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Schmitt Stefano Pietropaoli

1. Carl Schmitt nasce a Plettenberg l’11 luglio 1888. Di umili origini, si diploma agli studi classici e
s’iscrive prima a filologia a Berlino (soffre del metodo rigido di Willamowitz), poi agli studi di
giurisprudenza a Monaco ed infine a Strasburgo. Si laure nel 1910 “cum summa laude”. Tra il 1910
e il 1914 si situano i suoi primi lavori, di carattere specificatamente giuridico: Über Schuld und
Schuldarten (1910 Sulla responsabilità e colpa), Gesetz und Urteil (1912 Legge e giudizio), Des Wert
des Staates und die Bedeutung des Einzelnen (1914). Tutti questi lavori palesano l’orientamento
atipico di Carl Schmitt rispetto agli orientamenti di scienza giuridica della seconda metà
dell’Ottocento e del primo Novecento (giuspositivismo, giusnaturalismo, neokantismo), e in questa
produzione, rispetto alle questioni relative a temi quali la legge, il giudizio, la responsabilità, la
decisione etc., emerge una prospettiva che si situa medianamente tra la norma e la prassi, l’ideale e
il reale, il trascendente e l’immanente, l’astratto e il concreto, positivo e naturale. Nel lavoro del
1910 l’indagine sulla responsabilità giuridica viene definita sia attraverso il riferimento
all’ordinamento, sia attraverso un’indagine delle condotte prettamente giuridiche, che distinguono
la colpevolezza (categoria giuridica) e peccato (categoria morale), l’interiorità dalla realtà fattuale.
Tra il 1910-12 si dedica agli studi filosofici (Marx, Hegel, Schopenhauer, Kierkegaard, Kant). In
Gesetz und Urteil Schmitt considera per la prima volta il concetto di decisione, categoria
importantissima per la comprensione del pensiero del politologo tedesco di Plettenberg. La
decisione viene considerata rispetto al tema della giustizia e della sentenza. Come prassi giuridica la
decisione si pone come in un’unitarietà e conformità storica che vincola i giuristi, ma al tempo
stesso non deve essere definita né da un orientamento normativistico né a idee generali astratte
proprie del giusnaturalismo. Il potere ermeneutico del giudice nella sentenza deve essere vincolato
dalla prassi giuridica che continuamente viene elaborata dal ceto dei giuristi. Dal punto di vista
prettamente teorico tale scritto si rifà alla questione giuridico-filosofica definita da Kant definita
dalle categorie Sein e Sollen. Rispetto a questo quesito, che attraversa la filosofia del diritto del
Novecento, Schmitt si pone in una posizione intermedia, non protende né troppo verso ideali
astratti, né troppo verso un normativismo formale, come quello kelseniano; e tale posizione
intermedia è garantita dalle sue considerazioni soggettistiche sulla decisione come voluntas, come
definizione dal nulla di un ordine dal disordine. L’ultimo lavoro, quello del 1914, amplia ancor di più
l’ambito del giuridico e la nozione di decisione. Nella sua volontà di creare una mediazione tra
giusnaturalismo e giuspositivismo l’autore cerca innanzitutto di definire una sorta di “diritto
naturale senza naturalismo”, ovvero intendere un diritto che sia al tempo stesso trascendente e
normativo, un diritto che si qualifichi come naturale in quanto proprio dell’uomo ovunque quale
sua modalità di definire il mondo, e non naturalistico, ovvero non fondato su una determinata idea
di natura. Attraverso questa prospettiva Schmitt definisce una dimensione del giuridico come
norma giuridica (Rechtsnorm), un’idea astratta dalla realtà, e come dimensione della realizzazione
del diritto (Rechtsverwirklichung), come adeguata al piano empirico-fattuale. Tra queste due
dimensioni si porrebbe il ponte dello Stato moderno quale ente che non pone il diritto, ma che
nasce dal diritto come creatura giuridica. In questo modo lo Stato stesso si qualifica sia come
avente una dimensione trascendente e normativa rispetto al diritto, sia come funzione giuridica
riconosciuta come “personalità giuridica” che si presenta come sovralegale per la realizzazione del
diritto. In esso la decisione e l’infallibilità (che recupera dall’infallibilità papale) collegano la norma
astratta alla sua realizzazione pratica. Particolare e degno di nota è considerare il rapporto tra
Schmitt e il neokantismo; infatti oltre al fatto di aver conosciuto diversi neokantiani come
Wildelband (rettore dell’università di Strasburgo dove aveva studiato), Rudolf Stamler (da cui
recupera la critica al positivismo) e Hans Voilinger, ricava da questi autori argomenti per la critica
del giuspositivismo. Ciononostante non può essere definito neokantiano né aderisce al formalismo
soggettivo, adoperato da Kelsen, che non permetterebbe al diritto di esprimersi concretamente. Tra
il 1916 -1921 Schmitt vive il suo periodo bavarese a Monaco, nel quale, oltre a essere fortemente
provato dai cruciali eventi storici del tempo (la sconfitta nella prima guerra mondiale, la nascita
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della repubblica di Weimar, il periodo critico delle rivoluzioni estremiste, come quella comunista di
Rosa Luxemburg) che influirono pesantemente nella formulazione del suo lessico politico, si
immerge all’interno di un clima letterario che per la sua persona viene segnato dalla figura del
poeta austriaco Theodor Däubler e il letterato Konrad Weiss. All’interno di questo contesto Schmitt
esprime la sua sagacia attraverso una critica fortemente sarcastica e polemica della società
borghese, del romanticismo, del nichilismo moderno, dell’idealismo, e di alcune personalità di
spicco (Thomas Mann e Walter Rathenau). Fondamentale è soprattutto l’amicizia che intesse con
Franz Blei, poeta, saggista, attore e scopritore di talenti letterari quali Franz Kafka e Robert Musil.
Grazie alla figura di Blei Schmitt conosce Konrad Weiss. Produzione di questo periodo: due scritti
satirici intitolati “Buribunki” contro l’idealismo tedesco e la filosofia della storia, e “Die Fackelkraus”
contro la figura di Karl Kraus, commediografo e direttore della rivista “Die Fackel”. In consonanza
inoltre con la critica di Hugo Ball, altro amico di Schmitt e poeta, conosciuto sempre tramite Franz
Blei, Schmitt concepisce uno dei primi scritti più importanti, ovvero “Il romanticismo politico”
(Politische Romantik 1919). In quest’opera il giurista di Plettenberg critica la condizione
dell’intellettuale tedesco, che presenta un atteggiamento romantico all’interno di un orizzonte, che
dalla modernità al XIX secolo, si qualificava come nichilista e prodotto della borghesia, ed inoltre
incapace di produrre un’autentica attività politica. L’opera indica come la storia della modernità
viene attraversata da due rivoluzioni fondamentali, quella copernicana e quella cartesiana, e in
particolare come quest’ultima abbia definito con il cogito una visione egocentrica dell’individuo,
seppur legato ad un mondo di cause. Da questa prospettiva il romanticismo assume poi come
genitori gli autori dell’occasionalismo, ovvero de Cordenay, Geulincx e Malebranche, i quali
assumono il mondo come il campo d’azione in cui Dio interviene nelle cause. Non ci volle molto
affinché mutasse il paradigma, d’altronde già abbastanza delineato dall’occasionalismo,
sostituendo una visione romantica in cui il mondo era causato dall’individuo, dal genio,
indentificato con il borghese della società liberale che imprimeva il suo significato nel mondo. Il
romantico all’interno di un mondo caotico vive nell’imprimere le proprie azioni nel mondo quale
suo progetto di illusioni avendo come unico scopo la propria glorificazione. La sua natura è sofistica
volta all’utile a seguito del nichilismo valoriale. Il passaggio della razionalità valorale a quella
dell’utile viene rivestita di una patina estetica. La sua azione, quando politica, si rivela quanto mai
impolitica e quanto mai estetica, dal momento che è irrelata ad una responsabilità decisionale.
Nella mobilità estrema ad adattiva del romanticismo politico la politica non ha spazio d’esistere.
Come campione di tale mentalità Schmitt, dopo la lettura dei maggiori romantici tedeschi (Fichte,
Schelling, Schlegel, Novalis) e dei controrivoluzionari (De Maistre, De Bonald, Donoso Cortes)
assume Adam Müller. All’interno pertanto di questa visione romantica (diversa dalla visione della
politica romantica, che si rifà a valori inattuali, e come campione Schmitt cita Don Chisciotte) il
tema della decisione ritorna legato alla responsabilità giuridica e considerata come indispensabile
nella formazione di un ordine razionale socio-economico. Da rilevare le critiche aspre all’opera da
parte di Friedrich Meinecke (Besprechung der Schrift “Politische Romantik”) e Gyorgy Lùkacs
(Politische Romantik). Lo stesso Karl Löwith, appassionato critico di Schmitt, avrebbe definito lo
stesso decisionismo del giurista figlio della mentalità occasionalista. Da questo testo emergerebbe
una visione del romanticismo pertanto come figlio dell’individualismo borghese.

Giusnaturalismo: ordine di diritti secondo l’idea di natura che si qualificano come essenziali e
perfetti, e che completano quelli imperfetti e storici del diritto positivo, e pertanto che quest’ultima si
adegua al primo.

Giuspositivismo: ordine in cui il diritto viene posto, stabilito, senza alcun riferimento alla morale o ad una
determinata idea di natura: a partire da questo diritto che si definisce il giusto e l’ingiusto.
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2. Sovranità e decisione
Tra il 1918-19 nella Germanie segnata dalle intemperie rivoluzionarie sino all’istituzione della
Repubblica di Weimar (11 agosto 1919) Schmitt rimane a Monaco, anche in forza dell’occupazione francese
di Strasburgo, e qui, oltre a seguire il corso di Max Weber sulla legittimità e la legalità di cui non condivide a
pieno la tesi nonostante il favore sul concetto di carisma che viene definito, si dedica allo studio di temi
come lo stato d’eccezione, la decisione, la sovranità e la dittatura. Grazie anche all’esperienza di guerra, in
cui vive il regime di stato d’assedio prussiano, Schmitt si dedica teoricamente alla composizione di
un’opera, pubblicata poi nel 1921, intitolata “La Dittatura” (Die Diktatur); all’interno della sua
argomentazione, diversamente da come facevano diversi studiosi, viene ispirato anche dall’uso del termine
che viene fatto dall’ideologia comunista. Il concetto di dittatura viene legato da Schmitt allo stato
d’eccezione grazie all’intuizione leninista della “dittatura proletaria” come fase di transizione, attraverso la
quale Schmitt riconsidera anche il concetto di diritto. Nel concetto di diritto, che prevede la separazione
della norma giuridica e della realizzazione del diritto, lo stato di eccezione si qualifica come il vero elemento
che dona senso al diritto, più che alla norma. Non è infatti la normalità, come per il giuspositivismo, a
definire il diritto, ma il riconoscimento del diritto legato all’eccezione che può riconoscere in pieno la sua
volontà prescrittiva anche nelle circostanze in cui l’ordinamento viene sospeso. Il discorso di Schmitt vuole
essere funzionale alla repubblica di Weimar per comprendere in che misura la dittatura può rivelarsi utile,
sebbene questo rapporto venga trattato maggiormente nelle ultime pagine e poi a partire dalla seconda
edizione del 1924. Il discorso viene portato avanti attraverso una disanima storica per la quale, volendo
risolvere la confusione semantica associata al termine ( che si rifaceva ancora all’erronea definizione di
Macchiavelli sulla tirannide la quale poggerebbe sul “consensus populi” e sull’accentramento del potere; è
rilevabile anche all’interno degli studi antichi che la tirannide, distinta dalla tirannia, non si presentava
come un fenomeno fondato dal basso, ma prettamente elitario), si parte dall’analisi della carica del
“dictator” all’interno del diritto romano, intesa come carica per la quale l’ordinamento giuridico veniva
sospeso ai soli fini di preservarlo in situazioni critiche ma non per rinnovarlo o crearne uno nuovo ex nihilo.
Da qui trarrebbe anche origine il laboratorio politico italiano del Cinquecento della Ragion di Stato. Inoltre
secondo Schmitt lo stesso percorso della modernità beneficerebbe di una maggiore chiarezza attraverso la
categoria della dittatura, tenendo conto di meccanismi rilevabili in tutte le costituzioni moderne che
prevedevano un procedimento analogo a quello presente nel diritto romano. Tra il “giusnaturalismo di
giustizia” di Ugo Grozio, che voleva definire un diritto extrastatale sempre valido, e il “giusnaturalismo
scientifico” di Thomas Hobbes, per il quale la decisione e la legge come comando privo di un contenuto
erano gli aspetti fondamentali, Schmitt protende per il secondo all’interno delle soluzioni per l’eventuale
crisi del diritto giusnaturalista, incrinato dalla secolarizzazione. In questo modo Schmitt comincia a definire
a partire dalla Stato moderno il rapporto tra la dittatura e la sovranità, rifacendosi alla brillante definizione
di Jean Bodin (che Hobbes recupera all’interno del “De Cive”) e alla definizione di dittatura sovrana come
potere costituente. La definizione hobbesiana del sovrano all’interno de “Leviatano” come organo di
rappresentanza assoluta per mezzo del contratto sociale dona una nuova sfumatura al concetto di dittatura
connettendola allo stato d’eccezione (soprattutto in merito all’individuazione di quest’ultimo) e alla
creazione possibile di un ordinamento, laddove per Bodin i termini rimanevano distinti, uno originario e
assoluto (sovrano) e l’altro derivato e vincolato dalla sovranità del popolo (dittatura commissaria). In
Hobbes la dittatura configura una monarchia temporanea nella quale il dittatore ha le prerogative del
sovrano nonostante non ne sia titolare, dal momento che la titolarità è successiva all’ordinamento. Il
passaggio che attraversa i concetti di dittatura commissarie e sovrana è molto importante per comprende il
passaggio dallo stato d’eccezione secondo gli antichi e i moderni. Con la rivoluzione francese e i contributi
di Seyes, Mably e Rousseau, lo stato d’eccezione diventa un istituto giuridico adoperato all’interno degli
ordinamenti europei dal momento che il dittatore sovrano si qualifica come legittimato e assoluto quale
potere costituente un nuovo ordinamento in virtù di una crisi esiziale o dell’assenza di un potere costituito;
il dittatore sovrano fonda la sua legittimità nel popolo che lo ha investito di una delega attraverso il
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trasferimento dei propri diritti, tra i quali quello alla resistenza, in modo tale che questi siano vincolati
all’ubbidienza. Dopo queste analisi storiche Schmitt si concentra poi sulla situazione coeva della Germania.
Rileva infatti che anche la stessa Weimar recupera l’istituto dello stato d’eccezione e della sua
problematicità attraverso la definizione dell’articolo 48. L’aspetto problematico è relativo alla difficoltà in
primis di trasformare lo Stato autoritario prussiano in uno Stato di diritto borghese e in secundis ad una
mancata chiarificazione del rapporto tra dittatura commissaria e sovrana all’interno dell’art 48 comma 2
poiché le dinamiche tra potere costituito e costituente non sono chiaramente definite, e ciò si qualifica
come esiziale dal momento che in ciò la repubblica di Weimar si qualifica come incapace di risolversi
all’interno di situazioni critiche che necessitano di rapidità e decisione per la sopravvivenza dell’unità
politica. Il lavoro di analisi rispetto a quest’articolo della costituzione di Weimar viene portato avanti nella
seconda edizione de “Die Diktatur” nel 1921. Cinque anni sono ormai passati dacché Weimar si è definita e
stabilizzata. Rispetto all’ermeneutica relativa all’articolo 48 Schmitt si poneva in maniera diversa rispetto
all’interpretazione solitamente considerata: infatti questa vedeva la formulazione in due parti dell’articolo
come definente una falsa dittatura commissaria dal momento che stabiliva ampia possibilità di manovra
nella prima parte per poi limitarsi al controllo di determinati diritti che potevano essere parzialmente o
totalmente aboliti (per non parlare dell’assenza di una definizione temporale dei poteri offerti da
quest’articolo). Secondo questa versione pertanto l’art 48 non si presentava funzionale per lo stato
d’eccezione. Secondo Schmitt, invece, il ragionamento da assumere a riguardo doveva considerare la figura
del presidente del Reich come investita da un potere “generale” relativo alla prima parte dell’articolo e di
un potere “speciale”, se necessario, che faceva riferimento alla sospensione parziale o totale di alcuni diritti
segnalati. Pertanto più che limitare le prerogative del presidente del Reich il comma 2 doveva essere rivisto
rispetto al comma 5, per il quale sarebbero state definite delle leggi dal Reich, affinché si potesse compiere
una chiara distinzione costituzionale. Da quest’opera sarebbero stati inaugurati diversi temi del pensiero
schmittiano: il nesso tra decisione, sovranità e stato d’eccezione sarebbe stato infatti affrontato nella
famosa opera “Teologia Politica”, e gli studi sul parlamentarismo e sulla teoria costituzionale tedesca in
seguito attraverso diversi saggi. Tra il 1922-28 Schmitt passa a Bonn dove insegna giurisprudenza e tiene
corsi di scienza politica, dopo esser stato per circa 6 mesi a Griefswals, periodo che visse come una sorta di
isolamento. Nel 1922 pubblica “Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität” (Teologia
politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità). L’opera inizia attraverso la constatazione acquisita
ne “Die Diktatur” per la quale il diritto si qualifica come trascendente rispetto al semplice ordinamento
posto, e tale eccedenza, definita dalla trascendenza del diritto, si realizza nella figura del sovrano, definito
non soltanto attraverso la titolarità della carica, ma dallo stato d’eccezione nel quale conferisce forma
all’informe. Questa trascendenza del diritto è messa in parallelo con quella teologica, e indicata come
un’idea secolarizzata, nel sovrano, di Dio. La mediazione tra la dimensione ideale e reale risalente alla terza
monografia giovanile del 1914 viene risolta attraverso una rappresentazione che, per quanto si definisca
come un concetto fittizio, aspetto su cui Kelsen insiste, è necessaria e si fonda sulla decisione esclusiva di un
soggetto. L’incipit è uno dei più famosi dell’intera storia del pensiero politico occidentale ed è il punto di
partenza attraverso il quale Schmitt delinea le direttrici fondamentali del rapporto tra eccezione e sovrano.
“Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”. Il sovrano è una carica prevista dall’ordinamento che si situa
dentro e al di fuori di essa nella misura in cui deve operare per esso, in esso e oltre esso. Il suo esercizio si
riflette nella distinzione dello stato d’eccezione e nella sua risoluzione attraverso o un ristabilimento
dell’ordinamento o la fondazione di un nuovo ordinamento. Al tempo stesso, criticando la tesi
normativistica, che equiparava lo Stato all’ordinamento, e l’incapacità delle moderne costituzioni nel
limitarsi attraverso reciproci controlli degli apparti di potere attraverso la definizione di casi particolari che
rientrano nell’etichetta stato d’eccezione, Schmitt sostiene che la sovranità esercitata all’interno
dell’eccezione non si situa al di fuori del giuridico, non si qualifica come anarchia, ma sempre è inserita
all’interno del giuridico attraverso la decisione. Il sovrano opera per ripristinare la normalità. Con ciò il
giurista di Plettenberg vuole sostenere la giuridicità dell’eccezione scontrandosi polemicamente con Hans
Kelsen e il suo normativismo. La critica a quest’ultimo muove dal concetto di realizzazione del diritto; infatti
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Kelsen, alla ricerca dell’ideale di purezza e scientificità, definisce l’ordinamento giuridico come un sistema
di norme formali prive di un contenuto, e che rimanda ad una norma fondamentale. Nella purezza di
questo sistema, che deficita di connotati morali e politici, vi è l’assenza della realizzazione del diritto, della
sua componente esecutiva legata all’istanza sociologica. La norma nella sua regolarità e purezza
rappresenta per Kelsen la scientificità giuridica, che per definizione è avulsa dalla contingenza. La posizione
di Schmitt tende invece a definire il rapporto tra norma astratta e sua realizzazione pratica attraverso la
capacità decisionale di un’“auctoritas interpositio”, un’autorità mediana che nell’eccezione fonda
l’ordinamento giuridico donandogli vita e forza. In questo caso, pertanto, più che la regola, è l’eccezione
che spiega l’ordinamento e in ciò l’eccezione non si situa al di fuori del giuridico ma costituisce l’origine del
diritto. La realtà, intesa come un “nulla normativo”, viene fondata giuridicamente da una decisione
nell’eccezione. All’interno dell’argomentazione di Schmitt sulla teologia politica bisogna segnalare che la
sua originalità non risiedeva sul fatto che considerasse dei parallelismi tra teologia e politica; infatti già
Leibniz all’interno della “Nova Methodus” aveva posto in questione questi parallelismi secondo le categorie
di “ratio” e “scriptura” interpretando la secolarizzazione dell’età moderna. Da parte di Schmitt il concetto di
teologia politica è utilizzato come categoria storica per leggere nella modernità l’origine dello Stato
moderno attraverso lo studio delle analogie tra teologia e diritto, e in questo percorso, nel passaggio da una
natura teologicamente fondata al panteismo immanentistico moderno, l’autorità fondante viene riferita
alla dimensione del mondo immanente e all’ordine della razionalità. E in questo frangente che si
riconoscono degli ordinamenti giuridico-politici, come quello illuministico e liberal-borghese ottocentesco, i
quali non si riferiscono ad alcuna istanza trascendente (Dio, sovrano) o a stati critici (miracoli, stati
d’eccezione). Da qui deriva l’interesse di Schmitt per i filosofi controrivoluzionari. Da queste considerazioni
Schmitt ritiene fondamentale seguire, per la scienza giuridica, lo studio delle strutture concettuali
metafisiche e il suo rapporto con la realtà storico-sociale; infatti per Schmitt la metafisica si qualifica
sempre come fondamentale per cogliere i caratteri fondamentali di un’epoca. Di ciò la scienza giuridica
deve anche curarsi e di qui la necessità di considerare le analogie tra teologia e diritto. La sociologia dei
concetti giuridici deve rintracciare la struttura concettuale di un ordinamento giuridico e metterla a
confronto con la struttura sociale di una determinata epoca. L’utilizzo della categoria “teologia politica” non
è innovativa in Schmitt (vedasi Bakunin, Proudhon, Troeltsch, Durkheim, Weber, Donoso Cortes), ma è
fondamentale l’accezione alla sovranità come riaffermazione del nesso tra teologia e diritto, che è adeguato
nel definire l’origine dell’ordine moderno, più dell’ermeneutica immanentistica ottocentesca. La razionalità
di Bodin e Hobbes si qualifica come, contrariamente a quella illuministica, definita da un equilibrio tra
ragione e potere, norma e realizzazione di essa, cosa che il normativismo kelseniano positivista non
ammetteva nella sua purezza e con la sua depurazione degli elementi soggettivistici e irrazionalistici.

3. Contro Weimar, Ginevra e Versailles


Nel considerare la situazione storica critica di Weimar Schmitt critica l’aspetto rappresentativo –
parlamentare in virtù della perdita del suo senso specifico, ovvero come dibattito pubblico teso alla
concordia decisionale, attraverso un’analisi del significato di quest’ultimo in cui considera i concetti di
democrazia, parlamentarismo e liberalismo. La prima opera in cui si concentra su questi aspetti risale al
1923 ed è intitolata “la condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo”; inoltre verranno
raccolti molti saggi relativi al trattato di Versailles, a Weimar e alla Società delle Nazioni in un’opera del ’40
intitolata “Posizioni e concetti in lotta contro Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939”. Ciò viene perseguito
anche per determinare un’alternativa al fascismo e al bolscevismo definiti, per conto di Sorel, come partiti
rivoluzionari. La crisi del parlamentarismo per il giurista tedesco è stata causata dalla moderna democrazia
di massa, prodotto della sovrapposizione tra individualismo borghese, che ha come uno dei suoi prodotti il
romanticismo politico, e l’omogeneità democratica, e dalla degenerazione del parlamentarismo che, da
pubblica discussione attiva finalizzata al benessere dell’unità politica, è divenuto lo spazio per politiche di
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potenze ed interessi rivolto all’ottenimento della maggioranza. (Da considerare le opinioni sul
parlamentarismo in Spengler e in Weber in Catene di Civiltà). A questo punto, seguendo un approccio
diacronico, Schmitt chiarisce il significato dei concetti sopra considerati e i rapporti tra parlamentarismo,
democrazia e liberalismo. Posto il parlamentarismo come un prodotto del liberalismo, la democrazia viene
considerata come una forma politica concettualmente vuota che riferisce la sovranità ai cittadini, non agli
uomini. In questo contesto pertanto vengono posti dei criteri di esclusione ed inclusione in cui si definisce
una società di uguali, omogenei (omoioi) che esercitano la sovranità e che si contrappongono ai diseguali
(da qui è possibile comprendere la possibilità di concepire le categorie di “straniero” e “schiavo” in forme
politiche che si definiscono democratiche, relativamente ai contesti storici considerati). La democrazia è
assunta polemicamente come un concetto vuoto ed in sé avente l’ulteriore lacuna relativa al fatto che i suoi
membri soggiacciono al principio di maggioranza, che nega al tempo stesso le prerogative del singolo, della
minoranza (pag. 64). La commistione di democrazia e liberalismo ha la sua prima formulazione a partire
dalla Rivoluzione francese, in cui Rousseau aveva sussunto i concetti di “contratto sociale” e “volontà
generale”, e ha avuto, dal 1815 al 1918, un percorso nato dall’istanza di soppiantare la legittimità dinastica.
In questo modo la legittimità democratica viene assunta come l’unica per la quale un governo viene
legittimato in quanto “manifestazione democratica della sovranità del popolo”, sancita da un organo
costituente costituito dal popolo. È a partire da queste premesse che il concetto ha investito l’ambito del
diritto internazionale, attraverso la formulazione, nel primo dopoguerra, del principio di
autodeterminazione dei popoli (Selbststimmungsrecht). Sta di fatto che la transizione del principio di
legittimità in democratico sancisce anche la fusione della democrazia con il parlamentarismo, sebbene
Schmitt puntualizzi che si tratta di due concetti diversi. Prendendo la definizione di parlamentarismo da
François Guizot (giurista ottocentesco) il giurista di Plettenberg interpreta il suo carattere di discussione
pubblica inteso da un lato come negazione degli “arcana rei publicae” della tradizione della Ragion di Stato
(che riposava sulla decisione autoritaria), dall’altro alla concordia attraverso l’individuazione del vero e del
giusto. La “veritas” diviene il criterio attraverso cui legiferare, e non più l’auctoritas. La discussione politica
viene integrata per evitare l’arbitrio politico. Da questi cambiamenti nascono le libertà di stampa e
d’espressione, il bilanciamento dei poteri dello Stato attraverso il “deliberare” dell’apparato legislativo e
l’”agere” dell’apparato esecutivo. Il parlamento viene definito quale corporazione legislativa che delibera. Il
binomio veritas-razionalità in questo contesto, ovvero quello dello Stato di diritto borghese-liberale, si
qualifica come criterio dell’attività parlamentare, ma deve altresì fare i conti con il nichilismo moderno, il
cui problema fondamentale, ovvero quello della relatività della giustizia e della verità, non era stato
riscontrato nel mondo antico e medievale. In virtù di questo il liberalismo mostra pienamente il fianco alla
mentalità capitalistico-borghese dal momento che l’attività parlamentare può facilmente degenerare e
fallire nella sua accezione primaria, come sostiene Schmitt, attraverso una politica di forza in cui appunto è
l’ottenimento della maggioranza ad esaltare a legge impersonale, e sovrana, la volontà di singolo o di
gruppi d’interesse. È proprio ciò che denuncia Schmitt nel parlamentarismo di Weimar, non tanto il fatto
che fosse specificatamente il parlamentarismo tedesco un esempio degenerato, ma il fatto che il
parlamentarismo stesso aveva smarrito le sue due linee guida: la fiducia nella razionalità della legge e la
sfiducia nell’esecutivo non bilanciato dagli altri poteri dello Stato. Il plenum parlamentare escluso dal
processo decisionale, il monopolio delle commissioni dei grandi gruppi economici, e l’inutilità fattiva
conseguente della discussione pubblica avevano definito la crisi del parlamentarismo tedesco. In questo
clima la trasformazione del parlamentarismo avviene attraverso la formula della democrazia di massa,
spiegata prima della dialettica marxista, e poi superata dall’irrazionalismo dei partiti rivoluzionari (Lenin,
Trockij, Mussolini) che fanno impiego della forza legittimata da una determinata filosofia della storia. Le
teorie di Sorel, che Schmitt riprende, sull’irrazionalità del “mito politico” stanno alla base di nuovi ordini
(fascismo e bolscevismo) che il giurista di Plettenberg teme e rispetto ai quali si impegna nel definire una
dottrina della costituzione, una Verfassungslehre. Nell’ultimo periodo che Schmitt passa a Bonn, per poi
andare a Berlino, scrive i suoi primi testi sul diritto internazionale definendo una transizione dal
decisionismo degli anni ’20 all’interesse per lo “ius publicum europeum” a partire dagli anni ’30. La
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“Dottrina della costituzione” del 1928 si pone ancora all’interno del decisionismo e presenta come
referente polemico ancora una volta Hans Kelsen. In questo testo, oltre alla critica forte ad alcuni topoi del
pensiero politico-giuridico, Schmitt cerca infatti di abbozzare un sistema, avente sempre come fine quello di
salvaguardare e sistemare la struttura della Repubblica di Weimar. Una delle parti più originali del testo è
costituita senza dubbio dall’individuazione di 4 definizioni fondamentali del termine “costituzione”, che
soffre di una forte polisemia. 1) la costituzione come assoluta in senso concreto (1.1) e in senso astratto
(1.2) definita come un tutto unitario. 1.1) indica il concreto esistere di una comunità politica quale
condizione generale d’essere (1.1.1, politeia aristotelica), come modo particolare di essere (1.1.2, lo status
in Tommaso), o come formarsi dinamico di un’unità politica (1.1.3, Von Stein). 1.2) si riferisce alla
definizione kelseniana normativista, ovvero come sistema chiuso di norme che è convalidato da una norma
prima fondamentale. Si è già visto come Schmitt critichi la vuotezza formale di tale ordine gerarchico che
nella sua posizione parapositivista deve essere fondata o da un potere costituente che opera attraverso la
decisione o dalla conformità a un principio di giustizia. La costituzione come relativa (2) si riferisce non
all’unitarietà, ma alla legge costituzionale, la quale deve essere rigida e difficilmente modificabile (ma
presenta un contenuto indifferente). Nelle sue analisi Schmitt differenzia la costituzione dalla legge
costituzionale indicando la prima “come più alta e completa delle leggi ordinarie” e pertanto necessita di
essere protetta dalla possibilità di essere integrata o modificata, se non attraverso le leggi costituzionali,
che presentano un percorso aggravato. La costituzione come non formale e positiva (3)è la definizione che
si adegua di più all’ottica decisionista e che presenta sia la decostruzione di topoi politico-giuridici sia
riferimenti polemici a Kelsen. Questa definizione assume la costituzione come forma speciale di esistenza
che assume l’unità politica che nasce a partire da un potere costituente. L’importanza di questa definizione
è da riferire al fatto di distinguere molto bene molti concetti: costituzione, potere costituente, unità
politica, nascita dello Stato, origine della costituzione, decisione giuridica. Secondo Schmitt e la sua
prospettiva decisionista, la costituzione trae la sua origine dal potere costituente dello Stato, che istituisce
un ordine giuridico. Lo Stato, diversamente dal normativismo, non si qualifica come originato dalla
costituzione (equiparazione ottocentesca tra Stato e diritto: Kelsen), né quest’ultimo si autogenera, ma
nasce dal contratto sociale che definisce l’unità politica, la quale demanda al potere costituente la
costituzione. In questo senso lo Stato è precedente alla costituzione e la decisione si pone come
presupposto giuridico-positivo. La costituzione come ideale (4) è intesa come conformazione della
costituzione ad un’ideologia che ne determina il contenuto. Nella storia delle costituzioni moderne il
modello ideale prevalente è quello del liberalismo borghese, che si è imposto quale sistema di garanzie
dell’individuo definito in forma scritta e nella distribuzione dei poteri. Schmitt riferisce a Weimar la 3 forma,
seppur presenti qualche aspetto lacunoso generato dalla volontà di mediare aspetti politici, sociali e
religiosi attraverso una prospettiva che si situa a metà tra il liberalismo e il socialismo. Ciononostante non
disconosce la presenza perpetua del potere costituente, che si qualifica in quanto decisione, sempre
presente, anche al di fuori della costituzione (da considerare sempre il rapporto tra stato d’eccezione e
potere costituente). Schmitt ravvisa che nella volontà costituente popolare si è passati dall’”acclamatio”
della moltitudine alla “opinione pubblica” liberal-parlamentare. Nell’ideologia liberale e nel suo rapporto
con la costituzione lo Stato di diritto borghese si qualifica come definito da una scissione (principio di
divisione) tra Stato e sfera dell’individuo, garantita dalle libertà liberali che limitano l’agire dello Stato, e da
un sistema di competenze circoscritte (divisione dei poteri, principio dell’organizzazione). In questi due
principi l’ideologia liberale rivelava la sua impronta economica adattiva poiché si adeguava ad una sua forte
componente politica e morale (dacché la sua morale si qualificava come etica della razionalità capitalista).
Nella sua indefinitezza della forma politica il liberalismo ne aveva imposto una intermedia allo Stato di
diritto con la ripartizione dei poteri (esecutiva a modelli organizzativi monarchici, parlamento = aristocrazia,
referendum = democrazia). Secondo i principi di identità e rappresentanza, attraverso i quali l’unità politica
si dà una forma, Schmitt legge nello Stato di diritto borghese come forma intermedia, nella sua volontà di
combattere l’assoluta rappresentanza della monarchia assoluta, e l’assoluta identità della democrazia
diretta. Altro aspetto che lo Stato di diritto borghese non definisce bene è il problema della sovranità, che,
Schmitt Stefano Pietropaoli

non affrontato né democraticamente né monarchicamente, ha generato il mito della sovranità della legge.
In questo senso manca la volontà politica di definire norme da un comando positivo. L’imperio formale
della legge, che sanciva il dominio della norma, definiva la legge come strumento generale ed astratto
attraverso cui tradurre l’eguaglianza e la libertà dei cittadini. “Il concetto del politico” è una delle opere più
importanti di Schmitt pubblicata nel 1928 e arriva a completa stabilizzazione, rispetto alla storia editoriale,
nel 1963. L’opera si qualifica come il tentativo di definire scientificamente la categoria di politico. Il politico,
già dalle prime battute, viene distinto dallo statuale e secondo il criterio fondamentale Amico/Nemico
(Freund/Feind). Tale categoria risulta essere essenziale poiché da un lato la nozione di Stato moderno si
fonda fortemente su di esso e dall’altro lato per la comprensione della sua teoria giuridico-politica.
All’interno di questa categoria i concetti di nemico, guerra, ostilità, unità politica, stato d’eccezione
vengono rideterminati. Il nemico viene inteso come il totalmente altro, l’hostis, il nemico pubblico, con il
quale il costante rapporto di ostilità può avere come risvolto estremo la guerra. (Ovviamente a questa
visione sottintende una visione pessimistica dell’uomo). In questa distinzione del politico si assiste
nuovamente ad un parallelismo come la teologia attraverso la distinzione d quest’ultima tra innocente e
peccatore. L’unità politica viene definita, cosi come lo Stato, come un aspetto storico e contingente che
nasce dal politico e che attraverso il principio di sovranità esprime fortemente la dinamica del politico nello
stato critico, nell’eccezione. È nell’eccezione che il politico emerge prepotentemente nella necessità di
definire un ordine e i membri contingenti nel raggruppamento essenziale Amico/Nemico. Il politico si
qualifica anche per un particolare “grado d’intensità” (eredità hegeliana). Da questa definizione del
concetto del politico non bisogna però riferire ogni ambito al politico; esso non pretende di annullare
l’ambito economico, religioso o culturale, ma intende riferirsi a questi ambiti nel momento in cui questi,
affacciandosi al caso critico o nella definizione degli assetti parlamentari e/o legislativi-esecutivi, adottano
per definirsi delle categorie prettamente politiche. È la possibilità di considerare diverse unità politiche
all’interno dello Stato, aspetto contro cui Schmitt si schiera e che suoi estimatori nella scuola pluralistica
inglese (Gierke e Laski), che caratterizza uno degli aspetti critici fondamentali dello Stato moderno, ovvero
quello di ridursi ad associazione tra altre associazioni. (NOTA BENE: JURA GENTIUM VOL XIII, N 1, 2016;
SCHMITTIANI DI SINISTRA: GIUSEPPE DUSO, ANGELO BOLAFFI, MARIO TRONTI, CARLO GALLI, MASSIMO
CACCIARI, GIORGIO AGAMBEN). D’altronde era stata proprio la concentrazione da parte dello Stato di
adoperare le categorie del politico come unica entità politica, quindi nel disporre della “normalità”
(internamente) e dello “ius belli” (esternamente), la sua caratterizzazione fondamentale. La guerra di
qualifica come il presupposto del politico, come possibilità sempre concreta e supposta. All’interno di
dinamiche morali, religiose o economiche, il politico si presenta come possibile adozione per i primi; per
questo motivo Schmitt ritiene che nessuna guerra in quanto politica essenzialmente si svolge per motivi
non politici. Al tempo stesso rileva una novità all’interno del XX secolo, ovvero l’utilizzazione del pacifismo
come nuovo movente politico. La legittimazione della guerra contro la guerra si presenta come il
superamento del politico nella misura in cui supera il concetto di nemico, trasformandolo in maniera
bestiale. Se nel politico si distingueva il piano politico da quello economico, religioso etc, nel pacifismo di
guerra ciò non viene distinto cosicché il nemico non si presenta più come nemico pubblico, ma nemico in
tutte le accezioni possibili, e quindi viene trasfigurata sia il suo status di nemico come “iustus hostis”
(nemico giusto), sia la prassi bellica stessa, che va a coinvolgere anche i civili; è in tal modo che la brutalità
del conflitto del XX secolo raggiunge l’apice. Per questo motivo Schmitt critica aspramente sia il patto di
Kellogg-Briand del 1928, il quale non prevedeva alcuna modalità di controllo e definizione di possibilità di
fare guerra), sia le concezioni universalistiche e mondialistiche dello Stato; queste ultime infatti soprattutto
perché renderebbero vano il concetto di Stato e del politico, e quale risvolto più aberrante il fatto che in
virtù della categoria di umanità viene legittimata la guerra senza limite e brutale. Le considerazioni a
proposito dell’umanità e del nemico sono chiarissime secondo Schmitt: l’umanità esclude il concetto di
nemico, ma non viceversa; la sola definizione del nemico come politico già definisce gli assetti di una
guerra, ma la definizione di guerra per l’umanità esclude il termine di nemico politico, e lo riduce a brutalità
autorizzando massacri e stermini. È in virtù delle guerre umanitarie e del riferimento all’umanità nel
Schmitt Stefano Pietropaoli

binomio di cristiano/non cristiano (civilizzato/non civilizzato) che la storia moderna ha giustificato i massacri
europei nel mondo, e lo stesso imperialismo moderno. Un altro apparente caso del superamento del
politico è costituito dalla Società delle Nazioni (SdN) nata nel 1919. La sua pretesa di universalità
spoliticizzata in realtà nasconde una prassi politica che sostituisce il lessico politico con quello economico
(lotta: concorrenza) presentando dei provvedimenti che, sebbene di natura esclusivamente economica,
hanno tutte il carattere bellico nella volontà di defraudare materialmente in nome della pace. In questa
dinamica la pace attraverso la guerra economica si presente più inumana della guerra stessa. Gli anni ’20,
come già rilevato, segnano gli inizi della produzione di diritto e politica internazionale. Nel 1925 Schmitt
pubblica “La Renania come oggetto di politica internazionale” in cui, attraverso il riferimento ai fatti storici
di Weimar del ’23, vengono considerate le conseguenze in ambito politico internazionale del Trattato di
Versailles e del Selbstimmungsrecht. Inizialmente Schmitt si concentra sulla mutazione dei concetti di
“annessione” e “protettorato” quali incrinature concettuali del diritto internazionale classico. Entrambi i
concetti devono la loro trasformazione al principio di autodeterminazione dei popoli e alla tendenza
pacifista dell’opinione pubblica borghese. Entrambi i fenomeni vengono visti come nuove forme di
dominazione in cui per il primo l’annessione si configura come la formazione di uno Stato apparente, di cui
si proclama formalmente l’indipendenza, mentre per il secondo il discorso giuridico è reso più complicato
dal momento che il protettorato si evolveva, sia nei casi di indipendenza che di subordinazione, con dei
patti legali in cui il protettore giocava sull’ermeneutica delle clausole, conservando di fatto il controllo dello
“Stato indipendente”. L’ipocrisia borghese di fatto trasferisce in maniera ancor più decisa la propria
ipocrisia sul mondo giuridico, aumentando e confondendo ancora di più il rapporto tra realtà formale e
materiale. Altro concetto “rinnovato” era quello del mandato, che di fatto nella sua formalità contenutistica
non solo consegnava la sovranità ai mandatari, coperti anche da ideologie umanitarie e civilizzatrici, ma
nell’assenza di contenuti e nella libertà d’azione veniva meno qualsiasi obbligo giuridico nei confronti degli
annessi, che potevano vedersi di fatto negata la cittadinanza e quindi l’esclusione nell’ambito del diritto. Tra
il 1925-27 Schmitt compone due opere sul problema della SdN, contenute in “Posizioni e concetti in lotta”.
Al 1927 risale l’opera “La Società delle Nazioni e l’Europa” che si concentra nel considerare i rapporti tra la
SdN e l’Europa, e tra la prima e gli Stati Uniti. Dalla trattazione emerge un quadro disastrato della SdN, che
non si qualifica né come universale (perché da essa vengono esclusi attori politici rilevanti, come il
Giappone, l’America e la Russia), né europea (dal momento che, oltre al fatto che gli stati europei
appartenessero all’Europa e alla SdN, appartenenza contemporanea che si presenta come conflittuale dal
punto di vista degli interesse, era fondamentalmente costituita dal “patreon” britannico), né pacifista ( dal
momento che non aveva alcun mezzo e organizzazione per imporsi per la pace in maniera universale). La
sua funzione si limitava a giustificare lo status quo del Trattato di Versailles e le trasformazioni critiche dello
“ius publicum europeum”, prima considerate. Come se non bastasse, attraverso un’assenza formale gli Stati
Uniti erano presenti all’interno della SdN e si presentava in maniera conflittuale con l’Inghilterra all’interno
della Covenant per la presenza effettiva degli stati per i quali erano mandatari le due potenze. Nelle sue
considerazione sulla volontà di istituire una pace europea Schmitt vede l’ingerenza nel Vecchio Mondo degli
USA come un grande ostacolo per il primato europeo. Già gli USA erano riusciti a definirsi effettivamente
presenti nel patto delle Nazioni attraverso di Stati protetti, poi intervengono all’interno delle dinamiche
economiche con il piano Dawes, ed infine riescono ad inserire all’interno dell’art 21 dello statuto della
Società delle Nazioni la compatibilità di quest’ultima con la dottrina Monroe, con la quale di fatto si
sancisce la non ingerenza della prima negli affari americani; di converso però non viene negata l’ingerenza
dell’America negli affari della SdN. L’incidenza della dottrina Monroe è tale da impegnare Schmitt nella sua
produzione degli anni ’30, nei quali fonda la propria teoria internazionale a partire dalla formulazione della
citata dottrina espressa dal presidente James Monroe (1823). Tra il 1929 e il 1931 Schmitt pubblica “Il
custode della costituzione” (prima edizione nel 1929 e seconda nel 1931; Der Hüter der Verfassung).
L’opera è scritta in occasione dell’autodesignazione da parte della Corte suprema del Reich della custodia
della costituzione. La soluzione proposta da Schmitt è quella di delegare al presidente del Reich tale
compito in quanto potere tertium e neutro del governo, al contrario della Corte Suprema; infatti
Schmitt Stefano Pietropaoli

quest’ultima si configura come non eleggibile democraticamente, e quindi si poteva definire quale
aristocrazia di toga a stampo politico avente quindi una possibilità importante di legislazione costituzionale.
Nel 1931 Kelsen avrebbe composto un libretto polemico rispetto alle posizioni di Schmitt intitolato “Chi
deve essere il custode della costituzione?”. In questo libretto Kelsen accusava le prerogative presidenziali
attribuite da Schmitt come potenzialmente trasformabili per l’instaurazione di una dittatura monarchica. La
risposta di Schmitt si delinea in continuità con le definizioni di sovrano e stato d’eccezione; il potere che
sarebbe esercitato dal presidente del Reich si attesterebbe in continuità e rispetto alla salvaguardia
dell’assetto costituzionale per scongiurare eventuale situazioni critiche. Nel 1932 Schmitt pubblica un
piccolo saggio intitolato “Legalità e legittimità”. L’occasione di quest’opera è relativa all’istanza della Corte
Suprema che fu presentata rispetto all’utilizzo dell’art 48 da parte del cancelliere Von Papen a seguito dei
conflitti politico-sociali derivanti dalla crisi del 1929. All’interno di questo contesto è importante
considerare il rapporto di Schmitt con il generale Kurt Von Schleicher e il giurista Johannes Papitz. I concetti
di legalità e legittimità vengono considerati come sovrapposti all’interno dell’evoluzione dello Stato di
diritto borghese. Lo Stato legislativo parlamentare ha identificato il diritto (prerogativa) con la legge (il
divieto), e pertanto ha annullato il tradizionale principio di autorità e ha acquisito il monopolio della
produzione giuridica. In quanto unico legislatore e in quanto svuotato il contenuto materiale della legge,
questa viene intesa sempre come normativa e vincolabile all’arbitrarietà della maggioranza. Qui si
scontrano due concetti di maggioranza: la maggioranza, contro cui si scaglia Schmitt, è una maggioranza
che si rifà al mero calcolo aritmetico e che all’interno delle dinamiche parlamentari permetterebbe di avere
il monopolio della legalità, e quindi della legittimità; in questo senso qualsiasi partito che detiene la
maggioranza numerica sarebbe arbitra della legge e legittimata a tacciare i propri avversari politici come
illegali, come feccia. La maggioranza a cui invece Schmitt fa riferimento in maniera positiva è tale che
sussiste sulla base del riconoscimento della legittimità del governo attraverso l’unità popolare. In questo
senso l’unità del popolo, che riconosce il governo, garantirebbe un approccio democratico in cui ogni
partito ha la possibilità di conquista la maggioranza. Il nocciolo fondamentale della questione rimane
sempre lo stesso, e di matrice hobbesiana: è necessaria la legittimazione riconosciuta dal popolo, che poi si
articola nella legalità. Diverso è il discorso in cui la legittimità è identificata con la legalità; in questo caso
infatti la legge si qualificherebbe come mezzo autoritario necessario a definire il proprio potere. Rispetto al
celeberrimo scritto per il quale Schmitt è sfortunatamente famoso, ovvero “Stato, movimento, popolo” del
1933, considerato da molti come il manifesto del partito nazionalsocialista, l’autore della monografia sul
giurista di Plettenberg, Stefano Pietropaoli, non dice molto. Si concentra soprattutto nel considerare
quest’opera nel rapporto generale che Schmitt ebbe con il nazismo. Fermamente convinto
dell’anticostituzionalità del partito nazionalsocialista sino al 1933, Schmitt, secondo quanto dice Pietropaoli,
non decide di scappare per cercare di attenuare gli aspetti più controversi del partito attraverso mediazioni,
ma rimane sconfitto nell’intento. La sua figura non sarebbe mai stata vista di buon occhio dai nazisti: la non
adesione all’ortodossia nazista, le relazioni passate con importanti figure d’origine ebraica, e l’attribuzione
all’opera citata di conservatorismo, sono solo alcuni degli aspetti che lo rendevano inviso al partito, tanto
che lo stesso Göring lo teneva sotto controllo, nonostante Schmitt fosse un protetto di Himmler. Per quanto
concerne l’opera del 1933 Schmitt cerca di limitare la portata rivoluzionario attraverso un approccio
maggiormente istituzionalista, approccio che segna lo svolgersi successivo del suo pensiero. Il superamento
del decisionismo infatti è segnato proprio dal passaggio ad un’ottica istituzionalista che deve grande merito
alla lettura dei testi di Maurice Hauriou e Santi Romano. La teoria dell’istituzionalismo viene considerata da
Schmitt come un nuovo modo di intendere il diritto, quale organizzazione della società, e che supera
l’empasse attraversato dal normativismo e dal decisionismo. Inoltre questo nuovo modo d’intendere la
scienza giuridica gli permetterà di leggere la modernità e il pensiero antico e moderno sotto un’altra luce,
dichiarando la contingenza del decisionismo rispetto al concetto moderno di Stato. È proprio in riferimento
alla crisi dello Stato che la teoria istituzionalista si pone come nuova prospettiva di definizione dello Stato,
quale ordinamento concreto nelle successive opere, quali “Terra e Mare” e “Il nomos della terra”.
Schmitt Stefano Pietropaoli

Nel 1938 Schmitt pubblica “il concetto discriminatorio di guerra” in cui argomenta a partire dalla crisi dello
Stato moderno e dello ius publicum europeum la definizione di un concetto discriminatorio di guerra, che
nasce dall’ideologia liberal-democratica propugnata dalla SdN. Questo nuovo concetto discriminatorio si
fonda su una concezione morale che trae origine dal pacifismo che permea la SdN. La critica al pacifismo
universale e, in generale, alle idee universalistiche risulta essere una costante all’interno di questo periodo
di produzione; e, per quanto concerne la guerra, tali idee risultano quanto mai pericolose poiché eliminano
la possibilità di considerare il nemico come giusto, all’interno dell’ambito del politico. A una guerra
moderna, definita da un diritto, si contrappone una guerra discriminatoria combattuta per la pace e
l’umanità, che adopera tutti i mezzi possibili. Tale scritto si situa come tramite tra “il concetto del politico” e
“il nomos della terra”. Nel 1939 pubblica “il concetto d’impero nel diritto internazionale”. Questo saggio
cerca di coniugare l’istituzionalismo (konkretische Ordnung) con il diritto internazionale anticipando la
teoria dei grandi spazi (Großraumtheorie) come nuovo modello per l’ordinamento internazionale. Tale
teoria è richiesta dalla crisi dello Stato moderno, di cui recupera diversi concetti, quali il pluralismo di Stati
(contro le ideologie universalistiche). Dibattuto è il rapporto tra la teoria dei grandi spazi e lo Stato
moderno. Nella sua trattazione Schmitt individua nella dottrina Monroe, cosi come formulata nel 1823, un
primo esempio di Großraum. Infatti si qualificava come una massima politica avente come carattere proprio
la definizione di un concreto ordinamento spaziale, in cui vigevano la non ingerenza extraeuropea, la fine
del colonialismo, l’indipendenza degli Stati americani. Tale dottrina del 1823 viene poi considerata alla luce
del diritto internazionale e nel peso giuridico che ha imposto nelle relazioni diplomatiche attraverso
l’imperialismo e l’ingerenza formalmente assente all’interno della SdN. Sebbene la dottrina Monroe
storicamente si sia evoluta in maniera deformata come un’ideologia imperialistica, collegata poi
all’ideologia britannica della “sicurezza delle vie di traffico”, Schmitt estrapola l’idea dell’indipendenza e
dell’illiceità degli interventi stranieri dalla dottrina Monroe. La critica all’imperialismo moderno è uno dei
punti fondamentali su cui si basa la definizione del nuovo ordinamento internazionale dei grandi spazi. Dal
punto di vista costruttivo Schmitt utilizza la categoria di “Reich” (impero) diversamente dall’accezione
imperialistica britannica (Empire) per designare un ordinamento giuridico che si irradia su un grande spazio
(differenza tra Reich e Grande Spazio: il Reich è l’ordinamento giuridico quale artifizio che viene applicato
ad un grande spazio geografico). Preserva la politicità del concetto moderno di Stato. La teoria dei grandi
spazi esprimeva fortemente l’anelito della Germania a svincolarsi dai due grandi universalismi che la
soffocavano: da un lato il liberalismo occidentale e dall’altro il bolscevismo orientale. D’altra parte, sebbene
i nazisti accogliessero con freddezza questa prospettiva, molto poco legata all’ortodossia nazista, venne
letta come una giustificazione dell’ideologia del Terzo Reich, e facilmente legabile al concetto di Spazio
vitale (Lebensraum). Diversi studiosi tendono a definire la prospettiva de “il nomos della terra” del 1950
come una frattura all’interno del pensiero schmittiano; ma ad una più attenta analisi è possibile segnalare la
presenza di scritti intermedi che stabiliscono una continuità, come ad esempio “Sovranità dello Stato e
libertà dei mari” oppure “Terra e Mare”. Ne “Sovranità dello Stato e libertà dei mari” del 1941 Schmitt
applica la sua teoria dei grandi spazi all’ordinamento concreto analizzando il concetto di spazio dall’età
moderna, segnato dalla nascita dello Stato e dalle scoperte geografiche. Nell’età moderna la definizione
nuova dello spazio è riferita, all’interno della II metà del Cinquecento, politicamente a Machiavelli, Bodin e
Pufendorf, per la quale lo Stato si qualifica come unità territoriale chiusa da confini che assicura stabilità
interna e relazioni esterne. Lo Stato moderno produce una rivoluzione spaziale (Raumrevolution). Allo
Stato, chiuso, unitario e plurale, si contrappone il mondo oceanico, dove si definisce un ordinamento
completamente antitetico. Il mare è aperto, non unitario, alla mercé delle armi, e segnato da
un’assolutizzazione delle categorie del politico, cosi come della guerra; essa reca con sé un’impronta
universalistica che non ammette confini e che è passato dal mare chiuso del Mediterraneo a quello aperto
dell’oceano. Al 1942 risale invece il saggio “Terra e mare”, che si propone come una sorta di storia
universale secondo le categorie di Terra/Mare affiancare a quella del politico; in esso emergono in nuce i
lineamenti dell’opera del 1950. L’opera nella sua disamina storica guarda alla storia del mondo, oltre che
attraverso le considerazioni del geografo Ernst Kapp sul rapporto tra uomo e mare (potamico, talassico e
Schmitt Stefano Pietropaoli

oceanico), attraverso la presa di coscienza della “globalità” dello spazio inquadrandolo con delle
determinazioni ora terrestri ora marittime. La simbologia hobbesiana del Leviatano e del Behemot viene
recuperata in senso opposto per tradurre il rapporto conflittuale continuo tra terra e mare, tra
universalismo marittimo (con tendenze universalistiche e spazialmente frammentante; vedasi l’Inghilterra
da isola a pesce) e il pluralismo terrestre (con tendenze particolariste). Questa visione dicotomica sarà
inoltre allargata dagli effetti della seconda guerra mondiale e dall’avanzamento tecnico attraverso le
categorie di aria e fuoco; e proprio secondo queste 4 categorie che Schmitt produrrà altri scritti (come il
nodo di Gordio in collaborazione con Ernst Jünger), in cui la dicotomia tra universalismi mondiali,
liberalismo e bolscevismo, annulleranno le speranze di progetti paneuropeistici e delineeranno il confronto
storico attraverso le categorie di Occidente e Oriente.

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