare
costituzione delle parti. Superato questo limite, la parte civile decade da diritto di vedere citato il
responsabile civile, e un’eventuale sentenza di condanna pronunciata nei confronti di quest’ultimo
dovrebbe considerarsi tamquam non esset, perché la decadenza verificatasi con lo spirare del
termine fissato impedisce rispetto a tale soggetto un’efficace costituzione del rapporto
processuale.
La citazione del responsabile civile è ordinata dal giudice avanti al quale il processo è pendente, e il
relativo decreto deve contenere:
- le generalità o la denominazione della persona costituitasi parte civile con l’indicazione del suo
difensore e le generalità del responsabile civile, se persona fisica, o la denominazione
dell’associazione o dell’ente chiamati a rispondere, con le generalità de rappresentante legale;
- l’indicazione del petitum, ossia della domanda di restituzione o di risarcimento del danno
avanzata nei confronti del responsabile civile;
- l’invito a costituirsi nei modi prescritti dalla legge;
- la data e la sottoscrizione del giudice ce dispone la citazione e dell’ausiliare che lo assiste.
Sebbene il codice non ne faccia oggetto di previsione esplicita, deve essere fissato un termine che
intercorra tra la data del decreto e la data fissata per il giudizio, affinché egli sia messo in
condizione di svolgere validamente ogni attività difensiva che ritenga opportuna ai fini del giudizio
stesso. Tale termine non può che essere uguale a quello previsto per la vocatio jus del’imputato.
Copia del decreto di citazione deve essere notificata oltre che all’interessato, al pm e all’imputato
al fine di consentire loro l’esercizio del potere di richiedere l’esclusione dal processo del
responsabile civile.
La citazione è nulla se il responsabile civile non viene posto in condizione di esercitare i propri
diritti nell’udienza preliminare o nel giudizio. Il regime al quale è sottoposta la nullità è quello
delineato dall’art. 180 c.p.p.: “può essere dedotta dall’interessato o rilevata anche d’ufficio dal

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giudice, ma non oltre la deliberazione della sentenza di primo grado se essa ha operato per
l’udienza preliminare; non oltre la deliberazione della sentenza del grado successivo se ha operato
per il giudizio”. In ogni caso, la nullità è sanata se il responsabile civile sia egualmente comparso o
abbia rinunciato a comparire; se compaia al solo fine di far dichiarare la nullità della citazione, egli
ha diritto a un termine non inferiore a 5 giorni, per approntare la propria difesa.
Ordinata la citazione del responsabile civile, questi può costituirsi in ogni stato e grado del
processo con dichiarazione proposta anche a mezzo di procuratore speciale. Tale costituzione, che
adempie un onere, in quanto realizza un interesse a intervenire sulla pretesa avanzata dalla parte
civile, si pone come necessario presupposto per la valida presenza del responsabile civile in sede
processuale e per la sua qualificazione come “parte”.
Il responsabile civile può costituirsi prima dell’udienza, preliminare o dibattimentale, nel qual caso
la relativa dichiarazione dovrà essere depositata presso la cancelleria del giudice competente per
la fase processuale in corso; o nell’udienza, e in questo caso la dichiarazione sarà presentata
all’ausiliare che assiste all’udienza stessa.
La dichiarazione di costituzione deve contenere:
a) le generalità della persona fisica o la denominazione dell’associazione o dell’ente che si
costituisce con le generalità del suo rappresentante legale;
b) il nome e il cognome del difensore con l’indicazione della procura, nonché la sottoscrizione del
difensore stesso, considerato che, il responsabile civile deve stare in giudizio con il ministero di
un difensore munito di procura speciale che va depositata nella cancelleria del giudice
procedente o presentata direttamente in udienza insieme con la dichiarazione di costituzione.
Anche per il responsabile civile vige la regola dell’immanenza della sua costituzione la quale
produce i propri effetti in ogni stato e grado del processo.

9.(Segue): l’intervento volontario.


oltre che su istanza della parte civile, o del pm che abbia promosso azione riparatoria
nell’interesse del soggetto incapace, il responsabile civile può trovare ingresso nel processo penale
attraverso un intervento volontario. Questa possibilità gli è concessa sia allo scopo di contrastare
l’affermazione di responsabilità dell’imputato alla quale solo legate le proprie sorti; sia allo scopo
di prevenire possibili manovre collusive, tra imputato e parte civile, ai propri danni; sia, infine, allo
scopo di escludere la responsabilità propria.
L’intervento volontario si propone nelle stesse forme prescritte per la costituzione del
responsabile civile citato ( dichiarazione contenente tutti gli elementi idonei a identificare il
soggetto che interviene e il suo difensore, nonché la sottoscrizione del difensore stesso munito di
procura rilasciata nei modi e per gli effetti di cui all’art. 100 c.p.p.), e tali forme vanno osservate a
pena di inammissibilità.
Anche i tempi di intervento volontario del responsabile civile sono fissati “per l’udienza
preliminare e sino a quando non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’art. 484” riguardanti
gli accertamenti sulla regolare costituzione delle parti nel dibattimento; l’inosservanza è
sanzionata dalla comminatoria di decadenza.
Soltanto se l’intervento avviene almeno 7 giorni prima rispetto alla data fissata per il dibattimento
il responsabile civile potrà esercitare il diritto di presentare liste di testimoni, di periti, di consulenti
tecnici. Si tratta di un termine imposto a pena di inammissibilità dell’atto eventualmente compiuto
in un arco di tempo inferiore: anche qui si vuole evitare l’introduzione in dibattimento di prove a
sorpresa.

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La dichiarazione di intervento volontario del responsabile civile può essere effettuata fuori
dall’udienza, preliminare o dibattimentale, con deposito presso la cancelleria del giudice
competente per la fase in cui è destinata a operare e va notificata, a cura dell’interessato, a tutte
le parti, le quali potrebbero chiederne l’esclusione; per ciascuna di esse la predetta dichiarazione
produrrà effetto dal giorno in cui è stata eseguita la notificazione. Se effettuata durante l’udienza,
la dichiarazione di intervento verrà presentata all’ausiliare che assiste il giudice nell’udienza
stessa. L’intervento volontario del responsabile civile perde efficacia quando la parte civile revochi
la propria costituzione o venga estromessa dal processo per un qualsiasi motivo.

10.(Segue): l’estromissione del responsabile civile.


Oltre che trovarsi automaticamente escluso dal processo nel momento in cui la sua citazione o il
suo intervento perdono efficacia a causa della revoca di costituzione della parte civile o di
esclusione di essa, il responsabile civile può esservi estromesso:
A)ESTROMISSIONE SU PROPRIA RICHIESTA
Può aver luogo quando egli sia stato citato dalla parte civile e non anche quando sia intervenuto
volontariamente.
Il responsabile civile può chiedere l’estromissione, oltre che per motivi riguardanti la legittimità
sostanziale e formale della sua chiamata in giudizio, anche qualora gli elementi di prova raccolti
prima che egli venisse citato,e sui quali non abbia avuto occasione di manifestare le proprie
opinioni, possano compromettere l’esercizio del suo diritto di difesa in relazione ai possibili effetti
di un giudicato penale di condanna sul giudizio civile per il risarcimento o restituzione.
B)ESTROMISSIONE SU RICHIESTA DI UNA DELLE PARTI (imputato, pm e la stessa parte civile,
sempre che pm e parte civile non ne abbiano sollecitato precedentemente la citazione).
La titolarità del potere di provocare l’esclusione del responsabile civile è concessa all’imputato in
considerazione della convenienza che egli può avere ed allontanare dal processo un soggetto
chiamato in causa sul presupposto della propria colpevolezza e le cui attività potrebbero essergli di
intralcio nel regolare esercizio del diritto di difesa; al pm in funzione di un generale interesse,
nascente dalla sua natura di organo cui compete, tra l’altro di vegliare sull’osservanza delle leggi, a
fare uscire dal processo penale chi vi si sia introdotto illegittimamente; alla parte civile per
garanzia del’interesse a non voler contrastare le proprie pretese da chi non abbia titolo per
contrapporle una sa attività in sede processuale.
La richiesta di estromissione, provenga essa dallo stesso responsabile civile o da alcuna delle altre
parti, deve contenere i motivi sui quali si fonda e deve essere proposta al momento degli
accertamenti relativi alla costituzione delle parti, nell’udienza preliminare o nel dibattimento:
l’osservanza di questo limite temporale è tonificata dalla sanzione della decadenza.
C)ESTROMISSIONE ADOTTATA DAL GIUDICE EX OFFICIO
Il giudice può disporre l’esclusione dal processo del responsabile civile, qualora accerti che non
sussistano i requisiti voluti per la citazione o per l’intervento di esso. Questo potere concesso al
giudice appare del tutto autonomo e indipendente rispetto a quello di richiedere che il
responsabile civile venga estromesso, in quanto è riconducibile a ragioni di pubblico interesse, e si
esercita attraverso un controllo sulla legitimatio ad causam e ad processum del soggetto, nonché
sull’osservanza delle forme e dei termini prescritti per la citazione e per l’intervento. Proprio in
quanto autonomo e indipendente, il potere del giudice di ordinare d’ufficio l’estromissione del
responsabile civile può esercitare anche quando sia stata precedentemente respinta una richiesta
tendente allo stesso fine.

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Il termine ultimo entro il quale può essere decretata l’esclusione d’ufficio coincide con l’apertura
del dibattimento di primo grado; superato questo momento, il responsabile civile non potrà essere
più estromesso, ed eventuali vizi attinenti alla citazione o all’intervento potranno essere dichiarato
soltanto nella sentenza.
Obbligatoria è l’estromissione dal processo del responsabile civile nel caso in cui si instauri giudizio
abbreviato. Di fronte a un giudizio abbreviato la cui tipizzazione in termini di celerità e di esclusivo
utilizzo dello stato degli atti sbiadisce abbondantemente nel momento in cui si consentono
integrazioni probatorie e anche assunzioni di prove ex officio dal giudice, l’intervento del
responsabile civile, a seguito dell’adesione della parte civile al procedimento speciale, potrebbe
anche apparire accettabile.
L’avvenuta estromissione del responsabile civile non impedisce che nei confronti di questo il
danneggiato possa esercitare l’azione di risarcimento o di restituzione nella competente sede
civile, e ciò per la rilevanza unicamente processuale che la legge attribuisce alla decisione con cui
essa è stata disposta, che lascia impregiudicata ogni valutazione sul merito delle pretese
risarcitorie o restitutorie.

11.Il civilmente obbligato per la pena pecuniaria.


Altra parte del processo penale è il civilmente obbligato per la pena pecuniaria. La figura nasce da
una responsabilità civile sussidiaria ed eventuale, con caratteristiche fideiussorie, che il legislatore
radica in capo a determinati soggetti ai quali incombe l’obbligo del pagamento di una somma pari
all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta al condannato. Trattasi di persone fisiche
rivestite di autorità o incaricate della direzione o vigilanza su altri, o di persone giuridiche
rappresentate o amministrate dall’imputato o con cui egli si trovi in rapporto di dipendenza.
Due sono i presupposti al cui verificarsi si determina l’obbligo di pagamento:
1- che il condannato sia insolvibile;
2- che il reato costituisca violazione dei doveri inerenti alla qualità rivestita dal colpevole o sia
stato commesso nell’interesse della persona giuridica, o che si tratti di violazioni di norme che
il civilmente obbligato era tenuto a far osservare e delle quali non debba rispondere
penalmente.
Ai fini dell’affermazione di responsabilità dell’obbligato per la pena pecuniaria è necessario che sia
intervenuta condanna dell’imputato. Il che non basta, in quanto occorre anche che
all’accertamento della responsabilità dell’imputato segua l’accertamento della sussistenza dei
requisiti che fondano la responsabilità del civilmente obbligato.

12.(Segue): l’intervento nel processo penale, e l’eventuale estromissione, del civilmente


obbligato per la pena pecuniaria.
La persona obbligata per la pena pecuniaria può intervenire nel processo su citazione richiesta dal
pm o dall’imputato. La legittimazione del pm a chiedere la citazione nasce dal fatto che
l’intervento in giudizio del civilmente obbligato, è predisposto nell’interesse dello Stato, a garanzia
del pagamento della multa o dell’ammenda; la legittimazione dell’imputato deriva dalla possibilità
che egli venga assoggettato alla conversione della pena pecuniaria in libertà controllata o in lavoro
sostitutivo, sicché essa, in definitiva, è approntata a tutela del diritto alla libertà personale
dell’imputato stesso.
La citazione può effettuarsi per l’udienza preliminare o per il dibattimento.

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La disciplina relativa alle forme e ai termini della citazione, alle modalità della costituzione,
all’eventuale estromissione per carenza di legittimazione o di requisiti formali è modellata sulle
disposizioni dettate con riferimento al responsabile civile.

Capitolo ottavo
LA PERSONA OFFESA DAL REATO E GLI ENTI RAPPRESENTATIVI DI INTERESSI LESI

1.La persona offesa dal reato.


Tra i soggetti processuali, accanto a quelli ai quali tradizionalmente è attribuita la qualifica di
“parti”, il codice colloca la persona offesa dal reato, vale a dire il titolare del bene giuridico la cui
lesione o la cui messa in pericolo costituisce l’essenza della condotta personalmente illecita.
Il concetto “persona offesa” ricomprende qualsiasi altro soggetto al quale venga attribuita la
titolarità di un interesse protetto dalla norma penale e aggredito dal comportamento criminoso in
concreto, offese possono essere anche le persone giuridiche, private o pubbliche, cui sia
riconosciuto un qualche interesse specifico leso dal reato.
Alla persona offesa viene riconosciuta la qualità di “soggetto processuale”, ma non “di parte”, dal
momento che non le si concedono i poteri e i diritti che alla parte sono attribuiti al fine di
provocare una decisione giurisdizionale sulla regiudicanda.
Una notevole differenza esiste tra la figura dell’offeso dal reato e la figura della parte civile: questa
va ricondotta nell’ambito della tutela della sfera patrimoniale e del diritto al risarcimento del
danno che dall’azione criminosa sia a essa derivato; la prima opera nel contesto del
riconoscimento ufficiale di un interesse del privato alla persecuzione penale dell’autore del reato.
Alla persona offesa viene assegnato un ruolo di accusa penale privata, sussidiaria o accessoria
rispetto a quella pubblica.
La persona offesa può essere estromessa dal processo quando, su istanza delle parti o ex officio, il
giudice accerti che essa è carente di legittimazione o di capacità processuale.

2.(Segue): i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa.


La persona offesa dal reato appare titolare di una posizione di grande rilievo, riscaldata
dall’esplicita attribuzione di una nutrita serie di diritti e di facoltà, richiamati dall’art. 90 comma 1
c.p.p. A titolo puramente esemplificativo si possono ricordare: il diritto di ricevere l’informazione
di garanzia e di nominare un difensore; il diritto di partecipare ad accertamenti tecnici non
ripetibili disposti dal pm; il diritto di sollecitare al pm il promovimento di un incidente probatorio e
di assistervi.
Catalogare un determinato comportamento processuale dell’offeso come esercizio di un “diritto”
o esercizio di una “facoltà” non è operazione di rilevanza puramente lessicale. La differenza tra le
due situazioni esiste ed è notevole: il compimento di un atto come esercizio di un diritto
determina nell’organo pubblico che ne sia destinatario, si tratti di giudice o di pm, un preciso
dovere di pronunciarsi attraverso un provvedimento, mentre il compimento di un atto che sia
espressione di una semplice facoltà non genera alcun correlativo obbligo.
Art. 90 comma 1 c.p.p. “l’offeso del reato può in ogni stato e grado del procedimento presentare
memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, indicare elementi di prova”.
Le memorie, consistenti in annotazioni più o meno sommarie e concise, possono investire
questioni sia processuali che di merito, rilevanti ai fini di decisioni interlocutorie o della decisione
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finale, e possono essere presentate, personalmente dall’offeso o dal proprio difensore, tanto nel
corso delle indagini preliminari, quanto nell’udienza preliminare e nel giudizio, in primo grado o
nei gradi di impugnazione, ivi incluso quello in cassazione.
Gli elementi di prova potranno valere per le indagini preliminari che per il giudizio, al fine di
richiedere l’acquisizione di talune prove, sollecitando il giudice ad avvalersi del potere di “indicare
alle parti temi di prova nuovi o più ampi” o di “disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi
di prova”. In ogni caso, presentare una memoria o proporre un dato probatorio, si tratta di
comportamenti degli organi giudiziari “notizie, elementi di prova, valutazioni, congetture, di cui gli
stessi organi potranno avvalersi, se lo crederanno opportuno, senza che di un eventuale ‘rigetto’ o
‘accantonamento’ dei suggerimenti della persona offesa debbano render conto”.
Nel caso in cui la persona offesa sia minore d’età i diritti e le facoltà a essa spettanti vengono
esercitati:
- personalmente dai minori ultra 14enni e dagli inabilitanti;
- dai loro genitori, tutori, curatori, in via autonoma e nonostante ogni contraria dichiarazione di
volontà, espressa o tacita, del minore o dell’inabilitato;
- dai genitori o dai tutori per i minori degli anni 14 e per gli infermi di mente interdetti;
- da curatori speciali per i minori degli anni 14 e per gli infermi di mente, quando siano privi di
rappresentanti o si trovino con questi in conflitto di interessi.
L’ Art. 101 c.p.p. autorizza, non obbliga, la persona offesa ad agire attraverso un difensore al quale
sono demandate funzioni di mera assistenza tecnica e non anche di rappresentanza processuale.
Naturalmente, non essendo obbligatoria la presenza del difensore l’interessato può validamente
operare di persona.
Gli stessi diritti e le stesse facoltà di cui è titolare l’offeso sono estesi ai prossimi congiunti della
persona deceduta in conseguenza del reato, pur se da questo non direttamente offesi. La nozione
di “prossimi congiunti” ricomprende nella categoria gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i
fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti.

3.Gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato.


I diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa possono essere esercitati, in ogni stato e grado del
procedimento, anche da enti e associazioni portatori di determinati interessi lesi dal reato, quando
non siano stati direttamente danneggiati.
Il fenomeno nasce dalla complessità che caratterizza la società moderna e che con l’aggrovigliato
sviluppo delle relazioni economiche da luogo a situazioni nelle quali determinate attività possono
portar pregiudizio agli interessi di un grande numero di persone facendo sorgere problemi ignoti
alle liti meramente individuali”. Si pensi ai reati in materia di urbanistica, di tutela dell’aria,
dell’ambiente naturale o dell’acqua: sono tutte fattispecie criminose lesive di interessi a carattere
diffuso, appartenenti alla collettività giacché coinvolgono un numero assai elevato di soggetti e
non soltanto qualche singolo individuo. Da qui la ravvisata esigenza di prendere in considerazione
gli enti c.d. “esponenziali” di situazioni meta- individuali.
Art. 91 c.p.p.: “gli enti e le associazioni ai quali sono riconosciuti, in forza di legge, finalità di tutela
degli interessi lesi dal reato” trovano legittimo ingresso tra i soggetti processuali penali; ma
possono esercitare i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato”.
E l’offeso dal reato, quando non impersoni anche il ruolo di danneggiato, non può esercitare né i
diritti né le facoltà di cui è titolare la parte civile.
Al delicato interrogativo su quali siano i requisiti necessari perché un ente o un ‘associazione
possano essere considerati adeguatamente rappresentativi di una collettività, al fine di evitare

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l’ingresso incontrollato nel processo penale di soggetti dall’incerta fisionomia che potrebbero
intralciarne l’andamento, il codice risponde investendo della legittimazione ad adottare iniziative
processuali unicamente gli enti i quali perseguano istituzionalmente finalità di tutela degli interessi
lesi dal reato. A condizione che tali finalità siano state riconosciute in forza di legge, escludendo,
così, la possibilità di individuarle attraverso auto attribuzioni operate, ad esempio, in base a
norme statutarie interne riguardanti le attività degli enti o delle associazioni, o a meri
provvedimenti di natura amministrativa.
A scongiurare il rischio di interventi inopportuni, due limitazioni la norma processuale pone:
a) che il riconoscimento ex lege della qualità di enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato
sia avvenuto anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede.
Questa limitazione è stata dettata sia per assicurare l’ingresso nel procedimento solo a enti che
non siano sospettabili di occasionale istituzione e che offrano maggiori garanzie di serietà; sia
perché di regola la tutela degli interessi collettivi lesi dal reato potrà trovare un centro di
riferimento già costituito.
b) che si tratti di organismi senza scopo di lucro.
Questa seconda limitazione è legata al fatto che la presenza nel procedimento degli enti
esponenziali viene subordinata dalla legge al consenso della persona offesa, e tende a prevenire il
benché minimo sospetto di una strumentalizzazione e di mancanza di spontaneità di tale consenso
per manovre non trasparenti tanto da parte di chi lo presta, quanto da parte di chi li richiede.
I diritti e le facoltà accordati agli enti e associazioni rappresentativi di interessi colpiti dal reato
possono essere esercitati in qualsiasi stato e grado del procedimento.

4.(Segue): l’assenso dell’offeso alla partecipazione al procedimento degli enti e delle associazioni
rappresentativi di interessi lesi dal reato.
La partecipazione al procedimento degli enti è assoggettata al previo assenso dell’offeso, e ciò per
impedire presenze che potrebbero risultare a questi non gradite: le loro strategie processuali
potrebbero non essere convergenti, disturbandosi a vicenda; e il soggetto direttamente
interessato ha il diritto di pretendere che le proprie mosse non vengano ostacolate.
Nell’eventualità in cui l’offeso sia deceduto in conseguenza del reato, la legittimazione a prestare
l’assenso apparterrà ai prossimi congiunti.
Al fine di evitare che il procedimento abbia a un certo momento, a risultare eccessivamente
ingombrato, il codice dispone che a un solo ente, o associazione, possa essere consentito, dalla
persona offesa, di intervenirvi, pena l’inoperatività del consenso eventualmente prestato a più. In
presenza di una pluralità di persone offese dal reato, ferma restando la necessità del consenso da
parte di ciascuna di esse a un ente solo, il numero degli enti che potranno accedere al processo
sarà commisurato al numero delle persone offese.
Art. 92 comma 3 c.p.p., per la prestazione del consenso dispone che “essa sarà valida soltanto se
fatta attraverso atto pubblico o scrittura privata autenticata”.
Una volta consesso, l’assenso è suscettibile di revoca che può essere effettuata in qualsiasi
momento, sin dagli stati più avanzati dell’iter processuale, e, pur attraverso atto pubblico o
scrittura privata autenticata, essendo apparsa al legislatore non sufficientemente univoca una
revoca presunta.

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5.(Segue): l’intervento nel procedimento degli enti e delle associazioni rappresentativi di
interessi lesi dal reato.
Affinché gli enti o le associazioni cui siano state riconosciute finalità di tutela degli interessi colpiti
dal reato possono trovare valido ingresso nel procedimento penale, è necessario che presentino
un “atto di intervento” nel quale devono contenersi:
- le indicazioni necessarie a identificare l’ente o l’associazione, la sede, le disposizioni legislative
che riconoscono le finalità di tutela degli interessi lesi, le generalità del legale rappresentante;
- l’indicazione del procedimento al quale si richiede d’intervenire con la sommaria esposizione
delle ragioni che giustificano l’intervento;
- le generalità del difensore con l’indicazione degli estremi della procura a esso conferita e la sua
sottoscrizione.
Tutti i requisiti sono imposti a pena di inammissibilità dell’atto.
Insieme con la richiesta di intervento vanno presentate la dichiarazione di assenso prestato dalla
persona offesa e la procura del difensore, se conferita con atto pubblico o con scrittura privata
autenticata.
Dall’indicazione degli elementi prescritti per l’atto di interventi si evince che per fare valere i diritti
e le facoltà di cui sono titolari gli enti esponenziali devono avvalersi dell’opera del difensore.
L’atto di intervento va proposto all’autorità avanti alla quale il procedimento si trova nel momento
in cui l’ente esponenziale chiede di parteciparvi. Così, nella fase delle indagini preliminari l’atto si
proporrà presso l’ufficio dello stesso pm; nella fase dell’udienza preliminare o del giudizio, presso
l’ufficio del giudice competente. Se la presentazione avviene fuori udienza e in un momento in cui
le parti non assistono alla vicenda processuale, l’atto di intervento deve essere notificato a
ciascuna di esse al fine dell’instaurazione del contraddittorio, e comincerà a essere produttivo di
efficacia dal giorno in cui è stata effettuata l’ultima delle notificazioni.
Il termine ultimo concesso agli enti e alle associazioni per intervenire nel procedimento penale
coincide con il compimento delle attività di verifica della costituzione delle parti in sede di atti
introduttivi del dibattimento.

6.(Segue): opposizione all’intervento nel procedimento degli enti e delle associazioni


rappresentativi di interessi lesi dal reato e loro eventuale estromissione.
il codice prevede che si possa proporre opposizione all’intervento nel procedimento degli enti
collettivi, quando si reputi ce siano privi dei requisiti voluti dalla legge per l’esercizio dei diritti e
delle facoltà posti a garanzia di situazioni meta individuali.
Legittimate a opporsi sono le parti, effettive o potenziali a seconda dello stadio in cui l’opposizione
è formulata; ne rimane escluso l’offeso dal reato che oltre a non poter essere ricompreso nella
nozione di parte, è in condizione di ottenere in qualsiasi momento l’estromissione dell’ente
facendo valere il proprio diritto di revocare il consenso precedentemente prestato.
Disciplinando forme e termini per l’opposizione, la normativa processuale dispone che essa va
presentata entro 3 giorni dalla notificazione dell’atto di intervento, “con dichiarazione scr5itta
notificata al legale rappresentante dell’ente o dell’associazione, il quale può presentare le sue
deduzioni nei 5 giorni successivi”.
° Se l’intervento dell’ente o dell’associazione ha avuto luogo nell’udienza preliminare,
l’opposizione deve essere formulata prima che il giudice dichiari aperta la discussione, e cioè
durante o immediatamente dopo gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti.

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° Se l’intervento si è realizzato nel corso degli atti introduttivi del dibattimento, ci si può opporre
subito dopo il compimento per la prima volta dell’accertamento relativo alla costituzione delle
parti.
Tutti i termini vanno osservati a pena di decadenza.
Il potere di decidere spetta all’organo giurisdizionale competente per la fase in cui l’opposizione è
stata proposta, e cioè al giudice per le indagini preliminari, al giudice dell’udienza preliminare o al
giudice del dibattimento, i quali devono provvedere, senza ritardo, con ordinanza ad hoc,
disponendo se ritengano fondati i motivi dell’opposizione, l’estromissione dell’ente.
Oltre che su sollecitazione di parte, la decisione di escludere dal procedimento eventuali figure
esponenziali può essere adottata dal giudice d’ufficio, non appena accerti l’inesistenza in esse dei
requisiti di legittimazione voluti per l’esercizio dei diritti e delle facoltà di cui si pretendono titolari.

Capitolo nono
IL DIFENSORE

2.Il difensore e la difesa dell’imputato.


La figura del difensore nel processo penale, e segnatamente del difensore dell’imputato, muove
dall’esigenza di vedere assicurato il contraddittorio sotto ogni profilo e di vedere rimosso qualsiasi
ostacolo a far valere le ragioni della parte. Essa si inserisce nello svolgimento del processo con
carattere di essenzialità, al punto che la sua presenza risulta intimamente connessa con il regolare
esercizio del potere giurisdizionale, e la sua attività si profila come espressione di funzione
pubblica. La partecipazione del difensore al processo penale costituisce uno degli aspetti in cui si
articola il significato della fondamentale enunciazione contenuta nella Costituzione, all’art. 24
comma 2: “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.
Il principio costituzionale investa la necessità che alla parte venga garantito il personale intervento
al contraddittorio, vale a dire il diritto all’autodifesa. Un diritto che si realizza attraverso la
possibilità di effettiva presenza alle attività processuali ; di conoscenza delle altrui opinioni,
argomentazioni, conclusioni e di manifestazione delle opinioni proprie, di indicazione degli
elementi di fatto e di diritto che stanno a fondamento delle proprie ragioni; di propulsione del
processo mediante richieste, istanze, conclusioni, opposizioni.
Ma mentre l’autodifesa è caratterizzata, in quanto attività d’interesse prevalentemente
individuale, dalla semplice facoltà di esplicazione garantita alla parte, la difesa tecnica, proprio
perché collegata a una funzione pubblica, postula la necessità che sia attuata nella maniera più
efficiente possibile attraverso l’imprescindibile presenza, anche imposta, di un difensore.

3.(Segue): il difensore dell’imputato e i suoi diritti.


Il difensore dell’imputato interviene nel processo o in funzione di assistenza o in funzione di
rappresentanza.
Assistenza consiste nella collaborazione prestata, durante l’intero iter processuale, all’imputato
presente, dal difensore in quanto soggetto fornito di particolari requisiti di idoneità tecnica.
Rappresentanza si esplica con la sostituzione del difensore all’imputato nell’esercizio di
determinati diritti o facoltà.
La legge stabilisce che al difensore competono facoltà e diritti identici a quelli riconosciuti
all’imputato. Con questa regola si intende dissipare ogni possibile dubbio sulla legittimazione del
difensore a compiere certi atti nel caso in cui la titolarità di essi venga attribuita al solo imputato; a
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meno che non si tratti di diritti o di facoltà riservati all’imputato personalmente. In questo caso, il
difensore potrà intervenire soltanto se munito ad hoc, come procuratore speciale, e sempre che
sia normativamente possibile.

4.Il difensore delle altre parti, dell’offeso del reato, degli enti rappresentativi di interessi lesi,
Una specifica disciplina detta il codice a proposito di difesa:
° DELLE PARTI PRIVATE: la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per
la pena pecuniaria devono stare in giudizio col ministero di un difensore; questi può compiere e
ricevere, nell’interesse della parte, tutti gli atti del procedimento che la legge ad essa
espressamente non riservi. La posizione soggettiva in cui opera configura il difensore delle parti
private diverse dall’imputato come non soltanto legittimato a compiere atti nell’interesse del
rappresentato, ma anche destinatario di atti che non siano espressamente riservati alla parte.
Esula dalla sfera delle attività consentite al difensore il compimento di atti strettamente personale.
La presenza del difensore delle parti private comporta automatica elezione presso di lui, per ogni
effetto processuale, del domicilio delle parti stesse.
° DELLA PERSONA OFFESA DAL REATO: il riconoscimento di diritti e di facoltà in favore della
persona offesa dal reato implica che a tale soggetto venga assicurata la possibilità di avvalersi
dell’opera di un difensore che lo assista in tutti gli atti il cui compimento costituisce esercizio di
quei diritti o di quelle facoltà. Il difensore della persona offesa potrà svolgere solo funzioni di
assistenza tecnica, dal momento che la legge non gli attribuisce poteri di rappresentanza.
° DEGLI ENTI RAPPRESENTATIVI DI INTERESSI LESI: l’estensione dei diritti e delle facoltà di cui
gode l’offeso agli enti e alle associazioni con finalità di tutela degli interessi lesi dal reato richiede
la presenza nel procedimento penale anche di difensori di tali figure soggettive.

Da sottolineare, che mentre alla persona offesa è consentito stare nel procedimento pur senza
difensore, la cui assistenza è meramente facoltativa, per ciò che riguarda gli enti esponenziali, la
presenza del difensore è necessaria, al pari che per le parti private, essendo essi autorizzati a stare
in giudizio, unicamente, col ministero di un difensore munito di procura speciale. La ratio della
diversa disciplina viene individuata quando si osserva che l’ingresso nel procedimento penale
degli enti abbisogna di un vero e proprio atto di formale intervento e della manifestazione,
attraverso tale atto, di tutti i requisiti che l’intervento stesso legittimino, sicché il rapporto si
instaura alla stregua di parametri normativi i quali implicano un tecnicismo che è la presenza del
difensore a poter adeguatamente assicurare. Al contrario, la posizione della persona offesa dal
reato si modella su parametri naturalistici.

5.Nomina del difensore di fiducia dell’imputato.


Premesso che la “nomina” costituisce l’atto formale attraverso cui avviene il conferimento della
qualità di difensore, per ciò che riguarda il difensore dell’imputato, due sono le modalità secondo
le quali può essere nominato: per designazione fiduciaria della parte e per designazione effettuata
ex officio.
° DESIGNAZIONE FIDUCIARIA DELLA PARTE (da cui nasce il c.d. difensore di fiducia): va fatta con
dichiarazione destinata all’autorità procedente, e che può essere a questa resa personalmente o
oralmente, dall’imputato o consegnata dallo stesso difensore o trasmessa con lettera
raccomandata. L’osservanza di tali formalità non è neppure prescritta sotto pena di sanzioni di
natura processuale, di guisa che qualsiasi manifestazione di volontà concernente la nomina del

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difensore dovrebbe essere pienamente efficace, purché si possa inequivocabilmente stabilire che
essa proviene dall’imputato.
Art. 96 comma 3 c.p.p.: “se la persona si trova in stato di fermo, di arresto o di custodia cautelare,
alla nomina del suo difensore può provvedere anche un prossimo congiunto”. La Corte,
individuando la ratio della disposizione nell’esigenza di agevolare l’intervento del difensore e di
fiducia a preferenza di quello d’ufficio tutte le volte in cui l’interessato si trovi in difficoltà e non
possa provvedere personalmente, ha ritenuto che, sussistendo tale presupposto, la nomina da
parte dei prossimi congiunti possa essere effettuata anche al di fuori delle situazioni
espressamente indicate dall’art. 96 comma 3 c.p.p. L’interessato potrà, pur sempre, in un
momento successivo, ratificare la nomina fatta dal congiunto o sostituirla attraverso una
designazione effettuata personalmente.
La nomina del difensore di fiducia è da considerarsi valida ed efficacia sin dal momento in cui è
stata fatta dall’imputato secondo le modalità prescritte. È da questo momento che si dispiegano i
suoi effetti e non da quello in cui l’autorità giudiziaria ne abbia avuta concreta ed effettiva
conoscenza. La stessa nomina è sorretta dal principio dell’immanenza: intervenuta durante una
fase del processo, mantiene efficacia in ogni suo stato e grado, a meno che non risulti
espressamente circoscritta a quella fase o non sopraggiunga un’esplicita contraria manifestazione
di volontà dell’imputato, comunicata ritualmente all’ufficio giudiziario procedente, per effetto
della quale il difensore di fiducia perde tale sua qualità.
La legge limita a due il numero di difensori che l’imputato ha diritto di nominare, con la
conseguenza che l’eventuale designazione di ulteriori difensori si considera priva di effetto sino a
quando non siano state revocate le precedenti che risultino in eccedenza rispetto al numero
stabilito o non sia intervenuto un fatto concludente idoneo a far desumere il venir meno del
rapporto fiduciario con i due difensori nominati precedentemente.

6.Rifiuto, rinuncia, revoca del difensore di fiducia dell’imputato.


Al difensore è consentito si di rifiutare l’incarico, sia nel caso in cui l’abbia già accettato, di
rinunciarvi, con l’obbligo di dare immediata comunicazione tanto all’autorità procedente, quanto
all’imputato. Nessuna giustificazione o motivazione è richiesta per l’atto abdicativo; la sua
eventuale arbitrarietà potrà essere sindacata solo sotto il profilo deontologico.
Correlativamente al diritto di rifiuto o di rinuncia riconosciuto a chi sia stato designato difensore di
fiducia, la legge attribuisce all’imputato il diritto di revocare l’incarico al difensore
precedentemente nominato, senza richiedere particolari motivazioni o giustificazioni. Anche la
revoca in quanto atto diretto a privare di efficacia la nomina, al pari di questa deve essere portata
a conoscenza dell’organo investita del procedimento.
La necessità che l’esercizio del diritto di rifiuto, di rinuncia o di revoca del mandato difensivo non
abbia a ostacolare lo svolgimento del processo impone che ogni dichiarazione di volontà
dell’imputati o del suo difensore diretta a risolvere il rapporto fiduciario tra i due soggetti cominci
ad avere effetto dal momento in cui l’imputato risulti assistito da un novo difensore e sia trascorso
il termine che quest’ultimo abbia eventualmente richiesto “per prendere cognizione degli atti e
per informarsi sui fatti oggetto del procedimento”. Termine che deve essere “congruo” e non
inferiore a 7 giorni, salvo eventuale consenso a un’abbreviazione prestato all’imputato o dal
difensore, e tranne che una minore durata venga imposto da “specifiche esigenze processuali che
possono determinare la scarcerazione dell’imputato o la prescrizione del reato”. In ogni caso, non
si potrà mai scendere sotto le 24 ore. L’ordinanza con cui il giudice provvede alla concessione del
termine dovrà essere motivata, al fine di consentire una verifica circa la congruità di esso.

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7.Designazione del difensore d’ufficio dell’imputato.
Quando l’imputato non abbia provveduto a nominare un difensore fiduciario, o ne sia rimasto
privo, per una qualsiasi causa, sopperisce la designazione del c.d. “difensore d’ufficio”.
Il codice, al fine di garantire l’effettività della difesa d’ufficio predispone un meccanismo selettivo
del difensore ufficioso, che sia idoneo a evitare scelte discrezionali specialmente da parte di
soggetti, quali il pm o gli organi di polizia giudiziaria, che si trovino in contrapposizione dialettica
rispetto all’imputato. I criteri di nomina vengono stabiliti dal consiglio dell’ordine forense,
attraverso un apposito ufficio centralizzato, in base a elenchi e tabelle di difensori predisposti.
Sarò, poi, il predetto ufficio a comunicare il nominativo di un difensore all’autorità giudiziaria o alla
polizia giudiziaria che ne avranno fatto richiesta. Quando, poi, si rende necessaria la sostituzione
con un difensore d’ufficio di un difensore, fiduciario o officioso, precedentemente nominato ma
non reperito, o che non sia comparso o che abbia abbandonato la difesa il pm e la polizia
giudiziaria dovranno richiedere il nominativo del professionista all’ufficio centralizzato del
consiglio dell’ordine forense, salvo il potere, in caso di urgenza, di designarne automaticamente
uno che sia immediatamente reperibile, ma con un provvedimento motivato che dia conto delle
ragioni dell’urgenza. Il difensore d’ufficio ha l’obbligo di prestare il patrocinio, tranne che non
ricorrano giustificati motivi, valutabili caso per caso, per astenersene. Una volta designato il
difensore d’ufficio, il suo nominativo viene comunicato tempestivamente all’imputato insieme con
l’avvertimento che egli ha il diritto di scegliere, in qualsiasi momento, un difensore di fiducia, la cui
eventuale nomina produrrà la revoca de jure dell’incarico affidato al difensore ex officio.

8.L’incompatibilità del difensore dell’imputato.


stabilire con previsione astratta quando ricorrano casi di “incompatibilità” è impossibile,
dovendosene individuare la presenza con riferimento a singole evenienze.
Per aversi incompatibilità occorre che sussista un’interdipendenza di posizioni processuali in seno
alla quale un imputato abbia convenienza a sostenere una tesi difensiva sfavorevole per altro
imputato, cosi che si renda inefficiente la comune difesa, almeno nei confronti di uno dei due per il
conflitto di esigenze che ne sta a base, la prospettazione di tesi difensive tra loro conciliabili.
In casi particolari è lo stesso legislatore a determinare, con criterio presuntivo, posizioni tra loro in
conflitto, individuandovi altrettante cause di incompatibilità.
È stabilito che l’autorità giudiziaria procedente la quale ravvisi una situazione di incompatibilità la
segnali all’imputato, indicandone i motivi per le opportune valutazioni, e fissa un termine affinché
venga rimossa. Questo potrà accadere o attraverso la rinuncia a qualcuna delle difese da parte del
difensore o attraverso la revoca di esso e la designazione fiduciaria di un altro difensore fiduciario
da parte dell’imputato. Se entro il tempo prestabilito, non si provveda alla rimozione, il giudice di
propria iniziativa, o su richiesta del pm o delle parti private, provvede, dopo aver sentito le parti
interessate, alla sostituzione del difensore incompatibile con un difensore d’ufficio.

9.La nomina del difensore degli altri soggetti.


La nomina del difensore degli altri soggetti è modellata sullo schema delineato dall’art. 83 c.p.c
che regola la difesa e la rappresentanza nel processo civile.
Il codice stabilisce che la nomina del difensore della parte civile, del responsabile civile e del
civilmente obbligato per la pena pecuniaria va fatta mediante “procura speciale conferita con atto
pubblico o scrittura privata autenticata” anche dal difensore stesso. In alternativa, la procura può
essere rilasciata in calce o a margine della dichiarazione di costituzione o di intervento in giudizio
della parte interessata, nel qual caso l’autografia della sottoscrizione viene certificata dal

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difensore. La nomina del difensore delle altre parti non è sorretta automaticamente dal principio
di immanenza durante tutto l’iter processuale, giacché essa, mancando nella procura un’esplicita
manifestazione di volontà diversa, si intende effettuata limitatamente a un “determinato grado del
processo”.
Numero di difensori consentito alle altre parti private al fine di evitare un eccessivo
affollamento del processo è parso opportuno limitare la difesa di esse a un solo difensore.
Il difensore della persona offesa viene nominato seguendo le forme previste per quelle del
difensore di fiducia dell’imputato, mentre il difensore degli enti e delle associazioni rappresentativi
di interessi lesi va nominato seguendo le regole stabilite per il difensore delle parti private diverse
dall’imputato.

10.La sostituzione del difensore.


Art.102 c.p.p. dispone che “il difensore di fiducia e il difensore d’ufficio possono nominare un
sostituto il quale esercita i diritti e assume i doveri del difensore”. Si tratta di un soggetto abilitato
a pieno titolo alla difesa, la esercita in completa autonomia, con pienezza di poteri. Ciò comporta
che egli può, a sua volta, nominare un proprio sostituto.
Fermo restando che il titolare dell’ufficio di difesa rimane sempre l’originario difensore designato il
quale può in qualsiasi momento riassumere le proprie funzioni. Anche al difensore delle altre parti
private, nonché della persona offesa, spetta la facoltà di designare un proprio sostituto.
La sostituzione consentita unicamente per il giudizio di merito, che non potrebbe legittimamente
formulare senza che il difensore, all’esito del dibattimento, abbia esposto oralmente le proprie
argomentazioni e le proprie richieste, non è ammissibile, invece per il giudizio in Cassazione nel cui
dibattimento i difensori possono intervenire per discutere i motivi del ricorso, senza che tale
intervento sia condizione necessaria per la valida decisione sul ricorso stesso. La designazione del
sostituto va fatta con dichiarazione resa all’autorità giudiziaria procedente ovvero a essa
consegnata dal difensore o trasmessa con raccomandata.

11.Abbandono, rifiuto della difesa e violazione dei doveri di lealtà e di probità da parte del
difensore.
La normativa processuale prefigura l’eventualità di abbandono o di rifiuto della difesa, ai quali
ricollega determinati effetti negativi: precisamente, l’applicazione di sanzioni disciplinari nei
confronti del professionista che se ne sia reso responsabile.
Ogni comportamento che possa integrare ipotesi di abbandono della difesa o di rifiuto della difesa
d’ufficio o di violazione dei doveri di essere segnalato, dall’autorità giudiziaria che l’abbia rilevato,
al consiglio dell’ordine forense al quale compete l’attivazione di un eventuale procedimento di
natura disciplinare.
Art. 105 comma 3 c.p.p.: “nei casi di abbandono o di rifiuto motivati da violazione dei diritti della
difesa, quando il consiglio dell’ordine li ritiene comunque giustificati, la sanzione non è applicabile,
anche se la violazione dei diritti della difesa è esclusa dal giudice”. La regola deve essere intesa
come riaffermazione della libertà e del’autonomia di valutazioni e di giudizi che vanno garantiti al
difensore nell’attuazione dei propri compiti e nei confronti di chiunque, anche del giudice.
Le conseguenze derivanti dall’assenza, dovuta all’abbandono, del difensore si atteggiano
diversamente a seconda che investano la posizione dell’imputato o quella degli altri soggetti.
Nel caso dell’imputato si determina una stasi processuale in attesa che venga ripristinata la figura
del difensore o attraverso una nomina fiduciaria o attraverso una designazione d’ufficio, poiché in
caso contrario la prosecuzione del processo andrebbe incontro a una sanzione di invalidità.

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Per quanto riguarda le altre parti e i soggetti a esse assimilabili, l’eventuale venir meno della
presenza dei loro difensori non ha alcuna incidenza sullo svolgimento delle attività processuali, la
cui immediata prosecuzione è assicurata.
Egualmente obbligata a riferire all’ordine forense, ai fini di un possibile provvedimento
disciplinare, è l’autorità giudiziaria in tutti i casi di riconosciuta violazione dei doveri di lealtà e
probità da parte del difensore nel corso del procedimento.

12.Garanzie di libertà del difensore.


Ispirata a una responsabile tutela dell’ufficio della difesa appare la disciplina delle garanzie di
libertà de difensore: una disciplina dettata certamente a protezione del diritto di difesa, non già a
tutela del professionista avvocato in generale, poiché se così fosse finirebbe cl risolversi in
privilegio. Ciò implica che per l’operatività delle garanzie di libertà del difensore devono esistere
mandati difensivi debitamente documentati da chi intenda eccepire la sussistenza di quelle
garanzie. Vengono fissati i limiti alle attività giudiziarie di ispezione, perquisizione e sequestro negli
studi professionali, con il divieto di procedere a sequestro di carte o documenti riguardanti
l’oggetto della difesa, di operare qualsiasi controllo della corrispondenza tra l’imputato e il proprio
difensore, di eseguire intercettazioni relative a conversazioni e comunicazioni dei difensori o tra
costoro e le persone assistite.
Un ulteriore prospettiva di salvaguardia dell’esercizio della difesa tecnica emerge dal’obbligo
imposto, pena la nullità dell’atto, all’autorità giudiziaria che si accinga a eseguire un’ispezione, una
perquisizione o un sequestro presso un difensore, di avvisare preventivamente il consiglio
dell’ordine forense, affinché il presidente o un suo delegato possano assistervi.

Capitolo decimo
IL CONSULENTE TECNICO, L’INVESTIGATORE PRIVATO, L’INTERPRETE

1.Il consulente tecnico


Un altro soggetto ausiliario delle parti, pubblica e privata,che può intervenire, per integrare le
attività che esse compiono, in qualità di assistente esperto in settori di particolare specializzazione,
è il consulente tecnico al quale è consentito fare ricorso quando appare necessario compiere
operazioni che presuppongono conoscenze di natura tecnica, scientifica o artistica.
Il codice non impone regole particolari per la scelta e la nomina del consulente; sarà comunque
interesse della parte conferire l’incarico a soggetti sicuramente affidabili dal punto di vista
professionale avvalendosi possibilmente di persone iscritte negli albi dei periti.
° Non può essere chiamato a prestare ufficio di consulente tecnico chi si trovi in talune situazioni
specificatamente previste dalla legge processuale, e precisamente: il minorenne, l’infermo di
mente, l’interdetto,l’inabilitato, chi sia stato interdetto o sospeso dai pubblici uffici o dall’esercizio
di un’arte o di una professione, chi sia sottoposto a misure di sicurezza personali o di prevenzione.
Giustificazione diversa trova la previsione di taluni casi di incompatibilità per l’assunzione
dell’ufficio di consulente tecnico in un determinato procedimento, riguardanti soggetti che
abbiano rivestito o che rivestano nello stesso procedimento o in un procedimento connesso
determinati ruoli: ad esempio, i coimputati dello stesso reato; gli imputati in un procedimento
connesso o per un reato collegato a quello per cui si procede; chi nello stesso procedimento
svolga o abbia svolto funzioni di giudice, di pm, di soggetto ausiliario.
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Estremamente significativo appare l’intervento del consulente delle parti private nel corso delle
c.d. investigazioni difensive  Art. 327-bis c.p.p.: “il difensore ha facoltà di svolgere investigazioni
per ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistito. Su incarico dello stesso
difensore, attività investigative possono essere anche svolte, quando sono necessarie specifiche
competenze, da consulenti tecnici, ai quali vengono estese le garanzie di libertà assicurate ai
difensori”.

2.L’investigatore privato.
Figura di ausiliare sconosciuta in passato alle esigenze del processo penale è introdotta dal codice
attuale è l’investigatore privato. Soggetto abilitato ad attività legislativamente circoscritte
nell’ambito di operazioni non applicanti un esercizio di pubbliche funzioni o una menomazione
della libertà individuale, l’investigatore privato subiva, fino a ieri, il divieto di eseguire indagini e
ricerche o di raccogliere informazioni su fatti oggetto di accertamenti da parte della polizia
giudiziaria. Il nuovo modello processuale ne valorizza il ruolo e ne fa diventare indispensabile le
presenza nel momento in cui, riconoscendo alle parti il “diritto alla prova” e autorizzando la parte
privata a “difendersi provando”, le garantisce ogni iniziativa che possa rendere quanto più efficace
la realizzazione di quel diritto.
La normativa processuale penale prefigura l’utilizzabilità dell’investigatore privato nel contesto
della funzione difensiva, coprendole con le garanzie di libertà riconosciute ai difensori e ai
consulenti tecnici e con la garanzia del segreto professionale, opponibile anche agli organi di
polizia, in deroga alla norma che obbliga gli investigatori privati “ad aderire a tutte le richieste a
essi rivolte dagli ufficiali o dagli agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria”.

3.L’interprete.
La presenza dell’interprete nel processo penale assurge a duplice rilevanza, dal momento che egli
può operare sia come possibile ausiliare della parte privata, sia in funzione delle esigenze di
comprensione linguistica legate a tutto il contesto processuale e non solo alla posizione difensiva
della parte.
Art. 143 comma 1 c.p.p.: “l’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere
gratuitamente da un interprete al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di
eseguire il compimento degli atti cui partecipa”. Questa disposizione configura il ricorso come
oggetto di un diritto individuale dell’imputato volto a consentirgli quella partecipazione cosciente
al procedimento che è parte ineliminabile delle garanzie di difesa. Diritto che trova oggi il più
significativo riconoscimento nell’art. 111 Cost., in forza del quale “nel processo penale, la legge
assicura che la persona accusata di un reato sia assistita da un interprete se non comprende o non
parla la lingua impiegata nel processo”.
Condivisibile l’opinione giurisprudenziale secondo cui condizione fondamentale per l’esercizio del
diritto a essere assistito da un interprete è che l’imputato dichiari espressamente o dimostri di non
sapersi esprimere in italiano o di non capirlo.
Dopo aver posto la regola secondo cui “la prestazione dell’ufficio d’interprete è obbligatoria”, e ciò
al fine di assicurare l’effettività del diritto all’assistenza dell’interprete riconosciuto all’imputato, il
codice fissa dei limiti soggettivi all’espletamento di tale ufficio, configurando delle cause di
incapacità e di incompatibilità che ne impediscono l’assunzione a pena di nullità.
Incapacità ad assumere l’ufficio di interprete può essere determinata o da cause di inidoneità
naturale (tra queste rientrano la minore età, lo stato di interdizione legale o giudiziale,
l’inabilitazione, l’infermità di mente), o da cause di indegnità ( tra queste l’interdizione anche

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temporanea dai pubblici uffici o l’interdizione o sospensione dall’esercizio di una professione o di
un’arte, la sottoposizione a misure di sicurezza personali o a misure di prevenzione.
Incompatibilità con l’ufficio di interprete investe le persone che non possono essere assunte
come testimoni, le persone che hanno facoltà di astenersi dal rendere testimonianza, le persone
chiamate a prestare ufficio di testimoni, di periti o di consulenti tecnici nello stesso procedimento
o in un procedimento connesso. L’incompatibilità nasce dall’avvertita preoccupazione che
determinate posizioni processuali non garantiscano sufficientemente circa la possibilità di un
obiettivo espletamento dell’ufficio di interprete, nell’interesse della situazione difensiva
dell’imputato.
Parimenti improntata all’esigenza di assicurare un’efficace opera di sussidio alla parte è la
disciplina della ricusazione e dell’astensione dell’interprete, qualora ricorrano le stesse cause
determinatrici dell’incapacità e dell’incompatibilità: in altri termini, si è voluto concedere
all’imputato e allo stesso ausiliare lo strumento per scongiurare possibili rischi di una poco valida
collaborazione in conseguenza di uno stato di fatto ritenuto non sufficientemente idoneo a
favorire il corretto adempimento dei doveri inerenti all’ufficio di interprete.

GLI ATTI

Capitolo primo
PROFILI GENERALI

1.Premessa
Con il termine fatto si indica un avvenimento che si verifica nella realtà e che consiste in un
fenomeno naturale o in un comportamento umano, di solito positivo ma anche negativo. In questo
quadro anche l’omissione può assurgere a fatto, qualora una norma ricolleghi a essa un effetto
giuridico.
L’avvenimento che caratterizza il fatto giuridico può consistere in un fenomeno naturale o in un
comportamento umano. Ed è su questa distinzione che poggia la tesi secondo la quale il
comportamento umano avente rilevanza giuridica costituirebbe sempre un atto giuridico, mentre
il fatto giuridico in senso stretto definirebbe solo il fatto della natura produttivo di conseguenze
giuridiche.
Sono atti giuridici solo i comportamenti umani volontari; deve essere, invece, qualificato fatto
giuridico in senso stretto anche il comportamento umano che l’ordinamento valuta senza
accertare che lo accompagni il requisito della volontarietà

2.”Procedimento” e “processo” nel linguaggio del codice.


Art. 109 comma 1 c.p.p.: “in lingua italiana vanno compiuti gli <<atti del procedimento penale>>”.
Il legislatore chiarisce in modo definitivo che va assunta l’imputazione come linea di confine tra il
procedimento,nel quale trovano posto le attività della polizia giudiziaria e del pm,
istituzionalmente idonee a formare la prova utilizzabile nel dibattimento, e il processo. In questa
ricostruzione, il procedimento esaurirebbe la sua funzione con l’imputazione: qui si colloca l’inizio
del processo.

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L’impegno del legislatore a un uso tecnico e differenziato dei termini del procedimento e processo
giustifica il riferimento agli atti, e non agli atti processuali, della disciplina contenuta nel libro
secondo. In concreto, tale impegno non è stato rispettato. Esemplificativa, in tal senso, la lettura di
alcune norme:
° Art. 109 c.p.p. che, a pena di nullità, impone l’uso della lingua italiana per gli atti del
procedimento: nessuno potrebbe mai pensare che, formulata l’imputazione e con l’inizio del
processo, si possa liberamente optare per l’uso di una diversa lingua.
° Art. 177 c.p.p. che fissa il principio di tassatività delle nullità, riferendolo agli “atti del
procedimento”: a nessuno verrebbe in mente di dire che tale principio cessa di avere vigore con
l’inizio del processo.
Nonostante l’impegno a tenere distinti i due concetti e a servirsene in modo appropriato, il
legislatore usa frequentemente il termine procedimento come sinonimo di processo. Un ulteriore
conferma testuale di quanto sostenuto si coglie nell’art. 3 il quale, disciplinando le questioni
pregiudiziali di stato, prevede che il giudice penale sospenda il “processo” e che la sentenza che ha
deciso la questione abbia efficacia di giudicato “nel procedimento penale”.

3.L’atto iniziale e l’atto conclusivo del procedimento penale.


Dato che anteriormente alla notizia di un reato non è immaginabile alcuna attività processuale,
ove gli atti attraverso i quali si estrinseca la notitia criminis potrebbero essere qualificati come
appartenenti agli atti del procedimento, sarebbero così a costituirne il momento iniziale.
Art. 337 c.p.p.: “quando la dichiarazione di querela è proposta oralmente, il verbale in cui essa è
ricevuta è sottoscritto dal querelante o dal procuratore speciale”. Nessuna specifica previsione di
nullità è formulata per l’ipotesi in cui difetti la prescritta sottoscrizione. E l’art. 142 c.p.p. conferma
che “alla nullità verbale conduce soltanto la mancata sottoscrizione del pubblico ufficiale che l’ha
redatto”  solo di volta in volta il legislatore indica quando la sottoscrizione è richiesta a pena di
nullità ( esempio: gli artt. 292 comma 2 e 426 comma 3).
Il silenzio serbato per il caso in cui non sia rispettata la formalità richiesta nell’art. 337 potrebbe
voler significare che la formalità non è ritenuta di tale rango da meritare la salvaguardia di una
nullità. Ad orientare diversamente è il fatto che l’art. 337 riproduce l’art. 10 del codice abrogato
che stabiliva la nullità della querela, se il verbale in cui era raccolta la relativa dichiarazione orale
non fosse stato sottoscritto dal querelante.
Gli atti nei quali si estrinseca la notitia criminis non sono gli stessi atti del procedimento. La
conclusione giustifica le affermazioni secondo le quali:
- la legge per la sospensione dei termini nel periodo finale non è applicabile al termine per
proporre querela;
- per lo stesso termine non è consentita la “restituzione”;
- gli artt. 109 e 122 non sono applicabili agli atti nei quali viene tradotta la notitia criminis, per cui
non è necessario l’uso della lingua italiana per la loro redazione, né il rispetto delle formalità
tipiche per conferire un mandato speciale.
Un diverso discorso va fatto per gli atti di polizia giudiziaria. La loro appartenenza al procedimento
trova esplicito riconoscimento in varie norme del codice. Ad esempio art.350 c.p.p. che,
disciplinando le sommarie informazioni della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini,
precisa che le stesse sono assunte con la necessaria assistenza del difensore, al quale la polizia
giudiziaria da tempestivo avviso.
L’attività della polizia giudiziaria costituisce il momento iniziale del procedimento, il cui primo
atto va individuato fra quello posti in essere nel tempo intercorrente tra l’acquisizione della

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notizia di un reato e l’informativa indirizzata al pm. È possibile,pertanto, che vi sia procedimento
prima ancora che sulla scena processuale facciano il loro ingresso l’imputato, il pm, il giudice.
Assai più agevole l’individuazione dell’ultimo atto del procedimento. Gli artt. 648 e 650 indicano,
infatti, il momento in cui diventano irrevocabili ed esecutivi le sentenze e i decreti penali.

4.Divieto di pubblicazione di atti e di immagini.


La disciplina concernente la pubblicazione degli atti si articola in modo diverso a seconda che essi
siano o meno coperti dal segreto.
Per gli atti coperti dal segreto, l’art.114 pone il divieto assoluto di pubblicazione, anche parziale o
per riassunto o anche solo del loro contenuto. Per intendere quali siano questi atti, bisogna fare
riferimento all’art. 329: “gli atti di indagine compiuti dal pm e dalla polizia giudiziaria sono coperti
dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la
chiusura delle indagini preliminari”.
Per gli atti non coperti dal segreto il divieto di pubblicazione è circoscritto al massimo possibile e si
esaurisce man mano che, in relazione allo svolgersi del processo, non ha più ragion d’essere.
È vietata la pubblicazione anche parziale degli atti fino a che non siano concluse le indagini
preliminari o fino al termine dell’udienza preliminare. Il significato del divieto è di agevole
comprensione: non essendo possibile conoscere a priori i riferiti esiti, non si può consentire la
pubblicazione di atti che potrebbero essere inseriti nel fascicolo del pm e come tali potrebbero
essere conosciuti dal giudice del dibattimento solo mediante le “contestazioni”. È ovvio che la
pubblicazione degli atti, prima di questo momento, potrebbe incidere negativamente sulla
formazione del convincimento del giudice. Il divieto in esame può residuare ove la pubblicazione
di atti possa offendere il buon costume o comportare la diffusione di notizie sulle quali la egge
prescrive di mantenere il segreto nell’interesse dello Stato o causare pregiudizio alla riservatezza
dei testimoni o delle parti private.
Art. 114 comma 4 c.p.p.: si prevede l’ipotesi di un dibattimento celebrato a porte chiuse e viene
fissato il divieto di pubblicazione, anche parziale, degli atti del dibattimento, e viene accordato al
giudice, sentite le parti, di disporre il divieto di pubblicazione anche degli atti o di parte degli atti
utilizzati per le contestazioni. Oltre che con la scadenza dei termini fissati dalla legge sugli archivi di
Stato (70 anni), è previsto che il divieto venga a cessare quando siano trascorsi 10 anni dalla
sentenza irrevocabile e la pubblicazione sia autorizzata dal ministro delle giustizia.
Art. 114 comma 7: contiene una norma di chiusura, in base alla quale la pubblicazione del
contenuto di atti non coperti dal segreto è sempre consentita.
Alla disciplina appena descritta l’art. 329 apporta due deroghe di segno opposto:
- da un lato, è consentito al pm di escludere il segreto e permettere la pubblicazione di singoli atti
o di parti di essi quando ciò risulti necessario per la prosecuzione delle indagini;
- dall’altro, è data facoltà allo stesso organo:
a) di disporre l’obbligo del segreto per singoli atti che non ne siano più coperti, quando l’imputato
lo consente o quando la conoscenza dell’atto può ostacolare le indagini riguardanti altre persone;
b) di imporre il divieto di pubblicazione del contenuto di singoli atti o di notizie specifiche relative
a determinate operazioni.
Art. 114 comma 6: stabilisce una particolare tutela nei confronti dei minorenni coinvolti in un
procedimento penale, vietandone la pubblicazione delle generalità e dell’immagine fino a quando
non siano divenuti maggiorenni. È altresì vietata la pubblicazione di elementi che anche
indirettamente possano portare all’identificazione dei suddetti minorenni. Il tribunale per i
minorenni o il minorenne che ha compiuto 16 anni, può consentire la pubblicazione.

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Art. 114 comma 6-bis: vieta la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà
personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi o ad altro mezzo
di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta. Le due norme, nonostante fanno riferimento
al divieto di pubblicazione dell’immagine, hanno un diverso oggetto di tutela:
- comma 6: mira alla protezione del minore in quanto tale, impedendo qualsiasi forma di
pubblicità atta a consentirne l’identificazione.
- comma 6-bis: mira a proteggere la dignità della persona e a far cessare la concezione
spettacolare delle operazioni di polizia. Il divieto in esame prescinde da limiti temporalmente
prestabiliti e rimette all’apprezzamento dell’interessato l’autorizzazione alla pubblicazione della
propria immagine.
Rientra nella nozione di pubblicazione qualunque mezzo di diffusione dell’immagine destinata a
raggiungere un numero indefinibile di soggetti: la carta stampata, i ciclostilati, le trasmissioni
televisive, le riprese cinematografiche e qualunque altro strumento che il progresso tecnologico
potrà rendere idoneo a tale scopo.
Una sanzione disciplinare potrebbe accompagnare l’intervento sanzionatorio penale qualora la
violazione del divieto di pubblicazione sia commessa da impiegati dello Stato o di altri enti pubblici
o da chi eserciti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato.

Capitolo secondo
GLI ATTI DEL PROCEDIMENTO DAL PUNTO DI VISTA SOGGETTIVO

1.Premessa.
Il codice non consente che l’atto possa essere realizzato da qualsiasi soggetto e con le modalità
che più gli aggradano; al contrario, fissa, in astratto, un preciso modello in cui indica quale
soggetto deve compiere l’atto e a quali modalità di forma, di tempo e di luogo costui si deve
attenere.
Nella fattispecie astratta di un atto si trovano, in primo luogo, indicazioni sui soggetti chiamati a
compierlo. In proposito, la dottrina parla di legittimazione, indicare l’idoneità di un soggetto a
porsi come titolare dell’atto.

2.Gli atti del giudice.


Il codice parla di atti e provvedimenti del giudice. La nomenclatura è esatta, ma si deve subito
precisare che i provvedimenti appartengono pur sempre nella categoria degli atti e si
caratterizzano per essere compiuti da un organo dello Stato nell’esercizio di un potere.
Art. 125 esordisce con due importanti indicazioni: le forme tipiche dei provvedimenti del giudice
sono la sentenza, l’ordinanza e il decreto, ed è la legge a stabilire in quale caso deve essere
adottata una forma o l’altra.
A)LA SENTENZA: è la decisione del giudice che esaurisce il rapporto processuale, ovvero un grado
o una fase di esso. Proprio perché il giudice è chiamato a fare ricorso alla sentenza in situazioni
assai differenti tra loro, la dottrina ha cercato di classificare i vari tipi.
In questo quadro le sentenze vanno distinte:
- sentenze di merito: sono quelle che risolvono le questioni relative alla esistenza o meno della
pretesa punitiva: vi fanno rientrare le sentenze di condanna e di assoluzione.
- sentenze processuali: sono quelle che concludono il procedimento o una fase di esso senza
affrontare le questioni relative alla pretesa punitiva, ma risolvendo una questione di carattere
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processuale: vi fanno rientrare le sentenze di annullamento, quelle adottate in difetto di una
condizione di procedibilità e quelle che pronunciano in tema di competenza.
- sentenze di condanna e sentenza di proscioglimento: non richiedono alcuna particolare
illustrazione.
- sentenze dichiarative: sono quelle che si limitano a verificare l’esistenza di una certa situazione
giuridica: si fanno gli esempi delle sentenze di annullamento della Corte di cassazione e delle
sentenze che dichiarano l’incompetenza.
- sentenze costitutive: contrassegnano quelle situazioni in cui gli effetti giuridici che derivano dalla
sentenza trovano nella stessa il loro titolo: si fa l’esempio della sentenza che concede la
riabilitazione.
Art. 125 comma 3: prescrive che le sentenze e le ordinanze vanno motivate, a pena di nullità. Alla
base della prescrizione sta l’esigenza elementare di conoscere le ragioni di fatto e di diritto che
hanno portato il giudice ad assumere una decisione. Il codice prevede che la deliberazione della
sentenza avvenga in camera di consiglio, senza la presenza né delle parti, né dell’ausiliario
designato ad assistere il giudice.
Art.125 comma 4: parla di segretezza della deliberazione senza distinguere tra organo collegiale e
organo monocratico.
Art. 125 comma 5: prevede che, se lo richiede un componente del collegio che non ha espresso
voto conforme alla decisione, sia compilato sommario verbale contenente l’indicazione del
dissenziente, della questione o delle questioni alle quali si riferisce il dissenso e dei motivi dello
stesso, succintamente esposti. Il verbale, redatto dal meno anziano dei componenti togati del
collegio e sottoscritto da tutti i componenti, è conservato a cura del presidente in plico sigillato
presso la cancelleria dell’ufficio. Di esso, potrà servirsene il giudice dissenziente qual ora venisse
chiamato a rispondere, insieme agli altri componenti del collegio, del proprio operato in sede
civile.
B)L’ORDINANZA: ha in comune con la sentenza il fatto di costituire esercizio di potestà
giurisdizionale. A differenza della sentenza l’ordinanza è una decisione che non provvede in merito
alla pretesa punitiva né esaurisce il rapporto processuale in corso, ma interferisce in questo come
un momento dello svolgimento di esso. Anche per l’ordinanza è prescritto, a pena di nullità,
l’obbligo della motivazione. L’art. 111 comma 6 Cost., prevede una differenza fra sentenza e
ordinanza sul piano dell’impugnabilità. Una generale ricorribilità per cassazione è disposta
unicamente per le sentenze e per i provvedimenti in tema di libertà personale. Per tutte le
ordinanze non aventi siffatto contenuto, l’art. 111 Cost. tace e l’art. 568 comma 2, nel confermare
che sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i
provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze, salvo quelle sulla
competenza che possono dar luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza, ribadisce che,
per esse, opera il principio di tassatività indicato nel comma 1.
A differenza della sentenza l’ordinanza è normalmente revocabile: si pensi, per esempio, alla
revoca dell’ordine di procedere a porte chiuse.
C)IL DECRETO: rappresenta l’ultima delle forme tipiche che possono assumere i provvedimenti del
giudice. Diversamente dagli altri due provvedimenti, il decreto può essere emesso anche dal pm e
deve essere motivato solo nei casi in cui la motivazione è espressamente prescritta dalla legge. Il
decreto esprime un ordine, un comando, un atto di autorità del giudice e ha, di regola, carattere
amministrativo. Anche per l’impugnabilità dei decreti vale quando già precisato per le ordinanze.

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D)ALTRI PROVVEDIMENTI: possono essere adottati dal giudice senza l’osservanza di speciali
formalità e anche, salva diversa prescrizione, oralmente: si pensi ai provvedimenti relativi alla
pubblicità dell’udienza che sono dati oralmente e senza formalità.
La categoria in esame è disciplinata dall’art. 125 comma 6, il quale non limita la previsione di
assenza di formalità ai provvedimenti ordinatori e regolamentari, ma la riferisce a tutti i
provvedimenti diversi dai tre tipici già trattati.
L’art 128 dispone che gli originali dei provvedimenti del giudice siano depositati in cancelleria
entro 5 giorni dalla deliberazione e che l’avviso in deposito con l’indicazione del dispositivo sia
comunicato al pm e notificato a tutti colori hanno diritto di impugnazione.
L’omissione dell’avviso di deposito determina la nullità di ordine generale.

3.(Segue): il procedimento in camera di consiglio.


Si tratta di un istituto dotato di rilievo particolare nell’economia del processo penale.
Il procedimento prende le mosse dall’avviso alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori
della data dell’udienza. L’avviso è diretto a consentire l’approntamento di una linea di difesa che
può essere anticipata con la presentazione di memorie in cancelleria (fino a 5 giorni prima
dell’udienza) o comunque esposta nel corso dell’udienza, ove, appunto, il pm, gli altri destinatari
dell’avviso nonché i difensori sono sentiti se compaiono.
Particolare è la posizione di chi vuole essere sentito ma si trova detenuto o internato in luogo
posto fuori dalla circolazione del giudice.
L’art. 127 comma 3,dispone che “ove ne faccia richiesta, colui che si trovi nelle predette condizioni
deve essere sentito, prima del giorno dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza nel luogo in cui è
detenuto o internato”.
Ove l’imputato o il condannato che ha chiesto di essere sentito personalmente versi in una
situazione di legittimo impedimento, l’udienza deve essere rinviata. L’art. 124 comma 4 limita
l’operare del legittimo impedimento alla circostanza che l’imputato o condannato non sia
detenuto o internato “in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice”. Il rispetto delle
prescrizioni sin qui esaminate è assicurato da un’esplicita previsione di nullità contemplata nel
comma 5 dell’art. 127: sanzione resa necessaria in relazione al disposto dell’art. 178 lett. c, che
prevede la nullità per a sola inosservanza delle disposizioni relative alla citazione in giudizio.
Per completare l’argomento, va ricordato che:
- l’udienza si svolge senza la presenza del pubblico;
- il giudice provvede con ordinanza ricorribile per cassazione;
- il ricorso non sospende l’esecuzione dell’ordinanza, tranne che il giudice disponga diversamente
con decreto motivato;
- il giudice con ordinanza e senza formalità di procedura deve provvedere a dichiarare
l’inammissibilità dell’atto introduttivo del procedimento;
- il verbale di udienza va redatto di regola in forma riassuntiva.
In alcuni casi, il provvedimento conclusivo del procedimento in camera di consiglio non può essere
rappresentato da un’ordinanza. Ciò si verifica quando il rito camerale abbia ad oggetto un
procedimento che non si limiti a risolvere una questione incidentale, ma abbia il suo epilogo in una
pronuncia di merito.

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4.(Segue): l’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità.
Art. 129 c.p.p.: “in ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non
sussiste o che l’imputato non l’ha commesso o che il fatto no costituisce reato o non è previsto
dalla legge come reato o che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo
dichiara d’ufficio con sentenza”.
L’art. 129 opera in ogni stato e grado del processo. Esso, invece, non opera durante la fase delle
indagini preliminari: in questa fase, considerata la competenza ad acta riservata al giudice, le
situazioni previste dall’art. 129 determinano l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato
ovvero per gli altri casi previsti dall’art. 411; soluzione che può realizzarsi solo su impulso del pm.
Particolare attenzione merita l’ipotesi in cui ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli altri
atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che i fatto non
costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato: dispone l’art. 129 comma 2, che in tal
evidenza, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula
prescritta.
Deve darsi la precedenza al proscioglimento nel merito anche nelle situazioni descritte dall’art.
530 comma 2 e cioè quando manchi, sia insufficiente, o sia contraddittoria la prova che il fatto
sussista, che l’imputato lo abbia commesso, che il fatto costituisca reato o che il fatto sia previsto
dalla legge come reato.
Evidenza rende operante la previsione dell’art. 129 comma 2; deve risultare dagli atti; il che
significa che le prove che giustificano il proscioglimento nel merito debbono essere state già
acquisite nel momento in cui interviene il fatto estintivo.
Il proscioglimento nel merito può essere disposto anche quando la causa estintiva sia
rappresentata dalla morte dell’imputato. A tale conclusione è possibile pervenire sulla base
dell’indicazione fornita dall’art. 69 comma 1, il quale afferma che “se risulta la morte
dell’imputato, in ogni stato e grado del processo il giudice pronuncia sentenza a norma dell’art.
129”.

5.(Segue): la correzione di errori materiali.


Per quanto vigile sia l’attenzione del giudice, può accadere che in uno dei suoi provvedimenti sia
presente un errore materiale: una deviazione non grave dell’atto dal suo schema tipico.
° Perché il procedimento di correzione possa essere adottato, occorre il concorso di determinate
condizioni, la prima delle quali viene specificata dallo stesso art. 130: le situazioni rimediabili sono
quelle che si traducono in errori o omissioni che non determinano nullità.
° Un ulteriore condizione, posta sempre dall’art. 130 investe l’entità dell’errore (o dell’omissione):
la sua eliminazione è possibile purché non comporti una modificazione essenziale dell’atto.
Errore si intende una difformità puramente esteriore tra il pensiero del giudice e la sua
formulazione esterna.
Omissione è quella riparabile con un’operazione sostanzialmente meccanica poiché limitata
all’aggiunta di elementi che dovevano necessariamente far parte del provvedimento.
° L’ultima condizione posta dall’art. 130 riguarda il soggetto che ha emesso il provvedimento che si
vuole correggere: deve trattarsi di procedimento del giudice.
Le regole processuali che il giudice è tenuto a seguire per attivare il meccanismo della correzione
sono quelle previste per il procedimento in camera di consiglio.

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6.(Segue): i poteri coercitivi.
Ovvie ragioni di funzionalità e di immagine impongono che il compimento degli atti ai quali il
giudice procede avvenga in modo sicuro e ordinato. Perché si possa pervenire a questo risultato,
l’art. 131 attribuisce al giudice il potere di chiedere l’intervento della polizia giudiziaria e, se
necessario, dalla forza pubblica. Tale potere costituisce chiara espressione del legame tra autorità
giudiziaria e polizia giudiziaria.
Per l’esercizio di questi poteri coercitivi non è richiesta una particolare formalità: possono essere
esercitati anche oralmente. Le formalità sono richieste, invece, per in caso in cui il giudice ritenga
di disporre:
1)accompagnamento coattivo dell’imputato: disciplinato dall’art.132 il giudice con decreto
motivato può ordinare che l’imputato sia condotto alla sua presenza, se occorre anche con la
forza. L’atto si risolve in un’innegabile restrizione della libertà personale resa necessaria
dall’indispensabile acquisizione di un contributo probatorio.
L’art. 132 precisa che l’accompagnamento coattivo è possibile solo nei casi previsti dalla legge. Tali
casi sono quelli indicati dall’art. 399 e dall’art. 390; da essi si ricava che per il compimento dell’atto
deve essere necessaria la presenza dell’imputato e che questi non sia comparso e non abbia
addotto un legittimo impedimento.
Art.132 comma 2: “l’accompagnamento coattivo dell’imputato non può durare oltre il
compimento dell’atto previsto e di quelli consequenziali per i quali perduri la necessità della sua
presenza; in ogni caso l’imputato non può essere trattenuto oltre le 24 ore”.
2)accompagnamento coattivo di altre persone: disciplinato dall’art. 133 “le altre persone a cui
si riferisce la rubrica sono il testimone, il perito, la persona sottoposta all’esame del perito diversa
dall’imputato, il consulente tecnico, l’interprete o il custode di cose sequestrate”. Anche per
costoro l’accompagnamento coattivo è ancorato a rigidi presupposti. Occorre che questi soggetti
siano regolarmente citati convocati e che abbiano omessi di comparire nel luogo, giorno e ora
stabiliti: in questo caso il giudice, con ordinanza, può anche condannarli al pagamento di una
somma da euro 51 a euro 516 a favore della cassa delle ammende nonché alle spese alle quali la
mancata comparizione ha dato causa. Tale condanna è revocata con ordinanza quando il giudice
ritenga fondate le giustificazioni addotte in seguito dall’interessato.
Per il resto, si applicano le disposizioni riguardanti l’accompagnamento coattivo dell’imputato.

7.Gli atti del pubblico ministero.


Al pm, per lo svolgimento delle sue attività, fanno capo numerosi atti, che assumono varie vesti.
Gli atti del pm possono assumere la veste:
- del decreto;
- di invito a presentarsi: ne fa parola l’art. 375 per designare l’atto con il quale il pm quando deve
procedere ad attività che ne richiedano la presenza, invita la persona sottoposta alle indagini a
presentarsi;
- di richieste: costituiscono atti di stimolo a ulteriori atti del procedimento di esclusiva competenza
del giudice ne rappresentano esempi significativi la richiesta di procedere con incidente
probatorio; la richiesta di rinvio a giudizio; la richiesta di archiviazione … ;
- di conclusioni: sono gli atti con il quale il pm formula il proprio convincimento sul merito della
causa,suggerendo quale debba essere il contenuto della decisione del giudice;
- di consenso: è formulato oralmente in udienza, negli altri casi è formulato con atto scritto;
- di dissenso: ne parla l’art. 446 comma 6 per dire che devono esserne enunciate le ragioni;

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- di informativa: con l’art. 106 si impone al pm di informare, senza ritardo, il giudice civile o
amministrativo, che ha redatto denuncia di reato, delle richieste formulate a conclusione delle
indagini preliminari;
- di informazione: l’art. 129 prevede che quando esercita l’azione penale, il pm informi:
a) l’autorità da cui dipende l’imputato che sia impiegato dello Stato o di altro ente pubblico;
b) l’ordinamento della diocesi a cui appartiene l’imputato che sia un ecclesiastico o un religioso del
culto cattolico;
c) il procuratore generale presso la Corte dei conti, ove si proceda per un reato che ha cagionato
un danno per l’erario.

8.Gli atti dell’imputato, delle altre parti private e della persona offesa dal reato.
Gli atti di questi soggetti non assumono forme esclusive. Essi, infatti, rivestono forme comuni agli
atti del pm.
Per essi è prevista, prevalentemente, la forma di richiesta. Ne sono esempi:
1) con riguardo alla persona sottoposta alle indagini e all’imputato: la richiesta di procedere con
incidente probatorio; la richiesta di applicazione della pena;
2) con riguardo alla parte civile: la richiesta di rendere provvisoriamente esecutiva la condanna alle
restituzioni e al risarcimento; la richiesta di pubblicazione della sentenza di condanna;
3) con riguardo alla persona offesa: la richiesta rivolta al pm di promuovere un incidente
probatorio rivolta al procuratore; la richiesta indirizzata al pm di proporre impugnazione ad ogni
effetto penale;
4) con riguardo agli enti e alle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato: la richiesta di
rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici e alle parti private e la richiesta di
nuovi mezzi di prova; la richiesta di dare lettura degli atti contenuti nel fascicolo per il
dibattimento.
Analogamente a quanto detto per gli atti del pm, anche quelli delle parti private possono
assumere la forma delle conclusioni e del consenso.
Un ulteriore forma che possono assumere gli atti dei soggetti è quello delle memorie: atti
attraverso i quali è possibile illustrare questioni di fatto e di diritto. Il pm sarà il destinatario delle
memorie che i difensori hanno diritto di presentare anche nel corso delle indagini preliminari.
Gli atti dei soggetti privati possono assumere, ancora la veste della rinuncia o della revoca.

9.Gli atti dei c.d. organi ausiliari.


Gli atti degli organi ausiliari si realizzano nelle forme dell’assistenza, della documentazione, della
certificazione e della notificazione.
Assistenza è prevista dall’art. 126 per tutti gli atti ai quali il giudice procede, tranne che non sia
la stessa legge a precisare che di questa assistenza si debba fare a meno.
Documentazione di quanto accade nel processo, per conservarne sicura la traccia questa
esigenza è tanto avvertita, da spingere a disciplinare la surrogazione o la costituzione di un atto del
procedimento per qualsiasi caso distrutto, smarrito o sottratto. Il codice prevede che a tale
documentazione si provveda mediante verbale, alla cui redazione sono chiamati l’ausiliario che
assiste il giudice, oppure l’ufficiale di polizia giudiziaria o l’ausiliario che assiste il pm.
Di regola il verbale è redatto con la stenotipia o altro mezzo meccanico, dovendosi utilizzare la
scrittura manuale solo in caso di impossibilità di ricorso a tali mezzi. È prevista anche la
riproduzione fonografica e quella audiovisiva se assolutamente indispensabile.

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Non è detto che l’ausiliario possegga le necessarie competenze per l’uso della stenotipia o di altro
mezzo meccanico: in questo caso, egli, con l’autorizzazione del giudice, può farsi assistere dal
personale tecnico, anche esterno all’amministrazione dello Stato. Lo stesso personale, sotto la
direzione dell’ausiliario, è chiamato a provvedere alla riproduzione fonografica o audiovisiva.
Alla trascrizione in caratteri comuni del verbale redatto con il mezzo della stenotipia si procede
non oltre il giorno successivo a quello in cui sono stati impressi i nastri, che, insieme alla
trascrizione, sono uniti agli atti del processo. Con il consenso delle parti il giudice può disporre che
non si provveda alla trascrizione della riproduzione fonografica che è unita agli atti del
procedimento, così come la registrazione audiovisiva.
Art. 136 comma 1: “il verbale contiene la menzione del luogo, dell’anno, del mese, del giorno e
dell’ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute, l’indicazione della
cause, se conosciute, della mancata presenza di coloro che sarebbero dovuti intervenire, la
descrizione di quanto l’ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza
nonché le dichiarazioni ricevute da lui o da altro pubblico ufficiale che egli assiste”.
Comma 2: “per ogni dichiarazione è indicato se è stata resa spontaneamente o previa domanda e,
in tal caso, è riprodotta anche la domanda; se la dichiarazione è stata dettata dal richiedente, o se
questi si è avvalso dell’autorizzazione a consultare note scritte, ne è fatta menzione”.
Specifica attenzione merita la documentazione dell’interrogatorio di persona in stato di
detenzione art. 141-bis: “se l’interrogatorio non si svolge in udienza, la documentazione deve
avvenire, integralmente e a pena d’inutilizzabilità, con mezzi di produzione fonografica o
audiovisiva; oppure, ma solo in caso d’indisponibilità di questi ultimi mezzi o di personale, con le
forme della perizia o della consulenza tecnica”.
Trattandosi di un atto pubblico, il verbale fa piena prova, sino a querela di falso, della provenienza
del documento e dei fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui
compiuti. Il verbale, non è esso stesso fonte di prova, di modo che è implicita a libera valutazione
di quanto è in esso racchiuso.
La legge attribuisce compiti specifici al pubblico ufficiale addetto alla cancelleria. Tale funzionario,
infatti, è chiamato:
 a rilasciare attestazioni o certificazioni degli atti che riceve;
 a effettuale l’ autenticazione della sottoscrizione di atti per i quali il codice prevede questa
formalità e delle copie, estratti e certificati di singoli atti richiesti all’autorità giudiziaria
procedente.

10.Le notificazioni: gli organi e le forme.


Gli atti nei quali si articola il procedimento hanno necessità di essere portati a conoscenza di
soggetti diversi da quelli che li hanno posti in essere. Il mezzo attraverso il quale si mira a realizzare
tale conoscenza è la notificazione.
L’operazione è condotta nel rispetto di due esigenze: da un lato, imprimere la velocità ai modi
mediante i quali si attua la notificazione, al fine di ridurre i tempi per l’inizio dell’attività
conseguente ad essa; dall’altro lato, elaborare forme di notificazione il cui rispetto avvicini il più
possibile la conoscenza legale alla conoscenza effettiva.
° Il compito di eseguire le notificazioni è affidato all’ufficiale giudiziario, il quale, per consentire un
controllo sulla regolarità del suo operato, deve stendere una relazione.
° Anche la polizia giudiziaria può acquisire la veste di organo delle notificazioni. Ciò avviene nel
corso delle indagini preliminari, in cui il pm, oltre che dell’ufficiale giudiziario, può avvalersi della

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polizia giudiziaria, ma nei soli casi di atti di indagine o provvedimenti che la stessa polizia
giudiziaria è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire.
° Pure la polizia penitenziaria può fungere da organo della notificazione. Ciò accade nei
provvedimenti con detenuti e in quelli davanti al tribunale della libertà, in cui il giudice può
disporre che le notificazioni siano eseguite dalla polizia penitenziaria del luogo in cui i destinatari
sono detenuti.
Oggetto della notificazione è l’atto, che deve essere portato a conoscenza per intero, tranne che la
legge ne consenta la notifica per estratto.
Al doppio risultato di eliminare del tutto il tipico procedimento notificatorio e di fa ottenere la
sicura conoscenza dell’atto al soggetto al quale sarebbe spettata la notificazione, pervengono:
a) la consegna della copia dell’atto all’interessato da parte della cancelleria;
b) la lettura dei provvedimenti alle persone presenti nonché gli avvisi che sono dato dal giudice
verbalmente agli interessati in loro presenza.
Per la loro perfezione, si esige:
1) che, quando la notifica non può essere eseguita in mani proprie del destinatario, l’ufficiale
giudiziario o la polizia giudiziaria consegnino la copia dell’atto da notificare, fatta eccezione per
il caso di notificazione al difensore o al domiciliatario, dopo averla inserita in busta che
provvedono a sigillare trascrivendovi il numero cronologico della notificazione e dandone atto
nella relazione in calce all’originale e alla copia dell’atto;
2) che, in caso di consegna di copie, il pubblico ufficiale addetto alla cancelleria annoti
sull’originale dell’atto la eseguita consegna e la data in cui questa è avvenuta;
3) che nel caso di lettura dei provvedimenti e di avvisi dati dal giudice verbalmente sia fatta
menzione nel verbale e che le comunicazioni, gli avvisi e ogni altro biglietto o invito consegnati
non in busta chiusa a persona diversa dal destinatario rechino le indicazioni strettamente
necessarie.
Art. 149, si occupa delle notificazioni urgenti a mezzo del telefono o del telegrafo. Da un lato,
dispone che la notificazione venga eseguita mediante telegramma solo quando non sia possibile
procedere a mezzo di telefono, dall’altro, limita il ricorso a tali forme di notificazione ai casi urgenti
e alla condizione che si tratti di avvisare o convocare persone diverse dall’imputato.
Art. 149 comma 4 prevede che la comunicazione telefonica ha valore di notificazione sempre che
dalla stessa sia data immediata conferma al destinatario mediante telegramma.
Sempre mirante al risultato della maggiore semplificazione delle forme appaiono dettate:
- la norma che, per le notificazioni a persone diverse dall’imputato, fa salva la possibilità di
impiegare mezzi tecnici innominati che garantiscono la conoscenza dell’atto;
- la norma che, per le notificazioni richieste dalle parti private, consente che esse siano
sostituite dall’invio di copia dell’atto effettuata dal difensore mediante lettera
raccomandata con avviso di ricevimento;
- la norma che, per le notificazioni e le comunicazioni al pm, indica il modo della consegna di
copia dell’atto nella segreteria;
- la norma che prevede che le notificazioni possano essere eseguite anche col mezzo degli
uffici postali, nei modi stabiliti dalle relative norme speciali.
Particolari forme di semplificazione ha ravvisato la giurisprudenza nell’uso del telefax o del
telefono cellulare.

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11.(Segue): i modi.
il codice detta varie norme intese a disciplinare le modalità tramite le quali debbano essere
eseguite le notificazioni.
1)Notificazioni e comunicazioni al pubblico ministero: vanno eseguite, anche direttamente dalle
parti o dai difensori, mediante consegna di copia dell’atto nella segreteria.
2)Notificazioni alla persona offesa: si eseguono mediante consegna di copia alla persona stessa;
se ciò non è possibile, la notificazione viene eseguita nella casa di abitazione o nel luogo in cui essa
esercita abitualmente l’attività lavorativa, mediante consegna a un a persona che conviva anche
temporaneamente o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci. Qualora questi luoghi non siano
conosciuti, la notificazione è eseguita nel luogo dove la persona offesa ha temporane4a dimora o
recapito, mediante consegna a una delle predette persone. Il portiere, o chi ne fa le veci,
sottoscrive l’originale dell’atto notificato e l’ufficiale giudiziario deve dare notizia al destinatario, a
mezzo di lettera raccomandata con l’avviso di ricevimento, dell’avvenuta notificazione, i cui effetti
decorrono dal ricevimento della raccomandata. La copia, in nessun caso, può essere consegnata a
persona minore degli anni 14 o in stato di manifesta incapacità di intendere e di volere. Se non è
stato possibile eseguire la notificazione nei modi indicati, l’atto è depositato nella casa del comune
dove la persona offesa ha l’abitazione o dove la stessa esercita abitualmente la sua attività
lavorativa.
Se non ignoti i luoghi sinora indicati, la notificazione deve essere eseguita mediante deposito
del’atto nella cancelleria.
Per l’ipotesi in cui la persona offesa abiti all’estero e dagli atti risulti notizia precisa del luogo di
residenza o di dimora, è prescritto che essa venga inviata, mediante raccomandata con avviso di
ricevimento, a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato. Decorsi 20 giorni dalla
ricezione della raccomandata senza che sia stata effettuata l’elezione di domicilio, la notificazione
viene eseguita mediante deposito dell’atto nella cancelleria.
3)Notificazione della prima citazione al responsabile civile e alla persona civilmente obbligata
per la pena pecuniaria: è eseguita con le forme dettate per la prima notificazione all’imputato non
detenuto.
4)Notificazioni a pubbliche amministrazioni, a persone giuridiche, a enti privi di personalità
giuridica: si osservano le forme stabilite per il processo civile.
5)Notificazioni alla parte civile, al responsabile civile e alla persona civilmente obbligata per la
pena pecuniaria costituiti in giudizio: sono eseguite presso i difensori. Se il responsabile civile e la
persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria non sono costituiti, devono dichiarare o
eleggere il proprio domicilio nel luogo in cui si procede, con atto ricevuto dalla cancelleria del
giudice competente. In mancanza di tale dichiarazione o elezione le notificazioni sono eseguite
mediante deposito nella cancelleria.
6)Notificazioni all’imputato detenuto anche per causa diversa dal procedimento per il quale
deve eseguirsi la notificazione o internato in un istituto penitenziario: sono eseguite nel luogo di
detenzione, mediante consegna di copia alla persona. Ove venga rifiutata la ricezione, se ne fa
menzione nella relazione di notifica e la copia è consegnata al direttore dell’istituto o a chi ne fa le
veci.
7)Notificazioni all’imputato non detenuto (A):
a)prima notificazione: è eseguita nei modi indicati dall’art. 157, già riferiti in sede di esame delle
notificazioni alla persona offesa. A quanto detto, si deve aggiungere che lo stesso art. 157 impone:

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-che l’autorità giudiziaria ordini la rinnovazione della notificazione qualora accerti che la copia è
stata consegnata alla persona offesa e ritenga quindi probabile che l’imputato non abbia avuto
effettiva conoscenza dell’atto notificato;
-che la consegna alla persona convivente, al portiere o a chi ne fa le veci venga effettuata in plico
chiuso;
-che qualora le persone indicate nel comma 1 manchino o non siano idonee o si rifiutino di
ricevere la copia, prima di far luogo al deposito di cui al comma 8, si proceda nuovamente alla
ricerca dell’imputato, tornando nei luoghi indicati nei commi 1 e 2.
b)notificazioni all’imputato in servizio militare: se lo stato militare in servizio attivo risulta dagli atti,
la notificazione va eseguita nel luogo in cui l’imputato risiede per ragioni di servizio, mediante
consegna alla persona. All’impossibilità di effettuare la consegna si sopperisce con la notifica
dell’atto presso l’ufficio del comandante, il quale informa immediatamente l’interessato
dell’avvenuta notificazione con il mezzo più celere.
c)notificazioni all’imputato in caso d’irreperibilità: si eseguono nei modi indicati dall’art. 159. Il
ricorso a tale modalità di notificazione presuppone che sia stato impossibile eseguirla con le
modalità stabilite dall’art. 157 e che non abbiano avuto migliore risultato le nuove e obbligatorie
ricerche dell’imputato particolarmente nel luogo di nascita, dell’ultima residenza anagrafica,
dell’ultima dimora, in quello dove egli abitualmente esercita la sua attività lavorativa e presso
l’amministrazione carceraria centrale. Risultato vano anche questo nuovo tentativo, l’autorità
giudiziaria emette decreto d’irreperibilità, con il quale, nominato un difensore all’imputat6o che
ne sia privo, ordina che la notificazione sia eseguita mediante consegna di copia al difensore, che
assume la veste di rappresentante dell’irreperibile.
Con il decreto di irreperibilità, il processo può andare avanti senza che l’imputato ne abbia notizia.
Esso se emesso dal giudice o dal pm nel corso delle indagini preliminari, cessa di avere efficacia
con la pronuncia del provvedimento che definisce l’udienza preliminare o, quando questa manchi,
con la chiusura delle indagini preliminari;
° se emesso dal giudice per la notificazione degli atti introduttivi dell’udienza preliminare oppure
dal giudice o dal pm per la notificazione del provvedimento che dispone il giudizio, cessa di avere
efficacia con lo pronuncia della sentenza di primo grado;
° se emesso dal giudice di secondo grado o da quello di rinvio, cessa di avere efficacia con la
pronuncia della sentenza.
B)Notificazioni successive alla prima: sono disciplinata in modo da evitare che, per ogni atto, si
ripetano le ricerche necessarie per la prima. È previsto che le notificazioni successive sono
eseguite mediante consegna ai difensori, sempre che manchi la dichiarazione di domicilio
dell’imputato e il difensore immediatamente non si rifiuti di accettarle. È altresì previsto che la
persona sottoposta alle indagini, al suo primo intervento in un atto compiuto dal giudice, dal pm o
dalla polizia giudiziaria, sia invitata a dichiarare quel dei luoghi presceglie per le notificazioni,
oppure, in alternativa, a eleggere un domicilio. Tale invito è accompagnato dall’avvertimento che
grava sull’imputato l’onere di comunicare i mutamenti del domicilio dichiarato o eletto e che in
mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio, le
notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore.
L’invito a dichiarare o eleggere domicilio va effettuato in un altro momento, qualora manchi il
presupposto di un primo intervento in un atto compiuto dal giudice, dal pm o dalla polizia
giudiziaria. In questa ipotesi il suddetto avviso va formulato con l’informazione di garanzia o con il
primo atto notificato per disposizione dell’autorità giudiziaria. Analoga dichiarazione o elezione di
domicilio deve essere fatta dall’imputato detenuto che deve essere scarcerato per causa diversa

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dal proscioglimento definitivo e dall’essere scarcerato per causa diversa dal proscioglimento
definitivo e dall’imputato che deve essere dimesso da un istituto per l’esecuzione di misure di
sicurezza.
8)Notificazioni all’imputato latitante o evaso: sono eseguite mediante consegna di copia al
difensore.
9)Notificazioni all’imputato interdetto o infermo di mente: oltre che nei confronti dell’interdetto
e dell’incapace, le notificazioni vanno anche eseguite, rispettivamente al tutore o al curatore
speciale.
10)Notificazioni ad altri soggetti: ne tratta l’art. 167 con riferimento ai soggetti diversi da quelli fin
qui elencati: a essi le notificazioni vanno eseguite a norma dell’art. 157 commi 1,2,3,4 e 8 e, nei
casi di urgenza, a norma dell’art. 149.
11)Notificazioni a persona diversa dall’imputato: le notificazioni vanno effettuate per via
telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata.
12)Notificazioni all’imputato all’estero: l’art. 169 detta la disciplina per il caso in cui si conosca la
dimora o la residenza all’estero della persona nei cui confronti si deve procedere. È fatto obbligo al
giudice o al pm di inviarle raccomandata con avviso di ricevimento, contenente l’indicazione
dell’autorità che procede, il titolo del reato con la data e il luogo in cui è stato commesso, nonché
l’invito a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato.

12.(Segue): le nullità.
La funzione essenziale alla quale assolve la notificazione giustifica l’impegno del legislatore a
tutelare i momenti ritenuti prevalenti nel procedimento notificatorio. La tutela approntata dal
legislatore si traduce nella nullità della notificazione in numerosi casi:
 atto notificato in modo incompleto, fuori dei casi nei quali la legge consente la notificazione
per astratto;
 incertezza assoluta sull’autorità o sulla parte privata richiedente, oppure sul destinatario
(esempio, firma indecifrabile dell’autorità che ha posto in essere l’atto);
 relazione della copia notificata mancante della sottoscrizione di chi l’ha eseguita;
 violazione delle disposizioni riguardanti la persona a cui deve essere consegnata la copia;
 omissione dell’avvertimento nei casi previsti dall’art. 161 commi 1,2, e 3 e notificazione
eseguita mediante consegna al difensore;
 omissione dell’affissione o della comunicazione prescritta dall’art. 157 comma 8;
 mancanza sull’originale dell’atto notificato della sottoscrizione della persona indicata nell’art.
157 comma 3;
 inosservanza delle modalità prescritte dal giudice nel decreto che abbia determinato la
mancata conoscenza dell’atto da parte del destinatario.

Capitolo terzo
GLI ATTI DEL PROCEDIMENTO DAL PUNTO DI VISTA FORMALE

2.Il “tempo” degli atti.


Il “tempo” nella tematica degli atti del procedimento penale, viene in considerazione a diversi fini.
Esso giova a contrassegnare la “successione” degli atti, e cioè l’ordine degli stessi all’interno di ogni
serie procedimentale: tra il primo e l’ultimo atto del procedimento si inseriscono tutti gli altri atti
compiuti dai soggetti che operano nel procedimento stesso. Questo inserimento non può avvenire
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a casa, ma in un ordine prestabilito: un ordinato progredire del procedimento verso l’atto
conclusivo.
Il sistema conosce dei casi in cui l’atto non può essere compiuto prima della realizzazione di un
altro o di più altri atti: questi si impongono, quindi, come presupposti del primo. All’opposto, può
accadere che il compimento di un atto risulti impedito perché incompatibile con il compimento di
un atto precedente. In questo caso si parla di preclusione.
Il tempo viene in considerazione per misurare la distanza che può o deve intercorrere tra due o più
atti. Gli strumenti utilizzati per imporre un certo ritmo al procedimento sono denominati termini:
essi indicano il momento in cui un atto può o deve essere validamente compiuto.
I termini si distinguono in:
a) Perentori sono quelli che prescrivono di compiere un atto entro e non oltre un determinato
periodo di tempo, superato il quale si incorre nella decadenza. Proprio per la gravità delle
conseguenze connesse allo scadere di un termine perentorio, il legislatore ha prescritto che
termini si considerano stabiliti a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla legge.
Gli stessi non possono essere prorogati, salvo che la legge disponga altrimenti, mentre non pare
sussistano ragioni per escludere che a essi si applichi la norma che, col consenso della parte a
favore della quale sono stabiliti, ne rende possibile l’abbreviazione, sebbene si ritenga che la
previsione sia dedicata esclusivamente ai termini dilatori.
b) Ordinatori sono quelli che fissano il periodo di tempo entro il quale un determinato atto
deve essere compiuto senza, però, far subire conseguenze, sul piano dell’efficacia, dell’atto
realizzato successivamente alla scadenza.
La ragione per la quale all’inutile decorso di un termine ordinatorio non sono connesse
conseguenze sul piano processuale, è individuata nel fatto che detto termine mira a regolare
svolgimento del processo e a sollecitare la diligenza degli uffici giudiziari. Ciò, tuttavia, non deve
far pensare che il temine possa essere impunemente trasgredito. L’art. 124, infatti, pone a carico
dei magistrati, dei cancellieri e degli altri ausiliari del giudice l’obbligo di osservare le norme
processuali anche quando l’inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale; e, come
si trae dal comma 2 di tale articolo, la violazione del detto obbligo può essere fonte di
responsabilità disciplinare.
c) Dilatori sono quelli con il quale si indica che un atto non può essere compiuto prima del loro
decorso. Un chiaro esempio di termine dilatorio si può rinvenire nell’art. 429 comma 3,il quale
dispone che “tra la data del decreto e la data fissata per il giudizio deve intercorrere un
termine non inferiore a 20 giorni”.
La violazione dei termini dilatori comporta la nullità che colpisce gli atti che devono essere
compiuti prima del momento indicato dalla legge. Sul piano delle conseguenze processuali e
relativamente all’imputato e alle altre parti private, nessuna importanza può essere attribuita al
fatto che, mentre in alcuni casi la previsione della nullità è esplicita, in altri non si rinviene alcuna
indicazione per l’ipotesi in cui venga violata la prescrizione di ordine temporale.

3.(Segue): il computo dei termini; il prolungamento dei termini di comparazione; la sospensione


dei termini processuali nel periodo feriale.
Il termine ha un inizio un decorso e una fine, e richiede delle regole per il suo computo.
Art. 172: “ i termini processuali sono stabiliti a ore, giorni, a mesi o ad anni e vanno computati
secondo il calendario comune; che è prorogato di diritto al giorno successivo non festivo il termine
stabilito a giorni che scada in giorno festivo; che ne termine non si computa, salvo che la legge
disponga altrimenti, l’ora e il giorno in cui inizia la decorrenza, mentre si computa l’ultima ora o

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l’ultimo giorno; che quando è fissato soltanto il momento finale, le unita di tempo stabilite per il
termine si computano intere e libere; che il termine indicato dalla legge per fare dichiarazioni,
depositare documenti o compiere altri atti in un ufficio giudiziario, si considera scaduto nel
momento in cui, secondo i regolamenti, l’ufficio viene chiuso al pubblico”.
Per esaurire l’esame del quadro normativo, un cenno deve essere fatto:
- al prolungamento dei termini di comparazione. Di questo istituto ne tratta l’art. 174, il quale,
con riferimento ad atti dell’autorità giudiziaria al cui compimento l’imputato deve o può
presenziare, disciplina l’ipotesi che la residenza o il domicilio dichiarato o eletto da quest’ultimo si
trovi fuori del comune in cui ha sede l’autorità procedente: per assicurare al soggetto convocato la
possibilità materiale di presenziare è stabilito che “il termine per comparire è prolungato del
numero di giorni necessari per il viaggio”, calcolando un giorno per ogni 500 o per ogni 100
chilometri di distanza, secondo che sia possibile o meno l’uso dei mezzi pubblici di trasporto.
Diversa è la situazione del residente all’estero: i limiti e i parametri precedenti cedono il posto a un
calcolo affidato al giudice, il quale dovrà tener conto della distanza o dei mezzi di comunicazione
utilizzabili.
- alla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale. Di questo secondo istituto si occupa
la l. 742/1969, secondo la quale “il decorso dei termini processuali relative alle giurisdizioni
ordinarie ed a quelle amministrative è sospeso di diritto dal 1° agosto al 15 settembre di ciascun
anno, e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Ove il decorso abbia inizio
durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo”.
La regola esposta conosce, però, varie eccezioni, elencate nell’art. 2 della l. cit.:
1) la prima riguarda i procedimenti relativi ad imputati in stato di custodia cautelare, e scatta
qualora essi o i loro difensori rinunziano alla sospensione dei termini;
2) la seconda concerne le indagini preliminari nel procedimenti relativi a imputati in stato di
custodia cautelare per reati di criminalità organizzata, ivi compresi i termini per le impugnazioni in
materia di misure cautelari personali e reali;
3) la terza riguarda il caso di una prescrizione del reato che maturi durante la sospensione o nei
successivi 45 giorni o l’ipotesi di una custodia cautelare i cui termini scadono durante il medesimo
periodo o siano prossimi a scadere, e scatta con l’ordinanza motivata non impugnabile con la
quale il giudice dichiara l’urgenza del processo: dalla data di notificazione dell’ordinanza, quindi, i
termini processuali decorrono anche nel periodo feriale;
4) la quarta concerne il compimento, nel corso delle indagini preliminari, di atti urgenti, e scatta
con l’ordinanza motivata con la quale il giudice per le indagini preliminari, su richiesta del pm o
della persona sottoposta alle indagini o del suo difensore, enuncia le ragioni dell’urgenza e la
natura degli atti da compiere: anche qui i termini decorreranno dalla data di notificazione
dell’ordinanza;
5) la quinta riguarda l’assunzione, durante la fase degli atti preliminari al dibattimento, degli atti
urgenti di cui all’art. 467;
6) la sesta attiene alla necessità, prospettatasi nel corso del dibattimento, di assumere prove nel
periodo feriale, e consente di procedere a norma dell’art. 467.

4.(Segue): la decadenza.
La decadenza è invocata per contrassegnare la perdita di un potere a causa del mancato esercizio
di esso, protratto per un certo periodo di tempo, da parte del titolare. La decadenza non
costituisce una specie d’invalidità del atti processuali: mentre la nullità e l’inammissibilità

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presuppongono un atto al quale ineriscono, la decadenza, invece, riguarda un atto che non è stato
ancora compiuto e indica, anzi, la perdita del potere di compierlo.
In molte norme si parla di termini che vanno rispettati a pena di decadenza, ma nulla si dice
sull’atto compiuto a termine scaduto. In altre norme, invece, si tace sulla natura del termine,
mentre si qualifica il vizio che colpisce l’atto compiuto dopo il decorso del tempo prestabilito. E
così: l’art. 41 comma 1 impone al giudice di dichiarare inammissibile la dichiarazione di ricusazione
presentata senza l’osservanza dei termini previsti dall’art. 38, il quale, a sua volta, stabilisce che la
dichiarazione di ricusazione può essere proposta, nell’udienza preliminare, fino a che non siano
conclusi gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti.
Solo in poche norme è possibile rintracciare una duplice indicazione: una relativa alla
qualificazione del termine, l’altra rivolta a sanzionare in modo esplicito l’attività compiuta a
scadenza maturata. Si considera, per esempio, l’art. 458 comma 1, che abilita l’imputato a
chiedere il giudizio abbreviato, depositando la richiesta nella cancelleria del giudice per le indagini
preliminari, con la prova dell’avvenuta notifica al pm, entro 15 giorni dalla notificazione del
decreto di giudizio immediato, a pena di decadenza; e si guardi al comma 2 dello stesso articolo,
che pone a carico del giudice l’obbligo di fissare l’udienza se la richiesta è ammissibile.

5.(Segue): la restituzione nel termine.


il pm, le parti private e i difensori sono restituiti nel termine stabilito a pena di decadenza, se
provano di non averlo potuto osservare per caso fortuito o per forza maggiore: così dispone l’art.
175 comma 1 per rimediare alla situazione in cui un certo tipo di impedimento, non imputabile
alla parte che reclama il rimedio, abbia reso impossibili alla stessa l’esplicazione di una data attività
processuale nel termine perentorio fissato dalla legge.
I soggetti legittimati a richiedere la restituzione nel termine sono individuati nel pm, nelle parti
private e nei difensori. Il generico riferimento alle parti private fa subito intendere che, oltre
all’imputato, possono giovarsi dell’istituto anche la parte civile, il responsabile civile e il civilmente
obbligato per la pena pecuniaria. Per quanto riguarda i difensori, l’art. 175 comma 1, li include
espressamente fra i soggetti che possono chiedere il rimedio; e ciò sia per atti di loro esclusiva
pertinenza, sia per atti della parte assistita, sia per atti il cui compimento spetti, alternativamente
o separatamente anche alla parte.
L’impossibilità di rispettare il termine deve essere assoluta. La semplice difficoltà di compiere un
atto entro il termine prescritto non è sufficiente a sostenere una richiesta di restituzione: occorre,
cioè, un particolare impedimento che renda vano ogni sforzo dell’uomo.
Posto che l’impedimento deve scaturire da caso fortuito o da forza maggiore, occorre fornire una
definizione.
Caso fortuito è un evento non previsto, né prevedibile dalla parte e che sia intervenuto prima
dell’inizio o nel corso o dopo l’esaurimento dell’attività svolta dalla parte stessa per il compimento
dell’atto.
Forza maggiore è quell’energia causale, naturale o umana o subumana, alla quale la parte non
potè resistere e che rese vano ogni suo sforzo per l’adempimento dell’atto entro il termine
stabilito.
Art. 175 comma 2: attribuisce all’imputato, nei cui confronti sia stata emessa sentenza
contumaciale o decreto penale di condanna, il diritto di proporre la richiesta senza gravarlo di
alcun onere dimostrativo; spetta all’autorità giudiziaria l’obbligo di effettuare ogni necessaria
verifica, per stabile se l’imputato abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento e abbia
volontariamente rinunciato a comparire, o se egli abbia avuto effettiva conoscenza del

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provvedimento emesso nei suoi confronti e abbia volontariamente rinunciato a proporre
impugnazione. Solo quando la verifica dà esito positivo, il giudice respinge la richiesta di
restituzione; quando, invece, l’esito è negativo, il giudice deve concedere la restituzione. In
quest’ultimo caso, non si tiene conto, ai fini della prescrizione del reato, del tempo intercorso tra
la notificazione della sentenza contumaciale o del decreto di condanna e la notificazione alla parte
dell’avviso di deposito dell’ordinanza che concede la restituzione.
Questo itinerario, volto a intensificare le garanzie a favore del condannato in contumacia, è stato,
da ultimo, arricchito dall’intervento del giudice costituzionale. La Corte costituzionale, infatti, con
la sentenza 317/2009, ha riconosciuto all’imputato contumace, che non abbia avuto cognizione
del procedimento a suo carico, il diritto di essere restituito nel termine per proporre impugnazione
anche quando l’impugnazione stessa sia già stata proposta dal difensore.
I soggetti legittimati sono tenuti a presentare la richiesta per la restituzione, a pena di decadenza,
entro 10 giorni da quello nel quale è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore. In
ogni caso la restituzione non può essere concessa più di una volta per ciascuna parte in ciascun
grado del procedimento, con la precisazione che lo sbarramento opera in modo autonomo per la
parte e per il suo difensore, trattandosi di soggetti legittimati differenti.
Competente a decidere sulla richiesta di restituzione è il giudice che procede al tempo della
presentazione della stessa; se non è stata ancora esercitata l’azione penale, competente a
decidere sulla richiesta è il giudice per le indagini preliminari. Se sono stati pronunciati sentenza o
decreto di condanna, la decisione sulla richiesta è affidata al giudice che sarebbe competente sulla
impugnazione o sull’opposizione. Il procedimento si conclude con l’emanazione di un’ordinanza,
che sarà ricorribile per cassazione, ove rigetti la richiesta di restituzione.
Sarà impugnabile soltanto l’ordinanza che concede la restituzione nel termine per la proposizione
dell’impugnazione o dell’opposizione.
Ricca di conseguenze è l’ipotesi di accoglimento della richiesta di restituzione nel termine per
impugnare: il giudice deve ordinare la scarcerazione dell’imputato detenuto e adottare tutti i
provvedimenti necessari per far cessare gli effetti determinati dalla scadenza del termine.

6.Il “luogo” degli atti.


Il codice non detta regole generali con riguardo al luogo in cui gli atti del procedimento si possono,
o si devono, compiere. Ciò, però, non deve far pensare a una forma d’indifferenza per tale luogo.
Al contrario da tante disposizioni del codice si ricavano preziose indicazioni sull’importanza che
assume il luogo del compimento di un atto: si pensi a tutta la normativa riguardante le
notificazioni; all’art. 429 comma 2, che prevede la nullità per il caso in cui nel decreto che dispone
il giudizio non sia sufficientemente indicato il luogo di presentazione; all’art 591 comma 1 che
decreta l’inammissibilità dell’impugnazione qualora non siano osservate le prescrizioni dell’art.
582 in ordine al luogo in cui essa può essere presentata; alle disposizioni concernenti gli atti
dibattimentali.
Al luogo si fa riferimento per designare gli spazi territoriali entro i quali è consentito al giudice di
muoversi liberamente per atti del proprio ufficio. Una prima indicazione è fornita dall’art. 294
comma 5, che consente al giudice, al fine di assicurare l’interrogatorio di una persona in stato di
custodia cautelare, di spostarsi nella circoscrizione di altro tribunale, qualora ritenga di procedervi
personalmente e di non affidare il compimento dell’atto al giudice per le indagini preliminari del
luogo.
Un ulteriore indicazione è offerta dall’art. 398 comma 5 che per il caso in cui l’incidente
probatorio non può essere svolto nella circoscrizione del giudice competente, permette a

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quest’ultimo di delegare il giudice per le indagini preliminari del luogo dove la prova deve essere
assunta.
Un limite al compimento di atti fuori del territorio si ricava dal fatto che al giudice italiano solo
eccezionalmente è consentito il compimento diretto e personale di atti all’estero, nel rispetto della
normativa pattizia.
Art. 145- bis n. att. c.p.p. dispone che il presidente della Corte d’appello, qualora le esigenze di
sicurezza richiedano aule di udienza protette, che manchino nella sede giudiziaria competente,
individua tali aule nell’ambito del distretto e, qualora non vi sia disponibilità in questo, su
indicazione fornita dal Ministro della giustizia, nel distretto di Corte d’appello più vicino.

7.L’atto perfetto, valido ed efficace. L’atto invalido e le sue specie.


Resta da esaminare come deve essere realizzato l’atto: è il profilo che attiene alla “forma in senso
stretto”.
Nel c.p.p. manca una norma analoga a quella contenuta nell’art. 121 c.p.c. che dispone: “gli atti
del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella
forma più idonea al raggiungimento del loro scopo”.
Il codice di rito penale introduce un preciso modello in cui indica come l’atto deve essere
realizzato: gli atti a forma vincolata costituiscono la regola. Atto perfetto è solo quello che
riproduce esattamente lo schema predisposto in astratto dal legislatore. Di questo atto, proprio
perché si conforma alle prescrizioni normative, si dovrà dire che è valido e sicuramente efficace.
Un ulteriore precisazione appare necessaria per il caso in cui nel compimento di un atto non venga
rispettata una prescrizione alla quale è legata la validità del medesimo: come non ogni atto
imperfetto è invalido, così non ogni atto invalido è inefficace. Varie ragioni consigliano di non
paralizzare l’efficacia di ogni atto difforme dal modello. Con ciò non si vuol dire che un atto
invalido produce ugualmente i suoi effetti tipici, perché, diversamente, cadrebbe la stessa
distinzione tra atto valido e atto invalido.

8.(Segue): la nullità e il principio di tassatività.


La nullità costituisce la più tipica specie d’invalidità. Si deve considerare la nullità, in particolare, A)
per il rifiuto del brocardo quod nullum est nullum producit effectum, e B) per la specificazione del
principio di tassatività delle cause che producono questo vizio.
A)Va ribadito che gli atti nulli non hanno un fine prestabilito consistente nella declaratoria di
annullamento, ma possono vivere una diversa vicenda processuale. Tutte le nullità sono sanabili,
conoscono, cioè, dei fatti che ne surrogano l’elemento viziato e consentono a esso di raggiungere
la stessa rilevanza dell’atto perfetto. A partire da questo momento l’atto sanato avrà la stessa
efficacia dell’atto perfetto. Durante il tempo che intercorre tra il compimento dell’atto nullo e
l’eventuale declaratoria di nullità, o il verificarsi della sanatoria, l’atto integra una differente
fattispecie caratterizzata dalla precarietà degli effetti. Tale stato di precarietà viene a cessare o con
l’annullamento, che elimina ex tunc gli effetti precari, o con la sanatoria, che, viceversa, modifica e
quindi normalizza, sempre ex tunc, gli effetti provvisoriamente ricollegati all’atto viziato.
B)In ordine al punto relativo all’individuazione delle cause che determinano nullità, il legislatore
afferma in modo esplicito che ovvie ragioni di economia processuale non consentono di
equiparare tutte le imperfezioni dell’atto; solo alcune di esse produrranno il vizio in esame. È
questo il principio di tassatività, tradotto dall’art. 177 nella seguente formula: “l’inosservanza delle
disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità soltanto nei casi previsti dalla

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legge”. Assurge a causa dell’invalidità de qua unicamente la mancata osservanza delle disposizioni
dettate espressamente a pena di nullità.

9.(Segue): nullità “speciali” e nullità “di ordine generale”.


La distinzione tra nullità speciali e nullità di ordine generale è strettamente legata al principio di
tassatività. Esso impone che non si può parlare di questa forma di invalidità allorché non si
rinvenga un’espressa previsione. Non è detto, però, che l’inciso a “pena di nullità” debba trovarsi
nel corpo della stessa norma che pretende il rispetto delle sue prescrizioni. La tecnica di
comminare in via specifica singole ipotesi di nullità è di uso frequente nel codice di procedura
penale e contrassegna la categoria delle “nullità speciali”.
Ma il legislatore può seguire anche una diversa tecnica e disporre che un certo vizio ricavi la sua
legittimazione a porsi come causa di nullità da una norma- madre che colpisca l’inosservanza delle
prescrizioni dettate per gli atti riferibili a determinate categorie. Proprio ciò si verifica con l’ art.
178 che, sotto la rubrica “nullità di ordine generale”, dispone che “ è sempre prescritta a pena di
nullità l’osservanza delle disposizioni concernenti:
a) le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi
stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario;
b) l’iniziativa del pm nell’esercizio dell’azione penale e la sua partecipazione al procedimento;
c) l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché la
citazione in giudizio della persona offesa reato e dal querelante”.
Con le nullità di ordine generale il legislatore ha voluto premunirsi contro il rischio di lasciare senza
tutela situazioni processualmente rilevanti, solo perché era stata omessa una specifica previsione
di nullità per garantire il rispetto.

10.(Segue): A) le nullità “assolute”; B) le nullità “relativamente assolute”; C) le nullità “relative”.


Il codice conosce tre tipi di nullità: le relative, le assolute, le relativamente assolute (o a regime
intermedio). Ancora una volta è l’art. 78 a venire in considerazione: le nullità in esso configurate
sono sottoposte a un regime profondamente diverso da tutte le altre. L’art. 178 accanto alla
funzione di recuperare una nullità riguardante violazioni di norme a esso riferibili che, a garanzia
della loro osservanza, non contengano una specifica sanzione, ne espleta una seconda di non
minora importa: costituisce lo spartiacque tra le nullità relative e gli altri due tipi di nullità, nel
senso che solo le nullità in esso riconducibili possono assurgere alla dignità di nullità assolute o
relativamente assolute; tutte le altre vanno considerate relative.
A)Nullità assolute. Solo le assolute come chiarisce l’art. 179 sono insanabili e rilevabili di ufficio in
ogni stato e grado del procedimento. Le due caratteristiche enunciate dall’art. 179 vanno però
rettamente intese.
In ordine all’insanabilità riferita alle nullità assolute, la qualifica appare enfatica, visto che proprio
l’art. 179 precisa che le stesse sono rilevate di ufficio in ogni stato e grado del procedimento: esse,
quindi, godono di un’insanabilità che dura sino a quando non si conclude il procedimento.
In ordine alla rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, occorre precisare che
l’art. 179 va inteso nel senso che le nullità assolute sono rilevate anche d’ufficio. Il giudice, cioè,
non può vantare il monopolio della rilevazione, essendo essa possibile a tutte le parti e alle altre
persone interessate al procedimento, la cui denuncia di nullità, anche in assenza di specifico
interesse, servirà a mettere in moto i poteri d’ufficio del giudice. L’art. 179 indica in modo
tassativo quali, fra le nullità generali elencate dall’art. 178, debbano essere considerate assolute.

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1) In primo luogo quelle previste dalla lett. a, e cioè la violazione delle disposizioni concernenti le
condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito
dalle leggi di ordinamento giudiziario. La previsione è completa dall’art. 33 comma 2, in forza del
quale non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni sulla destinazione dei
giudici agli uffici giudiziari e alle sezioni, sulla formazione dei collegi e sull’assegnazione dei
processi a sezioni e giudici, nonché le disposizioni sull’attribuzione degli affari penali al tribunale
collegiale o monocratico.
2) L’art. 179 considera insanabili anche le nullità concernenti l’iniziativa del pm nell’esercizio
dell’azione penale e quelle derivanti dalla omessa citazione dell’imputato o dall’assenza del suo
difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza.
3) Per concludere il tema, va precisato che l’art. 179 elenca in modo tassativo solo le nullità
generali che vengono elevate ad assolute. Non è detto però, che al di fuori dall’ambito delle nullità
generali non possano esistere altre ipotesi di nullità assolute. A questo allude l’art. 179 comma 2
quando dispone che sono altresì insanabili e sono rilevate di ufficio in ogni stato e grado del
procedimento le nullità definite assolute da specifiche disposizioni di legge. Accanto alla categoria
delle nullità generali- assolute si pone quella delle nullità speciali- assolute, che ricomprende i casi
in cui i caratteri dell’assolutezza sono contenuti nel corpo della stessa normativa che prevede la
nullità.
B)Nullità relativamente assolute. Sono tutte le nullità generali non dichiarate espressamente
assolute dall’art. 179. Più precisamente l’art. 180 stabilisce “salvo quanto disposto dall’art. 179, le
nullità previste dall’art. 178 sono rilevate anche d’ufficio, ma non possono più essere rilevate né
dedotte dopo la deliberazione della sentenza di primo grado o, se si sono verificate nel giudizio,
dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo”. L’art. 180 crea una graduatoria
all’interno delle nullità generali, in coerenza con la scelta già operata dall’art. 179. Solo le assolute
godono del privilegio di una rilevabilità, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento.
Tutte le altre, pur condividendo con le prime la rilevabilità anche officio iudicis, sono assoggettate
a tempi di rilevazione più ridotti: la deliberazione della sentenza di primo grado, per le nullità che
si sono verificate nelle fasi che hanno preceduto l’apertura del dibattimento; la deliberazione della
sentenza del grado successivo, per le nullità che si sono verificate nel giudizio.
Per comodità espositiva è bene elencare le nullità relativamente assolute.
Esclusa tutta la lett. a dell’art. 178, restano, con riguardo alla lett. b, le nullità concernenti la
partecipazione del pm al procedimento; con riguardo alla lett. c, tutte le nullità ad essa riferibili,
con le sole eccezioni di quelle derivanti dall’omessa citazione dell’imputato e dall’assenza del suo
difensore nei casi in cui né è obbligatoria la presenza.
C)Nullità relative. Sono quelle che, non rientrando nell’art. 178, non possono aspirare alla
qualifica di nullità generali e non possono, quindi, concorrere alla bipartizione di queste in assolute
e relativamente assolute. Per questo tipo di nullità il sistema appresta un regime molto differente
dalle altre nullità: sia per il modo, sia per il tempo della loro rilevazione.
Circa il modo della rilevazione, le nullità relative non possono essere rilevate d’ufficio dal giudice,
ma solo su eccezione di parte.
Circa il tempo della rilevazione, le nullità relative vanno incontro a sanatoria qualora non siano
eccepite nei momenti processuali analiticamente fissati dall’art. 181. Più precisamente:
 le nullità concernenti gli atti delle indagini preliminari e quelli compiuti nell’incidente
probatorio e le nullità concernenti gli atti dell’udienza preliminare devono essere eccepite
prima che il giudice dell’udienza preliminare dichiari chiusa la discussione e proceda alla
deliberazione pronunciando sentenza di non luogo a procedere o decreto che dispone il

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giudizio. Quando manca l’udienza preliminare, le stesse nullità devono essere eccepite entro il
termine previsto dall’art. 491 comma 1 per la trattazione delle questioni preliminari, e cioè
subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamenti della costituzione delle parti.
 Le nullità concernenti il decreto che dispone il giudizio ovvero gli atti preliminari al
dibattimento devono essere eccepite entro il termine previsto dall’art. 491 comma 1. Entro il
medesimo termine, o con l’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, devono
essere riproposte le nullità eccepite a norma del primo periodo del comma 2, che non siano
state dichiarate dal giudice.
 Le nullità verificatesi nel giudizio devono essere eccepite con l’impugnazione della relativa
sentenza.

11.(Segue): i congegni predisposti dal sistema per prevenire le nullità o per rimediare ad esse.
L’intento di liberare il processo dagli effetti nocivi delle nullità ha indotto il legislatore a inserire nel
sistema congegni, già sperimentati, per mezzo dei quali si cerca non solo di rimediare alle nullità,
ma anche di prevenirle.
° Un primo congegno è posto a carico delle parti ed è disciplinato dall’art. 182 comma 2 “quando
la parte vi assiste, la nullità di un atto deve essere eccepita prima del suo compimento o, se ciò
non è possibile, immediatamente dopo. Non si può consentire la riserva del paracadute a chi,
assistendo al compimenti di un atto, nulla eccepisca su eventuali irregolarità che si consumano in
sua presenza; dopo il compimento dell’atto non c’è più spazio per ripensamenti, tranne che il
compimento dell’atto non sia frazionabile e non esista la materiale possibilità di intervenire prima
del suo compimento. In tal caso la denuncia di nullità deve essere egualmente tempestiva: deve
intervenire immediatamente dopo il compimento dell’atto.
Può accadere che l’atto nullo sia compiuto in assenza delle parti e che, quindi, non possa essere
utilizzata l’attività preventiva posta a loro carico per salvare l’atto. In un’evenienza del genere,
l’ordinamento reagisce mediante le sanatorie che ne surrogano l’elemento viziato e attribuiscono
a esso la stessa rilevanza dell’atto perfetto.
Con riferimento alle nullità relativamente assolute e a quelle relative, può darsi che il congegno
della sanatoria legato alla scadenza di un termine non funzioni, in quanto una nullità sia comunque
dedotta prima di tale momento. Tutto lascerebbe pensare al giudice non resto che dichiarare la
nullità. Ma non è così: il sistema attraverso l’art. 183 dedicato alle “sanatorie generali”, impone al
giudice una duplice indagine.
La prima indagine è diretta a verificare il comportamento tenuto dalla parte interessata, al fine di
riscontrare l’eventuale esistenza di una rinuncia espressa a eccepire la nullità o di rintracciare
un’eventuale accettazione degli effetti dell’atto: in questi casi sarebbe illogico, oltre che
antieconomico, procedere all’annullamento dell’atto.
La seconda indagine affidata al giudice mira ad accertare se la parte si è avvalsa della facoltà al cui
esercizio l’atto omesso o nullo è preordinato: se si è prodotto l’evento che l’atto mirava a
realizzare, non ha alcun senso procedere all’annullamento di un atto che, nonostante sia viziato,
ha ugualmente raggiunto il suo scopo.
Le due indagini potrebbero risolversi negativamente,confermando l’esistenza di una nullità non
sanata. A questo punto, il giudice deve accertare nel deducente l’assenza d’impedimenti al diritto
di eccepire il vizio dell’atto.
Sempre in attuazione del principio di economia processuale, un’altra sanatoria è dedotta dall’art.
184 comma 1, con riferimento alle nullità di una citazione o di un avviso o delle relative
comunicazioni e notificazioni: esse sono sanate se la parte interessata è comparsa o ha rinunciato
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a comparire. Perché la norma operi occorre che un atto per quanto invalido, ci sia: la previsione,
dunque, non si estende sino a coprire le ipotesi in cui l’atto sia stato del tutto omesso, non
potendosi sanare ciò che non esiste.

12.(Segue): effetti della dichiarazione di nullità.


Art. 185 comma 2: “il giudice che dichiara la nullità di un atto non dispone la rinnovazione.
Qualora sia necessaria e possibile, ponendo le spese a carico di chi ha dato causa alla nullità per
dolo o colpa grave”. La rinnovazione potrà essere ritenuta non necessaria, qualora gli elementi che
doveva fornire l’atto nullo siano stati acquisiti aliunde, o qualora l’evolversi del processo abbia
dimostrato l’inutilità dell’atto stesso; potrà essere ritenuta impossibile, quando non esistano più gli
elementi indispensabili per la sua ripetizione.
Gli effetti della dichiarazione di nullità non si fermano qui. Si deve considerare che l’atto affetto da
nullità non vive isolato, ma in collegamento causale con altri atti del procedimento. Non si può,
inoltre trascurare l’eventualità che la dichiarazione di nullità avvenga in una fase, o in un grado,
diversi rispetto a quelli in cui essa è consumata. Ad entrambe le questioni dà risposta l’art. 185. In
particolare, è previsto che “la nullità di un atto che rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono
da quello dichiarato nullo. Un atto, dunque, di per sé valido, diventa invalido in via derivata perché
dipende da un atto nullo.
Il concetto di dipendenza va inteso in senso restrittivo, e cioè in rapporto a quegli atti necessari del
procedimento, l’uno dei quali è condizione del valido compimento dell’altro. Soccorre, al riguardo,
la distinzione tra atti propulsivi del procedimento e atti di acquisizione probatoria. Solo per i primi,
la nullità di uno comporta la nullità dei successivi, che devono essere rinnovati dal punto in cui si è
inserito l’atto invalido; per i secondi, invece, deve escludersi un’automatica propagazione della
nullità, in quanto, di regola, l’invalidità di una prova non pregiudica gli atti successivi.
Proprio alla distinzione appena riferita l’art. 185 aggancia la soluzione dell’altro problema relativo
all’ipotesi che la nullità venga dichiarata in una fase o in un grado diversi rispetto a quelli in cui
essa si è verificata: la dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato
o al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo, salvo che sia diversamente stabilito, ma questa
disposizione non si applica alle nullità concernenti le prove.

13.L’inesistenza.
La categoria dell’inesistenza scaturisce dal contemporaneo operare del principio di tassatività delle
cause di nullità e del principio della generale sanabilità delle nullità. L’operare del primo principio
rende subito palese che sarebbe tecnicamente inconcepibile, oltre che profondamente iniquo,
lasciare senza tutela imperfezioni dell’atto più gravi di quelle per le quali è prevista la nullità
assoluta.
L’operare del secondo principio rende altrettanto palese che costituirebbe una forzatura sul piano
formale, e una ingiustizia sul piano sostanziale, estendere il regime di sanatoria delle nullità
assolute agli atti che risultano viziati in maniera più grave.
Oggi i sicuri casi d’inesistenza sono pochi, anche se non è possibile immaginare tutte le situazioni
che la realtà processuale può prospettare. Due casi, di’inesistenza della sentenza sono quelli in cui
l’atto sia compiuto a non iudice o manchi del requisito psichico minimo della coscienza e volontà.
Altro caso sicuro d’inesistenza viene considerato quello in cui la sentenza sia pronunciata contro
soggetti penalmente incapaci, perché esenti dalla giurisdizione.
La categoria dell’inesistenza non è riferibile solo alla sentenza. Certo, l’inesistenza di un atto
anteriore finisce per travolgere la stessa sentenza, ma ciò non esclude che il vizio colpisca un atto

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anteriore ad essa: si pensi ad un atto che sia frutto di una volontà fisicamente coartata o sia stato
compiuto in una situazione di forza maggiore o in uno stato di piena incoscienza; ad un atto, cioè,
che non è in alcun modo riferibile all’autore apparente.

14.L’inammissibilità.
Il compimento di un atto dopo la decadenza del temine non esaurisce il terreno su cui attecchisce
l’inammissibilità. Il sistema pone altre cause d’inammissibilità legandole ora al mancati rispetto di
un requisito di forma dell’atto, ora alla mancanza di contestualità dell’atto con altro atto, ora a un
mancato adempimento successivo al compimento di un atto, ora ad un comportamento tenuto
successivamente al compimento di un atto.
L’elencazione delle cause di inammissibilità consente di rilevare una mancanza di omogeneità fra
le stesse cause a un costante riferimento di esse agli atti di parte.
Se quest’ultimo profilo non presenta problemi, essendo pacifico che l’inammissibilità colpisce solo
gli atti di parte, il profilo della non omogeneità delle cause d’inammissibilità richiede, invece, di
accertare se esso possa incidere, negandolo sul principio di tassatività. Il codice non enuncia in
modo esplicito per l’inammissibilità lo stesso principio di tassatività fissato dall’art. 173 comma 1
per la decadenza e dall’art. 177 per la nullità.
Anche per l’inammissibilità vige il principio di tassatività, dal momento che il codice aggancia la
sanzione de qua sempre a cause tipiche ben individuabili, e non lascia spazi per disinvolte
declaratorie di questa specie di invalidità.
L’esame delle norme che si occupano dell’inammissibilità consente ulteriori svolgimenti. Un dato
che possiamo subito acquisire riguarda il ruolo del giudice: l’inammissibilità è rilevabile d’ufficio; di
regola, sino al formarsi del giudicato. Diciamo “di regola”, in quanto, pur non essendo prevista
alcuna sanatoria dell’inammissibilità, il sistema anticipa a una fase anteriore al giudicato il limite
temporale per la rilevazione del vizio.
Un’ultima questione attiene alla riproponibilità o meno dell’atto colpito da declaratoria
d’inammissibilità. La dottrina è profondamente divisa circa la regola generale. Il sistema si limita a
trattare l’argomento con riferimento alla richiesta di remissione, in ordine alla quale prevede che
l’ordinanza che la rigetta o la dichiara inammissibile per manifesta infondatezza “non impedisce
che questa sia nuovamente proposta purché sia fondata su elementi nuovi”. La richiesta dichiarata
inammissibile per motivi diversi dalla manifesta infondatezza può essere sempre riproposta.

LE PROVE

Capitolo primo
LE PROVE, IL PROCEDIMENTO PROBATORIO E IL PROCESSO

1.Premessa.
Posto un thema, le prove sono gli strumenti impiegati per verificarlo secondo le regole del giusto
processo. La prova è, quindi, il mezzo di cui si avvalgono le parti e il giudice per rappresentare nel
processo un episodio compreso in un tema e ricostruito in vario modo nel corso delle indagini
preliminari. Posto un tema di prova in ordine a fatti enunciati nell’imputazione e ricostruiti nel

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corso delle indagini preliminari, saranno la perizia o la testimonianza (o qualsiasi altro mezzo) a
verificare la consistenza di questi fatti e a rappresentarli nel processo.
Questa verifica si realizza nei modi e nei tempi imposti dalla legge. È la legge, infatti, che disciplina
il procedimento probatorio, dall’ammissione all’utilizzazione del mezzo di prova.
Il procedimento probatorio ha inizio dalla necessaria posizione del tema di prova. Esso è costituito
dai fatti principali enunciati nell’imputazione. Può comprendere, però, anche la posizione di
successivi temi di prova: sono quelli riguardanti la specificazione dei fatti principali e l’indicazione
dei fatti secondari; sono quelli relativi, ad esempio, all’attendibilità della persona sottoposta ad
esame.

12.Il tema e i mezzi di prova.


Il tema di prova è disciplinato dall’art. 187. Sono, anzitutto, oggetto di prova i fatti che si
riferiscono all’imputazione. Il tema ha, perciò, una portata esclusivamente processuale. L’esplicito
riferimento all’imputazione è significativo: l’assunzione della qualità d’imputato avviene proprio
nel processo; prima dell’instaurazione del processo non vi è posto né per la specificazione dei fatti
dell’imputazione, né per la verifica di questi fatti.
La funzione del tema di prova segna un momento di rilevanza per chi è chiamato nel processo a
elaborare la prova, ma frappone soprattutto il limite costituito dai fatti dell’imputazione, al di là
del quale la verifica processuale non può andare.
Il tema di prova differisce essenzialmente dal tema d’indagine, con le variabili impresse dal pm nel
corso del procedimento, e con un’attività investigativa svolta nei confronti dell’indagato. È il
risultato dell’indagine a spiegarlo per una verifica da effettuare in contraddittorio secondo le
regole del giusto processo. L’estensione dell’operatività dell’art. 187 alle indagini preliminari
muova dall’esigenza che esse si sviluppino secondo i parametri della pertinenza e della rilevanza,
segnati appunto da uno specifico tema.

3.(Segue): la posizione del tema di prova.


La riproduzione di fatti compresi nell’imputazione (e corrispondenti alle modalità della condotta,
alle proiezioni dell’elemento psicologico e alla decifrazione dell’evento) da corpo ad un tema di
prova dalle più ampie dimensioni.
Nell’ambito di questo tema le variabili dipendono soprattutto dalla struttura della fattispecie in
concreto applicabile. È ovvio che una fattispecie a forma libera consenta adattamenti del tema di
prova inimmaginabili per la fattispecie a forma vincolata. In un caso si tratta di articolare il fatto
illecito secondo le cadenze di un processo esecutivo non descritto dalla norma; nell’altro caso si
tratta di riportare nel tema il fatto illecito di chi distrugge, disperde, deteriora o rende inservibile la
cosa altrui.
Ciò vale tanto per la posizione originaria del tema di prova quanto per le specificazioni successive:
sia per i casi in cui venga modificata l’imputazione, sia per i casi in cui l’immodificata contestazione
esiga verifiche di fatti non compresi nell’originario tema di prova. L’esemplificazione non è
difficile: contestata una fattispecie di omicidio colposo, vi sarà una modifica dell’imputazione, con
la conseguente posizione di un nuovo tema di prova, nei casi di sostituzione dell’ipotesi di colpa
per inosservanza di legge con la diversa ipotesi di colpa per imprudenza o imperizia; vi sarà
soltanto la posizione di un nuovo tema di prova, quando si dovrà procedere ad una specificazione
del rapporto causale tra condotta ed evento, ad una specificazione del rapporto causale tra
condotta ed evento, nuova perché non ancora adombrata nel corso dell’istruzione dibattimentale.

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La posizione, originaria e successiva, degli altri possibili temi di prova comprende fatti e circostanze
che non ripercorrono i risaputi itinerari dell’imputazione e che non attengono alle modalità della
condotta, alle proiezioni dell’elemento psicologico ed alla decifrazione dell’evento.

4.(Segue): la verifica del tema di prova. Le richieste di prova.


I modelli di conoscenza e di rappresentazione giudiziale del fatto differiscono in base al grado di
approssimazione fra il fatto da provare e i fatti dedotti per provarlo. Sappiamo che il tema è
ritagliato sui fatti che si riferiscono all’imputazione nella sua completa articolazione. La verifica,
chiesta dal pm, può appuntarsi anzitutto su questi fatti: può proporre una rappresentazione in via
immediata degli stessi; può mirare all’elaborazione della prova diretta.
La verifica del tema può avere a oggetto anche altri fatti che non riproducono la realtà storica
fissata nel tema e sono egualmente riconducibili a essa attraverso un’interferenza probabilistica. Si
tratta delle circostanze indizianti. La loro verifica è essenziale per avviare il discorso sulla prova
indiretta: solo dopo averlo puntualmente accertati è possibile spingere l’indagine fino a
rappresentare in via indiretta il fatto enucleato nel tema.
La richiesta di prova, nel corso del dibattimento, può servire ad argomentare sulle due situazioni. Il
discorso può assumere una spedita cadenza nel caso di prova diretta: quando il fatto
rappresentativo da dedurre con il mezzo di prova coincide, in tutto o in parte, con il fatto da
rappresentare indicato nel tema di prova. Il discorso diventa più complesso nel caso di prova
indiretta: quando il fatto rappresentativo da introdurre nel processo non è destinato a operare una
piana verifica del fatto da rappresentare, ma impone ulteriori e più approfondite valutazioni.

5.(Segue): i mezzi di prova e i mezzi di ricerca della prova.


I mezzi di prova servono alla verifica del tema di prova. Operano la verifica attraverso modalità di
assunzione prestabilite in maniera rigorosa dalla legge. E possono operarla esclusivamente nel
processo (o nel corso dell’incidente probatorio), davanti ad un giudice, nell’immediato rapporto
tra il giudice e la prova.
I mezzi di ricerca della prova hanno funzioni e strutture più complesse. Servono solo
indirettamente alla verifica del tema di prova, e nei limitati casi in cui siano impiegati per la ricerca
di cose materiali, tracce o dichiarazioni, comunque utilizzabili per la ricerca del tema di prova.
I mezzi di prova si caratterizzano per l’attitudine a offrire al giudice risultanze probatorie
differentemente utilizzabili in sede di decisione. Al contrario, i mezzi di ricerca della prova sono di
per sé fonte di convincimento, ma rendono possibile acquisire cose materiali, tracce o
dichiarazioni dotate di attitudine probatoria.
L’esame dei testimoni, della parte o del perito instaura un rapporto immediato fra il giudice e la
sua fonte di prova e serve per la verifica del tema. È proprio questo esame che forma la prova.
L’intercettazione telefonica non instaura un rapporto immediato fra il giudice e la fonte di prova;
la conoscenza del giudice del dibattimento non promana dall’intercettazione ma dalla
dichiarazione intercettata e processualizzata con le forme della perizia.

6.(Segue): i mezzi di prova atipici.


Le prove previste in modo espresso dal c.p.p. non compongono un numero chiuso: sono solo
quelle che la legge considera in astratto idonee ad assicurare l’accertamento del fatto e che
ricevono una compiuta regolamentazione in ordine alle modalità di assunzione e ai limiti di
utilizzazione. Accanto alle prove previste in modo espresso dal codice sono da annoverare le prove
innominate o atipiche: prove, cioè, non contenute nel catalogo codicistico e non disciplinate

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normativamente. Di esse va misurata l’idoneità all’accertamento e ne vanno sperimentate
specifiche modalità d’assunzione. Sono prove atipiche l’individuazione fotografica e le riprese
video filmate.
Sua questa piattaforma va intessuta la trama dell’ammissibilità dei mezzi atipici di prova e dei
mezzi atipici di ricerca della prova. Di questa prova deve essere vagliata l’ammissibilità ex ante, nel
momento della richiesta del mezzo di prova o del mezzo di ricerca della prova. La prova, in quanto
atipica, deve essere ammessa come tale.
-Queste forme garantiscono effettivamente le esigenze del processo e il diritto delle parti?
 Il giudice può assumere la prova atipica se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei
fatti. Il procedimento probatorio comprende, perciò, una fase non presa in considerazione per
l’acquisizione delle prove espressamente previste dalla legge. E ne sono evidenti le ragioni. Per
le prove tipiche la funzionalità all’accertamento dei fatti è scontata: costituisce la ratio essendi
della previsione normativa. Per le prove atipiche l’astratta idoneità alla rappresentazione dei
fatti è tutta da appurare e va delibata nel processo, prima ancora di postularne la concreta
adeguatezza con riferimento al puntuale tema posto dalle parti o proposto dal giudice.
Importante è la prescrizione contenuta nell’art. 189 volta a vietare l’impiego di strumenti idonei a
piegare la capacità di autodeterminazione dei soggetti fonte di informazione nel processo: “il
giudice può assumere la prova se non pregiudica la libertà morale della persona”. Sempre a norma
dell’art. 189 “il giudice deve sentire le parti sulle modalità di assunzione della prova”. Se le parti
non hanno alcuna voce in capitolo sulle modalità di acquisizione delle prove tipiche debbono
averla in relazione alla prova atipica. È la stessa richiesta della prova atipica a fare della parte il
soggetto più adatto a fornire utili indicazioni circa il modo di introdurla nel processo.

7.La prova decisiva e la controprova.


La prova è decisiva quando, nella verifica del tema, mira ad introdurre fatti rappresentativi idonei a
colmare le lacune della complessiva rappresentazione e a determinare le definitive scelte del
giudicante. La decisività va colta ex ante, sulla base delle acquisizioni raggiunte e in vista dei
risultati ipotizzati dalla deduzione delle parti.
Art. 422: “il giudice può disporre, anche d’ufficio, l’assunzione delle prove delle quali appare
evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere”. In questi casi la decisività
vale a sorreggere le scelte informate al favor innocente. Mutuando una deduzione della parte o
un’autonomia scelta del giudice, l’acquisizione della prova può consentire:
- una definizione immediata del processo, nel caso in cui la prova a discarico sia tale da
determinare una pronuncia di non luogo a procedere;
- il rinvio a giudizio nei casi in cui la “prognosi” venga sconfessata dal risultato probatorio.
Diverso il discorso in ordine alla cosiddetta controprova. Dedotto un fatto a sostegno della
richiesta del mezzo di prova, la possibilità di controdedurre sono legate all’ammissibilità della
controprova. Questa disciplina punta sulla deduzione probatoria di una parte e regola le possibilità
d’intervento dell’altra parte su una deduzione di segno diametralmente opposto.
Si tratta più semplicemente di ripristinare la par condicio compromesso dalla priorità d’intervento
di una delle parti. Tale esigenza:
 è avvertita con riferimento a tutte le parti del processo, sia le necessarie che le eventuali;
 non è coordinata dall’omogeneità dei mezzi di prova dedotti dalle parti contrapposte;
 non è circoscritta alla negazione del medesimo fatto, dedotto dalla controparte, potendo
riguardare solo indirettamente tale fatto;
 sfugge, però, agli automatismi di un’acquisizione sempre e in ogni caso dovuta.
106
Il codice accenna alla controprova nella disposizione in cui il presidente autorizza la citazione dei
testimoni, periti e consulenti tecnici, non compresi nella lista (art. 468 comma 4) e nella
disposizione in cui il giudice ammette le prove a carico e a discarico sui fatti costituenti oggetto
della prova a discarico o a carico ( art. 495 comma 2). In base alla prima disposizione, la possibilità
della citazione a prova contraria è riconosciuta a tutte le parti del processo, sia alle parti del
processo, sia alle parti principali sia alle parti eventuali. In base alla seconda disposizione, il diritto
all’ammissione della prova contraria è riconosciuto soltanto all’imputato e al pm.

8.Il diritto della prova.


Art. 24 comma 2 Cost.: “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.
Art. 111 comma 4 Cost.: “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella
formazione della prova”.
Art. 6 Cedu: riconosce il diritto dell’accusato ad “interrogare o a fare interrogare i testimoni a
carico ed ottenere la convocazione e l’interrogatorio dei testimoni a discarico, nelle stesse
condizioni dei testimoni a carico.
Nell’attuale impianto normativo può parlarsi di diritto alla prova in un triplice senso.
1)Può parlarsene con riferimento al diritto all’ammissione del mezzo di prova. La regola fissata
dall’art. 190: “le prove sono ammesse a richiesta di parte. Il giudice provvede senza ritardo con
ordinanza, escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o
irrilevanti”.
2)Del diritto alla prova può parlarsi con riferimento al diritto sul mezzo di prova, ossia alla
potenziale rappresentazione che esso consente. Può parlarsene, così, in relazione al potere di
domanda e di contestazione nel corso dell’esame incrociato. Questa tecnica sembra la più idonea
a far esprimere al mezzo di prova ogni riposta capacità di rappresentazione. Dà corpo al
contraddittorio e attraverso la successione delle domande e delle contestazioni può realizzare nel
modo più compiuto la verifica del tema.
3)Di diritto alla prova può, infine, parlarsi con riferimento alla corretta elaborazione probatoria. Le
parti possono esercitarlo, facendosi sentire dal giudice del dibattimento, proponendo eccezioni,
avanzando opposizioni e formulando rinunce. Il modello accusatorio esalta il potere delle parti in
punto di prova e affida alle stesse parti il compito di controllare ogni fase dell’elaborazione
probatoria.
Considerando le diverse ipotesi:
a) l’interpello consente l’intervento delle parti e può fornire al giudice rilevanti elementi per
l’ordinanza sull’ammissione della prova. I casi di interpello sono espressamente previsti dalla
legge, le parti devono essere sentite prima che il giudice si pronunci sull’ammissione delle prove
richieste nel pre- battimento; devono esser sentite prima che il giudice si pronunci sull’ammissione
delle prove precedentemente escluse, sia sulla revoca dell’ordinanza relativa all’ammissione delle
prove che l’istruzione dibattimentale ha dimostrato ormai superflue.
b) il potere di eccezione appartiene alle parti del contraddittorio ed un’indiretta espressione del
diritto alla prova. Con la sua eccezione la parte cerca di fissare, fin dagli atti introduttivi e poi nel
corso dell’istruzione dibattimentale, una piattaforma probatoria che non comprenda
l’elaborazione di un determinato mezzo di prova.
c) l’opposizione inerisce al meccanismo della cross- examination e mira a esprimere il dissenso di
una delle parti del contraddittorio in merito ai contenuti delle domande e delle contestazioni
formulate dall’altra parte. Mentre l’interpello e l’eccezione rilevano nel settore dell’ammissibilità
della prova, l’opposizione funziona in un momento successivo, quando importa vagliare il processo

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di formazione della prova. Sulle opposizioni formulate nel corso dell’esame dei testimoni, dei
periti, dei consulenti tecnici e delle parti private il presidente decide immediatamente e senza
formalità.
d) la rinuncia all’assunzione della prova già ammessa può avvenire solo con il consenso della parte
che non ha richiesto l’acquisizione della prova.

9. Il contraddittorio per la prova.


L’art. 111 comma 4 Cost. pone il contraddittorio per la formazione della prova quale principio
fondante del processo penale. La partecipazione contemporanea e contrapposta delle parti
avviene nel momento in cui, posto il tema di prova, deve procedersi alla sua verifica: avviene nel
corso dell’incidente probatorio, durante l’udienza preliminare e nella fase del dibattimento.
È il contraddittorio per una prova che deve essere progressivamente formata attraverso i
contrapposti interventi delle parti con un giudice che, nell’immediato rapporto con le fonti di
prova, è in grado di controllare le forme del contraddittorio e di apprezzarne a pieno i contenuti.
La deposizione che il teste rende davanti al giudice e l’informazione che la persona in grado di
riferire circostanze utili ai fini delle indagini rende al pm, alla polizia giudiziaria o al difensore
differiscono riguardo alla forma delle rispettive acquisizioni. È la diversa tecnica
dell’approvvigionamento informativo che rende non equiparabili i relativi risultati. La
testimonianza è elaborata attraverso l’esame e il controesame; con una forma che esalta i valori
del contraddittorio; di un contraddittorio impiegato per elaborare la prova, con la garanzia del
giudice. Le informazioni vengono assunte dal pm e dal difensore senza l’intervento dell’altra parte
e al di fuori di ogni controllo giurisdizionale.
È bene ricordare:
a) che le parti possono concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento dell’atto delle
indagini preliminari e della documentazione relativa all’attività investigativa della difesa. In questi
casi sono le stesse parti a ridurre consensualmente gli spazi del contraddittorio per la prova,
schiudendo la via alla lettura dibattimentale di atti, altrimenti inutilizzabili come prova.
b) che l’atto delle indagini preliminari non è normalmente prova ma può servire alla prova.
L’inutilizzabilità come prova delle acquisizioni della fase preliminare non ne implica la loro totale
dispersione ai fini della prova.
c) che è proprio la tecnica dell’esame dei testimoni e delle parti private a dare il giusto risalto
all’atto delle indagini preliminari. Sono le acquisizioni preliminari che possono spingere a
pertinenti domande durante l’esame diretto. Sono queste acquisizioni che possono propiziare la
tenuta degli accertamenti preliminari di fronte al prevedibile controesame del dibattimento. Sono
ancora queste acquisizioni che possono fornire gli argomenti salienti per la verifica dibattimentale
della controprova. Sono, infine, queste acquisizioni che possono permettere nel dibattimento
puntuali contestazioni nei confronti del testimone o della parte.
d) che il silenzio mantenuto dal testimone o la rilevazione della persistente difformità fra le due
dichiarazioni non può determinare l’automatica acquisizione nel fascicolo per il dibattimento
dell’atto delle indagini preliminari.
Le successive specificazioni della norma costituzionale (art. 111 comma 4) sgamano i temi connessi
al silenzio e alla facoltà di non rispondere e circoscrivono i casi entro i quali il legislatore ordinario
può disciplinare la formazione della prova senza contraddittorio.
Insuperabili restano alcuni limiti. Il primo è che “la colpevolezza dell’imputato non può essere
provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente
sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”.

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L’altro limite attiene alle eventuali deroghe al principio del contraddittorio nella formazione della
prova: esse devono essere disciplinate dal legislatore ordinario seguendo alcune tassative
indicazioni. Spetta alla legge regolare “i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in
contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per
effetto di provata condotta illecita”.

10.I limiti del diritto alla prova e al contraddittorio per la prova.


Sia il diritto alla prova, sia quello al contraddittorio per la prova, incontrano qualche limitazione
nella trama codicistica.
Ai sensi dell’art. 190- bis: il diritto alla prova subisce una rilevante limitazione. Fra la prova
acquisita attraverso l’atto scritto e quella da elaborare al dibattimento il codice predilige la prima.
Quando è richiesto l’esame di un testimone o di una persona imputata in un procedimento
connesso e questi hanno già reso una o più dichiarazioni l’esame è ammesso in particolari
circostanze: se riguarda fatti e circostanze non compresi nelle precedenti dichiarazioni o se è
necessario sulla base di specifiche esigenze. La stessa regola vale oggi anche con riferimento
all’esame del testimone, minore degli anni 16, nei procedimenti per i reati indicati all’art. 190- bis
comma 1.
A base di questa scelta legislativa vi è il timore dell’erosione di una prova, già elaborata in
contraddittorio, e da rielaborare in nuove esperienze processuali, attraverso sempre più complicati
esami e controesami.
In parte diversa la ratio che estende il limite di cui all’art. 190- bis all’esame del testimone
infrasedicenne: qui la regola è volta a fronteggiare il rischio di un’usura psicologica collegata alla
reiterata deposizione sugli stessi fatti.
In base al testo originario dell’art. 238 l’acquisizione delle prove formate negli altri processi penali
poteva avvenire a condizione che vi fosse il consenso delle parti: era sempre necessario l’incontro
delle parti. In mancanza del loro consenso le alternative possibili erano le seguenti: non acquisire i
verbali o acquisire la prova ex novo, in modo diretto, con le forme del contraddittorio.
Successive innovazioni normative hanno trasformato questo impianto. L’acquisizione della prova
non è più subordinata al consenso delle parti. Le parti possono chiederne la riassunzione.
Esercitano il diritto alla prova. E non possono ovviamente opporsi all’acquisizione della prova se
elaborata in un incidente probatorio o nel dibattimento.
Ancorata al consenso delle parti, vi è solo un modo per garantire il contraddittorio per la prova.
Basta circoscrivere l’utilizzabilità contro l’imputato dei verbali di dichiarazioni ai soli casi in cui
l’imputato (o il suo difensore) hanno partecipato all’assunzione della prova. È comunque ammessa
l’acquisizione della documentazione di atti che non sono ripetibili per impossibilità di natura
oggettiva, che dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento dell’atto.

11.Il procedimento probatorio: l’ammissione della prova.


Art. 190: “le prove sono ammesse a richiesta della parte. Il giudice provvede senza ritardo con
ordinanza, escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o
irrilevanti”. Il codice circoscrive, in modo notevole, l’area delle possibili valutazioni preliminari
affidate all’organo giurisdizionale chiamato a deliberare l’ammissione delle prove richiesta dalle
parti. Per ammettere la prova il giudice deve limitarsi a una verifica in chiave negativa:
a) circa la legalità della prova richiesta: in un sistema che mostra di non volersi riconoscere nel
principio di tassatività della prova possono ritenersi inammissibili solo le prove espressamente
vietate.

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b) in merito all’utilità della prova richiesta: sono inammissibili le prove manifestamente
superflue. La prova è superflua quando verte sullo stesso oggetto di altra prova da acquisire in
contraddittorio.
c) Con riferimento alla rilevanza della prova richiesta: sono inammissibili le prove
manifestamente irrilevanti. La prova è inammissibile quando è estranea all’oggetto del
processo.
L’ipotesi della reintroduzione della quaestio per un riesame della legalità della prova richiesta è la
più semplice. In questi casi si tratta solo di correggere un provvedimento di ammissione viziato fin
dall’origine essendo stata ammessa una prova vietata dalla legge.
Le altre due ipotesi sono più complesse. Si tratta di verificare la preesistente utilità o rilevanza di
una prova, alla stregua delle sopravvenute acquisizioni dell’istruzione dibattimentale. Può darsi,
infatti, che gli sviluppo di questa istruzione rendano manifestamente inutile o irrilevante la prova
precedentemente ammessa. Una condizione va, però rispettata: nessuna revoca è possibile se le
parti non sono previamente sentite.
Art. 495 comma 2: “l’imputato ha diritto all’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti
costituenti oggetto della prova a carico; lo stesso diritto spetta al pm in ordine alle prove a carico
dell’imputato sui fatti costituenti oggetto della prova a discarico”. Indubbia è l’inammissibilità della
controprova illegale. Non è, poi, controprova, perché non è coordinata al fatto oggetto della prova
a carico o discarico, la controprova irrilevante. È difficile ipotizzare una controprova superflua:
appurata la non manifesta superfluità della prova a carico o a discarico non deve procedersi a
ulteriori valutazioni per l’ammissione della controprova. Acquisirla è un atto dovuto per il giudice
che procede e un diritto per la parte che ne ha fatto richiesta.

12.(Segue): l’acquisizione de plano della prova documentale.


Può darsi che l’acquisizione della prova non sia preceduta da un formale provvedimento di
ammissione; che avvenga de plano, con un atto che esclude ogni sorta di preclusione sulla prova
acquisita. L’ipotesi rinvia la possibile quaestio sull’ammissibilità della prova a un secondo
momento, e sempre che le parti intendano contestare l’acquisizione di detta prova.
Si può scomporre questa situazione in tre fasi:
1) La prima fase comprende il deposito, la produzione o la trasmissione di cose, documenti o
verbali: l’acquisizione del plano delle cose,dei documenti o dei verbali im0plica la valutazione
positiva in ordine all’ammissibilità della prova.
2) La seconda fase è eventuale ed è profilabile nel caso in cui sorga una quaestio sull’ammissibilità
della prova depositata, prodotta o trasmessa. La quaestio si inserisce dopo l’introduzione nel
processo di cose, documenti e verbali e prima della loro utilizzazione.
3) La terza fase è contrassegnata dall’ordinanza con la quale è decisa l’acquisizione della prova:
un’ordinanza che è differita rispetto al momento in cui è avvenuto un determinato deposito o una
particolare produzione, ma che è precedente all’utilizzazione della prova.

13.(Segue): le possibili variabili all’elaborazione della prova orale rappresentativa.


È necessario fissare alcuni punti fermi del procedimento probatorio per i casi di allegazione
dell’atto delle indagini preliminari e di acquisizione dei verbali di altri procedimenti.
A) L’atto delle indagini preliminari può trasmigrare dal fascicolo del pm al fascicolo del
dibattimento solo eccezionalmente, nei casi relativi alle ipotesi di violenza, minaccia o
subornazione al teste, o in base all’accordo delle parti; nei casi di sopravvenuta impossibilità di

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ripetizione degli atti; nelle situazioni di dichiarazione resa da persona residente all’estero e
solo nel caso di assoluta impossibilità di procedere al suo esame dibattimentale.
B) L’eventuale introduzione dei verbali di prove di altro procedimento penale non condiziona il
diritto alla prova. Resta ferma il diritto delle parti di ottenere l’esame delle persone di cui
vengono acquisite le dichiarazioni. Questa la sequenza: la parte deve innanzitutto chiedere
l’acquisizione del verbale della dichiarazione resa in altro procedimento; se si tratta di verbali
di dichiarazioni di persone delle quali la stessa parte o altra parte chiede la citazione, questa è
autorizzata solo dopo che in dibattimento il giudice ha ammesso l’esame.

14.I fatti notori, le massime d’esperienza e i fatti pacifici.


Fatto notorio è un fatto che appartiene al normale patrimonio di conoscenze di una
determinata cerchia sociale in un dato tempo e in un dato luogo, e che può essere conosciuto
nella sua distinta identità storica, dal giudice senza la necessità di uno specifico accertamento .
Affermato da una parte e non contestato dall’altra parte, il fatto notorio esclude la necessità di
ulteriori verifiche in punto di prova: notoria non egent probatione e ciò è possibile perché le parti
mutuano un’acquisizione del fatto che appartiene alla collettività. Il fatto notorio non impone un
tema probandum, per la scontata valenza probatoria del fatto affermati, e non impone
l’ammissione del mezzo di prova, per la superfluità di verifiche non consentite dall’art. 190. La
pratica del processo di parti considera notorio solo il fatto assunto dalla collettività con tale grado
di certezza da apparire indubitabile e incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto della
mera conoscenza del singolo giudice.
Questi i ricorrenti esempi di fatto notorio: un terremoto, un’alluvione; le festività del Santo
patrono, la svalutazione monetaria, ecc. Di fronte a questi fatti non residuano plausibili spazi per
una specifica elaborazione probatoria.
Massime d’esperienze si configurano come regole ipotetiche formulate per astrazione e
generalizzazione sulla base di una ripetuta esperienza, ma autonome rispetto ai casi dalla cui
osservazione sono state dedotte, e oltre i quali dovranno valere per nuovi casi. Il discorso sulle
massime d’esperienza muove da una premessa: che sia stata già raggiunta la prova in ordine ad un
fatto; punta sull’ipotesi dell’implicazione fra questo fatto (già provato) e un altro fatto (la cui
esistenza si da per scontata); si esaurisce nel giudizio circa la sicura prova dei due fatti. Se la
relazione dei due fatti è tale che il primo segua necessariamente il secondo, la prova dell’uno
implica che esista l’altro.
Fatto pacifico nella pratica del processo civile i fatti allegati da una delle parti, quando siano
riconosciuti dall’altra parte, possono essere considerati pacifici e tali da non richiedere una prova
specifica. Possono ritenersi pacifici i fatti allegati dalla parte quando essi siano stati ammessi
esplicitamente dall’altra parte, oppure quando questa non li abbia espressamente contestati,
ammettendone implicitamente l’esistenza.
Fatto pacifico non è sinonimo di valutazione pacifica e non controversa dell’episodio sottoposto
all’attenzione del giudice. Non lo è sicuramente nel caso di giudizio abbreviato: la valutazione o la
qualificazione del fatto restano impregiudicate.
La legge assegna al consenso una duplice funzione: il consenso serve certamente a cristallizzare il
fatto nelle dimensioni fissate dalle indagini preliminari e rende pacifico il fatto ricostruito dalla
polizia giudiziaria e dal pm; ma il consenso determina anche un accordo su l merito
dell’imputazione, sulla qualificazione del fatto e sulla comparazione fra le circostanze.

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15.L’onore dell’allegazione e l’onere della prova.
Onere dell’allegazione onere che incombe in primo luogo sul protagonista di diritto sostanziale,
sull’imputato, portatore di un particolare interesse e con le maggiori possibilità di disporre dei fatti
rappresentativi a sé sfavorevoli.
Onere della prova se ne parla con riferimento alle possibili iniziative della parte nel pre-
dibattimento.
Onere di allegazione e onere della prova si risolvono, nella fase saliente del procedimento
probatorio, nella posizione del tema di prova e nella successiva sua verifica.
Dopo questa premessa è bene ricordare:
 Che l’onere della prova può incombere sull’imputato e non sull’indagato, in quanto la prova
può essere elaborata nel corso del processo. L’onere della delegazione può incombere oltre
che sull’imputato anche sull’indagato. L’informazione dell’indagato serve a trasferire agli
organo che svolgono l’indagine preliminare un patrimonio di conoscenze a disposizione del
privato. Serve esclusivamente a questo e può ovviamente comprendere gli elementi favorevoli
all’indagato ancora non acquisiti.
 L’onere dell’allegazione e l’onere della prova sono incompleti. La posizione del tema di prova e
l’acquisizione della prova possono avvenire ex officio, prescindendo dall’eventuale allegazione
o dalla possibile richiesta probatoria della parte.
 L’onere della prova è un onere esclusivamente formale. Non fissa alcuna regola di giudizio,
improntata al rischio della prova mancata.

16.L’inutilizzabilità della prova.


Secondo le scansioni del procedimento probatorio la prova, una volta ammessa, viene acquisita.
L’acquisizione rende normalmente utilizzabile la prova introdotta nel processo; le delibazioni in
merito all’ammissibilità della prova e alla revocabilità della prova già ammessa permettono di
solito una corretta utilizzazione della prova. È possibile che nonostante queste attente verifiche
(preliminari o successive), venga ugualmente acquisita una prova in violazione dei divieti stabiliti
dalla legge. In questi casi la prova è inutilizzabile, in tutto o in parte; deve cioè essere esclusa
dall’ottica del giudizio, ma può magari essere valorizzata ai più limitati fini delle contestazioni nel
corso dell’esame delle parti e dei testimoni.
Art. 191: “l’inutilizzabilità può colpire tanto i mezzi di prova quanto i mezzi di ricerca della prova”.
Perché tale sanzione processuale possa operare occorre che un divieto di acquisire la prova
effettivamente sussista e che l’avvenuta acquisizione dimostri la violazione di questo divieto. Il
mancato funzionamento della regola di esclusione della prova rende non utilizzabile.
Si tengano presenti alcuni punti:
 Non sempre il codice enuncia in modo esplicito l’esistenza del divieto. Le norme possono
contenere un’espressa previsione di questo divieto (art. 197: “non possono essere assunti
come testimoni i coimputati del medesimo reato o le persone imputate in un procedimento
connesso”; art. 220: “non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità
nel reato”), oppure possono fissare il divieto in forma indiretta, attraverso l’indicazione delle
tassative situazioni che consentono di utilizzare la prova ( art. 238 comma 4: “al di fuori dei
casi previsti dai commi 1,2, 2-bis, 3, i verbali di dichiarazioni possono essere utilizzati nel
dibattimento soltanto nei confronti dell’imputato che vi consenta”).
 L’ampia previsione dell’art. 191 non autorizza limitazioni di sorta in ordine alla tipologia dei
divieti. Rientrano nella categoria delle prove sanzionate dell’inutilizzabilità quelle formate o
acquisite in violazione dei diritti soggettivi, tutelati in modo specifico dalla Costituzione.
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 L’esistenza del divieto può dipendere dalla stessa separazione delle due fasi delle indagini
preliminari e del dibattimento. Questa la regola: un atto delle indagini preliminari non può
essere utilizzato quale prova nel dibattimento. Si tratta di una vera e propria regola di
esclusione dalle ampie dimensioni, collegata alle matrici accusatorie del processo. Il codice la
fissa nella normativa concernente al doppio fascicolo: mentre nel fascicolo per il dibattimento
vanno inseriti solo gli atti che il giudice potrà utilizzare ai fini della decisione, nel fascicolo del
pm vanno, invece, inseriti tutti gli atti delle indagini preliminari, pure se non utilizzati ai fini
della decisione, e a disposizione delle parti per l’uso che potranno farne nel corso
dell’istruzione dibattimentale.
 La violazione del divieto di acquisizione della prova determina l’invalidità dell’elaborazione
probatoria, sanzionata con la rilevazione dell’inutilizzabilità della prova. L’inutilizzabilità può
essere, perciò, configurata come una sanzione tipica del procedimento probatorio.
 L’inutilizzabilità, come sanzione tipica del procedimento probatorio, non può essere posta in
forse dell’esigenza, tante volte conclamata, della ricerca della verità reale. Anche se, nel caso
concreto, la prova dovesse risultare decisiva, il divieto di acquisirla la renderebbe ugualmente
inutilizzabile.

17.Le deviazioni dal sistema: i poteri ex officio nella posizione del tema di prova e
nell’ammissione dei mezzi di prova.
Il tema di prova viene normalmente posto dalle parti; ma può anche essere posto alle parti dal
giudice dell’udienza preliminare, dal giudice monocratico o dal presidente del collegio. In queste
situazioni a dare una svolta alla regiudicanda provvede il giudice con l’indicazione di temi nuovi o
più ampi, utili per la completezza dell’esame.
Di un potere ex officio nell’assunzione dei mezzi di prova si parla con riferimento alle ipotesi in cui,
terminata l’acquisizione delle prove, risulta assolutamente necessario disporre l’assunzione di
nuovi mezzi di prova.
Si tratta di un potere soltanto integrativo da coordinare con l’onere incompleto spettante alle
parti, o si è in presenza di un vero e proprio potere suppletivo, da esercitare anche nei casi di
assoluta inerzia delle parti?
- L’ipotesi del potere integrativo è stata soppiantata da un orientamento giurisprudenziale di
segno diverso. Secondo l’art. 507 “il giudice può intervenire ex officio terminata l’acquisizione
delle prove”. L’acquisizione delle prove nel corso dell’istruzione dibattimentale sarebbe, perciò, il
presupposto del potere attribuito al giudice. Solo l’elaborazione della prova legittimerebbe
l’iniziativa del giudice del dibattimento. Secondo la giurisprudenza meno recente, una volta
conclusa la verifica a opera delle parti sarebbe stato possibile l’intervento del giudice per integrare
il contraddittorio; nell’intento, cioè, di colmare gli spazi insufficientemente esplorati o di
sviluppare i temi di indagine affiorati nel corso dell’esame diretto dei testimoni e delle parti. Con
due ben precisi limiti: l’integrazione avrebbe dovuto essere assolutamente necessaria e perciò
decisiva in base alle prove già acquisite e poteva avvenire soltanto con l’assunzione di mezzi di
prova, non disposti in precedenza, e perciò nuovi.
- L’ipotesi del potere suppletivo muove da altre premesse perché non considera l’iniziativa ex
officio del giudice del dibattimento residuale rispetto all’attività delle part, o eccezionale in ordine
alle situazioni ancora da verificare. Questa seconda ipotesi:
a) esclude che l’effettiva acquisizione delle prove a opera delle parti sia un presupposto del potere
istruttorio del giudice. Secondo le Sezioni unite l’art. 507 si preoccupa solo di indicare il momento
iniziale per l’esercizio di tale potere e non di fissarne un presupposto.

113
b) tende a valorizzare gli atti comunque a disposizione del giudice penale, onde trarre dagli stessi
le indispensabili indicazioni per l’assunzione dei nuovi mezzi di prova. La rilevabilità ex actis del
mezzo di prova da assumere diventa la sola condizione imposta all’iniziativa del giudice. Una
condizione che serve almeno a evitare incontrollabili iniziative giudiziarie. Al giudice, in buona
sostanza, non è dato avvalersi dell’art. 507 per verificare sola una propria ipotesi ricostruttiva sulla
base dei mezzi di prova non dotati di concludenza. Il valore dimostrativo della prova da assumere
deve invece imporsi con evidenza.
c) ripercorrere gli itinerari della ricerca della verità reale, in base ad una direttiva della legge delega
che attribuisce al presidente il potere di indicare alle parti temi nuovi o incompleti utili alla ricerca
della verità, e al giudice il potere di disporre l’assunzione di mezzi di prova.

18.(Segue): dal superamento delle regole di esclusione della prova al ripristino della disciplina
originaria.
La legge delega (nella direttiva n. 76) e il c.p.p. (nell’art. 500 comma 3) prevedevano una
particolare regola di esclusione della prova, con riferimento agli atti utilizzati per le contestazioni
nel corso dell’esame dei testimoni e delle parti. La legge delega prevedeva il divieto di acquisizione
probatoria dell’atto delle indagini preliminari fissando le tassative ipotesi di utilizzabilità dell’atto.
Il codice prevedeva il divieto in forma diretta, puntando su una precisa regola di esclusione: la
dichiarazione utilizzata per la contestazione non può costituire prova dei fatti in essa affermati. E
tale specifico divieto era l’espressione di un più generale divieto, afferente a tutti gli atti delle
indagini preliminari e legato alla disciplina del doppio fascicolo.
Accanto a queste regole il testo originario del codice ipotizzava alcune eccezioni. L’atto delle
indagini preliminari poteva essere acquisito al fascicolo per il dibattimento, e costituire quindi
prova, in particolari situazioni dell’atto irripetibile, dell’atto garantito o dell’atto assunto in
determinate circostanze di tempo e di luogo. In queste ipotesi erano proprie le peculiari
caratteristiche dell’atto a legittimarne l’acquisizione nel fascicolo per il dibattimento:
a) l’impossibilità di ripetere l’atto delle indagini preliminari finiva per renderne inevitabile
l’utilizzazione nel dibattimento;
b) l’intervento della difesa nell’atto delle indagini preliminari serviva ad anticipare una garanzia
propria del dibattimento;
c) le circostanze fissate dal vecchio art. 500 comma 4 conferivano all’atto una spiccata potenzialità
probatoria.
Le eccezioni alla regola di esclusione della prova non erano giustificate, esse troveranno la loro
possibile spiegazione in situazioni destinate o adeguate a ridurre lo scarto fra l’atto delle indagini
preliminari e la prova.
Con la sentenza 255/1992 la Corte costituzionale rovesciò questo rapporto regola- eccezioni. La
separazione fra le due fasi delle indagini preliminari e del dibattimento fu calibrata dal principio di
non dispersione dei mezzi di prova. Un principio di cui non vi è traccia nella Costituzione e che la
Corte estrasse per amplificazione proprio dalle deroghe sopra enunciate. Di qui un vera e propria
trasformazione del sistema.
La normativa del giusto processo ripropone l’impianto originario del codice; ripristina le regole di
esclusione della prova; riduce drasticamente le ipotesi di precostituzione della prova attraverso
l’acquisizione dell’atto delle indagini preliminari.

114
19.La prova come risultato probatorio: la prova diretta e gli indizi.
Quando si dice che il giudice non ha raggiunto, oppure ha raggiunto, la prova sul fatto oggetto
dell’imputazione facciamo riferimento a situazioni diverse, filtrate dai differenti modelli di
conoscenza e rappresentazione giudiziale del fatto. Si tratta delle prove dirette e delle prove
indirette.
Diretta prova che pertiene al fatto- reato e consente la conclusione sulla sussistenza o
insussistenza di tale fatto.
Indiretta la prova che attiene a un fatto diverso da quello oggetto di prova e, se isolato, non
determina alcuna premessa rilevante ai fini della decisione.
Una prova diretta per eccellenza è quella relativa al reato commesso in udienza. La percepisce lo
stesso giudice del dibattimento registrando un episodio avvenuto in sua presenza. In questi casi vi
è una perfetta coincidenza fra il fatto e la prova, intesa quale risultato conosciuto e apprezzato dal
giudice. È diretta la prova se il tema e il mezzo di prova si riferiscono alla stesso fatto principale
oggetto dell’imputazione. Può parlarsi, perciò, di prova diretta nel caso in cui il tema enuclei
l’intero capo d’imputazione e il mezzo di prova si incarichi di rappresentare questo fatto. Ma può
parlarsi di prova diretta anche nel caso in cui il tema riproduca solo in parte il capo d’imputazione:
nell’ipotesi in cui riproduca il fatto principale, in qualcuno dei suoi elementi specifici, ed il mezzo di
prova si impegni a rappresentare questa più ridotta realtà.
Nella prova indiretta l’accertamento approda alla rappresentazione di un fatto diverso da quello
specificamente enucleato nel capo d’imputazione. La prova non coincide con la conoscenza
giudiziale del fatto principale, in ognuno o in qualcuno dei suoi elementi, ma attiene a un fatto
secondario dal quale dovrebbe dedursi la prova del fatto principale, in ognuno o in qualcuno dei
suoi elementi. La prova indiretta si appunta su una circostanza indiziante e si avvale di un
procedimento critico . è questo il motivo per cui possiamo classificare la prova indiretta come
indizio o come prova critica.
Questa operazione logica è possibile nel solo caso in cui gli indizi siano gravi, precisi e concordanti.
La formula intende anzitutto ribadire che se l’indizio è isolato non può assumere significativa
rilevanza ai fini della decisione. La pluralità del indizi costituisce l’indispensabile premessa per la
verifica del fatto oggetto dell’imputazione. E si deve trattare di effettiva pluralità di indizi e non di
indizi combinati fra di loro secondo un doppio o triplo passaggio inferenziale. È questo il caso
dell’indizio mediato; dell’indizio, cioè, che discende da un altro indizio.
Gravita degli indizi può darsi che il tema di prova abbia per oggetto la stessa circostanza
indiziante, grave perché consistente ai fini del complessivo accertamento; e può darsi che la
circostanza sia dotata di una rilevante contiguità logica con il fatto ignoto. In questi casi sarà la
verifica del tema a convalidare l’indizio . può anche darsi che il tema di prova abbia per oggetto il
fatto dell’imputazione, in ognuno o in qualcuno dei suoi elementi. In questi casi, saranno proprio le
variabili dell’elaborazione probatoria a fare emergere l’indizio nella sua consistente portata e in
tutta la sua gravità.
Precisione degli indizi è sufficiente che l’inferenza avvenga alla stregua di un canone di
probabilità, con riferimento alla connessione verosimile degli accadimenti, la cui normale
sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza.
Concordanza degli indizi la pluralità degli indizi non basta; è una premessa indispensabile del
processo indiziario ma non è ancora sufficiente. Per la compiuta verifica del fatto occorre che fra
gli indizi si stabilisca un collegamento non occasionale e occorre, soprattutto, che l’operazione
logica della coordinazione globale degli indizi nasca dallo loro oggettiva confluenza in un’unica

115
direzione. È necessario che gli indizi si muovano nella stessa direzione; siano logicamente dello
stesso segno.
Pluralità e concordanza degli indizi sono un connotato essenziale della prova indiziaria; implicano
una preventiva analisi di ogni singolo, decifrato nella sua gravità e nella sua precisione, e
comportano una successiva sintesi di tutti questi indizi, da raffrontare e armonizzare in un’unica
direzione.

20.(Segue): la prova complessa.


Nella prova complessa è la stessa legge ad abbinare più temi in funzione di verifiche differenziate.
È ciò che avviene per la prova testimoniale: nell’elaborazione di questa prova importa non solo la
verifica del fatto da rappresentare ma anche la verifica dell’attendibilità di chi è chiamato a
rappresentarlo.
Di prova complessa può parlarsi in altri due casi:
A) le dichiarazioni rese dal coimputato non sono da sole sufficienti a provare il fatto altrui;
neppure se constanti, specifiche e coerenti. L’attendibilità intrinseca non basta. Per completare la
prova è indispensabile coordinare gli elementi di prova, relativi ai contenuti della chiamata in
correità, con altri elementi di prova, estrinseci a questa chiamata, e necessari per confermare
l’attendibilità del dichiarante ( art. 192 comma 3).
B) le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pm, in precedenza rese dal testimone e utilizzate per
la contestazione, sono valutate come prova dei fatti in esse affermati quando vi sono elementi
concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa
di denaro o di altra utilità, affinché non deponga o deponga il falso.
Questi i due temi di prova: il tema sui fatti principali dell’imputazione e il tema sui fatti secondari,
relativi alle ipotesi di minacce et coetera, finalizzate alla subornazione. Le verifica del primo tema
avviene attraverso l’esame, il controesame e l’eventuale contestazione delle dichiarazioni prece
demente rese. La verifica del secondo tema avviene selezionando talune circostanze emerse al
dibattimento o tramite la procedura incidentale. Da queste due acquisizioni scaturisce un risultato
probatorio: costituito dalle dichiarazioni delle indagini preliminari e dalle circostanze emerse al
dibattimento, nel corso dell’esame o all’esito degli accertamenti incidentali.

21.Il libero convincimento del giudice.


Nell’attuale codice, a differenza del codice abrogato, c’è un’esplicita presa di posizione sul tema
del libero convincimento del giudice.
Art. 192 comma 1: “il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e
dei criteri adottati”. Il libero convincimento non autorizza scelte arbitrarie, non svincola il giudice
dai risultati dell’acquisizione probatoria e non consente l’elusione dei limiti e dei divieti frapposti
dal codice all’elaborazione della prova.
Regole particolari sono previste per la valutazione degli indizi e della chiamata di correo.
° La regola circa la gravità, precisione e concordanza degli indizi funziona da limite al libero
convincimento del giudice, ne modella il corretto uso e ne circoscrive l’area d’intervento.
° Della chiamata di correo il codice si interessa in più punti: nel punto relativo alla valutazione delle
dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento
connesso, nel punto relativo delle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato e
nel punto relativo all’esame della persona imputata e giudicata, che abbia assunto l’ufficio di
testimone.

116
Art. 526 comma 1: “il giudice non può utilizzare ai fini della motivazione prove diverse da quelle
legittimante acquisite nel dibattimento”. Il raccordo fra convincimento del giudice e obbligo di
motivare in fatto appare sancito con sufficiente precisione e rinviene significativi addentellati nelle
disposizioni relative ai requisiti e alla redazione della sentenza. L’art. 546 comma 1 lett. e impone
“la concisa esposizione dei motivi di fatto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle
prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice
ritiene non attendibili le prove contrarie”. L’art. 544 disciplina i tempi della motivazione
prescrivendo la regola della motivazione contestuale al dispositivo.
Completa il quadro, la regola di giudizio contenuta nell’art. 526 comma 1- bis: “la colpevolezza
dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è
sempre volutamente sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore”.

Capitolo secondo
I MEZZI DI PROVA

2.La testimonianza.
Questa prova è costruita dalla narrazione di un fatto, appartenente all’esperienza di chi è
comunque informato dell’avvenimento, e si appunta sulle circostanze ritenute in concreto
necessarie per valutare la credibilità del teste.
La testimonianza deve essere acquisita in presenza delle parti del contraddittorio. L’osservanza del
principio sancito dall’art. 111 comma 4 Cost. non preclude l’operatività di qualche deroga
costituzionale tollerata. Lascia salvi, i casi di acquisizione dei verbali di prove di altro procedimento
penale non seguita dall’ammissione del testimone; fa salve le deroghe al contraddittorio per la
prova, consentire dalle parti, o rese necessarie dall’impossibilità di ripetere l’atto delle indagini
preliminari, o giustificate da accertata violenza o subornazione nei confronti della fonte di prova.
Ammessa la testimonianza, una volta vagliata la rilevanza del tema di prova, possono variare
soltanto le condizioni per l’esame del testimone: nel corso dell’udienza preliminare, nell’incidente
probatorio e nell’istruzione dibattimentale spetta, invece al pm e ai difensori esaminare e contro
esaminare.

3.(Segue): la testimonianza come prova complessa.


La testimonianza è una prova complessa sulla quale incidono una componente relativa al fatto
narrato e un’altra concernente la credibilità del narratore.
La componente relativa al fatto risulta sufficientemente precisata dalle prescrizioni nell’art. 194.
Oggetto della prova testimoniale possono essere tanto i fatti principali che si riferiscono
all’imputazione, quanto i fatti secondari idonei a qualificare la personalità dell’imputato e della
persona offesa.
Fatti principali vanno coordinati al tema vagliato in sede di ammissibilità della testimonianza;
senza, però, che tale coordinamento vada interpretato nel senso di una rigida capitolazione della
prova richiesta dalla parte.
Fatti secondari possono essere introdotti nel processo a talune rigorose condizioni. Il teste, non
può deporre sulla moralità dell’imputato, salvo che si tratti di fatti specifici, idonei a qualificarne la
personalità in relazione al reato e alla pericolosità sociale. Il teste non può neppure deporre sui
fatti che servono a definire la personalità dell’offeso dal reato, salvo che il fatto dell’imputato
debba essere valutato in relazione al comportamento di quella persona.
117
Tanto i fatti principali quanto i secondari devono essere determinati e specifici. La prescrizione è
ribadita dalla norma che fissa le regole per l’esame testimoniale (art. 499 comma 1). Direttamente
collegata a questa prescrizione ve ne è un’altra: “il testimone non può deporre sulle voci correnti
nel pubblico, né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla
deposizione sui fatti”.
L’elemento della testimonianza, relativo alla credibilità del testimone, è preso in considerazione in
alcune disposizioni che regolano l’oggetto della testimonianza; ma trova una più articolata
disciplina nelle disposizioni relative all’istruzione dibattimentale.
a) l’esame può estendersi anche ai rapporti di parentela e d’interesse che intercorrono fra il
testimone e le parti o altri testimoni, nonché alle circostanze il cui accertamento è necessario per
vagliarne la credibilità.
b) per valutare le dichiarazioni del testimone, il giudice può ordinare gli accertamenti opportuni a
verificare l’idoneità fisica o mentale a rendere testimonianza.
c) nell’esame testimoniale del minorenne le domande e le contestazioni vengono, di solito, poste
dal presidente, che può avvalersi dell’ausilio di un familiare del minore o di un esperto in
psicologia infantile. Solo nei casi di ritenuta ininfluenza dell’esame diretto e del controesame sulla
serenità del teste può procedersi nelle forme normali.
d) nel corso dell’esame sono vietate le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte.
e) nel controesame sono ammesse le domande screditanti, volte cioè a infirmare la credibilità del
teste.
f) dopo le contestazioni, il giudice può valutare la dichiarazione precedentemente resa per stabilire
la credibilità della persona esaminata. Può andare, però, oltre se, nonostante le contestazioni, il
teste persiste in una dichiarazione essenzialmente difforme da quella resa in precedenza.

4.(Segue): la testimonianza indiretta.


Il metodo orale trova la sua più significativa attuazione con l’elaborazione dibattimentale della
prova testimoniale. Le due oralità coincidono perfettamente e consentono, pertanto,
un’immediata verifica del tema di prova e sulla fonte dell’informazione. È questa l’ipotesi della
testimonianza diretta: della testimonianza, cioè, resa da chi ha percepito di persona i fatti oggetto
della prova. La cross examination permette il controllo sulla progressiva formazione della prova e
sull’attendibilità della fonte che ha trasferito nel processo un determinato patrimonio di
conoscenze.
Più complesso è il problema relativo alla testimonianza indiretta (definita anche de relato o de
auditu). In tali casi il teste riferisce una narrazione altrui; filtra, cioè, un’esperienza che non gli è
propria.
Alcuni limiti afferiscono non all’ammissibilità della prova ma all’utilizzabilità della stessa.
Il giudice non può escludere la testimonianza indiretta. Una volta ammessa la testimonianza
indiretta il giudice deve (se richiesto dalle parti) o può ( se manca tale richiesta) disporre l’esame
del teste di riferimento, della persona cioè che ha fornito l’informazione introdotta de auditu.
° Nella prima ipotesi, quando l’audizione delle persone richiamate dal teste costituisce un atto
dovuto, diventa inutilizzabile la deposizione de relato non seguita dal secondo esame (salvo che
questo esame risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità della persona).
Parimenti inutilizzabile è la testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona da
cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame sì da rendere impossibile l’eventuale verifica:
una scelta sintomatica dell’adesione al principio che vieta la testimonianza di provenienza
anonima.

118
Il giudice deve escludere la testimonianza indiretta su fatti appresi da persone vincolate dal
segreto professionale o dal segreto d’ufficio.
Un analogo divieto era previsto per gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria in ordine al
contenuto delle dichiarazioni in qualsiasi forma acquisite dal testimone. Questa deroga
individuava la propria giustificazione nell’esigenza di garantire il principio di oralità della prova:
l’esame del testimone non poteva essere soppiantato dall’audizione dell’agente o ufficiali di polizia
giudiziaria che aveva raccolto le dichiarazioni. Con la sentenza 24/1992 la Corte costituzionale
aveva ritenuto tale divieto “un’eccezione sfornita di ragionevole giustificazione in quanto gli
appartenenti alla polizia giudiziaria hanno capacità di testimoniare come ogni persona e nei loro
confronti non è prevista alcuna incompatibilità”.
La costituzionalizzazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova ha imposto
una rimodulazione dell’art. 195 comma 4. Il divieto, così, è stato reintrodotto con un limite: esso
vale solo per le sole dichiarazioni acquisite con le modalità documentate in un verbale. Non
funziona con riferimento alle altre dichiarazioni assunte dagli organi di polizia al di fuori di
qualunque rapporto dialettico formale interno al procedimento, ovvero acquisite e documentate
attraverso modalità diverse da quelle richiamate all’art. 195 comma 4.

5.(Segue): l’obbligo di rendere la testimonianza. I divieti probatori e le esenzioni dal dovere di


deporre.
Art. 198 comma 1: “il testimone ha l’obbligo di presentarsi al giudice e di attenersi alle prescrizioni
date dal medesimo per le esigenze processuali”. Nei casi di ingiustificata osservanza di
quest’obbligo il giudice può ordinare l’accompagnamento coattivo del testimone e condannarlo al
pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende.
L’obbligo di deporre può essere derogato solo in particolari situazioni.
A)Ricorre la prima situazione nei casi di garanzia contro l’autoincriminazione o di incompatibilità
con l’ufficio di testimone e nei casi in cui il fatto oggetto della testimonianza è coperto dal segreto
d’ufficio o dal segreto di Stato.
 Il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua
responsabilità penale. L’inosservanza di questo divieto renderebbe inutilizzabile la prova
acquisita.
 Non possono essere assunti come testimoni i coimputati del medesimo reato e le persone
imputate in un procedimento connesso. La preclusione non ha più ragion d’essere nel caso in
cui il procedimento si sia concluso e la sentenza sia divenuta irrevocabile.
 Non possono essere assunti come testimoni le persone imputate di reati teleologicamente
connessi o collegati. Anche in questi casi il giudicato elimina ogni preclusione.
 A un’identica ratio è ispirata la fattispecie di incompatibilità prevista per il responsabile civile e
la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. Tende a evitare i possibili
condizionamenti, dovuti a una pregressa o perdurante gestione del procedimento in corso,
l’ipotesi di incompatibilità prevista nel confronti del giudice, del pm o dei loro ausiliari.
 I pubblici ufficiali, i pubblici impiegarti e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di
astenersi dal deporre su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio, che devono rimanere
segreti. Il divieto non funziona nei casi in cui il soggetto ha l’obbligo di riferire il fatto
all’autorità giudiziaria.
 I pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di
astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato. Nel caso in cui il giudice ritenga
necessaria la testimonianza di chi oppone il segreto deve chiedere conferma al Presidente del

119
Consiglio dei ministri circa l’effettiva esistenza del segreto. La conferma del segreto impedirà
all’autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzazione delle notizie coperte dal segreto e imporrà
l’improcedibilità dell’azione penale per l’esistenza di un segreto di Stato. La mancato conferma
da parte del Presidente del Consiglio dei ministri schiuderà la via all’assunzione della
testimonianza.
 Nessun tipo di segreto può coprire fatti, notizie o documenti concernenti reati volti
all’eversione dell’ordinamento costituzionale.
B)Ricorre la seconda situazione, quella cioè dell’esenzione dal dovere di deporre, nei casi di
testimonianza dei prossimi congiunti, dei soggetti vincolati dal segreto professionale e degli
informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza.
 Secondo la Corte costituzionale la ratio della facoltà di astensione dei prossimi congiunti
consiste nella tutela del sentimento familiare e punta su un’alternativa di cui il sistema deve
tener conto: mentire o nuocere ad un congiunto.
 Un obbligo di segretezza incombe sui soggetti che, per ragione del proprio stato o ufficio, della
propria professione o arte, risultano depositari di segreto. Solo una giusta causa scriminerebbe
le loro rivelazioni e senz’altro giusta potrebbe apparire la causa delle rivelazioni, con
riferimento ad un incombente dovere di deporre. Occorre plasmare la giusta causa della
rivelazione del segreto in funzione di interessi meritevoli di tutela (nell’esercizio dell’attività
professionale).
Il giudice se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa per esimersi dal deporre sia infondata,
provvede agli accertamenti necessari. Se la dichiarazione risulta effettivamente infondata, ordina
che il teste deponga.
 Il segreto professionale del giornalista riceve una più circoscritta tutela. Non basta il fondato
rifiuto di indicare i nomi delle persone dalle quali il giornalista ha avuto notizie di carattere
fiduciario per esimersi quest’ultimo dal deporre. Occorre che dette notizie non siano
“indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede” o che, siano tuttavia
compiutamente riscontrabili senza procede all’identificazione della fonte della notizia.
 Un ulteriore ipotesi è prevista con riferimento agli informatori della polizia giudiziaria e dei
servizi di sicurezza. Il giudice non può obbligare gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria e il
personale dei servizi di sicurezza a rivelare i nomi degli informatori. Non può obbligarli, ma se
perviene ugualmente all’identificazione di questi informatori non gli resta che assumerli come
testimoni.
 Nessuna esenzione dal dovere è concepibile quando l’informazione della polizia giudiziaria o
dei servizi di sicurezza concerna reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale.

6.(Segue): l’obbligo di rispondere secondo verità.


Ampio è il catalogo degli obblighi gravanti sul testimone. Oltre all’obbligo di presentazione innanzi
all’autorità giudiziaria, il testimone ha l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli
sono rivolte. Non può rendere dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le
prove già acquisite e non può rifiutarsi di deporre fuori dai casi previsti dalle legge.
Se il testimone si rifiuta di deporre (fuori dai casi espressamente previsti dalla legge) il giudice
dovrà disporre l’immediata trasmissione degli atti al pm perché proceda a norma di legge. Se il
testimone ha deposto il falso il giudice potrà disporre la trasmissione degli atti al pm solo dopo la
definizione della fase processuale in cui il testimone ha prestato il suo ufficio. La ratio che giustifica
il divario fra le due soluzioni è evidente: mentre la reticenza consente pronti riscontri (senza

120
difficili comparazioni con le altre emergenze processuali), l’ipotesi di falsità implica complesse
valutazioni (sulla base di più ampie acquisizioni probatorie).
Resta, comunque, esclusa la possibilità di procedere all’arresto in udienza del testimone per reati
concernenti il contenuto della deposizione: sia essa falsa o reticente.

7.L’esame delle parti.


Art. 208: “nel dibattimento l’imputato, la parte civile che non debba essere esaminata come
testimone, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria sono
esaminati se ne fanno richiesta o vi consentono”.
Il codice diversifica i tipi di intervento e seconda delle fasi del procedimento. Di interrogatorio può
continuare a parlarsi in sede di indagini preliminari, e all’interrogatorio può chiedere di essere
sottoposto l’imputato nel corso dell’udienza preliminare. La prova va acquisita al dibattimento. È al
dibattimento che l’imputato- parte può effettivamente offrire un suo cospicuo contributo
chiedendo di essere esaminato e controesaminato.
Per quanto concerne il possibile apporto probatorio delle dichiarazioni della parte civile, il
dibattimento costituisce l’esclusiva sede di realizzazione di questi interventi della parte. Queste
dichiarazioni vanno saggiate in una duplice prospettiva: coordinate alla testimonianza, svelano
sempre la doverosità della deposizione e a volte l’inevitabilità dell’ammissione contra se;
coordinate all’esame della parte, svelano la volontarietà dell’iniziativa e un’assoluta indifferenza
all’obbligo previsto per il teste.
È possibile stilare un catalogo degli essenziali profili dell’esame delle parti:
a) a tale mezzo di prova si estendono le regole circa l’oggetto e i limiti della testimonianza, i
divieti probatori connessi alla garanzia dell’autoincriminazione e le forme imposte per la cross
examination;
b) un volta che una parte ha chiesto l’esame diretto, essa non è più in grado di sottrarsi alle
domande che le vengono formulate;
c) una variabile è prevista con riferimento all’ipotesi in cui la parte esaminata si riferisce, per la
conoscenza dei fatti, ad altre persone.
° Se il dichiarante è la parte civile, il responsabile civile o la persona civilmente obbligata per la
pena pecuniaria, trovano piena applicazione le disposizioni sulla testimonianza indiretta.
° Se il dichiarante è l’imputato, la rivelazione in forma indiretta di fatti e circostanze può essere
utilizzata dal giudice. Ciò non toglie che il riscontro possa in concreto divenire, così da accrescere il
potenziale probatorio della dichiarazione dell’imputato, non certo per spiegarne l’utilizzabilità.
d) non è possibile l’esame della parte civile se la stessa deve deporre come testimone.
e) Nei confronti del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena
pecuniaria è permesso solo l’esame a richiesta o in base al consenso. La preclusione di ogni
altra possibile forma di acquisizione probatoria è legislativamente fissata nella disposizione che
regola l’incompatibilità con l’ufficio di testimone.

8.L’esame di persona imputata di un reato collegato o in un procedimento connesso.


Vige per i coimputati del medesimo reato e gli imputati di un reato collegato o in procedimento
connesso l’incompatibilità con l’ufficio di testimone. Questa incompatibilità cessa di esistere
quando tali soggetti siano stati già giudicati con sentenza divenuta irrevocabile o quando questi
abbiano liberamente scelto di rendere dichiarazioni erga alios.

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Ecco le regole da tenere presenti:
 la posizione di testimone della persona imputata di un reato collegato o in un processo
connesso è ritagliata dall’art. 64, che disciplina l’interrogatorio nel corso delle indagini
preliminari;
 prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona deve essere avvertita che ha la facoltà di non
rispondere, ma se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri,
assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone;
 tale avvertimento è condicio sine qua non per la successiva utilizzazione delle dichiarazioni sul
fatto altrui. In mancanza di questo avvertimento la persona interrogata in sede di indagini
preliminari non potrà assumere in dibattimento la veste di testimone;
 il diritto al silenzio è coordinato a distinte ipotesi di connessione. I coimputati accusati del
medesimo reato conservano in pieno il diritto al silenzio. Gli imputati che si trovano nelle
condizioni previste dall’art. 12 lett. c) e nelle ipotesi contemplate dall’art. 371 comma 2 lett. b)
conservano il diritto al silenzio solo in relazione al fatto proprio e non anche in relazione al
fatto altrui;
 la richiesta dell’esame può essere avanzata tanto dal pm, quanto dall’imputato e dalle altre
parti private. L’esame è disposto d’ufficio nei casi in cui l’audizione dell’imputato del reato
collegato o nel procedimento connesso serva per un’ulteriore verifica del tema di prova su cui
ha deposto un teste de auditu;
 la citazione dei soggetti da esaminare innesca i meccanismi processuali previsti con riferimento
ai testimoni: i soggetti citati hanno l’obbligo di presentarsi e possono essere sottoposti
all’accompagnamento coattivo;
 a differenza di quanto avviene per i testimoni, è prescritta per i soggetti da esaminare
l’assistenza di un difensore di fiducia o d’ufficio. Tale assistenza difensiva è esclusa per il
dichiarante nei cui confronti è stata pronunciata sentenza irrevocabile di assoluzione per non
aver commesso il fatto;
 l’imputato per un reato connesso o collegato non può essere obbligato a deporre sui fatti per i
quali è stata pronunciata condanna nei suoi confronti. Salve le ipotesi in cui abbia confessato la
sua responsabilità, all’esame vanno estese le formule della cross examination.

9.Il confronto.
Il confronto ha luogo nei casi di disaccordo fra due o più persone sui fatti e circostanze importanti.
Presuppone, quindi, che siano già stati acquisiti i risultati di precedenti interrogatori o esami, che
queste acquisizioni svelino insanabili contrasti e contraddizioni, e che i soggetti del confronto
confermino le loro dichiarazioni.
Nei casi di incidente probatorio il confronto fa riferimento alle testimonianze e agli esami resi in
precedenti incidenti probatori o agli interrogatori assunti dal pm nel corso delle indagini
preliminari. Al dibattimento il confronto mutua esperienze più circoscritte. Il disaccordo potrebbe
emergere dagli stessi verbali degli atti assunti nell’incidente probatorio. In questi casi sarebbe
l’esame e il controesame dibattimentale a verificare l’effettiva tenuta del disaccordo su fatti e
circostanze importanti; salvo a riverificare queste divergenze con il confronto da spingere fino al
punto di consentire alle parti ed ai testimoni reciproche contestazioni.

122
10.La ricognizione personale.
Si tratta di un mezzo basato sul ricordo e sulla precedente esperienza del soggetto chiamato a
effettuare il riconoscimento. Disposta e controllata dal giudice la ricognizione affida le sue chances
alla puntuale osservanza di talune condizioni, che dovrebbero eliminare rischi di erronei ricordi o
di distorte esperienze.
Gli atti preliminari sono costituiti da una serie di informazioni proveniente da chi deve eseguire il
riconoscimento e raccolte dal giudice, che è tenuto a verbalizzare a pena di nullità. Alcune di
queste informazioni corrono lungo il filo della testimonianza perché implicano la narrazione di un
fatto che appartiene all’esperienza del soggetto chiamato alla ricognizione e che comprende anche
la descrizione della persona da riconoscere. Le altre informazioni si appuntano sulle circostanze
che possono influire sull’attendibilità del riconoscimento.
Art. 214 comma 2: “la ricognizione implica la mimetizzazione della persona da riconoscere fra
almeno due persone il più possibile somiglianti, ma non esige normalmente l’occultamento della
persona chiamata a riconoscere, a meno che la stessa possa subire intimidazione o altra influenza
dalla presenza di quella sottoposta a ricognizione”. L’operazione si svolge in due tempi:
 il giudice invita la persona sottoposta a ricognizione a scegliere il suo posto fra le persone
appositamente preparate, curando che si presenti nelle stesse condizioni in cui sarebbe stata
vista dalla persona chiamata alla ricognizione;
 il giudice chiede a quest’ultima se riconosce taluno dei presenti e la invita a indicare chi abbia
riconosciuto e a precisare se ne sia certa.
Le possibili risposte all’interpello del giudice svelano, secondo i casi, il contrasto o l’identità fra le
due esperienze del ricognitore: fra l’esperienza passata e l’esperienza attuale, legata ai contenuti
della ricognizione. Ricorre la prima situazione quando la persona chiamata alla ricognizione
escluda di riconoscere qualcuno dei presenti; ricorre la seconda situazione quando il ricognitore
punti sul riconoscimento di qualcuno dei presenti.

11.La ricognizione di cose e le altre forme di ricognizione.


La ricognizione di cose segue di solito all’assicurazione delle cose o delle tracce pertinenti al reato
e ha per oggetto il corpo del reato e le altre cose pertinenti al reato.
Corpo del reato è costituito dalle cose che sono state il mezzo o lo strumento per commettere il
reato oppure ne rappresentano il prodotto, il profitto o il prezzo. La ricognizione del corpo del
reato segue all’assicurazione della fonte di prova, operata di solito dalla polizia giudiziaria, e fa di
questa fonte di prova un vero e proprio mezzo di prova.
Cose pertinenti al reato non costituiscono il corpus delicti, ma sono ugualmente essenziali ai fini
dell’accertamento per la probabile relazione intercorrente fra la res e il reato. La ricognizione delle
cose pertinenti al reato segue alla loro individuazione e consente al pm di proseguire l’indagine.
Art. 215: “quando occorre procedere alla ricognizione del corpo del reato o di altre cose pertinenti
al reato, il giudice procede osservando le disposizioni dell’art. 213, in quanto applicabili”. La norma
rinvia alla disciplina studiata con riferimento alla ricognizione di persone, salvo la sua concreta
inapplicabilità alla ricognizione di cose. L’inosservanza delle disposizioni circa gli atti preliminari
alla ricognizione rende invalida l’acquisizione probatoria nel suo complesso.
Restano ad oggetto le ipotesi atipiche di ricognizione, diverse dai modelli tradizionali, aventi a
oggetto persone o cose. Scartata la regola della tassatività dei mezzi di prova, non poteva
vietarsene l’ammissibilità: art. 216 comma 1 “quando dispone la ricognizione di voci, suoni o di
quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale, il giudice procede osservando le

123
disposizioni dell’art. 213, in quanto applicabili”. Le condizioni per elaborare la prova sono quelle
previste per le ricognizioni personali.
Anche per tali forme di ricognizione valgono le regole circa le possibili cause di nullità
dell’acquisizione probatoria.

12.L’esperimento giudiziale.
Con questo mezzo di prova viene riprodotta una situazione, collegata ai fatti dell’imputazione,
sulla base di una descrizione o di una supposizione. L’ esperimento giudiziale è ammesso quando
occorre accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in un determinato modo e consiste nella
ripetizione delle modalità di svolgimento del fatto stesso. La buona riuscita dell’esperimento è
affidata all’ordinanza che lo dispone e ai provvedimenti che regolano lo svolgimento delle
operazioni. Dipende dalla capacità del giudice e dalle direttive impartite affinché l’esperimento si
svolga in modo da non offendere sentimenti di coscienza e da non esporre al pericolo l’incolumità
delle persona o la sicurezza pubblica.
Due prescrizioni occorre tenere in particolare conto.
A)La prima è legata alla centralità del dibattimento. Collocato l’esperimento giudiziale nell’area
del dibattimento ne diventa scontata la pubblicità. Secondo gli artt. 218 e 219 l’esperimento
giudiziale può essere eseguito tanto in udienza quanto fuori dell’aula d’udienza.
B)L’altra prescrizione su cui bisogna meditare è quella relativa alla possibile designazione di un
esperto, con la stessa ordinanza che dispone l’esperimento giudiziale o con un provvedimento
successivo. Con la designazione dell’esperto il giudice non modifica l’essenza dell’esperimento,
ma tende a fissarne i particolari esecutivi.

13.La perizia.
Art. 220: “il giudice dispone la perizia quando occorre svolgere indagini o acquisire dati e
valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche”. L’esistenza di
un particolare tema di prova, costituisce il presupposto per la perizia: che può assumere le
dimensioni della perizia collegiale, nell’ipotesi di operazioni peritali particolarmente complesse o
coordinate a differenti discipline; che non può essere volta a stabilire l’abitualità, la professionalità
nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato.
L’incarico peritale attiene alle possibili indagini di competenza del perito e ai possibili dati da
acquisire. Si tratta di distinguere attività profondamente diverse. L’incarico peritale potrebbe
essere conferito per un indagine e non per una valutazione; ovvero potrebbe riguardare né
l’indagine, né la valutazione, ma soltanto l’acquisizione dei dati.
Art. 226 comma 2: “il giudice pone i quesiti sentiti i periti, i consulenti tecnici, il pm e i difensori
presenti”. Il quesito diventa il frutto di un incontro sul tema della prova peritale. Attraverso
l’interpello del giudice, si valorizza il patrimonio di conoscenze di coloro che a vario titolo
intervengono per il conferimento dell’incarico.

14.(Segue): dalla perizia al perito.


La scelta del perito è operata dal giudice attingendo tra gli iscritti negli appositi albi o selezionando
fra le persone fornite di particolari competenze nella specifica disciplina. Non può prestare l’ufficio
di perito: il minorenne, l’interdetto, l’inabilitato e l’infermo di mente, l’interdetto dai pubblici uffici
e dall’esercizio di una professione o di un’arte; il sottoposto a misura di sicurezza o di prevenzione;
chi ha assunto l’ufficio di testimone o di interprete; …

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Per i casi di rinnovazione di una perizia, già dichiarata nulla il giudice cura che il nuovo incarico sia
affidato ad altro perito. Il riaffida mento dell’incarico allo stesso perito rispetta l’impegno alla
rinnovazione dell’atto nullo; accelera i tempi della nuova elaborazione peritale, ma non garantisce
certo l’originalità del giudizio, difficilmente modificabile da chi già si è espresso nel precedente
elaborato dichiarato nullo.
Il perito ha l’obbligo di prestare il suo ufficio, salvo che ricorra un motivo di astensione. Il perito
può astenersi o essere ricusato prima che siano esaurite le formalità di conferimento dell’incarico.
La dichiarazione di astensione o di ricusazione può essere presentata successivamente nei casi in
cui i motivi siano sopravvenuti o siano conosciuti dopo il conferimento dell’incarico.
Il perito può essere sostituito per un triplice ordine di ragioni:
- se per cause a lui imputabili non fornisce il proprio parere nel termine fissato dal giudice;
- se non ottiene la proroga del termine richiesta per rispondere ai quesiti;
- se svolge negligentemente l’incarico affidatogli.
La sostituzione è disposta con ordinanza e può comportare per il perito sostituito, la condanna al
pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende.

15.(Segue): le operazioni peritali e l’esame del perito.


La perizia è disposta con ordinanza motivata, contenente la nomina del perito, la sommaria
enunciazione dell’oggetto dell’incarico peritale, l’indicazione del giorno, dell’ora e del luogo fissati
per la comparazione del perito.
Le operazioni peritali si snodano in tre fasi.
1)La prima fase, relativa al conferimento dell’incarico, consta di due essenziali momenti:
 la dichiarazione del perito di accettazione dell’incarico corredata dall’impegno ad adempiere
all’ufficio senza altro scopo che quello di far conoscere la verità ed a mantenere il segreto su
tutte le operazioni peritali;
 la posizione dei quesiti e l’interpello sugli stessi, con le modalità che si sanno già.
Concluse queste formalità, il giudice può autorizzare il perito a prendere visione degli atti, dei
documenti e delle cose prodotte dalle parti, dei quali la legge prevede l’acquisizione al fascicolo
del dibattimento.
Art. 224 comma 2: “il giudice adotta ogni provvedimento necessario per l’esecuzione delle
operazioni peritali”. Tale potere non può includere alcuna misura idonea a incidere sulla libertà
personale dell’imputato e di terze persone. Si tratta di un limite al quale oggi è possibile derogare,
ma nei soli casi e modi espressamente previsti dalla legge.
L’art. 224- bis della l. 85/2009, che disciplina i provvedimenti del giudice nel caso di perizie che
richiedono il compimento di atti idonei a incidere sulla libertà personale, prevede che in alcuni
casi, per l’esecuzione della perizia è necessario compiere atti invasivi della libertà personale e
manca il consenso della persona interessata. In queste ipotesi il prelievo dei capelli, peli o di
mucosa orale, ai fini della determinazione del profilo del D.N.A., ovvero lo svolgimento di altri non
meglio definiti “accertamenti medici”, qualora risulti assolutamente indispensabile per la prova dei
fatti, può essere eseguito coattivamente giusta ordinanza adottata, anche ex officio, dal giudice.
Con tale provvedimento il giudice, oltre a dare conto delle ragioni che rendono assolutamente
indispensabile ai fini probatori l’effettuazione del prelievo e dell’accertamento medico coattivo,
deve informare la persona da sottoporre all’esame peritale della facoltà di farsi assistere da un
difensore e da persona di fiducia.

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2)La seconda fase delle operazioni peritali riguarda l’attività del perito.
L’ipotesi più semplice è quella che si risolve nell’immediata risposta ai quesiti. Le altre ipotesi sono
quelle, per la complessità ei quesiti o per la particolare complessità degli accertamenti, richiedono
tempi più lunghi. Il codice cerca di circoscriverli in modo accettabile: prevede un termine massimo
di 90 giorni entro il quale il perito dovrà rispondere ai quesiti; prevede possibili deroghe al termine
fino alla complessiva durata di sei mesi. Nelle ipotesi contemplate dall’art. 124- bis le operazioni,
se pur idonee a incidere sulla libertà personale, dovranno essere eseguite in modo da non
contrastare con espressi divieti di legge. L’eventuale ricorso a strumenti di coercizione fisica dovrà
essere proporzionato allo scopo e dovrà protrarsi per il tempo strettamente necessario
all’esecuzione dell’atto peritale.
3)La terza e ultima fase è destinata all’enunciazione del parere, ed eventualmente, alla
presentazione di una relazione scritta. Secondo l’impostazione codicistica questa fase va gestita
attraverso scelte idonee a esaltare il contraddittorio per la prova e non già sulla prova. Chiare, sul
punto, le indicazioni del codice.
L’art. 468 non subordina al potere discrezionale del presidente del collegio la citazione dei periti. Il
presidente del tribunale o della corte di assise:
 su richiesta della parte autorizza la citazione dei periti indicati nelle liste;
 dispone in ogni caso d’ufficio la citazione del perito, esaminato nell’incidente probatorio.
L’art. 501 estende all’esame dei periti le regole relative all’esame dei testimoni. Pertanto ai periti
le domande devono essere rivolte direttamente dal pm e dal difensore. I periti possono essere
sottoposto al controesame. E valgono per i periti le disposizioni relative alle contestazioni, con
riferimento al parere raccolto nel verbale o alla relazione a suo tempo presentata e in merito alle
indagini effettuate, alle valutazioni espresse e ai dati acquisiti.
L’art. 511 comma 3 spiega in modo sufficientemente chiaro il rapporto fra perizia e perito. La
lettura della relazione peritale è disposta solo dopo l’esame del perito. Il che vuol dire che:
 la relazione peritale può diventare prova solo dopo l’esame del perito;
 prima di diventare prova questa relazione costituisce la piattaforma utilizzabile dalle parti per
formulare domande e muovere contestazioni;
 solo l’omessa richiesta dell’esame del perito comporta l’automatica lettura della relazione
peritale.

16.(Segue): il consulente tecnico.


Il consulente assiste le parti in tutte le loro attività e esercita i diritti e le facoltà specificamente
riconosciutigli dalla legge. Pone in essere un duplice rapporto: interno nei confronti della parte,
per prestarle un’adeguata collaborazione; esterno nei confronti del giudice e dell’altra parte, per
salvaguardare l’interesse della parte assistita.
Non può svolgere le funzioni di consulente tecnico chi si trova nelle condizioni d’incompatibilità
alle quali si è già accennato con riferimento alla posizione del perito.
Del consulente tecnico può parlarsi in tre situazioni diverse.
A)In relazione alle operazioni peritali effettuate nell’incidente probatorio e nell’istruzione
dibattimentale:
 disposta la perizia il pm e le parti private hanno facoltà di nominare propri consulenti tecnici in
numero non superiore, per ciascuna parte, a quello dei periti;
 dopo il conferimento dell’incarico peritale i consulenti possono presentare al giudice richieste,
osservazioni e riserve;

126
 nel corso delle operazioni peritali i consulenti possono proporre al perito specifiche indagini e
possono formulare osservazioni e riserve;
 esaurite le operazioni peritali, un intervento dei consulenti tecnici è possibile nel solo caso in
cui la nomina degli stessi sia avvenuta successivamente.
B)Fuori dei casi di perizia: quando nessuna perizia è stata ancora disposta e il consulente tecnico
deve gestire in prima persona l’accertamento tecnico. In queste situazioni sarà il costante e diretto
rapporto con la parte a orientare il consulente nella direzione che riterrà opportuni.
Fuori dei casi di perizia, ogni parte può nominare fino a due consulenti.
È variegato il catalogo dei possibili interventi del consulente tecnico sganciati dall’effettuazione di
una perizia:
 nel corso delle indagini preliminari possono avvalersi di questa collaborazione sia il pm,
quando procede ad accertamenti, rilievi segnaletici, descrittivi o fotografici e ad ogni
operazione tecnica per cui sono necessarie specifiche competenze, sia i difensori delle parti
private, quando svolgono investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova a favore
del proprio assistito.
 Durante l’udienza preliminare può disporre l’audizione del giudice, anche su sollecitazione di
parte: a condurre l’esame dei consulenti sarà lo stesso giudice su un tema di evidente
decisività per la sentenza di non luogo a procedere;
 Nell’ambito dell’istruzione dibattimentale. A designare i contenuti provvede l’art. 233,
affidando ai consulenti il compito di esporre i propri pareri anche a mezzo di apposite
memorie.
C)Per segnare il passaggio da un’attività di consulenza fuori dei casi di perizia a un’attività di
consulenza nell’ambito dell’elaborazione peritale. Quando sia disposta perizia, ai consulenti già
nominati sono riconosciuti i diritti e le facoltà analizzati sub A). il numero dei consulenti deve
essere ovviamente adeguato alla nuova situazione processuale. Non vale più il limite dei due
consulenti, ma ciascuna parte può nominare un numero di consulenti pari a quello dei periti.

17.La prova documentale.


In passato il disinteresse a un’apposita regolamentazione della prova documentale era in linea con
una organizzazione del processo attenta più ai problemi della documentazione dell’atto che ai
problemi della decifrazione probatoria del documento.
Oggi la situazione è diversa. Il sistema si regge sulle regole del contraddittorio che funzionano in
maniera diversa nei due differenti settori della prova testimoniale (o dell’esame delle parti) e della
prova documentale ( o della prova costituitasi fuori dal procedimento in corso).

18.(Segue): i limiti di acquisizione della prova documentale.


Si può enunciare un principio: non è prova documentale quella formatasi nel procedimento in
corso.
Art. 234: “è consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone
o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”. La nozione
tradizionale di documento risulta considerevolmente ampliata per5chè ricomprende anche i
documenti fotografici, cinematografici o formati con qualsiasi altro mezzo.
Le tre norme successive delimitano l’area dell’acquisizione della prova documentale in relazione al
tipo di documento (art. 235), al significato in concreto attribuitogli (art. 236) e alla sua genesi (art.
237). Le tre disposizioni riguardanti i documenti costituenti corpo del reato, i documenti relativi al

127
giudizio sulla personalità e i documenti proveniente dall’imputato introducono specifici motivi di
ammissibilità della prova in base a speciali parametri di rilevanza.
Un discorso a parte meritano i verbali di prove degli altri procedimenti, ivi inclusi quelli riguardanti
procedimenti penali stranieri. Essi vanno considerati alla stregua di documenti poiché formati ab
externo rispetto al processo nel quale se ne pretende l’acquisizione.
Per la possibile acquisizione dei verbali delle prova di altro procedimento:
I. è indispensabile che queste prove siano state formate nell’incidente probatorio o nel corso del
dibattimento; che siano state, insomma, assunte con le garanzie che valgono a configurarle
come vere e proprie prove;
II. è indispensabile per l’acquisizione dei verbali di prove assunte nel giudizio civile, che lo stesso
sia stato definito con sentenza passata in giudicata;
III. è previsto che suddetti verbali siano utilizzati solo nei casi confronti degli imputati i cui
difensori abbiano partecipato alla loro assunzione, o nei cui confronti fa stato la sentenza
civile;
IV. è necessario il consenso dell’imputato se si tratta di verbali di dichiarazioni non garantite,
perché rese fuori dell’incidente probatorio o del dibattimento.
Nessun limite fissa il codice in merito all’acquisizione della documentazione degli atti irripetibili,
sempre che l’impossibilità di ripetizione dipenda da fatti e circostanze non solo sopravvenuti, ma
anche imprevedibili. Spetta, in ogni caso, al giudice la parola definitiva sull’effettiva irripetibilità
degli atti trasmessigli con il fascicolo per il dibattimento.

19.(Segue): l’inutilizzabilità e la ridotta utilizzabilità della prova documentale.


La normativa sulle prove documentali prevede alcuni essenziali divieti.
Possono essere eccepiti solo dopo la produzione del documento, quando l’acquisizione è avvenuta
de plano, senza che venisse posta una preliminare quaestio sull’ammissibilità del mezzo di prova.
ugualmente acquisita ( o riacquisita) restano margini estremamente esigui per la sua utilizzabilità:
esclusa la possibilità di usarla come strumento di convincimento, ai fini del giudizio, può essere
eccezionalmente usata nella cross examination per l’’esame dei testimoni e delle parti.
La piattaforma si lascia agevolmente analizzare:
-è vietata l’acquisizione di documenti che contengono informazioni sulle voci correnti nel pubblico
intorno ai fatti di cui si tratta nel processo o sulla moralità in generale delle parti, dei testimoni, dei
consulenti e dei periti;
-è vietata l’acquisizione dei verbali di prova di altro procedimento penale se la prova non è stata
assunta nell’incidente probatorio o nel dibattimento;
-è vietata l’acquisizione dei documenti che contengono dichiarazioni anonime;
-è riconosciuta una ridotta possibilità di avvalersi dei verbali di prove, per muovere le opportune
contestazioni ai testimoni e alle parti. Devono essere rispettate le condizioni previste dalla legge in
materia: per poter servire ai fini delle contestazioni, i verbali di prove degli altri procedimenti
devono riguardare dichiarazioni che la parte e il teste hanno reso in precedenza.

128
Capitolo terzo
I MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA

1.Premessa.
I mezzi di ricerca della prova sono gli strumenti di cui si serve l’autorità giudiziaria per individuare e
assicurare al processo cose, tracce, documenti e ogni altro elemento utile per provare i fatti che si
riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena. Sono strumenti
indispensabili per la ricerca probatori, ma non sono di per sé strumenti di convincimento. Servono
alla prova ma non al giudizio.
Le condizioni cui la norma subordina l’ammissione delle prove non disciplinate forniscono
sufficienti indicazioni per una ricerca della prova attenta ai valori costituzionali e alla tutela delle
libertà fondamentali. Che il rispetto di tali condizioni valga, insomma, a compensare
adeguatamente il difetto di tipicità del mezzo di ricerca della prova in concreto richiesto. Sappiamo
che queste condizioni:
- puntano sull’idoneità del mezzo ad assicurare l’accertamento dei fatti;
- escludono iniziative pregiudizievoli alla libertà morale della persona;
- implica l’intervento delle parti per organizzare le modalità di assunzione delle prove.
I mezzi tipici di ricerca della prova sono: ispezioni, perquisizioni, sequestri e intercettazioni.
Identica la sanzione prevista dal codice per le ipotesi di ispezioni, perquisizioni, sequestri,
intercettazioni, eseguiti in violazione delle prescrizioni: i risultati conseguiti non possono essere in
alcun modo utilizzati.
I mezzi di ricerca della prova non hanno un’esclusiva valenza processuale. Nello studio dei mezzi di
ricerca di prova bisogna tener conto delle prescrizioni fissate per le indagini preliminari.

2.Le ispezioni.
Attraverso questi mezzi di ricerca della prova l’autorità giudiziaria percepisce direttamente
elementi utili alla ricostruzione del fatto. Con l’attribuzione di questo potere all’autorità
giudiziaria il legislatore ha inteso sottolineare come si tratti di un’attività riconducibile alla sfera di
competenza non solo del giudice ma anche del pm.
L’ispezione è disposta con decreto motivato quando occorre accertare le tracce e gli altri effetti
materiali del reato. Se il reato non ha lasciato tracce o effetti materiali, l’autorità giudiziaria
descrive lo stato attuale dei luoghi e, se possibile, quello preesistente, assicurando anche di
individuare modo, tempo e cause delle eventuali modificazioni. Nel corso delle ispezioni l’autorità
giudiziaria può, inoltre, disporre che vengano effettuati rilievi segnaletici, descrittivi, fotografici ed
eventuali di altre operazioni tecniche.
Il riferimento alla possibilità di compiere operazioni tecniche, può far sorgere problemi di
coordinamento con gli accertamenti tecnici disposti dal pm ex art. 359. La distinzione tra le due
attività ha un suo preciso significato: i rilievi e le operazioni tecniche, posti in essere nel corso delle
ispezioni, sono diretti alla mera osservazione e selezione di dati obiettivi; i rilievi e le operazioni,
compiuti nel corso dell’accertamento tecnico, implica invece un’approfondita attività di
elaborazione dei dati e di valutazione degli stessi.
L’ispezione può avere ad oggetto persone, luoghi o cose.
Ispezione personale è l’atto diretto a osservare la persona o parti di essa, onde rilevare le tracce
o gli altri effetti materiali del reato. Oltre che dal magistrato, può essere eseguita da un medico.
L’operazione è eseguita nel rispetto della dignità e del pudore di chi vi è sottoposto, contestando
all’interessato di farsi assistere da persone di fiducia.
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Ispezione locale ha di solito per oggetto il luogo in cui è stato commesso il fatto: anch’essa
tende all’accertamento delle tracce e degli altri effetti materiali del reato e può appagarsi
dell’osservazione generale dell’ambiente in cui il fatto è svolto.
All’ispezione locale viene spesso assimilato il sopralluogo. Se effettuato in fase di indagini
preliminari, il sopralluogo costituisce atto irripetibile. Il difensore può assistere all’ispezione a
iniziativa della polizia giudiziale, ma non ha alcun diritto di essere preventivamente avvertito o di
far ritardare l’operazione per consentire la sua partecipazione.

3.Le perquisizioni. Il sequestro conseguente alla perquisizione.


Secondo l’art. 247 possono essere disposte perquisizioni in 4 casi:
a) quando l’autorità giudiziaria ha fondato motivo di ritenere che taluno occulti sulla persona il
corpo del reato o cose pertinenti al reato;
b) quando ha fondato motivo di ritenere che il corpo del reato o le cose pertinenti al reato si
trovino in un determinato luogo;
c) quando ha fondato motivo di ritenere che in un determinato luogo possa eseguirsi l’arresto
dell’imputato o dell’evaso;
d) quando ha fondato motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce
comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico.
I fondati motivi presuppongono l’esistenza di indizi di un certo rilievo.
La perquisizione tende a ricercare sulla persona o in un determinato luogo il corpo del reato o le
cose pertinenti al reato; mira a scoprire in un determinato luogo la persona da arrestare; punta ad
individuare all’interno di un sistema informatico o telematico dati, informazioni, programmi o
tracce comunque pertinenti al reato.
Il provvedimento che dispone la perquisizione assume la forma del decreto motivato.
° Nei casi di perquisizione personale, prima che l’operazione abbia inizio, è consegnata una copia
del decreto all’interessato, con l’avviso della facoltà di farsi assistere da persona di fiducia, perché
questa sia prontamente reperibile e idonea come testimone a un atto del procedimento.
° Quando di procede ad una perquisizione locale vigono le stesse disposizioni previste per le
perquisizioni personali in ordine alla comunicazione del decreto e all’avviso di garanzia. Le variabili
sono sostituite:
- dalla combinazione fra le due possibili perquisizioni nell’ipotesi in cui l’autorità giudiziaria
estenda l’operazione nei confronti dei soggetti presenti o sopraggiunti;
- dalle perquisizioni in un’abitazione o nei luoghi chiusi adiacenti a essa effettuabili entro limiti
temporali ben determinati;
- dall’urgenza, nei quali casi l’autorità giudiziaria può disporre che la perquisizione domiciliare
venga effettuata in qualsiasi ora del giorno e della notte.
Particolari cautele sono imposte nelle ipotesi di perquisizioni concernenti materiale informatico o
telematico: occorre adottare misure tecniche volte ad assicurare la conservazione dei dati originali
e a impedire l’alterazione.
E se il decreto di perquisizione è illegittimo perché assolutamente carente di motivazione?
Travolge questa illegittimità il successivo sequestro?
La giurisprudenza ha creato un nesso inscindibile tra la necessaria validità dell’atto presupposto e
quella dell’atto conseguente. Fatta salva l’ipotesi nella quale il sequestro del corpo del reato o
delle cose a esso pertinenti, costituendo un atto dovuto, rende del tutto irrilevante il modo con cui
a esso si sia pervenuti, negli altri casi la nullità della perquisizione finisce con il travolgere la
validità del sequestro e di riflesso comporta l’inutilizzabilità dei risultati conseguiti.

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4.I sequestri probatori.
I sequestri consistono in un vincolo posto dal magistrato procedente alla libera disponibilità
della cosa. Con riferimento ai diversi scopi che possono essere alla base del provvedimento sono
individuabili tre tipi di sequestri: probatorio, preventivo e conservatorio. Solo la prima forma di
sequestro rientra fra i mezzi di ricerca della prova. Le altre due ipotesi di sequestro rientrano fra le
misure cautelari reali.
Il sequestro come mezzo di ricerca della prova ha per oggetto il corpo del reato e le cose pertinenti
al reato.
Nei casi di sequestro del corpo del reato non è indispensabile offrire la dimostrazione della
necessità del sequestro in funzione dell’accertamento dei fatti, atteso che l’esigenza probatoria del
corpus delicti è in re ipsa. Nei casi di sequestro di cose pertinenti al reato diventa essenziale una
specifica dimostrazione della necessità del sequestro, in considerazione del rapporto solo indiretto
tra la cosa e l’illecito.
Identico è l’oggetto del sequestro preventivo, ma il fine di quest’altro provvedimento è del tutto
diverso. Il sequestro preventivo delle cose pertinenti al reato è volto a interrompere l’iter
criminoso e a prevenire la consumazione di nuovi reati. Posto in essere come mezzo di ricerca
delle prove, insomma, ai fini esclusivamente processuali.
La differenza fra i due tipi di sequestro assume una particolare rilevanza in relazione alla durata
della misura. Il sequestro preventivo può essere revocato solo se non vi è più pericolo che la libera
disponibilità del bene possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la
commissione di altri reati. La durata del sequestro probatorio è strettamente legata, invece, alle
esigenze dell’accertamento, ai fini di prova. Ne consegue che le cose sequestrate ai sensi dell’art.
253 dovranno essere restituite a chi ne abbia diritto anche prima della sentenza.
Restano salve, ovviamente, le possibili conversioni del sequestro probatorio in sequestro
conservativo o in sequestro preventivo.
Alla conversione in sequestro conservativo il giudice perviene nelle ipotesi in cui subentri la
fondata preoccupazione circa la dispersione delle garanzie per il pagamento delle somme dovute
all’erario dello Stato o per le obbligazioni civili derivanti dal reato.
Alla conversione in sequestro preventivo il giudice approda nelle ipotesi in cui alle originarie
funzioni probatorie della misura si sostituiscono le funzioni preventive, prospettate dal pm e
coordinate al pericolo circa la libera disponibilità del bene.

5.(Segue): le procedure relative ai sequestri.


Il sequestro probatorio è disposto normalmente dal pm con il decreto motivato, d’ufficio o su
richiesta di eventuali soggetti interessati. Se è chiesto dall’interessato nel corso delle indagini
preliminari, e il pm è di contrario avviso, si instaura un incidente: il pm formula il suo parere e lo
trasmette insieme alla richiesta dell’interessato al giudice per le indagini preliminari, il quale
provvede rigettando la richiesta stessa o disponendo il sequestro. Al sequestro procede
personalmente l’autorità giudiziaria o un ufficiale di polizia giudiziaria, delegato con lo stesso
decreto.
In relazione alle ipotesi di sequestro di atti e documenti eventualmente in possesso dei soggetti
legati dal segreto professionale o dal segreto d’ufficio, è stato previsto un preciso dovere di
esibizione degli atti e dei documenti posseduti per ragioni d’ufficio: un dovere di esibizione che si
estrinseca nella consegna immediata degli atti all’autorità giudiziaria che ne faccia richiesta. Una
riserva è d’obbligo: alla consegna i soggetti in possesso degli atti e dei documenti non provvedono

131
quando si tratta di atti coperti dal segreto di Stato o dal segreto inerente al loro ufficio o
professione ( e lo dichiarino per iscritto).
Se l’autorità giudiziaria ha motivo di dubitare della fondatezza della dichiarazione circa il segreto
d’ufficio, e ritiene di non procedere senza acquisire gli atti per i quali è stato profilato il vincolo del
segreto, dispone i necessari accertamenti. Se la dichiarazione risulta infondata l’autorità giudiziaria
dispone il sequestro. Quando la dichiarazione concerne un segreto di Stato l’autorità giudiziaria
ne chiede conferma al Presidente del Consiglio dei ministri.
Il sequestro va disposto anche se il bene si trovi nella disponibilità materiale di un terzo.
Le cose sequestrate sono normalmente affidate in custodia alla cancelleria o alla segreteria.
Quando ciò non è possibile l’autorità giudiziaria dispone che la custodia avvenga in luogo diverso,
nominando un altro custode.
La restituzione delle cose sequestrate è disciplinata dalle seguenti regole:
- nel corso delle indagini preliminari la restituzione è disposta dal pm con decreto motivato. Se il
pm non ritiene di accogliere la richiesta di restituzione, la trasmette al giudice per le indagini
preliminari che decide con ordinanza, se non vi è dubbio sull’appartenenza delle cose a suo tempo
sequestrate. Se questo dubbio sussiste il giudice penale rimette la soluzione della controversia al
giudice civile;
- nel corso del processo la restituzione è disposta dal giudice che decide con ordinanza se non vi è
dubbio sull’appartenenza delle cose sequestrate. Se questo dubbio sussiste il giudice penale
rimette la soluzione della questione al giudice civile;
- quando non è necessario mantenere il sequestro ai fini della prova, le cose vanno restituite a chi
ne abbia diritto anche prima della sentenza. Se il sequestro è mantenuto, è il passaggio in
giudicato della sentenza a segnare il tempo della restituzione.

6.Le intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni.


Un atto tipico dell’indagine preliminare è costituito dall’intercettazione di conversazioni e di
comunicazioni. Analogamente a quanto previsto con riferimento alle possibili limitazioni della
libertà personale e di domicilio, le limitazioni della libertà di comunicazione possono essere
disposte solo con atto motivato dell’autorità giudiziaria e con e garanzie previste dalla legge. L’art.
15 Cost. contiene una riserva di legge e una riserva di giurisdizione, e quest’ultima è certamente
una riserva assoluta, dal momento che la polizia giudiziaria non può effettuare nessuna forma
d’intercettazione, nemmeno nei casi di necessità e urgenza. A tale limita di matrice costituzionale
se ne aggiunge altro rappresentato dalla necessaria proporzionalità dell’ingerenza rispetto ai fini,
consistenti nella tutela della sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del
paese, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui.
L’intercettazione è possibile quando la conversazione o la comunicazione avviene attraverso i
canali comunicativi espressamente individuati dal codice, o tra i presenti.
L’intercettazione costituisce il mezzo con cui l’autorità giudiziaria viene a conoscere delle
comunicazioni riservate, che non avvengono in forma scritta: il controllo della conversazione o
delle comunicazioni avviene a sorpresa, all’insaputa quindi degli interessati. Non può essere,
perciò, qualificata come intercettazione né la rivelazione di una conversazione ad opera di chi vi
abbia preso parte, né l’eventuale registrazione, effettuata da queste persone.
Diversa dall’intercettazione è l’acquisizione dei tabulati telefonici e telematici: documenti che
registrano i flussi delle comunicazioni senza riportarne il relativo contenuto. La loro acquisizione
è disposta dal pm anche su istanza del difensore dell’indagato, dell’imputato, dell’offeso o delle
altre parti private.

132
I dati riguardanti al traffico telefonico sono conservati dal gestore per 24 mesi dalla data della
comunicazione cui si riferiscono; quelli relativi al traffico telematico, per 12 mesi; quelli
concernenti le chiamate senza risposta, per 30 giorni. Questi termini sono improrogabili e
inderogabili, anche con riferimento ai reati più gravi.

7.(Segue): i limiti di ammissibilità delle intercettazioni e le forme del procedimento.


I presupposti per l’ammissibilità delle intercettazioni sono costituiti dall’esistenza di gravi indizi di
reato e dell’assoluta necessità dell’operazione ai fini della prosecuzione delle indagini. Deve
trattarsi di indagini relative ai seguenti reati:
a) delitti non colposi, per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel
massimo a 5 anni;
b) delitti contro la pubblica amministrazione, per i quali è prevista la pena della reclusione non
inferiore nel massimo a 5 anni;
c) delitti concernenti sostanze stupefacenti e psicotrope;
d) delitti concernenti armi e sostanze esplosive;
e) delitti di contrabbando;
f) reati di ingiuria, minaccia, usura, abusiva attività finanziaria, abuso di informazioni privilegiate,
manipolazione del mercato, molestia o disturbo alle persone col mezzo del telefono;
g) reati commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche;
h)ipotesi di intercettazioni di comunicazioni tra presenti, da effettuare nei luoghi indicati nell’art.
614 c.p.;
i) intercettazioni finalizzate alla ricerca del latitante: sia telefoniche, sia ambientali quando si tratta
di agevolare le ricerche di un latitante. In questi casi particolari le intercettazioni sono consentite
in qualsiasi stato e grado del procedimento e possono essere utilizzate come prova anche in
procedimento diverso da quello in cui sono eseguite.
L’intercettazione è disposta con decreto motivato, su richiesta del pm, dal giudice per le indagini
preliminari, il quale è chiamato proprio a verificare l’esistenza dei presupposti di ammissibilità del
provvedimento. Non adempie all’obbligo della motivazione il giudice che fa semplicemente
riferimento alla motivazione della richiesta del pm.
Nei casi di urgenza il pm può procedere autonomamente con decreto motivato, che va
comunicato immediatamente (non oltre le 24 ore) al giudice per le indagini preliminari, per
l’eventuale convalida. Se il decreto del pm non è convalidato entro 48 ore, l’intercettazione non
può essere proseguita e i risultati non possono essere utilizzati. La durata delle intercettazioni non
può superare i 15 gg., ma può essere prorogata dal giudice, qualora permangono i presupposti di
ammissibilità, per i periodi successivi di 15 gg.
La materia è stata rimodulata da varie innovazioni normative con riferimento alle ipotesi di reato
di criminalità organizzata e di terrorismo internazionale. Per questi reati è stato allentato il grado
di incisività degli indizi necessari per disporre la captazione; si è dilatata la durata dell’attività di
intercettazione (sino a 40 gg. con proroghe per periodi successivi di venti gg.).
Lungo i medesimi binari speciali si muove la disciplina delle intercettazioni preventive: esse hanno
come scopo quello di prevenire il compimento di delitti di particolare allarme sociale in tema di
criminalità organizzata e terroristica. Possono essere disposte direttamente dal pm con decreto in
presenza di indizi che giustifichino l’attività di prevenzione, o dal procuratore generale del distretto
competente su richiesta del Presidente del consiglio dei ministri.

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Di qualche altra prescrizione occorre tenere il dovuto conto:
 le intercettazioni devono essere registrate e delle relative operazioni è redatto verbale nel
quale viene trascritto sommariamente il contenuto delle comunicazioni intercettate. Nel
registro, devono essere annotati secondo un ordine cronologico i decreti che dispongono le
intercettazioni;
 le operazioni possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti istallati presso
la Procura della Repubblica. Quando si procede a intercettazione di comunicazione
informatiche o telematiche è possibile utilizzare impianti privati.
 I verbali e le registrazioni sono immediatamente trasmessi al pm e depositati in segreteria per
il tempo fissato dal pm, salvo che il giudice non riconosca necessaria una proroga;
 Se dal deposito delle registrazioni può derivare un grave pregiudizio per le attività
investigative, il pm può essere autorizzato dal giudice a ritardarlo, fino alla chiusura delle
indagini preliminari;
 Dopo il deposito le parti, tempestivamente avvisate, hanno facoltà di esaminare gli atti e di
ascoltare le registrazioni;
 L’acquisizione delle conversazioni e le successive trascrizioni delle registrazioni sono gli
epiloghi garantiti di un’attività investigativa impostata nel segno della clandestinità e della
sorpresa;
 Le trascrizioni, una volta assunte nella perizia, sono inserite nel fascicolo per il dibattimento.

8.(Segue): l’utilizzazione delle intercettazione e i divieti probatori.


I risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati solo nel procedimento in cui è stato emesso
il decreto che le ha disposte. Detto limite può essere superato, e l’utilizzazione in altri
procedimenti può essere dunque riconosciuta, quando i risultati delle intercettazioni si palesino
indispensabili per l’accertamento di delitti, per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. In
questo caso i verbali e le registrazioni sono depositati presso l’autorità competente per il diverso
procedimento e ai difensori delle parti è dati avviso della facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le
registrazioni. Dopo l’acquisizione degli atti depositati, si provvede alla trascrizione delle
registrazioni e alla loro successiva inclusione nel fascicolo per il dibattimento.
Di un divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni può parlarsi in altri tre casi:
1) nel caso in cui non siano stati rispettati i limiti di ammissibilità delle intercettazioni,
disponendole, ad esempio, in un procedimento relativo a un delitto colposo;
2) nel caso in cui non siano state rispettate le regole circa la competenza a disporre le
intercettazioni, le prescrizioni del decreto e le modalità previste per l’esecuzione delle operazioni;
3) nel caso in cui le intercettazioni siano relative a conversazioni o comunicazioni di persone
vincolate dal segreto professionale e abbiano ad oggetto fatti conosciuti per ragioni del loro
ministero, ufficio o professione.
In tutte e tre le ipotesi la documentazione dell’attività di captazione è distrutta, salvo che
costituisca corpo del reato. Analoga sorte è riservata alla documentazione ritenuta non necessaria
per il procedimento, ancorché legittimamente acquisita. Qui dono gli stessi soggetti interessati
dall’attività di captazione a poterne chiedere la distruzione al giudice che ha autorizzato o
convalidato l’intercettazione. Il giudice decide sulla richiesta in esisto a una procedura camerale e,
nel caso in cui la disponga, vigila sulle operazioni di distruzione delle quali è redatto verbale.
Un procedimento particolare è previsto per le intercettazioni casuali di membri del Parlamento.
Occorre distinguere a seconda che esse siano ritenute irrilevanti o rilevanti dal giudice per le
indagini preliminari.

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Irrilevanti dopo aver sentito le parti, il giudice dispone l’integrale distruzione delle
intercettazioni.
Rilevanti sempre dopo l’udienza camerale, deve richiedere l’autorizzazione all’utilizzo della
Camera di appartenenza. Qualora l’assenso fosse negato, il giudice deve provvedere alla
distruzione della documentazione delle intercettazioni in questione; sempreché ciò non comporti
un pregiudizio nei confronti dei terzi, non parlamentari, casualmente intercettati.
Nessun utilizzo può essere fatto dei documenti, dei supporti, degli atti concernenti dati e contenuti
di conversazioni o comunicazioni, relativi al traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o
acquisiti. Questi sono avviati alle operazioni di distruzione dopo che se ne sia accertata l’effettiva
illiceità. A questa verifica e alla successiva, eventuale, distruzione provvede, entro 48 ore dalla
richiesta del pm, il giudice per le indagini preliminari all’esito di un’udienza in camera di consiglio
in cui è garantita la partecipazione necessaria dei soggetti interessati. Delle operazione di
distruzione è redatto un verbale nel quale, oltre che dei soggetti coinvolti, occorre dare conto delle
circostanze inerenti l’attività di formazione, acquisizione e raccolta del materiale distrutto, con la
sola esclusione del suo contenuto.

MISURE CAUTELARI

Capitolo primo
CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

1.La funzione cautelare e il rispetto dei valori di libertà personale e patrimoniale.


Il decorso del tempo necessario alla conclusione della vicenda processuale mette a rischio il
raggiungimento degli scopi connessi ad un efficace esercizio della funzione giudiziaria penale. Per
evitare tale rischio il libro quarto del codice di procedura penale predispone una serie di misure
cautelari di carattere sia personale che reale, dirette ad imporre delle limitazioni alla libertà
personale e a quella patrimoniale.
Nell’ambito del diritto alla libertà personale la regola dell’inviolabilità è stabilita nell’art. 13 Cost.,
nell’art. 5 Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nell’art. 9 Patto internazionale dei diritti
civili e politici. Ciò non significa che sia bandita qualsiasi restrizione della libertà personale.
Le stesse disposizioni prevedono la possibilità di imporre delle limitazioni alla sfera della libertà
personale. L’adozione del provvedimento restrittivo è subordinata al soddisfacimento di alcune
condizioni di garanzia di differente spessore in considerazione dei diversi ambiti, nazionale e
internazionale, in cui le disposizioni medesime sono destinate ad operare.
Il meccanismo di tutela è rappresentato dalla duplice riserva: di giurisdizione e di legge.
Riserva di giurisdizione contenuta nel comma 2 dell’art. 13 Cost. che esclude la possibilità di
restrizione della libertà personale “se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria”. La riserva,
però, non è assoluta perché subito dopo, al comma 3, la stessa disposizione stabilisce che, ferma
sempre restando La riserva di legge, per i casi eccezionali di necessità ed urgenza l’autorità di
pubblica sicurezza può adottare provvedimenti restrittivi provvisori da comunicare all’autorità
giudiziaria entro 48 ore.
Riserva di legge è espressa nell’ultima parte del comma 2 dell’art. 13 Cost., laddove si stabilisce
che la limitazione alla libertà personale può avvenire “nei soli casi e modi previsti dalla legge”. La
135
riserva non ammette deroghe e va rispettata anche nei casi di necessità ed urgenza in cui può
realizzarsi una deroga alla ordinaria “riserva di giurisdizione”.
Nel quadro della disciplina costituzionale, in definitiva, la restrizione della libertà personale è
soggetta ad una doppia condizione:
- la previsione legislativa dei casi e dei modi;
- l’adozione di un provvedimento giurisdizionale motivato, che eccezionalmente può intervenire
anche successivamente alla restrizione stessa.
Ulteriori garanzie sono poi contenute nell’art. 111 comma 7 Cost., che prescrive la ricorribilità in
Cassazione contro tutti i provvedimenti sulla libertà personale, e nell’art. 13 comma 5 Cost., che
impone la fissazione di termini massimi di carcerazione preventiva.
Per quanto riguarda le limitazioni al diritto di godere e di disporre dei beni patrimoniali, la Corte
costituzionale stabilisce la sola riserva di legge:
- all’art. 41 commi 1 e 3: “l’iniziativa economica privata è libera..La legge determina i programmi e
i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e
coordinata a fini sociali”.
- all’art. 42 comma 2: “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina
i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla
accessibile a tutti”.

2.(Segue): il problema del cosiddetto “vuoto dei fini” nell’art. 13 Cost.


Nessuna previsione contiene l’art. 13 Cost. in ordine agli scopi in vista dei quali è consentito il
sacrificio della libertà personale.
Ma questo “vuoto dei fini può essere in parte colmato dal ricorso ad altre disposizioni
costituzionali, ed in particolare dalla previsione dell’art. 27 comma 2 Cost. che stabilisce il
principio secondo cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.
Disposizioni del medesimo tenore si ritrovano pure nel n. 2 dell’art. 6 Convenzione europea e nel
n.2 dell’art. 14 Patto internazionale.
Tali regole costituiscono il contenuto minimo dei limiti imposti al legislatore nella prefigurazione
delle situazioni che giustifichino una restrizione della libertà personale. Se l’imputato, prima della
sentenza definitiva, è considerato non colpevole è evidente che nessuna limitazione della sua
libertà personale può disporsi sulla sola base della sussistenza di eventuali elementi di
colpevolezza; nessuna protezione di interessi fondati su un giudizio di colpevolezza intervenuto
prima dell’accertamento definitivo può giustificare il sacrificio di quella libertà che l’art. 13 Cost.
dichiara inviolabile.
È bandita dal quadro costituzionale ogni situazione che realizzi un’anticipazione della pena. La
restrizione della libertà personale è legittima solo quando è disposta a protezione di interessi o di
scopi che magari presuppongono accertamenti probatori o valutazioni anticipate di colpevolezza
dell’imputato, ma che abbiano rilevanza autonoma e corrispondono ad ulteriori e specifiche
esigenze, di natura costituzionale o pattizia, ritenute meritevoli di tutela.
° Alle finalità cautelari sono dirette sia le misure personali sia quelle reali. Le prime comprendono
le misure coercitive e le misure interdittive. Le seconde si riferiscono al sequestro conservativo e al
sequestro preventivo.
Una posizione a parte ha l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza.
Non risultano giustamente comprese nello stesso libro, invece, l’accompagnamento coattivo,
l’arresto in flagranza e il fermo. Il primo perché non costituisce propriamente un atto a finalità

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cautelare e può essere diretto anche contro la persona non colpita da indizi nei casi in cui si vuole
ottenere da questa un contributo di carattere probatorio ai fini dell’accertamento dei fatti.
L’arresto ed il fermo non vi rientrano perché, producendo soltanto effetti provvisori legati alla
convalida penale, trovano la loro sede più adeguata nell’ambito delle indagini preliminari.
Non vi rientrano neppure le varie forme di sequestro penale, in quanto esse hanno una funzione
non cautelare, bensì essenzialmente probatoria in quanto intese all’acquisizione del materiale di
prova per l’accertamento dei fatti e poi, eventualmente, alla confisca.

Capitolo secondo
LE MISURE CAUTELARI PERSONALI

1.Le disposizioni generali in tema di misure cautelari personali: il principio di legalità e la riserva
di giurisdizione.
Il titolo relativo alle misure cautelari personali si apre con un capo dedicato alle regole generali che
governano tutta la materia delle restrizioni alle libertà della persona, creando così le condizioni per
poter procedere ad una sistemazione unitaria della complessa disciplina delle misure cautelari nel
processo penale.
Si parla di limitazioni alle “libertà della persona”, e non alla libertà personale., per sottolineare che
la regolamentazione riguarda tutte le misure restrittive e non solo quelle che si riferiscono alla
libertà dell’individuo intesa come “libertà fisica di movimento”.
Art. 272 c.p.p.: “le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a
norma delle disposizioni del presente titolo”.
Il principio di legalità così sancito riveste una duplice funzione:
- stabilisce che il potere di imporre delle restrizioni alla libertà della persona ha fondamento solo
nella legge;
- specifica che tale restrizione nel processo penale può avvenire per finalità di ordine cautelare nei
limiti e alle condizioni fissati dalle disposizioni di legge contenute nel titolo primo del libro quarto
del c.p.p.
Il soggetto a cui è attribuito l’esercizio dei poteri di restrizione delle libertà è esclusivamente
l’organo giurisdizionale. Stabilisce, infatti, l’art 279 che tutti i provvedimenti restrittivi, ed in
particolare l’applicazione, la revoca e le modifiche di essi, sono di competenza del giudice che
procede nel momento in cui i provvedimenti vengono richiesti ovvero devono essere d’ufficio
adottatati.
Se in tale momento non pende nessun processo penale la competenza spetta al giudice per le
indagini preliminari; all’organo, cioè, che nel nuovo modello processuale è istituzionalmente
chiamato, a garanzia dei diritti del cittadino, a svolgere una funzione giurisdizionale pur in assenza
di un esercizio di azione penale. L’art. 91 n. att. c.p.p. specifica chi è il giudice competente nel
corso del dibattimento e dopo la sentenza.
Quando il giudice ritiene di essere incompetente per qualsiasi causa e riconosce sussistenti le
esigenze cautelari dispone la misura anche con lo stesso provvedimento con cui si dichiara
incompetente. In tal caso, la misura cessa di avere effetto se, entro 20 giorni dalla ordinanza di
trasmissione degli atti, il giudice competente non provvede a norma degli artt. 292, 317 e 321. Il
termine decorre dalla data del provvedimento di trasmissione, a nulla rilevando l’organo al quale
gli atti stessi siano inviati.

137
Il pm procedente ha solo un potere di richiesta in ordine all’adozione delle misure cautelari ed ha
bisogno dell’assenso scritto del procuratore della Repubblica, ovvero del procuratore aggiunto o
del magistrato appositamente delegati a meno che egli non formuli la sua richiesta in occasione
della richiesta di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo di indiziato. Ritiene la
giurisprudenza che la mancanza di assenso scritto da parte del procuratore della Repubblica non
sia condizione di validità della richiesta di applicazione di misure cautelari personali, presentata dal
magistrato dell’ufficio del pm, assegnatario del procedimento e della conseguente ordinanza
cautelare.
In vista delle esigenze connesse con le indagini, e quindi al di fuori di ogni finalità di tipo
propriamente cautelare, la legge concede agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria il potere di
procedere all’arresto o al fermo della persona indiziata di un delitto. Al pm il comma 1 dell’art. 384
attribuisce solo il potere di disporre il fermo. Facoltà di arresto vie4ne concessa anche ai privati nei
casi in cui l’arresto stesso è previsto come obbligatorio per la polizia giudiziaria.
Tutti i suddetti provvedimenti limitativi della libertà personale sono provvisori e perdono di
efficacia se non vengono convalidati ovvero se non è richiesta la convalida entro le 48 ore. Organo
competente per la convalida è esclusivamente il giudice.

2.Le condizioni di applicabilità delle misure e il quadro delle esigenze cautelari.


Le condizioni generali richiesti per l’adozione delle misure cautelari personali sono costituite dal:
 Fumus commissi delicti;
 Periculum libertatis;
Un ulteriore particolare condizione dettata in funzione di limite all’applicabilità delle misure è
prevista dagli artt. 280 e 287. In base a tali norme le misure coercitive ed interdittive possono
essere disposte soltanto quando si è in presenza di un delitto per il quale la legge stabilisce la pena
dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni.
La custodia cautelare in carcere può essere disposta “solo per delitti consumati o tentati, per i
quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni e per il delitto di
finanziamento illecito dei partiti, salvo che si tratti di persona che abbia trasgredito alle
prescrizioni inerenti ad una misura cautelare.
Fumus commissi delicti.
L’accertata presenza dei “gravi indizi di colpevolezza” costituisce il presupposto indispensabile per
l’adozione di qualsiasi misura restrittiva della libertà della persona.
È certo lasciata alla discrezionalità del giudice la definizione del concreto livello di consistenza al
quale devono pervenire gli elementi di prova per poter fondare il provvedimento cautelare, ma già
dallo stesso tipo di formula normativa adottata si coglie il grado di protezione accordata alla
situazione di libertà: “nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non
sussistono gravi indizi di colpevolezza”.
Il termine “indizi” riveste un significato diverso a seconda che si voglia fare riferimento agli
elementi di prova necessari e sufficienti per affermare la responsabilità di un soggetto in ordine al
reato ascrittogli, ovvero a quelli legittimanti una misura cautelare coercitiva: nel primo caso per
indizi si intendono le prove logiche o indirette attraverso le quali da un fatto certo si risale per
massime di comune esperienza, ad uno incerto, mentre nel secondo caso il termine indizi fa
riferimento a quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa che non valgono, di per
sé, a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato e consentono, per la loro
consistenza, di prevedere che, attraverso l’acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a

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dimostrare che tale responsabilità, fondando, nel frattempo, una qualificata probabilità di
colpevolezza.
Con l’introduzione nell’art. 273 del comma 1- bis in forza del quale “nella valutazione dei gravi
indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli artt. 192 commi 3 e 4, 195 comma 7, 203 e
271 comma 1”, i due diversi ambiti di significato degli indizi, anche se continuano a non incidere,
tuttavia si avvicinano notevolmente. Resta, comunque, al di fuori dal campo delle misure cautelari
la necessità che gli indizi siano gravi, precisi e concordanti, come imposto, invece, ai fini della
valutazione della prova della responsabilità.
Periculum libertatis
L’accertata sussistenza del requisito del fumus commissi delicti, è elemento indispensabile man
non sufficiente a legittimare l’applicazione di una misura cautelare. Al tal fine è necessario il
verificarsi della seconda condizione generale: il pericolo che la persona destinataria della misura,
lasciata libera, possa pregiudicare le esigenze connesse all’accertamento ritenute meritevoli di
protezione.
L’art. 274 disegna il quadro di tali esigenze indicando una triplice direzione.
A) Nella prima rientrano le finalità probatorie. Si tratta del parametro più tipico per misurare le
esigenze che possano portare all’applicazione di una misura cautelare. La salvaguardia delle
finalità di accertamento dai rischi di dispersione e inquinamento del materiale probatorio deve
però rapportarsi non solo a situazioni di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione o la
genuinità della prova ma anche a specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini sui fatti
per i quali si procede. Il pericolo di inquinamento è stato ravvisato anche nelle ipotesi in cui le
indagini siano già concluse, ma si debba proteggere l’acquisizione della prova e la conservazione
della sua genuinità.
B) Nella seconda direzione sono comprese le situazioni di cautela finale. Si tratta delle esigenze di
evitare il rischio che l’imputato si sottragga all’esecuzione dell’eventuale sentenza di condanna
emessa a suo carico a conclusione del processo. La fuga o il pericolo di fuga assume la rilevanza ai
fini cautelari soltanto quando riguarda processi in cui il giudice ritiene che possa essere irrogata
una pena superiore ai due anni di reclusione.
Il riferimento all’irrogazione di una pena superiore al due anni di reclusione non rileva, secondo la
giurisprudenza, quando si tratta di misure cautelari in relazione ad un mandato d’arresto europeo,
in quanto il rinvio alle disposizioni dell’art. 274 comma 1 lett. b c.p.p. comporta l’obbligo per il
giudice di motivare congruamente soltanto in ordine alla sussistenza di un concreto pericolo di
fuga.
C) La figura più discussa è quella che riguarda la terza. Si tratta del pericolo che l’imputato lasciato
libero possa commettere una serie di gravi fatti criminosi tassativamente elencati dalla norma:
“gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine
costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si
procede”.
La valutazione della “gravità” del delitto è rimessa al libero apprezzamento del giudice non
risultando suggerito alcun parametro normativo. Il requisito del “pericolo” va stabilito sulla base
della situazione concreta e va riferito a precisi indici normativi riguardanti le specifiche modalità e
circostanze del fatto e la personalità dell’imputato desunta da suoi specifici comportamenti o
precedenti penali.

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Condizione stabilita dagli artt. 280 e 287 c.p.p.
Essa rappresenta un limite oggettivo al potere coercitivo del giudice in funzione della delimitazione
di un’area protetta di libertà della persona invalicabile rispetto ad ogni istanza di tipo cautelare.
Art. 289: “salvo quanto disposto dai commi 2 e 3 del presente articolo e dall’art. 391, le misure
previste in questo capo possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la
legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni”.
La clausola di riserva riguarda:
1) la previsione secondo cui la custodia in carcere può essere disposta soltanto per delitti per i
quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni e per il delitto di
finanziamento illecito dei partiti, salvo che si tratti di trasgressione alle prescrizioni inerenti ad una
misura cautelare;
2) l’ipotesi in cui il giudice, in sede di convalida dell’arresto, ritiene di disporre una misura
coercitiva nei confronti della persona arrestata nella situazione descritta dal comma 2 dell’art. 381
c.p.p. ovvero per uno dei delitti per i quali l’arresto è consentito anche fuori dai casi di flagranza. In
tal caso il limite segnato dall’art. 280 può essere superato.
Per l’applicabilità della misura è sempre richiesta la sussistenza delle due sopra indicate condizioni
generali del fumus commissi delciti e del periculum libertatis.
Per le misure interditive, l’art. 287 stabilisce che, “salvo quanto previsto a disposizioni per delitti
per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre
anni”.
La norma contiene una clausola di riserva che consente ampie deroghe. Queste si riferiscono
soprattutto alle ipotesi in cui a causa del nesso funzionale che lega la misura applicabile al tipo di
reato addebitato appare opportuno superare il limite di sbarramento.

3.Il provvedimento del giudice e i criteri di scelta della misura: l’adeguatezza e la


proporzionalità.
Una volta che il giudice abbia accertato i gravi indizi di colpevolezza ed abbia ritenuto sussistente il
periculum libertatis per una qualsiasi delle tre figure di esigenza indicate dall’art. 274 c.p.p., deve
disporre la misura cautelare. Il vincolo per il giudice di emettere il provvedimento restrittivo della
libertà della persona è la naturale conseguenza dell’esercizio di un potere discrezionale
legalmente determinato dalla legge, il giudice deve decidere conseguenzialmente; nessun’altra
ulteriore facoltà di determinazione gli è attribuita.
Il criterio dell’adeguatezza deve ispirare il giudice nella scelta della misura cautelare da imporre.
Dispone, infatti, l’art. 275 comma 1 che il giudice deve tener conto della specifica idoneità di
ciascuna misura a soddisfare le esigenze evidenziate nel caso concreto. Il giudizio di idoneità va
misurato sulla natura e sul grado delle esigenze cautelari specificamente ritenute meritevoli di
protezione.
Va tenuta sempre presente la regola che considera la custodia in carcere come l’extrema ratio,
potendo essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata.
Il criterio di adeguatezza, va integrato con il principio di proporzionalità; vale a dire, con un limite
generale che è destinato ad avere diffuse applicazioni e che in definitiva concede ampi spazi di
discrezionalità al giudice. Si trat6ta del limite fissato dal comma 2 dell’art. 275, secondo il quale
ogni misura deve risultare proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o so
ritiene in concreto possa essere applicata.

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Si tratta di una regola che contribuisce a dare al principio di proporzionalità anche quel significato
secondo il quale non si deve far pagare all’imputato un prezzo che egli non sarà chiamato
probabilmente a sostenere neanche dopo la condanna.
L’attuale testo dell’art. 275 comma 2- bis, da un canto, stabilisce chiaramente la rilevanza delle
condizioni di concessione della sospensione condizionale della pena ai fini della valutazione di
proporzionalità della misura, dall’altro , limita inopinatamente tale rilevanza alla sola cusotdia
cautelare, escludendo quella interpretazione giurisprudenziale che tendeva a far rientrare anche la
sospensione condizionale tra le cause impeditive di tutte le misure cautelari di cui al citato art. 273
comma 2.
Nonostante questo effetto limitato, la nuova disposizione riconsegna al giudice un potere di
valutazione che man mano si era andato assottigliando. Ai fini del giudizio di proporzionalità egli
deve non solo ponderare il fatto e predire la sanzione che potrà essere irrogata in caso di
condanna, ma deve anche vagliare la sussistenza di tutte le condizioni previste dalla legge per la
concessione della sospensione condizionale della pena nel caso in cui il pm richieda l’applicazione
della custodia cautelare. La valutazione va fatta non soltanto nel momento dell’imposizione della
misura, ma anche quando si deve decidere del suo mantenimento ai sensi dell’art. 299 c.p.p.,
quando sono diventati più intensi e più articolati i materiali probatori.
Fissato così il quadro generale dei principi che guidano il giudice nella scelta della misura
coercitiva, esaminiamo ora il catalogo delle deroghe, con l’avvertenza che esso è stato
recentemente oggetto di ripetuti interventi da parte della corte costituzionale.
In primo luogo, balza per spessore traumatico il secondo periodo della disposizione contenuta
nell’art. 275 comma 3 c.p.p. La predetta disposizione stabilisce che, in presenza di gravi indizi di
colpevolezza in ordine a delitti particolarmente gravi, si applica la custodia cautelare in carcere,
salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari.
Stabilendo un rapporto tra i reati che destano allarme sociale e necessità della misura carceraria,
tale disposizione svuota di significato la discrezionalità del giudice in tema di misure cautelari
attraverso lo sbarramento di una duplice presunzione legale. La prima, iurus tantum, concernente
la sussistenza delle esigenze cautelari, e quindi la necessità di imporre la misura: il giudice può non
disporla quando risultino acquisiti agli atti elementi che dimostrano l’insussistenza dell’esigenza
cautelare. La seconda, iuris et de iure, riguardante la valutazione di adeguatezza: l’unica misura
adeguata è la custodia in carcere, senza alternativa e senza neanche future possibilità di ottenere
l’affievolimento della misura applicata. Il giudice non può disporne una meno grave, neanche se
l’avesse richiesta lo stesso pm.
Si tratta di un’inversione dell’impegno di motivazione nel disporre la misura: il giudice, soltanto
nell’ipotesi di rigetto della richiesta di applicazione della misura, deve esporre i motivi che negano
la presenza di qualsiasi esigenza cautelare nel caso concreto. Una volta esclusa quest’ultima
possibilità, e quindi dato per sussistente il periculum libertatis, la scelta è normativamente
obbligata: la custodia in carcere.
La portata “dirompente” della previsione contenuta nel’art. 275 comma 3 è stata
progressivamente ridimensionata da ripetuti interventi della Corte costituzionale, che ha
censurato la norma con riferimento alla maggior parte delle ipotesi di presunzione legale di
adeguatezza della custodia cautelare in carcere in essa contenute.
La Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 275 comma 3 nella parte in cui non fa salva l’ipotesi in
cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. È stata, inoltre, dichiarata
costituzionalmente illegittima, nei medesimi termini, l’omologa presunzione assoluta nei confronti

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della persona gravemente indiziata di taluno dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina, previsti dal comma 3 del medesimo art. 12.
Si instaura così un regime a doppio binario: un binario più rigido con riferimento ad alcuni delitti
per i quali continua a vigere in toto la disciplina predisposta dall’art. 275 comma 3 c.p.p. nella sua
formulazione originaria; un binario meno rigido, per i delitti per i quali il giudice non è obbligato a
disporre la custodia cautelare in carcere, ma può scegliere una misura diversa.
Il regime cautelare “speciale” di cui all’art. 275 comma 3 metterebbe in crisi i principi di
adeguatezza e graduazione, che regolano l’esercizio del potere cautelare, rovesciando il principio
del “minor sacrificio necessario” sottostante alla formulazione originaria della predetta norma, in
forza della quale è conferito ordinariamente al giudice della cautela il potere- dovere di
distinguere i diversi fatti riconducibili alla medesima figura di reato e la differente intensità delle
esigenze di tutela, ai fini della scelta della misura meglio rispondente al caso concreto.
Una speciale valutazione di adeguatezza sulla misura cautelare personale emerge pure dall’ art.
275 comma 2-ter che vuole che siano sempre disposte tali misure “quando, all’esito dell’esame
condotto a norma del comma 1- bis, risultano sussistere esigenze cautelari previste dall’art. 274 e
la condanna riguarda uno dei delitti previsti dall’art. 380 comma 1, e questo risulta commesso da
soggetto condannato nei 5 anni precedenti per delitti della stessa indole”.
Un altro particolare vincolo normativo riguardante l’inadeguatezza della custodia in carcere è
contenuto nell’art. 274 comma 4. Tale disposizione, in considerazione di caratteristiche personali
dell’imputato, presume l’inadeguatezza della custodia in carcere, che non può essere disposta né
mantenuta; il giudice dovrà individuare la misura più adeguata tra le rimanenti, valutando altresì la
possibilità di disporre la custodia presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ove le
esigenze cautelai di eccezionale rilevanza lo consentano.
Non può, inoltre, essere disposta l custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze
cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputato sia persona che ha superato l’età di 70 anni.
Un ulteriore ed esplicito divieto di applicazione della custodia cautelare è sancito dal comma 4- bis
dell’art. 275 in relazione ad imputati affetti da “AIDS conclamata o da grave deficienza
immunitaria accertate ai sensi dell’art. 286- bis comma 2, o da altra malattia particolarmente
grave” per effetto della quale le condizioni di salute di tale soggetti risultino incompatibili con lo
stato di detenzione e siano comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione
carceraria. Il suddetto divieto subisce tuttavia alcune deroghe. L’art. 275 comma 4-ter, prevede
infatti che, ove sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e l’adozione della custodia
cautelare presso idonee strutture penitenziarie non risulti possibile “senza pregiudizio per la salute
dell’imputato o di quella degli altri detenuti”, il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari
“presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza” o, trattandosi di soggetti affetti da AIDS
conclamata o da grave deficienza immunitaria, presso le unità operative o gli altri luoghi indicati
dalla stessa norma. Inoltre, pur in presenza delle situazioni appena menzionate, il giudice potrà
comunque disporre la custodia cautelare in carcere qualora “il soggetto risulti imputato o sia stato
sottoposto ad altra misura cautelare per uno dei delitti previsti dall’art. 380, relativamente a fatti
commessi dopo l’applicazione delle misure disposte ai sensi dei commi 4-bis e 4-ter”; in tali
l’imputato dovrà essere condotto in un istituto dotato di un reparto attrezzato per la cura e
l’assistenza necessarie.
La disposizione contenuta nel comma 4- quinquies di tale articolo esclude la possibilità di adottare
o mantenere la custodia cautelare in carcere quando la malattia si trova in una fase così avanzata
da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai
trattamenti disponibili e alle terapie curative”.

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Con riferimento al principio di adeguatezza è da mettere in evidenza la previsione di cui all’art. 89
del d.p.R. 309/1990, il quale prevedeva il divieto della custodia in carcere per i soggetti
tossicodipendenti o alcool dipendenti sottoposti al programma di recupero, salvo la sussistenza di
esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Tale articolo, accorda la preferenza alla misura degli
arresti domiciliari, stabilendo che, nel caso in cui debba essere emanato un provvedimento
applicativo della misura cautelare in carcere nei confronti di persona tossicodipendente o alcool
dipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per
l’assistenza ai tossicodipendenti o nell’ambito di una struttura privata autorizzata, il giudice
dispone gli arresti domiciliari qualora l’interruzione del programma possa pregiudicare la
disintossicazione dell’indagato, sempre che non sussistano esigenze cautelari di eccezionale
rilevanza. Il provvedimento è subordinato alla prosecuzione del programma terapeutico in una
struttura residenziale e in ogni caso in cui sussistano particolari esigenze cautelari. Gli arresti
domiciliari vengono parimenti disposti, previa revoca della misura della custodia in carcere,
qualora una persona tossicodipendente o alcool dipendente sottoposta a quest’ultima misura
intenda seguire un programma di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai
tossicodipendenti o nell’ambito di una struttura privata autorizzata, sempre che non sussistano
esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
Nell’ambito del principio di adeguatezza, l’art. 276 c.p.p. detta una particolare norma di
specificazione diretta a regolare le conseguenze derivanti dalla inosservanza delle prescrizioni che
accompagnano le singole misure cautelari. La disposizione riguarda tutte le misure coercitive o
interdittive cui normalmente ineriscono degli specifici obblighi che il giudice dispone al fine di
rendere più adeguato il provvedimento restrittivo.
La disposizione in parola stabilisce che in caso di inosservanza delle prescrizioni imposte dal
provvedimento cautelare il giudice può sostituire o cumulare la misura applicata con un’altra più
grave. La valutazione viene affidata al potere discrezionale del giudice e si incentra sulla gravità
della violazione con riferimento all’entità, ai motivi e alle circostanze. Un’eccezione a questa
regolo è contemplata dal comma 1-ter dell’art. 276 il quale stabilisce l’automatica sostituzione
degli arresti domiciliari con la custodia cautelare nel caso di violazione del divieto di allontanarsi
dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora. In proposito la Corte costituzionale
parla di presunzione di inadeguatezza degli arresti domiciliari che però non priva il giudice “del
potere di apprezzare la trasgressione in concreto realizzata al fine di verificare quei caratteri di
effettiva lesività alla cui stregua ritenere integrata la violazione assunta dalla norma a presupposto
della sostituzione”. La disposizione dell’art. 276 prevede, inoltre, al comma 1-bis che, qualora
l’imputato si trovi nelle condizioni di cui all’art. 275 comma 4-bis e nei suoi confronti sia stata
disposta una misura diversa dalla custodia cautelare in carcere, la trasgressione delle prescrizioni
inerenti a tale diversa misura può determinare l’applicazione in via sostitutiva della custodia
cautelare in carcere. In tal caso il giudice disporrà che l’imputato venga condotta in un istituto
dotato di un reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie.
Se l’inosservanza riguarda le prescrizioni inerenti ad una misura interdittiva, il giudice può disporne
la sostituzione o il cumulo anche con una coercitiva.
Correlata pure con il principio di adeguatezza si presenta la disposizione generale prevista dall’art.
277 che riafferma una valore assoluto di civiltà: la preminenza della tutela della personalità
dell’individuo. L’art. 277, al fine di escludere che la misura cautelare possa assumere una carattere
vessatorio, stabilisce la regola che le modalità di esecuzione delle misure devono salvaguardare i
diritti della persona il cui esercizio non risulti incompatibile con le esigenze cautelari del caso
concreto. La regola, oltre alla riaffermazione di un principio generale di garanzia dei diritti della

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persona sottoposta a procedimento penale, ha il preciso scopo di fissare un limite al potere
discrezionale del giudice nella determinazione del quadro delle prescrizioni apponibili alla misura
concretamente disposta.
L’osservanza del principio di adeguatezza implica non solo la scelta della misura più idonea al
raggiungimento degli scopi cautelari del caso specifico, ma anche la ricerca delle modalità
applicative più rispettose della garanzia del soddisfacimento di tutti i diritti della persona che in
concreto non risultino di essere incompatibili con gli accennati scopi.

4.I parametri di determinazione della pena ai fini delle misure.


L’art. 278 c.p.p. fissa i criteri generali validi per determinare l’ammontare della pena ai fini
dell’applicazione delle misure di cautela personale. In linea di principio l’entità della pena serve al
legislatore come parametro per misurare la gravità del fatto delittuoso; in particolare, nell’ambito
delle misure cautelari essa serve anche a stabilire un limite oggettivo di garanzia per l’imputato: al
di sotto di un certo livello di pena il disvalore del fatto di reato è così tenue che le esigenze di
cautela non possono prevalere di fronte alle istanze di libertà della persona. Così, l’art. 280
attribuisce al giudice il potere di disporre una misura coercitiva soltanto quando si procede per un
delitto punibile con la reclusione superiore nel massimo a tre anni: se la misura da applicare è la
custodia in carcere la pena prevista non deve essere inferiore nel massimo a cinque anni.
Il criterio fondamentale è quello di considerare rilevante ai fini cautelari soltanto la gravità
risultante dai fatti principali e non da quelli accessori. Per cui si tiene conto della pena edittale
comminata dalla legge per ciascun reato consumato o tentato e si ignorano i mutamenti di pena
derivanti dalla continuazione, dalla recidiva e dalle circostanze di reato.
Si fa eccezione invece per i mutamenti che derivano dalla circostanza aggravante di avere
approfittato di situazioni di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da
ostacolare la pubblica o privata difesa, da quella attenuante del danno patrimoniale di speciale
tenuità, dalle circostanze per le quali al legge stabilisce una pena di specie diversa da quella
ordinaria del reato e dalle circostanze ad effetto speciale.

5.Le misure coercitive.


Le singole misure coercitive sono previste negli artt. 281-286 c.p.p. secondo una logica di
progressiva compressione della libertà della persona: dall’imposizione di semplici obblighi di non
fare a vere e proprie limitazioni della libertà di movimento fisico. Esse sono:
1)DIVIETO DI ESPATRIO: si impone al soggetto destinatario della misura di non lasciare il territorio
nazionale senza prima munirsi di un’autorizzazione del giudice.
2)OBBLIGO DI PRESENTAZIONE A UN UFFICIO DI POLIZIA GIUDIZIARIA: il provvedimento deve
contenere l’indicazione dell’ufficio al quale l’imputato si deve presentare nonché la precisazione
dei giorni e delle ore. Il giudice nella determinazione di questi ultimi elementi deve tener conto
dell’attività lavorativa e del luogo di abitazione dell’imputato.
3)ALLONTANAMENTO DALLA CASA FAMILIARE: tipica misura concernente le situazioni di violenza
nelle relazioni parentali, il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente l’abitazione
familiare o di non farvi rientro, non di non accedervi senza autorizzazione.
4)DIVIETO DI AVVICINAMENTO AI LUOGHI FREQUENTATI DALLA PERSONA OFFESA: il giudice
prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla
persona offesa o di mantenere una determinata distanza da codesti luoghi o dalla persona offesa
e, qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, può altresì prescrivere di nono avvicinarsi a luoghi
determinati abitualmente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con

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essa conviventi o comunque legate da relazione affettiva o di mantenere una determinata distanza
da tali luoghi o da tali persone. Il giudice può, inoltre, vietare all’imputato di comunicare,
attraverso qualsiasi mezzo, con le suddette persone. Se, però, la frequentazione dei luoghi di cui
sopra è necessaria per motivi di lavoro ovvero per esigenze abitative, il giudice prescrive le relative
modalità e può imporre limitazione.
5)DIVIETO E OBBLIGO DI DIMORA: il con il divieto si prescrive all’imputato di non entrare in
contatto con un determinato luogo senza l’autorizzazione del giudice. L’utilità si coglie
considerando l’allontanamento dell’imputato dal luogo dove si svolgono le indagini come idoneo
al fine di prevenire l’inquinamento della prova o anche la commissione di reati di cui
indubbiamente il luogo del fatto può essere occasione.
Con l’obbligo di dimora il giudice prescrive all’imputato di non allontanarsi senza autorizzazione
dal territorio del comune di abituale dimora. Con il provvedimento che dispone l’obbligo di dimora
il giudice indica l’ufficio di polizia al quale l’imputato deve presentarsi e dichiarare il luogo di
abitazione. Il giudice può progressivamente restringere gli spazi di libertà disponendo che
l’imputato dichiari all’autorità di polizia gli orari e i luoghi in cui sarà quotidianamente reperibile o
che lo stesso non si allontani dall’abitazione in alcune ore del giorno, quando ciò non comporta un
“pregiudizio per le normali esigenze di lavoro”. Tale prescrizione appare sostanzialmente
omogenea a quella prevista per gli arresti domiciliari laddove è disposto che il giudice possa
autorizzare l’imputato ad astenersi, nel corso della giornata, dal luogo d’arresto per il tempo
strettamente necessario per provvedere ad indispensabili esigenze di vita ovvero per esercitare
un’attività lavorativa. Ma diversi ne risultano i presupposti, richiedendosi per quest’ultima
l’esistenza di “indispensabili esigenze di vita” oppure di una “situazione di assoluta indigenza”,
mentre per l’altra si fa esclusivo riferimento a “normali esigenze di lavoro”.
Per i tossicodipendenti o alcool dipendenti, che abbiano in corso un programma terapeutico di
recupero in una struttura autorizzata, il giudice deve disporre i controlli necessari per accertare
che il programma di recupero prosegua.
Tutte le prescrizioni imposte dal giudice vanno comunicate alle autorità di polizia competenti che
vigilano per l’osservanza di essere e che, in caso di trasgressione, ne fanno rapporto al pm.
6)ARRESTI DOMICILIARI: costituiscono uno status detentionis equiparato alla custodia cautelare,
impongono all’imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata
dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza, ovvero, ve istituita, da una casa
famiglia protetta. Il giudice dispone il luogo degli arresti domiciliari, in modo da assicurare
comunque le prioritarie esigenze di tutela della persona offesa dal reato. Se appare necessario, il
giudice può anche disporre, con lo stesso o con un altro provvedimento, limiti o divieti di
comunicare con persone diverse da quelle che coabitano con l’imputato o che lo assistono.
Il controllo sulle prescrizioni disposte dal giudice è effettuato, anche d’ufficio, dal pm o dalla polizia
giudiziaria. Quando gli arresti domiciliari sono disposti in sostituzione della custodia in carcere, il
giudice può non disporre l’accompagnamento e autorizzare l’imputato a raggiungere il luogo
dell’arresto. Il giudice può altresì disporre che il controllo dell’imputato agli arresti domiciliari
avvenga mediante strumenti tecnici. Nel caso in cui l’imputato neghi il consenso all’adozione di tali
strumenti, il giudice dispone nello stesso provvedimento che sia applicata la custodia in carcere. Il
comma 5-bis dell’art. 284 stabilisce il divieto di concedere gli arresto domiciliari a che, nei 5 anni
precedenti, sia stato condannato per il delitto di evasione.
7)CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE: la misura alla quale il giudice ricorre per ordinare che
l’imputato venga catturato ed immediatamente condotto in un istituto di custodia a disposizione
dell’autorità giudiziaria. Se la misura deve essere eseguita nei confronti di un imputato in stato di

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infermità di mente tale da escludere o da scemare grandemente la capacità di intendere o di
volere, il giudice dispone in luogo della custodia in carcere il ricovero presso il servizio psichiatrico
ospedaliero. Il provvedimento con cui è ordinato il ricovero deve contenere le disposizioni
opportune per prevenire il pericolo di fuga dell’imputato e può permanere solo fino a quando dura
lo stato di infermità.
L’art. 286-bis comma 3 stabilisce che, quando ricorrono le condizioni di salute di cui al suddetto
art. 275 comma 4-bis ovvero esigenze terapeutiche nei confronti di persona che si trovi in tali
condizioni, se codeste esigenze non possono essere soddisfatte nell’ambito penitenziario il giudice
può disporre il ricovero provvisorio, per il tempo necessario, in un’adeguata struttura del Servizio
sanitario nazionale, adottando i provvedimenti idonei ad evitare il pericolo di fuga. Una volta poi
cessate le esigenze del ricovero, il giudice, chiamato a provvedere, potrà, a seconda dei casi, o
ripristinare la custodia cautelare in carcere o disporre gli arresti domiciliari.
Prima del trasferimento nel luogo di custodia, la persona destinataria della misura non può essere
sottoposta ad alcuna limitazione di libertà se non a quella che risulti strettamente necessaria, per
durata e per modalità, alla sua traduzione. Al fine di garantire la puntuale conoscenza del
provvedimento da parte dell’imputato l’art. 94 comma 1-ter n.att. c.p.p. dispone che l’autorità
giudiziaria trasmetta copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario nel quale la
misura deve essere eseguita, affinché ne inserisca copia nella cartella personale del detenuto e ne
illustri a questi i contenuti secondo le modalità dettate dal comma 1-bis del suddetto art. 94.
8)CUSOTIDA PRESSO UN ISTITUTO A CUSTODIA ATTENUATA PER DETENUTE MADRI: art. 275
comma 4 “se la persona da sottoporre a custodia cautelare sia donna incinta o madre di prole di
età non superiore a sei anni, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente
impossibilitata a dare assistenza alla prole, il giudice può disporre la custodia presso un istituto a
custodia attenuata per detenute madri, ove le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo
consentano”.

6.Le misure interdittive.


Nel nostro sistema processuale le misure interdittive costituiscono una novità. Esse vanno a
sostituire le similari figure di pene accessorie che venivano applicate provvisoriamente a norma
dell’art. 140 c.p.
L’introduzione delle misure interdittive risponde alla fondamentale esigenza di politica processuale
di aumentare il ventaglio delle misure cautelari disponibili al fine di ridurre la possibilità del ricorso
alla misura estrema della custodia in carcere.
Esse incidono su aspetti così significativi della vita di relazione degli individui che è estremamente
difficile poterne affermare in astratto la loro minore efficacia rispetto alle misure coercitive.
Per quanto riguarda i rapporti tra l’autorità giudiziaria e quella amministrativa competente in via
ordinaria all’applicazione delle misure, la soluzione scelta dal codice è quella dell’autonomia delle
rispettive competenze, stabilendosi soltanto un dovere di informazione dell’organo giudiziario nei
confronti di quello amministrativo.
Le misure sono previste dagli artt. 288, 289 e 290 c.p.p., e sono:
1)SOSPENSIONE DALL’ESERCIZIO DELLA POTESTA’ DEI GENITORI: priva temporaneamente la
persona che vi è sottoposta dei poteri inerenti alla potestà di genitore. La misura può limitarsi a
colpire soltanto uno di questi poteri.
2)SOSPENSIONE DALL’ESERCIZIO DI UN PUBBLICO UFFICIO O SERVIZIO: il giudice interdice
temporaneamente il compimento di attività inerenti all’esercizio di un pubblico ufficio o servizio.

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Il provvedimento può riguardare soltanto una parte di quelle attività e può essere adottato al di
fuori dei limiti di cui all’art. 287 c.p.p., qualora si proceda per un delitto contro la pubblica
amministrazione. La misura deve essere preceduta dall’interrogatorio della persona a pena di
nullità relativamente assoluta. Essa non può applicarsi agli uffici elettivi di diretta investitura
popolare.
3)DIVIETO TEMPORANEO DI ESERCITARE DETERMINATE ATTIVITA’ PROFESSIONALI O
IMPRENDITORIALI: il giudice interdice temporaneamente l’esercizio, in tutto o in parte, di attività
relative a determinate professioni, imprese o uffici direttivi delle persone giuridiche e delle
imprese. La misura può essere applicata anche al di fuori dei limiti di cui all’art. 287 c.p.p. quando
si tratti di delitti contro l’incolumità pubblica o contro l’economia pubblica, l’industria e il
commercio o si tratti di delitti previsti dalle disposizioni penali in materia di società o di consorzi.

7.Le forme del provvedimento cautelare.


Salvo che non sia diversamente disposto il giudice non può decidere d’ufficio sull’applicazione
delle misure cautelari. L’art. 291 comma 1 stabilisce: “il giudice dispone le misure su richiesta del
pm il quale deve presentare gli elementi su cui essa si fonda nonché tutti gli elementi a favore
dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate”.
Se il pm è titolare del potere di attivazione del procedimento applicativo della misura, tuttavia è al
giudice che spetta di stabilire , sulla base dei criteri di adeguatezza e proporzionalità, la misura più
idonea al caso concreto.
Per quanto riguarda l’organo competente a disporre le misure, l’art. 191 stabilisce che nel corso
degli atti preliminari al dibattimento il provvedimento è adottato, secondo la rispettiva
competenza, dal Tribunale, dalla corte d’assise, dalla corte d’appello e dalla corte d’assise
d’appello; dopo la pronuncia della sentenza il provvedimento è adottato dal giudice che l’ha
emessa; in pendenza del ricorso per cassazione provvede il giudice che ha pronunciato la decisione
impugnata. Il giudice provvede sulla richiesta con un’ordinanza che deve contenere, oltre alla
generalità dell’imputato e alla descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di
legge, anche l’esposizione delle ragioni che giustificano il provvedimento in ordine sia alla
sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza richiesti sia alla presenza di almeno una delle esigenze
contemplate dall’art. 274, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi
per i quali essi assumono rilevanza, particolare menzione va fatta delle ragioni che giustificano la
misura in relazione al tempo trascorso dalla commissione del reato, giacché ad una maggiore
distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari.
La motivazione deve anche contenere l’esposizione delle ragioni che hanno portato il giudice a
ritenere no rilevanti gli elementi probatori offerti dalla dife3sa, nonché la valutazione degli
elementi a carico e a favore dell’imputato.
Non può mancare l’indicazione dei motivi che hanno orientato il giudice nella scelta della misura in
applicazione dei criteri generali di adeguatezza e proporzionalità. La motivazione può risultare
anche implicita nella esposizione delle ragioni che dimostrano che la misura applicata sia l’unica
adeguata. Tranne che si tratta di applicare la custodia cautelare in carcere è richiesta l’espressa
indicazione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze non possono essere
soddisfatte con altre misure.
Se l’esigenza cautelare ritenuta sussistente è quella di carattere probatorio, il provvedimento deve
anche stabilire la durata della misura correlata alle indagini da compiere. La data e la
sottoscrizione del giudice nonché quella dell’ausiliario che lo assiste, il sigillo dell’ufficio e

147
l’indicazione, se è possibile, del luogo in cui si trova l’imputato o la persona sottoposta ad indagini
costitusicono gli ulteriori elementi che contribuiscono alla perfezione dell’atto- ordinanza.
Tutti i suddetti requisiti sono richiesti a pena di nullità, ad eccezione di quello concernenti la
sottoscrizione dell’ausiliario del giudice, il sigillo dell’ufficio e l’indicazione del luogo in cui può
trovarsi l’imputato. Per stabilire il regime di invalidità che si applica all’atto bisogna rifarsi agli artt.
178 e seguenti. Le ipotesi in esame non rientrano in nessuna delle previsioni di cui all’art. 178 e
non rappresentano un’inosservanza di disposizione concernente né l’intervento né tanto meno
l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private di cui alla lett. c del citato
articolo. Sicché è necessario desumere che si tratti di nullità relativa disciplinata dagli artt. 181 e
seguenti, ma di una nullità relativa di genere particolare, per disposizione della prima parte del
comma 2 dell’art. 292, essa è rilevabile anche d’ufficio.7
Per sottolineare l’obbligo del giudice di dar conto della valutazione espressa sul materiale
probatorio presentato dal pm a norma dell’art. 291 e dalla difesa a norma dell’art. 327-bis, detta,
con il comma 2-ter dell’art. 292, una ulteriore disposizione con la previsione di una sanzione di
nullità. Questa volta, non si tratta di nullità rilevabile d’ufficio. In mancanza di un’espressa
indicazione legislativa la previsione di nullità non può non rientrare nel sistema generale: nullità
relativa, dunque, rilevabile a istanza di parte.

8.Gli adempimenti esecutivi del provvedimento. L’interrogatorio della persona che vi è


sottoposta.
La disciplina dell’esecuzione dei provvedimenti cautelari tende a garantire l’esercizio del diritto di
difesa. A tal fine è stabilito che l’ordinanza che dispone misure cautelari diverse dalla custodia
deve essere notificata all’imputato; quella che dispone la custodia cautelare va consegnata in
copia alla persona sottoposta a custodia, che viene anche avvertita della facoltà di nominare un
difensore. Se l’imputato è detenuto si seguono le forme previste dall’art. 156. Copia del
provvedimento che dispone la custodia in carcere viene trasmessa al direttore dell’istituto
penitenziario dove la misura deve essere eseguita per l’adempimento degli obblighi di
informazione al detenuto e di inserimento nella sua cartella personale di cui all’art. 94 comma 1-
bis c.p.p.
L’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria che ha consegnato la copia del provvedimento
all’imputato deve informare immediatamente il difensore, di fiducia o d’ufficio, e deve redigere il
verbale delle operazioni compiute. Esaurite le operazioni, il verbale va immediatamente trasmesso
al giudice che ha emesso il provvedimento e al pm. Gli ufficiali e gli agenti incaricati
dell’esecuzione possono esimersi dall’eseguire l’ordinanza se vi è incertezza circa il giudice che l’ha
emessa o la persona destinataria.
Le ordinanze notificate o eseguite vengono depositate presso la cancelleria del giudice che le ha
emesse. Il deposito include anche la richiesta del pm e gli atti presentati a sostegno di essa.
L’avviso di deposito è notificato al difensore che può prenderne visione e estrarne copia. Se si
tratta di una misura interdittiva una copia è trasmessa anche all’autorità amministrativa
competente.
Al fine di garantire il diritto di difesa, il provvedimento costitutivo dello stato di latitanza deve
contenere la nomina del difensore d’ufficio al latitante che ne sia privo e l’ordine di deposito del
provvedimento che dispone la misura. Avviso del deposito è notificato al difensore. Lo stato di
latitante ha effetti soltanto nel procedimento in cui è stato dichiarato e perdura fino a che
l’ordinanza che ha disposto la misura non abbia perso efficacia ovvero si siano estinti il reato o la
pena per i quali l’ordinanza stessa era stata pronunciata.

148
Un effetto di natura processuale è quello previsto all’art. 165 c.p.p. sulle notificazioni all’imputato
latitante o evaso. Al fine esclusivo di agevolare le ricerche del latitante, il giudice o il pm, può
disporre l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di
telecomunicazione, sempre nei limiti e con le modalità stabilite dagli artt. 266 e 267.
Un importante adempimento successivo all’esecuzione del provvedimento cautelare personale
nel corso delle indagini preliminari è l’interrogatorio della persona destinataria della misura,
affidato, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, al giudice che ha deciso in ordine
all’applicazione della misura medesima.
Il giudice deve provvedervi immediatamente, e comunque non oltre 5 giorni dall’inizio
dell’esecuzione, nel caso in cui sia imposta la misura della custodia cautelare in carcere; entro 10
giorni qualora sia disposta altra misura cautelare, coercitiva o interdittiva. L’interrogatorio non è
dovuto qualora la custodia venga disposta dopo la sentenza di condanna.
Art. 294 comma 1-ter: prevede il dovere del giudice per le indagini preliminari di interrogare la
persona in stato di custodia cautelare entro il termine di 48 ore se il pm ne fa richiesta.
Rispetto a quello assunto dal pm, che ha finalità soprattutto investigative, l’interrogatorio ha scopi
di controllo e di garanzia, in quanto diretto a consentire, attraverso il contatto diretto tra giudice e
imputato, l’immediata verifica della ritualità e della fondatezza del provvedimento cautelare,
nonché della permanenza delle condizioni di applicabilità della misura.
In tale quadro si spiega la nuova formulazione del comma 6 dell’art. 294 che, per evitare il rischio
di impieghi discorsivi della custodia cautelare, esclude la possibilità che l’interrogatorio
investigativo del pm preceda l’interrogatorio di garanzia del giudice. Il rischio non può essere
evitato nel caso di detenuto in stato di arresto o di fermo, per il quale l’art. 388 prevede il
preventivo interrogatorio del pm rispetto all’eventuale intervento del giudice in sede di convalida,
o nel caso di un uso atipico di strumenti processuali quali il colloquio investigativo, le sommarie
informazioni di polizia o l’accompagnamento coattivo.
Il termine assegnato dalla legge per l’interrogatorio condotto dal giudice è consegnato in forma
perentoria: “immediatamente e comunque non oltre 5 giorni dall’inizio dell’esecuzione della
custodia e non oltre dieci giorni dall’esecuzione del provvedimento o dalla sua notificazione ,
sempre che naturalmente il giudice non vi abbia già provveduto in sede di convalida dell’arresto o
del fermo”.
Nel caso in cui la persona da interrogare sia assolutamente impedita, il giudice ne dà atto in un
decreto motivato e i termini ricominciano a decorrere dalla data nella quale lo stesso giudice
riceve comunicazione della cessazione dell’impedimento o comunque ne accerta la cessazione.
L’interrogatorio va documentato integralmente, a pena di inutilizzabilità, con mezzi di
riproduzione fonografica o audiovisiva; ad esso può partecipare il pm e deve intervenir eil
difensore; ad entrambi va dato avviso della data del compimento dell’atto.
Il verbale dell’interrogatorio va depositato. Il verbale viene trasmesso al pm e i difensori hanno
diritto di prenderne visione ed estrarne copia. Quando la misura è stata disposta dalla Corte
d’assise o dal tribunale collegiale, all’interrogatorio procede il presidente o il giudice da lui
delegato.
Costituendo il primo momento di contatto della persona sottoposta misura cautelare con il
giudice, l’interrogatorio rappresenta pure il primo atto di controllo della sussistenza e della
permanenza delle esigenze cautelari e delle condizioni generali di applicabilità della misura
previste dagli artt. 273, 274 e 275. Il giudice deve pure verificare la sussistenza della condizione
relativa ai limiti di pena previsti per le misure coercitive e interdittive.

149
Sulla base dei risultati emersi il giudice può ordinare anche d’ufficio la revoca o la sostituzione
della misura disposta. Egli può anche disporre, se non è in grado di decidere allo stato degli atti,
accertamenti sulle condizioni di salute o sulle condizioni o qualità personali del soggetto
sottoposto alla misura.
L’art. 302 stabilisce la perdita di efficacia immediata della misura cautelare personale se
l’interrogatorio non si svolge entro i termini previsti nell’art. 294 commi 1 e 1-bis. La misura
cautelare dopo la liberazione del detenuto, può essere nuovamente disposta dal giudice, su
richiesta del pm e previo interrogatorio, quando continuano a sussisterne le condizioni generali di
applicabilità.

9.La decadenza e il computo dei termini di durata delle misure.


Gli effetti delle misure decorrono:
- per la custodia cautelare, dal giorno della cattura, dell’arresto o del fermo;
- per le altre misure, dal giorno della notificazione dell’ordinanza che le dispone.
Ai fini del computo dei termini non si tiene conto delle frazioni di giorno. La regola dell’automatica
decorrenza dei titoli cautelari trova sancita un’eccezione nell’art. 297 comma c.p.p.. Ai sensi
dell’art. 12 comma 1 c.p.p., nelle figure di concorso formale, di reato continuato e dei reati
commessi per eseguirne altri, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la
prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave; tale regola, a seguito della
sentenza 233/2011 della Corte , trova applicazione anche quando per i fatti contestati nella prima
ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente
all’adozione della seconda misura.
La questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere
dedotta anche in sede di riesame, a condizione, però, che ricorrano congiuntamente le seguenti
condizioni:
- se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente scaduto al momento dell’emissione
del secondo provvedimento cautelare;
- se tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall’ordinanza cautelare.
L’ultima parte del comma 3 dell’articolo stabilisce un ulteriore limitazione che fa riferimento ai
fatti commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza. Tale limitazione prevede che la
suddetta disciplina dettata per le contestazioni a catena non si applica alle ordinanze per fatti non
desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste
connessione, stabilendo così un parametro di riferimento diverso da quello indicato nella prima
parte della disposizione e trasformando il concetto di contestazione “a catena” che veniva
impiegato per indicare la concorrenza di più provvedimenti originati dall’unico fatto contestato e
tendenti ad eludere le prescrizioni dei termini di durata massima delle misure cautelari.
Il criterio della “compatibilità” sembra rappresentare la regola generale dettata per risolvere tutti i
problemi di sovrapposizione degli effetti conseguenti all’applicazione di diverse misure, compresi
quelli derivanti dal concorso di più titoli di custodia cautelare. Ciò vuol dire che gli effetti della
custodia cautelare successivamente disposta opereranno solo dalla cessazione dello stato di
detenzione; si produrranno, invece, immediatamente gli effetti di una misura diversa dalla
custodia che non risultino impediti dallo stato di detenzione; in caso contrario, questi si
produrranno dal momento in cui cessa la detenzione o l’internamento.
L’art. 298 dispone che l’esecuzione della misura cautelare personale si sospende quando deve
essere eseguito un ordine di carcerazione nei confronti della stessa persona, a meno che la misura
non sia compatibile con l’espiazione della pena.

150
Ad una presunzione di compatibilità è ispirata la disposizione dell’art. 298 comma 2, laddove
esclude la sospensione della misura nel caso di pena espiata in regime di misure alternative alla
detenzione.
Una regola, infine, la c.d. “regola di congelamento” dei tempi dibattimentali, è fissata per
calcolare i termini della custodia cautelare. I giorni impiegati per le udienze e per la deliberazione
della sentenza emessa in primo grado o in sede di impugnazione vengono computati
esclusivamente ai fini ella durata complessiva prevista dal comma 4 dell’art. 303. Ciò vuol dire che
i tempi necessari per le udienze e per la deliberazione della sentenza non vengono per legge
calcolati nei termini di fase, giudizio di primo grado e giudizio di impugnazione, bensì soltanto nei
termini complessivi previsti dal comma 4 dell’art. 303; termini complessivi che possono peraltro
essere superati nel caso in cui sia intervenuto un provvedimento di sospensione per la complessità
del dibattimento o del giudizio abbreviato concernenti uno dei reati elencati nell’art. 407 comma2.

10.Il principio di persistenza delle condizioni di applicabilità delle misure: la revoca e la


sostituzione.
L’esigenza di contenere il sacrificio della libertà della persona al minimo indispensabile ha
suggerito la regola del controllo permanente della sussistenza delle condizioni di applicabilità delle
misure cautelari personali. L’art. 299 disciplina il fenomeno delle vicende estintive e modificative
delle misure applicate, imponendo al giudice di valutare non solo l’esistenza ex ante ma anche la
persistenza ex posto dei presupposti di legittimazione del potere cautelare. Dispone tale norma
che le misure cautelari personali sono “immediatamente revocate quando risultino mancanti,
anche per fatti sopravvenuti”, le condizioni generali previste dagli artt. 273 e 274 e quelle
particolari disposte con riferimento alle singole misure.
Il mancato specifico riferimento ai “fatti sopravvenuti” nella disposizione concernente le vicende
modificative, non assume un rilievo decisivo ai fini di delimitare l’ambito di rivalutazione delle
condizioni leggittimatrici della misura, stante che la valutazione di adeguatezza o di
proporzionalità della misura applicata costituisce sempre un giudizio complessivo portato su tutte
le risultanze processuali e diretto a verificare la permanenza del rapporto di equilibrio tra le
istanze di libertà della persona e le esigenze cautelari del caso concreto in ogni momento del
processo.
Come la misura può essere revocata per considerazioni attinenti soltanto alla insussistenza ex ante
delle condizioni che ne legittimavano l’applicazione, così essa può essere anche modificata per una
rivalutazione del rapporto di adeguatezza e di proporzionalità che si incentra esclusivamente sui
fatti preesistenti.
La modifica della misura può avvenire anche in peius. Dispone, infatti, l’art. 299 comma 4 che
“quando le esigenze cautelari risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pm, sostituisce la
misura applicata con un’altra più grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità più
gravose”.
Le due figure di fattispecie modificative delle misure, in peius e in melius, non risultano
perfettamente coincidenti. Mentre quest’ultima fa riferimento sia all’attenuazione delle esigenze
cautelari sia alla mancanza di proporzionalità delle misure rispetto all’entità del fatto e alla
sanzione, la sostituzione in peius è prevista soltanto per l’aggravamento delle esigenze cautelari.
Un’altra differenza attiene all’iniziativa: la sostituzione della misura in melius può essere adottata
dal giudice anche d’ufficio o su richiesta del pm e dell’imputato; quella in peius può essere
disposta solo su iniziativa del pm, a pena di nullità assoluta. Il giudice può, provvedere d’ufficio
soltanto quando è investito del procedimento; cioè “quando assume l’interrogatorio della persona

151
in stato di custodia cautelare o quando è richiesto della proroga del termine per le indagini
preliminari o dell’assunzione di incidente probatorio o quando procede all’udienza preliminare o al
giudizio”. Se la revoca o la sostituzione delle misure è richiesta dal pm o dall’imputato, il giudice
deve decidere con ordinanza, entro 5 giorni dal deposito della richiesta. Per il mancato rispetto del
termine la legge non prevede conseguenze definibili in termini di perdita di efficacia della misura.
Prima che il giudice decida, d’ufficio o su richiesta dell’imputato, deve acquisire il parere del pm,
che ha due giorni di tempo per rispondere. Nel caso di mancata risposta nel termine il giudice
provvede ugualmente.
Con la disposizione dell’art.299 comma 3-ter è pure attribuita al giudice la facoltà, prima di
provvedere, di assumere l’interrogatoria della persona sottoposta alle indagini. L’interrogatorio
diventa obbligatorio nel caso in cui l’istanza di revoca o di sostituzione delle misure coercitive o
interdittive sia basata su elementi nuovi o diversi rispetto a quelli già valutati.
Spetta in ogni caso al giudice il potere di disporre, in ogni stato e grado del procedimento, qualsiasi
accertamento che egli reputi opportuno per stabilire le condizioni di salute e altre qualità
personali del soggetto sottoposto alla misura. Per tali accertamenti l’art. 299 comma 4-ter
stabilisce modalità e termini. In primo luogo prevede che gli accertamenti stessi vengano svolti al
più presto e comunque non oltre 15 giorni dalla ricezione della richiesta. Se essa poi risulta
fondata sulle condizioni di salute indicate nell’art. 275 comma 4-bis o se tali condizioni siano state
segnalate dal servizio sanitario penitenziario o risultino in altro modo gli atti, è previsto in
particolare che nomini immediatamente e comunque non oltre il termine di 5 giorni, previsto dal
precedente comma 3, un perito che, tenuto conto del parere del medico penitenziario, deve
riferire entro 5 giorni dall’accertamento, ridotti a due in caso di urgenza.
L’ultima parte della disposizione in esame stabilisce la sospensione del decorso del termine di 5
giorni concesso al giudice per l’emanazione del provvedimento durante il periodo previsto dalla
legge per gli accertamenti.

11.L’estinzione delle misure per effetto della pronuncia della sentenza, della scadenza del
termine imposto per le esigenze probatorie e dell’omesso interrogatorio.
Le vicende estintive delle misure cautelari si differenziano da quelle di revoca per l’automatismo
dell’effetto che si ricollega al verificarsi dei fatti contemplati nelle varie previsioni normative.
Si tratta, di figure che tendono a garantire il diritto assoluto della persona sottoposta alla misura
cautelare di riacquistare lo stato di libertà in presenza di determinati eventi. Ciò non significa che
si possa prescindere da un provvedimento del giudice.
Le disposizioni degli artt. 300, 301 e 302 c.p.p. prevedono, rispettivamente, tre vicende estintive
delle misure:
1)PRONUNCIA DI UNA SENTENZA: riguarda il verificarsi di situazioni incompatibili con il protrarsi
della misura. Si può trattare un di una pronuncia liberatoria o di una sentenza di condanna.
Art. 300: “le misure perdono immediatamente efficacia se per il fatto per il quale sono state
applicate e nei confronti della stessa persona è disposta l’archiviazione o è pronunciata sentenza
di non luogo a procedere o di proscioglimento”.
Quando è emessa una sentenza di condanna le misure perdono di efficacia nella duplice ipotesi in
cui: a) la pena irrogata è dichiarata estinta o condizionalmente sospesa; b) la durata della custodia
già subita risulta uguale o superiore alla quantità di pena applicata.
Se la sentenza di condanna segue ad una di proscioglimento o di non luogo a procedere per lo
stesso fatto e nei confronti della medesima persona, il giudice può sottoporre il condannato ad
una misura coercitiva.

152
2)LA SCADENZA DEL TERMINE IMPOSTO PER LE ESIGENZE PROBATORIE: si riferisce alla garanzia
connessa alla fissazione di un termine di durata della misura disposta per finalità cautelari di
natura prettamente istruttoria. Stabilisce in proposito l’art. 301 che tale misura perde
immediatamente di efficacia se alla scadenza il termine non risulta rinnovato. La rinnovazione
risponde alla necessità di salvaguardare le esigenze del processo, soprattutto nell’ipotesi in cui la
complessità delle indagini non consente una predeterminazione sicura dei tempi di svolgimento
delle relative attività. Essa è concessa dal giudice con ordinanza, su richiesta del pm, sentito il
difensore della persona da assoggettare alla misura , e può essere disposta per più di una volta. Se
la custodia cautelare è disposta a tutela delle esigenze probatorie, la sua durata non può essere
superiore a 30 giorni, a meno che il giudice non abbia fissato un termine di durata inferiore. Tale
limitazione non si applica quando si tratta dei reati per il cui accertamento siano richieste
investigazioni particolarmente complesse per la molteplicità dei fatti e delle persone coinvolte o di
quelli per il cui accertamento sia richiesto il compimento di atti di indagine all’estero. Anche il
termine per la custodia cautelare in carcere può essere prorogata, su richiesta del pm e previo
interrogatorio dell’imputato, per non più di due volte ed entro il limite complessivo di 90 giorni
qualora il giudice ritenga fondate le ragioni che hanno impedito il compimento delle indagini per le
cui esigenze la misura era stata disposta.
3)OMESSO INTERROGATORIO DELLA PERSONA IN STATO DI CUSTODIA CAUTELARE: attua una
precisa direttiva della legge delega ed attiene all’omissione dell’interrogatorio della persona
sottoposta a custodia cautelare. La ratio della scarcerazione per il mancato interrogatorio è
soltanto quella di garantire all’imputato il diritto di difendersi in stato di libertà . soddisfatta questa
condizione, nessun impedimento sussiste alla remissione del provvedimento di custodia. Tale
remissione è possibile anche se l’imputato non si presenta senza addurre un giustificato motivo. Lo
stesso trattamento si applica alle misure cautelari personali coercitive non custodiali ed a quelle
interdittive.

12.L’estinzione della custodia cautelare per scadenza dei termini di durata massima.
Nell’ambito delle fattispecie estintive delle misure cautelari particolarmente rilievo assume il
decorso dei termini di durata massima della custodia cautelare come strumento diretto ad attuare
la garanzia imposta dall’ultimo comma art. 13 Cost., di fissare un limite insuperabile oltre il quale
le ragioni di libertà dell’imputato prevalgono sulle esigenze del processo.
Al raggiungimento dell’obiettivo di stabilire la caducazione automatica del titolo di custodia sono
preordinate le disposizioni degli artt. 303 ss. c.p.p. che definiscono una articolato e complesso
sistema di termini, sospensioni e proroghe.
I termini vanno computati secondo le regole generali stabilite nell’art. 172 c.p.p.: scadono nel
giorno corrispondente a quello del mese o dell’anno di inizio della misura. Essi sono fissati in modo
autonomo per ogni stato e grado del procedimento e con riferimento alle gravità del reato
misurata sulla base della quantità di pena astrattamente stabilita dalla legge.
Per comodità di lettura si possono distinguere:
A)TERMINI INTERMEDI: sono previsti, per entità e decorrenza, in collegamento con la fase delle
indagini preliminari e con il giudizio di primo grado e dei gradi successivi. Per ogni passaggio di fase
o grado comincia a decorrere il nuovo termine in maniera assolutamente indipendente da quello
fissato per la fase o per il grado precedente, salvo un aumento dei termini della fase
dibattimentale fino a sei mesi.
- Con riferimento alla fase delle indagini preliminari: è stabilita la caducazione del titolo d
custodia se non sia stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio o l’ordinanza con cui il

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giudice dispone il giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 438 o non sia stata pronunciata la sentenza
di applicazione della pena su richiesta delle parti, entro tre mesi, sei mesi o un anno quando si
procede per un delitto per il quale la legge stabilisce come massimo la pena, rispettivamente, fino
a sei anni, superiore a sei anni, o non inferiore a 20 anni o l’ergastolo o, quando si tratta dei delitti
di cui all’art. 407 comma 2,superiore a sei anni.
- Con riferimento al giudizio di primo grado: la caducazione del titolo è disposta se non sia stata
pronunciata la sentenza di condanna nei termini di sei mesi, di un anno o di un anno e sei mesi,
quando di procede per un delitto per il quale è stabilita, come massimo, la pena fino a sei anni,
superiore a sei anni e fino a 20 anni, superiore a vent’anni o la pena dell’ergastolo.
- Con riferimento al giudizio abbreviato: l’effetto caducatorio del titolo custodiale si determina se
dall’emissione dell’ordinanza con cui il giudice dispone il giudizio abbreviato o dalla sopravvenuta
esecuzione della custodia sono decorsi i seguenti termini senza che sia stata pronunciata sentenza
di condanna:
 tre mesi quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della
reclusione non superiore nel massimo a sei anni;
 sei mesi quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione
non superiore nel massimo a 20 anni;
 nove mesi quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo
o la pena della reclusione superiore nel massimo a 20 anni.
-Con riferimento al giudizio di appello: sono fissati come termini di caducazione del titolo, in
relazione alla mancata pronuncia della sentenza di condanna in grado di appelli, nove mesi, un
anno, un anno e sei mesi, quando la sentenza di primo grado ha applicato la pena,
rispettivamente, fino a tre anni, a dieci anni e superiore a dieci anni o l’ergastolo.
- Con riferimento al periodo successivo alla sentenza di condanna in grado di appello e fino al
raggiungimento della sua irrevocabilità: valgono gli stessi termini di cui al punto precedente. Se
però vi è stata condanna in primo grado oppure l’impugnazione è stata proposta soltanto dal pm,
si applicano esclusivamente i termini di durata complessiva di cui al comma 4 dell’art. 303. Nel
caso in cui un procedimento a seguito di annullamento con rinvio da parte della Corte di
cassazione o per altra causa sia rinviato ad altro giudice o regredisca a una fase o a un grado di
giudizi diversi, dalla data del provvedimento che dispone il rinvio o il regresso o dalla sopravvenuta
esecuzione della custodia ricominciano a decorrere i termini suindicati per la fase o per il grado in
cui il procedimento viene a trovarsi. Ciò significa che è esclusa qualsiasi possibilità di recupero per i
termini intermedi di custodia sofferti precedentemente al rinvio o al regresso. È, invece, previsto il
recupero dei periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o in gradi diversi dalla fase o dal grado in
cui il procedimento è regredito ai fini del computo del termine finale.
I termini intermedi valgono non solo quando la custodia cautelare sia stata sofferta in Italia, ma
anche quando essa sia stata sofferta all’estero, in esecuzione del mandato d’arresto europeo.
Tutti i termini intermedi prima che vengono a scadere possono essere prorogati: la proroga è
disposta con ordinanza del giudice, su richiesta del pm e sentito il difensore, in due casi:
a) quando in ogni stato e grado del procedimento è disposta perizia sulle condizioni di mente
dell’imputato  i termini sono prorogati per il periodo di tempo assegnato per l’espletamento
della perizia e l’ordinanza e ricorribile in Cassazione nelle forme previste dall’art. 311.
b) quando, nel corso delle indagini preliminari, sussistono gravi esigenze cautelari che rapportate
alla particolare complessità degli accertamenti o a nuove indagini rendano indispensabile il
protrarsi della custodia  in mancanza di un parametro stabilito dalla legge, è il giudice che fissa
discrezionalmente il periodo di proroga in considerazione della necessità prospettata dal pm in
154
contraddittorio con il difensore. La proroga può essere rinnovata una sola volta, ma in ogni caso i
termini ordinari previsti non possono essere superati di oltre la metà. L’ordinanza è appellabile.

B)TERMINI COMPLESSIVI: sulla base dell’art. 303 comma 4, la somma totale dei periodi di
custodia cautelare non può superare i due anni, quattro anni o sei anni secondo che si proceda per
un delitto per il quale la legge stabilisce, rispettivamente, la pena della reclusione non superiore
nel massimo a sei anni, a 20 anno o la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo
a 20 anni.
Nel calcolo della durata complessiva della custodia vanno computati sia le eventuali proroghe, sia i
tempi impiegati per le udienze e per la deliberazione della sentenza nel giudizio di primo grado e
nel giudizio sulle impugnazioni; tempi che normalmente non vengono calcolati per i termini
intermedi di durata della custodia cautelare. Non rientrano nel computo dei termini di durata
massima della custodia i periodi di tempo in cui opera la sospensione.
I termini, previsti dall’art. 303, possono essere sospesi:
1)per il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato:
 per impedimento dell’imputato o del suo difensore;
 su richiesta del’imputato o del suo difensore, e sempre che la sospensione o il rinvio non stati
determinati da motivi di acquisizione probatoria o di connessione di termini a difesa;
 a causa della mancata presentazione, dell’allontanamento o della mancata partecipazione di
uno o più difensori che rendono privo di assistenza uno o più imputati;
 durante la pendenza dei termini stabiliti dall’art. 544 comma 2 e 3.
2) nel giudizi abbreviato, durante il tempo in cui l’udienza è sospesa o rinviata per taluno dei casi
sopra menzionati.
3) per il tempo in cui siano tenute le udienze o si delibera la sentenza nel giudizio di primo grado o
nel giudizio sulle impugnazioni, quando si tratta di dibattimenti o di giudizi abbreviati
particolarmente complessi per qualcuno dei reati elencati dall’art. 407 comma 2. In quest’ultimo
caso la sospensione è disposta a richiesta del pm.

C)TERMINI FINALI: art. 304 comma 4 “la durata della custodia non può superare i due terzi del
massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza. A tal fine
la pena dell’ergastolo è equiparata alla pena massima temporanea”. Si trattava di un limite
assoluto, non dilatabile né da proroghe, né da sospensioni e neanche da decorrenze ex novo, che
consacrava un principio di proporzionalità tra custodia e pena, certamente più idoneo a porre
l’imputato al riparo dai rischi di una dissimulata custodia senza termini e sostanzialmente più
rispettoso della prescrizione di garanzia dettata dall’ultimo comma dell’art. 13 Cost.
Il legislatore del 1995 con la legge n. 332, ritenendo troppo lungo detto termine, ha dettato, con le
disposizioni dei commi 6 e 7, una nuova disciplina dei limiti massimi di custodia cautelare. Con la
prima disposizione ha commisurato i nuovi termini ne doppio di quelli intermedi previsti dall’art.
301 commi 1,2 e 3 c.p.p., senza che si tenga conto però dell’ulteriore termine previsto dall’art. 303
commi 1 e 3-bis, e nell’aumento della metà di quelli complessivi salvo i vecchi limiti dei due terzi
del massimo della pena risultino più favorevoli all’imputato.
Nel computo di tali termini, dispone il comma 7, non si tiene conto del tempo in cui il dibattimento
rimane sospeso o rinviato a causa della mancata presentazione, dell’allontanamento o della
mancata partecipazione di uno o più difensori. La sospensione non opera per i termini relativi alla
durata complessiva della custodia cautelare.

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13.La liberazione dell’imputato e decorrenza dei termini e i provvedimenti conseguiti.
Con la scadenza dei termini massimi di custodia cautelare l’imputato riacquista automaticamente
il diritto alla rimessione in libertà.
Art. 306 c.p.p.: “nel caso in cui il titolo di custodia perda efficacia il giudice deve disporre
l’immediata liberazione della persona sottoposta alla misura”.
È irrilevante la fase o il grado in cui è pervenuto il processo nel momento della pronuncia
dell’ordinanza di liberazione. Una volta che si sia verificata la caducazione del titolo di custodia per
scadenza del termine massimo relativo ad un determinato stato o grado processuale, il passaggio
ad uno stato o grado successivo non innesca il meccanismo del decorso del nuovo termine, ma
lascia permanere la situazione di carenza di legittimazione della custodia e di dovere del giudice di
rimettere in libertà l’imputato.
Nei confronti dell’imputato scarcerato per decorrenza dei termini, l’art. 307, consente al giudice di
disporre le altre misure cautelari di cui decorrono i presupposti, qualora ritenga che permangono
le condizioni e le esigenze che avevano determinato il provvedimento di custodia cautelare. Ciò
significa che la persona liberata per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare può
essere sottoposta ad una o più misure cautelari diverse dalla custodia in carcere e dagli arresti
domiciliari, se ne ricorrono le condizioni. Pure la stessa custodia cautelare può essere ripristinata
quando sopraggiungono fatti nuovi che la rendano indispensabile in base ai criteri generali fissati
nell’art. 275. Secondo la disposizione del comma2 dell’art. 307, i fatti nuovi che possono
consentire al giudice di disporre la custodia cautelare sono i seguenti:
a) se l’imputato dolosamente trasgredisce le prescrizioni inerenti alla misura imposta in
sostituzione della custodia cautelare che ha perduto efficacia per scadenza del termine di durata
massima e sempre che risulti qualcuna delle esigenze cautelari previste dall’art. 274;
b) se intervenuta sentenza di condanna di primo grado o di secondo grado; risulti, cioè, che
l’imputato si sia dato alla fuga o sussiste un concreto pericolo che vi si dia, pericolo che non può
essere desunto dalla sola gravità della pena inflitta con la sentenza, ma va accertato in concreto, e
perciò con riferimento a elementi e circostanze attinenti al soggetto, idonei a definire, nel caso
specifico, la probabilità che lo stesso faccia perdere le sue tracce, senza che sia necessaria
l’attualità dei suoi specifici comportamenti indirizzati alla fuga o anche solo a un tentativo di fuga.
Per consentire una risposta di coercizione immediata nei confronti dell’imputato che approfitti
dell’affievolimento della misura per darsi alla fuga, l’art. 307 comma 4 prevede una particolare
figura di fermo di polizia giudiziaria. Le condizioni sono:
- che si tratti di persona liberata per scadenza dei termini di custodia cautelare a cui sia stata
applicata una misura in via sostitutiva;
- che tale persona abbia violato le prescrizioni imposte o ricorra l’ipotesi prevista dal comma 2;
- che risulti il tentativo di fuga.
La disposizione in esame, per un verso, esige qualcosa in più del semplice “pericolo di fuga”, per
un altro verso, non richiede né l’accertamento dei gravi indizi di realtà né le limitazioni di pena
applicabili al delitto per il quale si procede.
Le modalità e le garanzie del procedimento di convalida sono quelle ordinarie previste dalle
disposizioni sul fermo di indiziati di delitto. Il giudice per le indagini preliminari, su richiesta del pm,
può anche disporre con il provvedimento di convalida la misura della custodia cautelare quando
ritiene che “ne ricorrono le condizioni”. Se il giudice per le indagini preliminari del luogo dove il
fermo è stato eseguito non è il giudice competente in base alle regole generali, gli atti vanno
trasmessi a quello competente e la misura disposta cessa di avere effetto se, entro 20 giorni
dall’ordinanza, il giudice competente non provvede.

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14.L’estinzione delle misure diverse dalla custodia cautelare per decorrenza dei termini di
durata massima.
La disciplina della decorrenza dei termini massimi della custodia cautelare rappresenta pure un
parametro per la determinazione dei tempi di durata relativi alle misure diverse dalla custodia.
L’art. 308 distingue tra misure coercitive e misure interdittive.
Misure coercitive  esso stabilisce un raccordo integrale con tutte le modalità e gli effetti del
decorso dei termini previsti dall’art. 303 per la custodia cautelare, disponendo semplicemente che
le misure coercitive diverse dalla custodia perdono efficacia quando è trascorso un periodo di
tempo pari al doppio dei termini previsti dall’art. 303. Tranne, dunque, la diversità di estensione
temporale, la disciplina dei termini della custodia cautelare si applica completamente a tutte le
altre misure coercitive.
misure interattive  il comma 2 dell’art. 308 stabilisce come regola generale la perdita di
efficacia con il decorso del termine di due mesi dall’inizio della loro esecuzione. Il particolare
prevede che in caso di misure disposte per esigenze probatorie il giudice può disporre la
rinnovazione fino al limite massimo fissato nel comma 1 per le misure coercitiva: cioè, il decorso di
un periodo di tempo pari al doppio dei termini di durata massima della custodia cautelare.
Alla scadenza dei termini la persona sottoposta alla misura interdittiva riacquista
automaticamente il diritto all’esercizio pieno delle proprie facoltà e il giudice deve disporre con
ordinanza tutti i provvedimenti che ritiene necessari per determinare l’immediata cessazione della
misura stessa.

15.I mezzi d’impugnazione dei provvedimenti cautelari personali: il riesame delle misure
coercitive.
Le ordinanze che decidono su una misura cautelare personale possono essere impugnate
mediante:
Riesame è previsto soltanto contro i provvedimenti che dispongono le misure coercitive ed è
riservato esclusivamente all’imputato e al suo difensore.
Appello è stabilito nei confronti di tutti i provvedimenti emessi in materia di misure cautelari
personali ed è connesso sia all’imputato e al suo difensore sia al pm.
Ricorso per cassazione è normalmente diretto contro le decisioni emesse in sede di riesame o
d’appello, ma può essere proposto dall’imputato e dal suo difensore anche direttamente,
“saltando” il riesame contro il provvedimento che dispone ma misura coercitiva (ricorso per
saltum).
Il riesame (art. 309) può essere richiesto anche per il merito, entro 10 giorni dall’esecuzione o
dalla notificazione del provvedimento con cui viene disposta la misura coercitiva, salvo che il
provvedimento stesso sia stato emesso in sede di appello su impugnazione proposta dal pm. Se
l’imputato è latitante il termine decorre dalla consegna della copia al difensore. Quando
l’esecuzione della misura sopravviene, la decorrenza del termine resta fissata a tale momento se
l’imputato prova di non aver avuto tempestiva conoscenza del provvedimento.
Per il difensore la legge prevede un autonomo potere di richiesta di riesame che va esercitato
sempre entro i 10 giorni dalla notifica dell’avviso di deposito dell’ordinanza che dispone la misura.
La richiesta, che può contenere i motivi, ma può essere anche immotivata, va presentata
all’organo competente a decidere su di essa: il tribunale, in composizione collegiale, del luogo
dove ha sede la corte di appello o la sezione distaccata della corte di appello nella cui
circoscrizione è compreso l’ufficio del giudice che ha disposto la misura, designato nella pratica
forense come “tribunale della libertà”.

157
Il presidente ne fa dare immediato avviso all’autorità procedente, la quale, entro il giorno
successivo e comunque non oltre il quinto giorno, trasmette gli atti che il pm aveva presentato a
fondamento della richiesta della misura cautelare, nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore
della persona sottoposta alla misura. Il pm può presentare anche elementi sopravvenuti a sfavore
dell’indagato raccolti dopo l’emissione dell’ordinanza custodiale. Il termine previsto per il suddetto
adempimento deve ritenersi decorrente dal giorno stesso della presentazione della richiesta di
riesame.
La prescrizione degli atti che vanno a costituire il fascicolo del tribunale della libertà serve, da un
lato, a delimitare il terreno probatorio sul quale si appunta il contraddittorio, dall’altro, ad evitare
di costringere il pm ad una anticipata discovery nel corso delle indagini preliminari.

PROCEDIMENTO
Il procedimento si svolge secondo le forme previste dall’art. 127 c.p.p.
Il presidente fissa la data dell’udienza e ne fa dare avviso, almeno 3 giorni prima, al pm,
all’imputato e al suo difensore. L’inosservanza di tale termine produce una nullità generale a
regime intermedio che impone la rinnovazione dell’atto.
L’udienza viene tenuta senza la presenza del pubblico. Prima dell’inizio della discussione, chi ha
proposto la richiesta può enunciare anche motivi nuovi davanti al giudice del riesame, facendoli
risultare nel verbale di udienza.
Art. 309 comma 8: “fino al giorno dell’udienza gli atti restano depositati in cancelleria, con facoltà
per il difensore di esaminarli e di estrarne copia”. È consenti che all’udienza partecipi il pm che ha
richiesto la misura anziché quello presso il tribunale della libertà. Entro il termine di 10 giorni dalla
ricezione degli atti, dispone l’art. 309 comma 9, il tribunale deve emettere la decisione.
Essa può essere:
a) d’inammissibilità della richiesta, se questa si presenta viziata per inosservanza di requisiti,
soggettivi e oggettivi, di forme e di termini previsti specificamente dalla legge come condizioni
leggittimatrici del giudizio di merito;
b) di annullamento dell’ordinanza, che dispone la misura, se risultano vizi di legittimità attinenti
ai presupposti e alla forma del provvedimento impugnato che ne impongono la dichiarazione
di nullità;
c) di conferma o di riforma della suddetta ordinanza, se valutati i risultati probatori acquisiti nel
procedimento di riesame, nella prospettiva di un bilanciamento tra le esigenze cautelari e i
criteri di adeguatezza e proporzionalità previsti in generale per l’emissione del provvedimento
restrittivo, appare più appropriato mantenere, modificare o revocare la misura applicata.
Per rimanere la natura di “mezzo di gravame” assolutamente devolutivo del riesame, la legge
stabilisce espressamente che il giudice nell’esprimere il proprio convincimento può tener conto:
- nel caso di annullamento o di riforma favorevole all’imputato, anche di motivi diversi da quelli
enunciati dalla parte;
- nel caso di conferma, anche di ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del
provvedimento che ordina la misura, con la conseguenza che la motivazione dell’ordinanza del
tribunale della libertà integra e completa l’eventuale carenza di quella del giudice per le indagini
preliminari ed allo stesso modo la motivazione insufficiente del giudice del riesame ben può
ritenersi integrata da quella del provvedimento impugnato.
La disposizione in verità lascia sommerso un punto fondamentale.
Dalla formulazione della norma che disegna l’ambito dei poteri di decisione del giudice del riesame
non emerge con sufficiente chiarezza il divieto di modificare il contenuto della misura cautelare in

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senso più sfavorevole all’imputato. anzi, la proposizione linguistica afferma che il tribunale può
annullare il provvedimento impugnato o riformarlo in senso favorevole all’imputato anche per
motivi diversi da quelli enunciati, lasciando cos’ intendere che sussisterebbe pure la possibilità di
uno spazio per una decisione sfavorevole purché non fondata su motivi diversi.
Il dubbio può essere superato o facendo riferimento all’applicazione analogica del principio del
divieto di reformatio in peius per l’appello del solo imputato, o interpretando la proposizione
sopra riportata nel senso di norma di specificazione del contenuto del provvedimento modificativo
adottabile dal giudice del riesame; nel senso, cioè, di disposizione che precisa il tipo di
provvedimento che il giudice può emettere quando non ritenga di confermare il provvedimento
coercitivo: può annullarlo o riformarlo in senso favorevole all’imputato anche per motivi diversi.
L’ultima comma dell’art. 309, stabilisce che se l’autorità giudiziaria procedente non trasmette gli
atti entro i 5 giorni previsti nel coma 5 dell’articolo in esame o se la decisione di riesame non
interviene nel termine prescritto di 10 giorni, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde
efficacia.
L’effetto caducatorio della misura conseguente al mancato adempimento della trasmissione degli
atti al Tribunale entro il termine di 5 giorni previsto nel comma 5, si realizzerebbe quando entro il
suddetto termine gli atti non siano pervenuti al tribunale medesimo.
Per quanto riguarda il termine di 10 giorni, il riferimento è alla data della deliberazione del
provvedimento da parte del tribunale del riesame attestata dal deposito in cancelleria del
dispositivo e non alla data di deposito dell’ordinanza completa di tutti i suoi elementi e quindi
anche della motivazione.
A norma dell’art. 101, poi, la data da cui comincia a decorrere il termine può subire spostamenti
nelle due situazioni previste nei commi 3 e 4 dell’art. 127 c.p.p.
Comma 3: si verifica quando l’imputato che ha deciso di essere sentito personalmente si trova
detenuto o internato in un luogo posto fuori dal circondario del tribunale competente. In tal caso,
il magistrato di sorveglianza “senza ritardo assume le dichiarazioni dell’imputato, previo
tempestivo avviso al difensore, e trasmette gli atti al tribunale con il mezzo più celere”. Dal
momento in cui gli atti pervengono al tribunale comincia a decorrere il termine per la decisione.
Comma 4: si verifica quando l’imputato che ha avanzato la richiesta di essere sentito sia detenuto
nel luogo ove ha sede il tribunale e l’udienza sia rinviata per un legittimo impedimento
dell’imputato stesso. In tal caso, il termine decorre nuovamente dalla data in cui il giudice ha
notizia della cessazione dell’impedimento.

16.(Segue): l’appello e il ricorso per cassazione.


Nell’ambito degli strumenti di controllo sui provvedimenti de libertate, l’appello rappresenta il
mezzo di impugnazione previsto in via generale contro tutti i provvedimenti emessi in tema di
misure cautelari personali.
La legittimazione soggettiva spetta sia all’imputato e al suo difensore sia al pm, per il quale, vale la
pena ribadire, l’appello rappresenta l’unico mezzo d’impugnazione utilizzabile, essendogli preclusa
la via del riesame.
La dichiarazione di appello va presentata, contestualmente ai motivi, nella cancelleria del giudice
dell’impugnazione: cioè, del tribunale del luogo ove ha sede la Corte d’appello o la sezione
distaccata della Corte d’appello nella cui circoscrizione è compreso l’ufficio del giudice che ha
emesso il provvedimento impugnato.
Il termine e le forme di presentazione dell’appello sono uguali a quelli stabiliti per il riesame.

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L’identità sia dell’organo, che è chiamato a decidere sull’impugnazione, sia dei termini e delle
forme di questa può tornare utile negli eventuali errori di intitolazione commessi dalle parti, al fine
di consentire l’applicazione della regola generale prevista dall’art. 568 comma 5: “l’impugnazione
è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione ad essa data dalla parte che l’ha proposta”.
Anche le modalità di svolgimento del procedimento di appello sono simili a quelle del riesame.
Sono previsti:
 l’avviso immediato all’autorità giudiziaria procedente che deve trasmettere al tribunale, entro
il girono successivo, l’ordinanza appellata e gli atti su cui essa si fonda;
 il deposito degli atti in cancelleria fino al giorno dell’udienza, con facoltà attribuita al difensore
di ottenere copia;
 il rinvio alle forme dettate dall’art. 127;
 il termine d 20 giorni dal ricevimento degli atti per la pronuncia della decisione.
Per il resto valgono le norme generali stabilite per il giudizio di appello, ivi compresa quella
concernente l’effetto devolutivo che limita la cognizione del giudice dell’impugnazione ai punti
della decisione investiti dai motivi proposti.
Contro le decisioni emesse in sede di riesame e in sede di appello è proponibile ricorso per
cassazione, entro il termine di 10 giorni decorrenti dalla comunicazione o dalla notificazione
dell’avviso di deposito del provvedimento impugnato.
La presentazione del ricorso non sospende, in via generale, l’esecuzione della decisione che
dispone in ordine alla applicazione della misura. Il rinvio al rito camerale di cui all’art. 127, rende
applicabile la regola stabilita dal comma 8 dello stesso articolo: “il ricorso non sospende
l’esecuzione dell’ordinanza”.
In deroga, però, a questa regola vigente per le decisioni camerali, il comma 3 dell’art. 310 detta
una disposizione ispirata da favor libertatis: “l’esecuzione della decisione con la quale il tribunale,
accogliendo l’appello del pm, dispone una misura cautelare è sospesa fino a che la decisione non
sia divenuta definitiva”.
Legittimati alla presentazione del ricorso sono l’imputato, il suo difensore e il pm, che ha richiesto
l’applicazione della misura o che ha sede presso il tribunale del riesame. Ne resta escluso il
procuratore generale presso la Corte di appello, salvo che sia stato egli stesso a chiedere
l’applicazione della misura cautelare. Soltanto ai primi due soggetti è attribuito anche il diritto di
proporre, in sostituzione del riesame, ricorso per violazione di legge contro l’ordinanza che
dispone una misura coercitiva.
L’utilità di tale ricorso per saltum può essere intravista in una scelta difensiva diretta ad evitare il
sindacato di merito, e quindi i relativi poteri integrativi, del tribunale della libertà e ad investire
direttamente la Corte di cassazione al fine di poter ottenere un più proficuo controllo dei vizi di
legittimità, soprattutto della motivazione.
La proposizione del ricorso per saltum è causa d’inammissibilità della richiesta di riesame.
A differenza dei due precedenti rimedi, che prevedono la presentazione della domanda nella
cancelleria del giudice dell’impugnazione, il ricorso va proposto invece nella cancelleria del giudice
che ha emesso la decisione o, nel caso di ricorso per saltum, in quella del giudice che ha emesso
l’ordinanza che dispone la misura coercitiva. Insieme al ricorso vanno contestualmente depositati i
motivi.
Anche per il procedimento in Cassazione, come per il riesame e per l’appello, è stabilito il rinvio al
rito camerale disciplinato dall’art. 127 c.p.p. La previsione dell’udienza, gli avvisi alle parti della
data in cui essa si svolgerà, richiesti da tale rito, e la possibilità concessa al ricorrente di enunciare

160
nuovi motivi prima dell’inizio della discussione, a norma del comma 4 dell’art. 311, assicurano la
pienezza del contraddittorio.
La Corte deve decidere entro 30 giorni dalla ricezione degli atti da parte dell’autorità giudiziaria
procedente.
Come per l’appello, anche per il ricorso in Cassazione la scadenza del termine fissato per emettere
la decisione non comporta alcuna sanzione di carattere processuale.

17.L’applicazione provvisoria di misure di sicurezza.


Per i punti di contatto che sussistono con le misure cautelari lo stesso libro quarto del codice,
dedicato a queste misure, riserva il capo settimo alla disciplina dell’applicazione provvisoria delle
misure di sicurezza.
Va tuttavia precisato che, come previsto dall’art. 3-ter comma 4 d.l. 22 dicembre 2011, covertito
con l. 9/2012, a decorrere dal 31 marzo 2013 le misure di sicurezza del ricovero in ospedale
psichiatrico giudiziario ed assegnazione a casa di cura e custodia sono eseguite esclusivamente
all’interno delle strutture pubbliche o private in possesso degli speciali requisiti strutturali,
tecnologici e organizzativi, anche con riguardo ai profili di sicurezza, relativi alle strutture destinate
ad accogliere persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario ed assegnazione a casa di cura e custodia”. La stessa disposizione prevede che le
persone che hanno cessato di essere socialmente pericolose devono essere senza indugio rimesse
a prese in carico, sul territorio dai Dipartimenti di salute mentale.
L’intervento del legislatore in sede processuale si è limitato ad estendere all’applicazione
provvisoria delle misure di sicurezza nei confronti delle persone socialmente pericolose alcune
condizioni e garanzie previste per le misure cautelari. Stabilisce, infatti, l’art. 312 c.p.p. che per tale
applicazione è necessaria la sussistenza di gravi indizi di commissione del fatto e l’assenza delle
cause di non punibilità prevista dal comma 2 dell’art. 273.
Circa le modalità procedimentali è stabilito che il giudice dispone con ordinanza la misura su
richiesta del pm, in ogni stato e grado del procedimento.
Prima di disporre la misura di sicurezza il giudice deve procedere all’interrogatorio della persona
nei cui confronti essa è diretta. Se ciò non è possibile, l’interrogatorio deve avvenire
immediatamente dopo e comunque non oltre 5 giorni dall’inizio dell’esecuzione secondo le
modalità e le garanzie previste dall’art. 294 in ordine alle misure cautelari.
La persona sottoposta ingiustamente all’applicazione provvisoria di misure di sicurezza ha diritto
all’equa riparazione.

18.La riparazione per l’ingiusta detenzione.


In adempimento della direttiva n. 100 della legge delega, l’art. 314 c.p.p. introduce nel nostro
sistema processuale la figura del diritto all’equa riparazione per la custodia cautelare
ingiustamente subita. L’applicabilità di questa norma è stata estesa anche ai procedimenti definiti
anteriormente alla data di entrata in vigore del c.p.p., anche ai procedimenti definiti
anteriormente alla data di entrata in vigore del c.p.p., con sentenza passato in giudicato dal 1°
luglio 1988; il successivo comma 3 precisa che tale diritto alla riparazione non è comunque
trasmissibile agli eredi.
L’ingiustizia della custodia può risultare da situazioni di carattere sostanziale o formale.
Situazioni sostanziali si verificano quando chi ha sofferto la custodia sia stato, poi, prosciolto
con decisione irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il
fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. L’accertamento definitivo in

161
tale ipotesi è posto dalla legge a parametro dell’ingiustizia della custodia, sempre che però,
l’imputato non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave.
Su tale impianto normativo è intervenuta la Corte costituzionale, la quale, pronunciandosi sull’art.
314 nella parte in cui condiziona espressamente il rimedio della riparazione alla circostanza che
l’imputato sia stato prosciolto nel merito dalle impugnazioni, ne ha dichiarato l’illegittimità. E ciò
perché, spiega la Corte, se un sacrificio della libertà personale vi è stato durante la fase della
custodia cautelare, il meccanismo solidaristico della riparazione non può che attivarsi anche per
tale caso, quale che sia stato l’esito del giudizio, e pertanto anche ove sia mancato il
proscioglimento nel merito. Ove la durata della custodia cautelare abbia ecceduto la pena
successivamente irrogata in via definitiva, l’ordinamento ha imposto al reo un sacrificio
direttamente incidente sulla libertà che travalica il grado di responsabilità personale. La sentenza,
però, ha per oggetto la sola ipotesi in cui la pena definitivamente inflitta all’imputato, o oggetto di
una preclusione processuale che la sottragga a riforma nei successivi gradi di giudizio, risulti
inferiore al periodo di custodia cautelare sofferto. Resta, quindi, escluso il riconoscimento
dell’indennizzo in fattispecie nelle quali la mancata corrispondenza tra detenzione cautelare e
pena eseguita o eseguibile consegua a vicende posteriori, connesse al reato o alla pena.
Situazioni formali (art. 314 comma 2) laddove si fa riferimento esclusivamente all’illegittimità
del provvedimento di custodia, a prescindere dal risultato finale di proscioglimento o di condanna
all’imputato. Il diritto alla riparazione, in questo caso, spetta dunque a chi, anche condannato,
risulta, da decisione irrevocabile, che sia stato sottoposto a custodia cautelare senza che
sussistessero o permanessero le condizioni di applicabilità.
Nelle due situazioni, il diritto alla riparazione spetta anche a quelle persone nei cui confronti sia
stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere ovvero sia stato emesso il provvedimento di
archiviazione. Se quest’ultimo tipo di provvedimento è stato disposto per morte del reo, il diritto
alla riparazione opera anche in favore degli eredi dell’indagato, ma soltanto qualora nella sentenza
irrevocabile di assoluzione pronunciata nei confronti dei coimputati risulti l’insussistenza del fatto
a lui addebitato.
Per effetto di due pronunce della Corte costituzionale, l’istituto della riparazione per ingiusta
detenzione deve ritenersi operante:
- per la sentenza 310/1996: anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo
ordine di esecuzione;
- per la sentenza 109/1999: per la detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di
indiziato di delitto.
Quindi, tale istituto opera in presenza di una oggettiva lesione della libertà personale, comunque
ingiusta alla stregua di una valutazione ex post: ciò accade, più in particolare, nel caso in cui vi sia
stata un’ingiusta detenzione in esecuzione di un ordine di carcerazione inizialmente legittimo ma
che andava revocato.
Per quanto riguarda le forme del procedimento, l’art. 102 c.p.p. dispone che la domanda va
presentata nella cancelleria della corte d’appello nei cui distretto è stato emesso il provvedimento
di archiviazione o è stata pronunciata la sentenza che ha definito il procedimento. Se la sentenza
è stata emessa dalla Corte di cassazione, è competente la corte d’appello nel cui distretto è stata
pronunciata la decisione impugnata.
Il termine massimo, previsto a pena di inammissibilità, è di due anni dal giorno in cui la sentenza di
proscioglimento o di condanna è divenuta irrevocabile, la sentenza di non luogo a procedere è
divenuta inoppugnabile o è stata effettuata la notificazione del provvedimento di archiviazione alla
persona nei cui confronti è stato pronunciato.

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La misura della riparazione è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice competente, con un
limite massimo elevato dalla originaria somma di lire cento milioni a un miliardo
Per tutto ciò che non viene espressamente previsto è fatto rinvio alla disciplina sulla riparazione
dell’errore giudiziario.
Art. 102-bis c.p.p.: la registrazione nel posto di lavoro della persona licenziata a causa della sua
sottoposizione ad una misura di custodia cautelare, qualora venga pronunciata in suo favore
sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga emesso
provvedimento di archiviazione.

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