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LA LEGGE PENALE
La struttura dei sistemi penali moderni è fondata sul principio di legalità: nullum crimen, nulla poena sine
previa lege poenali.
Il principio di legalità è innanzi tutto un principio relativo alle fonti del diritto penale: i reati e le pene
debbono essere previsti dalla legge: non possono, dunque, essere previsti da altre fonti. Come principio
sulle fonti, il principio di legalità pone una riserva di legge. La riserva di legge intende porre un argine a
rischi di arbitrio del potere esecutivo e del potere giudiziario, esclusi entrambi dal potere di porre norme
penali, ed entrambi soggetti alla legge.
Il principio di legalità è stato formulato nei medesimi termini nel codice Zanardelli e nel codice Rocco:
“Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né
con pene che non siano da essa stabilite” (art. 1 c.p.).
L’art. 25 Cost. stabilisce: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti
dalla legge”.
Il principio di legalità riguarda una legge uguale per tutti, che deve essere applicata secondo un criterio di
eguaglianza. Ciò implica che l’applicazione abbia carattere di generalità e di continuità nel tempo.
Fonti del diritto penale. La legge dello stato e gli atti aventi forza di legge.
Come principio sulle fonti, il principio di legalità pone una riserva di legge. La competenza ad emanare
norme penali è riservata alla legge dello stato, con esclusione di qualsiasi altra fonte normativa.
L’ordinamento penale è tra le materie che l’art. 117 Cost. attribuisce alla legislazione esclusiva dello stato.
Il concetto di legge si riferisce alla legge formale emanata dal parlamento e promulgata dal presidente della
repubblica in conformità agli artt. 70 ss. Cost..
Ragionevoli preoccupazioni sono espresse contro l’introduzione di norme penali con decreti legge e leggi
delegate: ne risulta incrinato il significato politico della riserva di legge. La garanzia della sovranità del
parlamento, nelle scelte in materia di reati e di pene, va ricercata nello scrupoloso rispetto dei limiti posti
dalla costituzione alla potestà del governo di emanare atti con forza di legge. Quanto ai decreti legislativi, si
pone in materia penale con particolare acutezza l’esigenza che la legge di delegazione contenga direttive
analitiche e precise.
Un’ altra categoria di atti normativi, della quale si discute se possa essere fonte di norme penali, è quella
degli atti del governo emanati in base ai poteri conferiti in caso di guerra ex art. 78 Cost.. È opinione
assolutamente prevalente in dottrina che, per le pecuniari esigenze dello stato di guerra, tra i poteri che
possono essere attribuiti dalle camere al governo vi sia anche quello di emanare norme penali. Ciò deve
essere fatto con delega espressa, peraltro non delimitata dal modello normale dell’art. 76 Cost..
Ogni altro atto del potere esecutivo è escluso dalle fonti del diritto penale.
Non possono essere fonte immediata di norme incriminatici gli atti normativi delle comunità europee.
Nessuno dei trattati istitutivi della comunità, e poi dell’unione europea, contiene un’espressa attribuzione
ad organismi comunitari della potestà legislativa penale.
Una possibile rilevanza indiretta di disposizioni comunitarie può aversi in forza del principio della
preminenza del diritto comunitario: le disposizioni del trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano
direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti con il diritto interno degli stati membri, non solo
di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione
contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche di impedire la valida formazione di nuovi
atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero in contrasto con norme comunitarie.
Disposizioni comunitarie possono restringere o escludere l’applicabilità di norme penali di singoli stati, nella
parte in cui queste siano incompatibili col diritto comunitario, o fungere da cause di giustificazione. In
collegamento con disposizioni penali di diritto interno, possono altresì concorrere a determinare
l’estensione per esempio fungendo da parametri per la determinazione della colpa, o specificando la
portata di disposizioni penali in bianco.
La riserva di legge penale vale sia per i reati che per le pene; riguarda dunque entrambe le parti, precettiva
e sanzionatoria, di cui si compone la norma penale.
Rientrano nella riserva di legge non solo le norme incriminatici di parte speciale, ma anche disposizioni di
parte generale, relative sia al reato sia al sistema sanzionatorio.
Le norme penali in bianco sono le disposizioni che pongono la sanzione penale, rinviando per
l’individuazione dei precetti a categorie di norme poste altrove, che possono essere emanate in futuro.
La riserva di legge vale per tutti gli istituti incidenti sul se o sul quanto della punibilità.
Definiamo la riserva di legge come assoluta, se a fonti diverse non è lasciato alcuno spazio. La definiamo
relativa se la legge, nel determinare la rilevanza penale e la disciplina di date situazioni o comportamenti,
può legittimamente fare riferimento a fonti diverse dalla legge ed atti equiparati.
Dalla giurisprudenza della corte costituzionale e dalla prevalente dottrina, emerge una concezione della
riserva di legge che si autodefinisce tendenzialmente assoluta. Il principio di legalità non può considerarsi
soddisfatto quando non sia una legge (o un atto equiparato) dello stato a indicare con sufficiente
specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti della autorità non legislativa
alla trasgressione dei quali deve seguire la pena.
Il carattere assoluto della riserva di legge penale è in ogni caso temperato dalla ammissione di integrazioni
sublegislative del precetto, aventi carattere tecnico, meramente specificativo di contenuti già posti dalla
legge. Se alla fonte sublegislativa sono affidate scelte di natura politica e non di mera specificazione tecnica,
la riserva di legge non è rispettata.
Nel linguaggio della dottrina contemporanea si è affermato, per designare gli oggetti di tutela penale, il
concetto di bene giuridico. Il diritto penale ha per compito la tutela di beni giuridici, e in tale funzione cerca
la sua legittimazione politica.
Il bene giuridico non sarebbe altro che lo scopo di tutela riconosciuto dal legislatore nelle singole norme,
nella formula più abbreviata.
Il legislatore crea gli interessi cui appresta tutela, o effettua scelte di tutela in relazione ad interessi non da
lui dipendenti? La dimensione critica della teoria dei beni giuridici sta nell’indicazione di criteri normativi di
selezione degli interessi suscettibili di tutela penale legittima.
Nei principi che la costituzione italiana dedica al problema penale, non vi è alcun riferimento ad oggetti ed
ambiti legittimi del diritto penale.
Il legislatore non è del tutto libero nella selezione degli interessi cui apprestare tutela penale, ma può
apprestarla solo per interessi o beni la cui tutela sia ammessa (o richiesta) da sovraordinati principi
costituzionali.
Nella costituzione, incentrata sulla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, l’inviolabilità di principio della
libertà personale e la funzione rieducativa della pena escludono la possibilità di comprimere la libertà
personal in vista di obiettivi quelli che siano. Tipi d’intervento incidenti sulla dignità e libertà non possono
giustificarsi se non per necessità di tutela concernenti beni se pure non di pari grado rispetto al valore
(libertà personale) sacrificato, almeno dotati di rilievo costituzionale.
In una democrazia pluralista non può essere apprestata tutela penale ad ideologie, religioni, particolari
concezioni morali; nemmeno al credo democratico in quanto tale.
La dottrina penalistica ha preso atto dell’impossibilità di desumere sic et simpliciter dalla costituzione un
catalogo chiuso di interessi penalmente tutelabili. La sua funzione non è quella di dettare un catalogo
esaustivo di oggetti di tutela.
Alcune dichiarazioni di illegittimità costituzionale hanno colpito disposizioni che ponevano proprio il tipo di
disciplina espressamente escluso dalle nuove garanzie costituzionali di libertà. Altre sentenze hanno dovuto
affrontare problemi più complessi, di bilanciamento fra le libertà costituzionali e gli interessi tutelati da
norme penali.
Nella giurisprudenza costituzionale, in relazione ai delitti come al sistema delle sanzioni, è il principio d‘
uguaglianza quello che più di ogni altro è servito da criterio di invalidazione di norme penali
ingiustificatamente repressive.
Il principio di tutela dei beni giuridici, quale fondamento e limite della tutela penale legittima, pone vincoli
non solo all’individuazione degli oggetti legittimi di tutela, ma anche alle modalità o soglie di tutela.
Il nucleo centrale della tutela è rappresentato dall’incriminazione di fatti produttivi di danno, che cioè
distruggano in tutto o in parte il bene tutelato, o comportino una sua effettiva compromissione.
Fuori dell’ipotesi di offesa produttiva di danno, il problema fondamentale è l’individuazione della soglia di
anticipazione della tutela, fino alla quale possa essere esteso l’intervento penale. Viene qui in rilievo la
categoria del pericolo, inteso come probabilità del verificarsi di un danno.
Il riferimento al bene giuridico determina la direzione della tutela e lascia aperto il problema della scelta fra
diverse tecniche e diverse soglie di tutela teoricamente concepibili.
Alcuni interessi sono tutelati dal diritto penale per il loro intrinseco valore, come fine in sé. Talvolta si fa
invece riferimento ad interessi strumentali, la cui tutela è vista come funzionale alla tutela di interessi
ulteriori, finali. Interesse strumentale è quello della sicurezza.
Ciò che può definirsi lesione di un interesse strumentale non va oltre la soglia del pericolo per gli oggetti
ultimi di tutela. L’anticipazione della tutela va misurata con riferimento all’interesse che costituisce
l’interesse ultimo, e quindi il reale fondamento della tutela.
In questo contesto si inquadra la questione se siano tutelabili penalmente funzioni proprie della pubblica
amministrazione.
Fuori discussione è la tutela anche penale della libertà e della legalità dell’esercizio di funzioni pubbliche.
Il problema della tutela di funzioni riguarda discipline speciali che assumono come punto di riferimento
particolari funzioni amministrative di gestione o di controllo di determinate attività.
L’assetto e l’esercizio delle competenze amministrative, e la tutela penale che su di esse si appunta, sono
legittimi se e in quanto si giustifichino nella prospettiva di tutela di interessi sostanziali rilevanti entro il
sistema costituzionale.
In nome della tutela di beni giuridici sono state prospettate questioni di legittimità costituzionale in malam
partem, volte cioè ad estendere l’area dell’illecito penale.
La corte costituzionale italiana, con giurisprudenza costante, ritiene inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale volte alla creazione o all’ampliamento di fattispecie di reato. Il principio di legalità dei reati e
delle pene (art. 25 Cost.) comporta l’impossibilità per la corte di pronunciare alcuna decisione, dalla quale
derivi la creazione, esclusivamente riservata al legislatore, di una nuova fattispecie penale. Solo il
legislatore può, nel rispetto dei principi della costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la
sanzione penale, e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire qualità e
quantità delle relative pene edittali.
Obblighi specifici di penalizzazione sono previsti in testi costituzionali di diversi paesi. Così, per l’art. 13
Cost., è punita ogni violenza fisica e morale comunque sottoposta a restrizioni di libertà.
Il procedere dell’integrazione europea ha poi portato a fare emergere il problema della rilevanza, per
l’ordinamento interno italiano, di disposizioni comunitarie che prevedano obblighi di penalizzazione, o
comunque impongano agli stati membri di adottare tutti i provvedimenti necessari per assicurare la
realizzazione degli obiettivi comunitari.
Per il legislatore ordinario, eventuali obblighi di penalizzazione rappresentano un’indicazione non solo di
obiettivi, ma anche di strumenti di tutela.
La corte costituzionale ha ritenuto ammissibili e valutato nel merito le questioni di costituzionalità relative a
cause di giustificazione o di non punibilità. Disposizioni che restringano l’area della punibilità abbisognano
di un puntuale fondamento, concretato dalla costituzione o da altre leggi costituzionali, purchè l’esenzione
della pena sia il frutto di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco.
Il sindacato di legittimità di norme di favore può essere esercitato anche con riguardo a norme incriminatici
di favore, che cioè prevedano un trattamento penale meno severo di quello che altrimenti sarebbe
applicabile in base ad una norma più generale.
Nel codice penale, il riferimento agli interessi tutelati è il criterio fondamentale di organizzazione del
catalogo dei delitti nel libro II, in titoli, capi, sezioni. La classificazione dei reati in categorie più o meno vaste
è stata fatta in relazione all’interesse leso, considerato in via generale o sotto un punto di vista più
particolare, fino a pervenire all’articolo come unità elementare nella quale l’interesse che qualifica tutta la
classe è considerato in modo del tutto specifico e tale da non consentire ulteriori distinzioni.
Il bene giuridico è per la potestà punitiva statuale un criterio di legittimazione negativa, cioè presupposto
necessario di un problema di tutela per la cui soluzione il legislatore è legittimato a ricorrere a strumenti
penali.
Il principio di tutela di beni giuridici segna l’ambito della massima espansione possibile del diritto penale in
uno stato liberale di diritto: prima che il limite, quel principio indica il fondamento del diritto di proibire e
punire.
Vi sono profili specifici che differenziano l’interpretazione della legge penale rispetto all’interpretazione di
leggi di altra natura?
Il principio di legalità pone un vincolo peculiare ai risultati dell’interpretazione: dalla conoscenza del
precetto, il destinatario deve poter trarre criteri sicuri di valutazione giuridica di fatti concreti, e l’esigenza
di certezza è tanto più importante là dove si tratti di valutare la liceità o non liceità penale di un dato fatto.
Per quanto concerne i criteri d’interpretazione, non vi sono differenze di principio tra il diritto penale e gli
altri settori dell’ordinamento, salvo il divieto d’analogia.
Come criterio d’interpretazione della legge penale viene additato il riferimento ai beni o interessi tutelati
(interpretazione teleologica). Il riferimento al bene giuridico dovrebbe concorrere a delimitare la sfera del
penalmente rilevante: nell’interpretazione di norme incriminatici vanno escluse soluzioni esegetiche che
includano nella fattispecie fatti non offensivi dell’interesse tutelato. Il bene giuridico, dunque, come
matrice d’interpretazioni tendenzialmente restrittive.
Nella prassi applicativa, invece, il riferimento al bene giuridico funge spesso da presupposto di applicazioni
estensive. La magistratura penale tende a farsi portatrice di istanze di tutela che cercano soddisfazione
nell’applicazione della legge penale. Là dove date esigenze di tutela siano sentite come importanti, è forte
la spinta ad assumerle a fondamento di interpretazioni che portino ad un intervento penale più ampio e/o
più severo.
Particolarmente rilevante nel contesto ermeneutica è il principio d’uguaglianza, che, senza porre soluzioni
bloccate, pone vincoli di coerenza intrasistematica, e di coerenza con i principi materiali del sistema dei
reati e delle pene.
Uno sguardo alla prassi.
Per i destinatari dei precetti penali un punto di riferimento essenziale è dato dagli orientamenti
giurisprudenziali; ed anche per la giurisprudenza hanno particolare rilievo i principi affermati dalla corte di
cassazione, cui è affidato dall’ordinamento giudiziario il compito di assicurare un’applicazione corretta della
legge, quanto più possibile uniforme.
Un rilievo particolarissimo hanno le decisioni delle sezioni unite della corte di cassazione, cui è assegnata la
decisione sui ricorsi quando le questioni proposte sono di speciale importanza o quando occorre dirimere
contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni.
Particolare rilievo hanno anche le sentenze interpretative di rigetto della corte costituzionale, che
respingono la questione di illegittimità costituzionale sulla base di una data interpretazione della
disposizione impugnata. Le sentenze interpretative di rigetto non hanno efficacia erga omnes e
determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa
questione. In tutti gli altri casi il giudice conserva il potere di interpretare in piena autonomia le disposizioni
di legge, purchè ne dia una lettura costituzionalmente orientata, ancorché differente da quella indicata
nella decisione interpretativa di rigetto.
Fra i contenuti del principio di legalità in materia penale viene indicato dalla dottrina dominante il divieto di
applicazione analogica delle norme incriminatici, o comunque di sfavore.
Per analogia si intende un procedimento argomentativo volto ad affermare l’applicabilità, in una data
ipotesi non espressamente regolata, di norme regolanti ipotesi simili o di principi generali
dell’ordinamento. Fondamento dell’applicazione per analogia è una somiglianza fra il caso non
espressamente regolato e un caso regolato, tale da ricondurre il caso non regolato alla medesima ratio
della disciplina prevista per il caso analogo.
Alcuni autori intendono il principio costituzionale come divieto assoluto d’analogia, concernente non solo le
norme incriminatici o quelle che comunque fondano o aggravano la responsabilità, ma anche le norme di
favore.
La dottrina prevalente afferma invece l’ammissibilità dell’analogia in bonam partem, argomentando che il
divieto d’analogia non risponde ad un’astratta certezza del diritto, ma nel campo penale risponde alla ratio
di garanzia espressa dal principio di legalità.
È oggetto di discussione se, per la legge penale, accanto al divieto di analogia, valga un divieto
d’interpretazione estensiva.
Il principio di legalità, per diffuso riconoscimento, non si oppone ad un’interpretazione che si estende fino
al limite delle ipotesi interpretative consentite dal tenore letterale della norma e rimanga, perciò,
nell’ambito di una ricognizione del suo significato.
È il principio di legalità, e non un ipotetico divieto d’interpretazione estensiva, che impone ai giudici di non
sostituirsi al legislatore nelle scelte di politica penale, allargando praeter legem l’area di applicazione dello
strumento più autoritario di cui lo stato di diritto disponga.
Il principio di legalità ha a che fare con il problema della certezza dei precetti penalmente sanzionati. Si
parla in proposito di principio di determinatezza, di tassatività, di precisione della legge penale.
L’indeterminatezza del precetto come non riferibilità al mondo dell’esperienza.
Il principio di tassatività comporta per la legge penale l’onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie
corrispondenti alla realtà, mediante il riferimento a fenomeni la cui possibilità di realizzarsi sia stata
accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiono verificabili.
L’impossibilità di riferire il precetto a fatti verificabili ne comporta dunque l’indeterminatezza, per ragioni
che non dipendono dalla sua formulazione, bensì dall’impossibilità di porlo in rapporto con il mondo dei
fatti.
La certezza, e quindi la legittimità, del precetto legale dipende anche dalla sua capacità di cogliere fatti del
mondo reale, accessibili alla conoscenza razionale e alla verifica empirica.
La corte costituzionale ha affermato che la necessaria tassatività della fattispecie non si risolve né si
identifica nella più o meno completa descrittività della stessa.
Il fatto tipico deve sempre poter essere individuato in via interpretativa in modo completo e verificabile; la
fattispecie legale, in questo senso, ne deve essere una descrizione.
L’utilizzazione di concetti descrittivi, peraltro, non è condizione né necessaria né sufficiente di
determinatezza della fattispecie.
L’alternativa tecnica alla diretta descrittività della fattispecie è l’utilizzazione, da parte del legislatore
penale, di concetti normativi.
Definiamo come concetti normativi quelli che si riferiscono a dati, i quali possono essere rappresentati e
pensati solo sotto logica presupposizione di una norma, diversa dalla norma incriminatrice nella quale sono
recepiti.
La dottrina distingue diverse categorie di concetti normativi.
Concetti normativi giuridici collegano il diritto penale con altri settori dell’ordinamento giuridico,
assicurando la coerenza della norma penale con l’ordinamento complessivo.
Concetti normativi culturali o di valutazione culturale sono quelli che esprimono qualificazioni derivanti da
norme etiche o del costume.
Una sentenza della corte costituzionale ha indicato un criterio per la valutazione di compatibilità di singole
disposizioni col principio di determinatezza. L’applicatore della norma potrà riconoscervi un significato
determinato quando e solo quando:
Sia comprensibile a che cosa (a quale tipo di criteri) la norma faccia riferimento;
Siano effettivamente individuabili dei criteri scientifici o tecnici pertinenti alla situazione indicata dal
legislatore.
Il principio di legalità vale non solo per i reati, ma anche per le pene.
Nessuno può essere punito con pene che non siano stabilite dalla legge (art. 1 c.p.).
In relazione alla pena la riserva di legge è assoluta, senza residui, con esclusione della possibilità di
integrazioni sia pur marginali da parte di fonti diverse dalla legge.
Il legislatore ha adottato il sistema della previsione di cornici edittali di pena, entro le quali la
commisurazione della pena in concreto è affidata al potere discrezionale del giudice. Un tale affidamento
alla discrezionalità dell’applicatore non sarebbe consentito in relazione ai reati: il principio di legalità
implica la completa predeterminazione legale della fattispecie.
Anche per le misure di sicurezza la costituzione ha affermato il principio di legalità: “Nessuno può essere
sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge” (art. 25 Cost.).
Solo la legge può determinare i casi in cui una misura di sicurezza possa essere applicata, e il tipo di misura
applicabile.
Sulla pena e sulle sue finalità, la costituzione detta alcune importanti indicazioni nell’art. 27 Cost.: “Le pene
non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”.
L’abolizione della pena di morte è stata completata con la l. 589/1994.
La rieducazione è un obiettivo tendenziale, per il quale l’ordinamento penale è tenuto ad apprestare istituti
e strumenti idonei; non è un obiettivo che possa essere garantito, e nemmeno imposto.
Tra le finalità che la costituzione assegna alla pena non può stabilirsi a priori una gerarchia statica ed
assoluta che valga una volta per tutte e in ogni condizione. La discrezionalità politica del legislatore, nelle
opzioni di politica criminale, non è peraltro illimitata: il legislatore può far prevalere, di volta in volta, l’una
o l’altra delle finalità della pena coerenti col sistema costituzionale, nei limiti della ragionevolezza e a patto
che nessuna di esse risulti obliterata.
I principi costituzionali lasciano spazio ad un arco di politiche penali ugualmente legittime, che possono
contemperare in modo diverso finalità diverse, purchè non sia azzerata nessuna finalità costituzionalmente
indicata.
Per quanto concerne la misura della pena, la costituzione non dà indicazioni dirette.
La pena a vita può essere legittimamente minacciata dalla legge e irrogata dal giudice, ma non può essere
una pena senza speranza: la possibilità di un ritorno del condannato nella società è connaturata all’idea
della rieducazione come obiettivo cui la pena deve tendere.
La determinazione della pena rientra nella discrezionalità del legislatore.
Come parametro di riferimento è venuto in discussione il principio d’uguaglianza, quale strumento di
controllo della coerenza interna del sistema.
Questioni di legittimità costituzionale si pongono anche con riguardo a tecniche sanzionatorie che alla
discrezionalità non lasciano spazio: pene proporzionali e pene fisse.
La corte costituzionale ha indicato che in linea di principio previsioni sanzionatorie rigide non sarebbero in
armonia con il volto costituzionale del sistema penale. Potrebbero essere, peraltro, non illegittime, solo a
condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima
appaia ragionevolmente proporzionata rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo
specifico tipo di reato.
Per quanto riguarda le pene proporzionali non è previsto un limite massimo (art. 27 c.p.).
IL REATO
Il fatto di reato.
Il principio di materialità.
Nella struttura del reato il primo e fondamentale elemento è il fatto: il fatto tipico che la legge penale
assume ad oggetto d’incriminazione.
Cogitationis poenam nemo patitur: nessuno può essere punito per il mero pensiero, per un atteggiamento
interiore che non sia tradotto in comportamenti esteriori. I precetti giuridici non possono avere ad oggetto
che fatti dell’uomo: fatti materiali, che avvengono nel mondo esterno delle relazioni intersoggettive.
Delitti e contravvenzioni.
Nell’ordinamento giuridico italiano vigente i reati si distinguono in due grandi categorie: delitti e
contravvenzioni.
Possiamo pensare ai delitti come alla categoria più grave, e alle contravvenzioni come alla categoria meno
grave.
Sono delitti i reati per i quali il legislatore prevede la pena della reclusione e/o della multa.
Sono contravvenzioni i reati per i quali il legislatore prevede le sanzioni dell’arresto e/o dell’ammenda.
Arresto e reclusione sono pene privative della libertà; multa e ammenda sono pene pecuniarie: entrambe
consistono nel pagamento di una somma di danaro.
La misura delle pene previste per le contravvenzioni è sovrapponibile alle pene previste per delitti di gravità
non particolarmente elevata.
Le modalità di tipizzazione del fatto di reato.
La condotta.
Il nucleo del fatto deve essere costituito in ogni caso da una condotta dell’uomo. Un evento può mancare,
la condotta no. È possibile che la fattispecie di reato si esaurisca in una determinata condotta (azione od
omissione) fatta oggetto di divieto a prescindere da eventuali conseguenze ulteriori.
In alcuni casi, il precetto penale ha ad oggetto condotte tenute in presenza di una determinata situazione,
dalla quale dipende la potenzialità offensiva della condotta. Parliamo in tal caso di presupposti del reato.
L’art. 42 c.p. dispone che: “Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge
come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà”. Coscienza e volontà sono le condizioni minime
richieste dall’ordinamento perché un comportamento dell’uomo, modellato su un’astratta fattispecie
penale, gli possa essere normalmente riferito, sia cioè proprio di costui.
L’evento naturalistico.
Il concetto di evento, o evento naturalistico, viene usato per designare le conseguenze causalmente
connesse alla condotta dell’agente, che una fattispecie penale assuma ad elementi costitutivi del reato.
Possiamo ricondurre alla categoria dei reati con evento tutte le fattispecie delle quali sia elemento
costitutivo uno stato di fatto logicamente separabile dalla condotta, come risultato di questa, ancorché
tendenzialmente coincidente con la realizzazione della condotta.
I reati con evento sono spesso a forma libera, nel senso che la tipizzazione della condotta si esaurisce nel
profilo causale, senza che la fattispecie legale dia rilievo ad alcuna ulteriore caratteristica o modalità di
condotta. In questi casi la realizzazione dell’evento è vietata incondizionatamente. È il caso dell’omicidio: il
delitto sussiste quale che sia la condotta che abia cagionato la morte di un uomo.
È anche possibile che la legge operi una selezione entro le condotte causalmente rilevanti, dando rilievo a
particolari modalità. Con riguardo alla tecnica di costruzione della fattispecie, parliamo di reati a forma
vincolata.
Il fatto di reato dovrebbe incorporare, secondo i principi costituzionali, l’offesa al bene giuridico tutelato,
sotto forma di danno effettivo o di messa in pericolo. Tipicità ed offesa dovrebbero coincidere.
È possibile che gli interessi tipicamente offesi da un determinato tipo di reato siano più di uno. In ipotesi del
genere si parla di reati plurioffensivi.
In ragione dell’importanza del bene viene talora prevista una tutela a tutto campo, che copre qualsiasi
offesa del bene, indipendentemente dal modo in cui sia stata cagionata. Si parla in questi casi di illeciti di
lesione.
Quando la fattispecie di reato dà rilievo a determinate modalità di offesa, l’illecito penale è costruito come
illecito di modalità di lesione, il cui specifico disvalore dipende dal mezzo o modo in cui un determinato
risultato è stato realizzato.
Il problema dell’offesa.
Dalla norma sul reato impossibile (art. 49 c.p.) è stata tratta la conclusione che non basterebbe che un fatto
sia formalmente conforme al tipo descritto nella norma incriminatrice di parte speciale; occorre che, in
concreto, sia idoneo a ledere o porre in pericolo gli interessi che la norma incriminatrice tende a tutelare.
Il reato impossibile per inidoneità dell’azione si avrebbe quando tutti gli estremi costitutivi del tipo di reato
si sono realizzati, ma per particolari circostanze del caso concreto l’interesse che il legislatore intendeva
tutelare non è stato leso o messo in pericolo.
Questa disposizione non farebbe che esprimere a livello di legge ordinaria il principio costituzionale della
necessaria offensività del reato.
Quando si siano realizzati tutti gli elementi costitutivi necessari e sufficienti a integrare un determinato tipo
di reato, si parla di reato consumato.
Si definiscono reati istantanei i reati nei quali, una volta che il reato si sia consumato, il protrarsi della
situazione antigiuridica realizzata non fa parte del tipo di reato.
Vi sono anche reati la cui struttura tipica è diversa, nel senso che, pur dopo la consumazione del reato,
segue una fase nella quale perdura la realizzazione della condotta della condotta criminosa. Reati di questo
tipo sono definiti reati permanenti.
In alcuni casi, la realizzazione del reato richiede una pluralità di comportamenti, ripetuti nel tempo. Si parla,
in tal caso, di reati abituali.
I soggetti.
Per i reati che costituiscono violazione di precetti destinati a chiunque, si usa la definizione di reati comuni.
Per i reati che costituiscono violazione di precetti rivolti non a chiunque, ma a categorie determinate di
soggetti, è in uso la definizione di reati propri. Come destinataria del precetto è individuata una categoria di
soggetti che si trovano nella posizione di potenziali offensori degli interessi protetti, per essere tali interessi
in qualche modo collegati ed esposti alla loro sfera d’azione o di potenziale controllo.
I reati propri hanno a che fare con doveri funzionali.
È l’assunzione di un ruolo, caratterizzato da una data corona di poteri e doveri aventi a che fare con la
protezione di dati beni, che obbliga al rispetto dei doveri inerenti al ruolo, a garanzia del bene in gioco. Per
fondare la qualifica soggettiva richiesta dalla fattispecie di reato proprio, l’assunzione del ruolo è
condizione necessaria e, insieme, sufficiente. In questo contesto si inserisce la figura dell’amministratore di
fatto: il nuovo art. 2639 c.c. equipara al soggetto formalmente investito di una data qualifica, colui che
esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.
I tipi di reato configurati dalle norme penali compongono, nel loro insieme , un sistema.
La tipizzazione degli illeciti penali, nella parte speciale del sistema penale, dà luogo anche ad un reticolo di
confini interni al sistema penale, fra gli ambiti di applicazione di fattispecie contigue, che cioè si riferiscono
a situazioni che presentano tratti comuni e aspetti differenziali.
Alcune fattispecie sono tra loro in rapporto di specialità, da genere a specie. È speciale la fattispecie che ha
come elementi costitutivi gli elementi costitutivi della fattispecie generale, più altri elementi, cosiddetti
specializzanti, che aggiungendosi agli elementi costitutivi della fattispecie generale danno vita ad una
fattispecie il cui ambito di applicazione è ritagliato dentro l’ambito che altrimenti sarebbe coperto dalla
fattispecie generale.
Ai fatti rientranti nella fattispecie speciale, che astrattamente rientrano anche nella fattispecie generale, si
applica la sola norma speciale. Si parla in questo caso di concorso apparente di norme; l’applicablità della
sola norma speciale è espressamente ribadita dall’art. 15 c.p..
Talora la legge costruisce figure di reato fra loro distinte, ancorché in rapporto di specialità, attribuendo agli
elementi specializzanti il ruolo di elementi costitutivi di un autonomo titolo di reato.
Ma la legge può anche attribuire ad elementi specializzanti il significato di circostanza aggravante o
attenuante, che cioè, senza modificare il titolo di reato, incide sulle conseguenze sanzionatorie,
comportando aumenti o diminuzioni di pena.
L’ordinamento penale italiano prevede circostanze aggravanti e attenuanti applicabili tendenzialmente a
tutti i reati: le aggravanti previste nell’art. 61 c.p., le attenuanti previste negli artt. 62, 62-bis c.p., e altre
circostanze previste in disposizioni del libro I. Vi sono, inoltre, circostanze applicabili specificamente a un
reato o gruppo di reati, previste nella parte speciale.
Le circostanze sono definite elementi accidentali del reato, in contrapposizione agli elementi essenziali che
concorrono a delineare le fattispecie tipiche dei diversi titoli di reato.
Reato putativo.
Il codice Rocco dedica una disposizione espressa (art. 49 c.p.) al reato supposto erroneamente, o reato
putativo: “Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso
costituisca reato”.
Il problema della causalità.
Il problema.
Per i reati con evento naturalistico si pone il problema, a quali condizioni e secondo quali criteri sia dato
attribuire l’evento alla responsabilità di taluno.
Alla radice del problema causale v’è il principio di personalità della responsabilità penale: l’evento deve
poter essere ascritto al soggetto agente come fatto proprio. Per poter essere ascritto ad un dato soggetto,
l’evento costitutivo di reato deve essere collegato, come conseguenza fattuale, ad una condotta del
soggetto o dei soggetti della cui responsabilità si faccia questione.
Art. 40 c.p.: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento
dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od
omissione”.
La responsabilità può essere affermata solo per l’autore di una condotta che sia, ad un tempo, causale e
colpevole.
L’idea base sulla quale poggiano le diverse teorie è il modello della condizione necessaria, ovvero condicio
sine qua non.
È causa dell’evento ogni antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato.
L’idea della causa come condizione necessaria incorpora l’idea di una normale pluralità di concause, tutte
equivalenti sotto l’aspetto della loro necessità.
L’ipotesi che un determinato fatto sia causa di un dato evento viene verificata introducendo l’ipotesi
controfattuale che quel fatto non si fosse verificato: se, escluso in ipotesi quel fatto, l’evento concreto non
si sarebbe verificato, l’ipotesi causale resta confermata.
Sulla teoria della condizione sine qua non sono stati formulati rilievi critici che non ne inficiano la sostanza e
la rilevanza.
Il diritto ha bisogno di un sapere esterno la cui validità non dipenda dal diritto stesso. Alla domanda: “quale
tipo di spiegazione causale può essere soddisfacente?”, l’epistemologia risponde che “è soddisfacente una
spiegazione in termini di leggi universali…e di condizioni iniziali”.
Che cosa significa spiegare un evento in termini di leggi scientifiche e di condizioni iniziali?
Tizio esplode un colpo di pistola in direzione di Caio, che cade a terra morto; viene rinvenuto un proiettile
conficcato nel cuore. La spontanea spiegazione causale, come morte conseguente al colpo d’arma da fuoco,
poggia su un sapere scientifico che è anche, in termini più generici, un sapere comune attorno alle armi da
fuoco ed ai loro effetti: un sapere che involge la conoscenza dei meccanismi di funzionamento delle armi e
dei processi biologici indotti dall’impatto di un proiettile sul corpo umano, o più specificamente su dati
organi.
Applicando il sapere scientifico alla condizione iniziale, rappresentata dal colpo di pistola sparato da Tizio,
arriviamo alla spiegazione causale della morte di Caio, come conseguenza della azione di Tizio: se il colpo
non fosse stato sparato, e non avesse colpito il cuore della vittima, la morte non si sarebbe verificata nel
modo in cui si è verificata.
La logica della spiegazione causale è sempre quella della spiegazione sulla base del sapere scientifico.
Le conoscenze scientifiche, delle quali il giudice può e deve tener conto nella ricostruzione del nesso di
causalità, comprendono tutte le conoscenze scientifiche disponibili al momento del giudizio, ancorché non
disponibili all’epoca del fatto.
Il profilo di che cosa fosse, o non fosse, conosciuto o conoscibile al momento del fatto verrà caso mai in
rilievo sotto il diverso profilo della colpevolezza.
un’attribuzione di responsabilità per un determinato evento esige una spiegazione causale dell’evento, che
possa essere presentata come corrispondente ai fatti. A tal fine occorre un sapere scientifico che sia stato
controllato e corroborato in modi che il metodo scientifico accetta come validi.
Una ipotesi scientifica non corroborata, ancorché plausibile, non può fondare che congetture, magari
ragionevoli e da prendere in seria considerazione ad altri fini, compresi ulteriori controlli.
Pur essendo impossibile dare una prova positiva definitiva di una teoria scientifica, dal superamento di
controlli severi la teoria viene corroborata, e può essere accettata come tale dalla comunità scientifica.
La spiegazione causale che interessa il diritto penale non è una spiegazione completa della totalità delle
catene causali che hanno condotto all’evento. Nel giudizio penale ciò che interessa accertare è se fra le
condizioni necessarie vi sia un particolare antecedente, cui si riconnetta l’eventuale responsabilità di
taluno.
La spiegazione di un evento concreto può essere dunque, ai fini penali, limitata solo ad alcuni aspetti, ed è
compatibile con aspetti di incompletezza e assunzioni tacite nella ricostruzione dei fatti.
Il nesso causale fra condotta ed evento, elemento costitutivo dei reati con evento, deve essere accertato in
concreto. Decisiva, dunque, la prova dei fatti. Per fondare l’affermazione di responsabilità penale, la prova
dei fatti deve dare certezza razionale circa la sussistenza di tutti gli elementi del reato, compreso, ove
rilevante, il nesso causale.
Possono essere usate, per le spiegazioni causali, anche leggi probabilistiche, che cioè esprimano una
correlazione tra eventi in termini non di certezza, ma di probabilità?
La sentenza delle sezioni unite ha affermato che: “Non è consentito dedurre automaticamente dal
coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria
sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base
delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile”.
Il concetto espresso dalla sentenza ribadisce che la prova della causalità deve poggiare su un sapere
scientifico corroborato. Esclude la possibilità di fondare la prova della causalità sull’elevata della
correlazione causale ipotizzata: rispetto all’utilizzazione di leggi probabilistiche, segna condizioni rigorose.
Come alternativa alla teoria condizionalistica viene presentata la teoria della causalità adeguata. Ai fini
dell’imputazione penale di un evento, verrebbe in rilievo non una qualsiasi condizione necessaria, ma solo
una condizione che, oltre ad essere necessaria, è altresì idonea o adeguata a produrre l’evento.
Dato un evento concreto ed un insieme di condizioni necessarie di esso, causa adeguata potrà dirsi una
condizione che, ad un giudizio ex ante sulla base dell’esperienza di situazioni simili, appare tale da rendere
probabile il verificarsi dell’evento in concreto verificatosi.
Occorre tenere conto delle circostanze conoscibili ex ante da parte di un agente avveduto, e inoltre delle
eventuali maggiori conoscenze del’agente concreto.
Una variante della teoria della causalità adeguata è la teoria della causalità umana, sostenuta da Antolisei.
Restringere l’area di una possibile imputazione dell’evento a situazioni in cui l’evitare l’evento rientri nella
sfera di signoria dell’agente. Sfuggirebbero all’imputazione causale, rispetto a un determinato antecedente,
gli eventi eccezionali, che ad una valutazione ex ante avevano una probabilità insignificante di verificarsi.
Problema comune a tutte le versioni della causalità adeguata è l’incertezza dei criteri di giudizio.
Ha acquistato largo seguito, in dottrina, la teoria della imputazione obiettiva dell’evento: al di là delle
diverse formulazioni, l’idea di base è che, per l’imputazione dell’evento, non basta il criterio
condizionalistico, ma occorre altresì che l’agente, con la sua condotta, abbia creato un pericolo riprovato
dall’ordinamento, e che tale pericolo si sia poi realizzato nel concreto verificarsi dell’evento.
Il diritto penale, per poter affermare nessi causali, ha bisogno di affidarsi a un sapere corroborato.
Là dove non dispone di leggi di copertura corroborate, il diritto penale non può non escludere il nesso
causale o, meglio, la prova del nesso causale. Ma non possiamo non prendere in seria considerazione, in
molti casi, il dubbio che un nesso, non provato, di fatto sussista.
Anche là dove il sapere scientifico autorizza a porre un’ipotesi causale, spesso l’esistenza di ipotesi
esplicative alternative esclude che possa ritenersi acquisita la prova particolaristica.
Il rigoroso attestarsi sull’idea di causa come condizione sine qua non, da accertare alla stregua di un sapere
scientifico corroborato, è imposto dai principi di legalità e di personalità della responsabilità.
In situazioni di incertezza scientifica sull’esistenza di una legge di copertura, e ancor più in situazioni
d’incertezza fra più ipotesi esplicative concorrenti, il limite di funzionalità del paradigma causale conduce
ad esiti che, imposti da principi garantisti inderogabili, non sappiamo se siano, nei casi concreti, di tutela
dell’innocente, o non invece di mancato riconoscimento di come siano davvero andate le cose.
Il limite di funzionalità del paradigma causale lascia dunque aperti seri problemi, che interpellano anche le
funzioni di tutela proprie del diritto penale.
I problemi.
La configurazione di reati di pericolo comporta un’allargamento dell’area del penalmente rilevante, che è
anche un’anticipazione dell’intervento penale: questo scatta prima, e comunque in modo indipendente dal
verificarsi di un evento di danno.
La messa in pericolo quale modalità di offesa è espressamente riconosciuta dalle formule del codice Rocco
(artt. 40, 43, 49 c.p.) che parlano di evento dannoso o pericoloso.
Le affermazioni di rischio non sono né solo fattuali né solo affermazioni di valore. Sono entrambe le cose
contemporaneamente o una via di mezzo… Come i calcoli matematici i rischi sono direttamente e
indirettamente correlati alle definizioni culturali e agli standard in base ai quali si considera una vita
tollerabile o intollerabile.
È possibile sciogliere l’intreccio fra aspetti soggettivi (la sensazione di timore), aspetti valutativi (definizione
del rischio non accettato o non accettabile), e aspetto fattuale, scientifico?
Solo un pericolo che sia obiettivamente rilevabile e verificabile, e non meramente soggettivo, può essere
assunto ad elemento di un fatto tipico di reato, rispondente ai principi di tassatività ed offensività.
Per il diritto penale il pericolo (inteso come potenzialità di danno) può venire in rilievo in vario modo.
Nella costruzione di fattispecie di reato, il problema del pericolo è un problema di modi e limiti di una
possibile anticipazione dell’intervento penale, rispetto al verificarsi del danno.
Può consistere nella potenzialità di una condotta a produrre eventi d’un dato tipo.
In alcuni casi la legge penale tipicizza eventi che sono, sotto un qualche profilo, di danno, e sono invece di
pericolo in relazione a potenziali ulteriori sviluppi.
Alle fattispecie di pericolo può annoverarsi la figura del tentativo, la quale rappresenta una modalità
tecnica particolare di anticipazione della tutela penale.
Situazioni di pericolo sono il presupposto di un importante gruppo di cause di giustificazione.
Strettamente intrecciata al tema del pericolo è la questione della colpa.
Il pericolo concreto.
La categoria dei reati di pericolo concreto, nei quali cioè il pericolo è elemento di fattispecie da accertare in
concreto, appare la meno problematica a fronte del principio di offensività: quanto più concreto il pericolo
necessario a integrare il reato, tanto più la concretezza del pericolo fa apparire il fatto come contro
l’interesse tutelato, caratterizzato cioè da un contenuto offensivo afferrabile nella realtà fattuale, sia pure
meno intenso del danno realizzato.
Il giudizio sul pericolo ha bisogno di essere fondato sul sapere scientifico. L’insorgere del pericolo, inteso
come probabilità dell’evento dannoso, non può essere affermato se non sulla base delle medesime leggi
esplicative che , ove l’evento di danno si sia verificato, servirebbero per affermare la causalità, rispetto a
detto evento, della condotta o situazione pericolosa. Può e deve essere usato tutto il sapere scientifico
disponibile al momento del giudizio.
Il giudizio di pericolo è un giudizio ex ante, una prognosi sui probabili sviluppi di una data situazione. Quali
elementi di fatto possono e devono essere presi in considerazione, al fine di valutare se una data condotta
o un dato evento abbiano posto in essere il pericolo di un danno che però non si è verificato?
Base del giudizio dovrebbero essere le circostanze del fatto riconoscibili al tempo della condotta, o
comunque conosciute dopo.
Il pericolo astratto.
Numerosi sono i precetti penalmente sanzionati che riguardano condotte e situazioni valutate dal
legislatore come tipicamente pericolose, sulla base dell’esperienza, senza però che il pericolo sia assunto ad
elemento della fattispecie. Ne sono esempi, nel diritto criminale comune, la disciplina delle armi e quella
degli stupefacenti.
Pensiamo per esempio ad immissioni nell’ambiente che superino dati valori soglia, non tali da produrre,
isolatamente considerate, effetti apprezzabili, ma che possono, se cumulate con altre, produrre effetti di
pericolo concreto o di danno effettivo per il corpo ricettore. Si parla di microviolazioni, che acquistano
consistenza offensiva in quanto seriali, collegate con altre, con effetti cumulativi.
Di fronte a condotte non accertate pericolose in concreto, la pena avrebbe una funzione puramente e
semplicemente preventiva e nei confronti dei terzi, e nei confronti dell’agente. Rispetto a quest’ultimo, la
ragione determinante la pena non sarebbe il comportamento realizzato, bensì un atteggiamento personale
che violando una regola di obbedienza lascerebbe desumere un certo grado di pericolosità sociale. Non si
punirebbe il fatto, bensì l’autore.
Una tecnica molto spinta di anticipazione della tutela è rappresentata dalla penalizzazione dello
svolgimento di date attività senza la prescritta autorizzazione.
Il rilascio dell’autorizzazione, da parte dell’autorità competente, attesta il corretto svolgimento della
funzione di controllo pubblico, che costituisce l’oggetto immediato di tutela. E se l’autorizzazione rilasciata
non è legittima? Sussiste o no il reato di svolgimento d’attività non autorizzata? La dottrina è compatta
nell’affermare l’inesistenza di reato.
Mediante fattispecie di pericolo il legislatore può costruire un sistema di tutela razionalmente articolato a
diversi livelli.
L’esigenza di tutela più rigorosa di beni importanti spinge verso forma di tutela anticipata, anche di molto.
Il codice penale seleziona una fascia più ristretta di situazioni, caratterizzate da pericolo concreto per la
salute o la sicurezza, e proprio perciò ritenute meritevoli di più severa repressione.
Soglie normativamente tipizzate e pericolo concreto concorrono così a costruire un sistema razionalmente
articolato in una pluralità di piani di tutela. Alla legge speciale è affidata l’estensione e anticipazione della
tutela. Al codice penale, l’adeguata repressione dei fatti più gravi, dai quali l’interesse protetto sia stato
effettivamente messo in pericolo, con una concretezza tale da giustificare la qualificazione degli illeciti
come delitti, ed una conseguente maggiore severità punitiva.
Il principio di precauzione.
Se sulla base di un livello di conoscenze non chiare si nega il riconoscimento di un rischio, ciò significa
omettere di prendere le necessarie contromisure e lasciar crescere il pericolo.
L’incertezza scientifica appartiene alla normalità del procedere della conoscenza, che si sviluppa per
tentativi ed errori, per acquisizioni progressive.
Viene qui in rilievo il cosiddetto principio di precauzione. Esso viene in rilievo quando un’oggettiva e
preliminare valutazione scientifica stabilisca che è ragionevole temere che gli effetti potenzialmente
pericolosi per l’ambiente o la salute degli uomini, degli animali o vegetali, siano incompatibili con l’alto
livello di protezione scelto dalla comunità.
Per il diritto penale il senso del principio di precauzione può essere quello di legittimare forme d’intervento
in situazioni d’incertezza scientifica, nelle quali sia scientificamente non implausibile, ma non provata,
l’ipotesi della pericolosità di certe condotte o situazioni. La traduzione tecnica del principio potrà consistere
esclusivamente in fattispecie costruite secondo il modello del pericolo astratto.
Reati omissivi.
La norma penale che configura un reato omissivo rivolge alla cerchia dei suoi destinatari un comando di
agire. Il fatto tipico di reato omissivo è il non fare quanto la legge comanda di fare.
Parlare di reato omissivo è possibile e ha senso, in quanto la norma, nel prescrivere quod debetur (ciò che
si deve fare), si riferisce comunque al mondo dei fatti.
I dati del reale, che la legge assume ad elementi costitutivi della fattispecie normativa, mantengono anche
nelle fattispecie omissive la loro autonomia concettuale e strutturale di fronte alla norma.
Comandi di agire sono la categoria di precetti più intrusiva: non solo delimitano dall’esterno, come i divieti,
ma vincolano internamente le scelte d’azione dei destinatari. Non si limitano a porre regole che
contemperano le diverse sfere di libertà individuale, ma dettano contenuti di scelte d’azione obbligate.
Le prestazioni che possono essere legittimamente imposte sotto minaccia di pena, sono solo prestazioni
volte alla tutela di interessi, che la mancata prestazione esporrebbe ad offesa o messa in pericolo. Un reato
omissivo di pura disobbedienza non potrebbe essere considerato legittimo nell’ordinamento giuridico
italiano.
Per la giustificazione di comandi d’agire il riferimento al bene giuridico, pur possibile e necessario, non è
sufficiente.
L’imposizione di comandi di agire evoca esigenze e vincoli di solidarietà e di cooperazione.
I reati omissivi sono reati propri (salvo l’omissione di soccorso). Gli obblighi di attivarsi penalmente rilevanti
si innestano nella complessiva disciplina di particolari ruoli, pubblici o privati, che pongono chi li ricopra in
un particolare rapporto con particolari interessi di terzi o della collettività.
La fattispecie di reato omissivo può esaurirsi nell’incriminazione della condotta omissiva. In tal caso
parliamo di reati di pura omissione. La legge impone un obbligo di produzione di un risultato, mediante la
condotta doverosa; l’omissione della condotta dovuta integra il reato omissivo, indipendentemente da
conseguenze ulteriori.
È possibile configurare reati omissivi con evento naturalistico, nei quali, cioè, venga in rilievo come causa
dell’evento una condotta omissiva? La risposta è si: può essere teoricamente configurata, ed è di fatto
conosciuta dagli ordinamenti penali positivi, la categoria dei reati commissivi mediante omissione.
Non ha rilievo se e quale altra condotta (aliud agere) sia stata tenuta in luogo di quella doverosa. È
comunque necessario che il mancato compimento dell’azione sia avvenuto in assenza di situazioni che
avrebbero impedito la decisione di agire o la sua attuazione.
La figura del reato omissivo puro, o di mera omissione, corrisponde a quella del reato di mera azione, con
una differenza. Un comando di agire non può essere incondizionato, a differenza dei divieti di compiere
certe azioni. Precetti che vietano azioni positive pongono un limite esterno alla libertà, che vale in qualsiasi
tempo e contesto, salvo eventuali cause di esonero. Ma nessuno può essere obbligato permanentemente a
fare alcunché.
L’illecito per omissionem, la trasgressione di un dovere di agire, ha dunque come caratteristica costante,
non eliminabile, il collegamento dell’azione prescritta ad un contesto di fatto che ne costituisce il
presupposto. Definiamo situazione tipica l’insieme dei presupposti da cui scaturisce l’obbligo di attivarsi.
La categoria dei reati commissivi mediante omissione è, nel sistema penale italiano, costruita sulla base di
una clausola di parte generale.
Art. 40 c.p.: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Viene fondata l’equivalenza fra la condotta omissiva antidoverosa non impeditiva e un’azione causale, e
viene dato rilievo penalistico ad obblighi di attivarsi il cui fondamento sta al di fuori del diritto penale.
I reati commissivi mediante omissione appartengono alla categoria dei reati propri.
Il reato commissivo mediante omissione costituisce la violazione di una specifica norma di comando, che
pone il dovere di attivarsi per impedire, e non semplicemente il generico di vieto di cagionare un certo
risultato.
La causalità dell’omissione.
Può un’omissione (antidoverosa) di una data condotta essere condizione necessaria di un evento, secondo
il modello della condizio sine qua non?
Se ciò che è stato omesso fosse stato fatto, l’evento si sarebbe verificato o no? Se la risposta è sì, ciò
equivale a dire che il non agire in un certo modo è stato condizione necessaria, sine qua non, dell’evento.
Un problema concerne l’efficacia impeditivi di qualcosa che non è accaduto, rispetto ad un evento
realmente accaduto i cui antecedenti positivi sono stati accertati.
Le sezioni unite hanno ritenuto che l’indirizzo tradizionale in materia di responsabilità omissiva del medico
comporta una erosione del paradigma causale, fondando la responsabilità sul disvalore della condotta e
sulla mancata riduzione del rischio, mentre la legge richiede l’effettiva causazione dell’evento secondo il
paradigma della condicio sine qua non. Se non vi è certezza che l’azione omessa avrebbe avuto per effetto
l’impedimento dell’evento, non è possibile concludere con certezza che l’omissione sia stata una
condizione sine qua non dell’evento. Difficoltà di prova non possono legittimare un’attenuazione del rigore
nell’accertamento del nesso causale; l’accontentarsi dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio
si risolverebbe in una abnorme espansione della responsabilità, in violazione del principio della
responsabilità per fatto proprio.
Il problema specifico della causalità omissiva sorge in relazione ad eventi i cui antecedenti positivi sono stati
accertati, e riguarda una relazione ipotetica fra l’evento accaduto ad una condotta che non è stata tenuta,
della quale si discute se avrebbe impedito l’evento. Per risolvere la questione viene in rilievo l’esperienza
sulle percentuali di successo di un intervento del tipo di quello ritenuto doveroso, in situazioni analoghe.
Non è invece applicabile il criterio dell’esclusione di fattori alternativi, che per la prova della causalità attiva
è il criterio di per così dire di chiusura. E se non è possibile escludere decorsi causali in cui l’azione
impeditiva non avrebbe avuto successo, la prova della causalità omissiva finisce per rivelarsi irraggiungibile.
Emerge un limite specifico di funzionalità del modello del reato commissivo per omissione.
L’obbligo giuridico che fonda la responsabilità commissiva mediante omissione non è un qualsivoglia
obbligo di attivarsi. Non basta un dovere che può gravare su chiunque, come il dovere di soccorso di cui
all’art. 593 c.p.; la legge penale dà rilievo a un vincolo speciale di tutela, gravante su una speciale categoria
di soggetti, con specifica funzione di garanzia di interessi penalmente protetti. Si parla di posizioni di
garanzia.
Il principio di legalità esige che le posizioni di garanzia penalmente rilevanti abbiano fondamento legale e
siano identificabili con sufficiente precisione.
Come fonti dell’obbligo di garanzia, la dottrina enumera una accanto all’altra fonti diverse ed eterogenee:
la legge, ogni altra disposizione che abbia efficacia vincolante, negozi giuridici, e anche situazioni di mero
fatto tali da rendere un soggetto garante di altrui interessi.
Nel modello adottato dal codice Rocco, pur in assenza di una puntuale tipizzazione, l’esigenza di un
fondamento legale delle posizioni di garanzia trova riscontro nella attribuzione di rilevanza penale
esclusivamente ad obblighi giuridici. La giuridicità dell’obbligo, di cui parla l’art. 40 c.p., non può che
significare la volontà legislativa di subordinare la rilevanza penale della posizione di garanzia all’esistenza di
un obbligo di protezione, formalmente posto da una fonte dell’ordinamento a ciò abilitata.
Il capitolo delle posizioni di protezione ha a che fare con la protezione di soggetti incapaci di provvedere a
sé stessi, per età o per infermità o altra causa.
Il dovere di impedimento riguarda essenzialmente eventi di danno alla persona.
Nel campo dei rapporti familiari, la posizione di garanzia fondamentale è quella dei genitori, garanti a tutto
campo degli interessi dei figli di età minore. Possono venire in rilievo anche posizioni derivate, coperte da
soggetti cui siano stati trasferiti in tutto o in parte, in via temporanea o stabile, compiti propri dei genitori,
o di rappresentanze e cura di persone incapaci.
I presupposti della posizione di garanzia sono determinati dalla legge civile.
Come ipotesi derivate vengono in rilievo quelle di chi abbia assunto la custodia del minore o di altra
persona incapace, per infermità o per vecchiaia, di provvedere a sé stessa: babysitter, badanti e simili.
In questi ultimi casi, la posizione di garanzia non ha un immediato fondamento legale, ma nasce da un
rapporto negoziale.
La posizione di garanzia sorge solo quando l’incapace sia stato concretamente preso in carico dal garante.
Nell’ambito delle posizioni di protezione, il capitolo di maggiore impatto sulla giustizia penale è quello dei
doveri di cura e di soccorso. Viene in rilievo, innanzi tutto, l’esercizio delle professioni sanitarie.
Il terapeuta risponde, innanzi tutto, per le conseguenze di attività positive.
C’è una concreta presa in carico, ovvero un dovere di presa in carico collegato a specifici ruoli e/o a
specifiche situazioni.
Posizioni di controllo.
Le posizioni di controllo su fonti di pericolo comprendono situazioni caratterizzate dal controllo (del
proprietario o di altri) su cose pericolose, e, soprattutto, lo svolgimento (e il controllo sulle condizioni di
svolgimento) di attività pericolose.
Le posizioni di controllo su cose pericolose si ricollegano a criteri di attribuzione di responsabilità per fatto
illecito, previsti nel codice civile.
Il garante può essere, e di regola sarà, il proprietario della cosa; ma potrà anche essere un altro soggetto, la
cui posizione di garanzia derivi dalla custodia o dall’uso della cosa.
Nella dottrina sono stati proposti taluni criteri di selezione delle fattispecie omissive improprie, in funzione
di particolari profili strutturali.
In particolare, si sostiene che possano venire in rilievo solo reati con evento naturalistico, invocando in tal
senso la formula stessa dell’art. 40 c.p.. Sarebbero inoltre da escludere dal novero dei reati omissivi
impropri le fattispecie caratterizzate da particolari modalità d’azione.
Viene dato rilievo, infine, alla natura degli interessi protetti.
CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE
Tipicità e giustificazione.
Un fatto conforme a un tipo di reato non necessariamente è un fatto illecito. Il fatto conforme al tipo
consiste nell’offesa o messa in pericolo d’un interesse meritevole di protezione. È per questo che la tipicità
del fatto può essere considerata un indizio di illiceità. Resta aperto, peraltro, il problema di una eventuale
giustificazione, cioè d’una esclusione obiettiva dell’illiceità del fatto, pur lesivo o pericoloso per un interesse
penalmente protetto.
Definiamo cause di giustificazione, o scriminanti, le situazioni e condizioni in presenza delle quali la
realizzazione di un fatto penalmente tipico non è contraria al diritto (obiettivamente antigiuridico).
Esercizio del diritto e adempimento del dovere costituiscono delle possibili cause di giustificazione,
immanenti alla logica dell’ordinamento giuridico. Nel codice italiano vigente sono espressamente
richiamate dall’art. 51 c.p..
Nei codici penali moderni sono di regola disciplinate altre cause di giustificazione, le quali hanno a che fare
con l’agire in situazioni di necessità (artt. 52, 53, 54 c.p.).
Completa il catalogo delle cause di giustificazione codificate il consenso dell’avente diritto.
Le cause di giustificazione sottendono un bilanciamento d’interessi, fra l’interesse tutelato dalla norma
incriminatrice ed un interesse esterno, cui l’ordinamento giuridico riconosce, a certe condizioni, la
prevalenza e una conseguente efficacia scriminante.
Il nostro codice usa, nel disciplinare le singole cause di giustificazione, l’espressione generica “non è
punibile”, e nell’art. 59 c.p. parla di “circostanze che escludono la pena”. Il concetto di causa di
giustificazione esprime l’assenza di contrasto con l’ordinamento giuridico complessivo, non solo con
l’ordinamento penale.
La non punibilità di fatti conformi a un tipo di reato può derivare da ragioni diverse dalla sussistenza di
cause di giustificazione in senso pieno. Può derivare da scusanti oggettive, cioè da ragioni che fanno venire
meno la colpevolezza per il fatto. E può derivare anche da ragioni che, pur non escludendo né l’illiceità
obiettiva del fatto né la soggettiva colpevolezza dell’autore, hanno a che fare con ulteriori ragioni di
opportunità o inopportunità del punire, cui l’ordinamento giuridico dia rilievo.
Cause di non punibilità possono essere previste dalla legge, alla condizione che abbiano un puntuale
fondamento nella Costituzione o da altre leggi costituzionali, e che l’esenzione da pena sia il frutto di un
ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco.
Il fatto tipico, ma giustificato, è un fatto lecito, malgrado il suo contenuto offensivo per un interesse
penalmente protetto. Il fatto non punibile, per ragioni diverse dalla sussistenza di una causa di
giustificazione oggettiva, non è un fatto lecito: non esclude conseguenze giuridiche di natura non penale, e
può essere impedito alle condizioni in presenza delle quali la legge consente una reazione difensiva.
Disposizioni attributive di diritti o di doveri, con efficacia scriminante, possono provenire da qualsiasi ramo
dell’ordinamento giuridico.
Fonti sublegislative potranno eventualmente venire in rilievo, solo se e in quanto vi sia attribuito rilievo da
una legge alla quale, in ultima analisi, possa essere ricondotto l’effetto scriminante. Accanto alla legge
statale ed atti equiparati, vengono in discussione la legge regionale, i regolamenti e la consuetudine.
Le cause di giustificazione hanno rilevanza oggettiva, nel senso che l’illiceità del fatto commesso è esclusa,
per l’intero ordinamento giuridico, dalla esistenza obiettiva di una situazione cui l’ordinamento giuridico
attribuisca valenza scriminante. Esse sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute o,
per errore, ritenute inesistenti.
Non hanno rilievo, né per affermare né per escludere la giustificazione, le motivazioni del soggetto agente.
Una situazione di fatto è causa di giustificazione sulla base di un bilanciamento d’interessi oggettivamente
operato dall’ordinamento giuridico.
Vengono talvolta impropriamente inquadrate come scriminanti non codificate alcune situazioni di notevole
importanza: attività medico-chirurgica e attività sportiva.
L’attività medico-chirurgica è un’attività non solo legittima e necessaria, ma, a certe condizioni, oggetto di
doveri, anche di pubbliche istituzioni.
L’intervento sul corpo di altri, anche a fin di bene, presuppone il consenso informato dell’avente diritto,
fino a che questi sia in grado di esprimerlo. Come regola generale, il consenso informato del paziente è
dunque presupposto di liceità del trattamento terapeutico.
Doveri di intervento possono sorgere in assenza di consenso, solo se la persona interessata non sia in grado
di esprimerlo validamente. L’intervento non può essere effettuato se non per un diretto beneficio della
persona incapace. Per le persone incapaci, il consenso può essere dato da chi ne abbia la cura: genitore,
tutore.
Il consenso dell’interessato, nel fondare la possibilità e i doveri di cura, segna anche il limite di tali doveri.
Il dovere del medico è di fornire un’informazione corretta, in particolare sui rischi cui il paziente va
incontro.
Il limite dei doveri di cura, segnato dal consenso dell’interessato, vale anche nel caso in cui l’interessato
chieda di sospendere una terapia in atto.
Anche quando la richiesta sia di interrompere una terapia, al venir meno dell’obbligo di cura, corrisponde il
sorgere dell’obbligo di omettere le cure.
Analoghe considerazioni valgono per l’attività sportiva.
Anche qui ha centrale importanza il consenso dei partecipanti all’attività, presupposto necessario e non
sostituibile della loro implicazione in attività tipicamente pericolose.
Né l’attività terapeutica, né l’attività sportiva possono essere compiutamente inquadrate nella prospettiva
delle cause di giustificazione. Da un lato perché si tratta di attività tipicamente legittime, e dall’altro perché
i problemi di responsabilità penale, nei casi in cui si verifichino eventi lesivi penalmente rilevanti,
riguardano non solo i presupposti giustificativi di una data attività, ma anche il profilo della colpevolezza.
Il codice penale italiano prevede espressamente (art. 51 c.p.) che “l’esercizio di un diritto o l’adempimento
di un dovere, imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la
punibilità”.
Ciò che è diritto, o addirittura dovere, non può essere reato, in forza del principio di non contraddizione
all’interno di uno stesso ordinamento giuridico.
Esempio di scuola, la privazione della libertà in esecuzione di un provvedimento dell’autorità giudiziaria.
Non basta la finalità di esercitare un diritto o adempiere un dovere. Il fine non giustifica il mezzo; la
condotta tenuta al fine di far valere un diritto può non essere di per sé esercizio di un diritto.
L’effetto scriminante è collegato al puro e semplice esercizio del diritto. Non sono previsti requisiti
aggiuntivi come per esempio la necessità di realizzare il fatto di reato.
Il diritto o dovere scriminante può nascere da una norma giuridica competente a porre diritti o doveri,
secondo i principi pertinenti ai diversi settori dell’ordinamento. Accanto alla legge dello stato possono
venire in rilievo anche le leggi regionali e norme di fonte comunitaria, in relazione alle materie di loro
competenza.
Fatti o atti giuridici non di carattere normativo possono venire in rilievo se e in quanto costituiscano
presupposto di fatto del sorgere di diritti o doveri, alla stregua di una fonte normativa a ciò legittimata.
Fra le fonti normative legittimate a fondare diritti vi è anche la Costituzione.
L’efficacia scriminante di un diritto derivante dalla Costituzione presuppone che la norma penale,
astrattamente ricomprendente il comportamento scriminato, non sia costituzionalmente illegittima.
L’adempimento di un dovere.
“Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente
disporne” (art. 50 c.p.).
Se v’è un soggetto che può validamente disporre dell’interesse in gioco, può validamente consentire a un
qualche sacrificio o messa in pericolo. In tal caso, il consenso validamente espresso esclude l’illiceità del
fatto, che pure è e resta astrattamente tipico.
Decisiva è la volontà libera di colui che può legittimamente disporre dell’interesse penalmente protetto nel
caso concreto.
Il bilanciamento d’interessi, che alla scriminante del consenso è sotteso, è fra interessi facenti capo al
soggetto che di essi può disporre: da un lato l’interesse (disponibile) penalmente tutelato, dall’altro un
diritto di libertà.
Importanza centrale, ai fini della rilevanza del consenso, ha la questione della disponibilità o meno del
diritto, da risolvere alla luce dell’ordinamento giuridico complessivo.
La questione del consenso scriminante non si pone in relazione agli interessi pubblici penalmente tutelati.
Tali interessi possono, o debbono, essere oggetto di gestione o tutela in conformità all’ordinamento
giuridico; non possono essere abbandonati prestando consenso ad una loro lesione altrimenti vietata.
In relazione a reati che offendono congiuntamente interessi pubblici e privati, un eventuale consenso del
privato non avrebbe rilievo scriminante, in quanto non fa venir meno la lesione di un interesse pubblico
indisponibile.
Limiti alla rilevanza del consenso possono risultare da norme penali che incriminano dati fatti malgrado il
consenso prestato da un dato soggetto (omicidi del consenziente, usura, atti sessuali con minorenne…).
In relazione a reati posti a tutela di interessi collettivi, non ha efficacia scriminante il consenso prestato da
persone singole, pur appartenenti alla cerchia dei portatori dell’interesse protetto.
Anche in situazioni di indisponibilità del diritto, il consenso dell’interessato può essere ragione di
differenziazioni del trattamento penale. Il consenso della vittima può rendere meno grave l’offesa, e/o
meno rimproverabile il fatto.
Sono disponibili i diritti che possono essere oggetto di alienazione, come i diritti patrimoniali.
I diritti personali sono intrasmissibili a terzi e non rinunciabili, ma proprio l’esercizio del diritto può
estrinsecarsi in atti di disposizione. In questi casi l’atto di disposizione preclude la stessa configurabilità di
un tipo di reato.
L’integrità fisica è disponibile, entro limiti e condizioni.
Ha efficacia scriminante il consenso validamente prestato dal titolare del diritto disponibile. Il consenso può
essere prestato dal rappresentante (legale o volontario) nell’interesse del rappresentato.
Il consenso presuppone in ogni caso la capacità naturale di chi presta il consenso, cioè una maturità
sufficiente a rendersi conto del significato, dell’importanza e delle reali conseguenze dell’atto di
disposizione, avendo riguardo alla natura dell’interesse in gioco.
La legge penale non prevede per il consenso scriminante requisiti formali di validità. Necessario e
sufficiente è che il consenso esista, prima della realizzazione del fatto; non è nemmeno necessario che sia
noto all’autore del fatto, posto che le cause di giustificazione operano oggettivamente. Per esigenze
probatorie, è necessario che il consenso sia espresso con un comportamento che lo renda riconoscibile e
controllabile.
Un consenso effettivo presuppone una volontà libera, non viziata.
Il consenso scriminante ex art. 50 c.p. si deve ritenere come inesistente, in presenza di situazioni
d’incapacità o di vizio della volontà.
Il consenso è revocabile in qualsiasi momento. Non fa sorgere diritti in capo ad altri. È la volontà
dell’interessato al momento del fatto che per la legge penale è decisiva.
Dal codice penale viene una chiara indicazione che il consenso alla privazione della vita non ha efficacia
scriminante. L’omicidio del consenziente è vietato, e la pena prevista è severa, sia pure meno grave di
quella prevista per l’omicidio volontario comune. Sono anche puniti l’istigazione e l’aiuto al suicidio.
Il problema dell’eutanasia va impostato avendo riguardo, da un alto, all’incriminazione dell’omicidio del
consenziente, e dall’altro lato ai doveri di chi sia in rapporto con la persona che chiede di essere aiutata a
morire. In via di principio è leggibile nell’art. 579 c.p. il divieto dell’eutanasia attiva, anche consensuale: cioè
di comportamenti attivi idonei e diretti ad accelerare la morte, ancorché effettuati a richiesta o col
consenso dell’interessato.
Di fronte al rifiuto di determinati trattamenti, il medico, ancorchè garante della salute del paziente, non
può imporre coattivamente, contro la volontà dell’interessato, un trattamento che il paziente rifiuta. Il
limite al potere-dovere di cura apre la strada ad una valutazione di liceità dell’eutanasia passiva
consensuale, cioè dell’omissione di un trattamento terapeutico adeguato e necessario per il mantenimento
in vita. Il dovere di cura non è indipendente dalla volontà dell’interessato; l’omissione di interventi che non
siano doverosi non fonda alcuna responsabilità per omissione.
La legittimità di una cura volta ad alleviare le sofferenze, piuttosto che a prolungare la vita del paziente a
qualsiasi costo, può essere fondata sul dovere giuridico di alleviare le sofferenze, ove in tal senso sia la
volontà dell’interessato. Per contro, se il paziente chiede di fare tutto il possibile per il mantenimento in
vita, tale sua volontà fonda un corrispondente dovere del medico, sulla base del medesimo principio:
voluntas aegroti suprema lex.
In ogni caso, il principio del consenso informato addita come dovere essenziale del medico il dovere di
fornire adeguata informazione, soprattutto quando si tratti di scelte a rischio elevato.
Come testualmente prevede l’art. 50 c.p., la scriminante del consenso può valere anche in relazione alla
esposizione a pericolo.
Il consenso scrimina l’esposizione a pericolo sugli stessi presupposti e nello stesso ambito in cui scrimina la
lesione effettivamente verificatasi. È decisiva la normalità sociale del rischio.
Può il consenso scriminare fatti cagionati per colpa, cioè con violazione di regole di diligenza?
Affermare l’incompatibilità fra la scriminante del consenso e il reato colposo può essere accettabile in
quanto si intenda affermare che il consenso all’esposizione al pericolo non copre eventuali conseguenze
lesive, e non esonera dall’osservanza delle pertinenti regole di diligenza, prudenza, perizia, specie là dove
siano in gioco la vita o l’incolumità personale.
In relazione ad eventi lesivi non coperti dal consenso, i problemi penali si giocano in ultima analisi sul
campo della colpevolezza.
E se fosse stato prestato uno specifico consenso alla violazione di regole cautelari, accettando un rischio
eccedente quello consentito dall’ordinamento giuridico? In questo caso negare la rilevanza del consenso
appare eccessivo. Deve trattarsi di un consenso informato.
Premessa.
Problemi peculiari di giustificazione sorgono con riguardo all’agire in situazioni di necessità, nelle quali,
cioè, un interesse giuridicamente protetto è esposto a pericolo, ed esigenze di effettiva salvaguardia
dell’interesse minacciato entrano in tensione con il dovere di evitare la realizzazione di fatti penalmente
tipici.
Cause di giustificazione analiticamente disciplinate negli artt. 52-54 c.p..
La figura fondamentale di questo gruppo è la legittima difesa, così delineata nell’art. 52 c.p.: “Non è
punibile chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o
altrui dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”.
Lo stato di necessità è delineato dall’art. 54 c.p.: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per essere stato
costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da
lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
“La necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’autorità” è il presupposto di
giustificazione dell’uso legittimo delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, disciplinato dall’art. 53 c.p..
La realizzazione del fatto penalmente tipico non costituisce il contenuto tipico di un diritto o di un dovere
del soggetto agente, ma è in rapporto di necessità strumentale con la difesa di un diritto proprio o altrui
(legittima difesa), o con la salvezza della propria o altrui persona da un danno grave (stato di necessità), o
con l’adempimento d’un dovere d’ufficio (uso legittimo di mezzi di coazione fisica).
Legittima difesa.
Da un lato viene affermato un diritto di autotutela fondato su principi di diritto naturale: quando, in
concreto, non sia dato attendere l’intervento della pubblica autorità senza pregiudizio per il diritto
aggredito, la tutela affidata all’autorità statuale dal contratto sociale originario ritorna nelle mani
dell’avente diritto.
Dall’altro lato sono stati proposti modelli di giustificazione di carattere pubblicistico: la reazione difensiva
contro l’aggressore viene vista come esercizio di una pubblica funzione di polizia, delegata dallo stato al
cittadino nei casi d’impossibilità d’intervento, o addirittura come sanzione.
La legittima difesa privata è un diritto della persona, il cui nucleo fa parte dei diritti inviolabili che
l’ordinamento legale è tenuto a riconoscere.
Viene in rilievo la difesa legittima di un diritto proprio. La legittima difesa di un diritto altrui (soccorso
difensivo) è una estensione apprezzabile in una visione solidaristica, e coerente con il principio di
uguaglianza.
La difesa di diritti altrui da ingiuste aggressioni in atto è consentita anche alla forza pubblica.
Presupposto della legittima difesa è il pericolo attuale di un’offesa ingiusta. L’elemento del pericolo attuale
accomuna la legittima difesa e lo stato di necessità. Elemento differenziale è invece la fonte del pericolo.
Pericolo attuale è un pericolo in atto: già radicato e riconoscibile nella condotta dell’aggressore, e non
ancora cessato, con o senza la realizzazione dell’offesa. Quando il pericolo sia cessato, una eventuale
reazione avrebbe il significato di ritorsione o rappresaglia contro l’aggressore, non di difesa del diritto
aggredito.
È ancora attuale il pericolo in situazioni d’inseguimento immediato dell’autore di un diritto di furto o
rapina, che stia fuggendo con il bottino.
Il pericolo che giustifica la reazione difensiva contro l’aggressore è quello connesso a un’offesa ingiusta.
Tale è l’offesa contraria al diritto, che aggredisce diritti di altri, persone fisiche o giuridiche.
La legittima difesa è ammessa a tutela di qualunque interesse individuale giuridicamente riconosciuto.
È invece fuori dalla scriminante la difesa privata di beni collettivi o a titolarità diffusa: la tutela di questi
compete esclusivamente alla pubblica autorità.
È ingiusta, e costituisce presupposto di una legittima reazione difensiva, anche l’aggressione da parte di un
soggetto incapace.
Problema della legittima difesa anticipata. La lettera e la logica escludono che la difesa possa anticipare
l’offesa: non costituisce pericolo attuale il danno semplicemente minacciato a parole. Tendenzialmente il
momento iniziale del pericolo può ritenersi coincidente con il passaggio dell’offesa dalla fase preparatoria
alla fase esecutiva.
È attuale il pericolo perdurante, connesso ad offese che costituiscono delitti di durata.
In presenza del pericolo attuale di un’offesa ingiusta, la realizzazione di un fatto penalmente tipico, in
danno dell’aggressore, è giustificata se l’agente ha agito perché costretto dalla necessità di difesa, e nei
limiti della proporzione fra offesa e difesa.
Il requisito della necessità di difesa caratterizza la difesa legittima sotto l’aspetto della razionalità ed
economicità rispetto allo scopo. La necessità sussiste se il pericolo non può essere neutralizzato senza
ledere diritti dell’aggressore, o comunque con una condotta meno lesiva. Reazione lesiva necessitata è
quella che rappresenta il mezzo minimo necessario.
La possibilità di allontanarsi senza pericolo esclude la necessità di difesa dell’interesse aggredito, anche
quando si tratti di fuga poco onorevole.
Ciò che segna il limite della difesa legittima, in situazioni di possibile discessus, è la proporzione fra offesa e
difesa. Quando vi è una possibilità di discessus, non è di regola consentita una reazione lesiva
dell’incolumità personale dell’aggressore.
In situazioni di pericolo perdurante di reiterazione di comportamenti aggressivi, la necessità della reazione
difensiva appare problematica quando vi siano intervalli temporali fra le concrete estrinsecazioni del
comportamento offensivo, e la vittima può sottrarsi alla reiterazione delle offese, anche richiedendo
interventi dell’autorità. La vittima abituale del tiranno domestico, che lo uccida nel sonno, non agisce in
stato di legittima difesa.
Diversa è la situazione di una persona sequestrata, durante la prigionia: in questo caso l’offesa alla libertà è
sempre presente, e sempre presente la necessità di difesa.
A differenza dell’art. 54 c.p., l’art. 52 c.p. non dice che il pericolo non deve essere stato volontariamente
causato. Peraltro, secondo l’indirizzo dominante in giurisprudenza, la scriminante della legittima difesa non
sussiste in ipotesi quali la partecipazione a una rissa, l’avere lanciato o raccolto una sfida a battersi, la
provocazione, a meno che la difesa non sia stata resa necessaria da una reazione aggressiva
sproporzionata, imprevedibile nella situazione data.
L’esclusione della scriminante è senz’altro sostenibile, in situazioni in cui l’alternativa secca fra l’essere
offeso ed il reagire per difendersi sia stata programmaticamente suscitata.
Tale diritto non può invece essere negato nemmeno al provocatore o allo sfidante, di fronte ad una
reazione eccedente quella prevista, o comunque in caso di provocazione volontaria (anche colposa).
la difesa di aggressioni in luoghi privati è stata oggetto di una nuova disciplina, introdotta dalla l.59/2006,
diritto all’autotutela in un privato domicilio. All’art. 52 c.p. sono stati aggiunti i seguenti commi:
“Nei casi previsti dall’art. 614 c.p., primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al
primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa
un’arma detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
La propria o altrui incolumità;
I beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione.
La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di
ogni altro luogo in cui venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.
Va sottolineato che la nuova legge, nell’introdurre una disciplina differenziata per i casi di aggressione in
luoghi privati, tiene fermi e immutati tutti gli altri presupposti e requisiti della legittima difesa di cui al
primo comma dell’art. 52 c.p. non modificato e non derogato, e anzi espressamente richiamato.
Per quanto non diversamente disciplinato dalla nuova disciplina speciale, resta applicabile la disciplina
generale.
Anche nei casi disciplinati dalla nuova norma la legittimità della reazione difensiva presuppone l’attualità
dell’aggressione e la necessità di difesa. La reazione difensiva non è legittima se non è necessaria.
Il campo di applicazione della legittima difesa speciale è delimitato a fatti avvenuti in luoghi privati.
Vengono in rilievo i casi previsti dall’art. 614 c.p., cioè i casi in cui l’aggressione sia accompagnata da un
fatto costituente violazione di domicilio.
La disciplina speciale si applica inoltre a fatti avvenuti all’interno di ogni altro luogo in cui venga esercitata
un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale, cioè in luoghi privati normalmente aperti a terzi.
La difesa con mezzi idonei è proporzionata se effettuata al fine di difendere la propria o altrui incolumità,
oppure i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione.
La novella del 2006 statuisce che sussiste il rapporto di proporzione: afferma la sussistenza della
proporzione indipendentemente dalla valutazione in concreto del rapporto fra la gravità delle conseguenze
lesive cui l’aggredito era esposto, e la portata lesiva della sua reazione.
La disciplina speciale riguarda due ipotesi. La prima è quella della difesa della propria o altrui incolumità; la
seconda riguarda la difesa di beni patrimoniali quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione.
L’accenno alla non desistenza si limita a ribadire che il pericolo di offesa ingiusta deve essere attuale. La
desistenza fa venire meno in ogni caso l’attualità del pericolo.
La nuova disciplina si applica solo se, oltre all’aggressione in atto contro beni patrimoniali, vi è un ulteriore
pericolo di aggressione, riguardante l’incolumità personale.
Non sono applicabili le nuove disposizioni nel caso in cui il ladro o rapinatore fugge con il bottino di cui si sia
impossessato in un luogo privato. In tale ipotesi non vi è pericolo per l’incolumità, e la legittima difesa è
ammissibile secondo i criteri generali. La proporzione, dunque, va valutata in concreto.
Gli offendicula.
Un problema è quello degli offendicula, ossia della predisposizione di strumenti atti ad offendere che
potrebbero cagionare eventi lesivi per chi superasse la sfera alla cui protezione gli offendicula siano posti.
L’evento lesivo cagionato dall’offendiculum può essere scriminato dalla sussistenza di tutti gli estremi della
legittima difesa.
Cagionare eventi lesivi in danno di terzi è, in via di principio vietato. L’esercizio del diritto di difesa della
proprietà non basta a risolvere il problema della giustificazione, se è stato cagionato un evento che cade al
di fuori di quelli coperti dalla difesa legittima.
La prospettiva è quella dell’individuazione di una sfera di rischio consentito, in esito al contemperamento
del diritto di tutela preventiva con la tutela dell’incolumità personale di terzi.
La valutazione si gioca sul piano della colpa: questa può essere esclusa alla condizione che, nel predisporre
lo strumento pericoloso, siano state adottate cautele tali da rendere non prevedibile la concreta causazione
dell’evento.
Particolare rilievo è attribuito alla riconoscibilità del pericolo, che chi appresta l’offendiculum deve
assicurare; i doveri di diligenza cui egli è tenuto sono doveri di adeguata segnalazione. Solo la sicura
riconoscibilità del pericolo, con conseguente possibilità di evitarlo, consente di ritenere non illegittimi taluni
strumenti di difesa.
Stato di necessità.
Il problema, cui il riconoscimento dello stato di necessità intende dare risposta, riguarda situazioni di
necessità affini a quelle nelle quali sorge il problema della legittima difesa, ma si caratterizza per il fatto che
viene in considerazione un’azione di salvataggio a scapito di un terzo innocente, o comunque di interessi
penalmente tutelati non pertinenti ad un aggressore.
Bilanciamento di interessi contrapposti. È richiesta la proporzione fra il fatto commesso rispetto al pericolo;
non è dato rilievo a fattori soggettivi quali il turbamento psichico o altri fattori di alterazione del processo
decisionale.
L’aver agito in stato di necessità esclude l’obbligo di risarcimento del danno, ma lascia residuare una
conseguenza (indennità rimessa all’equo apprezzamento del giudice) che invece è esclusa nell’ipotesi di
legittima difesa.
Se l’azione necessitata si rivolge contro un terzo innocente, anche questi può, concorrendone le condizioni,
invocare quanto meno lo stato di necessità, se non la legittima difesa.
La differenza fra la reazione difensiva contro l’aggressore e l’azione di salvataggio con sacrificio di interessi
di terzi sta alla radice che gli ordinamenti giuridici introducono nella disciplina delle due figure,
strutturalmente affini, della legittima difesa e dello stato di necessità.
Entrambi gli istituti hanno una radice comune nella necessità di difendere o salvare dati diritti; ma quando
l’azione necessitata colpisca non un affressore, bensì un terzo innocente, la tutela del terzo innocente pone
problemi di delimitazione dell’esimente, più stringenti di quelli che si pongono per la difesa nei confronti di
un aggressore.
Elementi strutturali comuni ad entrambe: il presupposto della necessità; l’attualità del pericolo; la
proporzione.
Come la legittima difesa, l’esimente dello stato di necessità comprende anche azioni di salvataggio di terzi
(soccorso di necessità).
Differenze: mentre la legittima difesa è consentita per la difesa di qualsiasi diritto, lo stato di necessità ha
valore esimente solo quando il pericolo attuale sia di danno grave alla persona; il pericolo, inoltre, non deve
essere stato volontariamente causato, né altrimenti evitabile.
Il pericolo attuale è presupposto comune di entrambe le esimenti.
L’esimente dello stato di necessità, non diversamente dalla legittima difesa, opera nei limiti della
proporzione. I termini della proporzione sono il danno causato dall’azione necessitata e il pericolo da cui si
cerca salvezza.
Nello stato di necessità il terzo innocente ha la medesima dignità di tutela dell’agente necessitato. Il
rapporto di proporzione va dunque valutato in modo più rigido.
L’esimente dello stato di necessità non opera qualora il pericolo sia stato volontariamente causato, o sia
altrimenti evitabile.
Stabilisce espressamente l’art. 54 c.p., al terzo comma, che l’esimente si applica anche quando lo stato di
necessità è determinato dall’altrui minaccia, e che in tal caso del fatto commesso dalla persona minacciata
risponde chi l’ha costretta a commetterlo.
Esclude la responsabilità penale di chi abbia agito in tale situazione, ma non l’obiettiva illiceità del fatto, del
quale risponde l’autore della minaccia.
Il soccorso di necessità.
L’esimente di cui all’art. 54 c.p. comprende non solo fatti che taluno, in stato di necessità, abbia compiuto
per salvare sé stesso, ma anche fatti compiuti per salvare altri: soccorso di necessità.
Il soccorso di altri, che si trovino in situazioni di pericolo grave, in taluni casi è oggetto di doveri d’attivarsi.
Vengono in rilievo disposizioni anche penalmente sanzionate, rivolte a chiunque, come l’omissione di
soccorso ex art. 593 c.p..
Ma soprattutto vengono in rilievo i doveri propri di particolari categorie do soggetti, quali gli appartenenti a
forze di polizia, gli addetti alla protezione civile o gli esercenti professioni sanitarie.
È consentito un soccorso di necessità contro la volontà della persona che si vuole soccorrere? Finchè si
tratta di impedire o bloccare un atto suicida o di lesioni contro sé stesso, o ricercare di salvare il suicida,
non c’è questione.
Non può essere ammessa una sostituzione della volontà bene intenzionata del soccorritore alla volontà
contraria del salvando, di fronte al pericolo di danni futuri inerente a scelte esistenziali liberamente
effettuate.
Ammettere il soccorso di necessità in prevenzione di possibili esiti autolesionisti di scelte personali di vita,
significherebbe legittimare la sovrapposizione coattiva a fin di bene da parte di qualsiasi soggetto possa
farlo di fatto ed intenda farlo.
Di fronte al problema della lotta la terrorismo, lo stato di necessità è stato invocato a sostegno di linee
d’intervento fra loro molto diverse, anzi opposte: da un alto nel tentativo di giustificare metodi
d’inquisizione violenta, e dall’altro lato a sostegno di linee di trattativa per salvare persone sequestrate, in
contrapposizione alla linea della fermezza, cioè del rifiuto di principio della presa in considerazione delle
richieste avanzate da gruppi eversivi quale condizione per il rilascio di persone prese in ostaggio.
È consentito, e se sì come, modificare le regole legali generali del rapporto libertà-autorità, facendo della
necessità un criterio eccezionale ma generale di allargamento dei poteri dell’autorità? La risposta è
negativa.
L’esimente generale dello stato di necessità non può essere invocata come clausola generale che consenta
deroghe al principio di legalità nello svolgimento di funzioni pubbliche.
L’esimente dello stato di necessità non opera per chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al
pericolo.
L’esclusione dell’esimente è prevista in relazione a fatti commessi dal soggetto obbligato per salvare sé
stesso. Non vale in relazioni a fatti che abbiano coinvolto diritti di terzi, proprio nell’adempimento del
dovere di soccorso.
Il problema.
Il codice Rocco contiene una specifica scriminante dell’uso legittimo delle armi (art. 53 c.p.). “Non è
punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di
far uso delle armi o di un latro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere
una violenza o di vincere una resistenza all’autorità. La non punibilità di estende a qualsiasi persona che,
legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza. Analoga scriminante è prevista per i militari
dall’art. 41 del codice militare di pace.
L’articolo non fonda, ma presuppone competenze a far uso della coazione fisica, legalmente attribuite a
date categorie di funzionari dell’ordinamento giuspubblicistico.
I pubblici ufficiali cui si riferisce l’art. 53 c.p. sono coloro per i quali l’uso delle armi o di altro mezzo di
coazione fisica è espressione dell’elemento funzionale della propria attività. Appartenenti alla forza
pubblica.
I corpi principali sono l’arma dei carabinieri, la guardia di finanza, la polizia di stato. Non rientrano in questa
categoria le guardie giurate che svolgono attività di vigilanza e investigazione privata; per esse, come per i
comuni cittadini, l’uso della coazione fisica potrà essere ammesso nei limiti della legittima difesa o del
soccorso difensivo, o in casi di richiesta proveniente dalla forza pubblica.
Le situazioni alle quali la scriminante si riferisce sono situazioni in cui è in gioco l’adempimento di un dovere
d’ufficio: non una mera facoltà d’agire, ma un dovere al cui adempimento viene frapposto ostacolo.
La coazione fisica si giustifica esclusivamente come risposta necessaria ad una opposizione fisica, che non
sia dato altrimenti superare.
Nucleo delle situazioni legittimanti l’uso della coazione è la violenza in senso proprio: estrinsecazione di
energia fisica trasmodante in fisico pregiudizio sul pubblico ufficiale agente o su altre persone o cose
inerenti all’adempimento del dovere d’ufficio. Anche la minaccia viene in considerazione, in quanto
minaccia di violenza fisica immediata, atta a bloccare l’attività del pubblico ufficiale.
Il confine fra il lecito e l’illecito penale, tracciato dalla scriminante in esame, riguarda l’uso di qualsiasi
mezzo coercitivo, cui la forza pubblica possa ricorrere nell’adempimento dei suoi compiti istituzionali.
La necessità della reazione accomuna la scriminante in esame a quelle degli artt. 52, 54 c.p., e delimita la
portata ai casi in cui il ricorso alle armi costituisce l’ultima ratio.
L’uso della coazione non può non essere governato dal principio di proporzione o di bilanciamento degli
interessi, immanente all’intero ordinamento giuridico. La preminenza incondizionata dell’autorità dello
stato non più essere affermata quando sono in gioco diritti inviolabili della persona.
Qualora i mezzi a disposizione facciano prevedere effetti sproporzionati, l’interesse pubblico dovrà
rinunciare alla soddisfazione coattiva.
La giurisprudenza ha ripetutamente affermato che, salvo le eccezioni previste da specifiche disposizioni di
legge, l’uso delle armi contro chi fugge non è legittimo: manca il rapporto di proporzione tra l’uso dell’arma
ed il carattere non violento della resistenza opposta mediante la fuga.
Una reazione che metta in gioco la vita od incolumità altrui si giustifica, proprio in nome della vita e dei
diritti dell’uomo, solo quando sia necessaria a respingere un’aggressione in atto od un’opposizione violenta
all’autorità che riproduca lo schema offesa-difesa.
Con la l.152/1975, intitolata alla “tutela dell’ordine pubblico”, fra le finalità legittimanti l’uso delle armi da
parte di pubblici ufficiali è stata inserita quella di “comunque impedire la consumazione dei delitti di strage,
di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano
armata e sequestro di persona”.
Rispetto ai delitti elencati sarebbe stata anticipatamente operata una valutazione di preminenza degli
interessi pubblici collegati alla non consumazione di quei delitti, rispetto agli interessi sacrificati dall’uso
delle armi. Non tanto, dunque, un ampliamento dei casi di uso legittimo delle armi, quanto un’esplicita
soluzione legislativa del problema della proporzione fra date offese ed il soccorso difensivo ammissibile.
LA COLPEVOLEZZA
Il principio di colpevolezza.
Il problema.
Il concetto di colpevolezza ha a che fare con le concezioni, le condizioni, i principi concernenti l’attribuzione
di responsabilità.
Il problema della colpevolezza sorge, per definizione, con riguardo a fatti che presentano tutti gli estremi
obiettivi di una figura di reato, e per i quali non sussiste alcuna obiettiva giustificazione.
L’art. 27 Cost. dispone che “la responsabilità penale è personale”.
La distinzione fra colpevolezza etica e giuridica è fondamentale, ed è fondata sul riferimento ai diversi
sistemi normativi, rispettivamente giuridico ed etico. In un ordinamento giuridico laico, che esclude la
possibilità di un’etica ufficiale dello stato, l’identificazione della colpa giuridica con la colpa morale è
improponibile, nel senso che il giudizio giuridico non è legittimato a caricarsi di significati etici che vadano
oltre la riaffermazione dell’ordinamento positivo di comportamenti e rapporti sociali.
Per le teorie retributive assolute la moralità della pena è collegata al disvalore etico del male commesso, e
la determinazione dei presupposti anche soggettivi della responsabilità è rimessa al sistema etico assunto
come valido.
Nella prospettiva della prevenzione generale intimidatrice, il ruolo del principio di colpevolezza sarebbe
visto in chiave utilitaristica: la punizione presuppone la colpevolezza, perché solo una realizzazione
colpevole può essere idoneo riferimento della deterrenza legale.
Attraverso il principio di colpevolezza, l’area della punibilità viene ristretta rispetto all’area dell’illecito
obiettivo tipico; vengono introdotte delle scuse legali, e con esse la pratica possibilità di farle valere, magari
pretestuosamente.
Il fondare la responsabilità penale anche su momenti soggettivi è necessario a completare la funzione di
garanzia per cui è posto il principio di legalità.
L’esclusione di responsabilità per fatti incolpevoli dà la garanzia che nessuno sarà punito per conseguenze
accidentali del suo agire; in questo senso è una garanzia della certezza d’azione, e quindi della libertà
individuale.
L’approccio funzionale giustifica anche l’esigenza ed i requisiti della colpevolezza partendo dagli scopi della
pena. La priorità è data al punto di vista della società, quale si esprime in obiettivi più o meno razionali di
politica criminale o in bisogni emozionali di pena.
Teoricamente contrapposto a quello funzionale è l’approccio garantista: il principio di colpevolezza visto
dalla parte dell’individuo, come diritto di protezione. L’imputazione soggettiva risponde ad un’esigenza di
delimitazione della responsabilità: non sono ammesse affermazioni di responsabilità penale che non siano
riferite ad atti ed eventi la cui realizzazione rientri nelle possibilità di controllo personale del soggetto, della
cui responsabilità si discuta.
Nessuna pena senza colpevolezza, dice il principio garantista.
Non ogni colpa deve essere necessariamente punita, dice i principio di razionalità rispetto allo scopo.
Nel sistema del codice Rocco, l’esigenza dell’imputazione soggettiva trova riconoscimento di principio negli
istituti del dolo e della colpa, quali criteri generali d’imputazione dell’illecito.
Il dolo, cioè la volontaria realizzazione dell’illecito, è la forma più grave di colpevolezza. La volontà del fatto
è necessaria a fondare il rimprovero nella sua forma più piena.
Anche in assenza di dolo è possibile un rimprovero (di colpa) per avere realizzato il fatto illecito con
inosservanza di standard di comportamento doverosi.
Fra il dolo e la colpa il codice Rocco ha inserito un terzo istituto, per così dire intermedio: la
preterintenzione.
L’ambito di applicazione dei diversi criteri d’imputazione soggettiva è disciplinato dall’art. 42 c.p..
“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con
dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”.
Nell’ambito delle contravvenzioni “ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente o
volontaria, sia essa dolosa o colposa”.
Ai fini dell’attribuzione di responsabilità per reato contravvenzionale, o per illecito amministrativo, dolo e
colpa sono dunque equivalenti.
Il dolo è una forma di colpevolezza maggiore che non la colpa, e nell’ambito dei delitti segna il limite
normale della responsabilità.
L’azione dolosa, in questo senso, costituisce una più diretta aggressione agli interessi tutelati dalla legge, ed
una diretta minaccia per la pretesa di validità della norma, qualitativamente diversa ed assai più grave che
non l’agire colposo.
Il dolo è, di regola, l’unica forma di colpevolezza ritenuta idonea a giustificare l’intervento penale. Solo fatti
di aggressione volontaria si ritengono, in via di principio, così gravi da giustificare la disciplina severa,
propria della più grave fra le categorie di reati.
Il maggiore bisogno di protezione di determinati beni primari è la ragione della previsione formalmente
eccezionale di delitti colposi.
Nel codice penale, il campo dei delitti colposi è costituito, fondamentalmente, da delitti contro la vita e
l’incolumità personale, e contro l’incolumità pubblica. In questi campi la responsabilità anche per colpa è la
regola.
In altri settori, le figure di delitto colposo sono rare.
Quanto alle contravvenzioni, la sufficienza della colpa si spiega su un duplice ordine di considerazioni:
La minor gravità delle conseguenze sanzionatorie riconnesse ai reati contravvenzionali consente di fondare
la responsabilità su un criterio d’imputazione meno pregnante di quanto non richiedano le più gravi
conseguenze riconnesse ai delitti;
La maggior parte dei reati contravvenzionali sono reati di pericolo, per lo più astratto, consistenti in
violazione di regole cautelari aventi funzione preventiva rispetto al verificarsi di più gravi eventi di lesione
degli interessi tutelati.
Non può essere prevista la responsabilità penale per colpa, in relazione a fatti per i quali no sia prevista la
responsabilità penale nel caso di realizzazione dolosa.
Le definizioni dell’art. 43 c.p..
Il codice Rocco, all’art. 43 c.p., si è preoccupato di dare una definizione degli istituti nei quali si articola
l’elemento psicologico del reato. Abbiamo così delle definizioni legislative del dolo, della colpa e della
preterintenzione, il cui valore è controverso.
Nelle affermazioni di principio, l’interpretazione della corte costituzionale all’art. 27 Cost. era
un’interpretazione restrittiva, che ne limitava la portata al divieto di responsabilità per fatto altrui, e
riteneva ciò conforme alla volontà storica dei costituenti.
Il quadro cambia radicalmente con la storica sentenza 364/1988, con la quale la corte costituzionale ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 5 c.p., e ne ha riscritto il testo nei seguenti termini:
“l’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d’ignoranza inevitabile”.
Il principio di personalità della responsabilità esige anche, quale presupposto della responsabilità, la
colpevolezza soggettiva.
Il dolo.
Generalità.
La forma più grave di colpevolezza, in tutti i sistemi penali moderni, è individuata nel dolo, cioè nella
volontaria realizzazione del fatto illecito.
Secondo la definizione dell’art. 43 c.p., il delitto “è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento
dannoso o pericoloso, che è il risultato della azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza
del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della sua azione od omissione”.
Nell’ambito dei delitti il dolo segna anche, di regola, il limite della responsabilità, salvi i casi in cui la legge
preveda un diverso criterio d’imputazione.
Il dolo è volontà di realizzazione, che si realizza nel fatto commesso.
L’imputazione per dolo ha come presupposto oggettivo comune all’imputazione per colpa la violazione di
una regola di condotta specificamente finalizzata a evitare il prodursi di un fatto di quel determinato tipo.
Non c’è dolo senza colpa.
Oggetto del dolo è il fatto costitutivo di reato, sotto tutti i profili che ne determinano la conformità al tipo
legale. L’agente doloso vuole realizzare un fatto del quale si rappresenta tutti gli elementi necessari e
sufficienti a fondarne la corrispondenza alla fattispecie criminosa.
Il dolo funziona come criterio di imputazione soggettiva del fatto, in quanto è volontà del fatto costitutivo
di reato.
La conoscenza e la volontà del soggetto agente devono abbracciare gli elementi essenziali del fatto, quelli
cioè da cui dipende la tipicità penale del fatto.
Il dolo richiesto dalla legge ha un oggetto che si esaurisce nel fatto tipico. Viene definito dolo generico.
Secondo che ci si riferisca a reati di danno o di pericolo, può parlarsi di dolo di danno e dolo di pericolo.
Il dolo consiste in stati psicologici effettivi, riferiti al fatto di reato che si vuole realizzare.
La volontà di realizzazione, che integra il dolo, è la volontà che sorregge la condotta con la quale l’agente
realizza il fatto.
Estranei alla struttura del dolo sono gli elementi affettivi che stanno a monte della decisione di agire.
La volontà deve investire l’intero fatto nella sua unità di significato.
Dolo intenzionale.
Il nucleo centrale della figura del dolo è costituito dai casi in cui la realizzazione del fatto tipico è un
risultato che l’agente aveva di mira. Avendo riguardo al profilo della volontà, tali casi sono definiti come
dolo intenzionale.
Dolo diretto.
Casi in cui la realizzazione dell’evento delittuoso non sia l’obiettivo avuto di mira dall’agente, ma sia, e sia
conosciuta, come necessariamente connessa alla realizzazione dell’obiettivo avuto di mira.
Nel caso di rappresentazione del fatto di reato quale consegna certa della propria condotta, tale
conseguenza non può non essere considerata voluta: l’efficacia motivante che la rappresentazione
dell’evento delittuoso avrebbe dovuto avere, non vi è stata: con la scelta di agire, l’agente si è posto
consapevolmente contro l’interesse tutelato.
I casi di dolo caratterizzati dalla rappresentazione certa dell’evento, diversi dal dolo intenzionale, sono
definiti come dolo diretto.
Dolo alternativo.
Come dolo alternativo vengono definiti i casi in cui l’agente si rappresenta il possibile verificarsi di eventi
diversi, tutti coperti, per così dire, dalla sua volontà, che non ne esclude nessuno.
Casi in cui l’agente non ha di mira la realizzazione del fatto tipico né se la rappresenta come sicuramente
connessa alla realizzazione del proprio obiettivo, ma se la rappresenta come possibile risultato della propria
condotta. Si parla di dolo eventuale.
Risponde a titolo di dolo eventuale l’agente che, pur non volendo l’evento, accetta il rischio che esso si
verifichi come risultato della sua condotta, e decide di agire anche a costo di determinarlo; mentre
risponde a titolo di colpa aggravata l’agente che, pur rappresentandosi l’evento come possibile risultato
della sua condotta, agisce nella ragionevole opinione o speranza che esso non si verifichi.
Il dolo eventuale sarebbe escluso qualora l’evento, previsto come possibile, sia contro il desiderio
dell’agente e questi speri di evitarlo.
Si tratta di un’impostazione non accettabile e giustamente criticata. Elementi emozionali sono estranei alla
struttura tipica del dolo: anche eventi non desiderati possono essere previsti e voluti in quanto inscindibili
dalla realizzazione del proprio obiettivo.
Un atteggiamento emozionale negativo rispetto all’evento è di per sé compatibile con qualsiasi forma di
dolo.
È possibile che stati emozionali, desideri e simili, si risolvano in fattori d’esclusione del dolo; ma ciò solo se
e in quanto abbiano influito sul momento intellettivo della rappresentazione dei fatti.
Il dolo non può essere escluso dal desiderio che un evento previsto non si verifichi; sì, invece, da una
percezione o comprensione alterata della realtà, derivante da un wishful thinking che abbia impedito il
formarsi di una previsione dell’evento che altrimenti vi sarebbe ragionevolmente stata.
Quali sono i contenuti cognitivi e volitivi, in ragione dei quali si può parlare di accettazione dell’evento?
Il dolo eventuale è rappresentazione non in termini di certezza. Non è sufficiente, però, una generica
rappresentazione del fatto come possibile. Per poter fondare la volontà del fatto, si pure nella forma
sfumata della accettazione del suo eventuale verificarsi, appare necessaria una rappresentazione del fatto
come avente un grado significativo di probabilità.
Il dolo implica la conoscenza di tutti gli elementi o caratteri della situazione di fatto, dai quali dipende la
tipicità penale dell’azione commessa o dell’evento cagionato. Non è invece richiesta la conoscenza della
legge violata.
Ciò che è necessario e sufficiente per aversi dolo, è che nella situazione concreta l’agente riesca a cogliere
tutti gli aspetti su cui si fonda la valutazione legale d’illiceità.
Sufficiente e necessaria a integrare il dolo è dunque una comprensione nella sfera laica (nella cultura del
non giurista) degli elementi tipici della situazione descritta dal legislatore mediante concetti tecnico-
giuridici.
Il dolo, così come disciplinato nel nostro ordinamento, non comprende la coscienza dell’illiceità del fatto
commesso.
La coscienza e volontà del fatto tipico, nella quale il dolo formalmente consiste, deve avere ad oggetto un
tipo d’illecito, che sia tale per il suo carattere dannoso o pericoloso per interessi meritevoli di tutela. Nel
fatto di reato, che costituisce l’oggetto del dolo, il carattere illecito deve essere riconoscibile.
Agisce con dolo l’agente per convinzione, il quale ritenga di potere o dover tenere, in coerenza con le sue
convinzioni morali o religiose o ideologiche, un comportamento che sa essere antigiuridico. La coscienza
dell’offesa, che può costituire elemento del dolo, si identifica con la consapevolezza di realizzare un
comportamento lesivo di dati interessi, colti nella loro realtà effettuale.
Dolo specifico.
Alcune figure di reato danno rilievo ad una finalità che l’agente si prefigge di conseguire mediante la
realizzazione del fatto, ma non è necessario si realizzi perchè il reato sia consumato. Si parla, in questi casi,
di reati a dolo specifico.
Il dolo deve essere rigorosamente provato, non diversamente da ogni altro elemento del reato, al di là di
ogni ragionevole dubbio.
Base essenziale per l’accertamento del dolo sono le modalità della condotta e le circostanze che la
precedono, accompagnano e seguono.
I processi a carico di soggetti titolari di doveri di vigilanza e controllo, per reati attinenti all’esercizio delle
loro funzioni, si è posta la questione se la prova del dolo possa essere desunta dall’impedimento di tali
doveri, che sono, si noti, doveri di acquisizione di conoscenze.
Il non conoscere ciò che si sarebbe potuto conoscere, se il dovere di vigilanza fosse stato adempiuto, fonda
un addebito di colpa.
Il passaggio dalla colpa al dolo è stato ricercato dalla giurisprudenza elaborando la teoria dei segnali
d’allarme, dando rilievo ad un volontario chiudere gli occhi per non vedere. L’avere del tutto trascurato
certe attività, l’assenteismo più o meno totale, il non essersi curati di segnali d’allarme pur percepiti,
fonderebbe un addebito di dolo rispetto agli illeciti commessi dagli organi di gestione non assoggettati a
controllo.
L’oggetto del dolo non può essere identificato in asseriti segnali d’allarme, che potrebbero evocare la
possibile esistenza di elementi del fatto tipico. Per affermare il dolo occorre in ogni caso la
rappresentazione concreta del fatto penalmente tipico.
Il passaggio dalla colpa al dolo eventuale potrà prospettarsi in capo a chi abbia non solo percepito
determinati segnali d’allarme, ma li abbia anche concretamente valutati come segnali di specifici fatti-
reato, concretamente rappresentati. L’inerzia acquisirebbe, in simili casi, il significato di consapevole
accettazione del verificarsi di un determinato fatto illecito concretamente rappresentato.
I principi generali sul dolo valgono anche per i reati omissivi. L’oggetto del dolo è qui determinato dalla
specifica dimensione negativa (il non fare) che caratterizza il fatto omissivo.
L’oggetto del dolo d’omissione comprende innanzi tutto la conoscenza della situazione tipica, cui la legge
riconnette il dovere d’agire.
In aggiunta alla consapevolezza della situazione tipica occorre anche la consapevolezza e volontà di non
compiere un’azione (quella doverosa) rappresentata come possibile.
Nei reati commissivi mediante omissione, il dolo richiede la conoscenza della situazione tipica, nella quale
sorge l’obbligo di agire, e la volontà di non impedire l’evento, astenendosi da un’azione impeditiva
rappresentata come possibile.
È richiesta la consapevolezza della posizione di garanzia, sulla quale si fonda la tipicità del reato omissivo
improprio?
È necessaria la conoscenza di tutti gli elementi, descrittivi o normativi, in cui si esprime il significato tipico
del fatto illecito per omissione.
Il dolo richiede perciò la conoscenza degli elementi che danno corpo alla posizione di garante, e può
richiedere la conoscenza del dovere d’agire, quando i presupposti di tale dovere consistano in una
situazione di fatto normativamente qualificata.
Non fa parte del dolo, invece, la conoscenza della rilevanza penale dell’obbligo, cioè del principio legale,
espresso od implicito nel sistema, che qualifica come posizioni di garanzia dati rapporti negoziali o di vita.
La colpa.
Il problema della colpa concerne le condizioni per l’attribuzione di responsabilità penale per fatti illeciti
realizzati involontariamente (senza dolo).
Il fatto può essere rimproverato, ascritto a colpa, se è stato realizzato con inosservanza di regole di
comportamento aventi funzione cautelare, di tutela preventiva dell’integrità del bene offeso dal reato.
Condotta colposa è una condotta inosservante di regole cautelari, o di diligenza, finalizzate alla prevenzione
del fatto che è stato realizzato.
Statuisce l’art. 43 c.p.: il delitto “è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non
è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di
leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Il riferimento a regole cautelari ha una doppia rilevanza: le regole cautelari vengono in rilievo non solo nel
giudizio di colpevolezza, ma già sul piano della tipicità, nel senso che concorrono a precisare i contenuti
oggettivi del dovere posto dalla norma penale.
Il reato colposo viene tipizzato non semplicemente dalla norma penale, ma dalla combinazione di questa
con le regole di diligenza pertinenti all’attività di volta in volta considerata, differenziandosi dalla
corrispondente forma dolosa già nella struttura della fattispecie obiettiva.
Di fronte alla questione della colpa le buone intenzioni non sono una valida difesa.
I doveri di diligenza rilevanti per il diritto sono innanzi tutto doveri di acquisizione di conoscenza e di abilità.
Chiunque, agendo, entra in rapporto con interessi di altri, è tenuto a non offendere gli interessi di altri, e
perciò è tenuto a sapere e saper fare quanto gli occorre per condurre la sua attività (la sua vita) senza
combinare guai ad altri.
Il dovere di sapere riguarda direttamente le situazioni concrete in cui si agisce, o sulle quali cadono le
conseguenze del proprio agire.
Ai fini del giudizio di colpa occorre guardare alla situazione personale dell’agente, nel momento in cui ha
agito (o si è astenuto dal fare certe cose). Occorre individuare quali regole di diligenza egli fosse tenuto a
rispettare; quali i suoi doveri di sapere, di saper fare, di fare o non fare, nel tempo e nel contesto del fatto
di cui si discuta.
Il carattere colposo della condotta può consistere, innanzi tutto, nel mancato riconoscimento di rischi
riconoscibili.
Nel caso che la situazione di rischio sia conosciuta, la colpa potrà consistere nella mancata adozione di
comportamenti idonei a fronteggiare (neutralizzare, ridurre) il rischio.
Il dovere di evitare la realizzazione di eventi illeciti prevedibili, che costituisce il tratto fondamentale della
colpa, vale per lo svolgimento di qualsiasi attività.
Chi compie attività illecite, violando il divieto relativo a quelle attività, ovviamente non è esonerato
dall’osservanza di regole cautelari volte a prevenire la realizzazione di altri fatti vietati dal diritto penale.
Condotta diligente è quella conforme a cautele atte a prevenire il realizzarsi di un evento la cui
realizzazione, in assenza di quelle cautele, sarebbe prevedibile.
Il criterio di costruzione della regola è come prevenire eventi altrimenti prevedibili.
Anche in situazioni nuove occorre basarsi sulla scienza e sull’esperienza acquisita, per valutare eventuali
rischi ed individuare eventuali cautele di nuovo tipo. Le regole cautelari sono regole tecniche fondate sul
sapere scientifico.
A proposito degli standard di diligenza la dottrina richiama l’importanza degli usi sociali.
Le regole cautelari non sono usi sociali, ma criteri di controllo sulle prassi effettive.
L’agente modello.
La colpa va determinata alla stregua di ciò che avrebbe potuto prevedere e prevenire un agente ideale il
quale svolga, professionalmente o per assunzione volontaria anche occasionale, con la dovuta capacità e
competenza, la medesima attività per la quale si pone il problema della colpa di un agente reale.
Come regole generali devono poter valere per una pluralità di soggetti.
Agente modello eiusdem professionis vel condicionis (della stessa condizione e professione dell’agente
concreto): è il modello del buon agente nei diversi settori di attività, cui ciascun agente concreto dovrebbe
conformarsi.
Chi svolga un’attività che non è in grado di svolgere nel rispetto delle regole proprie di essa, e in
conseguenza di ciò realizza dei fatti penalmente illeciti, risponde a titolo di colpa per assunzione.
La colpa specifica.
Fonte di regole cautelari può essere la legge. Non c’è differenza fra regole cautelari non formalizzate e
regole cautelari assunte a contenuto di specifiche disposizioni di legge ed autonomamente sanzionate
come illecito penale o amministrativo.
Vengono richiamate anche categorie di atti non aventi valore di legge: regolamenti, ordini, discipline. Deve
trattarsi, in tutti i casi, di regole aventi funzione cautelare, la cui emanazione è autorizzata dal legislatore in
relazione a bisogni di disciplina di attività o situazioni potenzialmente pericolose.
La colpa specifica (per inosservanza di regole codificate) differisce dalla colpa generica (per inosservanza di
regole di diligenza non formalizzate) solo in ragione della fonte delle regole, fermo restando in tutti i casi il
contenuto cautelare delle regole.
Per regolamenti si intendono disposizioni di carattere generale, emanate da pubbliche autorità.
Per ordini e discipline si intendono disposizioni di carattere generale o individuale che possono essere
emanate sia da pubbliche autorità sia da soggetti privati, in relazione alla disciplina di particolari attività o
situazioni potenzialmente pericolose, e perciò bisognose di specifica regolamentazione ai fini della
sicurezza.
Fra le regole cautelari poste da fonti formali, possiamo trovare norme più o meno rigide, più o meno
elastiche. Norme rigide se i presupposti e il contenuto del dovere sono oggetto di puntuale descrizione,
nella loro materialità. Nella maggior parte dei casi, peraltro, le leggi speciali che contengono regole
cautelari contengono elementi di elasticità.
Anche in relazione a norme a struttura rigida il dovere di osservanza viene meno in casi eccezionali, in cui
l’osservanza si risolverebbe in aumento, e non diminuzione del rischio.
Regole cautelari e standard generalmente adottati.
Le regole cautelari che possono essere poste a fondamento del giudizio di colpa non possono essere che
regole chiaramente individuate, diffuse e consolidate, rientranti nel patrimonio delle conoscenze esigibili
dalla cerchia dei soggetti che svolgono quella attività in un determinato momento storico.
Un limite generale alla responsabilità per colpa è spesso indicato con la formula del rischio consentito.
Rischio consentito è un concetto puramente formale. Non addita un criterio di delimitazione della
responsabilità per colpa, ma è un modo di presentare il problema base della colpa, quello dei criteri
normativi (le regole cautelari) per il contenimento dei rischi entro un ambito accettabile, e perciò
consentito.
I confini del rischio permesso dipendono da un bilanciamento d’interessi: da un lato l’interesse allo
svolgimento d’una data attività, dall’altro lato la misura del rischio ad essa collegato, in funzione della
probabilità, del tipo, della gravità e del numero di eventi lesivi che potrebbero derivarne.
L’adempimento di doveri di sicurezza ha spesso un costo economico, più o meno consistente, e talora
molto consistente. Può la responsabilità per colpa essere condizionata da considerazioni di costo
economico?
Il dovere di attuazione di misure legalmente previste non può ritenersi limitato dalla considerazione dei
costi economici e da condizionamenti derivanti da esigenze produttive o dal contingente assetto
dell’impresa. L’attività insicura, ove il costo della sicurezza non sia sostenibile, non può essere avviata o
proseguita; il costo della sicurezza può non essere ritenuto ostativo, perché evitabile con la astensione dalla
attività.
Il limite del costo eccessivo viene in causa solo quando quel limite ultimo sia stato rispettato: nel senso,
cioè, che l’autorità non potrebbe imporre nuove tecnologie disponibili, capaci di ridurre ulteriormente il
livello d’inquinamento, se queste risultino eccessivamente costose per la categoria cui l’impresa
appartiene.
Il principio d’affidamento.
Gli standard di diligenza richiesti per i diversi campi di attività hanno importanza per tutti i partecipanti alla
vita di relazione, anche nel senso che concorrono a definire aspettative ragionevoli nelle situazioni regolate,
da parte dei diversi soggetti implicati in quelle situazioni.
Affidamenti fondati su aspettative normative possono considerarsi ragionevoli, ma solo fino a che non
siano messi in crisi da concreti elementi di fatto, che rendano prevedibile la condotta inosservante di altri.
Affidamenti reciproci sono condizione necessaria della cooperazione.
La prevedibilità dell’evento.
La colpa appare caratterizzata dalla prevedibilità: prevedibilità in concreto di un evento del tipo di quello
poi verificatosi hic et nunc.
Viene in rilievo l’insieme degli elementi della situazione concreta conosciuti o conoscibili dall’agente
concreto.
Se all’epoca della condotta non era ancora nota la cancerogenicità dell’esposizione, è possibile affermare la
colpa, o l’evento deve essere ritenuto imprevedibile? La giurisprudenza ha affermato la responsabilità per
colpa, per violazione delle regole cautelari volte alla protezione della salute, vigenti al tempo
dell’esposizione al fattore patogeno.
La corte di cassazione, nel confermare la sentenza d’appello, ha affermato che ai fini della colpa la
prevedibilità non necessariamente richiede la certezza scientifica che certe conseguenze possano prodursi,
ma è sufficiente la probabilità o anche la sola possibilità, purchè fondata su elementi concreti e non solo
congetturali.
L’imputazione per colpa esige che l’evento si sia verificato a causa della negligenza imprudenza imperizia.
Non basta che la condotta sia stata inosservante della regola cautelare, e nemmeno basta che la condotta
colposa sia stata altresì condizione dell’evento. È necessario che l’inosservanza della regola cautelare sia
stata rilevante ai fini della produzione dell’evento; l’imputazione dell’evento per colpa non è proponibile
qualora, in concreto, l’inosservanza della regola sia stata neutra rispetto al verificarsi dell’evento.
L’esigenza di una misura soggettiva della colpa, tale da poter escludere la colpevolezza pur in presenza di
un’obiettiva violazione di standard di diligenza, si porrebbe in casi particolari, di deficit di capacità
intellettive o di deficit di socializzazione dell’agente.
Particolari condizioni personali possono di regola venire in rilievo nella stessa determinazione degli
standard obiettivi di diligenza. Modelli differenziati di diligenza terranno conto per esempio di handicap
fisici che non impediscano lo svolgimento di date attività, ma esigano l’adozione di cautele modellate su tali
caratteristiche, eventualmente sostitutive di quelle valide per soggetti normali in condizioni normali.
Capacità e conoscenze specialistiche superiori alla media non impongono un più elevato standard, rispetto
all’agente modello del campo di attività di cui si discuta.
Al caso fortuito il codice Rocco dedica una apposita disposizione (art. 45 c.p.): “Non è punibile chi ha
commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore”.
Il fortuito è qualcosa di imponderabile, improvviso ed imprevedibile, dal quale deriva l’evento vietato dalla
legge.
Lo stesso è a dirsi per la forza maggiore. Vis maior cui resisti non potest (evento non resistibile fisicamente),
la forza maggiore esclude la stessa configurabilità del coefficiente psichico dell’azione.
Un caso particolare di forza maggiore è il costringimento fisico, cui si riferisce l’art 46 c.p.: “Non è punibile
chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto da altri, mediante violenza fisica alla quale non poteva
resistere o comunque sottrarsi. In tal caso, del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore
della violenza”.
Forza irresistibile che promana dall’uomo, non dalla natura.
Il codice Rocco contiene una espressa disposizione (art. 47 c.p.) relativa all’errore sul fatto: “L’errore sul
fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato
da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
L’errore o ignoranza escludente il dolo è l’errore essenziale, ricadente cioè su un elemento o su un aspetto
della realtà, dal quale dipende la tipicità del fatto.
Non esclude invece il dolo l’errore che cada su un profilo del fatto storico irrilevante rispetto alla tipicità del
fatto.
Definito il dolo come coscienza e volontà del fatto costitutivo di reato, ne deriva che un errore su un
elemento del fatto, facendo venire meno la conoscenza di detto elemento, esclude il dolo, senza bisogno di
una disposizione espressa che ciò ribadisca.
Una disposizione che appartenga, per origine e funzione, ai campi del diritto civile o amministrativo,
commerciale o del lavoro o tributario, e così via, può essere allo stesso tempo una norma penale.
In tali casi l’errore sul precetto richiamato è un errore sul precetto penale.
Il codice Rocco contiene numerose disposizioni definitore. Le disposizioni definitore non sono norme
autonome e complete, ma hanno una funzione servente rispetto ai precetti penali contenenti i termini
legalmente definiti. Pertanto, l’erronea interpretazione delle disposizioni definitore si risolve in errore sul
significato che il termine definito assume nel precetto penale, e in definitiva in un errore che cade sul
precetto penale.
Ala medesima conclusione deve pervenirsi anche con riguardo a disposizioni definitore che, per origine e
campo di materia, appartengano a settori extrapenali dell’ordinamento giuridico.
La teoria delle norme integratrici e la pratica disapplicazione dell’art. 47 c.p. ultimo comma.
Il campo praticamente controverso è quello dell’errore sugli elementi normativi della fattispecie,
caratterizzati dal rilievo che la legge penale attribuisce a qualificazioni normative derivanti da norme non
penali.
Distinzione fra disposizioni integratrici e non integratrici del precetto penale.
Il criterio di distinzione, che la giurisprudenza ha formulato, allarga al massimo l’ambito delle norme
ritenute integratrici: ai fini dell’errore, per norma penale sarebbe da intendere non solo quella che
stabilisce la punibilità di un determinato fatto, ma ogni altra norma, che pur essendo contenuta in una
legge civile amministrativa è richiamata da quella penale e la integra, determinando il precetto penale vero
e proprio.
Potrebbe essere propriamente considerata legge extrapenale, ai fini dell’art. 47 c.p., solo una legge
destinata in origine a regolare rapporti giuridici non di carattere penale e che non sia richiamata in una
norma penale né in essa esplicitamente o implicitamente incorporata.
La giurisprudenza ha sistematicamente considerato come errore sulla legge penale qualsiasi errore su
norme qualificatrici di elementi normativi.
Il rapporto degli elementi normativi con la legge extrapenale è un rapporto complesso, in cui possiamo
distinguere due diversi momenti:
Il nucleo significativo del concetto normativo, consistente nel recepire e nel rendere rilevante in sede
penale una data qualifica extrapenale;
Il conseguente riferimento a fattispecie extrapenali, quali criteri per l’applicazione della qualifica nei casi
concreti.
L’erronea individuazione della qualifica extrapenale, espressa dal concetto normativo, è un errore sul
significato del precetto penale, sicuramente riconducibile all’art. 5 c.p.. Per contro, l’errore sulle fattispecie
extrapenali, da cui dipenda la concreta applicazione della qualifica, è un errore in tutto compatibile con la
comprensione del precetto penale.
La conoscenza delle norme extrapenali, teoricamente presupposte dagli elementi normativi, non è parte
indefettibile del dolo: anche e soprattutto con riguardo agli elementi normativi, vale il principio che la
conoscenza richiesta è una conoscenza profana, secondo gli schemi concettuali propri dell’agente.
La rilevanza scusante dell’errore extrapenale, nei termini di cui all’art. 47 c.p., non è che una conseguenza
logica dei principi generali sul dolo, in relazione agli elementi normativi del fatto. La distinzione
fondamentale ai fini dell’errore non è fra l’errore di diritto e l’errore di fatto, ma è fra l’errore sul precetto e
l’errore sul fatto.
In caso di errore su legge extrapenale determinato da colpa la responsabilità non è esclusa quando il reato
sia previsto anche nella forma colposa.
Stabilisce l’art. 47 c.p., secondo comma, che “l’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non
esclude la punibilità per un reato diverso”.
Errore su elementi specializzanti, che concorrano a tipizzare una figura speciale di reato.
La non conoscenza dell’elemento specializzante è compatibile con il dolo del reato previsto dalla norma
generale. È questo il reato diverso, la cui punibilità si dice non esclusa dal secondo comma dell’articolo.
L’errore sull’elemento specializzante esclude il dolo del reato speciale, e lascia residuare una responsabilità
per il reato meno grave, dolosamente realizzato.
La preterintenzione, intenzione fra dolo e colpa, e altre ipotesi genericamente evocate dall’art. 42 c.p.,
terzo comma: “La legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente, come
conseguenza della sua azione od omissione”.
Definiamo responsabilità oggettiva l’attribuzione di responsabilità ad un dato soggetto, per un fatto da lui
materialmente causato o commesso, prescindendo dall’esistenza o comunque dalla prova della
colpevolezza.
La disciplina della responsabilità del direttore di stampa periodica, ex art. 57 c.p., per reati commessi a
mezzo della stampa è stata modificata dalla l.127/1958, che fonda la responsabilità sulla colposa omissione
di controllo.
La disciplina è sostanzialmente una disciplina di parte speciale, relativa ad una particolare materia, quella
dei reati commessi per mezzo della stampa, che sono delitti d’opinione. Il direttore risponde per colpa e a
titolo di colpa anche per delitti che la legge congiura come dolosi; la pena è quella prevista per il delitto
doloso, diminuita fino a un terzo. Non è più un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma resta una forma di
responsabilità anomala rispetto alla normale struttura del sistema.
L’imputazione obiettiva delle circostanze aggravanti è stata eliminata dalla l.19/1990. Secondo la nuova
formulazione dell’art. 59 c.p., le aggravanti possono essere valutate a carico dell’agente solo se da lui
conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.
L’imputazione oggettiva di alcuni elementi si innesta su un fatto.base doloso o colposo; l’idea sottesa è che
chi versa colpevolmente nell’illecito può essere ritenuto responsabile di tutte le conseguenze che possano
derivare dal suo agire colpevole: qui versat in re illicita respondet etiam pro casu.
Chi ha tenuto una condotta illecita risponde di tutte le conseguenze che ne siano derivate, anche se dovute
al caso.
In relazione ad un fatto non voluto la responsabilità colpevole può essere affermata sulla base della colpa: il
fatto deve essere derivato da inosservanza di regole cautelari volte a prevenire la prevedibile realizzazione.
Se però si assume il criterio del versari in re illicita a criterio autonomo per l’attribuzione di responsabilità,
esso conduce ad affermare la responsabilità penale anche in relazione ad eventi che sono conseguenze
causali di condotte illecite sì, ma non inosservanti di una regola cautelare rispetto a quel tipo di evento.
Per tutti gli istituti che appaiano costruiti in chiave di versare in re illicita, si pone il problema se essi
corrispondano o non corrispondano, in concreto, al modello della responsabilità per colpa.
Il delitto (così recita l’art. 42 c.p.) “è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od
omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”.
La figura della preterintenzione si caratterizza per una struttura complessa: una condotta di base dolosa,
volta a commettere un dato tipo di reato e la realizzazione di un evento che integra un delitto più grave.
Ricostruzione dell’istituto come misto di dolo e di responsabilità oggettiva: per l’imputazione dell’evento
più grave basterebbe il nesso causale, il codice non esige che l’evento più grave sia dovuto a negligenza o
imprudenza, tutt’al più rifletterebbe l’idea della colpa per inosservanza di legge penale.
La ricezione costituzionale del principio di colpevolezza impone che la preterintenzione sia ricostruita come
dolo misto a colpa, riferendosi il dolo al reato meno grave avuto di mira, e la colpa all’evento più grave in
concreto realizzatosi.
La struttura e i problemi del delitto oltre l’intenzione si ritrovano nella categoria dei reati aggravanti
dell’evento: per tali intendendosi quelli in cui sia prevista una fattispecie base dolosa o colposa e una
responsabilità più grave qualora ne derivi un evento ulteriore di un dato tipo, non voluto dall’agente.
Reato aberrante.
Ipotesi di reato aberrante: ipotesi in cui, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione o per altra causa, sia
stata cagionata offesa a persona diversa da quella contro cui l’offesa era diretta (aberratio ictus) ovvero sia
stato cagionato un evento diverso da quello voluto (aberratio delicti).
Aberratio delicti.
Viene definita aberratio delicti l’ipotesi che sia stato realizzato un evento costitutivo di un reato diverso da
quello voluto.
Dell’evento non voluto il soggetto agente risponde se il fatto è previsto come reato colposo, ed è stato
realizzato per colpa. L’art. 83 c.p. dà la seguente risposta: l’agente “risponde, a titolo di colpa, dell’evento
non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
Un’ipotesi particolare di aberratio delicti è quella di cui all’art. 586 c.p.: morte o lesioni come conseguenza
non voluta di un altro delitto doloso (delitto preterintenzionale).
Aberratio ictus.
Per il caso di aberratio ictus (aberrazione del colpo) l’art. 82 c.p. detta una disciplina diversa e più
problematica. Qui il soggetto agente voleva offendere e ha realizzato l’offesa, ma nei confronti di una
persona diversa da quella presa di mira.
Il soggetto agente “risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva
offendere”.
L’evento concretamente realizzato viene imputato a titolo di dolo, pur non essendo l’evento voluto in
concreto dall’agente: è un evento dello stesso tipo verificatosi per una deviazione dell’iter causale.
Il rapporto fra la volontà dell’agente e l’evento realizzato è il medesimo che nella aberratio delicti.
L’art. 44 c.p. stabilisce: “Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione,
il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui
voluto”.
Una deroga ai principi: la disciplina dell’errore sull’età della persona offesa nei delitti sessuali.
Nella parte speciale del codice, una deroga specifica ai criteri generali d’imputazione soggettiva è prevista
in materia di delitti sessuali: se il delitto è commesso in danno di persona minore di 14 anni, il colpevole
non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa.
Se l’età dell’infraquattordicenne è nota all’agente, il fatto è doloso. Se non è nota in conseguenza di un
errore evitabile, la negazione di rilevanza ad un tale errore costituisce un criterio di responsabilità anomala,
nel senso che la punizione a titolo di delitto doloso sarebbe collegata ad un fatto strutturalmente colposo.
Il principio di colpevolezza fonda la responsabilità penale sulla premessa che dall’autore del reato fosse
esigibile un comportamento diverso, conforme alla legge.
Il panorama dottrinale presenta un rifiuto pressoché totale dell’inesigibilità quale causa generale di scusa,
dovuto alla sua incompatibilità con primarie esigenze di tenuta dell’ordinamento e di determinatezza dei
confini della responsabilità personale.
Il codice Rocco, recependo il principio “ignorantia iuris non excusat”, all’art 5 c.p. stabiliva: “Nessuno può
invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale”.
La commissione dolosa o colposa di un fatto costituente reato, nell’ignoranza della sua illiceità.
L’ignoranza o l’errore sull’illiceità del fatto commesso non escludono la responsabilità penale, qualora
sussistano i presupposti positivi della responsabilità altrimenti prevista dalla legge.
Anche se non esiste un dovere autonomo di conoscenza delle singole leggi penali, il dovere primario di
osservanza della legge trae con sé l’esigenza di comportamenti strumentali all’osservanza: doveri
strumentali d’attenzione, prudenza…nel muoversi in campi prevedibilmente lesivi di interessi altrui.
Il cittadino deve fare quanto in suo potere per osservare la legge; ma lo stato non può punire senza porre
preventivamente il cittadino in condizioni di conoscere la legge.
La questione dell’evitabilità o meno dell’errore sorgerà di fronte a situazioni, per così dire, di oscurità
relativa, nelle quali la conoscenza della legge, astrattamente possibile, non sia direttamente accessibile al
destinatario e richieda particolari mediazioni.
Chi, attendendosi scrupolosamente alle richieste preventive dell’ordinamento, agli obblighi di solidarietà
sociale di cui all’art. 2 Cost., adempia a tutti i predetti doveri strumentali e ciò non ostante venga a trovarsi
in stato d’ignoranza della legge penale, non può essere stato trattato allo stesso modo di chi
deliberatamente o per trascuratezza violi gli stessi doveri.
L’errore inevitabile, che esclude la colpevolezza, deve essere pertanto identificato, in via generale, con
l’errore che non si è potuto evitare nemmeno attraverso l’adempimento dei doveri strumentali
d’informazione.
Nel caso di soggettiva invincibilità del dubbio sulla liceità o illiceità di un dato comportamento sarebbe
doveroso astenersi dall’azione la cui liceità non sia sicura.
E se il dubbio, oggettivamente irrisolvibile, sull’illiceità penale concerna sia il compimento sia il non
compimento di una data azione? In tal caso, nessuna scelta pone al riparo dal rischio dell’errore; se il
soggetto ha fatto quanto dovuto per risolvere il dubbio, senza ottenere una soluzione sicura, la difformità
della scelta compiuta da quella ritenuta legittima ex post dal giudice non può essere oggetto di rimprovero.
L’ignoranza dei doveri militari.
L’art. 39 del codice penale militare di pace sanciva non potersi invocare a scusa l’ignoranza dei doveri
inerenti allo stato militare.
La corte costituzionale ha dichiarato non fondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 39
c.p.m.p., in relazione all’art. 47 c.p., con sentenza interpretativa di rigetto: con consapevole distacco dalla
volontà del legislatore storico, ha delimitato la portata del principio d’inescusabilità dell’errore sui doveri
militari all’errore o ignoranza sulle fonti normative dei doveri, mentre gli atti amministrativi che
condizionano il dovere in concreto sono fatti od atti che rendono operante il dovere in astratto disciplinato
dalla norma giuridica, e perciò si ricollegano al principio di cui alla prima parte dell’art. 47 c.p..
Con la successiva sentenza l’art. 39 c.p.m.p. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in
cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza dei doveri inerenti allo stato militare l’ignoranza
inevitabile.
È possibile fondare un rimprovero di colpevolezza nei confronti di chi abbia commesso volontariamente un
fatto costitutivo di reato, nell’erronea supposizione di trovarsi in una situazione che, se esistente, avrebbe
reso legittimo il fatto?
In casi del genere c’è una realizzazione volontaria di un fatto penalmente tipico e obiettivamente
antigiuridico, determinata, però, dall’erronea rappresentazione di una situazione scriminante.
La forma più grave di colpevolezza deve dunque essere esclusa: ancorché realizzato volontariamente, il
fatto realizzato nell’erronea supposizione d’una situazione scriminante non può essere imputato a titolo di
dolo.
Se ne è derivato un fatto di lesioni o di omicidio, cioè un delitto previsto anche nella forma colposa,
sussistono tutte le condizioni per affermare la responsabilità dell’autore del fatto, a titolo di colpa. La colpa
sarebbe invece esclusa, e con essa la responsabilità penale, qualora l’errore sia da ritenere ragionevole
nella situazione concreta.
In relazione a delitti per i quali non sia prevista la responsabilità per colpa, l’erronea supposizione di una
situazione scriminante esclude la responsabilità in qualsiasi caso.
Queste conclusioni sono affermate dall’art. 59 c.p.: “Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze
di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore dell’imputato. Tuttavia se si tratta di errore
determinato da colpa, la responsabilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto
colposo”.
Ipotesi dell’errore di diritto, in forza del quale il soggetto agente, in una situazione di fatto che si è
correttamente rappresentato, abbia ritenuto applicabile una causa di giustificazione non prevista
dall’ordinamento, o che comunque non comprende tale situazione. In casi del genere non v’è alcun errore
sulla situazione di fatto, ma solo un errore sull’illiceità, disciplinato dall’art. 5 c.p., che esclude la
colpevolezza solo se inevitabile, e, se evitabile, è perfettamente compatibile con la responsabilità per dolo.
L’eccesso colposo.
La medesima rilevanza dell’erronea supposizione di una situazione scriminante compete all’eccesso colposo
dai limiti di una scriminante effettivamente esistente.
Dispone l’art. 55 c.p.: “quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53, 54 c.p., si
eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’autorità, si applicano le disposizioni
concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
L’imputabilità.
Causa di esclusione della colpevolezza è il vizio totale di mente: “non è imputabile che, nel momento in cui
ha commesso i fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di
volere” (art. 88 c.p.).
Capacità d’intendere significa capacità di normale percezione della realtà, e capacità di comprendere il
significato del proprio comportamento.
Capacità di volere significa capacità di autodeterminazione, cioè capacità di scelte d’azione non
determinate da condizioni psichiche che escludano la possibilità di controllo e di scelta.
L’infermità che dà luogo al vizio di mente può essere sia infermità fisica, che comporta conseguenze
psicologiche; sia infermità psichica.
Il contributo che il sapere scientifico può dare riguarda il primo livello del giudizio sull’imputabilità, cioè
l’accertamento delle condizioni psichico dell’imputato. Lo strumento processuale necessario è la perizia
psichiatrica.
Il giudizio sull’imputabilità non si conclude con l’individuazione di un’eventuale infermità o disturbo di
personalità, ma comporta un’ulteriore valutazione dell’incidenza dell’infermità o del disturbo sulle capacità
di discernimento e di volizione dell’imputato.
Ai fini della non imputabilità è necessario un nesso eziologico fra infermità e reato, come già affermato da
un consistente indirizzo giurisprudenziale e dottrinale: il reato deve avere avuto nel vizio di mente la sua
causa.
Per l’art. 90 c.p. “gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”.
Art. 89 c.p.: “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da
scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso;
ma la pena è diminuita”.
Fra vizio totale e vizio parziale vi è una differenza esclusivamente quantitativa, dipendente cioè dal grado
d’incidenza dell’infermità sulla psiche del soggetto agente.
Il semi-infermo di mente è un soggetto imputabile, la sua infermità ha rilievo su un piano interno al giudizio
di responsabilità penale, quale presupposto di una minore colpevolezza.
Fra le cause che possono incidere sulla capacità di intendere e di volere vi è l’assunzione di sostanze che
alterino anche transitoriamente le normali condizioni psichiche, quali l’alcool e le sostanze stupefacenti.
Esclude l’imputabilità l’ubriachezza accidentale, cioè derivata da caso fortuito o da forza maggiore (art. 91
c.p.), quando escluda totalmente la capacità di intendere o di volere. “Se l’ubriachezza non era piena, ma
era tuttavia tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, l pena è
diminuita”.
Non esclude né diminuisce l’imputabilità l’ubriachezza volontaria o colposa (art. 92 c.p.). “Se l’ubriachezza
era preordinata al fine di commettere il reato, o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata”.
Con espressa disposizione (art. 93 c.p.) è equiparata all’ubriachezza, ai fini dell’imputabilità, la stupefazione
(alterazione di mente a seguito dell’azione di sostanze stupefacenti).
Derogando al principio generale di cui all’art. 85 c.p., l’art. 92 c.p. riconosce pienamente imputabile il
soggetto in stato di ubriachezza colposa o volontaria, anche quando si trovi al momento del commesso
reato in uno stato di totale incapacità di intendere e di volere.
Dispone l’art. 94 c.p.: “Quando il reato è commesso in stato di ubriachezza, e questa è abituale, la pena è
aumentata. Agli effetti della legge penale, è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande
alcooliche e in stato frequente di ubriachezza. L’aggravamento di pena stabilito nella prima parte di questo
articolo si applica anche quando il reato è commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti da chi è dedito
all’uso di tali sostanze”.
Nel caso di cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, è espressamente prevista dall’art.
95 c.p. l’applicabilità delle norme sul vizio di mente. L’intossicazione cronica è cioè considerata come
infermità, capace di escludere o diminuire la capacità di intendere o di volere del soggetto.
Si ha intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti quando l’intossicazione per il suo carattere
ineliminabile e per l’impossibilità di guarigione provoca alterazioni patologiche permanenti, tali da far
apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte ad una vera e propria malattia psichica.
Sordomutismo.
“Non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della
sua infermità, la capacità d’intendere o di volere” (art. 96 c.p.).
Nel caso di capacità grandemente scemata, la pena è diminuita.
Minore età.
“Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”
(art. 97 c.p.).
“E’ imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non
ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere; ma la pena è diminuita” (art. 98 c.p.).
Al di sotto di una soglia attualmente fissata ai 14 anni, il minore non è imputabile; la sua incapacità è
presunta, e si tratta di una presunzione assoluta.
La capacità del minore di età fra i 14 e i 18 anni va invece accertata in concreto, caso per caso, e per il
giudice esiste un obbligo di specifica motivazione circa l’accertamento effettuato.
L’accertamento sulla personalità del minore al fine del giudizio d’imputabilità deve avvenire in stretto
riferimento al fatto commesso. L’imputabilità di uno stesso soggetto può essere ritenuta per alcuni reati e
esclusa per altri, in considerazione della maggiore o minore avvertibilità del disvalore etico-sociale del fatto.
Indipendentemente dal giudizio sulla maturità, anche nei confronti di un minore infraquattordicenne può
essere ricnosciuto il vizio totale o parziale di mente secondo i criteri generali di cui agli artt. 88, 89 c.p..
Quando il minore che abbia commesso il reato fra i 14 e i 18 anni viene riconosciuto capace di intendere e
di volere, la minore età comporta una diminuzione di pena.
L’art. 87 c.p. disciplina l’ipotesi in cui taluno abbia messo in stato d’incapacità sé stesso, al fine di
commettere un reato o di prepararsi una scusa. In tal caso non si applica la disposizione della prima parte
dell’art. 85 c.p.: l’incapacità al momento del commesso reato, se preordinata dall’agente, non esclude
l’imputabilità.
La dottrina parla, con riguardo a tale situazione, di actio libera in causa.
Il mettersi in stato d’incapacità al fine di commettere un reato non è che una modalità scelta dall’autore
per la realizzazione del fatto, ed è su questa libera scelta che può appuntarsi il rimprovero di colpevolezza.
Nel caso che l’incapacità procurata consista in ubriachezza o assunzione di stupefacenti, la pena è
aumentata (art. 92 c.p.).
In base ai principi generali non derogati, la responsabilità per reato doloso richiede il dolo, anche nel caso di
colui che ha commesso il fatto di reato in stato di incapacità ma è considerato imputabile dalla legge. La
responsabilità per colpa richiede che il fatto sia stato realizzato con violazione di una regola cautelare; e
tale carattere va verificato con riguardo alla condotta causale rispetto all’evento.
L’incapacità attiene alle condizioni del formarsi delle rappresentazioni e volizioni dell’incapace, ma non
esclude che questi, quando agisce, si rappresenti la realtà in un dato modo, e voglia qualcosa. L’ubriaco o il
pazzo omicida sanno e vogliono uccidere; il processo decisionale è viziato dall’incapacità, ama la volontà
può sussistere pienamente.
L’elemento soggettivo minimo integrante il dolo, nei soggetto naturalisticamente incapaci, è dunque la
volontà abnorme di realizzare il fatto. Sul piano della colpa verrà in rilievo l’avere tenuto una condotta
obiettivamente difforme da una regola cautelare.
Persino nel caso che l’incapacità sia stata preordinata, l’imputazione per dolo esige anche la coscienza e
volontà del fatto nel momento in cui questo è stato commesso.
La volontarietà dell’ubriacarsi o drogarsi non implica la coscienza e volontà del fatto commesso in stato
d’ubriachezza; la colposità dell’ubriacarsi non implica di per sé sola il carattere colposo del fatto.
Il problema dell’elemento soggettivo si pone anche in relazione al fatto di soggetti non imputabili, al fine
dell’eventuale applicabilità di misure di sicurezza.
L’elemento soggettivo dell’incapace va accertato secondo le regole generali.
Oggetto di discussione è la disciplina applicabile nel caso di errore condizionato, determinato cioè dallo
stato d’incapacità.
La giurisprudenza ha ritenuto che lo stato di ebbrezza non può essere argomento né per affermare né per
escludere la colpevolezza, né per fare all’imputato d’un reato commesso in stato d’ubriachezza non
accidentale un trattamento deteriore rispetto alla generalità dei soggetti.
Più complessa è la questione della rilevanza dell’errore del non imputabile, ai fini dell’applicazione di
misure di sicurezza. Se un errore sul fatto, escludente il dolo, ha la sua causa nell’infermità, esso costituisce
un dato significativo per la valutazione della pericolosità del soggetto, che è il presupposto normativo
dell’applicazione della misura di sicurezza. Per questa ragione, la dottrina prevalente nega all’errore
condizionato da infermità la rilevanza (esclusione del dolo) che altrimenti l’errore sul fatto avrebbe.
Il reato circostanziato.
Possibilità per il legislatore di prendere in considerazione dati elementi, non come elementi essenziali di un
dato tipo di reato, bensì come elementi rilevanti per la valutazione di gravità del fatto, e conseguentemente
per la determinazione della risposta penale.
Istituti di questo tipo vengono definiti circostanze: si tratta di elementi che circum stant, stanno intorno a
un fatto di reato che è perfetto indipendentemente da essi. Si tratta di elementi accidentali che possono
mancare senza che il reato venga meno.
Le circostanze si distinguono in aggravanti ed attenuanti.
La disciplina delle circostanze è caratterizzata dalle conseguenze sul regime sanzionatorio.
Gli aumenti o le diminuzioni di pena, correlati ad una circostanza, sono di regola fino a un terzo (rispetto
alla pena applicabile indipendentemente dalla circostanza). Vi sono anche casi in cui la pena per il reato
circostanziato è determinata in modo indipendente dalla pena base, o in modo diverso dalla regola
generale.
Il codice distingue (art. 70 c.p.) fra circostanze oggettive e soggettive: “Agli effetti della legge penale:
Sono circostanze oggettive quelle che concernono la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e
ogni altra modalità dell’azione, la gravità del danno o del pericolo, ovvero le condizioni o le qualità
personali dell’offeso;
Sono circostanze soggettive quelle che concernono la intensità del dolo o il grado della colpa, o le
condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l’offeso, ovvero che sono
inerenti alla persona del colpevole. Le circostanze inerenti alla persona del colpevole riguardano la
imputabilità e la recidiva”.
Circostanze aggravanti e attenuanti comuni, applicabili teoricamente a tutti i reati, sono previste nella parte
generale del codice: le aggravanti previste nell’art. 61 c.p.; le attenuanti previste negli artt. 62, 62-bis c.p.;
le circostanze inerenti alla persona del colpevole, indicate nell’art. 70 c.p. (recidiva, artt. 99 s. c.p., e
circostanze attinenti alla disciplina dell’imputabilità, artt. 89, 92 s., 98 c.p.); le circostanze attinenti al
tentativo e al concorso di persone nel reato. Circostanze speciali, applicabili specificamente a un reato o
gruppo di reati, sono largamente disseminate nella parte speciale.
Le circostanze comuni.
Circostanze aggravanti.
L’art. 62-bis c.p. tratta dell’istituto delle attenuanti generiche: “Il giudice, indipendentemente dalle
circostanze prevedute nell’art. 62 c.p., può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le
ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini
dell’applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più
delle circostanze indicate nel predetto art. 62 c.p.”.
È esplicito il rinvio a valutazioni discrezionali del giudice: qualsiasi elemento può venire in rilievo, se il
giudice lo ritiene tale da giustificare una diminuzione della pena. Gli elementi che giustificano la
concessione delle attenuanti generiche, debbono essere diversi da quelli altrimenti tipizzati come
circostanze attenuanti; il medesimo elemento, cioè, non può essere valutato più volte.
La concessione della attenuante potrà essere giustificata, quando un dato elemento abbia un significato
attenuante particolarmente spiccato, equiparabile a quello delle attenuanti tipizzate dalla legge.
Sotto la classificazione di circostanze inerenti alla persona del colpevole l’art. 70 c.p. raggruppa le
circostanze concernenti l’imputabilità, e la recidiva. Si tratta di circostanze spiccatamente soggettive.
Le circostanze relative all’imputabilità comprendono, da un lato, le attenuanti relative al vizio parziale di
mente ed alla minore età (artt. 89, 91, 98 c.p.); dall’altro lato, le aggravanti dell’ubriachezza preordinata a
commettere il reato (art. 92 c.p.) e dell’ubriachezza abituale (art. 94 c.p.).
La recidiva (art. 99 c.p.) è una circostanza aggravante. È recidivo chi dopo essere stato condannato per un
delitto non colposo, ne commette un altro. La recidiva presuppone una precedente condanna definitiva;
non basta l’avere già commesso in precedenza un reato. Per i delitti colposi e le contravvenzioni la recidiva
non ha alcun rilievo.
La novella del 2005 ha reintrodotto una ipotesi di recidiva obbligatoria, mantenendo nella maggior parte
dei casi la facoltatività, ed ha reso più consistenti le misure degli aumenti di pena.
Questi gli aumenti di pena in caso di applicazione della recidiva:
Di un terzo nel caso di recidiva semplice;
Fino alla metà nelle ipotesi di recidiva qualificata: recidiva specifica (se il nuovo delitto è della stessa indole
del precedente), o infraquinquennale, o se il nuovo delitto è stato commesso durante o dopo l’esecuzione
della pena, o nel tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena;
Della metà quando concorrano più circostanze fra quelle sopra indicate;
Nel caso di recidiva reiterata (commissione di un nuovo delitto non colposo da parte del già recidivo)
l’aumento è della metà nel caso di recidiva semplice, e di due terzi nel caso di recidiva qualificata;
la definizione di reati della stessa indole è data dall’art. 101 c.p.: sono tali quelli che violano la stessa
disposizione di legge, e quelli che per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li
determinarono, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentalmente comuni.
Un limite espresso all’aumento di pena per la recidiva è che esso non può superare il cumulo delle pene
risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo reato (art. 99 c.p.).
È stata reintrodotta un’ipotesi di aumento obbligatorio, per tutti i tipi di recidiva, nel caso di commissione
di uno dei delitti di cui all’art. 407 c.p.p..
In tutti gli altri casi la recidiva resta facoltativa, rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice.
La recidiva reiterata è oggetto di una disciplina derogatoria rispetto alla regola generale del bilanciamento
fra aggravanti e attenuanti (art. 69 c.p.): vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti.
Un ulteriore effetto di maggior rigore, previsto per il caso di applicazione della recidiva reiterata, riguarda la
disciplina del reato continuato.
Gli effetti più significativi (e non facoltativi) dell’essere stato già condannato non stanno nell’aggravante
dell’art. 99 c.p., ma in effetti preclusivi rispetto all’applicazione di istituti favorevoli al condannato.
Dopo la presa d’atto della rilevanza costituzionale del principio di colpevolezza, una novella legislativa ha
introdotto anche per le circostanze aggravanti un criterio di imputazione soggettiva, modificando l’art. 59
c.p.: le aggravanti possono essere valutate a carico dell’agente solo se da lui conosciute, o ritenute
inesistenti per errore determinato da colpa.
È rimasta ferma la regola (art. 59 c.p.) secondo cui se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze
aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate a favore o contro di lui.
È pure rimasta ferma la regola della rilevanza oggettiva delle circostanze attenuanti, le quali (art. 59 c.p.)
sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti.
L’unica deroga al regime d’imputazione delle circostanze è costituita dalla disciplina dell’errore sulla
persona dell’offeso, nei casi considerati dall’art. 60 c.p. e dall’art. 82 c.p..
L’art. 60 c.p. recita: “Nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente
le circostanze aggravanti che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso
e colpevole. Sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che
concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti”.
Le differenze di disciplina.
Se si tratta di elemento costitutivo di una autonomo titolo di reato doloso, per affermare la responsabilità
penale quell’elemento dovrà essere coperto dal dolo; se si tratta di circostanza, è sufficiente in ogni caso la
colpa.
Se si tratta di circostanza aggravante o attenuante, può rientrare nel bilanciamento con circostanze di
natura opposta, ai sensi dell’art. 69 c.p..
I criteri di distinzione.
La qualificazione di circostanza può risultare da dati testuali inequivoci; è espressa di solito nella rubrica o
nel testo di un articolo, ed è chiaramente leggibile in formule quali “la pena è aumentata” ovvero “la pena è
diminuita”.
Criteri testuali sono l’eventuale nomen iuris adottato dal legislatore, o la collocazione della norma in un
articolo autonomo ovvero nello stesso articolo che prevede il reato semplice. Criteri strutturali, cui viene
riconosciuto maggior peso, sono le modalità di descrizione della fattispecie o di determinazione della pena.
Il criterio teleologico si basa sulla natura del bene giuridico tutelato: se l’elemento specializzante immuta il
bene tutelato, ciò sarebbe indice che si tratta di un titolo di reato autonomo.
Tra elementi costitutivi ed elementi circostanziali del reato non esiste alcuna differenziazione ontologica:
non vi sono, cioè, criteri rigidi di differenziazione, indipendenti dalle scelte del legislatore. Ma se si parte
dalla premessa che la scelta del legislatore non è legata a differenziazioni ontologiche, nessun criterio
sostanziale può prospettarsi come sicuro e vincolante.
Non essendovi criteri ontologici di differenziazione, la certezza del diritto può essere assicurata solo da una
chiara espressione della scelta del legislatore.
Il delitto tentato.
Il reato è consumato, con le conseguenze che per legge ne derivano, quando è stato integralmente
realizzato il fatto previsto dalla norma incriminatrice.
L’ideazione, di per sé, è fuori dalla portata del diritto penale (cogitationis poenam nemo patitur).
L’art. 56 c.p. recita: “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto,
risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”.
La punibilità del tentativo, quale che sia il modello di disciplina adottato, dà luogo ad una anticipazione
dell’intervento penale, rispetto all’offesa all’interesse protetto incorporata nella consumazione del reato.
La figura del tentativo si colloca nella categoria dei reati di pericolo.
La punibilità del tentativo è espressamente delimitata ai delitti, e sotto il profilo soggettivo è ancorata al
dolo, criterio normale d’imputazione soggettiva nell’ambito dei delitti.
Un tentativo di contravvenzione non ha rilievo penale.
Le fattispecie di delitto tentato nascono dalla combinazione delle fattispecie delittuose di parte speciale
con la clausola generale (art. 56 c.p.) che estende la punibilità a fatti prodromici rispetto alla consumazione
del delitto previsto dalla norma di parte speciale.
È possibile tipicizzare delitti di attentato o a consumazione anticipata: per tali intendendosi delitti
consistenti nella realizzazione di atti diversi a un dato risultato, la cui realizzazione non è però un elemento
della fattispecie.
Nello sviluppo del piano criminoso possono distinguersi fasi diverse, che si suole raggruppare nelle due
grandi categorie degli atti preparatori e degli atti d’esecuzione.
L’art. 115 c.p. dispone: “Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo
scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto
dell’accordo”; lo stesso vale per il caso di istigazione, anche accolta, se il reato non è stato commesso.
Tutto ciò non significa che il diritto penale si disinteressi delle attività preparatorie di delitti. Se ne interessa
configurando specifiche figure di reati di pericolo, che incriminano attività mirate alla realizzazione di delitti
o tipicamente funzionali alla realizzazione di delitti.
Nella discussione dottrinale vi si è contrapposta una teoria materiale oggettiva, che allarga l’ambito del
tentativo punibile anche ad atti strettamente connessi e contigui a quelli tipizzati dalla norma
incriminatrice.
Il concetto di univocità (della direzione a commettere il delitto) è stato elaborato dalla dottrina nella
vigenza del codice Zanardelli, appunto per dare concretezza alla formula dell’inizio dell’esecuzione.
L’univocità degli atti rispetto al delitto è il primo carattere indispensabile a recarsi negli atti esterni che si
vogliono imputare come conati. Finchè l’atto sarà tale da poter condurre tanto al delitto quanto ad azione
innocente, non avremo che un atto preparatorio il quale non potrà imputarsi come conato.
Per poter integrare il tentativo, la condotta dell’agente deve di per sé evidenziare, nel contesto in cui è
tenuta, un riconoscibile significato obiettivo di realizzazione di una volontà criminosa.
Esigenza che, in sede processuale, sia provato che l’atto tendeva ad un fatto criminoso.
Il requisito dell’univocità degli atti, rispetto alla realizzazione di un determinato fatto delittuoso, va inteso
come elemento obiettivo di tipicità del tentativo punibile. Un tale requisito fornirebbe il criterio di
demarcazione degli atti cui ricollegare la responsabilità a titolo di tentativo, dalla sfera degli atti preparatori
non punibili.
Sullo sfondo della distinzione fra tentativo punibile ed atto preparatorio, l’atto preparatorio può essere
identificato in una manifestazione esterna del proposito criminoso che abbia un carattere strumentale
rispetto alla realizzazione, non ancora iniziata, di una figura di reato.
Gli atti idonei ed univoci, che integrano il tentativo punibile, sono atti che hanno comunque superato la
soglia degli atti meramente preparatori, e hanno dato inizio all’esecuzione del reato.
La punibilità del tentativo è limitata ai delitti dolosi, in conformità alla regola generale sull’imputazione
soggettiva (art. 42 c.p.). Nell’ambito della colpa, anticipazioni della tutela possono essere e sono previste
nella forma di fattispecie di reati colposi di pericolo.
L’oggetto del dolo di tentativo è la realizzazione del corrispondente delitto consumato.
Si discute se, ad integrare il dolo del tentativo punibile, sia o meno sufficiente il dolo eventuale.
Nella giurisprudenza più recente, l’affermazione di incompatibilità di principio fra tentativo e dolo
eventuale è temperata, quanto alle applicazioni concrete, da una dilatazione della figura del dolo diretto:
sarebbe dolo diretto, compatibile col tentativo, e non dolo eventuale, il dolo di chi abbia agito con la
rappresentazione dell’evento come alternativa probabile; e le fattispecie concrete in discussione sono state
di regola valutate come ipotesi di dolo diretto.
Nel sistema del codice Rocco, in cui la regola è la punibilità del tentativo di delitto, limitazioni alla
configurabilità del tentativo possono teoricamente derivare dalla particolare struttura di determinate
fattispecie o categorie di fattispecie.
Problemi di soluzione non pacifica sorgono in ordine ai rapporti fra tentativo e circostanze del reato.
Occorre in proposito distinguere.
È pacifica l’ammissibilità di un delitto tentato circostanziato, là dove con il compimento dell’azione siano
posti in essere tutti gli estremi di una particolare circostanza aggravante o attenuante. Posto che la
circostanza sussiste, il principio di legalità impone che di essa si debba tenere conto, traendone le
conseguenze di legge in ordine al trattamento sanzionatorio.
Il punto controverso è se sia o non sia configurabile un delitto circostanzialo tentato, là dove la circostanza
sarebbe venuta ad esistenza se il delitto fosse stato portato a compimento.
La più attenta dottrina ravvisa in tale situazione una forzatura del principio di legalità, posto che si finisce
per applicare una circostanza in realtà non esistente.
Trattamento sanzionatorio.
La pena per il delitto tentato è determinata nell’art. 56 c.p., diminuendo da un terzo a due terzi la pena
edittale prevista per il delitto consumato. Per i delitti puniti con l’ergastolo, la pena per il tentativo è la
reclusione non inferiore a 12 anni.
Disposizioni che premiano l’interruzione dell’attività o l’impedimento dell’evento, con la rinuncia a punire o
con una pena diminuita. A nemico ce fugge ponti d’oro.
Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace solo alla pena per gli atti compiuti, qualora
questi costituiscano per sé un reato diverso (art. 56 c.p.). La desistenza volontaria è disciplinata come causa
di non punibilità a titolo di tentativo.
L’agente poteva continuare, ma non ha voluto. Non è volontaria la desistenza motivata dall’impossibilità di
proseguire o anche solo da situazioni di difficoltà. Non si richiede invece che la desistenza sia frutto di
pentimento e significhi abbandono definitivo del piano criminoso; necessaria e sufficiente è la scelta
volontaria di non proseguire in quella determinata situazione.
Per l’autore che, dopo aver compiuto l’azione, volontariamente impedisce l’evento, è prevista dal codice
Rocco una forte diminuzione (da un terzo alla metà) della pena per il tentativo (art. 56 c.p.).
Il recesso attivo o pentimento operoso è dunque premiato con una semplice diminuzione di pena. È una
circostanza attenuante, non una causa di non punibilità. Può essere un esito non disprezzabile, ma non è un
ponte d’oro.
Un fatto di reato può essere realizzato da un uomo cha ha agito isolatamente, o può essere anche il
risultato dell’agire di una pluralità di persone.
Nel codice penale italiano la disciplina del concorso di persone è contenuta nell’art. 110 c.p.: “Quando più
persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna dei esse soggiace alla pena per questo stabilità”, salva
l’eventuale applicabilità di altre disposizioni specifiche in materia di concorso nel reato.
Ciò non significa che tutti debbano essere assoggettati alla medesima pena in concreto: anche nel caso di
concorso di persone, la pena deve essere commisurata per ciascun concorrente non solo in ragione
dell’obiettiva gravità del fatto, ma anche in ragione della soggettiva colpevolezza di ciascuno, secondo i
criteri generali di cui all’art. 133 c.p..
La fattispecie plurisoggettiva concorsuale.
È autore del reato chi ha tenuto la condotta tipica del reato, e/o ha personalmente cagionato l’evento; del
reato commesso, l’autore è personalmente responsabile.
Supponiamo che più persone abbiano preso parte, per esempio, ad un furto realizzato in comune, in cui
ciascuno si è impossessato di alcune cose. Ciascuno ha personalmente realizzato un fatto tipico di furto, ed
ovviamente ne risponde come autore; e può essere ragionevolmente ritenuto coautore della comune
realizzazione di un unico furto, comprendente l’insieme delle cose rubate nel medesimo contesto, con il
concorso di tutti.
Responsabilità a titolo di concorso significa responsabilità per un fatto che è anche di altri, e che solo
attraverso un qualche collegamento, ancora da precisare, può essere considerato un fatto proprio del
concorrente.
All’ipotesi in cui ciascuno dei concorrenti ha tenuto una condotta tipica possiamo accostare l’ipotesi di
esecuzione frazionata, in cui persone diverse eseguono una parte dell’azione tipica. Esempio, una rapina
nella quale uno dei complici attua la violenza o minaccia, e un altro si impossessa del bottino. Anche in
questo caso, entrambi sono coautori del fatto, del quale hanno materialmente realizzato un segmento del
tipo legale, coordinato a quanto realizzato dall’altro coautore.
Si pone il problema dei requisiti oggettivi minimi della condotta di partecipazione al reato.
I principi sul concorso di persone, combinandosi con le norme incriminatici di parte speciale, concorrono a
costruire una fattispecie che comprende anche condotte non corrispondenti alla descrizione del tipo di
reato nella disposizione di parte speciale: nel linguaggio della dottrina, una fattispecie plurisoggettiva
eventuale, o, meglio, una pluralità di fattispecie plurisoggettive, corrispondenti alle singole norme
incriminatici.
La cosiddetta accessorietà.
Accessorietà delle condotte di partecipazione al reato. La condotta atipica di partecipazione acquista rilievo
in quanto accede ad un fatto materialmente realizzato da altri.
Non ha rilievo penale un tentativo di partecipazione, non seguito dalla realizzazione di un reato quanto
meno tentato.
Una significativa conferma è data dall’art. 115 c.p., che abbiamo già visto essere un limite alla rilevanza
dell’accordo o dell’istigazione, cioè di modalità tipiche di concorso.
La disciplina del concorso di persone nell’ordinamento italiano può dirsi modellata secondo l’idea della
accessorietà: possono venire in rilievo, come condotte di partecipazione, solo condotte che accedono a un
fatto tipico di reato.
Ai fini della disciplina sul concorso di persone, anche persone non imputabili o non punibili possono essere
ragionevolmente considerate concorrenti.
Il codice Rocco, discostandosi dal precedente, ha adottato un modello unitario di disciplina del concorso di
persone, nel senso che non v’è una tipizzazione legislativa dei diversi atti di partecipazione, ma
l’enunciazione di un criterio in forma di clausola generale, nel già citato art. 110 c.p..
Altri codici hanno adottato e adottano una modalità diversa, di tipizzazione più o meno precisa di categorie
di atti di partecipazione.
Per concorso materiale si intende un’attività di materiale partecipazione all’esecuzione del fatto. Per
concorso morale si intende il contributo di chi, con comportamenti diretti a influire su altri, fa nascere in
altri il proposito di commettere il reato, o rafforza un proposito già esistente, ma non ancora consolidato.
Individuazione dei requisiti minimi, in presenza dei quali sia ravvisabile una condotta di partecipazione.
Perché si possa ritenere sussistente un concorso nel reato, e conseguentemente porre il problema d’una
eventuale responsabilità colpevole del concorrente, il reato commesso deve essere un fatto proprio anche
del concorrente.
Il paradigma causale.
Secondo un indirizzo autorevolmente sostenuto in dottrina, può essere considerata tipica, entro la
fattispecie plurisoggettiva, solo una condotta che abbia dato un contributo causale alla realizzazione del
reato.
Teoria della causalità agevolatrice o di rinforzo: sarebbe rilevante non solo l’ausilio necessario, senza il
quale il reato non sarebbe stato realizzato, ma anche un contributo che abbia solo agevolato o facilitato
l’esecuzione del reato.
Contro il criterio dell’idoneità agevolatrice è stato osservato che esso attribuisce rilevanza a condotte nelle
quali potrebbe ravvisarsi solo un tentativo di partecipazione, come tale non punibile.
L’idea della causalità agevolatrice assume che, ai fini della responsabilità concorsuale, possano ritenersi
causali anche condotte che tali non sarebbero secondo il modello della condizione necessaria.
Se il contributo agevolatore ha inciso sul decorso causale effettivo che ha condotto alla realizzazione del
fatto di reato, tale contributo è una condizione necessaria del fatto di reato, e come tale è idoneo a
fondare una responsabilità per fatto proprio.
Il termine di riferimento del problema causale è la complessiva organizzazione dell’impresa delittuosa, così
come in concreto è avvenuta.
Concorso morale.
Per concorso morale si intende il contributo di chi, con comportamenti diretti a influire su altri, fa nascere
in altri il proposito di commettere il reato (in tal caso si parla di determinazione a commettere il reato) o
rafforza un proposito già esistente, ma non ancora consolidato (in tal caso si parla di istigazione).
L’avere determinato altri a commettere un delitto è circostanza aggravante nei casi di cui agli artt. 111, 112
c.p..
L’istigazione deve aver fornito all’istigato ragioni per agire, che l’istigato ha effettivamente considerato
nella sua decisione finale di realizzare il fatto oggetto di istigazione.
Per poter acquistare rilevanza di concorso morale, l’istigazione deve rivolgersi a destinatari ben definiti ed
avere ad oggetto un fatto concretamente determinato. Non basta un’esortazione di contenuto generico.
Come forma di partecipazione morale viene in rilievo l’accordo per commettere un reato.
L’idea del rafforzamento dell’altrui proposito criminoso viene applicata anche in contesti diversi
dall’istigazione in senso proprio, per affermare la rilevanza concorsuale di qualsiasi attività in cui venga
ravvisato un effetto di sostegno psicologico alla decisione o esecuzione di un altrui proposito criminoso.
Possono venire in rilievo, come atti di partecipazione al reato, solo condotte il cui effetto psicologico su altri
sia stato positivamente accertato, e sia un effetto di concreto impulso ad un proposito criminoso che
altrimenti non si sarebbe manifestato, o si sarebbe realizzato in forme diverse.
Concorso omissivo.
Un concorso nel reato può essere realizzato anche mediante omissione, da chi ricopra una posizione di
garanzia il cui contenuto consista nell’impedimento di reati da parte di altri.
Fuori dei casi in cui l’impedimento di reati sia oggetto di una posizione di garanzia, chi si trovi ad assistere
alla commissione di un fatto di reato non ha il dovere di impedirne la realizzazione. Può allontanarsi e può
assistere senza intervenire.
La mera presenza sul luogo del delitto non fonda una responsabilità per concorso.
L’autore mediato.
Taluno si avvale, per la realizzazione di un reato, dell’attività materiale di altra persona non punibile per
incapacità, o perché vittima di violenza o di frode.
Appartengono a questo gruppo: costringimento fisico a commettere un reato (art. 46 c.p.); determinazione
al reato mediante inganno (art. 48 c.p.) o minaccia (art. 54 c.p.) o messa in stato d’incapacità (art. 86 c.p.).
L’autore mediato è il reale dominus della situazione, e l’agente materiale non risponde, secondo i casi, per
non imputabilità o per mancanza di dolo o in quanto abbia agito in stato di necessità.
Il dolo di partecipazione.
La responsabilità per concorso nel reato richiede la colpevolezza del concorrente in relazione al commesso
reato. Le considerazioni svolte fin qui si riferiscono ad ipotesi di concorso di più persone in delitto doloso;
ne risponde, secondo i principi generale, il concorrente che abbia agito con dolo.
Il dolo di concorso ha oggetto sia il fatto di reato realizzato in concreto, sia, per il singolo concorrente, il suo
personale contributo atipico. Agisce con dolo di concorso colui che sa e vuole contribuire, con la propria
condotta, alla realizzazione del fatto di reato, rappresentato nei suoi elementi costitutivi.
Il dolo va accertato in capo a ciascun concorrente, e per ciascuno è del tutto indipendente dal dolo di altri.
Art. 116 c.p.: “Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche
questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione. Se il reato commesso è più
grave di quello voluto, la pena è diminuita per chi volle il reato meno grave”.
Il concorrente ha agito con il dolo di un reato diverso.
L’autore che ha commesso dolosamente il reato ed il concorrente che non lo ha voluto vengono equiparati
nella attribuzione di responsabilità a titolo di dolo.
Caso esemplare del criterio del versari in re illicita.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione è stata denunciata l’incompatibilità dell’art. 116 c.p. con il
principio di cui all’art. 27 Cost.. La corte costituzionale ha risolto la questione, con una sentenza
interpretativa di rigetto.
Per l’imputazione del reato diverso da quello voluto non è sufficiente un’imputazione di meramente
obiettiva, ma occorre anche un rapporto di causalità psichica, concepito nel senso che il reato diverso o più
grave commesso dal concorrente debba potere rappresentarsi alla psiche dell’agente, nell’ordinario
svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto,
affermandosi in tal modo la necessaria presenza di un coefficiente di colpevolezza.
Occorre, dunque, a fondare la responsabilità del concorrente che non lo ha voluto, la prevedibilità del reato
diverso.
Unico correttivo a questa severità, la previsione di una diminuzione di pena per il concorrente che non ha
voluto il delitto realizzato, se più grave di quello voluto.
Tutte le forma di partecipazione atipica possono essere senz’altro realizzate da soggetti estranei.
Il dolo del concorso in reato proprio richiede che il concorrente, non diversamente dall’intraneo, sia
consapevole della qualifica soggettiva dell’autore.
L’interpretazione sistematica induce a ritenere la responsabilità per concorso a titolo di dolo anche del
concorrente che non abbia conosciuto la particolare qualifica o il particolare rapporto che fa mutare il titolo
del reato.
La partecipazione di più persone caratterizza alcune figure di reato, che vengono definite come reati
necessariamente plurisoggettivi.
Si può parlare di reato necessariamente plurisoggettivo quando la realizzazione del fatto da parte di più
persone fa parte della descrizione del tipo di reato, nella norma incriminatrice di parte speciale, e tutti i
partecipi sono nella medesima posizione di fronte al precetto penale.
Delitti di associazione o rissa. Ciascun partecipe risponde di concorso nel reato, secondo le regole generali.
Problema se sia configurabile, nei reati associativi, un concorso nel reato mediante atti di partecipazione
atipica, da parte di persone estranee alla struttura associativa (concorso esterno).
La possibilità di un concorso esterno in reati associativi deve essere ammessa in via di principio, sui
medesimi presupposti su cui il concorso (materiale o morale) mediante condotte atipiche è ammesso in
relazione agli altri reati.
Poiché nel reato associativo il risultato della condotta tipica è la conservazione o il rafforzamento del
sodalizio illecito, il concorso esterno potrà essere ravvisato in relazione a condotte di persone esterne alla
associazione, che portino al medesimo risultato.
Si richiede espressamente che il contributo del concorrente esterno abbia avuto un’effettiva rilevanza
causale rispetto all’esistenza ed operatività dell’associazione.
Il problema della responsabilità dei dirigenti dell’associazione criminosa per delitti commessi dagli associati.
Dei reati realizzati nell’ambito dell’attività dell’associazione, rispondono coloro che li hanno commessi,
secondo le regole generali. Non basta, a fondare una responsabilità per concorso in un qualsivoglia reato
della associazione, l’essere membro, e nemmeno l’essere dirigente della associazione.
Il concorso di persone nel reato può riguardare anche un delitto solo tentato. Valgono, in proposito, le
regole generali sul tentativo. Possono trovare applicazione anche gli istituti della desistenza volontaria e del
ravvedimento operoso.
La soluzione più coerente con i principi del sistema, e più ragionevole nelle conseguenze, è che per la non
punibilità sia sufficiente la neutralizzazione del contributo che il desistente abbia dato: venuto meno quel
contributo, il fatto che i complici abbiano eventualmente realizzato sarebbe, per il desistente, un fatto
altrui.
Nel caso di concorso di persone in un medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo
stabilita (art. 110 c.p.).
Ciò non significa che tutti i concorrenti debbano essere assoggettati alla medesima pena in concreto.
Significa che per tutti si deve fare riferimento alla cornice edittale di pena corrispondente al reato
commesso. Per il resto, si applicano le regole generali sulla commisurazione della pena.
Concorso di persone e reato colposo.
Il concorso di più persone nel reato è ipotizzabile anche nei reati colposi.
Nel codice Rocco c’è una disposizione (art. 113 c.p.) intitolata alla cooperazione nel delitto colposo: “nel
delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste
soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso”.
L’idea di cooperazione colposa sottende un legame psicologico fra i diversi agenti: una consapevolezza di
cooperare, anche se scompagnata dalla consapevolezza di concorrere alla realizzazione di un reato.
La colpa deve essere autonomamente verificata in capo a ciascuno, avendo riguardo alla sua personale
posizione.
Un’altra ipotesi è quella del confluire di condotte colpose indipendenti verso la realizzazione del fatto di
reato.
Esempio di più soggetti che, con condotte colpose del tutto indipendenti l’una dall’altra, abbiano dati causa
ad un incidente stradale con esiti di lesione in danno di terzi. In casi del genere non parleremo di
cooperazione colposa, ma tutti gli agenti che hanno per colpa concorso a cagionare l’incidente sono
chiamati a risponderne.
Una disposizione speciale in materia di concorso di persone è inserita nella recente normativa sui reati
tributari.
In deroga all’art. 110 c.p., l’emittente di documenti per operazioni inesistenti non concorre nel reato di
dichiarazione fraudolenta commesso da chi si sia avvalso di tali documenti. Correlativamente, quest’ultimo
non concorre nel reato di emissione di documenti per operazioni inesistenti.
Ai confini della responsabilità per concorso nel reato troviamo la figura dell’agente provocatore: per tale si
intende chi provochi la realizzazione di un reato da parte di altri, al fine di assicurarne l’autore alla giustizia
prima che il reato sia portato a termine. Esempio il finto acquirente di sostanze stupefacenti. L’esclusione
da responsabilità può essere argomentata dall’assenza del dolo di partecipazione, che non è configurabile
nei casi in cui l’agente provocatore fa affidamento sull’interruzione dell’iter criminoso allo stadio del
tentativo.
Un’ipotesi diversa è quella dell’infiltrato in organizzazioni criminali. Esigenze investigative, di acquisizione di
elementi di prova in ordine a determinati delitti, possono fondare la previsione di una causa speciale di non
punibilità di comportamenti che, di per sé valutabili come di concorso nel reato, a determinate condizioni
vengono eccezionalmente considerati una modalità legittima di adempimento dei doveri di investigazione,
e perciò non punibili. La non punibilità è qui il riflesso di una vera e propria causa di giustificazione, limitata
agli ufficiali e/o agenti di polizia giudiziaria legittimati a compiere attività sotto copertura.
La posizione di garanzia del soggetto apicale si incentra su doveri che il sistema addita, in modo espresso o
implicito, come indelegabili.
Il d. lgs. 626/1994 individua come adempimento fondamentale, indelegabile, del datore di lavoro la
valutazione dei rischi, e la conseguente redazione di un documento che rifletta gli esiti della valutazione e
definisca programmi e procedure per il raggiungimento degli obiettivi di sicurezza.
Oggetto della valutazione è la situazione di fatto: l’attività che si tratta di svolgere, i contesto in cui si svolge
e su cui può incidere.
La costruzione del sistema di sicurezza richiede allora, da parte dei garanti, l’individuazione di quali regole
cautelari, espressamente stabilite o implicitamente desumibili dall’ordinamento giuridico, siano pertinenti
alle situazioni di rischio rilevate.
L’attività di individuazione di regole cautelari poste dall’ordinamento giuridico non esaurisce un compito
che è di attuazione delle regole. A tal fine, occorre che le regole siano specificate con riferimento alle
situazioni concrete, mediante un sistema di discipline le quali traducano i criteri normativi generali in
prescrizioni specifiche per chi si trovi ad agire in situazioni date.
Con specifico riguardo alla posizione del delegante, si ammette che, a date condizioni, la delega di funzioni
possa avere efficacia liberatoria rispetto a violazioni di legge avvenute nella sfera delegata ad altri.
La giurisprudenza richiede che la delega sia espressa, e dovuta ad effettive esigenze organizzative; che
insieme ai doveri concernenti date attività siano conferiti i poteri necessari ad adempierli; che il delegato
sia persona tecnicamente idonea.
A fondare la legittimità della delega non è la sua necessità in senso stretto. Ciò che interessa è l’idoneità del
sistema di deleghe rispetto alla tutela degli interessi penalmente protetti, messi in gioco dal funzionamento
dell’organizzazione.
È ricorrente l’idea che debba essere trasferita al delegato una quantità di poteri corrispondente ai poteri
del delegante.
Per costituire il delegato come ulteriore garante degli interessi protetti necessario e sufficiente è un
conferimento di poteri idoneo ad individuare una autonoma posizione funzionale entro l’impresa. Se la
delega è limitata, per il delegante non potrà avere che un’efficacia liberatoria limitata. La misura dei poteri
delegati, cioè la minore o maggiore ampiezza della delega, incide non sulla ammissibilità ed efficacia della
delega stessa, ma sulla ripartizione dei poteri e doveri fra delegante e delegato.
Fra i requisiti della delega liberatoria viene di solito menzionata anche l’idoneità del delegato. Per
l’esattezza, dovremmo dire che l’inidoneità del delegato, se riconoscibile ex ante, può essere fondamento
di un addebito di culpa in eligendo a carico del delegante.
Per quanto concerne il delegato, la sua inidoneità non impedisce il costituirsi della posizione di garanzia, né
l’eventuale responsabilità per non essersi dimostrato all’altezza dei suoi compiti. Assumere un incarico che
non si è in grado di svolgere nel rispetto delle regole proprie di esso, è il fondamento della colpa per
assunzione.
In assenza di disposizioni di legge che prevedano per la delega forme particolari, gli indirizzi interpretativi si
muovono su linee divaricate.
L’orientamento più rigido richiede necessaria una delega formale che consenta di verificare quali poteri
siano stati dati al delegato e quali i limiti degli stessi. Da ciò l’esigenza che la delega sia esplicita e in
equivoca e fatta, tendenzialmente, in forma scritta.
Secondo un altro indirizzo, tale esigenza potrebbe essere superata quando la ripartizione delle funzioni
emerge chiaramente dalla situazione di fatto.
Una delega efficace, con effetto liberatorio per il delegante, ha rilevanza oggettiva (esclusione della
attribuibilità del fatto ad una condotta del delegante) o meramente soggettive (esclusione della
colpevolezza)?
Se il garante primario ha adempiuto ai suoi doveri, con la costruzione di un idoneo modello organizzativo, il
fatto reato che si sia eventualmente verificato nella sfera attribuita alla competenza di altri non può essere
ricollegato ad alcuna condotta omissiva del soggetto adempiente. Anche il fatto del delegato è, per il
delegante immune da colpa, un fatto altrui.
In questo senso la delega ha rilevanza obiettiva: consente di escludere già sul piano oggettivo la
responsabilità del delegante per il fatto reato che si sia eventualmente verificato nella sfera attribuita alla
competenza di altri.
Le responsabilità del delegante e del delegato, tuttavia in alcuni casi, possono concorrere tra loro.
Nell’ambito in cui sia prevista, la non delegabilità attiene ai contenuti obiettivi della posizione di garanzia
del datore di lavoro. Ai fini della responsabilità penale resta impregiudicata l’esigenza della soggettiva
colpevolezza.
Anche in caso di obiettive carenze nell’adempimento di doveri non delegabili, resta teoricamente aperta la
possibilità di scusanti soggettive. L’ambito della possibile scusa può essere identificato soprattutto
nell’affidamento verso collaboratori qualificati, relativamente a questioni tecniche. Affidamento ha un
duplice significato: affidamento obiettivo al consulente tecnico del lavoro di rilevazione ed analisi tecnica;
affidamento soggettivo nei risultati dell’attività del consulente.
Il dovere di vigilanza.
L’unità del fatto di reato, pur radicata nel mondo dei fatti, è un’unità normativa. Ciò che fa di un fatto un
reato, è la qualificazione operata dalla norma penale, che seleziona e insieme unifica i fatti rilevanti.
La norma penale può ricondurre ad unità, ad un unico reato, una pluralità di condotte e di eventi.
Ciò avviene nei reati di durata: reati abituali o permanenti, come i maltrattamenti o il sequestro di persona.
Anche dopo che il reato è stato realizzato, fatti successivi entrano a far parte di un unitario e unico reato.
Poiché l’unità del reato è normativamente determinata, come unica e unitaria offesa a un determinato
bene giuridico, il criterio decisivo è quello dell’unicità o pluralità di offese.
È possibile, e spesso avviene che un dato fatto sia preso in considerazione da più norme penali, come fatto
costitutivo di reato o come elemento costitutivo di un dato reato. In casi del genere, il problema dell’unicità
o pluralità di reati è un problema di rapporti fra norme diverse: quando un fatto concreto è suscettibile di
qualificazione da parte di più norme penali, secondo quali criteri si fonda l’applicabilità dell’una e/o
dell’altra?
Il criterio di base, espressamente formulato dall’art. 15 c.p. è il principio di specialità: “Quando più leggi
penali o più disposizioni di legge regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale
deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”.
Lex specialis derogat legi generali; la legge speciale deroga alla legge generale, escludendo l’applicabilità di
quest’ultima nei casi compresi entro la fattispecie speciale. Quando fra più norme sussiste un autentico
rapporto logico di specialità, il concorso di norme è solo apparente.
Il criterio di sussidiarietà.
Esistono criteri ulteriori rispetto al principio di specialità, che consentano di escludere in taluni casi il
concorso di reati, e di fondare l’applicazione di una sola fra le norme penali astrattamente riferibili al caso
concreto?
Diverse norme incriminatici di parte speciale contengono clausole che ne delimitano l’applicazione, del tipo
“salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”, “se il fatto non è preveduto come reato da altra
disposizione di legge”, e simili. Mediante clausole di sussidiarietà, il legislatore attribuisce alle norme che le
contengono una funzione ed un ambito di applicazione che entrano in gioco solo quando non siano
applicabili nel caso concreto altre norme che prevedano reati più gravi.
Criteri di assorbimento.
Più fatti concreti commessi in tempi diversi, ciascuno di per sé costituente reato, che siano però in qualche
modo collegati fra loro.
In alcuni casi l’unificazione avviene entro un’unica fattispecie normativa. Altri casi di assorbimento in una
considerazione unitaria sono enucleati ed unificati dalla dottrina nelle categorie degli antefatto e postfatto
non punibili.
L’ipotesi dell’antefatto non punibile prende corpo in relazione a fatti strumentali, che, autonomamente
configurati come reati di pericolo, perdono autonomo rilievo quando l’attività criminosa sia arrivata ad uno
stadio ulteriore.
In assenza di clausole espresse, ipotesi tacite di antefatto non punibile vengono ravvisate in casi di
progressione criminosa, come quando, per esempio, nel medesimo contesto d’azione, taluno passi da
semplici percosse alla causazione di lesioni personali, o dalle lesioni all’omicidio.
Ipotesi di postfatto non punibile si hanno nei casi in cui un determinato fatto sia previsto come reato fuori
dei casi di concorso con un reato precedente.
Concorso di reati.
Nel caso che una persona abbia commesso non uno solo, ma più reati.
In astratto ad ogni reato deve seguire la pena per esso prevista: criterio del cumulo materiale delle pene
(somma aritmetica delle pene corrispondenti a ciascun reato).
Il più diffuso fra i criteri alternativi è il cumulo giuridico: la pena complessiva viene determinata partendo
dalla pena per la violazione più grave, sulla quale si applica un aumento fino ad un limite massimo fissato
dalla legge.
Altro criterio in uso è quello dell’assorbimento (si applica la pena prevista per la violazione più grave).
Il criterio del cumulo materiale delle pene è temperato, nel massimo, dal limite del quintuplo della pena per
il reato più grave (art. 78 c.p.), e non è senza eccezioni.
Nell’ordinamento vigente, fermo restando il principio generale del cumulo materiale delle pene, v’è un
ambito molto ampio di applicazione del più favorevole criterio del cumulo giuridico.
Art. 81 c.p.: si assume come pena base la pena prevista per la violazione più grave, e su questa pena base si
applica un aumento fino al triplo (della pena base); la pena non può comunque superare la somma delle
pene corrispondenti ai singoli reati.
Quanto alle pene accessorie, debbono tenersi applicabili tutte quelle previste per uno qualsiasi dei reati
uniti nel cumulo.
Il cumulo giuridico delle pene è oggi applicabile in qualsiasi caso di qualificazioni plurime del medesimo
fatto, o di fatti contestualmente commessi (concorso formale) è applicabile inoltre al reato continuato.
Per quanto concerne l’individuazione della violazione più grave, cui corrisponde la pena base, l’alternativa
in discussione è se la violazione più grave sia quella per la quale è prevista la pena edittale più severa
(maggiore gravità in astratto), oppure quella per cui il giudice, in applicazione dei criteri di commisurazione
della pena in concreto, infliggerebbe la pena più severa (maggiore gravità in concreto). La giurisprudenza
propende per la valutazione in astratto, la dottrina per la valutazione in concreto.
Quando la disciplina del cumulo giuridico parla di pena per la violazione più grave, da assumere come pena
base e sulla quale operare l’aumento fino al triplo, certamente si riferisce ad una pena determinata dal
giudice in concreto, e non ad un limite edittale di pena.
La pena per i delitti deve ritenersi, per una precisa indicazione sistematica, più grave si in astratto che in
concreto, indipendentemente da ogni ulteriore considerazione.
Nel caso di reati puniti con pene eterogenee è prevalsa a lungo in giurisprudenza la tesi dell’inapplicabilità
del cumulo giuridico.
L’applicabilità del cumulo giuridico è poi stata ammessa dalla giurisprudenza. L’aumento di pena dovrebbe
essere operato sulla pena prevista per la violazione più grave, e le pene eventualmente di specie diversa, o
addirittura di genere diverso, acquisterebbero la natura della pena base.
La dottrina condivide la tesi della applicabilità del cumulo giuridico in tutti i casi in cui ne ricorrano i
presupposti sostanziali ex art. 81 c.p., anche quando si tratti di unificare pene di specie o di genere diverso;
ma giustamente non condivide il criterio di calcolo adottato dalla giurisprudenza, che finisce per
trasformare pene di genere o di specie meno grave in una pena di natura più grave.
Reato continuato.
Nel sistema originario del codice il reato continuato era l’unica eccezione al criterio del cumulo materiale
delle pene.
Il codice Rocco prevedeva la figura del reato continuato omogeneo, caratterizzata dalla identità del disegno
criminoso e dalla omogeneità delle violazioni, tutte riferibili ad una medesima disposizione di legge.
L’insieme delle violazioni si considerano un solo reato.
La novella del 1974 ha radicalmente ridisegnato questa figura: nel reato continuato, ormai caratterizzato
dalla sola unità di disegno criminoso, possono confluire violazioni di disposizioni di legge diverse.
La frase secondo cui le violazioni si considerano come un solo reato è stata eliminata. Il reato continuato
eterogeneo è un contenitore di reati diversi, che la disciplina vigente considera unitariamente con riguardo
a taluni effetti, e come reati tra loro distinti relativamente ad altri effetti.
L’unificazione riguarda il trattamento sanzionatorio: applicazione del criterio del cumulo giuridico.
Ad ogni altro effetto, i singoli episodi vanno considerati come reati autonomi.
Ciò che caratterizza il reato continuato, sia prima che dopo la novella del 1974, è l’unità di disegno
criminoso.
Una tale scelta può ritenersi conforme a un criterio di proporzione, in quanto risulti poter poggiare su una
valutazione di minore gravità, o meglio di minore colpevolezza del soggetto agente, in relazione all’unicità
del disegno criminoso sotteso alla pluralità di reati.
È sufficiente, ma anche necessario, che le condotte criminose siano programmate nei loro profili essenziali.
Non basta ad identificare il disegno criminoso una generica scelta di vita.
Si è posto il problema se l’unità del disegno criminoso venga interrotta da una sentenza di condanna per
taluno dei reati programmati, dopo la quale il soggetto agente commenta ulteriori reati ricollegabili al
programma iniziale. La giurisprudenza ha a lungo attribuito alla sentenza (quanto meno a quella passata in
giudicato) l’effetto di interrompere la mcontinuazione.
Questo orientamento è stato poi superato con il riconoscimento che l’unicità del disegno criminoso va vista
nella sua realtà psicologica, e non necessariamente è interrotta da interventi di giustizia penale.
Non mancano voci dissenzienti, le quali osservano che, negando al giudicato l’effetto normativo di
interrompere la continuazione, si rischia un indebolimento della funzione di prevenzione speciale,
concedendo al condannato, che avesse già impostato un disegno criminoso, una sorta di licenza di
commettere ulteriori reati, a prezzi, in termini di pena, estremamente scontati.
Reato e punibilità.
I problemi. La sequenza normale reato-pena.
Il principio di legalità esige che al commesso reato debbano seguire le conseguenze previste dalla legge.
Il principio di legalità esclude che una pena possa essere applicata indipendentemente da un commesso
reato: nulla poena sine crimine (dove sia il crimine che la pena debbono essere definiti da una previa legge).
Il principio di legalità, pur nell’additare come normale la sequenza reato-pena, lascia spazio a possibili
alternative.
Il sistema sanzionatorio del codice Rocco è stato costruito secondo il sistema del doppio binario: pene e
misure di sicurezza.
La pena è la pena tradizionale: risposta di carattere afflittivo-retributivo nei confronti dell’autore di un fatto
illecito colpevolmente commesso, finalizzata alla difesa della società e dello stato in chiave di prevenzione
generale intimidatrice.
Misure di sicurezza sono collegate alla pericolosità dell’autore del reato.
Il sistema delle pene si articola in pene principali, inflitte dal giudice con sentenza di condanna e
commisurate dal giudice entro l’ambito di discrezionalità normalmente assegnato dalla legge, e in pene
accessorie, che conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa (art. 20 c.p.).
Nel sistema del codice le pene principali, sia per i delitti che per le contravvenzioni, sono la pena detentiva
e la pena pecuniaria. Per i delitti è prevista anche la pena a vita (ergastolo). La pena detentiva temporanea
è denominata reclusione per i delitti, arresto per le contravvenzioni. La pena pecuniaria è denominata
multa per i delitti, ammenda per le contravvenzioni.
La struttura della disposizione sanzionatoria prevede, salvo eccezioni, una cornice edittale fra un minimo e
un massimo, entro cui il giudice commisura la pena per il caso concreto.
La pena della reclusione va da un minimo di quindici giorni ad un massimo di ventiquattro anni (art. 23
c.p.). La pena dell’arresto va da cinque giorni a tre anni (art. 25 c.p.). Multa e ammenda sono disciplinate
dagli artt. 24, 26 c.p..
La pena della reclusione può arrivare ad un massimo di trent’anni per effetto di circostanze aggravanti (art.
66 c.p.) o in caso di concorso di reati (art. 78 c.p.). Le medesime disposizioni stabiliscono un massimo di
cinque anni o di sei anni per la pena dell’arresto; stabiliscono inoltre i massimi assoluti per le pene della
multa e dell’ammenda.
Accanto alle pene principali vi è un sistema di pene accessorie (artt. 28 s. c.p.): si tratta di pene interdittive,
cioè divieti di svolgere determinate funzioni o attività, per un certo periodo o anche in perpetuo. Di
carattere non interdittivo è la pubblicazione della sentenza di condanna. Anche per le pene accessorie
temporanee sono stabiliti limiti minimi e massimi di durata.
Il secondo binario del sistema sanzionatorio è rappresentato dalle misure di sicurezza: istituti pensati in
chiave di risposta ad autori di reato pericolosi, per i quali la pena classicamente intesa o non sia applicabile
o sia ritenuta insufficiente. Alle misure di sicurezza è assegnata una funzione di prevenzione speciale: di
sicurezza nei confronti di soggetti ritenuti pericolosi. Profili retributivi o generalpreventivi sono estranei a
tali misure.
Il principio di legalità dei reati e delle pene ha il suo naturale riflesso processuale nel principio di
obbligatorietà dell’azione penale, affidata al pubblico ministero (art. 112 Cost.). Il principio di legalità rende
doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale (corte costituzionale). L’applicazione
della legge penale deve essere uguale per tutti.
Il pm e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa (art. 330 c.p.p.) e ricevono le
notizie di reato. In presenza di una notizia di reato, il pm deve procedere nelle indagini, e, quando siano
stati raccolti elementi sufficienti, esercitare l’azione penale nelle forme previste dal codice di procedura
penale.
La stessa legge penale può condizionare il procedere del pm ad iniziative di soggetti, la cui presa di
posizione in ordine al commesso reato sia ritenuta rilevante dall’ordinamento giuridico ai fini della risposta
al reato. Condizioni di procedibilità sono la querela della persona offesa e la richiesta o autorizzazione a
procedere da parte di soggetti istituzionali (artt. 120 s. c.p.). L’impossibilità di procedere si risolve nella
mancata applicazione della legge penale.
La più importante fra le condizioni di punibilità è la querela della persona offesa (artt. 120-126 c.p.).
La querela è condizione di procedibilità per i reati per i quali ciò è specificamente previsto nelle norme di
parte speciale. Delitti che offendono interessi privati, collocabili in una fascia di gravità non elevata. Delitti
contro il patrimonio meno gravi, come il furto, la truffa, il danneggiamento non aggravati; l’appropriazione
indebita, salvo aggravanti; l’insolvenza fraudolenta; il falso in scrittura privata. Delitti contro la persona:
ingiuria e diffamazione; percosse, lesioni dolose lievissime; lesioni colpose, salvo lesioni gravi o gravissime
causate da violazione della normativa sulla sicurezza e igiene del lavoro. Tra i delitti perseguibili a querela,
quelli più gravi sono i delitti contro la libertà sessuale.
Con la presentazione della querela l’avente diritto esprime la sua volontà che l’autore del reato sia
perseguito. L’art. 123 c.p. dispone che la querela si estende di diritto a tutti coloro che hanno commesso il
reato.
La querela non può essere presentata, dopo decorsi tre mesi dal momento in cui l’avente diritto ha avuto
notizia del reato (art. 124 c.p.). Dopo che sia stata presentata, la querela può essere rimessa, e la
remissione accettata dal querelato fa venir meno la procedibilità (artt. 152-156 c.p.).
Irrevocabile, una volta che sia stata presentata, è la querela per delitti sessuali.
In alcuni casi la procedibilità presuppone una richiesta di procedere da parte del ministro della giustizia. Ciò
vale per: alcune ipotesi di delitto commesso all’estero; delitti perseguibili a querela in danno del presidente
delle repubblica; alcuni delitti contro la personalità dello stato.
Il quadro d’insieme.
Anche quando sia accertata, in esito del processo, la responsabilità di taluno per un determinato fatto di
reato, ciò non necessariamente comporta una pronuncia di condanna alla pena. In casi eccezionali il reato
nasce non punibile, a causa di immunità personali o di cause speciali di non punibilità. Ma anche quando il
reato nasce punibile e l’azione penale è validamente instaurata e proseguita, nella fase successiva al
commesso reato si aprono spazi significativi per una non punizione dipendente da fatti successivi o
comunque da valutazioni successive al reato.
Vi sono cause di non punibilità sopravvenuta e ipotesi di non irrogazione o non esecuzione della pena.
Il tratto comune è che non sono cause di non punibilità originaria; la non