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Una ridefinizione della sovranità popolare compatibile con il paradigma della democrazia
costituzionale
Il riconoscimento di queste aporie, e perciò dell’inadeguatezza di una definizione solamente formale
del concetto di democrazia, impone un ripensamento del rapporto tra popolo e democrazia, sulla
base di una ridefinizione della nozione di sovranità popolare compatibile con l’odierno paradigma
costituzionale della democrazia.
Ne consegue che qualunque concezione della sovranità come potestas legibus soluta è in
contraddizione non solo con l’idea di democrazia costituzionale, ma con l’idea stessa di democrazia,
rivelatasi storicamente incompatibile con l’esistenza di poteri sovrani o assoluti, pur se detenuti dalla
maggioranza del popolo ovvero dai suoi rappresentanti. Proprio per sanare questa contraddizione, il
costituzionalismo si è affermato, a garanzia della democrazia, nel secolo scorso, dopo le esperienze
dei fascismi che in forme politicamente democratiche avevano prima conquistato il potere e poi
distrutto la democrazia. Perché un sistema politico sia democratico, si richiede che alla maggioranza
sia costituzionalmente sottratto il potere di sopprimere o di limitare la possibilità per le minoranze di
diventare maggioranze, tramite limiti che stabiliscano la sfera del non decidibile. Ma è chiaro che
questi limiti, imposti ai poteri di maggioranza tramite la stipulazione costituzionale dei diritti
fondamentali e delle relative garanzie, sono norme non formali, bensì sostanziali e che contraddicono
la tesi secondo cui la democrazia consisterebbe unicamente in un metodo.
Ci sono tuttavia DUE SIGNIFICATI CHE POSSONO ESSERE ASSOCIATI ALLA NOZIONE DI SOVRANITA’
POPOLARE:
1) Il primo significato di sovranità popolare compatibile con la democrazia è quello letterale, riferito al
popolo intero, quale è espresso per esempio dall’art. 1 Cost. secondo cui “ la sovranità appartiene al
popolo”. In questo significato letterale, il principio della sovranità popolare, sta a significare che la
sovranità appartiene al popolo e soltanto al popolo. Fu lo stesso Rousseau ad affermare che la
sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata. Ciò
vuol dire che il principio della sovranità popolare equivale a una garanzia negativa, cioè al divieto per
chiunque di usurparla: significa che la sovranità, appartenendo al popolo intero, non appartiene a
nessun altro e nessuno può appropriarsene.
2) Il secondo significato che può essere associato all’espressione sovranità popolare, in accordo con il
paradigma della democrazia costituzionale, è quello riferito al suo nesso con i diritti fondamentali
costituzionalmente stabiliti. La formula “ la sovranità appartiene al popolo” vuol dire, in questo
secondo senso, che essa appartiene all’insieme dei suoi cittadini, cioè di tutte le persone di cui il
popolo si compone. Ma questo significa che essa altro non è che la somma di quei poteri e contro-
poteri di tutti ( i diritti politici, i diritti civili, i diritti di libertà e i diritti sociali) che la Costituzione
stabilisce come diritti fondamentali, i quali, dunque, non sono soltanto dei limiti alla democrazia
politica, ma ne sono altresì la sostanza democratica. Tali diritti equivalgono insomma, in capo a
ciascuna persona, ad altrettanti frammenti della sovranità del popolo intero. Per questo ogni loro
violazione non è solo una lesione delle persone che ne sono titolari, ma è una violazione della stessa
sovranità popolare.
Una nuova tipologia dei pubblici poteri: funzioni di governo e funzioni di garanzia, primaria e
secondaria
E’ sulla differenza delle loro fonti di legittimazione che si basa la separazione tra poteri di governo e
potere giudiziario e l’indipendenza del secondo dai primi, espressa dal principio della sua soggezione
soltanto alla legge: nessuna maggioranza, neanche l’unanimità dei consensi o dei dissensi, infatti, può
rendere vera o falsa la motivazione di una pronuncia giudiziaria. E’ questo il fondamento della
separazione dei poteri.
C’è poi un secondo fondamento della separazione dei poteri, dell’indipendenza dei giudici e del
carattere contro-maggioritario del potere giudiziario: il suo ruolo di garanzia dei diritti, i quali sono
sempre, come scrisse Ronald Dworkin, virtualmente contro la maggioranza e, più in generale, contro
qualunque potere. E’ questo un fondamento che è diventato ancor più forte nelle odierne democrazie
costituzionali: per l’elenco dei diritti fondamentali affidati dalle costituzioni odierne alla garanzia
giurisdizionale; per il controllo di costituzionalità sulle leggi invalide, affidato all’iniziativa e poi alle
decisioni dei giudici; per l’espansione del ruolo della sfera pubblica e delle attività dei pubblici poteri e
conseguentemente del controllo giudiziario sulle loro possibili illegalità. E’ chiaro che se i diritti sono
contro la maggioranza, altrettanto devono esserlo le loro garanzie giurisdizionali: solo giudici e
pubblici ministeri indipendenti da qualunque potere sono in grado di garantire i diritti dei cittadini
contro le loro violazioni da parte dei poteri politici e amministrativi. Per questo la separazione dei
poteri e la garanzia dei diritti ( cioè i due valori enunciati dalla Dichiarazione francese del 1789) sono
tra loro connesse: perché l’una forma il presupposto dell’altra e dall’altra è giustificata e legittimata.
Tutte queste caratteristiche del potere giudiziario si rinvengono oggi anche in altre pubbliche funzioni
e istituzioni: le funzioni e istituzioni amministrative di garanzia primaria.
Contro la costruzione dello stato sociale e, soprattutto, con il mutamento di paradigma intervenuto
nei nostri sistemi politici con la costituzionalizzazione di diritti sociali come il diritto all’istruzione e alla
salute, si sono sviluppate istituzioni e funzioni che erano ignote all’esperienza giuridica settecentesca.
Queste funzioni non potendo essere collocate all’interno del potere legislativo o del potere
giudiziario, devono essere collocate all’interno della Pubblica Amministrazione, ponendosi alle
dipendenze del potere esecutivo e condividendo con questo la medesima fonte di legittimazione di
tipo politico e maggioritario. Si tratta di funzioni di garanzia primaria che dovrebbero essere separate
e indipendenti dalle funzioni politiche di governo.
D’altro canto nelle odierne democrazie il potere esecutivo non è più detenuto da un monarca privo di
legittimazione democratica, bensì da un governo che ha la medesima fonte di legittimazione del
potere legislativo e che, nelle democrazie parlamentari, non è più separato dal Parlamento ma è a
questo variamente connesso: dal rapporto di fiducia, dalle funzioni legislative attribuite anche al
governo in concorso con il Parlamento e dal potere di scioglimento del Parlamento conferito al
presidente del consiglio e/o al presidente della Repubblica.
Tutto questo richiede una profonda revisione della classica separazione dei poteri. In primo luogo va
riconosciuto che il potere esecutivo e quello legislativo non sono più separati ma sono connessi e
condividono la stessa fonte di legittimazione, consistente nella rappresentatività politica e popolare,
sicché possiamo accomunarli nella medesima classe delle funzioni di governo. In secondo luogo gran
parte delle nuove funzioni attribuite alla sfera pubblica dallo sviluppo dello stato sociale e dalla
costituzionalizzazione dei diritti sociali, come l’istruzione pubblica, l’assistenza sanitaria e la
previdenza sociale, non hanno nulla a che vedere con le funzioni amministrative di governo, come per
esempio quelle in materia di politica estera, di politica economica o di ordine pubblico che dipendono
dalle funzioni politiche di governo legittimate, in democrazia, dalla rappresentanza politica. Quelle
funzioni vanno al contrario configurate come funzioni amministrative di garanzia primaria.
Abbiamo così due figure del potere pubblico: quella dei poteri o delle funzioni di governo e quella dei
poteri o delle funzioni di garanzia.
La definizione teorica di diritti fondamentali e le sue implicazioni in sede di teoria del diritto
Secondo la definizione teorica (formale) dei diritti fondamentali, questi sono i diritti attribuiti
universalmente a tutti in quanto persone e/o in quanto cittadini e/o in quanto capaci di agire.
Per comprendere le implicazioni teoriche della definizione formale di diritti fondamentali, conviene
muovere dall’analisi del rapporto di razionalità strumentale, cioè di mezzo a fine, che lega la forma
universale dei diritti fondamentali ai valori con essi invocati o giuridicamente stipulati o di fatto
garantiti.
Se si vuole che i diritti fondamentali siano sottratti alla disponibilità politica, essi devono essere
stipulati nella forma universale richiesta dalla definizione formale, essendo tale forma la sola idonea a
conseguire i fini o i valori che con essi si intende perseguire.
La forma universale dei diritti fondamentali rappresenta la sola tecnica di tutela dei bisogni e delle
aspettative con essi stipulati per tre ragioni.
Persone e cittadini
Marshall ha configurato due semplificazioni concettuali in riferimento alla cittadinanza. La definizione
di Marshall si articola in due parti:
1) la cittadinanza è uno status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno diritto di una
determinata comunità: non c’è qui differenza con la nozione giuridica di cittadinanza;
2) è qui che invece emergono le divergenze, in quanto la cittadinanza viene identificata come lo status
cui sono associati TUTTI I DIRITTI EX LEGE, sicché i “diritti di cittadinanza” comprenderebbero: DIRITTI
CIVILI, DIRITTI POLITICI e DIRITTI SOCIALI.
Nella tradizione giuridica, invece, si è sempre fatta distinzione tra STATUS CIVITATIS (o cittadinanza) e
STATUS PERSONAE (personalità o soggettività giuridica), la quale fu proclamata dalla Dichiarazione dei
diritti dell’uomo del 1789, che parla di “homme” e “citoyen”, distinguendo pertanto i due status
soggettivi, collegandovi due distinte classi di diritti fondamentali, quali i DIRITTI DELLA PERSONALITà,
spettanti a tutti gli esseri umani in quanto individui, e i DIRITTI DI CITTADINANZA, spettanti ai soli
cittadini.
Tra i diritti civili indicati da Marshall, rientrano: libertà personali, di parola, di pensiero, di fede; diritto
di possedere cose in proprietà e di stipulare contratti validi, diritto di ottenere giustizia, che spettano
ai loro titolari non in quanto cittadini ma in quanto persone. E vi rientrano anche molti diritti sociali.
Altra associazione operata da Marshall, che risulta poco convincente, è quella tra la cittadinanza e lo
sviluppo del primo CAPITALISMO: i soli diritti che sono stati essenziali al capitalismo, in quanto
dissociabili dall’economia di mercato, sono il diritto di tutti a divenire proprietari e la capacità di agire,
ossia di contrattare, ossia quei diritti legati all’autonomia privata o negoziale, i quali erano riconosciuti
in forza di status privilegiati. In realtà, la Dichiarazione dell’89 ha riconosciuto come diritti dell’uomo i
diritti di libertà e come diritti del cittadini quelli politici, essenziali allo sviluppo non del capitalismo,
ma della democrazia.
Per un aggiornamento del costituzionalismo e per un nuovo lessico giuridico. Tre classi di beni
fondamentali
Negli usi correnti, l’espressione BENI COMUNI designa un coacervo di valori eterogenei: non solo si
intendono le res omnium, ma anche l’istruzione, la salute, la cultura, il linguaggio, l’informazione, il
sapere e perfino il lavoro e il diritto.
Simili usi retorici contraddicono la grammatica del diritto. Il linguaggio giuridico è il linguaggio nel
quale pensiamo i problemi e le soluzioni, le quali consistono in garanzie, cioè tecniche normative
diverse a seconda che ciò che si intende garantire siano cose, o diritti di immunità, o diritti di accesso,
oppure attività proprie o attività altrui.
La nozione di beni comuni attuale rischia di diventare una categoria troppo estesa, in cui si fanno
rientrare anche i valori più diversi, non propriamente configurabili come beni, e allo stesso tempo una
categoria eccessivamente ristretta in cui non rientrano beni, che non sono configurabili come comuni,
come per esempio le parti del corpo umano, i farmaci salvavita, il cibo necessario all’alimentazione di
base.
L’art. 810 cc afferma che sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti. Il lessico giuridico
quindi mostra una duplice carenza: i soli beni da esso designati sono i beni patrimoniali, disponibili,
alienabili e spettanti a ciascuno con esclusione di altri (non a caso l’810 apre la parte del codice sulla
proprietà privata). Inoltre, le sole figure fondamentali conosciute dalla nostra tradizione giuridica
sono i diritti individuali caratterizzati come fondamentali: diritti universali alla vita, diritti civili, politici,
di libertà, sociali, con cui si designano tutti i bisogni e gli interessi vitali stipulati come meritevoli di
tutela.
Non tutti i beni vitali sono però comuni, come gli organi umani. Si dispone allora di una categoria più
ampia, quella dei BENI FONDAMENTALI, in cui sono inclusi tutti quei beni dei quali si richiede l’uguale
garanzia a tutela di tutti, perché vitali, e che vanno sottratti alle logiche e alle vicende del mercato. In
primo luogo i beni comuni, in secondo i beni personalissimi (parti del corpo), in terzo luogo i beni
sociali (oggetto di diritti fondamentali sociali alla salute e alla sussistenza, come i farmaci salvavita).
Le garanzie dei beni fondamentali
A fianco alla categoria dei DIRITTI FONDAMENTALI vi è la categoria dei BENI FONDAMENTALI, che
diversamente dai beni patrimoniali devono essere resi involabili e garantiti a tutti.
Sono diverse le tecniche di garanzia previste per le tre categorie di beni sopra elencate: i BENI
COMUNI sono beni naturali che devono essere protetti con limiti o divieti di lesione, per la loro
conservazione e accessibilità a tutti. I BENI SOCIALI, come i farmaci, sono artificiali, e devono essere
garantiti da vincoli o obblighi di protezione, tramite la loro distribuzione a tutti e la loro diretta
produzione ad opera della sfera pubblica. I BENI PERSONALISSIMI, infine, sono beni naturali garantiti
da divieti di lesione e di alienazione, ma esattamente all’opposto dei beni comuni deve esserne
assicurata l’immunità quali beni non accessibili a nessun altro che alla persona cui appartengono.
La trasformazione di tutte queste cose in beni fondamentali richiede necessariamente l’intervento del
diritto, e quindi la loro sottrazione al mercato e all’arbitrio delle decisioni politiche, sia pure di
maggioranza, per tre ragioni: primo, perché trattandosi di beni vitali oggetto di diritti fondamentali, la
garanzia del loro godimento da parte di tutti deve essere uguale e gratuita; secondo, perché in
assenza della loro garanzia giuridica come beni fondamentali, essi si trasformano inevitabilmente in
beni patrimoniali o merci; terzo, perché tali beni, a cominciare dai beni comuni, continuano a non
avere un valore di scambio secondo la logica del mercato, per la ragione opposta a quella rilevata da
Platone e Smith, cioè non perché non sono rari e accessibili a tutti, ma perché essendo vitali, rari e
non più accessibili a tutti, chiunque sarebbe disposto a pagare qualunque prezzo. Questi beni si
sottraggono quindi alla legge del rapporto domanda-offerta.
Di qui la necessità di una nuova fase del costituzionalismo, dove per riconoscere determinati beni
vitali come fondamentali, è necessario che questi siano beni costituzionali, previsti come
fondamentali nelle costituzioni rigide, cioè garantiti dal divieto di mercificazione (beni comuni e
personalissimi) e dall’obbligo della loro prestazione gratuita (beni sociali).
Quanto ai beni comuni di carattere ambientale, la garanzia più appropriata è quella adottata negli
ordinamenti statali con la loro qualificazione come BENI DEMANIALI, sottratti al mercato. Si richiede
però l’istituzione di più tipi di demanio, ossia non solo i demani comunali, provinciali, regionali e
statali, ma anche demani sovrastatali di livello europeo e globale.
La garanzia dei beni comuni di carattere ECOLOGICO richiede tutela non solo dal mercato, ma anche
dalle lesioni che possono provenire dai disastri nucleari. Come ha dimostrato la tragedia di Fukushima
in Giappone, la sicurezza assoluta contro il nucleare è irrealizzabile o quantomeno improbabile:
attualmente ci sono 455 reattori che forniscono il 16% dell’elettricità mondiale, e rappresentano una
fonte costante di danni, pericoli e inquinamenti. Nonostante ciò, però, non si capisce perché l’umanità
debba correre tali rischi. La misura ideale sembra una convenzione internazionale che proibisca la
costruzione di nuove centrali e metta in atto un processo graduale di disattivazione progressiva delle
centrali esistenti. Lo sviluppo della produzione di energie alternative e rinnovabili, non solo è
possibile, ma è anche economicamente vantaggiosa.
LIBERTà E PROPRIETà
Proprietà e libertà: due categorie polisense
Nella tradizione liberale c’è un equivoco: la configurazione come libertà della proprietà privata, in
forza dell’associazione, in un’unica categoria:
a) dei diritti fondamentali di libertà;
b) del diritto civile e fondamentale di divenire proprietari e di disporre dei beni di proprietà;
c) del diritto reale su beni di proprietà.
La confusione è nata dalla concezione moderna di diritto soggettivo in cui sono confluite due culture
diverse: la cultura giusnaturalistica e la romanistico-civilistica. L’incontro di queste due culture avviene
attraverso due operazioni:
1) la prima operazione risale a Locke, il quale identifica nella vita, nella salute, nella libertà e nella
proprietà i beni tutelati dalla legge di natura alla cui conservazione è finalizzato lo stato. La prima
mossa è stata l’identificazione dell’oggetto della proprietà con la propria persona; la seconda mossa è
stata la derivazione della proprietà sulle cose: egli ha affermato che se ciascuno è proprietario del
proprio corpo, lo è anche delle sue azioni.
2) la seconda operazione è stata la costituzionalizzazione e quindi la positivizzazione dei diritti
naturali. Nella Dichiarazione francese dell’ ’89 si legge che “ tutti gli uomini sono da natura
egualmente liberi ed indipendenti ed hanno alcuni diritti innati ( ex il godimento della vita, della
libertà ecc).
L’associazione tra proprietà e libertà riceve così una consacrazione costituzionale.
DISUGUAGLIANZE E RAZZIMO
Perché il razzismo?
Proprio perché le razze non esistono, la sola spiegazione del razzismo ha carattere politico. Il razzismo
consiste in un meccanismo politico di esclusione, di discriminazione e di negazione dell’umanità
dell’altro. Una risposa al perché di tutto ciò la fornisce Foucault nel suo CORSO del 1976, secondo cui
il razzismo rappresenta il modo in cui è stato possibile introdurre una separazione, quella tra ciò che
deve vivere e ciò che deve morire.
Il razzismo nato in Occidente è un fenomeno moderno nato con la scoperta del nuovo mondo, a
sostegno della conquista, della colonizzazione, della tratta dei neri e della schiavitù. Come dice
Foucault, solo il razzismo è la condizione di accettabilità della messa a morte, la condizione in base
alla quale si può esercitare il diritto di uccidere.
Solo un’antropologia della disuguaglianza consente di tollerare che 800 milioni di persone soffrano la
fame e la sete e circa 8 milioni muoiano per questo, che circa 2 miliardi di persone non abbiano
accesso ai farmaci essenziali o salvavita, provocando 10 milioni di morti l’anno.
Solo un razzismo consapevole rende possibile alla nostra Europa civile e cristiana di tollerare un
fenomeno non meno terribile, prodotto da quelle odierne leggi razziali che sono le leggi contro
l’immigrazione.
In altre parole, solo il razzismo consente di promuovere e praticare politiche di morte, dove politica di
morte e razzismo sono l’una legittimata e assecondata dall’altra.
Stessa cosa vale per il sessismo: solo l’idea dell’inferiorità della donna ha potuto legittimare per secoli
le discriminazioni giuridiche delle donne, la loro oppressione e la loro sottomissione domestica. Così
anche per il classismo, visto che soltanto l’idea dell’inferiorità degli operai e dei poveri ha potuto
giustificarne lo sfruttamento.
Immigrati clandestini
Sono enormi le responsabilità politiche nell’esclusione e nella tendenziale criminalizzazione degli
immigrati clandestini. Le tante tragedie delle migliaia di persone affogate in mare sono state
provocate dalle politiche di esclusione poste in atto dai nostri governanti.
Anzi, le leggi e le prassi prodotte da tali politiche costituiscono una sorta di corpus iuris: la legge Bossi-
Fini, la legge del 2009, sicuramente la più indegna della storia repubblicana che, con l’introduzione del
reato di immigrazione clandestina, ha penalizzato la condizione personale, ossia lo status, di
immigrato clandestino.
Tutte queste leggi esprimono l’immagine dell’immigrato come COSA, il cui valore è solo quello di una
mano d’opera precaria, ricattabile e a basso costo per lavori faticosi, pericolosi e umilianti.
Esse possono solo aggravare e drammatizzare i problemi di sicurezza che si illudono di risolvere, senza
poter fermare di fatto l’immigrazione.
Sinti e rom
Altra categoria di persone vittime del razzismo è quella dei sinti e dei rom, che furono vittime
dell’olocausto e che la nostra Costituzione tutela all’art. 6.
I rom, invece, sono divenuti oggetto di persecuzione, innanzitutto sul piano culturale, in forza
dell’associazione tra la figura del rom e quella di soggetto pericoloso e criminale, diverso, straniero,
seppur spesso si tratta stesso di cittadini italiani o comunitari.
Ma si è avuto anche un razzismo istituzionale, con le pratiche messe in atto contro di essi, che
possono essere riassunte in quella che Sergio Bontempelli ha definito come “politiche dei campi”:
questa politica è stata un’invenzione italiana, avviata tra la seconda metà degli anni ’80 e la prima
degli anni ’90, sviluppatasi in tre fasi. Prima in questi campi, veri e propri ghetti, vi finirono profughi
che fuggivano dalle guerre slave e che non erano nomadi ma semplici rifugiati che avrebbero avuto
diritto all’asilo. Si è poi passati agli sgomberi, seguita poi da una nuova politica dei campi.
Antidoti al razzismo
La battaglia contro il razzismo deve essere duplice: politica e sociale, per la tutela di tutte le differenze
personali e la riduzione delle disuguaglianze economiche e materiali, attraverso l’introduzione di
idonee garanzie dell’una e dell’altra; culturale, contro l’antropologia della disuguaglianza, fatta di
pregiudizi, di paure e di odi per i diversi, che da quelle discriminazioni e disuguaglianze è alimentata.
Naturalmente, lo strumento di entrambe queste battaglie è l’attuazione e l’educazione ai valori
dell’uguaglianza, della dignità della persona, della solidarietà e dei diritti umani come diritti di tutti,
stipulati nei tanti patti costituzionali.